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PAGINA 1 edit Maledizione ANDREA BAGNI Riecco l’Invalsi, rieccoci a parlare di valutazione. Maledizione. Va bene che da un lato è del tutto ovvio che in regime di autonomia scolastica gli istituti, liberi di organizzarsi per ottenere i “risultati”, dovranno poi sottoporsi ad una verifica del loro effettivo raggiungimento. Ma intanto dovrebbero essere chiari da subito quali sono i famosi risultati da raggiungere, quantitativi e qualitativi (so- prattutto qualitativi, trattandosi di scuola). E anche chi valuta e quanto sono condi- visi gli obiettivi da raggiungere. Invece è tutto un casino. Il governo non ha molta confidenza con la legge e non ha rispettato nessuno dei passaggi necessari a dare senso complessivo e obbligatorietà alla valutazione; peraltro cosa viene valutato, secondo quali “standard” (espressione già non facile da maneggiare nell’educazio- ne), nessuno lo sa ancora. Il soggetto che raccoglie e gestisce i risultati è tutt’altro che estraneo all’amministrazione: dunque l’operazione assume un inquietante aspet- to ministeriale. E poi che se ne sarà dei risultati? Torneranno alle scuole per la loro autovalutazione, la “calibrazione” e la “messa a punto” dei processi? Mah. Come se un istituto avesse una sua didattica unitaria, omogenea e consapevole, correggibile da un soggetto centrale onnipotente... In realtà le variabili sono pressoché infinite, i punti di partenza dei ragazzi e delle classi ultra differenziati. I metodi di insegna- mento pure. Ovvio che la cosa più probabile è che le verifiche siano o banalmente nozionistiche – facili da realizzare ma poco significative; oppure di “competenze trasversali”, metacognitive o meta qualcos’altro, significative ma difficilissime da valutare. Probabile anche che l’uso che se ne farà presto o tardi sarà di classificazio- ne degli istituti e degli insegnanti (e secondo me ci vorrà un esercito di ispettori perché i soggetti alla – e non della – misurazione, non si mettano d’accordo per aggiustare, in nome della vita ribelle o del quieto vivere, gli esiti). Il punto però è che tutti sanno che per ora, in assenza di elaborazione collettiva, tutta questa roba è (nella migliore delle ipotesi) una perdita di tempo. Si sa che traguardi uguali per situazioni sociali e storie personali diverse non hanno senso. Si sa che il senso della scuola e dell’insegnamento non sta tutto nelle conoscenze verificabili – c’è un mare d’altro, che solo una valutazione nar- rativa, dall’interno delle storie, e solo un pensiero emotivo pos- sono avvicinare. Raccontare più che classificare. Ma tutta que- sta materia fluida banalmente umana è tecnicamente non rile- vabile, dunque si decide irrilevante. Si sa anche che l’autono- mia scolastica sta trasformandosi in una disintegrazione dal basso, privatizzazione partecipata delle scuole: ognuno che col- tiva la sua nicchia esclusiva di progettino; ogni scuola che cura il suo segmento di mercato, la sua competitività in termini di valore di scambio di quel dépliant per famiglie-clienti che chia- ma pof. Sempre più in cerca di optional che facciano la diffe- renza. Le riforme dall’alto non riescono a toccare davvero il fare scuola e la sua qualità. Ma quella dimensione vivente della scuola non permette nessun discorso facile di potere sui processi, si può citarla per mostrare che si ha consapevolezza del problema, ma poi non si sa cambiare ottica e si continua. La parzialità del punto di vista nozionistico prestazionale e organizzativo non cessa di essere il cuore nero di un intervento totalizzante sulla scuola. Disastroso. Se almeno si imparasse un po’ dallo sguardo femminista che insegna a partire da sé e dalla propria misura – non onnipoten- te universale astratta; o da quello ecologico che educa al senso del limite e al paradigma cauto della complessità. Piccoli passi che cercano di interagire con l’esistente che circonda. Non è facile oggi sperare che tutto succeda per autogenesi, orizzontalmente. C’è molta tristezza che circola, che intristisce e fa subalterni all’ordine. Bisognerebbe fare un po’ di spazio e magari di silenzio, per pensare daccapo un po’ tutto. Sarebbe la rivoluzione. Invece tocca occuparsi di Invalsi e valutazione. Maledizione.

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edit Maledizione

ANDREA BAGNI

Riecco l’Invalsi, rieccoci a parlare di valutazione. Maledizione.Va bene che da un lato è del tutto ovvio che in regime di autonomia scolastica gliistituti, liberi di organizzarsi per ottenere i “risultati”, dovranno poi sottoporsi aduna verifica del loro effettivo raggiungimento. Ma intanto dovrebbero essere chiarida subito quali sono i famosi risultati da raggiungere, quantitativi e qualitativi (so-prattutto qualitativi, trattandosi di scuola). E anche chi valuta e quanto sono condi-visi gli obiettivi da raggiungere. Invece è tutto un casino. Il governo non ha moltaconfidenza con la legge e non ha rispettato nessuno dei passaggi necessari a daresenso complessivo e obbligatorietà alla valutazione; peraltro cosa viene valutato,secondo quali “standard” (espressione già non facile da maneggiare nell’educazio-ne), nessuno lo sa ancora. Il soggetto che raccoglie e gestisce i risultati è tutt’altroche estraneo all’amministrazione: dunque l’operazione assume un inquietante aspet-to ministeriale. E poi che se ne sarà dei risultati? Torneranno alle scuole per la loroautovalutazione, la “calibrazione” e la “messa a punto” dei processi? Mah. Come seun istituto avesse una sua didattica unitaria, omogenea e consapevole, correggibileda un soggetto centrale onnipotente... In realtà le variabili sono pressoché infinite,i punti di partenza dei ragazzi e delle classi ultra differenziati. I metodi di insegna-mento pure. Ovvio che la cosa più probabile è che le verifiche siano o banalmentenozionistiche – facili da realizzare ma poco significative; oppure di “competenzetrasversali”, metacognitive o meta qualcos’altro, significative ma difficilissime davalutare. Probabile anche che l’uso che se ne farà presto o tardi sarà di classificazio-ne degli istituti e degli insegnanti (e secondo me ci vorrà un esercito di ispettoriperché i soggetti alla – e non della – misurazione, non si mettano d’accordo peraggiustare, in nome della vita ribelle o del quieto vivere, gli esiti).Il punto però è che tutti sanno che per ora, in assenza di elaborazione collettiva,tutta questa roba è (nella migliore delle ipotesi) una perdita di tempo. Si sa chetraguardi uguali per situazioni sociali e storie personali diverse non hanno senso. Sisa che il senso della scuola e dell’insegnamento non sta tutto nelle conoscenze

verificabili – c’è un mare d’altro, che solo una valutazione nar-rativa, dall’interno delle storie, e solo un pensiero emotivo pos-sono avvicinare. Raccontare più che classificare. Ma tutta que-sta materia fluida banalmente umana è tecnicamente non rile-vabile, dunque si decide irrilevante. Si sa anche che l’autono-mia scolastica sta trasformandosi in una disintegrazione dalbasso, privatizzazione partecipata delle scuole: ognuno che col-tiva la sua nicchia esclusiva di progettino; ogni scuola che curail suo segmento di mercato, la sua competitività in termini divalore di scambio di quel dépliant per famiglie-clienti che chia-ma pof. Sempre più in cerca di optional che facciano la diffe-renza.Le riforme dall’alto non riescono a toccare davvero il fare scuolae la sua qualità. Ma quella dimensione vivente della scuola nonpermette nessun discorso facile di potere sui processi, si puòcitarla per mostrare che si ha consapevolezza del problema, mapoi non si sa cambiare ottica e si continua. La parzialità delpunto di vista nozionistico prestazionale e organizzativo noncessa di essere il cuore nero di un intervento totalizzante sullascuola. Disastroso.Se almeno si imparasse un po’ dallo sguardo femminista cheinsegna a partire da sé e dalla propria misura – non onnipoten-te universale astratta; o da quello ecologico che educa al sensodel limite e al paradigma cauto della complessità. Piccoli passiche cercano di interagire con l’esistente che circonda.Non è facile oggi sperare che tutto succeda per autogenesi,orizzontalmente. C’è molta tristezza che circola, che intristiscee fa subalterni all’ordine. Bisognerebbe fare un po’ di spazio emagari di silenzio, per pensare daccapo un po’ tutto. Sarebbe larivoluzione.Invece tocca occuparsi di Invalsi e valutazione. Maledizione.

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pre

strumentali e vocali di varie epoche egeneri.I tre canti partigiani che concludevanola prima parte sono stati scelti, oltreche per le caratteristiche musicali e perl’attinenza col territorio (nel comascoera attiva la 52° Brigata Garibaldi),anche perché ne esiste una bella ver-sione ad opera della banda e del corodella Scuola Popolare di Musica del Te-staccio. Silverio Cortesi, arrangiatoredei brani e direttore della banda, è statodisponibilissimo a collaborare fornen-do alla scuola le partiture che i docentihanno poi riadattato per i ragazzi.

Attorno a questo progetto alunne, alun-ni e insegnanti delle tre scuole hannolavorato con entusiasmo, professiona-lità e serenità, fino a quando un geni-tore di un alunno di prima media, con-sigliere comunale di Alleanza Naziona-le, ha scritto a un giornale locale af-fermando che a scuola si cantano can-zoni comuniste che incitano all’odio ealla violenza. Non si era mai presenta-to prima a scuola per mettere in di-scussione l’iniziativa nelle sedi appo-site (consigli di classe, ecc.). Questoha innescato una squallida polemica ela stampa locale ha riportato afferma-zioni sulla resistenza, sui partigiani, sulcomunismo, sulla scuola, sulla musica,sulle canzoni, veramente impensabili,che denotano un bassissimo livello cul-turale e politico oltre che scarse cono-

scenze storiche. Tra i vari interventi c’èstato quello del sindaco di Como, Ste-fano Bruni, che ha, tra l’altro, afferma-to che le canzoni partigiane cantate dairagazzi erano «vessilli ideologici cari-chi di violenza e odio», del tutto inop-portune nel momento in cui si cerca dirileggere il 25 aprile come “riconcilia-zione”. Sotto accusa erano le parole «lastella rossa in fronte, la libertà portia-mo, ai popoli oppressi la libertà porte-rem» de La Brigata Garibaldi. Ha parla-to di «iniziativa deprecabile e disedu-cativa» e di «farsa ignobile» e, igno-rando il suo ruolo pubblico e i limitidelle sue competenze, ha tentato divietare l’iniziativa.Per fortuna i dirigenti scolastici sonostati molto fermi nel difenderla e ilprovveditore (sollecitato a proibire lamanifestazione) ha prima invitato asostituire La Brigata Garibaldi con Fra-telli d’Italia (ignorando, tra l’altro, illavoro che comporta arrangiare un bra-no musicale e farlo eseguire a ragazzi-ni che suonano da un anno o due), poi,però, si è unito alle scuole nella difesadell’autonomia scolastica.Insomma ne è nata una grande confu-sione e la scuola è stata fatta oggettodi particolari attenzioni da parte digiornalisti e fotografi, più o meno cor-retti.Tutto ciò ha però sortito l’effetto con-trario a quello che chi ha innescato lapolemica voleva.

Quest’anno ricorre il sessante-simo della liberazione e per ricordarlotre scuole di Como (l’elementare del 3°circolo, la media “Foscolo” e il corsomusicale dell’istituto superiore “TeresaCiceri”), unite da un progetto di Labo-ratorio Musicale e di Polo Interscola-stico Musicale, hanno deciso di orga-nizzare un’iniziativa comune.Si è quindi progettato un percorso mu-sicale, strumentale e vocale, attorno altema della Resistenza che prevedeva,come conclusione, uno spettacolo alTeatro Sociale dal titolo “E come pote-vamo noi cantare… Leggere e cantareil 25 aprile e dintorni sessant’annidopo…”Nella prima parte l’orchestra era formatadai ragazzi del corso musicale dellamedia Foscolo a cui si è aggiunto qual-che alunno dell’istituto superiore; ilcoro raggruppava invece alunni e alun-ne della scuola media e delle quinteelementari.Il repertorio comprendeva due brani dimusica yiddish (Tants, yidelekh, tants eOylem goylem), un brano di Nicola Pio-vani tratto dalla colonna sonora del filmLa vita è bella di Roberto Benigni e lecanzoni partigiane: Dalle belle città, Can-to dei deportati, La Brigata Garibaldi.La seconda parte è stata affidata alcorso musicale dell’istituto liceale “Ci-ceri” e prevedeva una rielaborazione delbrano Il sopravvissuto di Varsavia diArnold Schönberg e una serie di brani

Resistere cantandoMARIATERESA LIETTI *

25 aprile 2005. A Como un’iniziativa scolastica, una

celebrazione come tante, si è trasformata in un

momento di grande dibattito e di autentica resistenza.

