L’oggetto del godimento, l’oggetto del piacere · 2005. 9. 6. · 5 A. Warhol, The Philosophy...

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L’oggetto del godimento, l’oggetto del piacere Pietro Kobau «Che cosa è che si desidera quando si gode? Che tutto ciò che ci circonda non si occupi che di noi, non pensi che a noi, non abbia cura che di noi. Se gli og- getti che ci servono godono, eccoli per conseguenza occupati ben più di se stessi che di noi e il nostro piacere di conseguenza ne scapita» 1 . Questa argomentazio- ne di Sade, volta a giustificare (naturalisticamente e, insieme, moralisticamente) un’economia del dominio finalizzata alla massimizzazione del piacere, appare im- mediatamente reggersi su due presupposti. Il primo: provare piacere è identico a godere di qualcosa – ciò che appunto fonda un’economia di scambio fra oggetti, parallela rispetto all’economia dei sentimenti che per quelli si provano. Il secondo: provare piacere è l’opposto del provare dolore, vi si contrappone cioè, in ultima analisi, quantitativamente – per cui è possibile giocare uno scambio di dare e avere sensazioni piacevoli e spiacevoli, calcolandone in anticipo il bilancio affettivo. L’argomentazione di Sade è controvertibile secondo strategie diverse. Una di queste, ossia quella che verrà adottata nelle pagine che seguono, sceglie di col- locarsi innanzitutto fuori dal piano moralistico (ovvero economico) previsto da Sa- de, restringendosi a quello naturalistico, che sarà rappresentato in prima istanza dalla filosofia della mente 2 . Su questo piano, infatti, spicca in piena evidenza la centralità di un presupposto che pertiene alla psicologia popolare 3 , secondo cui il Questo saggio è stato presentato al convegno La via dell’emozione, organizzato da Madda- lena Mazzocut-Mis e Gianfranco Mormino, e svoltosi presso l’Università degli Studi di Milano il 5 maggio 2005. 1 D.A.F. De Sade, La Philosophie dans le Boudoir ou les Instituteurs immoraux (1795), tr. it. di V. Finzi Ghisi, La filosofia nel boudoir, in Id., Opere, a cura di P. Caruso, “Prefazione” di A. Moravia, Mondatori, Milano 1992, pp. 23-237. 2 Aderendo alle indicazioni metodologico-disciplinari avanzate da M. Di Francesco, in Id., Introduzione alla filosofia della mente (1996), Carocci, Roma 2002 2 , pp. 24-31. 3 Riconoscendo la distinzione tra “psicologia ingenua” e “psicologia popolare” rispettivamente intese come «la capacità, universalmente condivisa dagli esseri umani adulti, di spiegare e prevede- Copyright c 2005 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera) Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a fine di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa, su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato per iscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve essere riportata anche in utilizzi parziali.

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L’oggetto del godimento, l’oggetto del piacere∗

Pietro Kobau

«Che cosa è che si desidera quando si gode? Che tutto ciò che ci circonda nonsi occupi che di noi, non pensi che a noi, non abbia cura che di noi. Se gli og-getti che ci servono godono, eccoli per conseguenza occupati ben più di se stessiche di noi e il nostro piacere di conseguenza ne scapita»1. Questa argomentazio-ne di Sade, volta a giustificare (naturalisticamente e, insieme, moralisticamente)un’economia del dominio finalizzata alla massimizzazione del piacere, appare im-mediatamente reggersi su due presupposti. Il primo: provare piacere è identico agodere di qualcosa – ciò che appunto fonda un’economia di scambio fra oggetti,parallela rispetto all’economia dei sentimenti che per quelli si provano. Il secondo:provare piacere è l’opposto del provare dolore, vi si contrappone cioè, in ultimaanalisi, quantitativamente – per cui è possibile giocare uno scambio di dare e averesensazioni piacevoli e spiacevoli, calcolandone in anticipo il bilancio affettivo.

L’argomentazione di Sade è controvertibile secondo strategie diverse. Unadi queste, ossia quella che verrà adottata nelle pagine che seguono, sceglie di col-locarsi innanzitutto fuori dal piano moralistico (ovvero economico) previsto da Sa-de, restringendosi a quello naturalistico, che sarà rappresentato in prima istanzadalla filosofia della mente2. Su questo piano, infatti, spicca in piena evidenza lacentralità di un presupposto che pertiene alla psicologia popolare3, secondo cui il

∗ Questo saggio è stato presentato al convegno La via dell’emozione, organizzato da Madda-lena Mazzocut-Mis e Gianfranco Mormino, e svoltosi presso l’Università degli Studi di Milano il5 maggio 2005.

1 D.A.F. De Sade, La Philosophie dans le Boudoir ou les Instituteurs immoraux (1795),tr. it. di V. Finzi Ghisi, La filosofia nel boudoir, in Id., Opere, a cura di P. Caruso, “Prefazione”di A. Moravia, Mondatori, Milano 1992, pp. 23-237.

2 Aderendo alle indicazioni metodologico-disciplinari avanzate da M. Di Francesco, in Id.,Introduzione alla filosofia della mente (1996), Carocci, Roma 20022 , pp. 24-31.

3 Riconoscendo la distinzione tra “psicologia ingenua” e “psicologia popolare” rispettivamenteintese come «la capacità, universalmente condivisa dagli esseri umani adulti, di spiegare e prevede-

Copyright c© 2005 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera)Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali.Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte eutilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri dellaPubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a finedi lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa,su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato periscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deveessere riportata anche in utilizzi parziali.

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piacere e il dolore (sia fisici, sia mentali) vanno intesi come sensazioni collocateagli estremi di un continuo al cui centro si dà “indifferenza”4 . Scelta tale strategia,si tratterà, dunque, di smentire Sade, sostenendo in particolare due tesi. La pri-ma: quelli che chiamiamo propriamente sentimenti (e, innanzitutto, il piacere e ildolore) non possono venire intesi semplicemente nei termini di un “sentire qual-cosa”. La seconda: tra quelli che possono venire definiti come i due fenomeniaffettivi elementari, cioè il provare piacere e il provare dispiacere, va riconosciutauna dissimmetria – una dissimmetria di ruolo, capace di metterne in questione leillustrazioni tradizionalmente fenomenologiche.

L’educazione sentimentale di Drella

La filosofia di Andy Warhol è uno strano libro autobiografico. Si presenta comeuna collezione di aneddoti e aforismi che, presi tutti insieme, non fanno una storia,ma valgono unicamente a illustrare la vita saggia e felice – perché uniformemen-te piacevole e virtualmente prolungabile all’infinito – di un anaffettivo. Al primocapitolo del libretto, però, con un distacco dagli esiti vagamente comici più cheironici, Warhol racconta davvero una storia; e se non è proprio vera, è almeno piùnormale del suo seguito. La trama della catastrofe biografica iniziale è questa:un ragazzo che ha dei problemi causati dalla sua eccessiva sensibilità viene guaritocon una sola seduta psichiatrica. Il medico, in effetti, non gli prescrive terapie, ma,più radicalmente, smentisce la sua convinzione di avere dei problemi. La vera te-rapia per rendersi affettivamente impermeabili ai problemi altrui, se mai di terapiasi tratta, viene trovata dallo stesso protagonista.

Dal momento che sentivo di assorbire i problemi della gente, andai da unopsichiatra nel Greenwich Village e gli raccontai tutto di me. Gli raccontai lastoria della mia vita e come non avessi un problema veramente mio e comemi facessi i problemi degli amici, ed egli mi disse che mi avrebbe richiamatoper fissare un altro appuntamento per poterci parlare ancora un po’, e daallora non mi ha più richiamato. [. . . ] Di ritorno dallo psichiatra mi fermaida Macy e per la depressione mi comprai il mio primo televisore, un RCAbianco e nero da 19 pollici. Me lo portai a casa [. . . ] ed immediatamentemi scordai di tutto ciò che riguardava lo psichiatra. Tenevo continuamente

re il comportamento di se stessi o altrui attribuendo stati mentali» (C. Meini, Psicologia ingenua.

Una teoria evolutiva, McGraw-Hill, Milano 2001, p. XI) e un’estensione di tale capacità che includauna qualche «teoria dei caratteri e la comprensione del ruolo della volizione per la formazione e lamodificazione delle credenze» (ibid., p. 9), a tale distinzione ne sovrapporremo un’altra. Le conside-reremo, cioè, come distinte quanto al loro probabile statuto di capacità sviluppata su basi biologiche

innate e, rispettivamente, di estensione di tale capacità sviluppata su basi culturali. Inoltre, in ciò chesegue, l’uso di “comune” o “corrente” riferito a cognizioni o teorie psicologiche sufficientementecondivise lascerà indeciso il riferirsi all’una o all’altra nei casi dubbi.

4 Cfr. M. Aydede, “An Analysis of Pleasure vis-à-vis Pain”, Philosophy and Phenomenological

Research, n. 61, 2000, pp. 537-70.

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accesa la TV, specialmente mentre la gente mi contava dei suoi problemi chenon mi colpivano più, con la televisione accesa. Era una specie di magia.5

Il mago-terapeuta agisce non agendo; è invece Warhol che, trovato il primoespediente per smettere di agire mosso dal proprio disagio, si ritrova facilmente suuna strada lungo la quale non avrà più altro desiderio se non quello di perfezionarela sua prima trovata, già risolutiva. Acquistato il suo primo televisore, smette disubire dolorosamente l’intimità altrui; acquistato il suo primo registratore a nastro,allorché cessa ogni sua vita emotiva, è addirittura in grado di sposarsi6 e, come sidice, di campare contento.

Al di là di ogni impressione di normalità o bizzarria, ciò che rende comunqueplausibile e attraente questa storia – lo si proverà ad argomentare meglio tra poco– è una dissimmetria: mentre la sofferenza iniziale, il disagio, il primo moventebiografico subito spento da Warhol, aveva una sorta di oggetto (e forse più di uno),il piacere diffuso e senza perché della sua vita adulta (e poi senile, come attestanoi titoli dei capitoli immediatamente successivi al primo) si vuole presentare, e consuccesso, come privo di causa e di contenuto, e (soprattutto) ingiudicabile. E la dis-simmetria che qui ci tocca è duplice: vige tra lo stato di un prima e quello di unpoi biografico, disegna cioè una cesura, un’azione e un evento vitale; e vige tra unacondizione mentale retta da un’economia di affetti legati ad oggetti che muovonoall’azione e una condizione perfettamente liberata da ogni simile economia.

Ma al di là della sua persuasività, o meno, e forse contro le sue intenzioni,il Bildungsroman di Warhol presenta due zone d’ombra che vale la pena di chiarire.Si vuol dire, in primo luogo, l’iniziale sofferenza del protagonista, circa la quale sivorrebbe sapere meglio che cosa davvero sentisse, quando pativa nel suo “assorbirei problemi della gente”; e poi il suo finale piacere, o godimento diffuso – che nonsi sa bene come definire, anche una volta compreso che non si tratta di anedoniamascherata, né (tantomeno) di atarassia.

Soffrire

Le parole, come si vede, qui non mancano, specie se si chiede soccorso al gergopsichiatrico: ma non è detto che questo aiuti a chiarire le cose. Di più: in linea

5 A. Warhol, The Philosophy of Andy Warhol (From A to B and Back Again) (1975),tr. it. di R. Ponte e F. Ferretti, La filosofia di Andy Warhol, Costa & Nolan, Genova-Milano 1983,p. 26).

