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COME CAMBIARE LA STORIA DELL’UMANITÀ https://www.eurozine.com/come-cambiare-la-storia-dellumanita/ David Graeber e David Wengrow, Eurozine, Austria La disuguaglianza è considerata una conseguenza inevitabile della civiltà. Ma molti studi smentiscono questa tesi e suggeriscono che un’alternativa è possibile Per spiegare le origini della disuguaglianza sociale, da secoli ci raccontiamo una storia piuttosto semplice. Per la maggior parte della loro esistenza, gli esseri umani hanno vissuto in minuscoli gruppi ugualitari di cacciatori-raccoglitori. Poi è arrivata l’agricoltura, che ha portato con sé la proprietà privata, e sono apparse le città. Questo ha determinato la nascita della civiltà propriamente detta. La civiltà ha significato molte cose brutte (guerre, tasse, burocrazia, patriarcato, schiavitù), ma ha anche reso possibile la letteratura scritta, la scienza, la filosofia e tante altre grandi conquiste umane. Quasi tutti conoscono questa storia nelle linee generali. Almeno dai tempi di Jean- Jacques Rousseau, riassume le nostre idee sul disegno generale e la direzione della storia dell’umanità. Ed è un fatto importante, perché questa narrazione definisce anche il nostro senso della possibilità politica. Molti considerano la civiltà, e quindi la disuguaglianza, una tragica necessità. Alcuni sognano di tornare a un passato utopico, di trovare un equivalente industriale del “comunismo primitivo” o addirittura, in casi estremi, di distruggere tutto e ricominciare a essere cacciatori e raccoglitori. Ma nessuno mette in discussione la struttura di base della storia. Eppure c’è un problema di fondo in questa narrazione: non è vera. L’archeologia, l’antropologia e le discipline affini offrono prove schiaccianti che cominciano a delineare un quadro piuttosto chiaro degli ultimi quarantamila anni della storia umana, e questo quadro non somiglia affatto alla narrazione convenzionale. In realtà la nostra specie non ha passato gran parte della sua storia in minuscoli gruppi; l’agricoltura non ha segnato una svolta irreversibile nell’evoluzione sociale; le prime città spesso furono profondamente ugualitarie. Anche se i ricercatori sono gradualmente arrivati a un consenso generale su questi temi, gli autori che riflettono sui “grandi problemi” della storia umana – Jared Diamond, Francis Fukuyama, Ian Morris e altri – continuano a prendere come punto di partenza l’interrogativo di Rousseau (“Qual è l’origine della disuguaglianza sociale?”) e danno per scontato che la grande storia cominci con una sorta di perdita dell’innocenza primordiale. Già solo inquadrare la questione in questi termini significa partire da una serie di presupposti: che esiste una cosa che si chiama disuguaglianza, che la disuguaglianza è un problema e che c’è stato un tempo in cui la disuguaglianza non esisteva. Con la crisi

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COME CAMBIARE LA STORIA DELL’UMANITÀ

https://www.eurozine.com/come-cambiare-la-storia-dellumanita/

David Graeber e David Wengrow, Eurozine, Austria

La disuguaglianza è considerata una conseguenza inevitabile della civiltà. Ma molti studi smentiscono questa tesi e suggeriscono che un’alternativa è possibile

Per spiegare le origini della disuguaglianza sociale, da secoli ci raccontiamo una storia piuttosto semplice. Per la maggior parte della loro esistenza, gli esseri umani hanno vissuto in minuscoli gruppi ugualitari di cacciatori-raccoglitori. Poi è arrivata l’agricoltura, che ha portato con sé la proprietà privata, e sono apparse le città. Questo ha determinato la nascita della civiltà propriamente detta. La civiltà ha significato molte cose brutte (guerre, tasse, burocrazia, patriarcato, schiavitù), ma ha anche reso possibile la letteratura scritta, la scienza, la filosofia e tante altre grandi conquiste umane.

Quasi tutti conoscono questa storia nelle linee generali. Almeno dai tempi di Jean-Jacques Rousseau, riassume le nostre idee sul disegno generale e la direzione della storia dell’umanità. Ed è un fatto importante, perché questa narrazione definisce anche il nostro senso della possibilità politica. Molti considerano la civiltà, e quindi la disuguaglianza, una tragica necessità. Alcuni sognano di tornare a un passato utopico, di trovare un equivalente industriale del “comunismo primitivo” o addirittura, in casi estremi, di distruggere tutto e ricominciare a essere cacciatori e raccoglitori. Ma nessuno mette in discussione la struttura di base della storia. Eppure c’è un problema di fondo in questa narrazione: non è vera.

L’archeologia, l’antropologia e le discipline affini offrono prove schiaccianti che cominciano a delineare un quadro piuttosto chiaro degli ultimi quarantamila anni della storia umana, e questo quadro non somiglia affatto alla narrazione convenzionale. In realtà la nostra specie non ha passato gran parte della sua storia in minuscoli gruppi; l’agricoltura non ha segnato una svolta irreversibile nell’evoluzione sociale; le prime città spesso furono profondamente ugualitarie. Anche se i ricercatori sono gradualmente arrivati a un consenso generale su questi temi, gli autori che riflettono sui “grandi problemi” della storia umana – Jared Diamond, Francis Fukuyama, Ian Morris e altri – continuano a prendere come punto di partenza l’interrogativo di Rousseau (“Qual è l’origine della disuguaglianza sociale?”) e danno per scontato che la grande storia cominci con una sorta di perdita dell’innocenza primordiale.

Già solo inquadrare la questione in questi termini significa partire da una serie di presupposti: che esiste una cosa che si chiama disuguaglianza, che la disuguaglianza è un problema e che c’è stato un tempo in cui la disuguaglianza non esisteva. Con la crisi

finanziaria del 2008 e gli sconvolgimenti che ne sono seguiti, il “problema della disu-guaglianza sociale” è diventato centrale nel dibattito pubblico. Negli ambienti politici e intellettuali sembra dominare la convinzione che i livelli di disuguaglianza sociale siano aumentati a dismisura sfuggendo a ogni controllo e che da questo, in un modo o nell’altro, dipendano quasi tutti i problemi del mondo. Oggi denunciare questa realtà è considerato una sfida alle strutture di potere globale, ma pensate a come questi problemi sarebbero stati discussi una generazione fa. A differenza di termini come “capitale” o “potere di classe”, la parola “disuguaglianza” sembra fatta apposta per condurre a mezze misure e compromessi. Si può immaginare di rovesciare il capitalismo o di abbattere il potere dello stato, ma è molto difficile immaginare di cancellare la “disuguaglianza”. Di fatto, non è neppure chiaro cosa significhi, perché le persone non sono tutte uguali e nessuno vorrebbe davvero che lo fossero.

“Disuguaglianza” è un modo di inquadrare i problemi sociali adatto ai tecnocrati riformisti, i quali partono dal presupposto che qualunque reale trasformazione sociale è esclusa dal dibattito politico da molto tempo. Consente di armeggiare con i numeri, ragionare sui coefficienti di Gini, ricalibrare i regimi fiscali e lo stato sociale, consente perfino di spaventare l’opinione pubblica con cifre che dimostrano quanto è peggiorata la situazione (“Ci pensate? Lo 0,1 per cento della popolazione mondiale controlla più del 50 per cento della ricchezza!”), e tutto ciò senza affrontare nessuno degli aspetti che la gente critica realmente di questi ordinamenti sociali così “disuguali”: per esempio il fatto che alcuni riescono a trasformare la loro ricchezza in potere, mentre altre persone si sentono dire che le loro esigenze non sono importanti e la loro vita non ha un valore in sé. Tutto questo sarebbe solo l’effetto inevitabile della disuguaglianza, e la disuguaglianza sarebbe la conseguenza ineludibile del vivere in qualunque società grande, complessa, urbana e tecnologicamente sofisticata.

Le scienze sociali dominanti oggi sembrano voler rafforzare questo senso d’impotenza. Quasi ogni mese ci troviamo davanti a pubblicazioni che cercano di proiettare sull’età della pietra l’attuale ossessione per la distribuzione della proprietà, e ci spingono a una falsa ricerca di “società ugualitarie” definite in termini che ne rendono impossibile l’esistenza al di fuori di qualche minuscolo gruppo di cacciatori-raccoglitori (e forse neanche in quelli).

L’opinione comune sul corso generale della storia umana si può riassumere più o meno così: circa duecentomila anni fa, alla comparsa dell’Homo sapiens anatomicamente moderno, la nostra specie viveva in gruppi piccoli e mobili che comprendevano tra i venti e i quaranta individui. Cercavano i territori migliori per cacciare e procurarsi da mangiare, seguendo i branchi, raccogliendo noci e bacche. Quando le risorse cominciavano a scarseggiare o emergevano tensioni sociali, reagivano spostandosi altrove. Per questi primi esseri umani – potremmo parlare di infanzia dell’umanità – la vita era piena di pericoli, ma anche di possibilità. C’erano pochi beni materiali, ma il mondo era un posto incontaminato e invitante. La maggior parte di loro lavorava solo poche ore al giorno, e le dimensioni ridotte dei gruppi sociali permettevano di mantenere un disinvolto ca-meratismo, senza strutture formali di dominio. Nel settecento Rousseau lo definì “stato

di natura”, ma oggi si presume che sia durato per la maggior parte della nostra storia. Si presume anche che quella fu l’unica era in cui gli umani riuscirono a vivere in autentiche società di uguali, senza classi, caste, capi ereditari o governi centralizzati.