Il sindaco non vuole che si canti, ma alla fine si canta

lo stesso, anzi è un grande successo, una vera e propria

“liberazione”

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preRagazze e ragazzi si sono sentiti attac-cati e insultati. La definizione di «far-sa ignobile» per il loro lavoro che harichiesto impegno, energia, prove al difuori dell’orario scolastico, ha veramen-te irritato loro e le famiglie.Un giornalista ha scritto che ai ragazzisi dovrebbe far cantare Il pulcino balle-rino e il Torero Camomillo e non cantipolitici e impegnati che non sono ingrado di capire. E questo, ad adolescentidi 12 e 13 anni, non è proprio piaciu-to! Hanno vissuto come grande ingiu-stizia e come sopruso l’eventualità chequalcuno impedisse il loro spettacolo.La scuola ha ricevuto attestazioni disolidarietà e stima (per altro ignoratedalla stampa locale) da parte di geni-tori, colleghi, scuole, presidi, associa-zioni, forze politiche (non solo di sini-stra) e sindacali.Il giorno 25 aprile il Teatro Sociale erastraripante (ha una capienza di più di1.000 posti). Moltissimi non hannopotuto entrare. C’era una grande emo-zione, ma ragazze e ragazzi (circa 300in un giorno di vacanza) sono statimolto bravi, anche i più piccoli, quasi“professionali”. C’è stata molta parte-cipazione, molto coinvolgimento e ca-lore, ma nessun eccesso, neanche nel-le attestazioni di solidarietà del pub-blico, tutte molto sobrie e contenute.Gli unici che hanno accolto l’appellodel sindaco a impedire la manifesta-zione sono stati gli iscritti a AzioneGiovani che si sono presentati a presi-diare il teatro con un volantino che rie-cheggiava quelli della caccia alle stre-ghe. Il titolo era: “Plagio di giovanimenti” e sotto il disegno di una falce emartello sulla quale era legato con filospinato un corpo era riportata la scrit-ta: «Caro papà, cara mamma, voi ac-cettate questo?». I ragazzi però eranogià in teatro per le prove e non se nesono neanche accorti. La polizia, unavolta tanto, è intervenuta a tenere abada Azione Giovani e non ad impedirel’accesso al Teatro.Resta però l’amarezza del constatareche queste cose, che solo qualche annofa avremmo pensato impossibili, acca-dono.Se ce ne fosse ancora bisogno, questapiccola vicenda testimonia quanto lalotta di liberazione sia attuale.“E come potevamo noi cantare...” erail titolo dello spettacolo. Forse ancoraoggi non è così facile cantare.

* Insegnante di violino, Corso di indirizzomusicale, Scuola Media Foscolo, Como.

“Riassunto delle puntate prece-denti”: cominciavano così ogni dome-nica sera i grandi e interminabili sce-neggiati che ci ammanniva una voltala TV nazionale. La frase si addice an-che alla riforma Moratti per il pezzo cheriguarda la scuola secondaria. Il decre-to in questione di cui una prima bozza“apocrifa” era uscita a dicembre delloscorso anno ha subito continui aggior-namenti e, di bozza in bozza, è arriva-to nel momento in cui scrivo alla nonaversione, per cui per parlare diffusa-mente delle ultime novità bisognereb-be dare per scontata la conoscenza ditutte le versioni precedenti, nonché dispinte e controspinte che hanno deter-minato nel tempo le diverse modifiche,cose che solo i più assidui cultori dellalettura comparata e in controluce deitesti conoscono.Inutile quindi mettersi solo su una trac-cia da addetti ai lavori. È più utile cer-care di descrivere tutta la situazionefino a questo punto, sapendo che ilpercorso non è terminato.

Previsioni e scommesse

Giova però fare una precisazione in pre-messa: la situazione e il numero di ver-sioni può far propendere al momento

in cui scriviamo per due previsioni.La prima: il ministero è molto confuso,lobbies di qua e lobbies di là stirac-chiano una coperta comunque troppostretta, ogni strappo finisce con l’apri-re altri buchi, anche dalla maggioranzasi levano voci sull’inopportunità di an-dare avanti su un tema tanto delicatoin un anno pre-elettorale. In una paro-la c’è chi dice: troppo tardi ormai, nonse ne farà niente.La seconda: il ministero moltiplica lebozze perché sta limando il testo sem-pre più freneticamente, cerca di acquie-tare gruppi di pressione, per non averlicontro (si spiega così un innalzamentodegli orari obbligatori, la restituzionedella seconda ora a educazione fisica eil costoso blocco dell’organico di dirit-to dal 2005 al 2011 per tranquillizzaretutti perdenti posto). Cerca di tampo-nare l’impoverimento tecnologico e lapovertà di sbocchi professionali inven-tandosi i “campus” in cui, non proprioinsieme ma almeno vicini, tecnici “re-gionalizzati” e umanisti “di Stato” po-tranno “continuare a vedersi”. In unaparola il ministero è disposto a rinun-ciare anche a obiettivi economici (iltaglio degli organici hic et nunc) pur diottenere gli obiettivi sociali (la sepa-razione sociale tra comandanti e coman-dati) e culturali (la restaurazione della

Riforma delle superiori:lo stato dell’artePINO PATRONCINI *

Di bozza in bozza, il decreto di riforma della scuola secondaria

è arrivato alla decima versione, che potrebbe anche essere

quella definitiva. Anche se molti sostengono che i tempi sono

ormai stretti perché, senza che neppure il consiglio dei

ministri abbia varato uno schema di decreto ufficiale, si arrivi

ad approvarlo entro il 17 ottobre, data di scadenza della

delega. Intanto è certo che molte ipotesi iniziali sono saltate,

ma si tratta prevalentemente di questioni “tecniche”. Resta

invece in piedi tutto l’impianto culturale con il suo sapore di

restaurazione sociale. Una mappa per orientarsi

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preL’orario della IFP: viene stabilito in30 ore settimanali obbligatorie.

Il corpo docente della IFP: è costitu-ito da docenti veri e propri e da esper-ti, cioè lavoratori di un settore produt-tivo con 5 anni di esperienza; entram-bi valutano.

Il passaggio dell’IFP alle regioni: allostato attuale non è definito nei tempie nei modi e non è neanche più indica-to un apposito articolo.

I licei: sono 8: artistico, classico, eco-nomico, linguistico, musicale-coreuti-co, scientifico, delle scienze umane,tecnologico.

Il percorso liceale: dura cinque annied è suddiviso in un primo biennio, unsecondo biennio e un anno terminale.L’anno terminale è da realizzarsi con leuniversità o le accademie o i conserva-tori per garantire la prosecuzione neglistudi superiori a cui il liceo propedeu-tico.

La struttura oraria del liceo: (tranneche per il liceo artistico e, in parte, peril liceo musicale-coreutico e per quellotecnologico) è strutturato nei primi dueanni in un orario obbligatorio e in unorario opzionale obbligatorio (nel liceotecnologico c’è anche un orario facol-tativo), e negli ultimi tre anni in unorario obbligatorio, un orario opziona-le obbligatorio e un orario opzionalefacoltativo. Per gli alunni con valuta-zioni insufficienti la quota di orariofacoltativo sarà dedicata al recupero.L’orario viene dato in quote annue. Ilche può anche prevedere una diversitàdi “dividendi” nel corso dell’anno. (Percomodità di confronto nella righe suc-cessive viene però riportato in ore set-timanali).

Insegnamento in lingua straniera diuna disciplina. È previsto l’insegna-mento in una lingua straniera comuni-taria di una disciplina, diversa dalle lin-gue straniere, in tutti gli ultimi annidel liceo, tranne che per il liceo lingui-stico dove ciò avviene fin dalla terzain inglese per una disciplina e dallaquarta in una seconda lingua comuni-taria per una seconda disciplina.

Il tutor: nei licei è prevista una figuradi tutor che orienta lo studente nellascelta delle attività opzionali e facol-tative, coordina le attività educative edidattiche, cura le relazioni con le fa-

miglie, cura la documentazione dellostudente.

La valutazione: è periodica e annualema (salvo casi gravissimi) solo al se-condo al quarto e all’ultimo anno puòsanzionare una bocciatura in caso dimancato raggiungimento di tutti gliobiettivi. Il liceo termina con un esa-me di Stato che si svolge su prove or-ganizzate dalla Commissione appositao dall’INVALSI.

Il liceo artistico: il liceo artistico ap-profondisce la cultura liceale attraver-so la componente estetica. Prevede treindirizzi.

Gli indirizzi del liceo artistico: artifigurative, architettura-design-ambien-te, audiovisivo-multimediale-scenogra-fico.

L’orario del liceo artistico: è differen-te tra i vari indirizzi ed è strutturatonei primi due anni in un orario obbli-gatorio e in un orario obbligatorio op-zionale, nel secondo biennio e nell’ul-timo anno in un orario obbligatorio, unorario obbligatorio di indirizzo e unorario opzionale obbligatorio.

L’orario del liceo artistico delle artifigurative: nel primo biennio 33 + 3,nel secondo biennio 23 + 12 + 3, nel-l’ultimo anno 21 + 12 + 5.

L’orario del liceo artistico degli altridue indirizzi: nel primo biennio 33 +3, nel secondo biennio 25 + 10 + 3,nell’ultimo anno 23 + 10 + 5.

Il liceo classico: approfondisce la cul-tura liceale dal punto di vista classicoe da accesso a tutte le facoltà. Non pre-vede indirizzi ulteriori.

L’orario settimanale del liceo classi-co: nel primo biennio 28 + 3, nel se-condo 29 + 2 + 3, nel quinto anno 26 +3 + 2.

Il liceo economico: approfondisce lacultura liceale dal punto di vista eco-nomico e sociale. Prevede due indirizzie otto settori (quattro per ogni indiriz-zo).

Gli indirizzi e i settori del liceo eco-nomico: sono economico istituzionalee economico aziendale. Iniziano nel se-condo biennio e ad essi sono dedicatele ore dell’orario opzionale obbligato-rio che perciò funzionano come ore di

superiorità dell’astrazione sulla concre-tezza, del sapere sul saper fare, dellateoria sulla pratica, della cultura sullatecnica, dei licei sui professionali e deilicei classici, ridiventati unica e solachiave in grado di aprire tutte le porteuniversitarie, su tutto il resto). È di-sposto a rinunciare alla “grande occa-sione” del più alto numero di precaridagli anni Settanta in poi e dell’esodobiblico dei pensionandi, per la irrinun-ciabile “piccola occasione” di un’appro-vazione estiva a scuole chiuse.Dopo quelle sulle elezioni anticipate,il nuovo Papa e l’elezione di Blair lescommesse sono aperte, ma forse èmeglio stare sul concreto e vedere, ap-punto, quale è lo stato dell’arte e checosa prefigura l’ultimo testo.

I tempi: la data fatidica di avvio restal’anno scolastico 2006-2007.

Il diritto-dovere: a partire dal 2006-07 è fissato al terzo anno della scuolasecondaria superiore o dei percorsi in-tegrati (17 anni), ma entrambi posso-no essere surrogati dall’apprendistatoin azienda.

Gli organici: sono bloccati fino all’an-no 2010-11 (entrata a regime del nuo-vo sistema) al numero dell’organico didiritto del 2005-06. Può essere assun-to a contratto anche personale espertoin base alla dotazione economica dellescuole.

Il sistema: rimane diviso in due siste-mi con i licei statali e l’istruzione e laformazione professionale regionale. Diquest’ultima fanno parte tutte le scuo-le o i corsi che rilasciano titoli profes-sionali.