6 «Quando ho avuto la mia prima TV, ho smesso di tenerci tanto ad avere rapporti stretti con glialtri. Sono stato ferito tanto, quanto può essere ferito solo chi ci tiene tanto. [. . . ] Cominciò cosìverso la fine degli anni Cinquanta la mia storia con la televisione, una storia che dura ancora oggi,che ne ho quattro in camera con cui giocare contemporaneamente. Ma non mi sono sposato fino al1964, quando mi sono preso il primo registratore. [. . . ] L’acquisto del registratore ha posto fine aqualsiasi tipo di vita emotiva potessi avere, ma sono contento che sia andata così. Niente era più unproblema, perché l’unico problema poteva essere quello di avere un buon nastro, e quando l’unicoproblema è un buon nastro, non è più un problema.» (A. Warhol, La filosofia di Andy Warhol, cit.,pp. 28-29).

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generale, ogni indagine lessicografica su termini riferiti a emozioni, sentimenti,affetti, anche ristretta alle principali lingue europee nel loro uso scientifico, regi-strerà subito la difficoltà di una loro sistemazione, rafforzata facilmente dal dubbioche tale difficoltà non dipenda solo dalla complessità dei fatti linguistici, ma piùradicalmente dalla diversità dei campi culturali cui i campi semantici si sovrappon-gono. Una possibile via d’uscita è quella indicata dai vari suggerimenti a romperequello che anche qui si presenta come un “circolo ermeneutico”7 affrontando il te-ma sotteso a parole così problematiche liberi dalla «dipendenza da ogni linguaggionaturale in quanto origine delle ‘intuizioni di senso comune’», ancorando invecel’analisi di tali parole «a concetti umani universali e alla loro ‘grammatica univer-sale’»8, i quali risulterebbero indagabili utilizzando metodi empirici. Si tratta certodi una soluzione attraente – ma solo finché non si considera quale problematicitàaffligga proprio i contesti disciplinari che, con buoni motivi, muovono da un’as-sunzione positiva circa il darsi di universali umani. In particolare, nella filosofiadella mente, ossia nella disciplina che qui si intende assumere come polo di rife-rimento strategico, l’individuazione di simili universali, non potendosi appoggiareper via diretta a metodi empirici, quella che poteva apparire una soluzione rischiadi ridiventare un problema.

Dunque, se di fronte allo strano caso della sofferenza del giovane Warhol cisi vuole chiedere innanzitutto che genere di cosa sia – al di là delle parole – queldolore, non rimane che prendere una via intermedia. Ai nostri scopi basterà allo-ra richiamarsi a una elementare (e forse rudimentale) classificazione «ontologica[sic]» sviluppata «sulla base di criteri linguistici [sic]»9 dei fenomeni del senti-re10 come è quella offerta da Ricken. Tale classificazione riesce, intanto, a rendereuna qualche giustizia alle nostre concezioni psicologiche correnti, distinguendo

7 Cfr. A. Wierzbicka, Emotions across Languages and Cultures. Diversity and Universals,Cambridge University Press, Cambridge-Paris 1999, p. 7.

8 Ibid., p. 35.9 F. Ricken, “Emotion, Affect”, in H. Burkhardt, B. Smith (a cura di), Handbook of Metaphysics

and Ontology, Philosophia, München 1991, vol. I, pp. 237-238.10 Benché l’articolo di Ricken sia intitolato Emotion, Affect, e benché voglia in primo luogo riferir-

si “etimologicamente” alla pathe aristotelica (De an. 403a, 26), si è preferito parlare qui di “sentire”per introdurre un termine italiano ugualmente sovraordinato a quelli che designano i quattro tipi di“affetto” riconosciuti dall’autore. Questo, sia per aderire il più possibile alla lingua italiana corrente,sia considerando che Aristotele, più esattamente, considera pathe tes psyches ogni stato o condizione(exeis) dell’anima (De an. 402a, 9) e, inoltre, ogni moto dell’animo, originato sia dall’anima stessa,sia dal corpo (Eth. Nic. X, 2, 1173b, 9). Il significato di “sentire”, insomma, pare raccogliere abba-stanza bene i diversi sensi della pathe aristotelica – senza tuttavia indirizzare in modo affrettato versoun’identificazione tra “passioni” e “stati qualitativi” ovvero “qualia”. (Tale identificazione è tuttaviaesplicitamente accettata da alcuni autori: «Credo si possa accettare questo punto di vista. La doman-da di Nagel [. . . ]: Cosa si prova a essere un pipistrello?, sempre che se ne ammetta la sensatezza,andrebbe interpretata come: Cosa si patisce a essere un pipistrello?» (S. Gozzano, “Ipotesi sulla me-tafisica delle passioni”, in T. Magri (a cura di), Filosofia ed emozioni, Feltrinelli, Milano 1999, p. 16).La domanda cui si fa riferimento, che ammette varie traduzioni in italiano, è il celebre titolo di T. Na-gel, “What Is It Like to Be a Bat?”, Philosophical Review, n. 88, 1974, pp. 435-450, tr. it. “Com’èessere un pipistrello?”, in A. De Palma, G. Pareti (a cura di), Mente e corpo. Dai dilemmi della

filosofia alle ipotesi della neuroscienza, Bollati Boringhieri, Milano 2004, pp. 164-180).

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all’interno di una classe comune le seguenti quattro entità mentali: “percezioni(perceptions)”, dove il sentire sarebbe riferito a un contenuto conoscitivo11 ; “sen-sazioni (sensations) in senso stretto”, come sarebbero ad es. i dolori, che a dif-ferenza delle percezioni non avrebbero un proprio oggetto; “sentimenti (feelings)in senso stretto”, che andrebbero intesi come un “sentirsi”, ossia avrebbero comeriferimento “oggettuale” peculiare la condizione del senziente-parlante; “emozio-ni (emotions)”, che a differenza delle sensazioni e dei sentimenti in senso strettoavrebbero un oggetto.

Ora, però, se la si mette alla prova e ci si chiede in che modo potrebbe veni-re classificata la sofferenza di cui parla Warhol – come una sorta di percezione, osensazione, o sentimento, o emozione –, questa tassonomia mette in luce le propriedebolezze12 . E, in primo luogo, nella sua tendenza a ridurre ogni fatto relativo alsentire al paradigma della percezione (ma su ciò torneremo presto), questa tasso-nomia, basandosi sul criterio della differenza tra i contenuti ovvero gli oggetti delsentire, presenta una curiosa incapacità di distinguere tra percezioni ed emozio-ni, che appaiono entrambe “avere” un oggetto. Ora, è certamente vero che alcuneteorie delle emozioni le intendono alla stregua di percezioni di peculiari proprietàoggettive13 – ma non si possono ignorare le difficoltà a cui vanno incontro, specienel loro urtare con le nostre concezioni psicologiche comuni, dove risulta intuitivoche “avere un oggetto” deve significare qualcosa di ben diverso nel caso di unapercezione e nel caso di un’emozione14 .

Tra le teorie psicologiche che, invece, intendono salvare tale intuizione, van-

11 Interpretiamo Ricken in tal senso poiché questi parla delle percezioni in quanto riferite o a unloro “oggetto immediato” o a un “oggetto” inteso come riferimento di una “that-clause”. Circa unnecessario contenuto conoscitivo ovvero un necessario contenuto proposizionale delle percezioni ildibattito attuale è comunque assai aperto (per una panoramica aggiornata cfr. T. Crane, The Problem

of Perception [2005], in SEPh; S. Siegel, The Contents of Perception [2005], in SEPh). Cfr. ancheT. Crane, “The origins of qualia”, in T. Crane, S. Patterson (a cura di), The History of the Mind-Body

Problem, Routledge, London 2000, pp. 169-195.12 A parte l’obiezione che sta per venire mossa, e oltre a ciò che si è accennato nella nota pre-

cedente, va almeno aggiunto che non è affatto chiaro in quale senso la classificazione “ontologica”proposta da Ricken risulterebbe disegnata “sulla base di criteri linguistici”. Forse, si vuol dire chei criteri grammaticali propri di una lingua naturale dovrebbero fungere da criteri epistemici – comemostra il caso dei “sentimenti in senso stretto”, i quali per l’autore sarebbero caratterizzati in primoluogo dal venire espressi mediante costruzioni riflessivo-avverbiali, come è ad es. per «I feel. . . ».Tralasciamo di dimostrare la facile controvertibilità di una simile impostazione.

13 Non mancano qui referenti storici, né distanti (Shaftesbury, Hutcheson, Hume. . . ), né prossi-mi (Scheler, Meinong. . . ); per una ripresa contemporanea di tale impostazione cfr. C. Tappolet,“Irrational Emotions”, in D. Weinstock (a cura di), Perspectives on Irrationality, University of To-ronto Press, Toronto 2005 (in corso di pubblicazione, URL: http://www.philo.umontreal.ca/textes/Tappolet_Irrationality.pdf).

14 Per un ampio sviluppo critico di tale opinione, cfr. classicamente J.R.S. Wilson, Emotion and

Object, Cambridge University Press, Cambridge 1972; si osservi, ancora, la centralità assunta dalproblema dell’individuazione di un oggetto dell’emozione per tutti e cinque gli approcci definitorielencati in C. Calhoun, R.C. Solomon, “What is an Emotion?”, in Idd. (a cura di), Classical Readings

in Philosophical Psychology, Oxford University Press, New York-Oxford 1984, p. 8, che (nell’ordi-ne) tendono a trattarla (più o meno riduzionisticamente) come una peculiare sensazione, un evento oprocesso fisiologico, un tipo di comportamento, un atto di valutazione, un processo cognitivo.

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no perciò seriamente considerate quelle che prevedono una caratterizzazione delleemozioni come eventi o processi mentali compositi, ossia come costituite almenoda una componente cognitiva (provvista di un correlato oggettuale, ad es. percet-tivo) e da una componente non cognitiva, rispetto a cui pare affatto problematicoindividuare un preciso correlato oggettuale. La teoria di Oatley, ad es., prevede perle emozioni il concorso di due distinti momenti o fattori. Il primo è considerato il“nucleo” di ogni emozione e viene definito come «uno stato mentale di preparazio-ne all’azione, oppure un cambiamento nella preparazione»15 di essa; si tratta, cioè,di un atto valutativo riferito a un oggetto che non necessariamente si realizzerebbea livello conscio. Ancora sottostante a esso, però, viene individuata una “funzio-ne” che Oatley decide di chiamare “tonalità fenomenologica”; ed è tale tonalitàaffettiva cosciente che ci permette di distinguere fra le nostre diverse emozioni:«Ogni emozione può essere tipicamente sentita come diversa da un’emozione con-trastante e diversa dalle non-emozioni. La tristezza è diversa sia dalla felicità siadal ragionamento deduttivo o dalla sonnolenza»16 .

