Come è faticoso vivere in un mondo che vuole essere "normale" a tutti i costi!

2
Come è faticoso vivere in un mondo che vuole essere "normale" a tutti i costi! Definiamo la normalità. Cosa significa esserenormali? Nell'accezione comune vuol dire avere due gambe e due braccia, non essere "difettosi", muoversi nello spazio con facilità, senza intoppi, senza troppi problemi: rientrare, insomma, in quella che è l'immagine ideale e idealizzata di essere umano. La società in cui viviamo ha notoriamente paura del diverso, come anche del dolore, e le persone comuni avvertono il bisogno di interfacciarsi costantemente con la rassicurante immagine della perfezione. Come se il diverso o l'atipico potessero in qualche modo contagiarle. Sentiamo la necessità di orientarci attraverso punti di riferimento e capisaldi, senza i quali ci sentiamo inesorabilmente persi: in qualche modo, tutto quello che si discosta dalla nostra idea di normalità è potenzialmente in grado minare le certezze che popolano il nostro ordine mentale. E' sempre stato così, anche se fortunatamente ci muoviamo ogni giorno di più verso i lidi dell'accettazione totale e della tolleranza, abbandonando così secoli di ghettizzazioni e di barbare pratiche di esclusione. Nel lontano passato accadeva che neonati con malformazioni venissero brutalmente gettati dalle rupi, o che fossero rinchiusi per sempre in strutture apposite, accuratamente nascosti al resto della società, quasi a voler eliminare dalla vista tutto quello che poteva provocare dolore o turbamento. Oggi (e ci mancherebbe!) non è più così e la condizione del diversamente abile vive, lo possiamo dire, un periodo relativamente felice. Ma, e c'è un MA, assistiamo ancora a spiacevoli episodi di ignoranza e quello, signori miei, è l'aspetto forse più difficile da sradicare. Ci ho pensato poco tempo fa quando Giusy Versace, l'atleta paralimpica che perse entrambe le gambe sulla Salerno - Reggio Calabria, in un'intervista rendeva noti alcuni episodi che hanno visto protagoniste lei con la sua disabilità da un lato e l'ignoranza della gente dall'altra. Come quando decise di stendersi sotto il sole al mare senza le sue protesi e, mentre una bambina curiosa si avvicinava per osservare da vicino quella che per lei era una novità, una mamma particolarmente apprensiva copriva gli occhi della figlia per preservarla da uno spettacolo che l'avrebbe potuta "impressionare". Ci ho pensato anche quando ho avuto la fortuna di incontrare Simona Atzori, la celebre ballerina nata senza le braccia, e quando lei stessa raccontava di quanto fosse stato difficile far capire alla gente che quella, proprio quella, rappresenta la sua normalità. E ci ho pensato quando un'amica non vedente mi raccontava di come si muove su Facebook senza problemi, supportata da una tecnologia che ha fatto passi da gigante. Il corpo e la mente umana sono potenzialmente in grado di abituarsi a tutto, e quello che per molti può essere vissuto come un difetto o una a-normalità, per la persona che la vive rappresenta semplicemente l'unico mondo possibile. E ci penso tutti i giorni, quando faccio i conti con la parola Cancro, quando guardo allo specchio le mie cicatrici e le considero affettuosamente ormai parte di me, quando dopo due anni definisco la mia normalità in modo del tutto diverso: perché se prima la mia routine era andare tutti i giorni al lavoro o programmare le vacanze al mare, oggi la mia normalità è destreggiarmi tra una terapia e l'altra e cercare di tirar fuori il meglio dalle mie giornate. In un mondo che ricerca la perfezione, mentre sempre più donne fanno a gara per avere il seno più bello o il fondoschiena più sodo, io faccio i conti con la mia autostima, con il mio corpo che non è più lo stesso e con la mia femminilità che vacilla. Qualcuno una volta, riferendosi all'intervento chirurgico che mi costò utero e ovaie, mi disse "Hai una disabilità, devi accettarlo e devi accettare di essere diversa". Sbagliato! Perché la mia vita di ora è tutto questo e lo accetto senza discussioni: quello che è faticoso far capire agli altri è che sono semplicemente cambiate le carte in tavola, ma la sostanza è sempre la stessa. Sono sempre io, anche se alcuni pezzi di me sono rimasti in ospedale. Giusy è sempre la stessa anche se non ha più le gambe, Simona è Simona anche se non ha le braccia, il mio amico Ivano (talassemico dalla nascita) è comunque Ivano anche se ogni mese è costretto a fare le trasfusioni di sangue. Mettendo da parte tutti i problemi relativi all'accessibilità o ai servizi destinati ai disabili, perché per questo servirebbe un articolo a parte, è estremamente difficile per una persona con problemi di qualsiasi genere interfacciarsi con la società in cui viviamo, che pur essendo più aperta rispetto a uno scomodo passato riesce comunque ad essere anche molto materialista e legata all'immagine. Forse prima, da persona normodotata quale ero, non avrei mai fatto caso a queste vicende, a queste storie di donne e uomini che ogni giorno si scontrano contro una società che ricerca a tutti i costi la perfezione. Ora non posso fare a meno di notare lo sguardo di alcune (fortunatamente poche) persone che, una volta appresa la mia sciagura iniziano a guardarmi con occhio diverso. Quando ammetto la dura verità, "ho il cancro", molte persone non sanno più cosa dire e iniziano ad aver paura di incrociare il mio sguardo.