L’istruzione e la formazione profes-sionale (IFP): viene sempre più iden-tificandosi con i corsi integrati previ-sti dall’accordo stato-regioni, i quali invirtù del decreto sul diritto-dovere, dafatto sperimentale diventano la “primafase” del sistema dell’istruzione dellaformazione professionale.

I titoli di studio professionali: sonola qualifica di operatore professionaledopo tre anni di corso e il diploma ditecnico dopo quattro anni di corso.

Dopo l’IFP: si può passare o all’IFTS oa un corso integrativo da tenersi in ac-cordo con università o accademie e con-servatori, per proseguire gli studi neisuddetti percorsi.

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preindirizzo. I settori per l’indirizzo isti-tuzionale sono quelli della ricerca edell’innovazione, internazionale, dellafinanza pubblica, e della pubblica am-ministrazione, per l’indirizzo aziendalesono quelli della moda, dei servizi, delturismo e l’agro-alimentare. Ad essisono dedicate le ore facoltative. Se nededuce che anche i settori sono facol-tativi.

Gli orari del liceo economico: nel pri-mo biennio 28 + 3, nel secondo 28 + 6+ 3, nel quinto anno 26 + 5 + 3.

Il liceo linguistico: approfondisce lacultura liceale dal punto di vista lin-guistico con la conoscenza di tre lin-gue di cui almeno due della UE. Nonprevede indirizzi ulteriori.

L’orario settimanale del liceo lingui-stico: nel primo biennio 28 + 3, nelsecondo biennio 29 + 2 + 3, nel quintoanno 26 + 3 + 2.

Il liceo musicale e coreutico: appro-fondisce la cultura liceale dal punto divista musicale e coreutico. È diviso nelledue sezioni: musicale e coreutica.

L’orario del liceo musicale e coreuti-co: È diviso in orario obbligatorio, ora-rio obbligatorio di sezione, orario op-zionale obbligatorio, e (solo negli ulti-mi tre anni) orario opzionale facoltati-vo: primo biennio 19 + 10 + 5, nel se-condo biennio e nel quinto anno 21 +11 + 2 + 3.

Il liceo scientifico: approfondisce lacultura liceale dal punto di vista uma-nistico-scientifico e fornisce competen-ze per la ricerca scientifica e tecnolo-gica. Non prevede indirizzi.

L’orario del liceo scientifico: nel pri-mo biennio 28 + 3, nel secondo bien-nio 29 + 2 + 3, nel quinto anno 26 + 3+ 2.

Il liceo tecnologico: approfondisce lacultura liceale dal punto di vista dellatecnologia. Prevede otto indirizzi.

Gli indirizzi del liceo tecnologico:sono otto: meccanio-meccatronico,elettrico-elettronico, informatico-co-municazione, chimico-materiali, produ-zioni biologiche-biotecnologie alimen-tari, costruzioni-ambiente-territorio,logistica-trasporti, tecnologie tessili-abbigliamento. Nel secondo biennio enel quinto anno l’orario opzionale ob-

bligatorio diventa orario obbligatoriodi indirizzo ed è dedicato ad attivitàlaboratoriali.

Gli orari del liceo tecnologico: nelprimo biennio 28 + 3 + 3, nel secondobiennio e nel quinto anno 24 + 10 + 3.

Il liceo delle scienze umane: appro-fondisce la cultura liceale dal punto divista delle relazioni umane e sociali,privilegiando modelli educativi e pro-cessi formativi. Si configura quindicome un liceo più psicopedagogico chesocio-umanistico. Non prevede indiriz-zi.

Gli orari del liceo delle scienze uma-ne: nel primo biennio 28 + 3 , nel se-condo biennio 29 + 2 + 3, nel quintoanno 26 + 3 + 2.

Le discipline

Tutti gli orari e gli organici sono modi-ficati tranne quelli di religione e dieducazione fisica. Calano gli orari fron-tali complessivi tranne che per le clas-si di concorso di matematica, scienzee filosofia.

Educazione fisica: ritornata a 2 oresettimanali, può essere però surrogatacon attività sportive private da partedell’alunno.

Latino: è presente nei licei classico,economico (i primi due anni insieme aitaliano), linguistico (il primo biennio),scientifico (primi 4 anni), scienze uma-ne (primi 4 anni).

Arte: nei licei economico, linguisticoe delle scienze umane è insegnata in-sieme a musica, nel liceo tecnologico èmateria opzionale obbligatoria nel pri-mo biennio, nel liceo scientifico, comeora, è associata a disegno, in tutti glialtri licei è storia dell’arte.

Musica: nel liceo tecnologico è mate-ria opzionale nel primo biennio, nei li-cei scientifico e classico è materia op-zionale per quattro anni, nel liceo lin-guistico, economico e delle scienzeumane è insegnata insieme ad Arte, nelliceo artistico è materia obbligatoria sée naturalmente è a sè nel liceo coreuti-co e musicale.

Diritto e economia: è materia opzio-nale obbligatoria (4 anni), nei licei ar-tistico, classico, linguistico, scientifi-

co, delle scienze umane e nel bienniodel liceo tecnologico, è materia obbli-gatoria nel liceo economico e negli in-dirizzi trasporti e costruzioni del liceotecnologico (ultimi tre anni).

Informatica: è all’interno del program-ma di matematica nei licei artistico,classico, linguistico, musicale-coreuti-co, scientifico, tecnologico e dellescienze umane, è materia a sé nel liceoeconomico (Tecnologie informatiche) enegli indirizzi del liceo tecnologico,tranne in produzioni biologiche e co-struzioni.

Laboratori: sono presenti solo negliindirizzi artistico e tecnologico, in que-st’ultimo solo negli ultimi tre anni.

L’impianto culturale

Come si può vedere da questo “statodell’arte” molte ipotesi iniziali dellariforma sono saltate. Ma si tratta pre-valentemente di ipotesi “tecniche”:l’uniformità degli orari in origine pre-vista sul modello 27 + 3 + 3 oggi nonha più riscontro in una situazione incui soprattutto nei bienni ogni liceosembra avere il suo; la relazione tra lediverse tipologie di orario; lo stessocontenimento degli orari (l’orario “mas-simo” del liceo tecnologico arriva a ben37 ore contro le 36 attuali). Ma anchela simmetria tra i vari licei è saltatacon la restaurazione del primato delclassico, la quantità degli indirizzi siè dilatata e mistificata (i licei veri epropri sono otto, diventano 19 se siconsiderano indirizzi e sezioni, 25 sesi considerano anche i settori dell’eco-nomico) per far fronte questo o quelgruppo di pressione salvando magarisolo la denominazione o adottandoneuna più comprensiva (costruzioni, am-biente e territorio anziché geometri,produzioni biologiche anziché agrari ecosì via); l’equivoco tra licei tecnici eprofessionali si è per un verso accre-sciuto (moda, alimentazione) e per l’al-tro chiarito (il mestiere di tecnico usci-rà dal professionale regionale).Resta invece in piedi, come si dicevaall’inizio, tutto l’impianto culturale conil suo sapore di restaurazione sociale.

NOTAL’articolo commenta la nona bozza di decreto.Sul sito di école (www.ecolenet.it) aggiorna-menti sulla successiva.

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sm, Legambiente, Scuola Proteo FareSapere, Mce), che hanno fatto sentirela loro voce, si sono impegnati a ri-stampare i vecchi testi, ma nei fatti lecose sono andate diversamente, perchémolte aziende editoriali si erano giàadeguate alle richieste ministeriali emolti genitori non hanno trovato, indistribuzione nelle librerie, perché nonristampati, i vecchi manuali.Abbandonando la tranquilla consuetu-dine e la pratica consolidata del librodi testo e generalizzando le buone pra-tiche presenti nella scuola e le elabo-razione di molte associazioni didatti-che, e ponendosi nell’ottica di svecchia-re la scuola con metodologie nuove,didattiche attive, lavori di gruppo, at-tività di tipo laboratoriale per innova-re i saperi e fronteggiare i processi dirapida trasformazione che investono lasocietà moderna, occorrerebbe adotta-re materiali e strumenti nuovi, autono-mamente prodotti. La normativa lo pre-vede a partire dalle sperimentazionipreviste dai Decreti Delegati e succes-sivamente dalla 517/1977 e dal DPR N.275/1999. E sarebbe anche il momen-to giusto, se si pensa alle inversioni ditendenza emerse dalle elezioni regio-nali che fanno sperare in un futuro an-nullamento della Riforma Moratti, comesi richiede da più parti.

I piani di studio

Le associazioni professionali hannopubblicamente denunciato anche cheun processo di grande rilievo culturale,quale quello della riformulazione di pia-ni di studio scolastici che indicano ilivelli essenziali di prestazione a cui le

scuole di ogni ordine e grado devonoattenersi, richiedono partecipazione,condivisione, confronto come condizio-ni irrinunciabili, nonché indicatori ditrasparenza e democrazia.La ministra, invece ha scelto di affida-re l’elaborazione dei piani di studio aduna commissione che non è stata uffi-cializzata, tanto da rendere impossibi-le interloquire, sia al mondo della scuo-la, sia al mondo della cultura e delleassociazioni professionali. Ancora oggile proposte rese pubbliche da LetiziaMoratti relative alle indicazioni dei pia-ni di studio sono rimaste anonime.Anche la scelta di allegare le indica-zioni al decreto legislativo N. 59/2004,disponendone l’adozione in via transi-toria, è una formula non prevista dallalegge di riforma ed ha rappresentatouna forzatura della normativa vigente.Sul piano dei contenuti poi i “nuovi”piani di studio rappresentano un peri-coloso arretramento rispetto ai pro-grammi attualmente vigenti nei variordini di scuola, come sostengono, adesempio, numerose prese di posizionedi studiosi a proposito della rimozionedelle teoria di Darwin dai manuali discienze e di storici ed associazioni distoria sulla rimozione della storia gre-ca e romana dai manuali del primo annodi scuola secondaria di primo grado, esulla concezione residuale del ‘900 edella contemporaneità.

Il nuovo che avanzaMARISA NOTARNICOLA

Per le adozioni dei libri di testo, in questa fine d’anno

scolastico, gli insegnanti si sono ritrovati ad affrontare gli

stessi problemi e le stesse difficoltà dello scorso anno:

impossibilità di riconfermare i vecchi manuali, che non

vengono più ristampati, e, nei fatti, la scelta obbligata tra le

offerte delle case editrici lanciatissime ad adeguare i libri ai

dettami della Riforma

La circolare ministeriale sui li-bri di testo (N. 38, marzo 2004) invia-ta dal Miur alle scuole, prevedeva l’ade-guamento dei contenuti al nuovo as-setto ordinamentale definito dal decre-to legislativo N. 59/2004 al quale era-no state allegate, in via transitoria,anche le “Indicazioni nazionali dei pianidi studio”, con l’intento di avviare suc-cessivamente l’iter procedurale per ladefinizione dei regolamenti, di cui peròancora oggi nulla si sa, per renderlidefinitivi.Successivamente seguiva una nota pro-tocollare (N. 9478/2004) con la qualeil Miur richiamava all’ordine i docenti ei dirigenti scolastici, ricordando l’esi-genza che i libri di testo fossero con-formi ai nuovi piani di studio. Inoltrele indicazioni ministeriali alle case edi-trici erano quelle di riprodurre testiscolastici coerenti con i contenuti diquesti.

I libri di testo

Pur essendo state votate mozioni a fa-vore della riconferma dei testi prece-denti la riforma, i docenti si sono tro-vati a subire pressioni lesive della pro-pria libertà di insegnamento garantitadall’articolo 33 e dall’articolo 117 deltitolo V della Costituzione e dal DPR275/99 sull’autonomia scolastica, co-stretti, talvolta, perfino ad adottaresussidi didattici in contrasto con quantoviene stabilito nel piano dell’offertaformativa di scuola (Pof) e nella pro-grammazione educativa e didattica.Rappresentanti di alcune case editricipresenti ai dibattiti pubblici delle mol-te associazioni professionali (Cidi, Fni-

Assemblea

I soci dell’Associazione idee per l’educazione sonoconvocati per l’Assemblea annuale venerdì 17giugno 2005 alle 13 (prima convocazione) e alle18.30 (seconda convocazione) a Bore - Parmanella struttura della Comunità Montana. All’ordinedel giorno: rinnovo cariche sociali, bilancioconsuntivo 2004, bilancio preventivo 2005.