Non è difficile ritrovare tale distinzione in altri modelli psicologici più o me-no analoghi, compresi quelli che si premurano di ancorarsi a dati neurofisiologi-ci, tentando così di risolvere meglio il problema di definire la funzione di questa“seconda componente” delle emozioni – sia essa considerata come una “tonalitàfenomenologica”, oppure come un “marcatore somatico”17. In ogni caso, per unafilosofia della mente risulta difficile dare conto di simili fenomeni, già sul pianodescrittivo, ma eminentemente su quello ontologico, dove emergono innumerevoliimpedimenti a trattarli (per usare una terminologia quasi desueta) come rappresen-tazioni genuine. E, questo, risulta tanto più grave per i modelli che si vorrebberodenominare cartesiano-fenomenologici (denunciando già con questa formula qualine sarebbero i principali esponenti storici), dove il problema della “seconda com-ponente” delle emozioni finisce per cadere nella più ampia famiglia di problemiriguardanti l’esistenza e lo statuto dei “qualia”, ossia degli aspetti essenzialmente«fenomenici della nostra vita mentale» che risultano «accessibili per introspezio-

15 K. Oatley, Best Laid Schemes. The Psychology of Emotions (1992), tr. it. di R. Carrera,S. Falchero e M. Monaci, Psicologia ed emozioni, “Introduzione” e cura di V. D’Urso, Il Mulino,Bologna 1997, p. 78.

16 Ibid., pp. 78-79.17 I tentativi di integrazione della teoria di A.R. Damasio, Descartes’ error: Emotion, reason and

the human brain (1994), tr. it. di F. Macaluso, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello

umano, Adelphi, Milano 1995, entro opportune teorie della decisione pongono un forte accento sulfatto che secondo tale teoria peculiari sensazioni fisiche (piacevoli o spiacevoli, innanzitutto) inter-verrebbero a “marcare” (positivamente o negativamente) le rappresentazioni dei risultati delle nostreazioni (prevedibili o simulabili), intervenendo dunque “dall’esterno” su un processo cognitivo di ti-po decisionale altrimenti autonomo, e “sbilanciandolo” in maniera non necessariamente “irrazionale”(cfr. ad es. A. Barnes, P. Thagard, “Emotional Decisions”, in G.W. Cottrell (a cura di), Proceedings

of the Eighteenth Annual Conference of the Cognitive Science Society, Erlbaum, Hillsdale (NJ) 1996,pp. 426-429). A ogni modo, se questo è vero, al di là del maggiore dettaglio sul piano cognitivo eneurofisiologico, sembra di trovarsi dinanzi a una riedizione del modello motivazionale del De anima

cui si accennerà più sotto – ciò che lascia ancora aperte le questioni metafisiche di cui si vuole quidiscorrere.

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ne»18. Ancor peggio: una volta riconosciuto il darsi di simili aspetti, i relativiproblemi19 riguardano non solo la componente propriamente “affettiva” e non “co-gnitiva” delle emozioni, ma tutte e quattro le classi di entità mentali in cui perRicken, come si è visto, si suddivide il sentire, nella misura in cui possono veniredisancorati da un correlato extramentale caratterizzabile come un loro oggetto20.

Data tale situazione, allora, si comprende come non avvenga per motivi di“semplice” efficacia retorica che nella filosofia della mente di impostazione anali-tica si ravvisi un uso quasi sistematico del caso del dolore fisico per trattare i pro-blemi relativi ai “qualia”, ovvero all’“esperienza in prima persona”. Pare intuitivo,infatti, che una volta risolto il dubbio circa la riducibilità a un “quale” del candi-dato più promettente, ossia le “sensazioni” intese come affatto prive di “oggetto”,la soluzione apparirà più vicina anche per gli altri tipi di sentire classificati da Ric-ken. (Ed è altrettanto intuitivo che risolvere tale questione sia cruciale per potermantenere in piedi o, viceversa, per far cadere le concezioni comuni del piacere edel dolore incentrate sulla loro caratterizzazione di sensazioni “contrapposte”).

Particolarmente esplicito nel mettere in luce la vera posta in gioco di tali di-scussioni è Crane21, quando la individua nella validità, o meno, della “tesi di Bren-tano” secondo cui tutti e soltanto i fenomeni mentali manifesterebbero il caratteredell’intenzionalità. Tale tesi, infatti, pare ovviamente falsa per coloro che accettanol’esistenza di stati ed eventi mentali non-intenzionali accanto a quelli intenzionali,e i migliori candidati a tale ruolo di controesempio paiono appunto i fenomeni men-tali «puramente ‘qualitativi’ – [. . . ] di cui le sensazioni (come sono i dolori) sonogli esempi più comunemente citati», insieme alle «emozioni» e agli «stati d’animo(mood), come l’angoscia (undirected anxiety)»22. Strategicamente, in ogni caso, è

18 M. Tye, Qualia (1997), in SEPh.19 Tye precisa efficacemente che, una volta definiti nel modo che si è visto, è difficile negare il

darsi di “qualia”; ciò che invece pare necessario (e arduo) chiarire è «quali stati mentali abbiano deiqualia, se i qualia siano qualità intrinseche o estrinseche dei loro portatori, e in che modo i qualiasi relazionino con il mondo fisico, sia quello interno, sia quello esterno alla testa»; per tutti questimotivi, inoltre, lo statuto dei “qualia” viene vivacemente discusso per il suo ruolo nella comprensionedella natura della coscienza (M. Tye, Qualia [1997], cit.).

20 Tye elenca così gli stati mentali normalmente candidati al possesso di “qualia”: «(1) Esperienzepercettive, ad es. le esperienze del vedere un colore rosso, udire forti squilli di tromba, gustaredella liquirizia, odorare l’aria marina, maneggiare un brandello di pelliccia. (2) Sensazioni corporee,ad es. avvertire una fitta di dolore, sentire solletico, avere fame, avere mal di stomaco, avere caldo,avere le vertigini. Qui, si pensi anche ad esperienze come quelle che si hanno nell’orgasmo, o nelcorrere sino a sfiancarsi. (3) Reazioni avvertite, ovvero passioni, ovvero emozioni, ad es. provarepiacere, forte desiderio, timore, amore, afflizione, gelosia, rimpianto. (4) Stati d’animo, ad es. sentirsiesaltati, depressi, calmi, annoiati, tesi, miserabili.» (ibid.).

21 T. Crane, “Intentionality as the mark of the mental”, in A. O’Hear (a cura di), Current Issues in

Philosophy of Mind, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 229-251.22 Ibid. p. 230. A smentire la tesi di Brentano varrebbero anche i casi dei fenomeni non mentali che

esibiscono intenzionalità, come ad es. il fototropismo positivo delle piante (cfr. ibid, pp. 230-231).Ma l’intera posta in gioco è ancora più rilevante: ne va, infatti, di decidere se il contrassegno delmentale sia primariamente quello dell’intenzionalità, oppure quello del carattere cosciente dell’espe-rienza, com’è ad es. per un autore come Searle (J. Searle, Intentionality, Cambridge University Press,Cambridge 1983, tr. it. di A. Barbieri, Della intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza,

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decisivo l’atteggiamento da assumere in tale disputa rispetto a due criteri orientativifondamentali e strettamente intercorrelati, ossia quello dell’analisi linguistica deifenomeni in questione e – soprattutto – quello dell’armonizzazione con la nostrapsicologia ingenua.

In tale prospettiva, Crane apre uno dei suoi scritti più recenti e maturi dedicatial tema che qui interessa fingendo di dovere innanzitutto convertire un neofita dellafilosofia della mente, il quale opporrebbe resistenza all’idea che anche il dolore “fi-sico” sia propriamente uno stato mentale, alla stessa stregua, cioè, della «sofferenzamentale (che viene normalmente intesa come una sorta di sofferenza emotiva)»23.Ai nostri scopi, dell’argomentazione che qui segue importa, più che l’esito favo-revole alla tesi dell’esperto, e persino al di là del suo raccogliere implicitamentela sofferenza fisica e quella mentale sotto un unico termine comune, la strategia difondo. Crane, infatti, contrasta con misura le concezioni del neofita, scommetten-do sulla possibilità che queste ultime siano in grado di autocorreggersi, in quantogià conterrebbero le basi di un’accettabile equazione fra coscienza e intenziona-lità degli stati mentali, grazie a cui risulta poi possibile descrivere adeguatamenteil fenomeno del soffrire24. Tutto ciò che chiede all’ingenuo è di non confondere

Bompiani, Milano 1985), di cui appunto Crane discute qui i controesempi (cfr. Crane, “Intentio-nality as the mark of the mental”, cit., pp. 250-251). Per una panoramica del dibattito sul rapportotra fenomeno della coscienza e intenzionalità degli stati mentali, cfr. P. Carruthers, Higher-Order

Theories of Consciousness (2001), in SEPh; C. Siewert, Consciousness and Intentionality (2002),in SEPh; W. Lycan, Representational Theories of Consciousness (2004), in SEPh; R. Van Gulick,Consciousness (2004), in SEPh.

23 T. Crane, “The Intentional Structure of Consciousness”, in A. Jokic, Q. Smith (a cura di),Consciousness: New Philosophical Perspectives, Oxford University Press, Oxford-New York 2003,p. 33.

24 Si noti quanto diversamente viene trattata l’opinione psicologica corrente sulla natura del dolo-re in un saggio di Dennett (D.C. Dennett, Why You Can’t Make a Computer that Feels Pain [1978],tr. it. di L. Colasanti, “Perché non si può costruire un calcolatore che sente dolore”, in Id., Brain-

storms. Saggi filosofici sulla mente e la psicologia, Adelphi, Milano 1991, pp. 299-350 e 514-22),dove si afferma che essa conterrebbe due nuclei teorici differenti e inconciliabili – tesi utile, a suavolta, per sostenere che è impossibile costruire un computer capace di simulare (in senso proprio) ildolore. Tale opinione comune sarebbe cioè affetta da un’ambiguità che ricorda da vicino la duplicitàdelle emozioni già incontrata nel modello di Oatley. Per sostenerlo, fra l’altro, Dennett prende inesame il caso ipotetico di un paziente sottoposto ad anestesia locale dal proprio dentista e poi inter-rogato sul suo successo. Il paziente, viene osservato, potrebbe rispondere in due maniere diverse:«(1) Il trattamento ha funzionato: il dolore che mi provoca la trapanazione [. . . ] è intenso come sem-pre, però ora posso sopportarlo meglio. [. . . ] (2) Il trattamento ha funzionato: la trapanazione [. . . ]non mi fa più così male; il dolore è molto meno forte» (ibid., p. 341). Nella prima risposta il pazientesi riferirebbe al proprio dolore percepito in senso cognitivo, nella seconda no. Alle due espressioni,dunque, corrisponderebbero due teorie del dolore che Dennett rende rispettivamente esplicite così:«(1) avere dolore non è un mero presentarsi di stimoli, ma una ricezione interpretata, una percezioneche è influenzata da molti fattori cognitivi e volitivi precedenti [. . . ] (2) Per chi soffre, nulla è più‘intuitivo’ dell’idea contraria: c’è ben poco di cognitivo nel dolore: quello che si vuole evitare non èsemplicemente una specie indesiderata di percezioni; il dolore è lì, presenza bruta, non analizzabile,indipendente, in aggiunta allo stato di coscienza, o percettivo, o epistemico» (ibid., p. 344). Ma perDennett non ci sarebbe modo di qualificare l’una come più corretta dell’altra: le nostre concezionicomuni relative a che cosa sia il dolore non formerebbero infatti un sistema coerente, e quindi nonsaremmo in grado di fornire su tali basi alcuna vera teoria del dolore. Una posizione nettamente

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l’oggetto dello stato mentale, in quanto intenzionale, con lo stato stesso25 – perpoi procedere a una revisione dell’idea di oggetto che fa da sostegno alle opinionicorrenti secondo cui le sensazioni (e, paradigmaticamente, quelle di sofferenza) nesarebbero prive.