description

la normalità

Transcript of Come è faticoso vivere in un mondo che vuole essere "normale" a tutti i costi!

Page 1: Come è faticoso vivere in un mondo che vuole essere "normale" a tutti i costi!

Come è faticoso vivere in un mondo che vuole essere "normale" a tutti i costi!

Definiamo la normalità. Cosa significa esserenormali? Nell'accezione comune vuol dire avere due gambe e due braccia, non

essere "difettosi", muoversi nello spazio con facilità, senza intoppi, senza troppi problemi: rientrare, insomma, in quella che è

l'immagine ideale e idealizzata di essere umano.

La società in cui viviamo ha notoriamente paura del diverso, come anche del dolore, e le persone comuni avvertono il bisogno di

interfacciarsi costantemente con la rassicurante immagine della perfezione. Come se il diverso o l'atipico potessero in qualche

modo contagiarle. Sentiamo la necessità di orientarci attraverso punti di riferimento e capisaldi, senza i quali ci sentiamo

inesorabilmente persi: in qualche modo, tutto quello che si discosta dalla nostra idea di normalità è potenzialmente in grado

minare le certezze che popolano il nostro ordine mentale.

E' sempre stato così, anche se fortunatamente ci muoviamo ogni giorno di più verso i lidi dell'accettazione totale e della

tolleranza, abbandonando così secoli di ghettizzazioni e di barbare pratiche di esclusione. Nel lontano passato accadeva che

neonati con malformazioni venissero brutalmente gettati dalle rupi, o che fossero rinchiusi per sempre in strutture apposite,

accuratamente nascosti al resto della società, quasi a voler eliminare dalla vista tutto quello che poteva provocare dolore o

turbamento. Oggi (e ci mancherebbe!) non è più così e la condizione del diversamente abile vive, lo possiamo dire, un periodo

relativamente felice. Ma, e c'è un MA, assistiamo ancora a spiacevoli episodi di ignoranza e quello, signori miei, è l'aspetto forse

più difficile da sradicare.

Ci ho pensato poco tempo fa quando Giusy Versace, l'atleta paralimpica che perse entrambe le gambe sulla Salerno - Reggio

Calabria, in un'intervista rendeva noti alcuni episodi che hanno visto protagoniste lei con la sua disabilità da un lato e

l'ignoranza della gente dall'altra. Come quando decise di stendersi sotto il sole al mare senza le sue protesi e, mentre una

bambina curiosa si avvicinava per osservare da vicino quella che per lei era una novità, una mamma particolarmente apprensiva

copriva gli occhi della figlia per preservarla da uno spettacolo che l'avrebbe potuta "impressionare".