Seminario redazionale di école17 - 19 giugno 2005 Comunità montana, Bore,(Parma)

La redazione di école si incontra per valutare leattività dell’anno 2004 - 2005, ridefinire ilprogetto editoriale e il piano di diffusione dellarivista.

A scuola di repubblica. Saperedi incontriFirenze, domenica 11 settembre 2005 dalle 10alle 18, sala dell’Arci a piazza dei Ciompi 11.

école, come di consueto, invita insegnanti,studenti, cittadine e cittadini, associazioni,comitati, coordinamenti, reti a un incontro perdiscutere del rapporto pubblico/privato e deiprocessi che lo attraversano e per elaborare uncatalogo di idee e proposte che diano identità esenso alla scuola pubblica del dopo Berlusconi.

INFO: 031.268425 - [email protected] - www.ecolenet.it

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LE LE

GGI

Il problema non è soltantodell’efficacia e della validitàsotto un profilo didattico ditali forme di valutazione, ilproblema è anche di chi devevalutare, e di chi deve deci-dere i criteri della valutazio-ne. Si tratta di scelte che im-plicano modelli didattici edincidono in modo determinan-te sull’attività didattica dellescuole.È fin troppo evidente che sela valutazione, i relativi crite-ri e le relative verifiche sonodecisi dal Ministero dell’Istru-zione o da un organismo diemanazione ministeriale comel’INVALSI, la scuola sarà valu-tata secondo parametri e mo-delli ministeriali; di conse-guenza la scuola si uniforme-rà rispetto a tali modelli; saràcioè sempre di più una scuolaministeriale e cioè la negazio-ne della scuola dell’autonomia.Ciò non significa che l’auto-nomia scolastica sia preclusi-va di ogni forma di valutazio-ne del sistema scolastico; né,tanto meno, significa soste-nere l’autoreferenzialità di cia-scuna scuola; l’autonomia diciascuna scuola deve difatti

collocarsi in un sistema sco-lastico statale con un proprioprogetto culturale nazionale econ proprie regole; ma l’auto-nomia esige che tale sistemastatale sia governato in mododemocratico e pluralista, pre-cludendo ogni possibile formadi interferenza del Ministrosull’attività didattica dellescuole.La scuola dell’autonomia devesignificare una scuola di tuttie cioè una scuola governatanon dagli esecutivi (Ministried assessori), ma da organi-smi indipendenti e pluralisti.Non si può quindi magnifica-re l’autonomia scolastica e nelcontempo sostenere un siste-ma di valutazione che tende amodellare la scuola secondogli schemi ed i parametri mi-nisteriali; se si vuole esserecoerenti, bisogna sapere chel’autonomia scolastica esigeche qualsiasi forma di valuta-zione del sistema scolasticoanzitutto deve essere affida-ta ad un organismo effettiva-mente indipendente dal Mini-stero e pluralista; non è que-sto il caso dell’INVALSI, cheinvece è un organismo di no-

mina ministeriale e quindipoliticamente e culturalmen-te subalterno all’esecutivo; maè pure necessario che la valu-tazione del sistema scolasti-co nel suo complesso sia coe-rente con le scelte didattichedelle singole istituzioni sco-lastiche e quindi sia un mo-dello flessibile e profondamen-te condiviso dalle istituzioniscolastiche e dalle realtà chene fanno parte.L’articolo 7 del Decreto Legi-slativo n. 297/94, ancora invigore (nonostante tutti i ten-tativi di ridimensionarne il con-tenuto) attribuisce al Collegiodei docenti «potere deliberan-te in materia di finanziamentodidattico»; quindi qualsiasi at-tività di natura didattica deveessere sempre condivisa dagliorgani collegiali della scuola edin primo luogo dal collegio deidocenti.Non si tratta di respingereogni forma di valutazione e diverifica, l’autonomia implicainfatti scelte ed è giusto chetali scelte siano valutate everificate anche in sede diconfronto; ma valutazioni everifiche non possono diven-

L’autonomiascolasticae le prove InvalsiCORRADO MAUCERI

La recente pretesa del ministro Moratti di sottoporre alle prove

INVALSI gli alunni delle scuole italiane disponendone in modo del

tutto arbitrario l’obbligatorietà per alcune classi e la facoltatività per

altre ha riproposto non solo il problema molto complesso e delicato

della valutazione del sistema scolastico, ma anche quello

dell’autonomia scolastica

tare forme di condizionamen-to e/o di controllo culturaleverticistico e burocratico cheprescinde dal lavoro proget-tuale e di ricerca svolto nellescuole.Giustamente quindi i settoripiù sensibili della nostra scuo-la hanno contestato, con l’ap-poggio anche dei genitori, leprove INVALSI non solo sottoil profilo dell’efficacia e dellavalidità, ma anche sotto il pro-filo del rispetto dell’autono-mia e del pluralismo cultura-le; non è tollerabile che unMinistro, sia pure con la co-pertura di un organismo ap-parentemente autonomo, im-ponga propri modelli culturalial mondo della scuola; ovvia-mente questa osservazionevale ora nei confronti del Mi-nistro di questa maggioranza,ma (è bene tenerlo presente)varrà anche per l’avvenirequando la maggioranza di Go-verno sarà diversa.È necessario una volta per tut-te uscire da questa ambigui-tà; l’autonomia scolastica esi-ge un governo del sistema sco-lastico democratico e plurali-sta.

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TEMA A CURA DI ANDREA BAGNI E BIANCA DACOMO ANNONI

Ripensare il lavoro, mentreattraversa la tua vitaBIANCA DACOMO ANNONI

La questione del lavoro – o dell’”attività

umana”, come alcuni propongono di ri-

definire il termine – è quella che più di

qualsiasi altra in questi anni sta attraversando

le società capitaliste, determinando

trasformazioni rapidissime e non facili da

decifrare

Se da sempre si lavora per vivere e/o si vive per lavora-re, si era sedimentato nel tempo un intreccio saldissimo traforme del lavoro e forme del vivere sociale – famiglia, scuo-la, tempo libero – e con esse si erano strutturati modelliculturali e relazionali dove il lavoro-identità della personaassegnava a ciascuno ambiti ben definiti: in termini di espe-rienza, di conoscenza, di appartenenza di classe.Il lavoro garantito nelle società del benessere come spazioquasi esclusivo di espressione ma anche di definizione di sé;la storia lavorativa come valore riconosciuto nel passaggiodi consegne alle nuove generazioni, nella trasmissione disaperi che parlavano di un luogo privilegiato di esperienzacollettiva, del senso rintracciabile in uno spazio di relazio-ni, del lavoro come fattore di promozione sociale.Oggi su questo versante la comunicazione è interrotta, e leparole nuove non ancora trovate.La diminuzione-assenza e insieme il cambiamento delle for-me del lavoro stanno sconvolgendo equilibri e certezze tra-sversalmente in tutti gli ambiti sociali, in chi ancora lavorama chissà fino a quando, nei pensionati e tra gli espulsi, inchi il lavoro non lo trova e in chi ne subisce i ricatti semprepiù pesanti. La flessibilità è diventata sinonimo di precarie-tà, eppure questa che appare – a chi di noi ha finora speri-mentato il “posto fisso sicuro” – un’inaccettabile improvvi-sa privazione di diritti e di conquiste civili, non sembra vis-suta allo stesso modo dalle nuove generazioni. Quasi si con-frontassero nell’interfaccia del lavoro due modelli di vita,dei giovani e degli adulti, per quanto diversi ma fino a ieribasati entrambi su sicurezze che improvvisamente sparisco-no, e la lettura dai due osservatori evidenziasse negli adultiun’inconsapevole difficoltà a percepire una realtà che per igiovani era già data, e nella quale anche per questo la pre-carietà lavorativa è in fondo accettata come dato ‘normalecon il quale convivere.

SAPERE LAVORO

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TEMA SAPERE LAVORO

[ Da grande voglio fare...ELEONORA ANTONUCCI *

Credo che tutti i ragazzi della mia età abbiano benchiaro cosa vogliono fare da adulti. Ambiziose atti-vità sono nei loro futuri progetti ma è sempre diffi-cile arrivare a ciò che si vuole. A me piacerebbeintraprendere il mestiere di fotografa-criminologa-giornalista. Certo direte che bisogna avere un solosogno nel cassetto, ma diventando più grande capi-rò cosa è fatto per me. Penso che se mi impegno intutti questi lavori riuscirò a combinare qualcosa. Iopenso che questi lavori sono adatti a me e tuttidicono che sono molto brava in tutti questi. Pensoche la scuola elementare e media dia le basi pertutti i mestieri, come storia dell’arte e disegno pergli artisti, tecnica e matematica per i geometri ec-cetera. Quindi le scuole elementari e medie dannole basi principali per scegliere e poi alle superiori eall’università si sceglie ciò che si desidera per ap-profondire il proprio argomento preferito.

Ecco cosa ne pensano Edoardo, Giulia e Eleonora,miei compagni di scuola.

Cosa ti piacerebbe fare dagrande, e perché?«Il veterinario, perché mipiacciono gli animali», Edo.«La ricercatrice medica, inneurologia e genetica, per-ché trovo che sia un lavorointeressante e vorrei salva-re delle vite ed evitare inu-tili sofferenze», Giulia.«La giocatrice di baseball,perché mi piace molto losport», Ele.

Pensi che la scuola ti aiu-ti a diventare ciò che vuoi?«Sì, pensandoci bene qual-siasi materia serve per farequalsiasi lavoro. Un esem-pio banale: se uno vuolefare il dottore e studia me-dicina a fondo e poi non sascrivere, come le fa le ri-cette?», Edo.«Solo in alcune materie,perché ci sono delle mate-rie che mi danno le basi perscegliere», Giulia.«Sì, perché negli esercizifisici che faccio a scuola èabbastanza sviluppato ilgioco di squadra e i movi-menti delle braccia e lacorsa sono bene articola-ti», Ele.

* 11 anni, classe 1ª D, Istitu-to Comprensivo San Biagio,S.M.S. “Don Minzoni”, Raven-na.

E allora noi ‘adulti’ cresciuti con una forte cultura dei diritticollettivi e con riferimenti certi nelle strutture sindacali e dipartito, in piazza fino a ieri in difesa dell’articolo 18 pertutti i lavoratori, ci accorgiamo improvvisamente che i dirit-ti per i giovani oggi sono rivolti al consumo, anche dellavita vissuta giorno per giorno, più che al lavoro e a un pro-getto di futuro; e ci viene il dubbio di stare trasferendo sullenuove generazioni angosce esistenziali che sono nostre, per-ché ci frana sotto i piedi un terreno di sicurezze conquistateanche con la lotta; e non eravamo ancora pronti a ricono-scere nei nostri figli il disincanto ma anche la novità di unapproccio alla realtà meno idealista ma anche più pragmati-co, la sfida di chi pretende un “reddito di esistenza” primadi un diritto al lavoro, e comunque insegue forse più di noiuna ricomposizione della separatezza lavoro-vita anche ac-cettando la “messa al lavoro” della propria esistenza se que-sto significa avere uno spazio di continuità e di espressionecui attribuire un senso.Riflessioni, domande e inquietudini assolutamente sogget-tivi e in divenire, ma che forse ci riguardano un po’ tutti esulle quali sarebbe bello aprire un confronto.

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Col sudore della menteMARCO BASCETTA *

Il vecchio principio democratico della formazione

permanente è stato rovesciato in una inesauribile

coazione al consumo di saperi non durevoli sul

mercato della formazione privata

All’idea che il lavoro cognitivo, relazionale, comunicativoabbia occupato il centro della scena finendo con l’influenzareanche quelle attività meccaniche, ripetitive, o addirittura ma-nuali che più nettamente se ne distinguono, vengono opposteda più parti numerose obiezioni. Una di queste, di carattereempirico, è che solo una delle venti professioni più diffuse negliStati Uniti e nessuna delle venti più diffuse nel nostro paeserichiederebbe un titolo di studio. Tuttavia se è arduo oggi indi-care nettamente i contorni di una professione, i suoi requisiti ei suoi contenuti, ancor di più lo è tracciare sulla sua base unprofilo biografico, laddove è assai più frequentemente il pas-saggio tra l’una e l’altra, l’assemblaggio di attività spurie e in-classificabili a definirlo. Proprio questo elemento del passaggio edella disponibilità al passaggio, indipendentemente dal contenu-to delle diverse attività che si incontreranno sulla propria strada,costituisce quel lavoro di carattere mentale che implica informa-zione, relazioni, strumenti culturali, capacità linguistiche. L’equi-voco, che sta alla base di molte obiezioni, consiste essenzialmen-te nel pensare il lavoro cognitivo nei termini del classico lavorointellettuale, separato e specialistico, mentre qui sono facoltà benpiù generiche e generalmente diffuse a entrare nel gioco.