Tale strategia è sviluppata con il massimo dettaglio in un altro lavoro dellostesso autore, nel passaggio cruciale dove questi si impegna nuovamente a dimo-strare il carattere intenzionale del dolore26. Il cuore delle sue argomentazioni –volte a difendere una versione forte dell’intenzionalismo che escluda la necessitàdell’introduzione dei “qualia” per rendere interamente conto del fenomeno dellacoscienza in maniera compatibile con le nostre concezioni psicologiche correnti– si configura come la negazione della tesi di Searle27 secondo cui «i dolori nonsono intenzionali perché non rappresentano nulla al di là di se stessi»28. Craneattacca infatti questa tesi, per così dire, aggirandola: non tenta cioè di fornire unacaratterizzazione in positivo dell’oggetto intenzionale del dolore in quanto oggetto(rispondente, magari, a una concezione popolare di quest’ultimo), bensì fornisceuna precisazione del significato di “localizzazione” che, utilizzata nell’analisi delcaso problematico del dolore, renderebbe possibile affermare che anche il dolo-re ha comunque un “oggetto” – nel senso che ogni dolore (anche nel caso limitedell’arto fantasma) deve avere una localizzazione almeno apparente e avvertita29 .

La tesi suona curiosamente consonante con la dottrina kantiana secondo cuiogni “oggetto” che può darsi nell’esperienza di un soggetto è sempre un fenome-no esteticamente (ossia spazio-temporalmente) collocato; e su questo ritorneremo.Ora, tuttavia, è più urgente sottolineare come per Crane, più in generale, ancheper “i dolori e le altre sensazioni” in quanto stati mentali possano sempre esseredistinti, oltre al loro soggetto, un oggetto e un “modo” intenzionali30 – senza dover

eliminativistica rispetto al problema dei “qualia” è stata presa di lì a poco in D.C. Dennett, Quining

Qualia, tr. it. Quainare i qualia (versione 1985), in A. De Palma, G. Pareti (a cura di), Mente e

corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi della neuroscienza, Bollati Boringhieri, Milano 2004,pp. 189-233.

25 «Il dolore è uno stato di coscienza, ovvero un evento nella coscienza e, a prescindere dal fattoche tutti gli stati mentali siano coscienti, o meno, è incontrovertibile che solo le menti, ovvero gli statimentali, sono coscienti. Ma l’opinione ingenua ci dice forse qualcosa sul concetto di dolore, o sulconcetto di mente? Credo di sì. In questo mio scritto fornirò ragioni per pensare che la coscienza siauna forma di intenzionalità, il ‘dirigersi della mente verso i suoi oggetti’. Sosterrò che la coscienzacoinvolta nelle sensazioni fisiche come il dolore è costituita dal dirigersi della mente verso la parteo la regione del corpo dove si sente che ha luogo la sensazione [where the sensation feels to be].Ammesso questo, risulterà meno sorprendente che l’opinione ingenua sul dolore affermi ciò cheafferma: la ‘fisicità’ del dolore consegue dal confondere l’oggetto dello stato intenzionale – la partedel corpo in cui viene sentito il dolore – con lo stato del provare dolore.» (T. Crane, “The IntentionalStructure of Consciousness”, cit., p. 33).

26 Cfr. T. Crane, Elements of Mind. An Introduction to the Philosophy of Mind (2001),tr. it. di C. Nizzo, Fenomeni mentali. Un’introduzione alla filosofia della mente, R. Cortina,Milano 2003, in particolare pp. 103-150.

27 Cfr. J. Searle, Della intenzionalità, cit.28 T. Crane, Fenomeni mentali. Un’introduzione alla filosofia della mente, cit., p. 116.29 Ibid, p. 117.30 Cfr. ibid., pp. 40-48. Il “modo intenzionale” (formula dichiaratamente ripresa da Searle in Id.,

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concedere alcun ruolo ai “qualia”, richiamandosi in ciò al carattere “trasparente”dell’esperienza in generale31 . Crane, però, non fa dipendere le caratteristiche fe-nomeniche coscienti di una sensazione dal solo contenuto rappresentazionale delrelativo stato mentale. Piuttosto, nella sua “teoria percettiva” della sensazione cor-porea32, le fa ugualmente dipendere dal “modo” del sentire33. Benché centralenella sua prospettiva, la nozione di “modo intenzionale” patisce tuttavia di unacerta vaghezza. E qui il primo problema sarebbe di precisare meglio che cosa siintende per “modo” nel caso del dolore.

A questo scopo, Crane procede soprattutto per suggestioni ed esemplificazio-ni. Ma mentre è relativamente facile suggerire che cosa significhi una differenzadi modo intenzionale elencando casi come «la credenza, la speranza», o ancora«il desiderio, il pensiero, l’intenzione, la percezione, l’amore, la paura, il rimpian-to, la pietà»34, risulta più difficile esplicitare e definire esattamente in che cosaconsistano in generale tali differenze. In particolare, appoggiarsi sul paradigmaofferto dalle differenze tra le modalità sensoriali, come sembra fare Crane, sollevatutta una serie di problemi di lunghissima tradizione filosofica. In tal caso, infatti,compare ad es. il problema (cruciale per la trattazione della sofferenza) dell’im-possibilità di individuare un’appropriata modalità sensoriale responsabile di unadeterminata classe di “percezioni”: e qui non basta suggerire che «mentre alcu-ne proprietà degli oggetti (ad esempio i colori) possono essere colte solo in certi

Intentionality, cit.) è detto anche “forma aspettuale” e va inteso come una relazione fra il soggetto eil contenuto del suo stato intenzionale (cfr. ibid.).

31 In una serie di argomentazioni successive a quelle riportate nel precedente capoverso, Cranemira innanzitutto a escludere che, pur in un quadro intenzionalistico, sia necessario ammettere ildarsi di “qualia” come proprietà di proprietà che contribuirebbero a caratterizzare una sensazione:«è proprio corretto dire che essere consapevoli di un dolore implica l’essere consapevoli di proprietàdi un proprio stato mentale? Il mio dolore alla caviglia sembra aver luogo in una parte di me:sembra che sia la caviglia che mi fa male. Non è che io sia consapevole della collocazione della miacaviglia e (in aggiunta a ciò) senta che tale mia consapevolezza possiede un quale. [. . . ] Piuttosto, laconsapevolezza della caviglia sembra essere ipso facto consapevolezza del far male» (ibid., pp. 124-5). Così procedendo, Crane sottolinea quindi come la posizione criticata sia perfettamente parallela aquella della teoria intenzionalistica debole della percezione visiva – e sulla base di tale parallelismola attacca: «Un’obiezione usuale all’idea di qualia della percezione visiva è che quando si prestaattenzione alla propria esperienza, “tutto ciò che si trova è il mondo” – per dirla con J.J. Valberg. Se siconsidera l’essere rosso di un bicchiere di vino, cercando proprietà non intenzionali dell’esperienza,tutto ciò che si trova è un’evidente proprietà del vino: il suo essere rosso. Questo fatto è statodenominato la ‘trasparenza’ dell’esperienza [. . . ]. La mia obiezione alle concezioni intenzionalistedeboli della sensazione è analoga: quando si presta attenzione al proprio dolore, si presta attenzioneall’oggetto del proprio dolore, non a caratteristiche dell’esperienza». (ibid., pp. 124-125).

32 Si tratta di una teoria “percettiva” perché «tratta la sensazione corporea come una forma dipercezione, la percezione di ciò che avviene nel proprio corpo» (ibid., p. 126).

33 «Prestare attenzione a un dolore significa prestare attenzione alla parte che fa male. Ma non sipuò farlo senza prestare attenzione al male provato, e il male provato [. . . ] è il modo in cui quellaparte o regione del corpo si impone (per così dire) alla nostra attenzione. Dunque, quando siamoconsapevoli che la nostra caviglia fa male, siamo consapevoli che fa male a noi stessi. È questa laragione per cui affermo che, secondo la teoria percettiva, il carattere fenomenico del dolore è dato dadue fattori: il contenuto dell’esperienza e il modo intenzionale». (ibid., p. 128)

34 Ibid., p. 46.

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modi, e perciò non possono comparire nel contenuto di altri modi (non si posso-no annusare i colori)», altre proprietà «non sono specifiche di certi modi»35. Talesuggerimento, infatti, può valere per la percezione di proprietà di oggetti la cui ca-ratterizzazione vada oltre la semplice localizzazione: e qui basterà, magari, rifarsiulteriormente alla veneranda dottrina del sensus communis. Ma la aspecificità concui si ha a che fare nel caso del dolore (e in particolare nel caso di alcuni dolorifisici) è di tipo diverso: non si tratta di una “semplice” indifferenza rispetto a unamodalità sensoriale specifica (come è nel caso classico “colore vs forma”), bensì diuna letterale mancanza fenomenica di un senso (fosse pure un sensus communis)a cui riferire una sensazione. Sicché, a meno di introdurre modalità sensoriali ad

hoc, occorrerebbe qui fornire una definizione di “modo intenzionale” che abban-donasse il paradigma della differenza tra modalità sensoriali – il che, per il dolorefisico, pare evidentemente problematico. E, se risultasse impossibile, avremmo ache fare con caratteristiche fenomeniche coscienti di una sensazione che sarebbe-ro determinate dal solo contenuto, ovvero mancheremmo di qualificazioni modaliadeguate per alcune specie del sentire – caso che sembra verificarsi quando, invecedel dolore fisico, tocchi prendere in considerazione il disagio mentale.

Lo stato d’animo come arto fantasma

Si è già accennato a come l’interpretazione del dolore offerta da Crane aspiri avalere anche nel caso dell’arto fantasma, dove non si ha a che fare con alcun oggettonormalmente inteso, ma dove la localizzazione di ciò che è sentito permetterebbecomunque di parlare di un oggetto percettivo. Ciò non voleva essere indice soltantodel potere descrittivo di questa interpretazione di per se stessa, ma, più in generale,della correttezza della “tesi di Brentano” – la quale, tuttavia, non risulta ancorainteramente difesa, anche una volta considerato risolto (nella maniera che si è vista)il caso del dolore fisico.

Considerato che al centro del dibattito recente sull’intenzionalità stanno la que-stione della sua struttura relazionale e quella del suo carattere prospettico36 , ri-spetto alla prima Crane prende pienamente sul serio l’importanza del problema.In particolare, affronta l’obiezione standard secondo cui mentre «gli stati intenzio-nali paiono essere relazioni tra chi pensa e gli oggetti dei loro pensieri, questo nonpuò valere in generale, poiché gli stati intenzionali possono essere diretti a cose chenon esistono, mentre le relazioni implicano l’esistenza dei loro relati»37. Rispetto

35 Ibid., p. 126.36 Cfr. T. Crane, “Intentionality as the mark of the mental”, cit., pp. 423-424.37 Ibid., p. 244. Cfr. qui la relativa nota 30, dove il problema viene presentato come centrale già

per la concezione brentaniana dell’intenzionalità. Cfr. inoltre ibid., pp. 30-40, dove questo è trattatocome “il” problema dell’intenzionalità. Di sicuro rilievo per le conseguenze da trarsi nell’ambitodell’estetica è osservare la stretta affinità tra questa problematica e la sottolineatura di Ferraris della“verità” dei sentimenti suscitati dalle opere d’arte, nonché dalle entità fittizie che queste possonorappresentare (M. Ferraris, “L’opera d’arte come fidanzata automatica”, Rivista di estetica (n.s.),n. 26, 2004, pp. 153-170).