Purtroppo questo idillio era destinato a finire. La versione convenzionale della storia mondiale colloca questo momento intorno a diecimila anni fa, al termine dell’ultima era glaciale. A quel punto, i nostri immaginari attori umani erano sparsi in tutti i continenti, e cominciarono a coltivare la terra e ad allevare il bestiame. Quali che fossero le ragioni a livello locale (l’argomento è oggetto di discussione), gli effetti furono epocali, e sostanzialmente identici dappertutto. L’attaccamento al territorio e la proprietà privata dei beni acquistarono un’importanza prima sconosciuta, e cominciarono scontri sporadici e guerre.

L’agricoltura garantiva un’eccedenza di cibo, che permise ad alcuni di accumulare ricchezza e potere al di là del ristretto gruppo familiare. Altri usarono l’affrancamento dalla ricerca di cibo per sviluppare nuove abilità, come costruire armi, utensili, veicoli e fortificazioni o per dedicarsi alla politica e alla religione organizzata. Di conseguenza, questi “agricoltori del neolitico” ebbero presto la meglio sui loro vicini cacciatori-raccoglitori e cominciarono a eliminarli o assorbirli in un nuovo stile di vita, superiore ma meno ugualitario.

A complicare ulteriormente le cose, così continua la storia, l’agricoltura provocò un aumento globale della popolazione. Man mano che si univano in concentrazioni sempre più grandi, i nostri progenitori fecero un altro passo irreversibile verso la disuguaglianza e circa seimila anni fa comparvero le città: a quel punto il nostro destino fu segnato. Con le città arrivò l’esigenza di un governo centrale. Nuove classi di burocrati, sacerdoti e politici-guerrieri assunsero cariche permanenti per mantenere l’ordine e garantire i servizi pubblici e la regolarità degli approvvigionamenti. Le donne, che un tempo avevano un ruolo preminente negli affari umani, furono isolate o imprigionate negli harem. I prigio-nieri di guerra diventarono schiavi. Arrivò la vera e propria disuguaglianza, e non ci fu modo di liberarsene.

Eppure, ci assicurano sempre i narratori, la nascita della civiltà urbana ebbe anche aspetti positivi. Fu inventata la scrittura, in un primo momento per tenere la contabilità dello stato, che consentì progressi straordinari nella scienza, nella tecnologia e nelle arti. A prezzo dell’innocenza siamo diventati moderni, e ora possiamo solo guardare con compassione e invidia a quelle poche società “tradizionali” o “primitive” che in qualche modo hanno perso il treno.

Dalle bande agli imperi

Questa è la storia che, come abbiamo detto, costituisce la base di tutto il dibattito con-temporaneo sulla disuguaglianza. Se un esperto di relazioni internazionali o uno psicologo vogliono riflettere su questi temi, probabilmente daranno per scontato che per gran parte della loro storia gli esseri umani hanno vissuto in piccoli gruppi ugualitari o che la nascita delle città ha determinato la nascita dello stato. Lo stesso vale per i libri più

recenti che guardano alla preistoria per trarre conclusioni politiche attinenti alla realtà contemporanea. Prendiamo The origins of political order (2011) del politologo Francis Fukuyama:

Nelle sue prime fasi, l’organizzazione politica umana è simile alla società in bande che si può osservare nei primati superiori come gli scimpanzé. Può essere considerata come una forma quasi automatica di organizzazione sociale. Rousseau ha sottolineato che l’origine della disuguaglianza politica va ricercata nello sviluppo dell’agricoltura, e ha in larga misu-ra ragione. Il biologo Jared Diamond, nel suo saggio Il mondo fino a ieri (Einaudi 2012), suggerisce che queste bande (in cui ritiene che gli esseri umani abbiano vissuto “fino ad appena undicimila anni fa”) comprendevano solo “poche decine di individui”, per lo più biologicamente imparentati, e conclude che solo in questi gruppi primordiali la specie umana ha raggiunto un grado significativo di uguaglianza sociale.

Per Diamond e Fukuyama, come per Rousseau qualche secolo prima, a mettere fine a quell’uguaglianza – ovunque e per sempre – furono l’invenzione dell’agricoltura e il conseguente aumento della popolazione. L’agricoltura provocò una transizione dalle “bande” alle “tribù”. Le eccedenze alimentari consentirono la crescita della popolazione, portando alcune “tribù” a svilupparsi in società gerarchiche governate da un capotribù.

Ben presto i capitribù si proclamarono re e perfino imperatori. Resistere non aveva senso. Una volta adottate forme di organizzazione grandi e complesse le conseguenze erano inevitabili. Equando i capi cominciarono a comportarsi male – appropriandosi delle eccedenze di cibo per favorire parenti e lacchè, rendendo la loro posizione permanente ed ereditaria, collezionando crani come trofei e harem di schiave o strappando il cuore dei rivali con coltelli di ossidiana – era troppo tardi per tornare indietro. “Le popolazioni numerose”, sostiene Diamond, “non possono funzionare senza capi che prendono le decisioni, esecutori che le attuano e burocrati che amministrano le decisioni e le leggi”.

Anche gli antropologi e gli archeologi, quando cercano di dare un quadro complessivo, finiscono molto spesso per ripetere la versione di Rousseau, con qualche piccola variazione. In The creation of inequality (2012), Kent Flannery e Joyce Marcus impiegano circa cinquecento pagine di studi etnografici e archeologici per cercare di risolvere il mistero. L’aspetto curioso del libro di Flannery e Marcus è che tutti gli aspetti davvero cruciali della loro ricostruzione delle “origini della disuguaglianza” si basano su osservazioni relativamente recenti di raccoglitori, allevatori e coltivatori su piccola scala, come gli hadza della Rift valley in Africa orientale o i nambikwara della foresta pluviale amazzonica. Le descrizioni di queste “società tradizionali” sono trattate come se fossero finestre sull’era del paleolitico o del neolitico. Il problema è che non è affatto così. Gli hadza e i nambikwara non sono fossili viventi. Sono in contatto da millenni con stati agrari e imperi, razziatori e mercanti, e le loro istituzioni sociali si sono formate in seguito ai tentativi di trattare con loro o di evitarli. Solo l’archeologia può dirci se hanno qualcosa in comune con le società preistoriche. Anche se Flannery e Marcus offrono molti spunti

interessanti su come potrebbero nascere le disuguaglianze nelle società umane, non ci danno molte ragioni per credere che le cose siano andate realmente così.

Il paradosso di Rousseau

La cosa veramente bizzarra di tutte queste evocazioni dello stato di natura di Rousseau e della perdita dell’innocenza è che lo stesso Rousseau non ha mai sostenuto che lo stato di natura fosse esistito davvero. Era solo un esercizio teorico. Nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini del 1754, su cui si basa gran parte della storia che ci siamo raccontati, Rousseau scrive:

Le ricerche che possiamo fare in questa occasione non vanno prese per verità storiche, ma solo come ragionamenti ipotetici e condizionali, più adatte a chiarire la natura delle cose che a svelarne la vera origine. Lo stato di natura di Rousseau non è mai stato concepito come una fase dello sviluppo. Era piuttosto un racconto allegorico. Come ha sottolineato la politologa Judith Shklar, in realtà Rousseau stava cercando di approfondire quello che considerava il paradosso fondamentale della politica umana, e cioè che la nostra innata ricerca della libertà in qualche modo ci porta ogni volta a una “spontanea marcia verso la disuguaglianza”.

Dobbiamo concludere che i rivoluzionari non si sono dimostrati molto ricchi d’im-maginazione, soprattutto quando si tratta di collegare passato, presente e futuro. Tutti continuano a raccontare la stessa storia. Probabilmente non è un caso se oggi, agli albori del nuovo millennio, i movimenti rivoluzionari più vitali e creativi, come gli zapatisti del Chiapas e i curdi del Rojava, sono quelli che si radicano in un passato profondamente tradizionale. Invece di immaginare una qualche utopia primordiale, possono ispirarsi a una narrazione più complessa. Di fatto sembra esserci una consapevolezza sempre maggiore, negli ambienti rivoluzionari, che la libertà, la tradizione e l’immaginazione sono state e saranno sempre intrecciate in modi che non comprendiamo fino in fondo. È arrivato il momento che anche tutti gli altri si aggiornino e comincino a considerare una versione non biblica della storia umana.

Quindi cosa ci hanno insegnato davvero le ricerche archeologiche e antropologiche condotte dopo Rousseau? Per prima cosa, che probabilmente interrogarsi sulle “origini della disuguaglianza sociale” è un punto di partenza sbagliato. La verità è che non abbiamo idea di come fosse la vita sociale umana prima dell’inizio di quello che chia-miamo paleolitico superiore.