Logica aziendale

Chi abbia avuto occasione di esaminare un numero cospicuo diCurricola vitae, il genere autobiografico oggi più largamente dif-fuso, non avrà mancato di notare l’elencazione di qualità e com-petenze del tutto estranee all’attività delle aziende a cui ci sirivolge. Con difficoltà si potrebbe immaginare un giovane deglianni ’60 indicare l’esperienza di animatore in un villaggio-va-canze, o un certo tipo di passioni e consumi culturali, comesignificativi per l’assunzione in una casa editrice o in un corpodi polizia privato. Detto altrimenti, la composizione culturale eil sostrato comunicativo delle professioni più banali, rimasteapparentemente uguali a sé stesse nel corso dei decenni, sonoin realtà profondamente cambiati.Cambiato è in conseguenza anche il rapporto tra il consegui-mento di un titolo di studio e lo svolgimento di una attività dicarattere cognitivo o intellettuale, nel senso che ogni conse-quenzialità in qualche modo garantita è stata recisa, se non intutti, certamente in innumerevoli casi. D’altro canto, un deter-minato titolo di studio, può figurare come un requisito deside-rabile in un campo assolutamente estraneo al suo contenutospecifico. Come l’animatore del villaggio-vacanze può trasfor-marsi in un valente manager aziendale, il laureato in economiae commercio può ancora più probabilmente risultare ideale peranimare un villaggio-vacanze. Nell’un caso e nell’altro si tratta,

Le parole sono piume...ANDREA BAGNI

La formula magica della societàdella conoscenza. Il senso dellascuola per chi deve navigare nelmare aperto dellesottoccupazioni

Uno torna a casa da scuola e a Radio24sente da uno bravo: «l’idea che il lavorodebba corrispondere al proprio studio èmolto italiana ormai, si sa che nei mo-menti duri del carovita le persone fannoanche tre o quattro lavori per garantireprogettualità alla propria vita...». Bellis-simo, garantire progettualità alla propriavita. Quando non ce la fai ad arrivare allafine del mese e fai di tutto per sopravvi-vere, garantisci progettualità alla tua vita.Il linguaggio è tutto. Le parole sono piu-me.Verrebbe voglia di tornare al sano vecchiomaterialismo. Quanti imbrogli dietro laformula magica della società della cono-scenza, del sapere moderna forza produt-tiva. E tuttavia forse l’imbroglio convieneprenderlo sul serio – se non altro per tro-vare contraddizioni, soggetti e pratichealternative a questo livello delle trasfor-mazioni. Per non essere troppo nostalgicidel lavoro dipendente “garantito” a vitaalla catena. Sicuro come una condanna.Perché è vero che forse i nostri studentisaranno schiacciati come non mai dall’in-sicurezza (stage lavoretti call-center, unamano ogni tanto dalla mamma, semprelegati a qualche paghetta) mentre staran-no costruendo il loro c.v. (curriculum vi-tae), le loro competenze, il loro progetto.Il sapere uno strambo assemblaggio, pre-zioso più come dinamica di smontaggio-rimontaggio rapido, modello ikea, che peri contenuti e le grammatiche.Eppure.Eppure la società dell’esclusione e dell’oc-cupabilità fa nascere anche strani soggettie desideri. Stravaganti. Forse la scuola èinsieme superata e dotata di senso per chideve navigare nel mare aperto delle sot-toccupazioni: incerta come professiona-lizzazione nell’epoca delle professioni in-certe; fuori tempo quando le durate sonotutte saltate, gratuita dove lo scambio èuna fregatura.Che identità avranno ragazze e ragazzi diquesti post-lavori così “progettuali”; inquali relazioni interpersonali si costrui-ranno, per quale politica? Beh, è una bel-la domanda...

]TEMA SAPERE LAVORO

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in fondo, di “scienza dell’organizzazione”. C’è allora da chie-dersi perché i programmatori governativi e gli strateghi ne-oliberisti puntino così decisamente a una professionalizza-zione, quanto più precoce e determinata possibile del pro-cesso di formazione, di fronte a un mondo produttivo chesembra contraddirla alla radice rendendo strutturale e incol-mabile proprio quel divario tra istruzione e mercato del la-voro che la demagogia politica continuamente promette divoler colmare. Come predefinire percorsi manifestamente in-definibili? Come dare un contorno preciso a figure profes-sionali effimere e mutevoli? Come prevedere le oscillazionidel mercato e il perenne rivoluzionamento dei processi pro-duttivi per adattarvi conoscenze e metodologie?Non vi sarebbe risposta alcuna se non fosse che l’intento dei“razionalizzatori” è tutt’altro da quello dichiarato, riducen-dosi piuttosto a un’arida contabilità costi-benefici nella piùschietta e meschina logica aziendale. Proprio perché ogni fi-gura professionale è effimera e intercambiabile sul mercatodel lavoro, il costo e il tempo della sua produzione devonoessere ridotti all’osso, così come il suo contenuto di sapere.

Professionalizzati a buon mercato

Lo spezzettamento della formazione universitaria in un tri-ennio più un biennio e l’introduzione dell’esperienza lavora-tiva e dei percorsi preconfezionati nella scuola secondarianon fanno che rispondere a questa esigenza: evitare che isingoli si dilunghino nella ricerca di un proprio percorsoindividuale o che, peggio ancora, assemblino in modo im-proprio i diversi elementi dell’offerta formativa al servizio diuna qualche forma inedita e autonoma di attività. La forma-zione, in altre parole, non deve eccedere in nessun modo laquantità e la qualità richiesta dalla fase (peraltro del tuttocontingente) che attraversa il mercato del lavoro. Un sapereche ecceda la mansione che gli è richiesta alimenta semprequell’elemento di tensione, di attrito e di autonomia chesiamo soliti chiamare spirito critico. Ogni eccedenza è con-siderata dunque, oltre che un pericolo, uno spreco, una dis-sipazione, una diseconomia. Inutile ricordare a questi “ri-formatori” che in quella eccedenza e in quello spreco sonoracchiuse ogni proiezione verso il futuro e ogni potenzialitàdi sviluppo della cultura di una qualunque formazione socia-le. Inutile rammentarlo perché implicherebbe il rovesciamentodi un dogma largamente condiviso, e cioè l’universalità in-discutibile della “razionalità” aziendale.Fatta salva la ristretta cerchia degli specialismi irrinunciabi-li, circondati da barriere fiscali e selettive oltre che dal-l’ideologia dell’”eccellenza”, al resto si prescrive una forma-zione rapida, immediatamente spendibile e altrettanto im-mediatamente destinata ad andare fuori corso (nel sensodella moneta scaduta). Tanto più professionalizzati quantopiù è labile lo statuto delle professioni. Tuttavia, una voltacontenuti i costi della formazione, un problema resta: dadove trarre gli strumenti e le competenze per assecondarel’evoluzione continua delle procedure produttive e del mer-cato del lavoro che ne organizza la domanda? A chi dovran-no rivolgersi i nostri professionalizzati a buon mercato perrimanere in corsa? Pronto a soddisfare ogni genere di richie-ste c’è il mercato in tumultuosa espansione della formazioneprivata, (e a un livello più elevato i centri di controllo dellaproprietà intellettuale) sempre in grado di offrire “prodotti”di rapido consumo, infarinature d’ogni genere, competenzealla moda, specializzazioni prêt à porter. Si vedono pubbli-cizzare perfino corsi per facchini e portieri di notte, segno

che perfino in siffatte occupazioni è previsto in qualche modoun contenuto cognitivo. La razionalizzazione della scuolapubblica e dell’università , nei termini in cui è stata portataavanti, non sarebbe stata neanche concepibile senza un rin-vio obbligato al mercato privato della formazione. Detto al-trimenti, il vecchio principio democratico della formazionepermanente è stato rovesciato in una inesauribile coazioneal consumo di saperi non durevoli sul mercato della forma-zione privata. Questo consumo (al contrario dell’istruzionepubblica che, nonostante l’adozione di un linguaggio ban-cario, viene considerata una spesa e non un investimento) èconsiderato, a tutti gli effetti un investimento. Poiché ognunodi noi dovrebbe essere “imprenditore di se stesso” e cioècostruire la propria biografia come un piano di sviluppo azien-dale, sarà chiamato a investire per l’accrescimento del pro-prio “capitale umano”, acquistando pacchetti formativi sulrelativo mercato. Alla prima sommaria professionalizzazionea cura dello stato, seguirà un numero indefinito di altret-tante sommarie riprofessionalizzazioni vendute a caro prez-zo dalle aziende del settore formativo, al servizio di unaserie di passaggi del tutto indifferenti all’arricchimento so-ciale o culturale dei singoli. Il carattere cognitivo e lingui-stico della produzione si accompagna così al parsimoniosocontrollo esercitato sulla trasmissione del sapere. L’idea ne-oliberista di formazione è tutta racchiusa in questo disposi-tivo. Rovesciarlo significa affermare i caratteri extraecono-mici della conoscenza, non nel senso di una sublime estra-neità al mondo della produzione, ma nel senso della suairriducibilità alle unità di misura, ai rapporti proprietari ealle gerarchie di potere che lo governano.

* Direttore di “manifestolibri”.

[ Guardarsi dentro,guardarsi attorno«La mia amica Silvia vuole fare l’estetista... siamosempre state insieme, farò l’estetista anch’io».«Figlio, fai ragioneria, perché se trovi un posto inbanca ti metti tranquillo per tutta la vita...».«Mi piace l’elettronica, ma Luca dice che all’istitu-to commerciale è pieno di ragazze, quasi quasi...».E così la scelta del percorso diventa una scommes-sa, un azzardo basato su motivazioni che forse traqualche anno si riveleranno inconsistenti.Quante volte i/le consulenti di orientamento si tro-vano di fronte a stereotipi e preconcetti, quantevolte le scelte importanti vengono improvvisate.Orientamento non è illustrare vantaggi e svantaggidel tale mestiere o della tale scuola, non è suggeri-re soluzioni; è piuttosto indicare le strade per guar-darsi dentro e guardarsi intorno, in modo che lapersona possa formulare ipotesi di percorso che ri-spettino i propri talenti e le motivazioni profonde,per poi valutare e decidere.Ciascuno è responsabile delle proprie scelte – mauna scelta responsabile si basa sulla acquisizionedi tutte le informazioni possibili, sia dal mondoesterno sia dal mondo interiore.

[Da: www.orientamento.provincia.cuneo.it].

TEMA SAPERE LAVORO

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Tra autonomiae subordinazioneIVANA FELLINI *

Una delle più rilevanti trasformazioni del

mercato del lavoro italiano negli ultimi

quindici anni è legata ai processi di

flessibilizzazione (e precarizzazione), tanto

dal punto di vista degli elementi di

regolazione normativa (approdati alla Legge

30/2003), quanto dal punto di vista

dell’articolazione delle esperienze soggettive

del lavoro. Alcune contraddizioni del nuovo

modello produttivo vissute da giovani

“atipiche” e “atipici”

La maggior parte degli studi condotti sia a livello in-ternazionale sia a livello nazionale – e, nel caso italiano,anche con riferimento al proliferare dei rapporti contrattualidiversi dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato e atempo pieno – sono concordi su almeno due “effetti benefi-ci” della flessibilità del lavoro.In primo luogo, un maggior grado di flessibilità – sia perquanto riguarda la temporaneità dei rapporti di lavoro siaper quanto riguarda le modalità di utilizzo della prestazionelavorativa – avrebbe offerto possibilità di impiego a un am-pio bacino di persone – ad esempio le donne – le cui chanceoccupazionali sono tradizionalmente penalizzate. In secon-do luogo – e la massiccia presenza di giovani in tutti le“nuove” forme contrattuali che si sono affiancate ai contrattidi lavoro standard (contratti temporanei, collaborazioni, inte-rinale) lo indicherebbe – la maggiore flessibilità ha favorito ilprimo ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, in un paesein cui la disoccupazione giovanile è stato un grave problemasociale, almeno nel corso degli anni ’80.