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a tale problema generale, Crane riafferma che, alla luce della sua analisi dei casicontrari alla «tesi di Brentano», e innanzitutto di quello del dolore, occorre riaf-fermare l’inutilità del trattarli come casi di «istanziazione di proprietà monadichee puramente soggettive», e invece l’opportunità di leggerli come esperienze checomunque «presentano qualcosa – (ad es.) una parte del corpo – come modificatain una certa maniera»38. In questa loro lettura, dunque, si ha a che fare con «statidi coscienza, e quindi stati apparentemente relazionali»: sarebbero cioè «solo ap-

parentemente relazionali, poiché, alla luce della [mia] teoria percettiva, i fenomenidi arto fantasma (ad es.) sono casi di consapevolezza di una qualità avvertita inuna parte del corpo che è solo apparente»39 , in maniera del tutto analoga ai casi diallucinazione percettiva – permettendo così di fare intervenire risolutivamente lanozione di “modo”. Ma se ciò è vero, è possibile accogliere come corretta l’analisifenomenologica delle emozioni proposta da Sartre40, poiché anche queste ultimeesibirebbero un analogo carattere apparentemente relazionale che chiama in cam-po la nozione di “modo”: «c’è il soggetto che ha un’esperienza, c’è il mondo (ouna cosa nel mondo) che viene esperito e [c’è] il modo particolare di percepire ocogliere (apprehend) il mondo»41.

Per valutare adeguatamente tale suggerimento, occorre ritornare sulla manierain cui Crane aveva poco prima discusso il caso delle emozioni come preteso esem-pio contrario alla “teoria di Brentano”. Nel caso di emozioni come “nervosismo,esultanza, angoscia”, infatti, è difficile individuarne un oggetto, come dimostra in-nanzitutto la difficoltà a nominarlo da parte del soggetto che le prova42; né sembrarisolutivo il fare coincidere un tale oggetto con la causa di simili stati d’animo43.Muovendo, allora, dal problema di identificare innanzitutto tali stati affettivi, Cra-ne scarta nuovamente ogni soluzione basata sui “qualia”44 e trova, invece, una viad’uscita in una soluzione intenzionalistica, osservando innanzitutto che una per-sona (ad es.) angosciata «potrebbe non essere in grado di esprimere a parole perche cosa prova angoscia, ma potrebbe comunque essere in grado di dire come le

cose le appaiono nel suo stato»45. Ciò permette di affermare, riprendendo Sartre,

38 Cfr. T. Crane, “Intentionality as the mark of the mental”, cit., p. 245.39 Ibid.40 Cfr. J.-P. Sartre, Esquisse d’une théorie des émotions, Gallimard, Paris 1939.41 Ibid.42 Cfr. ibid., p. 238.43 Cfr. ibid., p. 239. Crane ha qui di mira le teorie secondo cui un fenomeno di tipo affettivo, pur

potendosi presentare come non intenzionale a colui che prova il sentimento in questione (cioè comenon riferibile ad alcun oggetto a lui adeguatamente noto), può venire comunque sempre interpreta-to mediante una spiegazione causale. Si pensi al fortunato argomento applicato da Hume al casodell’orgoglio, cfr. D. Davidson, Hume’s cognitive theory of pride (1976), tr. it. “La teoria cognitivadell’orgoglio in Hume”, in Id., Azioni ed eventi, il Mulino, Bologna 1992, pp. 365-382; o anchealla nota interpretazione freudiana dell’angoscia. Come una variante limite di tali teorie potrebbevenire considerata quella, radicalmente fisiologistica, di W. James, “What is an Emotion?”, Mind,n. 9, 1884, pp. 188-205 – di cui si ricorda la smentita, su basi ugualmente fisiologiche, già da partedi W. Cannon in Id., Bodily Changes in Pain, Hunger, Fear and Rage, Appleton, New York 1929).

44 Cfr. T. Crane, “Intentionality as the mark of the mental”, cit., pp. 239-241.45 Ibid., p. 241, corsivo nostro.

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che qui non ne va del cogliere un oggetto (non, almeno, un oggetto “normalmente”inteso e identificato) con cui si intratterrebbe una relazione e, soprattutto, che l’ele-mento capace di distinguere tra emozioni differenti, e dunque anche tra sentimentiapparentemente privi di oggetto, è il modo in cui «il mondo, e la collocazione delsoggetto nel mondo, vengono percepiti o colti (apprehend) nello stato emotivo»46.Di nuovo, dunque, come nel caso dell’arto fantasma, si ha a che fare con un og-getto intenzionale che non è un oggetto “normale” ma che, tuttavia, almeno apparelocalizzato – se si vuole, si ha a che fare con un caso limite di localizzazione. E,di nuovo, si fa leva sul ruolo del “modo” del suo apparire per evitare il ricorso ai“qualia” e per consentire una differenziazione tra tipi diversi del sentire cosciente;e, questo, sempre all’interno di una “teoria percettiva”: «nella sensazione vienesentito qualcosa, nell’emozione viene percepito o colto (apprehend) qualcosa – ecosì via»47.

A questo punto, la teoria del sentire proposta da Crane – per quanto segnata daoscurità, specie nella nozione limite di “localizzazione” impiegata nell’analisi del-le emozioni e, più in generale, nella sua nozione di “modo intenzionale” – sembrabene utilizzabile per un’analisi dello strano soffrire del giovane Warhol, e poi dellostrano godimento diffuso del Warhol senile. Si sarebbe trattato, in fin dei conti,di un caso umano (se non del tutto normale) perfettamente normalizzabile: Drel-la avrebbe “percepito” in modo doloroso e poi “piacevole” determinati “oggetti”,ossia “le cose”, ovvero il mondo intero e la propria collocazione in esso. Tutta-via, nemmeno un simile esercizio renderebbe conto dell’intera storia che Warholci racconta. Anche se ora saremmo forse meglio indirizzati a dire che cosa e comeha via via sentito il suo protagonista, rimarrebbe da spiegare come mai una voltaci racconta che ha agito in una certa maniera perché sentiva così e così, e un’al-tra volta che da un certo momento in avanti ha agito provando questo o quello –ossia, rimane da chiarire la cesura biografica, determinata dalla decisiva reazionedi Warhol alla seduta psichiatrica, tra un prima e un poi rispettivamente segnati enon più segnati dal soffrire e, infine, da ogni evento propriamente affettivo. Resta,insomma, da spiegare la particolarità del ruolo funzionale che in determinate cir-costanze viene attribuito o non viene attribuito – al livello della nostra psicologiapopolare – al sentire di tipo propriamente affettivo.

Da questo punto di vista, benché relativamente povero dal punto di vista dell’a-nalisi fenomenologica rispetto alle argomentazioni di un Crane, un altro aneddotoautobiografico ci porta direttamente al centro del problema.

Alcuni anni fa mi trovavo ad assistere a degli esperimenti sul lancio di pro-iettili. Il mortaio era quasi verticale: la bomba doveva cadere non lontanodal luogo in cui si trovavano gli osservatori che ne stavano rilevando il tempodi ascesa e di caduta. Gli osservatori si compiacevano in tutta tranquillitàdi seguire la bomba nella sua salita, di rilevare il momento in cui cessava diinnalzarsi, di guardarla precipitare; ognuno si curava soltanto di questo og-getto, quando all’improvviso si udì gridare: “Viene su di noi!”. Le idee così

46 Ibid., p. 242.47 Ibid., p. 243.

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suscitate posero bruscamente fine all’osservazione dell’oggetto: ora ognunopensava soltanto a se stesso; l’uno correva a dritta, l’altro a manca, cercandodi sfuggire al pericolo.48

Questo episodio minimo di vita vissuta, in cui non pare esserci alcun bisognodi nominare i sentimenti provati dagli attori, è riportato da Sulzer a sostegno dellapropria teoria circa il darsi di due facoltà dell’anima fondamentali e distinte, quelladi «rappresentarsi qualcosa [sich etwas vorstellen]» e quella di «sentire [empfin-

den]». Ciò che qui interessa non è tanto la caratterizzazione – fenomenologica emetafisico-psicologica – degli stati dell’anima cui fanno capo tali facoltà, e in cuiquest’ultima rispettivamente conosce «le proprietà delle cose» e si sente «stimolatain maniera piacevole o spiacevole»49 . (Tale caratterizzazione, fra l’altro, potrebbebene venire riassorbita in un quadro intenzionalistico come è quello di Crane, alsolo prezzo di aggiungere al suo elenco di oggetti “non normali”, che già com-prendeva gli oggetti “fantasma” e quell’oggetto “totale” che è il “mondo”, anchel’anima che “sente se stessa”.)50 Importa, piuttosto, considerare come per Sulzerl’esercizio dell’attività rappresentativa comporta un’attenzione per le cose cono-sciute che può accrescersi fino alla totale distrazione rispetto a sé e, soprattutto,non ha alcun ruolo come stimolo all’azione51 . Per contro, nello «stato del sentire»,in cui si prova piacere o dispiacere, l’anima ha per oggetto se stessa; e proprio in ta-le stato hanno luogo quegli «atti involontari dell’anima» tradizionalmente chiamati«passioni»52 i quali sono il vero e unico motore dell’agire. Se si vuole, dunque,neanche di mero sentire si tratta, bensì, più propriamente, di una reazione ad essoche, sola, pare capace di attivare un comportamento. E, se questo è vero, si comin-cia a intravedere il motivo per cui gli strumenti offerti da una “teoria percettiva”del sentire appaiono insufficienti.

Kant e il modello motivazionale

Che lo si consideri, o meno, soltanto suggestivo, oppure come portatore di unaproposta teorica che merita di venire ascoltata, il modello psicologico di Sulzer

48 J.G. Sulzer, Anmerkungen über den verschiedenen Zustand, worinn sich die Seele bey Ausü-

bung ihrer Hauptvermögen, nämlich des Vermögens, sich etwas vorzustellen und des Vermögens zu

empfinden, befindet (1771), tr. it. a cura di P. Kobau, “Note sul diverso stato in cui l’anima si trovanell’esercitare le proprie facoltà principali, ossia quella di rappresentarsi qualcosa e quella di sentire”,Rivista di estetica (n.s.), n. 3, 1996, p. 72.

49 Ibid., p. 67.50 Per Sulzer, il sentire è del tutto svincolato da un qualsiasi oggetto che propriamente lo causi,

anche quando si è propensi a individuare in un oggetto la causa di un sentimento; icasticamente:nello stato del sentire «non sentiamo l’oggetto, bensì noi stessi» (ibid., p. 67).

51 Lo stato del rappresentare, per quanto «favorevole alla ricerca della verità», ha tuttavia perSulzer «degli inconvenienti peculiari. Finché persiste, siamo incapaci di riflettere su di noi; nonci troviamo stimolati ad alcuna azione che riguardi la nostra persona; l’essere umano diventa unessere astratto che non ha alcun legame con alcuna altra cosa al mondo; ciò che non si lega allanostra riflessione lo facciamo macchinalmente e senza sapere di farlo; manifestiamo tutti i segni e lecaratteristi che tipici dell’ottusità» (ibid., p. 70).