Le più antiche prove concrete sull’organizzazione sociale umana nel paleolitico vengono soprattutto dall’Europa, dove la nostra specie visse a fianco dell’Homo nean-derthalensis fino all’estinzione di quest’ultimo circa quarantamila anni fa. A quell’epoca, e per tutto l’ultimo massimo glaciale, le zone abitabili dell’Europa somigliavano più al parco del Serengeti in Tanzania che a un qualunque habitat europeo di oggi. A sud delle calotte glaciali, fra la tundra e le sponde del Mediterraneo, si stendevano vallate popolate da animali selvatici e steppe attraversate da mandrie di cervi, bisonti e mammut. Gli

studiosi della preistoria ribadiscono da decenni – a quanto sembra con scarsi risultati – che gli abitanti di questi ambienti non avevano niente in comune con quelle bande ugualitarie e semplici di cacciatori-raccoglitori che immaginiamo come nostri lontani progenitori.

Tanto per cominciare c’è l’esistenza indiscussa di ricche sepolture, che risalgono fino al culmine dell’era glaciale.

Nel permafrost sotto l’insediamento paleolitico di Sunghir, a est di Mosca, è stata trovata la tomba di un uomo di mezza età sepolto – come osserva Felipe Fernándes-Armesto nella sua recensione di The creation of inequalitysul Wall Street Journal – con “stupe-facenti segni di prestigio sociale: braccialetti d’avorio, un diadema di denti di volpe e quasi tremila perle d’avorio laboriosamente scolpite e levigate”. Apochi metri di distanza, in una tomba identica, “giacevano due bambini di 10 e 13 anni, adorni di doni funerari dello stesso tipo, comprese circa cinquemila perle e una lancia d’avorio”.

Sito di sepoltura paleotica a Sungir, Russia, Fonte: Wiki Commons

Sepolture altrettanto ricche sono state scoperte nelle grotte e negli insediamenti del paleolitico superiore in gran parte dell’Eurasia occidentale. Per esempio, la “signora di Saint-Germain-de-la-Rivière”, risalente a 16mila anni fa, che indossava ornamenti realizzati con i denti di giovani cervi cacciati a trecento chilometri di distanza, nel paese basco spagnolo, e le sepolture della costa ligure, come quella del “giovane principe”, che nel suo corredo funerario ha una lunga lama di selce, bastoni di corna di alce e un elaborato copricapo di conchiglie traforate e denti di cervo. Questi ritrovamenti pongono sfide interpretative stimolanti. Ha ragione Fernández-Armesto nel sostenere che sono le prove di un “potere ereditato”? Qual era lo status di questi individui?

Non meno misteriose sono le sporadiche ma affascinanti tracce di architettura monumentale che risalgono all’ultimo massimo glaciale. Il pleistocene non ha nulla di paragonabile per dimensioni alle piramidi di Giza o al Colosseo. Però ha costruzioni che, per gli standard dell’epoca, potevano essere considerate solo opere pubbliche, perché implicano una progettazione sofisticata e un impressionante coordinamento della manodopera. Tra queste ci sono le straordinarie “case dei mammut”, costituite da una struttura di zanne rivestita di pelli, di cui si possono trovare esempi databili intorno a 15mila anni fa nella fascia tra Cracovia e Kiev.

Ancora più stupefacenti sono i templi di pietra di Göbekli Tepe, rinvenuti più di vent’anni fa alla frontiera tra Siria e Turchia e tuttora al centro di un vivace dibattito scientifico.

Databili intorno a 11mila anni fa, proprio alla fine dell’ultima era glaciale, comprendono almeno venti recinti megalitici. Ognuno era formato da pilastri di calcare alti più di cinque metri e pesanti fino a una tonnellata. Quasi ogni megalite di Göbekli Tepe è un’impressionante opera d’arte, ornata da bassorilievi di animali feroci con i genitali maschili orgogliosamente in mostra. Uccelli rapaci si alternano a immagini di teste umane mozzate. Le incisioni danno prova di capacità scultoree che erano state certamente affinate sul più malleabile legno. Malgrado le loro dimensioni, ciascuna di queste enormi strutture ebbe una vita relativamente breve, che si concluse con un grande banchetto e l’interramento delle sue mura: gerarchie innalzate per essere subito abbattute. I protagonisti di questo spettacolo di costruzione e distruzione erano, per quanto ci è dato sapere, cacciatori-raccoglitori che vivevano dei frutti della natura.

Göbekli Tepe. Fonte: Flickr

Cosa dovremmo dedurne allora? Alcuni studiosi suggeriscono di abbandonare completamente l’idea di un’età dell’oro ugualitaria e concludere che l’interesse egoistico e l’accumulazione del potere sono le forze che da sempre sottendono lo sviluppo sociale umano. Ma neanche questo funziona davvero. I segni di disuguaglianza strutturale nelle società dell’era glaciale sono solo sporadici. Le sepolture appaiono a secoli e spesso a centinaia di chilometri di distanza.

Regni stagionali

Anche se questo fosse dovuto alla frammentarietà delle prove, dobbiamo chiederci perché le prove sono così frammentarie: se questi “principi” dell’era glaciale si fossero comportati come i principi dell’età del bronzo, troveremmo anche fortificazioni, magazzini, palazzi e tutti i segni degli stati emergenti. Invece, per decine di millenni vediamo monumenti e sepolture magnifiche, ma poco altro che indichi la comparsa di società gerarchiche. Poi ci sono elementi ancora più strani, come il fatto che la maggioranza delle sepolture “principesche” contiene individui con impressionanti anomalie fisiche che oggi sarebbero considerati giganti, gobbi o nani.

Un’analisi più ampia dei reperti archeologici suggerisce una risposta che riguarda i ritmi stagionali della vita sociale preistorica. Gran parte dei siti paleolitici citati fin qui sono associati a segni di aggregazioni annuali o biennali, legate alle migrazioni degli animali – che si tratti di mammut, bisonti della steppa, renne o (nel caso di Göbekli Tepe) gazzelle – o alle migrazioni cicliche dei pesci e ai raccolti di noci.

In periodi meno favorevoli dell’anno, almeno alcuni dei nostri antenati dell’era glaciale sicuramente vivevano e si procuravano da mangiare in piccoli gruppi. Ma ci sono prove schiaccianti che in altri momenti si riunivano in massa in micro-città come quelle trovate a Dolni Vĕstonice, nella Repubblica Ceca, per approfittare della sovrabbondanza di risorse naturali, impegnarsi in complessi rituali e imprese artistiche e scambiare minerali, conchiglie e pelli di animali, coprendo distanze impressionanti. Gli equivalenti di questi siti di aggregazione stagionale in Europa occidentale sarebbero i grandi rifugi rupestri del Périgord francese e della costa cantabrica, con i loro famosi dipinti e le celebri incisioni, che facevano anch’essi parte di un ciclo annuale di aggregazione e dispersione.

Questi modelli stagionali di vita sociale sopravvissero a lungo dopo l’“invenzione dell’agricoltura”, che in teoria avrebbe dovuto cambiare tutto. Nuove prove dimostrano che questo genere di ciclicità potrebbe essere la chiave per comprendere i famosi monumenti neolitici della piana di Salisbury. Stonehenge sarebbe solo l’ultima di una lunghissima sequenza di strutture rituali in legno o in pietra che venivano erette quando la gente arrivava nella pianura dagli angoli più remoti delle isole britanniche in certi periodi dell’anno. Gli scavi hanno dimostrato che molte di queste strutture – ora interpretate plausibilmente come monumenti ai progenitori di potenti dinastie del neolitico – furono smantellate poche generazioni dopo la loro costruzione.

La cosa impressionante è che questa abitudine di erigere e smantellare monumenti grandiosi coincide con un periodo in cui i popoli del Regno Unito, che avevano importato l’economia agricola del neolitico dall’Europa continentale, sembravano aver abbandonato un aspetto essenziale, interrompendo la coltivazione dei cereali e tornando – intorno al 3300 aC – alla raccolta di nocciole come risorsa alimentare di base. I costruttori di Stonehenge continuavano ad allevare bovini e probabilmente non erano né agricoltori né cacciatori-raccoglitori, ma una via di mezzo. Ese nella stagione festiva, quando si radunavano in massa, s’instaurava qualcosa di simile a una corte reale, questa non poteva che dissolversi per buona parte dell’anno, quando le stesse persone tornavano a sparpagliarsi in tutta l’isola.