Cortocircuiti

Anche senza mettere in discussione il contributo della fles-sibilità alla crescita dell’occupazione, non si può negare chela crescente articolazione delle forme del lavoro abbia dise-gnato spazi di cortocircuito tra esigenze produttive e biso-gni/ progettualità soggettive, in quella promiscua vicinanzatra flessibilità e precarietà che molti percorsi individualimettono in luce. Al proposito, importanti elementi di valu-tazione provengono dalla crescente mole di ricerche qualita-tive che indagano i vissuti dei lavoratori flessibili, spessocon riferimento a specifiche realtà territoriali o settoriali ea specifiche forme contrattuali, tra le quali spiccano i con-

tratti di lavoro parasubordinato (le collaborazioni coordina-te e continuative), nella loro ambivalente posizione a caval-lo tra autonomia e subordinazione.Da questo tipo di indagini (su cui le considerazioni che se-guono si basano 1) emergono molte delle contraddizioni checaratterizzano il nuovo modello produttivo (e occupaziona-le), tanto nei loro elementi di positività quanto in quelli dicriticità.Un primo aspetto che nei vissuti dei lavoratori atipici2 emergecome elemento di positività è legato alla dimensione del-l’autonomia (a volte effettiva a volte solo percepita), nelpreciso significato di presa di distanza da un modello dilavoro di carattere “impiegatizio” che definisce a priori letappe di sviluppo del proprio percorso lavorativo e persona-le. La questione dell’autonomia appare – nei racconti di questilavoratori – strettamente legata anche al ruolo centrale cheil lavoro assume non solo dal punto di vista della riproduzio-ne materiale ma dal punto di vista identitario, lungi dall’es-sere solo uno spazio residuale dell’espressione del sé. Intutte le storie raccontate l’attività lavorativa non è mai soloun impiego, un’occupazione, piuttosto un strumento attra-verso cui determinare una coerenza tra il vissuto privato equello “pubblico”, e dunque il lavoro rappresenta una fonteprimaria di realizzazione personale. Tra le righe dei raccontiemerge con forza la differenza tra avere un lavoro e avere unprogetto professionale, sebbene l’identificazione a ritroso diprogetti professionali coerenti con le varie tappe del cam-mino intrapreso riguardi spesso solo le esperienze più felici.Controaltare dello spazio di autonomia e di crescita dentropercorsi di lavoro poco standardizzati, è l’elevato livello dicommittment richiesto – che si traduce per tutti (soddisfattio meno della propria condizione) nello sforzo di elevare ilpiù possibile la qualità (e altrettanto spesso la quantità)della prestazione – per riuscire a stare sul mercato del lavo-ro, per garantirsi la continuità delle collaborazioni e nonperdere potenziali/altri datori di lavoro/committenti, perassicurarsi un livello retributivo adeguato, almeno nel breveperiodo. Segue a catena l’erosione progressiva dello spazioprivato e sociale perché l’intensità dello sforzo deborda, inalcuni casi, nel tempo libero e, in altri, istanze e interessilavorativi lo colonizzano. Il modello impiegatizio è eviden-temente scampato e gli spazi lavorativi ed extra-lavorativisono sempre più fortemente intrecciati.

Flessibili e precari

Le contraddizioni sono più stridenti quando si considerano ipercorsi lavorativi di quei giovani atipici che subiscono bat-tute d’arresto perché investono oltre la sfera identitaria an-che quella della riproduzione materiale. Le ragioni sono di-verse – congiunture più sfavorevoli, cambiamenti che pos-sono investire il mercato del lavoro/occupazionale di riferi-mento, progetti e dunque opportunità di lavoro che esauri-scono la loro ragione d’essere – ma comunque impongonocambiamenti di rotta, magari accompagnati da interruzioniprotratte del flusso di reddito, ammortizzate dalla famigliao dalla cerchia di relazioni più forti. In questi casi il baga-glio formativo (e in un certo senso la sua flessibilità) puòessere una risorsa cruciale per individuare nuove opportuni-tà, non necessariamente coerenti con l’esperienza pregres-sa. E a proposito di formazione, è interessante notare che intutti gli intervistati è molto elevata la consapevolezza delruolo giocato, da un lato, dalla loro formazione acquisita(quale forma di assicurazione contro la precarietà anche a

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Cooperative: sociali,ma non equeGIULIA BARCALI *

Nel settembre del 2004 si è riunita presso il

Centro Sociale “Il Pozzo”, a Firenze, una

nutrita assemblea per avviare un

ragionamento sulla condizione di vita/ lavoro

degli operatori ed operatrici delle cooperative

sociali

Da questa esperienza è maturata l’ambizione di tenta-re un’inchiesta. Esponenti del Firenze Social Forum, GiovaniComunisti/e e PRC, Cantieri Solidali de Le Piagge, CollettivoPrecari dell’Università e singoli/e hanno per alcuni mesi dif-fuso un questionario anonimo fra operatori ed operatrici delsettore indagandone la condizione di vita, le vicende forma-tive e le condizioni di lavoro.Abbiamo “inchiestato” più di 100 persone che lavorano neiServizi Sociali per conto di cooperative sociali. Si tratta so-prattutto di trentenni, nubili/celibi e spesso conviventi senzafigli, per lo più donne. Guadagnano meno di 1.000 euro an-che quando lavorano a tempo pieno ed anche se turnisti.Non di rado il loro monte orario “dipende dal bisogno” delservizio. Solo pochissime unità sono iscritte ad un sindaca-to.Nell’analizzare i dati raccolti ci siamo resi conto che eraindispensabile fare una distinzione fra chi opera in grandicooperative (da 50 a alcune centinaia di soci) e chi in pic-cole cooperative (meno di 40 soci). Abbiamo registrato chei soci delle piccole coop partecipano per la quasi totalitàalle assemblee, mentre per quanto riguarda le grandi ciòaccade per una percentuale inferiore di lavoratori. Stessotrend per quanto riguarda la percezione di democrazia neirapporti all’interno della coop.

Come stai?

Una parte dell’inchiesta aveva titolo “Come stai?”, gli ope-ratori delle piccole coop dichiarano per lo più di essere «ab-bastanza soddisfatti» del proprio lavoro dal punto di vistadelle aspettative personali, quelli delle grandi rispondonoin molti di più di non esserlo. Nelle piccole si sentono «ab-bastanza» soddisfatte le aspettative professionali, nelle gran-di no.Quando invece si tocca l’aspetto economico il giudizio risul-ta unanime: i bisogni restano insoddisfatti e la retribuzionenon è equa.

La maggior parte dei lavoratori intervistati hanno un con-tratto a tempo indeterminato ma noi li abbiamo chiamati lostesso precari perché il loro lavoro è legato alle sorti di un

costo di cambiare progetto professionale) e, dall’altro, dellaformazione a venire (accaparrabile generalmente a propriespese e, ancora, nel tempo extralavorativo), quali strumentiper la continuità occupazionale.Se queste sono le contraddizioni nel breve periodo, in unorizzonte temporale più lungo ne emergono altre, anche sespesso non consapevolmente riconosciute: i giovani atipicilamentano che la flessibilità non permette di progettare lapropria vita in una prospettiva superiore alla durata dei con-tratti, al massimo un biennio, e che la continua ridefinizio-ne della posizione lavorativa obblighi ad una contestualerevisione della progettualità personale, che porta necessa-riamente all’impasse sulle scelte “importanti”. Sempre cita-te sono la scelta di acquistare una casa, la scelta di costitu-ire una famiglia tradizionale così come i problemi legati allamancanza (o alle parziali) tutele previdenziali e assicurati-ve.Eppure, sono pochi i casi di giovani atipici (intervistati) chesi dicono disposti ad accettare un impiego a tempo indeter-minato se ciò significa rinunciare ai contenuti professionali,con alcune differenze tra chi è diplomato e chi è laureato. Iprimi sono un po’ più possibilisti, probabilmente perché por-tatori di esperienze in cui il lavoro flessibile è più incerto, enel confronto con il mercato del lavoro si sentono più espo-sti al rischio di essere sostituiti da nuove e più competitiveprofessionalità. Tale certezza andrebbe forse valutata consi-derando quell’effetto “euforia” generato da anni di congiun-ture occupazionali positive 3, e che dunque si tratta di vis-suti mai veramente esposti al rischio di esclusione dalle di-namiche occupazionali.

* Ricercatrice IRS (Istituto per la Ricerca Sociale).

NOTE1. Il riferimento è nello specifico all’approfondimento sui giovani lavo-ratori con contratti di collaborazione coordinata e continuativa realiz-zato nell’ambito della Seconda Indagine Sociale Lombarda - Irer (2004),Fragili equilibri, Guerini e Associati, Milano.2. Stiamo qui riferendoci a coloro che hanno già concluso la transizioneal lavoro e dunque non sono al primo impiego, ovvero hanno già unbagaglio di esperienza di lavoro e un periodo di “apprendistato” allaflessibilità.3. I giovani atipici che hanno partecipato alla ricerca si sono tuttiinseriti sul mercato del lavoro dalla seconda metà degli anni ’90, peri-odo di notevole dinamismo del mercato del lavoro lombardo.

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Il sapere messo al lavoroSCIPIONE SEMERARO *

Le ultime invenzioni del ministro

dell’istruzione su scuola di cultura e scuola del

lavoro ci riportano nel gorgo di una

discussione difficile e comunque importante.

Per la destra si tratta di una operazione

politica e sociale che sotto i fumi

dell’ideologia mira solo – e con grande

povertà di intenzioni – al riposizionamento

classista della scuola italiana, soprattutto

quella secondaria

Il ruolo dell’enfatizzazione del saper fare rispetto ai sape-ri intende solo riportare indietro i diritti dei cittadini adavere una formazione complessa e completa per tutti, rela-tivamente indipendente dai fini dell’utile immediato. Insom-ma ridisegnare una società di diseguali, formati ad accetta-re la disuguaglianza come un dato e il prodotto della loronaturale capacità ad acquisire saperi e abilità. Un truccoantico che riporta all’immutabilità della “doti” naturali, del-l’intelligenza come retaggio biologico, nascondendo la strut-tura sociale delle capacità intellettive, la loro determinazio-ne storica, la loro fisionomia e qualità di funzionamento.

Buoni affari

La sinistra in passato non ha offerto un quadro innovativosulla questione. Anzi in quel contesto politico è nato e si èalimentato quel binomio-antinomia del sapere e saper fare.L’orizzonte culturale di quelle proposte si poneva nella teo-ria per cui le persone sono risorse per il mercato del lavoro,che non abbiano una loro autonoma autocentrazione e chequindi la formazione sia per la valorizzazione delle risorseumane, per un suo uso sociale e produttivo. I guasti sonostati tanti. Si sono intrecciati con l’ideologia della flessibi-lità della formazione per la flessibilità e precarizzazione dellavoro. La destra ci ha lavorato su per ottenere un risultatoche andasse oltre la stessa utilità per il mercato, ha svilup-pato un tentativo di ritrascrizione dell’antropologia, per darecarburante alla pratica della competitività umana come so-stanza della neocivilizzazione globale. Insomma un buonaffare.Come riprendere una ricerca utile tra saperi e lavori, tra for-mazione umana generale e determinazione nel mondo con-creto delle abilità?Concertare in maniera “buonista” sapere e saper fare nonporta ad alcun risultato. Sempre ogni sapere nasce dall’esi-genza di porre produttivamente un saper fare, anche i saperi