52 Ibid., p. 78.

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ci interessa in maniera speciale perché aspira a svolgere un ruolo esplicativo delcomportamento che non risulta, invece, ugualmente centrale nel modello di tipocartesiano-fenomenologico fin qui considerato. In quest’ultimo, infatti, appare cru-ciale la sola considerazione epistemica dell’oggetto dell’esperienza – specie quan-do tale oggetto viene interpretato alla luce di una “teoria percettiva” à la Crane.Si vuole suggerire, dunque, di considerare la teoria di Sulzer come rappresentativadi una diversa famiglia di modelli psicologici, che potrebbero essere detti moti-vazionali. Si intende, cioè, etichettare in questa maniera l’insieme dei modellipsicologici di tipo naturalistico entro cui una teoria dell’esperienza, e in partico-lare la considerazione del fenomeno del sentire, vale innanzitutto a fini esplicatividel comportamento di un organismo53.

Ora, l’avere a che fare con l’uno o con l’altro di questi due modelli è un puntoparticolarmente delicato per i nostri scopi, giacché i fenomeni mentali del piaceree del dolore reagiscono in modo nettamente diverso a un loro inquadramento nel-l’uno o nell’altro. Per dimostrarlo, sarebbe tuttavia un’impresa quasi interminabilecercare di mettere alla prova sotto questo profilo una collezione di teorie esemplarietichettate sotto il primo o sotto il secondo titolo. Si cercherà quindi di produrresoltanto un paio di campionature, cominciando con un paio di osservazioni intornoa Kant – autore alle cui spalle Sulzer immediatamente si colloca e che, per altroverso, fornisce un esempio della maniera di trattare il nostro problema che risulteràinfluente sino a tempi recenti e recentissimi.

Per i nostri scopi, importerà allora ricordare essenzialmente come Kant sciolgaun doppio equivoco rispetto al significato di “sentire”. Il primo, quello consegnatocon maggiore rilievo all’opera critica, è relativo al significato dell’aggettivo “este-tico” che normalmente gli si applica e finisce per caratterizzare, all’interno dellasfera dell’esperienza, il sentimento propriamente inteso come non conoscitivo eprivo, in tal senso, di oggetto. Impostando l’analisi del giudizio estetico, nei para-grafi iniziali della terza Critica Kant ne precisa infatti subito lo statuto soggettivo,rilevando come

ogni riferimento delle rappresentazioni può essere oggettivo, perfino quel-lo delle sensazioni [. . . ], escluso solo il riferimento al sentimento del pia-cere o del dispiacere, con il quale nulla viene designato nell’oggetto, manel quale il soggetto sente se stesso secondo il modo in cui è affetto dallarappresentazione.54

“Oggettivo” e “soggettivo” non si riferiscono qui alle caratteristiche del giudi-zio (ad es. alla sua possibile validità universale e/o necessaria), bensì proprio al suotema. Sicché, mentre la prima accezione di questa dicotomia vale piuttosto a di-

53 Ciò vale anche per il caso limite del comportamento individuato (minimalmente) nella solaespressione delle “emozioni”, come avviene nel celebre studio di Darwin a ciò dedicato. Tale fami-glia di modelli, va comunque sottolineato, aspira ad avere un valore intrinseco sul piano psicologico,al di là del sostegno che offre alla prospettiva etica dell’“edonismo normativo” (cfr. A. Moore,Hedonism [2004], in SEPh).

54 I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, par. 1.

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stinguere quelli che al par. 18 dei Prolegomeni sono chiamati “giudizi percettivi”55

dai giudizi di esperienza intesi in senso stretto, la seconda riguarda peculiarmentei giudizi di gusto trattati nella terza Critica in quanto in essi «la rappresentazioneviene riferita interamente al soggetto, e cioè al suo sentimento vitale, sotto il nomedi sentimento del piacere o del dispiacere»56 . Se si vuole, abbiamo qui a che farecon un’anima che sulzerianamente “sente se stessa”; in ogni caso, questo permet-te di avanzare la celebre determinazione del carattere “disinteressato” del giudizioestetico, cioè del suo non essere legato «con la rappresentazione dell’esistenza diun oggetto»57. Questa determinazione (cui paiono fare eco le analisi di Crane),ancora, chiama in gioco la precisazione del carattere del godimento estetico come“compiacimento per il piacevole”: e l’esempio subito addotto chiarisce bene in chesenso per Kant si deve parlare di sentimento come sensazione puramente soggetti-va: «Il colore verde dei prati compete alla sensazione oggettiva, quale percezionedi un oggetto del senso; ma la sua piacevolezza compete alla sensazione soggettiva,con cui non viene rappresentato un oggetto, e cioè al sentimento»58 .

Al di là della soluzione terminologica, paiono qui rimanere in sospeso almenodue questioni. La prima: la determinazione negativa del disinteresse proprio delgiudizio di gusto coincide davvero interamente con la determinazione positiva del-la “sensazione soggettiva” incontrata poco sopra, ossia il suo riferimento integralecome rappresentazione al soggetto, ovvero al suo “sentimento vitale”? La seconda:il piacere senza oggetto espresso nel giudizio estetico e, rispettivamente, il godi-mento sensibile sono due fenomeni mentali radicalmente differenti – e, se sì, sonofra loro anche non comunicanti? Si tratta di questioni che, nel presente contesto,riguardano la legittimità, o meno, di fare rientrare nell’ambito dei giudizi di espe-rienza i giudizi estetici puri – e che, in ogni caso, portate su un piano psicologicorivelano altre sfaccettature. Dunque, più che la risposta data a tali questioni nellaterza Critica, dove il problema di fondo che emerge dopo la prima serie di paragrafiè quello dell’oggettività dei giudizi di gusto (e non quello dell’oggettività del lorotema) 59, importerà qui un’altra serie di precisazioni kantiane circa il significato del

55 «I giudizi empirici, in quanto hanno una validità oggettiva, sono giudizi di esperienza; ma quelliche sono validi soltanto soggettivamente io li chiamo semplici giudizi percettivi. Questi ultimi nonrichiedono alcun concetto puro dell’intelletto, ma soltanto la connessione logica delle percezioni inun soggetto pensante.» (Ak IV, p. 298).

56 I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, par. 1.57 Ibid., par. 2.58 Ibid.59 Si potrebbe qui individuare uno slittamento nel significato di “esperienza” (ovvero una sua

estensione) importato dal compimento del sistema kantiano con la stesura della terza Critica (cfr.I. Kant, “Prefazione”, in Critica della facoltà di giudizio, p. 6, nonché Id., “Introduzione”, in ibid.,parr. II e IX) – slittamento o estensione che appaiono ancor più evidenti se, invece del confrontotra la prima e la terza delle Critiche, si istruisce un simile confronto tra i Prolegomeni e la Critica

della facoltà di giudizio. Guardando al par. 18 dei Prolegomeni, troviamo infatti che solo nei genuinigiudizi di esperienza si ha a che fare con oggetti, essendo questi determinati dal valore universalee necessario dei giudizi che si possono emettere sopra di essi. Al successivo par. 19 Kant precisainoltre che emettendo un giudizio oggettivo riconosciamo un oggetto «dal valore universale e neces-sario della connessione fra le percezioni date; e poiché questo è il caso per tutti gli oggetti dei sensi,

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sentire, che punta alla distinzione strettamente psicologica tra il sentimento (intesosempre come la facoltà di provare piacere e dispiacere) e la facoltà dell’appetizione.

Decidendo a questo punto di seguire il Kant che fornisce le basi specificamentepsicologiche della terza Critica60, troviamo allora innanzitutto che l’aisthesis, giàinterpretata dai wolffiani come facoltà unitaria, viene tripartita da Kant in una ma-niera fondamentale – ossia in una maniera che distingue nettamente non solo trasensazione oggettiva e soggettiva, come si è appena visto, ma anche tra il provarepiacere e il tendere a un oggetto come possibile termine del desiderio. Incontriamocosì, entro una serie di distinzioni relative alla «facoltà inferiore»61 , la caratte-rizzazione della «facoltà cognitiva sensibile»62 in quanto prevede l’uso di sensiche si determinano maggiormente in senso oggettivo oppure soggettivo e che, in

allora i giudizi di esperienza ricaveranno la loro validità oggettiva non dalla conoscenza immediatadell’oggetto (ciò che è impossibile), bensì soltanto dalla condizione del valore universale dei giudiziempirici: che, come si è già detto, non si fonda mai su condizioni empiriche e in generale sensibili,bensì su un concetto puro dell’intelletto» (Ak IV, pp. 298-299). Ancora: «Tutti i nostri giudizi sonoin un primo momento semplici giudizi percettivi: essi valgono soltanto per noi, cioè per noi in quantosingoli soggetti, e soltanto in seguito assegniamo loro una nuova relazione, quella cioè con un og-getto, e vogliamo quindi che [il primo giudizio] debba essere valido per noi sempre, nonché per ognialtro uomo; infatti, quando un giudizio si accorda con un oggetto, tutti i giudizi circa il medesimooggetto devono anche concordare tra loro, sicché la validità oggettiva del giudizio di esperienza nonsignifica altro se non la sua validità necessaria e universale» (ibid., p. 298). E qui Kant fa cadere ilprimo di una serie di chiarimenti: «Che la stanza sia calda, lo zucchero dolce, l’assenzio disgustoso,sono giudizi validi soltanto soggettivamente, giacché io non pretendo di doverli ritenere sempre verie che ogni altro li debba ritenere tali, ma esprimono soltanto una relazione fra due sensazioni per unmedesimo soggetto, cioè per me stesso nel mio attuale stato percettivo, e non devono perciò vale-re anche per l’oggetto: tali giudizi io li chiamo percettivi» (ibid., p. 299). Gli esempi qui invocatipresentano tuttavia alcune difficoltà – pienamente inquadrabili solamente in un impianto come saràquello della terza Critica – di cui pare ben consapevole lo stesso Kant, che precisa in una nota: «Am-metto volentieri che questi esempi non rappresentano giudizi percettivi che potrebbero mai diventaregiudizi di esperienza, anche qualora vi si aggiungesse un concetto intellettivo; infatti, si riferisconosoltanto al sentimento, di cui ognuno riconosce il carattere meramente soggettivo e che quindi nonpuò mai venire riferito all’oggetto, e dunque non possono mai diventare oggettivi.» (ibid., p. 299).

60 Giustifichiamo la scelta di riferirci in ciò che segue alla pagine della Metaphysik Pölitz (piut-tosto che ad altre trascrizioni di lezioni o alla Antropologia pragmatica) in base a due ordini diconsiderazioni. Pur oscillandone le datazioni (che comunque la collocano intorno ai primissimi anniSettanta), vi è chiaramente leggibile 1) la ripresa degli argomenti di Sulzer (op. cit.) appena presen-tati; 2) ugualmente riscontrabile vi è una concomitante e crescente influenza della revisione operatada Meier rispetto alla psicologia empirica di Wolff, sia nell’indebolirne la dottrina della piena ri-ducibilità delle appetizioni e dei sentimenti alle cognizioni (cfr. P. Kobau, “Sentire. Percezione esentimento”, Rivista di estetica [n.s.], n. 4, 1997, pp. 21-47; id., “Psicologia senza sentimenti: daWolff a Dennett”, in C. Bazzanella, P. Kobau (a cura di), Passioni, emozioni, affetti, McGraw-Hill,Milano 2002, pp. 37-61), sia nell’assumere come primo oggetto della “patologia” i moti di deside-rio e avversione (cfr. già G.F. Meier, Theoretische Lehre von den Gemüthsbewegungen überhaupt,Hemmerde, Halle 1744, par. 17).