Perché queste variazioni stagionali sono importanti? Perché rivelano che fin dall’inizio gli esseri umani hanno consapevolmente sperimentato diverse possibilità sociali. Secondo gli antropologi le società di questo tipo erano caratterizzate da una “doppia morfologia”. All’inizio del novecento Marcel Mauss osservò che gli inuit dell’Artico “e analogamente molte altre società hanno due strutture sociali, una d’estate e l’altra d’inverno, e due sistemi di legge e di religione paralleli”. Nei mesi estivi gli inuit si disperdevano in piccole bande patriarcali, ciascuna sotto l’autorità di un unico maschio anziano, alla ricerca di pesci d’acqua dolce, caribù e renne. La proprietà privata era chiaramente contrassegnata e i patriarchi esercitavano un potere coercitivo, a volte addirittura tirannico, sui loro familiari. Ma nei lunghi mesi invernali, quando foche e trichechi affollavano il litorale artico, subentrava un’altra struttura sociale e gli inuit si riunivano per costruire grandi case comuni di legno, ossa di balena e pietra. In queste case regnavano i princìpi dell’uguaglianza, dell’altruismo e della vita collettiva; la ricchezza veniva condivisa; mariti e mogli si scambiavano i partner sotto l’egida della dea Sedna.

Ancora più sorprendenti, in termini di capovolgimenti politici, erano le pratiche stagionali delle confederazioni tribali dell’ottocento nelle grandi pianure americane: agricoltori occasionali o ex agricoltori che avevano adottato una vita nomade dedita alla caccia. Alla fine dell’estate, piccole bande di cheyenne e lakota si riunivano in grandi insediamenti per prepararsi alla caccia al bisonte. In questo importantissimo periodo dell’anno creavano una forza di polizia che aveva poteri coercitivi assoluti, compreso il diritto di imprigionare, frustare o multare qualunque trasgressore ostacolasse i preparativi. Eppure, come ha osservato l’antropologo Robert Lowie, questo “indubbio autoritarismo” era temporaneo, e cedeva il posto a forme di organizzazione più “anarchiche” una volta conclusa la stagione della caccia e i rituali collettivi che la seguivano.

Avanti e indietro

I reperti archeologici suggeriscono che negli ambienti molto stagionali dell’ultima era glaciale i nostri progenitori si comportavano in modi assai simili: alternando ordinamenti sociali molto diversi, consentendo la comparsa di strutture autoritarie in certi periodi dell’anno a condizione che non potessero durare, e con l’intesa che nessun particolare ordine sociale era mai fisso o immutabile. All’interno della stessa popolazione si poteva vivere in quella che a volte sembra una banda, alter volte una tribù e altre volte ancora una società con molte delle caratteristiche che oggi attribuiamo agli stati.

Questa flessibilità istituzionale offre la possibilità di uscire dai confini di una certa struttura sociale e riflettere, di fare e disfare i mondi politici in cui si vive. Se non altro, questo spiega i “principi” e le “principesse” dell’ultima era glaciale, che sembrano i personaggi di una fiaba o di un di un dramma in costume. Forse lo erano, quasi letteralmente. Se mai hanno regnato, forse è stato – come per i re e le regine di Stonehenge – per una sola stagione.

Gli autori moderni tendono a usare la preistoria per riflettere su problemi filosofici: gli esseri umani sono sostanzialmente buoni o cattivi, collaborativi o competitivi, ugualitari o gerarchici? Quindi tendono a scrivere come se per il 95 per cento della storia della nostra specie le società siano state in larga misura sempre uguali. Ma quarantamila anni sono un periodo lungo, lunghissimo. Sembra altamente probabile, e le prove lo confermano, che quegli stessi pionieri umani che colonizzarono gran parte del pianeta abbiano anche sperimentato un’enorme varietà di ordinamenti sociali.

Come spesso ha sottolineato Claude Lévi-Strauss, i primi Homo sapiens non erano uguali agli umani moderni solo fisicamente, ma anche a livello intellettuale. Molto probabilmente erano più consapevoli del potenziale della società di quanto generalmente lo siamo oggi, visto che ogni anno passavano da una forma di organiz-zazione all’altra. Invece di oziare in un’innocenza primordiale finché il genio della disuguaglianza è riuscito in qualche modo a liberarsi, i nostri antenati preistorici sembrano essere riusciti ad aprire e chiudere regolarmente la bottiglia, confinando la disuguaglianza nei drammi in costume rituali, costruendo divinità e regni come costruivano i loro monumenti per poi smantellarli allegramente.

Se è così allora non dovremmo chiederci quali sono le origini delle disuguaglianze sociali, ma perché – dato che abbiamo passato una parte così grande della nostra storia facendo avanti e indietro fra sistemi politici diversi – a un certo punto siamo rimasti bloccati. Tutto questo è molto distante dalla nozione che le società preistoriche siano scivolate ciecamente verso le catene istituzionali che le hanno legate. Eanche dalle cupe profezie di Fukuyama, Diamond e altri, secondo cui ogni forma di organizzazione sociale complessa comporta necessariamente che piccole élite prendano il controllo delle risorse chiave e comincino a calpestare tutti gli altri. La maggior parte delle scienze sociali le considera verità autoevidenti, ma sono infondate. Quindi potremmo chiederci quali altre verità acclarate dovrebbero essere gettate nella pattumiera della storia.

L’idea che l’agricoltura abbia segnato una grande transizione nelle società umane non è più sostenuta da prove concrete. Nelle parti del mondo dove animali e piante furono addomesticati per la prima volta, non c’è stato un passaggio repentino e riconoscibile dal cacciatore-raccoglitore del paleolitico all’agricoltore del neolitico. La “transizione” da un’esistenza basata sulle risorse spontanee a una basata sulla produzione del cibo di regola ha richiesto qualcosa come tremila anni. Anche se l’agricoltura consentiva la possibilità di una più disuguale concentrazione di ricchezza, nella maggioranza dei casi questo cominciò a succedere millenni dopo la sua comparsa.

Nel frattempo, gli umani che vivevano in zone lontanissime come l’Amazzonia e la mezzaluna fertile in Medio Oriente facevano esperimenti con l’agricoltura, “giocavano agli agricoltori”, in un certo senso, cambiando ogni anno i modi di produzione proprio come alternavano le loro strutture sociali. Inoltre, la “diffusione dell’agricoltura” in aree secondarie come l’Europa – spesso descritta in termini trionfalistici come l’inevitabile declino della caccia e della raccolta – in realtà è stata un processo estremamente delicato che a volte è fallito, portando a un crollo demografico tra gli agricoltori ma non tra i cacciatori-raccoglitori.

Chiaramente, non ha più senso usare espressioni come “la rivoluzione dell’agricoltura” quando parliamo di processi di così straordinaria lunghezza e complessità. E poiché non esisteva un eden da cui i primi agricoltori potessero cominciare il percorso verso la disuguaglianza, ha ancora meno senso sostenere che l’agricoltura ha posto le basi della gerarchia o della proprietà privata. Almeno in alcuni casi, come in Medio Oriente, i primi agricoltori sembrano aver consapevolmente sviluppato forme alternative di comunità per adattarsi a uno stile di vita che richiedeva più lavoro. Queste società neolitiche appaiono sorprendentemente ugualitarie rispetto ai loro vicini cacciatori-raccoglitori, con un sensibile aumento dell’importanza economica e sociale delle donne, che si riflette chiaramente nell’arte e nei rituali (basta confrontare le figurine femminili di Gerico o Çatalhöyük con le sculture ipermascoline di Göbekli Tepe).

Piccole ingiustizie

La civiltà non è un pacchetto preconfezionato. Le prime città non apparirono dal nulla insieme a sistemi di governo centralizzato e di controllo burocratico. Oggi sappiamo che

in Cina nel 2500 aC esistevano già insediamenti di più di trecento ettari lungo il corso inferiore del fiume Giallo, più di mille anni prima della fondazione della prima dinastia reale (Shang). Sull’altra sponda del Pacifico, nella valle del rio Supe, in Perù, sono stati scoperti centri cerimoniali di dimensioni impressionanti che risalgono più o meno allo stesso periodo: rovine enigmatiche di piazze e piattaforme monumentali, che precedono di quattromila anni l’impero degli inca.

Queste recenti scoperte dimostrano quanto poco sappiamo realmente sulla distribuzione e l’origine delle prime città, che potrebbero essere molto più antiche dei sistemi di governo autoritario e di amministrazione basata sulla scrittura che un tempo ritenevamo necessari alla loro fondazione. Ebin quelli che conosciamo come i maggiori centri della prima urbanizzazione – la Mesopotamia, la valle dell’Indo, il bacino del Messico – sono sempre più numerosi i segni che le prime città erano organizzate secondo princìpi deliberatamente ugualitari, con i consigli municipali che avevano una significativa autonomia dal governo centrale. Nei primi due casi, per oltre cinquecento anni fiorirono città con sofisticate infrastrutture civiche ma senza traccia di sepolture reali e di monumenti, senza eserciti permanenti o altri mezzi di coercizione su larga scala e senza neppure un accenno di controllo burocratico diretto sulla vita dei cittadini.

Ci sono tutti i tasselli per creare una storia del mondo completamente diversa. È solo che siamo troppo accecati dai nostri pregiudizi per vederne le implicazioni. Per esempio, quasi tutti oggi ripetono che la democrazia partecipativa e l’uguaglianza sociale possono funzionare in una piccola comunità o in un gruppo di attivisti, ma non possono essere applicate a una città, a una regione o a uno stato. Ma l’evidenza davanti ai nostri occhi, se ci decidiamo a guardarla, suggerisce il contrario. Le città ugualitarie, e perfino le confederazioni regionali, sono storicamente piuttosto comuni. Le famiglie e le case ugualitarie non lo sono.