Ci ho pensato anche quando ho avuto la fortuna di incontrare Simona Atzori, la celebre ballerina nata senza le braccia, e quando

lei stessa raccontava di quanto fosse stato difficile far capire alla gente che quella, proprio quella, rappresenta la sua normalità. E

ci ho pensato quando un'amica non vedente mi raccontava di come si muove su Facebook senza problemi, supportata da una

tecnologia che ha fatto passi da gigante.

Il corpo e la mente umana sono potenzialmente in grado di abituarsi a tutto, e quello che per molti può essere vissuto come un

difetto o una a-normalità, per la persona che la vive rappresenta semplicemente l'unico mondo possibile. E ci penso tutti i giorni,

quando faccio i conti con la parola Cancro, quando guardo allo specchio le mie cicatrici e le considero affettuosamente ormai

parte di me, quando dopo due anni definisco la mia normalità in modo del tutto diverso: perché se prima la mia routine era

andare tutti i giorni al lavoro o programmare le vacanze al mare, oggi la mia normalità è destreggiarmi tra una terapia e l'altra e

cercare di tirar fuori il meglio dalle mie giornate.

In un mondo che ricerca la perfezione, mentre sempre più donne fanno a gara per avere il seno più bello o il fondoschiena più

sodo, io faccio i conti con la mia autostima, con il mio corpo che non è più lo stesso e con la mia femminilità che vacilla.

Qualcuno una volta, riferendosi all'intervento chirurgico che mi costò utero e ovaie, mi disse "Hai una disabilità, devi accettarlo

e devi accettare di essere diversa".

Sbagliato! Perché la mia vita di ora è tutto questo e lo accetto senza discussioni: quello che è faticoso far capire agli altri è che

sono semplicemente cambiate le carte in tavola, ma la sostanza è sempre la stessa. Sono sempre io, anche se alcuni pezzi di me

sono rimasti in ospedale. Giusy è sempre la stessa anche se non ha più le gambe, Simona è Simona anche se non ha le braccia, il

mio amico Ivano (talassemico dalla nascita) è comunque Ivano anche se ogni mese è costretto a fare le trasfusioni di sangue.

Mettendo da parte tutti i problemi relativi all'accessibilità o ai servizi destinati ai disabili, perché per questo servirebbe un

articolo a parte, è estremamente difficile per una persona con problemi di qualsiasi genere interfacciarsi con la società in cui

viviamo, che pur essendo più aperta rispetto a uno scomodo passato riesce comunque ad essere anche molto materialista e

legata all'immagine. Forse prima, da persona normodotata quale ero, non avrei mai fatto caso a queste vicende, a queste storie

di donne e uomini che ogni giorno si scontrano contro una società che ricerca a tutti i costi la perfezione. Ora non posso fare a

meno di notare lo sguardo di alcune (fortunatamente poche) persone che, una volta appresa la mia sciagura iniziano a

guardarmi con occhio diverso. Quando ammetto la dura verità, "ho il cancro", molte persone non sanno più cosa dire e iniziano

ad aver paura di incrociare il mio sguardo.

Page 2: Come è faticoso vivere in un mondo che vuole essere "normale" a tutti i costi!

Siamo sulla buona strada, e lo testimonia tutto il supporto e lo slancio comunicativo che vivo tutti i giorni in Rete e nella vita

reale, ma per trasformare realmente la diversità in normalità pienamente accettata serve uno sforzo in più, perché finché ci

saranno madri che nascondono ai figli il mondo con tutti i suoi problemi e difficoltà, le nuove generazioni cresceranno

inesorabilmente viziate da comportamenti di esclusione e ignoranza. La sofferenza, come anche la morte e la malattia, come la

disabilità o i disordini mentali, fanno parte della realtà e dovrebbero essere annoverati non tra le eccezioni ma fra le tante

possibili strade della vita.