61 In sede di psicologia empirica, infatti, per la caratterizzazione complessiva della “facoltà inferio-re” in termini di passività di contro alla caratterizzazione di quella “superiore” in termini di attività,troviamo che con questo medesimo criterio sono bipartite tutte e tre le facoltà principali, che operanorispettivamente con «rappresentazioni [Vorstellungen]», «appetiti [Begierden]» e il «sentimento del

piacere e dispiacere [Gefühl der Lust und Unlust]» (Psic, p. 55).62 Ibid., p. 57.

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quest’ultimo caso (esemplarmente, il gusto e l’olfatto), operano come «sensi delgodimento [Genuss]» più che come sensi «informativi»63 . Per contro, la secondafacoltà principale dell’anima non è affatto da caratterizzarsi come cognitiva, poichéad essa compete di «distinguere le cose secondo il sentimento del piacere e dispia-cere, ovvero del gradimento e del disagio»64 . Soprattutto, però, va attentamenteconsiderato come (e in che misura) da entrambe queste facoltà venga distinta laterza facoltà, l’appetitiva, così definita.

La facoltà del piacere e dispiacere era il rapporto dell’oggetto con il nostrosentimento dell’agire, ossia della promozione della vita oppure del suo impe-dimento. Ma in quanto quella del piacere e dispiacere è una facoltà di certeattività e azioni che alla vita siano conformi, in tanto si tratta di un appetire.65

Spicca, qui, l’ulteriore caratterizzazione della seconda facoltà in quanto non“esteticamente disinteressata”, bensì come capacità di giudicare del rapporto fraun oggetto e il fine della “promozione della vita”, o (più precisamente) nei ter-mini di una “concordanza” o «contrasto del principio della vita» con determina-te «rappresentazioni o impressioni degli oggetti»66 – e dunque come “sentimentodell’agire”, e non più solo di un “piacere e dispiacere” intesi come ineffettuali.Sicché, l’“appetito attivo”, ossia la «facoltà di agire e omettere di agire secondoil gradimento o il disagio in rapporto all’oggetto in quanto cause della capacitàattiva di produrlo»67 , risulta a sua volta determinato come “piacere”, «in quantoè una cagione e un motivo dell’agire per determinare certe rappresentazioni del-l’oggetto»68 . Nell’insieme, la caratterizzazione del piacere risulta così duplice: opuro sentimento, o sentimento che diventa appetito e motivo di azione. Alla fine,pare di avere dinanzi non due ulteriori facoltà ugualmente distinte da quella dellacognizione69 , bensì una seconda facoltà che nel suo tratto “inferiore” possiede tut-tavia un duplice volto, la quale risulta cioè inequivocabilmente passiva in quantocapacità di provare piacere o dispiacere, ma (almeno) reattiva nel suo configurarsicome appetizione indirizzata a “produrre” (innanzitutto rappresentativamente) un“oggetto”.

Inesistenza del piacere?

Nell’interpretazione kantiana del modello psicologico motivazionale, dunque, ilfenomeno del piacere si trova sospeso tra due caratterizzazioni e due attribuzioni a

63 Ibid., p. 59.64 Ibid., p. 75. Non sembra possibile affermare che il piacere o il dispiacere siano letteralmente

privi di oggetto, innanzitutto perché mediante il sentimento noi «sentiamo noi stessi» (Ibid., p. 76),e inoltre perché la «situazione del gradire o sgradire» viene definita come la «rappresentazionesoggettiva dell’intera capacità vitale di accogliere o escludere gli oggetti» (Ibid., p. 77).

65 Ibid., p. 84.66 Ibid., p. 77.67 Ibid., p. 85.68 Ibid., p. 84.69 Che rimane comunque condizione ineliminabile del poter provare piacere e dispiacere, cfr. ibid.,

pp. 75-76.

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facoltà distinte: puro piacere “estetico”, che non ha bisogno di alcun oggetto “rea-le” per attuarsi, e piacere come desiderio, impulso all’azione che cerca e attende larealizzazione del proprio oggetto al fine di poterlo godere. Ciò potrebbe non costi-tuire un vero dilemma; tale duplicità potrebbe venire semplicemente riconosciutacome un dato dalla psicologia empirica, cioè dalla disciplina che qui detta i criteriultimi del riconoscimento, o meno, dei problemi effettivi – se non fosse che taleduplicità del piacere, volta per volta puro sentimento o godimento solo virtuale, mamotore ultimo di ogni azione destinata a promuovere la vita, pare sfuggire a ogninetta determinazione nei termini di “attività vs passività”70 , cioè della dicotomiache sta al cuore delle tassonomie disegnate da questa disciplina71 . E ancora, daun punto di vista motivazionale, occorrerebbe capire quando e in che modo il pia-cere, da “godimento” in sé conchiuso, assumerebbe il ruolo dinamico di “appetitoattivo”.

Forse, va riconosciuto che tale ambiguità si situa all’origine di tutti i modellimotivazionali che hanno corso sia nella psicologia popolare, sia nella filosofia enella psicologia scientifica – ossia, nella prima proposizione di un simile modelloda parte di Aristotele72 e, in particolare, nella risoluzione che offre a una (presunta)disputa con Platone circa il dovere individuare in un sentimento negativo oppurenel piacere l’impulso ultimo all’azione73 . Senza poterne delineare per intero la

70 Si veda la polarità riconosciuta da Kant fra i casi in cui «appetiamo anche senza essere attivi,anche senza agire», ossia in cui opera un «appetito inattivo ovvero uno struggimento nostalgico[Sehnsucht]», e quelli in cui opera invece l’appetito propriamente attivo, cioè il «libero arbitrio» –nel che va tuttavia osservato come «[i]n ogni arbitrium giuocano cause impulsive, ‘sensibili oppureintellettuali’» (ibid., p. 85).

71 La “Suddivisione generale delle facoltà spirituali” si apre con un’osservazione empirica che hain tal senso la forma di un vero aut/aut: «Io mi sento o passivo oppure attivo» (ibid., p. 55).

72 Si vuol dire del De anima, dove, a differenza che nel De motu animalium, è più chiaramen-te assegnato un qualche ruolo al piacere e al dispiacere nella dottrina del movimento animale (cfr.P. Kobau, “Psicologia senza sentimenti: da Wolff a Dennett”, cit.). In tale contesto, infatti, Aristo-tele afferma che se ne darebbe una doppia causa, trovata nell’“appetito” (ovvero nella “tendenza” o“desiderio”: orexis, De an. 433a, 9) e nell’immaginazione (intesa come facoltà che prolunga quelladell’aisthesis nell’intelletto inteso come “ragione pratica”; si è in tal senso parlato di una funzione“trans-sensoriale” attribuita da Aristotele alla percezione in campo etico, cfr. W. Welsch, Aisthesis:

Grundzüge und Perspektiven der Aristotelischen Sinneslehre, Klett-Cotta, Stuttgart 1987, p. 32) con-siderata come una “specie di pensiero” (De an. 433a, 10) – due facoltà che, indipendentemente, in-tendono un oggetto come appetibile e quindi come motore (motore “immobile”, dunque, a differenzadel secondo motore dell’organismo, “mobile”, costituito dall’anima che lo appetisce). (Tale duplici-tà, ribadita in Eth. Nic. III, 3 e VI, 1, inoltre, consente di ammettere il darsi di desideri contrastanti,a seconda cioè che assecondino oppure contrastino la “ragione pratica”, De an. 433a, 31-b, 30.) Finqui, comunque, non si parla di piacere e dispiacere; ma più sotto, chiedendosi se tutto ciò valga ancheper gli animali “imperfetti” che possiedono il solo senso del tatto (De an. 433b, 30-434a, 1), Aristo-tele risponde argomentando in modo seccamente affermativo che questi animali «necessariamentepossiedono anche desiderio» ovvero «appetizione [epithymia]» in quanto in essi sono presenti piace-re e dolore (De an. 434a, 2-3; per l’analisi fisiologica secondo cui il corpo umano tende a rifuggireil dolore e a ricercare il piacere, cfr. Eth. Nic. VII, 15), mentre il loro possesso dell’immaginazioneappare meno ovvio. (Il termine epithymia va a sostituire orexis anche in De an. 433b5 sgg., dovesi colloca l’ulteriore discussione sulla possibile contrarietà delle appetizioni, dovuta in realtà a unconflitto tra appetito e intelletto).

73 La dottrina platonica del piacere come risoluzione di una carenza “dolorosamente” avvertita

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storia degli effetti, di questa basterà, per i nostri scopi, sottolineare un’unica lineadi deriva. Benché la lunga storia del modello motivazionale aristotelico sia statapercorsa da tentazioni riduzionistiche ed eliminativistiche diverse, infatti, quella sucui si vorrebbe attirare l’attenzione è la strategia che ha tentato di cancellare daesso uno dei sentimenti che vi svolgono la funzione di stimolo o motivo all’agire,ossia il piacere. Di questa, l’esempio più chiaro in età moderna si può ravvisarein quello che è stato chiamato l’“edonismo negativo” di Locke74, che del modelloaristotelico riprende la fondamentale bipartizione tra sentire e pensare come motiviconcorrenti del deliberare e dell’agire, mentre della concezione platonica riprendee rafforza un’impostazione che si potrebbe dire omeostatica, assegnando poi al “di-sagio (uneasiness)” il ruolo di vera e unica motivazione affettiva. Ciò è per Lockenecessario, una volta presi sul serio quei casi di conflitto tra motivazioni riferite ascopi differenti, dove, a ben guardare, il motivo vincente non potrà mai essere lavalutazione di un bene assente, per quanto inteso come maggiormente desiderabi-le75. Lo potrà bensì essere la sofferenza attuale per la mancanza di un bene – perquanto riconoscibili siano i limiti, e fin la miseria, di quest’ultimo, come icastica-mente dimostra l’esempio dell’alcolista, forzato al bere pur nella consapevolezzadelle rovinose conseguenze della sua azione76.

Ricapitolando: che cosa resta, dunque, del modello popolare – indistintamentefenomenologico e motivazionale – secondo cui il piacere e il dolore fisici avreb-bero delle controparti mentali, mentre entrambi andrebbero intesi come sensazioniopposte, collocate agli estremi di un unico continuo segnato al centro dall’indif-ferenza? Se viene sottoposto a un raffinamento di tipo analitico, troviamo innan-zitutto che quello che correntemente viene distinto in un sentire affettivo di tipo

(Resp. IX), ovvero come percezione di una tale risoluzione (Phil.), a ben vedere non contrasta con lacaratterizzazione del piacere fornita da Aristotele nel De anima di cui si è detto nella nota precedente:qui, al piacere e al dolore è certo riconosciuto un ruolo funzionale in quanto legati alla facoltà appe-titiva, ma sarebbe vano ricercarne una definizione più dettagliata. Per contro, la caratterizzazione delpiacere nei termini di un perfezionamento dell’attività, fornita nell’Etica Nicomachea (X, 4), e di cuisi dirà più sotto (su cui cfr. almeno F. Ricken, Der Lustbegriff in der Nikomachischen Ethik des Ari-

stoteles, Vandenhoeck & Roprecht, Göttingen 1976; D. Charles, Aristotle’s Philosophy of Action,Duckworth, London 1984), senz’altro non coincide con la dottrina platonica, ma è difficile sostenereche venga prodotta in tale sede da Aristotele allo scopo di dettagliare un modello psicologico di tipomotivazionale.