Quando sarà pronunciato il verdetto della storia, capiremo che la perdita più dolorosa delle libertà umane è cominciata su piccola scala, a livello di relazioni tra sessi, gruppi di età e servitù domestica: il genere di rapporti che esprimono allo stesso tempo la massima intimità e le forme più profonde di violenza strutturale.

Se vogliamo davvero capire come diventò accettabile per la prima volta che alcuni trasfor-massero la ricchezza in potere mentre altri finivano col sentirsi dire che le loro esigenze e la loro vita non contavano, è qui che dovremmo guardare. Ed è sempre qui che dovrà svolgersi il difficilissimo lavoro di creare una società libera.

Il libro che può cambiare la tua visione del mondo (e i programmi scolastici di storia) https://www.educazioneglobale.com/2018/01/il-libro-che-puo-cambiare-la-tua-visione-del-mondo-e-i-programmi-scolastici-di-storia/

Ognuno di noi vive in un determinato contesto e lo dà per scontato. Ritiene che nulla potrà mai cambiare. E, invece, tutto è potenzialmente mutevole. Chi osserva il mondo con lo sguardo dello storico non dimentica mai che ogni cosa creata dagli uomini è una finzione. Gli usi e i costumi, i diritti e gli ideali ma anche le più comuni istituzioni (dal matrimonio allo Stato) sono tutte finzioni collettive.

Anche lo storico, tuttavia, può diventare miope. Si specializza in un periodo di poche centinaia di anni, oppure si concentra su un solo aspetto, trasversale alle epoche. Abbiamo così, da un lato, gli esperti del 1700 o i medievalisti; dall’altro, gli storici militari o gli storici della tecnologia.

Cosa accadrebbe invece, se lo storico allargasse ancora lo sguardo e, invece di esaminare un periodo – diciamo così – al microscopio, potesse abbracciare con un grandangolo e un lungo piano-sequenza non centinaia, non migliaia, ma milioni di anni di evoluzione umana?

Ebbene, scoprirebbe cose che l’osservatore dell’infinitamente piccolo non è in grado di vedere. La risposta a questa domanda è in un nuovo campo d’indagine nel quale storia, antropologia, biologia, genetica, archeologia e paleontologia si fondono in una disciplina che all’estero si chiama “Big History” e, forse, da noi, macrostoria (ma non ne sono certa, se lo sapete scrivetemi nei commenti!).

L’espressione Big History è stata coniata dallo storico David Christian della Macquarie University of Sidney, nel suo libro Maps of Time: An Introduction to Big History (su questo tema, dello stesso studioso, c’era anche un MOOC su Coursera).

Tuttavia la Big History è stata resa famosa negli ultimi anni in tutto il mondo grazie ad un giovane e brillante studioso israeliano, Yuval Noah Harari, che si è ispirato anche al grande geografo e talento multidisciplinare Jared Diamond.

Ricordatevi il nome di Yuval Harari, perché, se non ne avete sentito ancora parlare, prima o poi inciamperete in qualcuno che menziona uno dei suoi due libri: Sapiens e Homo Deus.

A dispetto dei titoli in latino, i suoi libri sono saggi che si leggono come romanzi. Ti avvolgono in un turbinio di pensieri e di scoperte dal quale è veramente arduo staccarsi. Sapiens e Homo Deus sono state le mie letture della scorsa estate e hanno probabilmente, cambiato per sempre il mio sguardo sul mondo.

Sapiens è la storia dell’umanità, dal Big Bang ai giorni nostri. Homo Deus è ancora più ardito: è una storia (una storia possibile) del futuro dell’umanità. I libri di Harari sono diventati famosissimi anche grazie all’endorsement di mezza Silicon Valley: Bill Gates ne consigliava la lettura nelle sue Gates Notes, Marc Zuckerberg li aveva inseriti tra i libri da leggere del suo club del libro A Year of Books. E rientravano anche tra i consigli di lettura dati da Barack Obama in diretta televisiva.

Yuval Noah Harari, lo storico israeliano neanche quarantenne che ha studiato ad Oxford ed insegna all’Università di Gerusalemme, vive in un kibbutz nella campagna che separa Gerusalemme da Tel Aviv ed è un intellettuale anticonformista e disincantato. Ebreo per nascita e ateo per convinzione (ma vicino al buddismo), omosessuale e quasi vegano, pensava di essere solo un accademico un po’ nerd. Fatto sta che si è ritrovato a essere una star intellettuale: i suoi libri sono stati tradotti in 40 lingue, è stato invitato dalle Università di mezzo mondo ed è stato intervistato da giornali, radio e televisioni di moltissimi paesi.

Oggi ha un sito e una newsletter dove informa periodicamente i suoi numerosi fans (c’è bisogno di aggiungere che io sono tra questi?) delle sue conferenze e interviste. E ora ve lo dico chiaramente: se in Italia se ne è parlato relativamente poco, forse è un segnale di quanto siamo diventati periferici.

Quello che segue è il mio indegno racconto di Sapiens. Non è facile riassumere in italiano più di 400 pagine di un libro letto molti mesi fa in inglese, che narra la storia umana servendosi di tante discipline diverse. Il mio è dunque più un racconto che una recensione; ma è certamente anche un invito a leggere questo libro, che merita di essere conosciuto.

Agli albori della Storia

Sapiens parte da un presupposto, quello di rimettere in discussione tutto, partendo, maieuticamente, da una serie di domande.

Quando inizia la storia? Se la faccio iniziare dalla scrittura, perdo una parte grandissima di sapere. Nuovi strumenti di analisi e test di laboratorio, consentono oggi di ampliare l’orizzonte storico a un mondo che precede le fonti scritte e lo studio degli utensili di pietra. Iniziare a studiare la storia dal Big Bang o dalle prime forme di vita sulla terra pone tutto in una luce nuova: soprattutto rimette in gioco il nostro ruolo di esseri umani, ossia di appartenenti al genere Homo, specie Sapiens.

C’erano altri Homo sulla terra (ma probabilmente li abbiamo “fatti fuori” tutti)

L’Homo Sapiens non era l’unico uomo sulla terra, come un alano o un dobermann non sono gli unici cani sulla terra. Altre specie di Homo sono state coeve ai Sapiens come l’Homo erectus, l’Homo floresiensis (l’ultimo ad estinguersi) e il Neanderthal. L’Homo Sapiens ha avuto più successo di altri ed è rimasto l’unico. Tuttavia oggi che è stato mappato anche il genoma dei Neanderthal e questo libro ci racconta che noi Sapiens abbiamo un po’ di Neanderthal nel nostro DNA.

Ci siamo evoluti per essere cacciatori-raccoglitori

Vi ricordate le prime lezioni di storia della scuola elementare? Cominciavano più o meno dal 4.000 a.c.: si esaminavano vari popoli: sumeri, fenici, assiro-babilonesi, egizi, etruschi, poi il

mondo greco e romano. La parte che chiamiamo “preistoria” (che si differenzia dalla storia per la mancanza di fonti scritte) veniva liquidata rapidamente perché se ne sa(peva) poco.

Tutta la realtà che chiamiamo “Storia”, infatti, ha che fare con poche migliaia di anni e invece noi Sapiens ne abbiamo alle spalle 200.000. Se poi consideriamo non solo l’Homo Sapiens, ma la specie Homo, allora possiamo dire che siamo in giro da circa 2.5. milioni di anni. Mica poco!

Per molto tempo non si è dato troppo peso alla preistoria proprio per via della mancanza di fonti scritte, eppure, afferma Harari, le tracce non mancano. Non sono anfore, né tavolette d’argilla, né antiche pergamene, né memorie di cortigiani: le tracce della nostra evoluzione sono scritte sul nostro corpo, nel nostro DNA. Pertanto, afferma Harari e ci insegna la Big History, oggi si può studiare la storia in un modo nuovo e diverso se la si associa alla biologia.

Per moltissimi aspetti – nota Harari – noi umani siamo ancora in qualche modo “adattati” all’ambiente dei nostri antenati; anche se oggi siamo insegnanti, giornalisti o muratori, il nostro DNA è sempre quello di un cacciatore-raccoglitore. Una delle prove più banali di ciò è il nostro atteggiamento verso il cibo, specialmente quello dolce e grasso. Come siamo vissuti per milioni di anni? Harari ci ricorda che il genere Homo non ha vissuto mangiando cereali. Eravamo nomadi e raccoglitori e ci siamo nutriti di tutto quello che siamo riusciti a trovare: piante, frutta fresca, roditori, noci, qualche più rara gazzella e poi midollo osseo di altri animali, magari uccisi da predatori più forti di noi. Oggi, anche nelle economie avanzate, di fronte a cibi grassi e dolci ci ingozziamo ben bene, pur non avendo veramente fame e ben sapendo che magari quegli eccessi ci fanno male. E’ perché nella savana che abitavano i primi Homo, la battaglia per il cibo era incessante e tutte le cose dolci e/o ad alto contenuto calorico erano estremamente rare (né vi era modo di conservarle per il giorno dopo…). Dunque mangiare in abbondanza e, semmai, condividere quanto trovato con altri Homo, era l’unica strada per soddisfare il bisogno calorico, magari sperando che altri restituissero il favore in un domani.