appalto, di un capitolo di spesa della pubblica amministra-zione o al bilancio dell’Azienda. I tempi del lavoro e quindiquelli di vita sono legati al bisogno di fasce fragili dellapopolazione che ruota spesso sulle 24 ore da coprire colminimo dispendio di risorse. Il difficile lavoro degli opera-tori è mortificato nelle frustrazioni quotidiane e dal manca-to riconoscimento professionale ed economico.Il lavoro nel sociale è lavoro immateriale, non produce cosema rapporti e relazioni nel tentativo di promuovere, fra mil-le difficoltà e contraddizioni, solidarietà e socialità. Lavora-re nei Servizi Sociali significa lavorare con le persone, per lepersone e fra persone. Questa dimensione crea una grandeaffezione al proprio lavoro nonostante lo sfruttamento cui siè sottoposti o dalla coop stessa o dalle istituzioni che tiusano per risparmiare sul costo del lavoro. L’affezione al pro-prio operare diviene spesso un fatto identitario che permet-te di estorcere al lavoratore una disponibilità altrimentiimpensabile. Insomma il lavoro sociale sta quasi in una zonadi confine fra lavoro e volontariato. Si paga il prezzo dellabassa retribuzione, della flessibilità e della precarietà spes-so per sentirsi vivi e partecipi di vissuti difficili e moltocoinvolgenti. È un po’ su questo meccanismo che il padroneti frega! Potremmo, tuttavia, tentare di capovolgere i termi-ni della questione ed immaginare un esodo. Un esodo dal-l’idea, insita in molti di noi, che solo spostando l’attenzionedei lavoratori sulla retribuzione, sugli orari, sui temi classicidelle vertenze sindacali, si costruisca conflitto. Penso chepotremmo invece far diventare proprio il senso identitariodel lavoro di assistenza, di relazione di aiuto, un punto diforza di una battaglia politica. Penso ad una vertenza socia-le che nasce dalla relazione fra fasce di società fragili egiovani operatori, intesa come una catena umana (domanil’anziano il disabile il tossico, posso essere io) e non comeun rapporto fra utente ed offerta di servizi.Le cattive condizioni di lavoro degli operatori sociali sonouno degli aspetti della esternalizzazione dei servizi in tempidi privatizzazioni dei beni comuni. Per questo la parola d’or-dine deve essere ri-pubblicizzazione. Ma… la differenziazio-ne tra piccole e grandi coop che emerge dalla nostra inchie-sta mette in luce la maggiore motivazione di coloro cheoperano nelle prime.Piccole realtà di cooperazione possono essere l’antidoto allegrandi cordate consortili del privato sociale? Un’altra coope-razione desiderabile può essere la meta dell’esodo dal con-flitto inteso in sesso classico e diventare una strada per lasperimentazione di un welfare locale partecipato?E il salario? Reddito di cittadinanza, ma questa è un’altrastoria…

* Giovani comuniste, Firenze.

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apparentemente più astratti e puri nascono in un contestopiù o meno esplicito di loro usabilità concreta. Così ognisaper fare si ammanta spesso di un richiamo alla scienza ealla conoscenza perché vuol nascondere la sua natura adde-strativa e adattativa al mondo dato.Così le riforme della formazione come “politiche attive dellavoro” si sono mostrate sempre più inefficaci proprio per-ché il lavoro non era nuovamente ridefinito, la sua nozioneveniva riproposta acriticamente come condizione senza sto-ria. E la ribellione dei fatti, scuole che formavano semprepiù a lavori inesistenti o in trasformazione, portava ad ac-compagnare la certezza delle «politiche attive del lavoro»alla pratica concreta della descolarizzazione per la flessibi-lizzazione dei lavori.Ancora un buon affare.

Pensiero divergente e enciclopedie dei saperi

La mia posizione è che si debba ripartire da un altro punto divista. L’indagine su come riformare l’insegnabilità dei saperi ela loro predisposizione all’usabilità sociale va condotta sullarealtà attuale della conoscenza nella società globale.La conoscenza è sempre più complessa e “connessa”, è sem-pre più soggetta al regime della proprietà privata e al suouso dispotico per il profitto, sempre più sottratta alla dimen-sione di bene comune, ereditato-trasmesso tra le generazionie i soggetti, sempre più mortificata dalle moderne enclosuresed esposta a possibili crisi catastrofiche di civiltà.L’educazione dovrebbe partire da questo primario senso didisorientamento di ogni soggetto in quel contesto indicato.Prima di tutto bisognerebbe ridare spessore alla formazionecome costruzione-ricostruzione di mappe, per quanto prov-visorie, utili per orientarsi nel mondo e nei lavori. In quantoespressione di questo bisogno la formazione dovrebbe averel’ambizione di sottrarsi alla caducità per la flessibilità. Lemappe anche se provvisorie devono essere degne di buonaattendibilità, di buona dose di certezza. Questa è l’idea tra-dizionale, ma per questo non meno valida, che ogni buonapedagogia deve partire da uno schema di forte unitarietà,solidità dei saperi trasmessi-ricercati, buone regole di tra-smissibilità didattica.Il curricolo di ogni scuola è sempre la selezione consapevoledei saperi disponibili per raggiungere questo scopo primariodella formazione fondamentale. Ogni società riscrive le sueenciclopedie dei saperi, ogni enciclopedia non può esserequanto già esistente più la postfazione del nuovo. Ogni scuoladeve riselezionare i saperi e stabilire nuovi baricentri. Lafonte di questo riequilibrio è nella democrazia politica, mi-tigata, perché non si faccia cultura delle maggioranze, dal-l’assunzione delle culture insegnabili come sistema aperto,innovativo e creativo, in cui il pensiero divergente sia unarisorsa e non una iattura. Per questa ragione da tempo co-mincio a diffidare dell’idea della grande riforma, per un’ideapiù processuale e molecolare dell’innovazione. Le mappe sonoa vari livelli di scala, ma anche per avere mappe di cono-scenza globale non si può sfuggire alla dimensione dellaconoscenza come inchiesta locale, personale.

Saperi per mappe

Già questo sapersi orientare è un buon saper fare, è unacritica concreta ad una pedagogia intellettualistica; la sto-ria, la scienza, la natura, la storicizzazione della natura e

della scienza e il salvataggio della dimensione storica dallacasualità sono una buona propedeutica per questo saper farenel mondo che ogni buona didattica dovrebbe auspicare.Per quanto riguarda i lavori, in senso stretto, i lavori nelmercato, non credo alla potenza didattica della simulazioneper apprendere e saper fare. L’orgia ideologica degli stagecome nuova parola magica per preparare al lavoro non tiene.Nasconde la cattiva pedagogia che pone l’apprendimentocome risultato dell’addestramento per imitazione. Questaprocedura può funzionare nelle abilità «meccaniche», ma èirrilevante nella disposizione al lavoro inventivo e creativo,quand’anche salariato e mercantile.La scuola dei saperi per mappe ha bisogno di richiamarsi adun’abilità, apparentemente astratta, ma importante: la “me-tacapacità” nella soluzione dei problemi per ricorrenti ap-procci “creativi e innovativi” alla realtà. Questa metacapa-cità può essere appresa e può essere insegnata, almeno nel-la sua struttura procedurale. Si risolve il problema della rela-zione tra saperi e lavori, in uno spazio creativo, conflittualee innovativo. Questo può non essere funzionale ai mercati,può anche non totalmente essere determinato dall’utile so-ciale, può però stabilire uno spazio assai conflittuale, de-mocraticamente conflittuale, tra soggetti, persone e gruppie classi. Uno spazio in cui si affaccia anche la possibilitàdella liberazione dal lavoro.Rimane il problema centrale per la scuola; essa per i giovaniche la frequentano è spazio e tempo “estraneo” alla vita. Siusa il termine preparazione, per indicare che si è, a scuola,in uno spazio d’attesa verso una dimensione a venire. Que-sta separazione è sempre più artificiale. La preparazione perla vita e i lavori appare a tutti gli effetti già lavoro, intellet-tuale per lo più, ma anche lavoro dei corpi, messa a societàdegli individui. Allude alla necessità di un diritto al reddito,oltre e più del diritto allo studio. Questa dimensione dellaformazione, anche per i bambini, come lavoro sociale a tuttigli effetti, brucia la separazione tra vita e sapere.Lo specifico di questo lavoro è l’incremento della comunica-zione sociale; ereditando culture, producendo linguaggi sifa a scuola lavoro di rilevante produzione di valore. Un’otti-ca che sposta i punti di vista di ciò che è utile insegnare eimparare, che riposiziona il ruolo delle riforme. Ridà allaformazione uno statuto non più di transito verso qualcosad’altro, di una preparazione per, ma uno status umano com-plesso e permanente di crescita stando nel mondo, spessosenza libertà e autodeterminazione.

* Presidente dell'Associazione Transform.

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Diario precarioSan Precario

«Era buio, mi rigirai nelle coperte madido di sudore.L’ansia non se ne andava e le preoccupazioni mi agitavanosempre di più. L’affitto, il lavoro e la banca che non nevoleva sapere: – mi dispiace lei è in rosso – diceva la vocestridula al di là del vetro.Non sembrava neanche la voce dell’impiegato ma suonavacome la cantilena della segreteria telefonica di questa cazzodi città che di me non sa che cosa farne.Ebbene sì, sono sempre in ritardo : la mattina sul lavoro,alla fine del mese con l’affitto e le bollette, con le rate delpc che si è impallato e che non so riavviare; e allora?Nessuno però si preoccupa del fatto che io sono in ritardocon la mia vita di cui altri dispongono a piacimento e chedimenticano sempre di rendere quando non gli serve più.Finalmente dopo questa attacco d’ira sentii il sonno impos-sessarsi delle mie membra e proprio quando il tepore arriva-va e la mia mente si nascondeva nel silenzio del mio pensie-ro cominciai ad avere delle visioni stranamente nitide.Lo giuro, come in un film psichedelico, di quelli che davanotanto tempo fa; come dal niente sorgevano immagini colo-ratissime, oceani pacifici di precari e precarie come me enello stesso tempo ognuno diverso dall’altro.Insieme attraversavano la città su carri colorati, circondatida suoni gaudenti e da un unico grido – MAYDAY – che nontrasmetteva disperazione ma rabbia e determinazione.A questo punto mi apparvero altre cose indescrivibili: pro-cessioni, leoni d’oro alla carriera dei precari; decine, anzicentinaia di persone riunite a discutere... quante parole equante lingue!Parlavano di una Europa agitata da noi precari, solidale coimigranti, discutevano di cooperazione nelle metropoli e ol-tre le metropoli, inneggiavano alla flexsecurity al reddito pertutti/e al di là del lavoro e di tante altre cose che io per laprima volta sentivo ma che comprendevo fino in fondo sen-za averle mai discusse e d’un tratto mi ritrovai fra di loro tramiei fratelli e le mie sorelle, gridando anch’io le mie idee.Poi finì tutto, e nel buio rimase una figura che forse eranella mia testa o forse ne era fuori: San Precario. Mi guarda-va e all’improvviso disse – hai capito? – Io risposi: – Sì hocapito, devo avere fede in te – ma lui implacabile, scuoten-do la testa: – ecco vedi non hai capito un cazzo! – il miosguardo era già una domanda il suo invece il principio dellarisposta – Tutto sta in te, non sei solo e questo ti è chiaro,non sei indifeso e questo lo hai visto. Io sono la tua rabbiache si è fatta santa affinché tu non possa ridurti a martire;quando domani uscirai riprenditi il tempo che ti appartienee la strada su cui cammini, non cercarmi! Mi ritroverai nellosguardo dei precari e delle precarie che ti circondano. Lorosono i tuoi fratelli e le tue sorelle».