74 P. Kraus, “Locke’s negative hedonism”, The Locke Newsletter, n. 15, 1984, pp. 43-63.75 Cfr. P. Kobau, “Sentire. Percezione e sentimento”, cit., pp. 26-29.76 “[U]n ubriacone può ben vedere che la sua salute va in malora, che i suoi beni si disperdono;

che nella linea di condotta da lui seguita lo attendono il discredito e le malattie, l’indigenza assolutae persino la perdita della sua amata bevanda; e tuttavia, i ritorni del disagio, quando egli sente lamancanza dei suoi compagni di baldoria, la sete abituale di quei bicchieri alle ore consuete, lo trasci-nano alla taverna” (J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding [1689, 1692-4, 1700-4]),tr. it. di C. Pellizzi rivista da G. Farina, Saggio sull’intelligenza umana, “Introduzione” di C.A. Via-no, Laterza, Roma-Bari 1994, 2.21.35). Si confronti la conclusione (molto meno drammatica, madel tutto consonante) del dialogo manzoniano dedicato al piacere, dove è fornita un’analisi del signi-ficato della formula “sentire un bisogno” svolta relativamente al caso dell’assetato (cfr. A. Manzoni,[Del Piacere], lettera a Rosmini del dicembre 1851, in Id., Tutte le Opere, a cura di A. Chiari eF. Ghisalberti, Mondadori, Milano 1970, vol. II, n. 974).

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fisico oppure mentale risulta trattabile alla stessa maniera, e cioè come fenomenointegralmente psicologico. Ma se ne vengono distinti i versanti fenomenologico emotivazionale, il presunto continuo piacere-dispiacere appare spezzarsi in due ma-niere diverse. Sul primo versante, cioè, appaiono buone le speranze di poter trattarei fenomeni del sentire affettivo in termini intenzionalistici, recuperando (come si èvisto nel caso di Crane) la tradizione rappresentazionistica. In questa maniera, pe-rò, oltre a dover riconoscere la necessità di un abbondante supplemento di indagine,la possibile tassonomia di tali fenomeni non viene affatto indirizzata verso una lorodisposizione lungo un continuo come è quello previsto dalla psicologia popolare, erimane anzi aperta la questione di una loro sistematizzabilità in generale.

Sull’altro versante, la situazione appare ancora più problematica. Se il sentireaffettivo riveste un ruolo funzionale, cioè, piacere e dispiacere risultano del tut-to eterogenei – specie nelle versioni del modello motivazionale che si incentranoradicalmente su una funzione omeostatica. Perché un sistema omeostatico possasvolgere il proprio compito, infatti, gli può essere sufficiente regolarsi su di ununico parametro – e, come si è visto nel caso di Locke, il candidato che potrebbesostenere da solo77 un tale ruolo nella spiegazione dei comportamenti non deter-minati dal raziocinio è il sentimento di disagio, platonicamente interpretato comesegnale della privazione di qualcosa, rispetto a cui viene dunque imposta forza-tamente una sorta di giudizio di desiderabilità a prescindere da ogni valutazionestrettamente cognitiva, anche quando intesa come riferita un godimento futuro.

Se questo è vero, tuttavia, resta però da trovare una collocazione psicologicaper il piacere, una volta riconosciutane la differenza rispetto al disagio sotto il pro-filo motivazionale – pena il risorgere delle tentazioni a farlo scivolare nello statutodi un “quale”, giacché la sua apparente atopia si accorderà benissimo con la carat-terizzazione dei “qualia” come fenomeni psichici privi di ruolo funzionale. Talerischio, però, può essere evitato, prestando attenzione a un argomento radicalmen-te deflazionistico di Ryle che inoltre, si suggerisce, può bene risultare compatibilecon un modello à la Locke.

Nel dibattito sviluppatosi negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorsocirca la possibilità di qualificare il piacere come una sensazione (e in particolarecome una sensazione episodica)78 , Ryle, forte di una teoria sistematica delle emo-

77 A ben vedere, un tale modello non esclude che il sentimento di piacere possa avere una funzio-ne basilare per un sistema omeostatico il cui scopo sia di mantenere in atto (ma non il determinare)un comportamento. (Sarebbe facile immaginare un’integrazione in tal senso dell’analisi lockea-na del caso del beone.) Un tale modello, inoltre, sarebbe compatibile con la definizione “proto-avverbialistica” del piacere fornita da Aristotele nell’Etica Nicomachea, di cui si tratterà in conclu-sione. A ogni modo, rimane da sottolineare come si tratterebbe di due sistemi omeostatici (e di duemeccanismi psicologici motivazionali) differenti, regolandosi su obiettivi e su parametri di attiva-zione ben distinti – ciò che va contro sia la concezione popolare del continuum piacere-dolore, siacontro le teorie psicologiche e neuropsicologiche che paiono assumere in modo ovvio tale concezio-ne (ad es. A.R. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, cit.), integrate(o meno) a loro volta in teorie decisionali di tipo cognitivistico.

78 Tale dibattito si inseriva, a sua volta, nella cornice dei tentativi di fornire un’analisi (riduzio-nistica, quando non eliminativistica) delle emozioni come “fatti pubblici”, ovvero nei termini di

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zioni di tipo eliminativistico79 , presentò un’estesa critica di una simile concezionedel piacere80. Oltre a criticare diversi aspetti delle concezioni correnti del piacerecome sensazione, però, Ryle svolge anche una critica della concezione del piaceree del dolore come sentimenti omogenei ma contrapposti. (Tra i vari argomenti chesi possono avanzare in tal senso, occorrerebbe ad es. prendere atto che il piacere,a differenza del dolore che può talvolta essere inteso come una sensazione somati-ca, mancherebbe sempre della prima caratteristica che una simile sensazione devepossedere, e cioè avere una localizzazione avvertita81 .) Tuttavia, se per Ryle ri-sulta vietato parlare del piacere come di un sentire in senso proprio (per cui nonavrebbe senso nemmeno discorrere di confronti tra piaceri, o di presunti calcoli chene avrebbero di mira la massimizzazione), non è tuttavia vietato riconoscere chequando parliamo di piacere mettiamo a tema un’esperienza peculiare. Per mette-re a fuoco questo punto, Ryle si chiede di che tipo sia «la differenza tra fare unapasseggiata e goderla (taking a walk which one enjoys) e fare una passeggiata pro-vando indifferenza»82 . La sua risposta è che il «godimento di una passeggiata nonè un effetto concomitante, ad es. passibile di introspezione, del passeggiare, taleche si potrebbero fornire due resoconti [distinti], quello della passeggiata e quellodella sua piacevolezza per colui che passeggia»83 . Bisogna, cioè, osservare che af-fermiamo di provare piacere non quando avvertiamo una speciale sensazione, maquando ad es. ci atteggiamo attivamente (ad es. prestando una particolare attenzio-ne)84 e non in maniera passiva rispetto a un medesimo comportarsi. Se si vuole,dunque, per Ryle il piacere non esiste in quanto specie del sentire, o come eventodel provare qualcosa, ma è una qualità peculiare del nostro interesse per un’attivi-tà, ovvero consiste nel modo in cui un’attività, che in altre circostanze o per altririspetti risulta indifferente, può essere svolta.

La soluzione di Ryle apparirà forse sconcertante, ma non tanto perché neghe-

comportamenti relativi al contesto sociale – tentativi che hanno spesso assunto come base i sugge-rimenti avanzati in tal senso dal “secondo” Wittgenstein, e di cui è un risultato classico E. Bedford,“Emotion”, Proceedings of the Aristotelian Society, n. 57, 1956, pp. 281-304.

79 Cfr. G. Ryle, The Concept of Mind, Penguin Books, Harmondsworth 1949.80 Cfr. G. Ryle, “Pleasure”, in Id., Dilemmas, Cambridge University Press, Cambridge 1954,

pp. 54-67.81 Più di recente, anche altri autori (cfr. ad es. M.A. McCloskey, “Pleasure”, Mind, n. 80, 1971,

pp. 542-551) hanno negato che del piacere (e pure di quello “fisico”) si possa sempre adeguatamenteidentificare una localizzazione somatica.

82 G. Ryle, “Pleasure”, cit., p. 135.83 Ibid., p. 138.84 Evans, The Subject of Consciousness, Allen & Unwin-Humanities Press, London-

New York 1970, discute e riprende per esteso la teoria “avverbiale” dell’attenzione esposta con-testualmente in G. Ryle, “Pleasure”, cit., pp. 54-67: ciò che diciamo “fare attenzione” non andrebbecioè considerato come un fatto mentale, ma come un modo (qualificabile come “polimorfico”) disvolgere una qualche attività (che Evans assume essere sempre fisica), ad es. come “fare qualco-sa con cura”, o (appunto) “con piacere”. Evans, inoltre, riconosce che almeno in alcuni casi “fareattenzione” implica svolgere un’attività concomitante a un’altra (ad es. “pensare”): ma questo nonsignificherebbe che tale attività “parallela” debba venire interpretata come un’attività sui generis, os-sia come la peculiare attività del “fare attenzione” – osservazione che può facilmente venire adattatae ripresa in un’interpretazione “avverbialistica” del piacere.

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rebbe il darsi di qualcosa che siamo abituati a chiamare piacere (Ryle nega solola liceità di intendere una tale esperienza come una sensazione atomica), quantopiuttosto perché nega la liceità di interpretare questa esperienza come un even-to psichico cui, magari, potrebbe spettare un ruolo genuinamente motivazionale –ad es., di un “appetito attivo” in senso kantiano. E a una simile idea, come si èvisto, la psicologia popolare (e non solo) rimane legata. D’altro canto, la propostacritica di Ryle lascia aperti ampi spazi, specie per interpretazioni della sua teoria“avverbiale” del piacere che recuperino gli spunti aristotelici volti a caratterizzareil piacere come qualità o come modo dell’agire85 – già ripresi, in realtà, in alcu-ne teorie psicologiche degli affetti che, pur in un’impostazione funzionalistica, simostrano consapevoli di abbandonare un modello definibile come motivazionalein senso stretto86. In ogni caso, pur restando quest’ultima una questione del tuttoaperta, ci si è portati con ciò a una buona distanza di sicurezza dal modello psico-logico popolare incontrato in Sade – rendendoci, forse, capaci di capire meglio unastoria come quella che ci racconta Drella.

Avvertenza

Per i testi pubblicati in rete viene fornita la data dell’ultima versione. La sigla SEPh staper N. Zalta (a cura di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy (URL: http://plato.stanford.edu). Le opere di Kant sono citate secondo le Kant’s gesammelte Schriften,a cura della Königlich Preussische Akademie der Wissenschaften (e prosecutori), Berlin-Leipzig 1900 e sgg. (= Ak). Ne sono state utilizzate le seguenti trr. itt.: Lezioni di psi-

cologia, tr. it. di G.A. De Toni, “Introduzione” di L. Mecacci, Laterza, Roma-Bari 1986(= Psic); Critica della facoltà di giudizio, tr. it. a cura di E. Garroni e H. Hohenegger,Einaudi, Torino 1999.

85 Il fatto che il piacere venga definito da Aristotele sia come l’esercizio senza impedimenti diuna facoltà naturale (Eth. Nic. VII) sia come il compimento di un’attività (Eth. Nic. X) ha posto unevidente problema ai suoi interpreti. In questa sede, tuttavia, sarà sufficiente riconoscere il darsidi tale questione, visto che il problema maggiore appare qui quello di conciliare le interpretazioni,rispettivamente, motivazionale (De anima) e “proto-avverbialistica” (Etica Nicomachea) del piacerefornite da Aristotele.

86 K. Oatley, op. cit., pp. 561-563.

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