Ogni caratteristica umana, dai frequenti conflitti alla sessualità, si è evoluta in funzione delle società tradizionali di cacciatori-raccoglitori. Prendiamo, per esempio, lo sforzo che dobbiamo fare quando siamo costretti a memorizzare nozioni astratte o formule matematiche. Il cervello degli esseri umani si è adattato per processare e memorizzare solo certi tipi d’informazione. Per sopravvivere, gli antichi cacciatori-raccoglitori dovevano ricordare forme, qualità, colori, odori e altre caratteristiche di piante e animali, non avevano certo necessità di ricordare concetti astratti o matematici. Anzi, quando è sorta la necessità di memorizzare tali concetti è stata sviluppata la scrittura e la matematica. In breve, anche se oggi viviamo in megalopoli o usiamo computer e aeroplani, ci vorranno migliaia o milioni di anni per evolverci e adattarci a questo nuovo contesto.

A questo punto potreste pensare: e che ce ne importa? E invece il fatto interessante è questo: ogni volta che siamo di fronte ad un problema apparentemente difficile da risolvere, dobbiamo sempre pensare che il motivo della difficoltà ha radici molto lontane, nel nostro DNA e nella vita delle tribù di cacciatori-raccoglitori.

Abbiamo portato all’estinzione un sacco di specie animali e vegetali. Anche prima della rivoluzione industriale!

Ho sempre pensato che l’estinzione di tanti animali sia arrivata in tempi moderni, con la rivoluzione industriale, ma non è vero. La maggior parte della varietà animale era già estinta prima che iniziasse quella che noi chiamiamo “Storia”.

Homo Sapiens ha praticamente portato all’estinzione metà dei più grandi animali del pianeta molto prima che gli esseri umani inventassero la ruota o la scrittura. Due sono state le grandi estinzioni: la prima ha accompagnato la diffusione dei cacciatori-raccoglitori; la seconda, ha accompagnato la diffusione dell’agricoltura. Queste due ci danno una prospettiva importante sulla terza ondata di estinzioni, quella causata oggi dall’attività industriale.

Sapiens è un libro pieno di curiosità che non conoscevo. La «megafauna» del Pleistocene comprendeva molti animali che pesavano oltre i 44 chili. Quando 45.000 anni fa, nel corso del Pleistocene, i primi Sapiens sono arrivati in Australia, hanno trovato un paese di strane e sconosciute creature e hanno lasciato distruzione e morte. L’Australia era molto isolata quindi e l’evoluzione degli animali aveva preso tutto una piega particolare. Vi erano canguri alti 2 metri che pesavano 200 kg, un leone marsupiale grande come una tigre (molti animali australiani erano marsupiali), koala molto più grossi di quelli che conosciamo oggi, uccelli incapaci di volare grandi il doppio dei moderni struzzi, serpenti lunghi 5 metri e il famoso diprotodonte, il mammifero marsupiale imparentato con i vombati, lungo 4 metri e paragonabile come forma e dimensioni ai moderni rinoceronti. In circa 2000 anni tutti questi giganti si estinsero a causa dell’uomo. Stesso destino ebbero, in altre epoche, gli enormi mammuth e varie specie di roditori di grandi dimensioni che vivevano tra Canada e Stati Uniti dell’Ovest.

In sostanza fu una guerra-lampo quella che l’Homo Sapiens fece contro gli animali di grossa taglia (tipo i mammuth) e ai predatori (come le tigri con i denti a sciabola), uccidendoli direttamente o distruggendo il loro habitat.

Se gli animali potessero giudicarci, direbbero di noi che siamo crudeli: i Sapiens sistematicamente hanno fatto fuori tutti gli animali che erano più grandi o più feroci di loro. Oltre che crudeli siamo però anche ipocriti: mentre leggevo questa parte di Sapiens mi veniva in mente l’allegro mondo animale del cartone animato Dreamworks “L’era glaciale”, in cui sono tratteggiati con ironia e talento proprio molti animali estinti (per colpa nostra…).

Tra i giganti, praticamente l’hanno scampata solo gli animali delle isole Galapagos perché, grazie al cielo, a un certo punto la cultura umana ha cominciato a credere nella conservazione delle specie diverse dalla propria. Gli altri giganti sopravvissuti sono quelli dei mari e degli oceani, assai più difficili da cacciare sino all’estinzione almeno per gran parte della storia. Oggi è però lecito pensare che, con lo sfruttamento delle risorse marine e il sempre maggiore inquinamento dei mari, animali come balene, squali, tonni e delfini finiranno per seguire lo stesso destino della megafauna australiana.

Harari è molto chiaro su questo: dobbiamo essere contenti che abbiamo ancora elefanti e giraffe. Fa anche notare quanto sia paradossale il modo in cui presentiamo ai bambini il mondo animale, perché i cavalli, le giraffe, i leoni o gli elefanti che mostriamo ai nostri figli nei libri o negli zoo sono una minoranza rispetto agli animali della fattoria. Abbiamo fatto moltiplicare a dismisura gli animali che ci sono più utili e che non ci mettono in pericolo (come le mucche) o quelli che si sono rivelati buoni compagni di vita (come i cani).

Il mondo pre-agricoltura non era poi così male

Harari, provocatoriamente (e ispirandosi a Jared Diamond…) ci apre gli occhi: il mondo pre-agricoltura non era così male. Riteniamo spesso che la vita dei cacciatori-raccoglitori fosse faticosa, breve e brutale. Lo è stata più della vita moderna delle economie sviluppate, ma sicuramente era più premiante e più piacevole della vita degli agricoltori medievali o dei lavoratori della catena di montaggio della prima epoca industriale. I cacciatori-raccoglitori che vivono oggi in alcune delle zone più inospitali del pianetacome il deserto del Kalahari, lavorano o faticano in media solo 35 ore a settimana. I contadini medievali facevano una vita assai più faticosa.

Noi riteniamo, inoltre, che la cultura moderna sia più sofisticata delle culture antiche, soprattutto di quelle preistoriche; effettivamente nelle società moderne l’intelligenza collettiva è molto maggiore che nelle società tradizionali, ma ciò non è vero se consideriamo il singolo individuo. Noi viviamo in società caratterizzate da un fortissimo grado di specializzazione, ma nessuno di noi da solo o in un piccolo gruppo sarebbe in grado di fare tutte le cose che gli consentirebbero di sopravvivere in un mondo ostile (da cui, mi viene da pensare, il grande successo di film catastrofici del genere “The day after”).

I nostri antenati sapevano fare più cose di noi, conoscevano piante e animali, sapevano creare da soli i propri vestiti, cacciare, trasformare in armi le pietre, costruirsi un rifugio. Basta pensare a quante competenze si mettono in gioco per andare a caccia del proprio pasto quotidiano a mani nude: c’era bisogno di avere buoni riflessi, una certa forza, saper collaborare efficacemente con un gruppo di propri simili ma anche camminare molto e correre velocemente (i nostri antenati percorrevano circa 19 chilometri al giorno, come ho spiegato qui).

è stata una fregatura?

Sono ormai migliaia di anni che abbiamo coltivato e addomesticato tutto ciò che si poteva coltivare e addomesticare.

Quando ero a scuola mi è stato spiegato che, con la nascita dell’agricoltura, è nata la necessità di delimitare i campi e si sono così sviluppati alcuni elementi cruciali della nostra cultura: la scrittura, la matematica, la proprietà privata. I libri di storia connettono dunque lo sviluppo dell’agricoltura con quello della civiltà. Da un lato è vero, dall’altro, ci ricorda Harari, uno dei primi risultati della domesticazione di piante e animali è stato il contrarre malattie infettive che sono originate proprio dalla promiscuità tra uomo e animale. In secondo luogo, è nata una dipendenza sostanziale da una forma di cibo: il cereale. Noi abbiamo addomesticato il grano ma il grano alla fine ha addomesticato noi. Riso, grano, mais, colza, a seconda delle epoche e dei luoghi, sono i veri vincitori, non noi che ce ne nutriamo.

Inoltre, con la rivoluzione agricola non nascono solo la scrittura, la matematica o la proprietà privata L’agricoltura ha portato fasi di ricchezza ma anche di grande privazione: in tempi di buoni raccolti la popolazione si moltiplicava troppo e in tempi di raccolti cattivi si soffriva la fame, morivano i bambini, c’erano carestie terribili, come ve ne sono ancor oggi in varie parti del mondo. Si aggiunga che il corpo umano non si era evoluto coltivare i campi. Era ed è adatto per camminare e correre su lunghi tratti cacciando animali o arrampicarsi sugli alberi di mele per cogliere i frutti, non per portare l’acqua o per coltivare i campi di grano. La spina dorsale, le ginocchia e gli archi plantari degli essere umani hanno pagato il prezzo della fatica dell’agricoltura. Gli studi di antichi scheletri indicano che, nella transizione dalla caccia all’agricoltura, sono nati problemi come lo spostamento dei dischi della spina dorsale,

l’artrite e le ernie, senza contare le conseguenze di una dieta basata solo su un cereale e povera in minerali e vitamine.

Per concludere, afferma Harari, sebbene la rivoluzione agricola sia stata il grande balzo in avanti dell’umanità, che ha consentito all’Homo Sapiens di moltiplicarsi, l’agricoltura non ha offerto niente alle persone come individui. E provocatoriamente ripropone un concetto già esposto da Jared Diamond ne “Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo Sapiens”: forse la rivoluzione agricola è stata una grande fregatura.

Siamo più infelici perché non sappiamo più vivere nel presente

L’agricoltura ha mutato per sempre anche il nostro rapporto con il tempo. Il cacciatore-raccoglitore viveva, in un certo senso, in un eterno presente. Con lo sviluppo dell’agricoltura, invece, gli esseri umani hanno iniziato a vivere proiettati nel futuro, a pensare con preoccupazione al raccolto di domani, a pianificare per quanto possibile, il futuro, come fanno i lavoratori delle moderne società industriali.

L’agricoltura e l’allevamento ci hanno reso crudeli

Noi Sapiens non ci siamo limitati a provocare l’estinzione di tanti animali selvaggi. Abbiamo addomesticato piante ed animali a nostro piacimento e, così facendo, abbiamo sovvertito le leggi biologiche dell’evoluzione.

Con lo sviluppo dell’agricoltura, infatti, è cambiato anche il rapporto tra uomo e altri animali. I cacciatori-raccoglitori cacciavano e uccidevano animali per sostentarsi e ricavarne utensili e pelli per coprirsi, però li vedevano come loro equivalenti. In altre parole, il fatto che l’uomo cacciasse la tigre non implicava che la tigre fosse inferiore all’uomo, perché anche le tigri cacciavano l’uomo.

In contrasto con questa visione, i primi agricoltori hanno cominciato a manipolare piante e animali, addomesticandoli e trasformandoli in oggetti di loro proprietà. In breve, i primi effetti della rivoluzione agricola sono stati quelli di considerare piante e animali come proprietà privata (una cosa che si è poi ripetuta nei secoli nei confronti di altri esseri umani ridotti in schiavitù).

l problema morale, afferma Harari, non è (tanto) come facciamo morire gli altri animali, ma come li facciamo vivere. Dalla rivoluzione agricola agli allevamenti intensivi di oggi il passo è stato più breve di quanto pensiamo.

Ma perché i Sapiens hanno dominato il mondo?

Com’è possibile che gli umani, questi animali senza zanne e senza artigli, siano riusciti a conquistare e dominare il mondo, addomesticando, sottomettendo o distruggendo, a seconda dei casi, tutte le altre specie, di animali e di vegetali?

Il tema centrale del libro è che, presi singolarmente o in piccoli gruppi noi esseri umani non siamo in fondo così lontani dagli scimpanzé; l’ha scritto anche Jared Diamond nel libro Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo Sapiens, che Harari ben conosce e cui spesso s’ispira.

Siamo usi affermare che la vera differenza dei Sapiens è l’intelligenza, ma non è proprio così: recenti studi dimostrano che i Neanderthal avevano crani più grossi, cervelli più pesanti e maggiori connessioni neurali dei Sapiens. Non è quindi l’intelligenza la nostra forza, dato che, peraltro, sappiamo misurare solo quella umana. Le differenze significative tra il potere di noi Sapiens e gli altri animali cominciano ad apparire solo quando superiamo la soglia dei 150 individui (il libro inizia infatti con la citazione del numero di Dunbar) quando cominciamo ad essere mille, diecimila, o milioni di persone.

Afferma Harari che la forza dell’Homo Sapiens è tutta qui, e fa un esempio suggestivo: mettete insieme migliaia di scimpanzé in una grande piazza e si crea il pandemonio; invece i Sapiens sono gli unici animali che possono riunirsi in migliaia in una piazza e mantenere l’ordine. Come? Attraverso le finzioni collettive.

La forza dei Sapiens è stata quella dello storytelling, che ha consentito di creare finzioni collettive e società complesse

“Noi controlliamo il mondo fondamentalmente perché siamo gli unici animali che possono collaborare in modo flessibile in gran numero” è il punto cruciale di Harari. E il segreto di questa collaborazione è tutto in una serie di complesse costruzioni mentali, che siamo in grado di rendere collettive e di condividere con gli altri. È solo attraverso l’introduzione di narrazioni comuni (che l’autore chiama fiction, finzioni, dunque) che le persone, anche senza conoscersi, possono aggregarsi; gruppo, nazione, lingua, famiglia, Stato, impero, partito…molte sono le articolazioni cui la comune narrazione è riuscita a dar luogo.

È questa invenzione della narrazione, della finzione, che trasforma le società tradizionali di raccoglitori cacciatori in società organizzate. La grande invenzione dell’essere umano è la narrazione di storie, così abbiamo creato tutti gli imperi, gli Stati, le religioni, il diritto e abbiamo fatto sì che un solo uomo potesse dominarne migliaia.

Cos’è naturale?

Se tutta la nostra cultura umana è formata da finzioni collettive anche la religione è una finzione, anche se chi è credente la ritiene come l’ordine “naturale” delle cose.

Una buona regola di base per distinguere natura e cultura, afferma Harari, è quella secondo la quale la biologia ci mette in condizione di fare cose che la cultura ci vieta di fare.

È naturale che le donne procreino (la biologia rende le donne capaci di procreare), ma è naturale anche che persone dello stesso sesso possano decidere di accoppiarsi (la natura lo consente, anche se la cultura, in certe società, lo vieta). La cultura spesso vieta un comportamento affermando che “non è naturale”, ma, afferma Harari, se una cosa non è naturale non è semplicemente possibile. Dunque possiamo dire che non è naturale per un essere umano volare, dal momento che un essere umano, allo stato dell’evoluzione umana in cui siamo ora, non può fisicamente volare.

Invece, nelle diverse culture, gran parte di ciò che è considerato “naturale” proviene dalle religioni, in particolare dalla teologia cristiana: in questo senso viene considerato “naturale” ciò che sarebbe stato creato da Dio. Così, la religione ha scalzato la biologia nel distinguere ciò che è “naturale” da ciò che non lo è. Così come la religione, anche

il diritto ha per così dire, declinato la sua nozione di ciò che è “naturale”. A questo proposito, c’è una parte del libro che consiglio ai giuristi, in cui l’autore cita le parole più famose della dichiarazione americana d’indipendenza e prova a ritradurle in termini biologici, con risultati esilaranti.

La direzione della Storia: verso l’unificazione delle culture e il mondo globale

Ma la storia ha un senso? Ha una direzione? La risposta a questa domanda è ardua per lo storico tradizionale, ma meno ardua in una prospettiva di Big History. Percepire la direzione della storia è veramente difficile, afferma l’autore, se guardiamo le cose in termini di secoli è difficile vedere la direzione in cui si muove la storia; se invece adottiamo il punto di vista di un satellite cosmico, che osserva guarda i millenni o i milioni di anni invece che i secoli, allora diventa chiaro che la storia si sta muovendo assolutamente verso una maggiore unità.

Nel corso dei millenni, infatti, da culture più piccole e più semplici si sono man man venute a formare più grandi e più complesse civilizzazioni. Si va verso un mondo globale.

Diecimila anni prima di Cristo sostanzialmente le società umane erano tante e molto differenziate. Oggi quasi tutti gli esseri umani condividono, innanzitutto, lo stesso sistema geopolitico: l’intero pianeta è organizzato in stati internazionalmente riconosciuti. Condividono poi lo stesso sistema economico: il capitalismo si è spinto fino alle zone più remote del globo. Condividono lo stesso sistema legale, pur con differenze sui diritti umani. Condividono lo stesso sistema scientifico: gli esperti di Israele o dell’Argentina hanno le stesse opinioni di circa la struttura degli atomi o il trattamento della tubercolosi e, persino nelle guerre, le parti in conflitto combattono ormai con le stesse armi.

I grandi elementi unificatori: la moneta, gli imperi e la religione

Quali sono stati i grandi elementi unificatori della cultura? Harari ne individua tre: la moneta, gli imperi, le grandi religioni. Mi soffermo solo sul primo di essi. Il primo ordine universale ad apparire è stato quello economico, attraverso l’ordine monetario. La moneta è la più grande finzione della storia umana, il più universale e più efficiente sistema di fiducia reciproca che sia stato mai inventato. Per quanto filosofi, profeti e religiosi abbiano visto nel danaro la radice di tutti i mali, Harari fa notare che è proprio la moneta a costituire l’apice della tolleranza umana. Più internazionale della lingua, più onnicomprensiva del diritto, più tollerante di tanti codici culturali, dei credi religiosi e delle abitudini sociali! Ne è prova il fatto che persino persone che non credono nello stesso Dio o non obbediscono agli stessi valori sono più che desiderose di utilizzare lo stesso denaro.

I terroristi islamici che oggi uccidono in odio alla civiltà occidentale non hanno mai pensato di bruciare il danaro, neanche i dollari statunitensi.

Il nuovo ordine globale

Entrati come siamo nell’epoca globale, malgrado esistano ancora gli Stati nazionali, vi sono problemi che questi ultimi non possono gestire. Per nessuno degli Stati nazionali sarà possibile da solo risolvere il problema del riscaldamento globale, così come quasi nessuno Stato nazionale è veramente in grado di condurre politiche economiche totalmente indipendenti.

Ogni cosa è interconnessa e quindi si comincia a pensare che ci deve essere un nuovo ordine globale. La differenza, rispetto ai grandi imperi del passato, è che questo “impero globale”, che si sta creando davanti i nostri occhi, non è governato da un particolare Stato ma, come il tardo romano impero, da un élite multietnica che è tenuta insieme da una comune cultura e da interessi comuni. Purtroppo, come ben sappiamo, si tratta spesso di interessi economici.

Harari non lo scrive, perché Sapiens fu pubblicato in Israele nel 2011 e in inglese nel 2014, ma oggi quegli interessi economici stanno principalmente in mano ad una triade, composta da Google, Amazon e Facebook. Altri poteri globali certamente esistono, ma il peso dei tre citati avanza ogni giorno (anche se potrebbe cambiare con l’arrivo di nuovi attori).

Creiamo e disfiamo credi religiosi e politici a nostro piacimento

Arrivati a questo punto, Sapiens ha messo in discussione quasi tutto. Tutto il mondo in cui viviamo è formato da finzioni che sono la nostra forza collettiva, ma anche la nostra gabbia individuale.

Nel mondo occidentale, insegnanti, dirigenti scolastici e genitori ci insegnano che ognuno ha diritto di essere sé stesso e non deve essere giudicato; un nobile medievale, invece, non aveva questa visione individualista ma credeva che il valore di qualcuno dipendesse dal suo posto nella gerarchia sociale.

Oggi riteniamo anche di essere più evoluti di un nobile medievale; eppure il nostro ordine morale e giuridico è fittizio quanto quello medievale. L’idolo del momento può essere la cristianità, oppure la democrazia o il capitalismo, non importa, ci dice Harari, la cosa più importante è come far credere le persone in un ordine immaginario come, appunto, la cristianità, la democrazia o il capitalismo. Il meccanismo, afferma Harari, è invisibile a chi guarda solo il presente, ma se si guarda all’evoluzione storica, esso si ripresenta sempre uguale. Innanzitutto, occorre non ammettere mai che l’ordine che caratterizza una certa epoca, sia immaginario, ma affermare sempre che è un ordine “naturale”, anche se in realtà non lo è. Inoltre, per sentirlo come naturale, basta educare le persone, dal momento in cui sono nate, a concepirlo come “naturale”.

Tutto è relativo

Sono passati milioni di anni di evoluzione umana e noi viviamo in una società che consideriamo naturale ma che è “fittizia” in funzione delle narrazioni collettive che ci facciamo oggi. Ciò non vuol dire che la moderna società occidentale (democratica, capitalistica, che riconosce i diritti umani etc..) sia intrinsecamente “sbagliata”. Semplicemente l’autore ci invita a guardarla con gli occhi dello studioso di Big History, non come un punto di arrivo ma come uno dei tanti momenti di passaggio.

Nel descrivere milioni di anni di evoluzione animale e umana Harari ci invita a un relativismo che non è solo culturale ma è anche “cultural-diacronico”. Ci invita a non giudicare con gli occhi di un europeo moderno sia l’abitante di una società tradizionale della Nuova Guinea, sia il monaco medievale, perché le nostre creazioni culturali sono fittizie quanto le loro.

Anche se non ce ne rendiamo conto, le nostre narrazioni collettive creano una realtà intersoggettiva che arriva a influenzare o addirittura a creare i nostri desideri più profondi, quelli che crediamo essere assolutamente privati e personali. I nostri desideri sono quindi

programmati, non da noi e non da un’intelligenza superiore e senziente, ma dallo storytelling collettivo della propria epoca.

Prendiamo, dice Harari, il desiderio molto in voga di fare una vacanza all’estero, magari un po’ esotica. Io, per esempio, vorrei andare vedere il Taj Majal in India, la fioritura dei ciliegi in Giappone, Tel Aviv e i grattacieli di Shangai. Ritengo che questi siano miei desideri ‘spontanei’. E invece no, non c’è niente di spontaneo o di naturale in questo! È che sono figlia del mio tempo, come voi che leggete. Fossi nata in un’altra epoca, avrei avuto altri pensieri.

L’élite dell’antico Egitto (anche a prescindere dall’arretratezza dei trasporti dell’epoca) non avrebbe mai speso una fortuna per una vacanza esotica o per esplorare un altro paese! L’élite spendeva le sue fortune per costruire piramidi altissime e avere il proprio corpo mummificato dopo la morte, un pensiero che assolutamente non tocca la maggior parte delle persone moderne, che preferiscono spendere per fare shopping a Dubai o organizzare una vacanza sugli sci. Dubai non mi attira molto, ma preferirei andare lì che pensare alla mia tomba! Quindi oggi spendiamo una certa quantità di soldi in vacanze perché ciò risponde alla narrazione dei nostri tempi e incarna il sogno di quello che Harari chiama efficacemente “consumismo romantico” che ben fa il paio con l’umanesimo liberale della nostra epoca.

Noi ci sentiamo privi di ideologie, ma in realtà il consumismo romantico è l’ideologia del momento, che ci dice che per sviluppare al massimo il nostro “potenziale umano” dobbiamo accumulare diverse esperienze. Da qui la ricerca di diverse emozioni, da perseguire in ogni modo. È il consumismo romantico che ci porta, ad esempio, a visitare musei, incontrare persone diverse, imparare altre lingue, visitare luoghi esotici o remoti. È il consumismo romantico che ci fa affermare che Parigi non è solo una città e l’India non è solo un paese ma che sono tutte “esperienze” (sapientemente impacchettate per noi dagli esperti di marketing del viaggio…).

Insomma, noi sorridiamo alle astruse e vincolanti credenze e finzioni collettive del passato, mentre siamo ben immersi nelle nostre. Come ci spiega l’autore anche nel libro successivo (Homo Deus) che inizia laddove Sapiens finisce, è troppo facile considerare mere credenze il mito di Zeus o di Minerva, i poteri divini dei faraoni egizi o il fatto che il Dio dei cristiani potesse ricompensare con la vita eterna i crociati che andavano a trucidare gli infedeli musulmani durante le crociate. Molto più difficile ammettere che i miracoli, la Madonna di Medjugorje o gli oroscopi siano altrettante finzioni collettive.

Uscire fuori dal proprio tempo? Impossibile

E se uno tentasse di liberarsi dalla gabbia delle finzioni del proprio tempo? Harari non ci invita a provare. Anche se uno facesse lo sforzo sovrumano di uscire fuori da questa specie di griglia di riferimenti culturali e cercasse di rivoltare l’ordine immaginario, dovrebbe comunque convincere milioni di persone a cooperare: uno sforzo impossibile per i più. Ma non è solo questo il problema.

Non c’è modo per uscire dall’ordine immaginario: quando rompiamo le mura del nostre prigioni – dice Harari – e pensiamo di andare verso la libertà, andiamo in realtà in una regione ancora più ampia, perché sostituiamo un’ideologia vecchia con una nuova.

Dall’Antropocene al Tecnocene

Con l’aiuto di nuove tecnologie, entro qualche secolo i Sapiens potrebbero diventare. esseri completamente diversi con qualità e abilità pari agli dei (“la storia è nata quando gli uomini inventarono gli dei e finirà quando gli uomini diventeranno dei”, afferma Harari).

Se l’uomo di domani, forse non più Homo Sapiens ma androide, uomo bionico o intelligenza artificiale (perché è ovvio che siamo alla fine dell’Antropocene e dell’inizio del Tecnocene), guardasse alle nostre credenze e ci ridacchiasse sopra? Se un domani quest’uomo–macchina, nostro discendente, pensasse quanto siamo stati fessi, così come quei faraoni che si facevano imbalsamare per risorgere con il proprio corpo nell’aldilà?

Questi interrogativi apre Harari; ne apre così tanti che Bill Gates, anche attraverso la Bill e Melinda Gates Foundation, sta finanziando un progetto per portare la Big History nelle scuole americane (chissà se arriverà mai nelle nostre!) e per rendere la Big History accessibile a tutti.

E se il parziale resoconto che ne ho fatto vi ha interessato e volete vedere veramente il mondo con occhi diversi, una volta letto Sapiens vi consiglio di leggere anche la storia del futuro narrata in Homo Deus. Ma ne parliamo un’altra volta…