L’immacolata appropriazione della vita

«Il rumore sincopato della ruota metallica sulla rotaia ca-denza il ritmo dei miei pensieri. Ombre scure si allunganonegli interstizi del mio cervello.Non che la mia vita vada male, anzi; da quella notte, dall’ap-

parizione di San Precario tante cose sono cambiate. Sorridoancora quando ripenso al momento in cui lo raccontai aimiei amici : “oh ma che droga usi” lo stress ti ha cortocircu-itato l’impianto cerebrale? e via cazzate simili a non finire,quasi mi prendevano per pazzo.Qualcosa però s’era rotto, alla notizia del turno domenicaletutto il call center s’era sollevato.Prima il picchetto, poi l’occupazione e quel bastardo delcapo per la prima volta a testa bassa. Ci ha odiato, ma èarrivato tardi noi odiamo lui dal primo giorno di lavoro. Poimi hanno assunto. Non rimarrò in quel posto per altri tremesi però adesso ho le ferie, la malattia e i turni regolare elo spacca coglioni la testa non l’ha risollevata.Mi son pure fidanzato, che voglio di più? Eppure quest’ansianon mi molla. Ieri sera non sono neanche uscito, m’annoiatutto. Il sabato in centro, il giro nei negozi, il cinema, pernon parlare dei locali sempre più cari sempre più uguali. Chepalle.Mi riprendo in un secondo. Ma che minchia di fermata èquesta? Devo aver saltato la mia: devo scendere!Da solo?! Incredibile. Il solo ad essere sceso dalla metropo-litana. In verità c’è anche quella ragazza, ma da dove è sbu-cata?! E che stazione è questa? E’ immensa, contorta, me-glio chiedere come uscirne se no mi perdo “Ehi, ehi, ascolta,mi sai dire come faccio ad andare nell’altra banchina chenon mi riesco ad orientare”. Si gira. Mi guarda. E’ bellissima.Irradia forza ed energia. Convinzione.Non riesco a capire se è lei o sono i suoi vestiti ad esserecosì vivaci. Pare orientale. Sembra una dea.Ha una cicatrice sotto l’occhio sinistro, il suo sguardo mi haimpallato. Sono confuso, stordito; sento le gambe molli e lostomaco in subbuglio. Infine emetto un flebile suono “Ciao,scusami, è che mi sono perso devo prendere il metro pertornare indietro, ho sbagliato” Non mi lascia finire, mi som-merge di parole: “Guarda che per riprendere il controllo dellapropria vita non basta cavalcare la tigre del lavoro” Noncapisco, ma non faccio in tempo a dirle niente, con decisio-ne continua: “Esiste un drago nel mio paese che gioca sem-pre con sé e con i fanciulli e le fanciulle che hanno il corag-gio di accarezzarlo. Gira e rigira su se stesso, si colora, dan-za, s’agita e segue sempre il ritmo dei propri desideri e deidesideri delle persone con cui passa il tempo. Le sue formesono sinuose, il suo ritmo è travolgente, le linee del suocorpo mutevoli, i suoi occhi proiettano sequenze vitali uni-che, irripetibili e sempre sorprendenti. Si narra che il suolungo corpo fluisca senza assumere mai la stessa posizione.E si racconta poi di come i suoi pensieri nascano sempre dalcuore dei presenti e di come questi poi vengano dipinti dal-le cromature sacre delle menti dei puri astanti”.Rimango a bocca aperta, e lei mi scruta sempre più profon-damente, lapidaria: “Me l’ha detto sanprecario che sei un po’duro di comprendonio, non lasciare che la tua vita vengadisegnata da chi non conosci, da chi ti usa per arricchirsi:così non sarai mai te stesso. Ma non essere tanto presuntuo-so da pensare di poter essere autosufficiente, unico e parti-colare. Diventeresti ben presto come loro, cambieresti sem-plicemente punto di vista e non di vita. In te c’è l’artista elo stilista che cerchi e nei precari e nelle precarie che ticircondano e nel mondo che vi avvolge ci sono le paginebianche o se preferisci c’è la tela immacolata su cui porremano. La vostra mano. Diventa Drago, diventate stilisti del-la vostra vita.”Sono esterrefatto, non ho capito un cazzo, sento solo ilcigolare della vettura che si ferma e il tocco del suo corpoche leggero come un alito di vento mi spinge dentro. Vorrei

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dirle qualcosa ma non mi viene niente e mentre la carcassariparte faccio in tempo solo a leggere il nome della stazio-ne: Serpica Naro1».

[Dal sito www.chainworkers.org: “Le confessioni di un precario” capito-lo 2 e capitolo 3].

NOTE1. Serpica Naro è l’anagramma di San Precario. I precari di Chain Workers(www.chainworkers.org) in occasione delle settimane della moda a Mi-lano di febbraio 2005 hanno accreditato regolarmente presso la CameraNazionale della Moda questa sedicente stilista anglo-nipponica, che hapresentato in passerella otto modelli ispirati alle condizioni di vita dellavoratore precario. Di lei i ChainWorkers dicono: «Serpica Naro è unmetamarchio, che serve a lanciare un luogo di incontro di creativitàautoprodotte e di condivisione dei saperi che dopo la sfilata odiernatroverà spazio nel sito ufficiale della finta stilista, ma a una sola condi-zione, essere “open source”, come il software Linux, ossia copiabile eriproducibile».

Scuola, lavoro, conoscenzaVITTORIO COGLIATI DEZZA *

Cos’è la “società della conoscenza”? Che

differenza c’è tra la “società della

conoscenza” e l’”economia della conoscenza”?

Cosa chiede oggi il lavoro alla scuola? Quale

conoscenza è in grado di produrre la scuola?

Ed è il lavoro l’unico punto di riferimento

della scuola? Parliamo della scuola superiore,

forse sì, ma fino ad un certo punto. Perché,

come ci ricorda René Daumal, «il primo passo

dipende dall’ultimo». E la scuola elementare

non è del tutto estranea alle risposte che si

danno alle domande iniziali

Non a caso il ministro Moratti ha voluto mettere manoanche ad una scuola che andava bene, e non solo per risparmie tagli; ha voluto aumentare il tasso di nozionismo di questogrado di scuola, perché ha un’idea complessiva del ruolo del-l’istruzione.Qualche tempo fa il Governatore della Banca d’Italia Fazio haricordato che gli investimenti pubblici in istruzione «consen-tono, dopo un limitato intervallo di tempo, un tasso di rendi-mento, a livello individuale, non distante dalle due cifre. Ed ilrendimento sociale può risultare molto più alto».. L’afferma-zione del Governatore per un verso esplicita l’esistenza di uninteresse strategico dell’economia per gli investimenti in istru-zione, per un altro parlando di “rendimento sociale” dichiaradi credere nel valore sociale della conoscenza e dell’istruzione,non riducibile in termini di bilancio economico. La posizionedi Fazio è molto interessante perché entra nel vivo della natu-ra della società della conoscenza e del ruolo dell’istruzione.Oggi, in Italia e nel mondo, in controtendenza con quantoavvenuto nel XX secolo, emergono ipotesi e politiche che mi-rano a ridurre il valore sociale della conoscenza e a negare chela conoscenza sia un bene garantito dal sistema pubblico del-l’istruzione. Il Governatore, non solo si dichiara contrario allastrada intrapresa dall’attuale Governo, ma sembra schierarsicon quanti ritengono che, oggi più che mai, un Paese incapa-ce di investire in istruzione e ricerca si troverebbe di fronte aun pericoloso declino segnato (forse dall’aumento della ric-chezza di pochi, ma certamente) dall’aumento della precarietàsociale, con il conseguente ampliamento delle aree di povertàe la diminuzione della speranza di miglioramento della qualitàdella vita.Ecco perché è bene far chiarezza su cosa si intende per “socie-tà della conoscenza”, slogan sotto il quale si nascondono puntidi vista, approcci sociali, idee di istruzione molto diverse traloro, che non possono essere risolte con una battuta.

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La “società della conoscenza”

La conoscenza chi riguarda, chi coinvolge, chi sono i sog-getti protagonisti? – Tutti, i migliori, quelli avvantaggiatidall’origine familiare, … –.Di quale conoscenza parliamo, cosa si deve conoscere? –Cultura di base, cultura specialistica e compartimentata,cultura della complessità e dell’evoluzione, … –.Quando si deve apprendere, per quanto tempo, in quali peri-odi della vita? – C’è un’età per apprendere, una per lavorare,una per aggiornarsi, o ci sono processi ricorsivi, … –.Dove si impara, in quali luoghi? – È un fatto privato eindividuale oppure personale ed insieme collettivo, lo si puòfare ovunque o serve la scuola pubblica, quale il ruolo deiluoghi informali e del territorio, … –.Perché conoscere, a cosa deve servire la conoscenza? – Alavorare, a essere cittadini consapevoli, è finalizzata allosviluppo economico, alla crescita e all’autonomia personale,alla qualità del vivere sociale,…–.Come si vede, tutte le domande sulla società della cono-scenza coinvolgono l’istruzione ed il suo ruolo. Ma oggi nonmi basta dire che le risposte valide sono solo quelle che vannonella direzione di una società in cui la conoscenza è un patri-monio sociale a disposizione di tutti, un diritto di cittadinan-za riconosciuto e perseguito, come opportunità per tutte lepersone di poter partecipare, con sufficiente grado di consa-pevolezza, alle trasformazioni del proprio mondo, che si pre-senta sempre più complesso. Perché, se questa risposta è cor-retta sul piano dei valori, lascia scoperta la prima domanda dacui siamo partiti. Almeno a prima vista.

L’”economia della conoscenza”

Per ragionare bene del rapporto tra lavoro e scuola mi sem-bra utile, prima di discutere di doppio canale o di che finefaranno i tecnici, ragionare sulla distinzione tra “societàdella conoscenza” ed “economia della conoscenza”.Oggi nei paesi ricchi i settori industriali e dei servizi basatisulla conoscenza hanno superato i settori più tradizionali.Si è assistito ad una crescita accelerata del numero di bre-vetti e della proprietà intellettuale, concentrati per il 94%nei paesi sviluppati. L’economia dei paesi sviluppati è sem-pre più indirizzata verso le produzioni ad alto contenuto diRicerca e Sviluppo e di tecnologia – solo l’Italia costituisceun’anomalia.In Italia le imprese investono in ricerca solo lo 0,5% delPIL, contro il 2% di stati Uniti e Giappone e l’1,8% dellaGermania, mentre in Francia e Regno Unito investono dadue a tre volte di più che in Italia.In Europa, tra il 1995 – 1999, l’occupazione nei settori ca-ratterizzati da un alto input di ricerca e sviluppo, che impie-gano mano d’opera con un livello di qualificazione superiorealla media, ed imperniati sulla titolarità dei diritti d’autoree sui brevetti, è cresciuta ad un tasso triplo rispetto allamedia dell’industria e dei servizi, l’area orientata alla comu-nicazione e all’informazione ha avuto un tasso annuo di cre-scita più che doppio rispetto alla media – 6,4% annuo con-tro il 3% del resto dei servizi. Nel corso degli anni 90 gliinvestimenti ICT sono cresciuti ad un tasso del 3,4% annuo,mentre gli investimenti in capitale fisso – macchinari, edifi-ci, ecc. – sono cresciuti ad un tasso del 2,2%.Negli anni ’90 le domande di brevetto sono cresciute di oltreil 5% annuo, con una forte concentrazione nei settori dellebiotecnologie (+10%) e dell’ICT (+8%).

Il 35% dei brevetti è registrato dagli Stati Uniti, il 32% dapaesi dell’Unione Europea, e il 27% dal Giappone.

Il consolidamento dell’”economia della conoscenza” sta pro-vocando fenomeni imprevisti. Nei paesi industrializzati sidiffonde l’analfabetismo di ritorno, che solo negli Stati Uni-ti, Regno Unito ed Irlanda colpisce un adulto su cinque.Mentre si diffonde l’immigrazione di personale qualificatodal Sud verso il Nord, che svolge ormai un ruolo fondamen-tale in settori cruciali ed è incoraggiato con leggi selettiveda alcuni paesi di accoglienza (Australia, Canada, Giappo-ne, Stati Uniti, …). Secondo Luciano Gallino, infatti, «Ne-gli Stati Uniti se si dovessero licenziare tutti i professori diorigine straniera, che nelle facoltà tecnico – scientifichecostituiscono fino alla metà del corpo docente, con largaprevalenza degli asiatici, si bloccherebbe gran parte delsistema universitario» (in Globalizzzione e disuguaglianze).Si è costituito, cioè, un mercato mondiale dei lavoratoridella conoscenza, in cui gli operatori vengono cercati làdove sono più bravi e costano meno, tanto che nella stessaSilycon Valley si chiudono i Laboratori di ricerca per trasfe-rirli in India e in Cina.Negli ultimi anni, sulla base di queste tendenze, non soloin Italia, si sta accentuando la subordinazione della produ-zione di conoscenza ai bisogni dell’economia, e si stannotrasformando gli stessi “luoghi” che producono conoscenzain un settore appetibile per il mercato, esponendo la capa-cità di investire in istruzione e formazione dell’intero siste-ma Paese ai “capricci” del mercato e alle esigenze dellemultinazionali.

Più cultura per tutti

L’idea che c’è dietro a questa prospettiva e che, ad esem-pio, ispira le scelte del ministro Moratti, è che per la mag-gioranza della popolazione è sufficiente una superficialeconoscenza di base, una più raffinata servirà per colorodestinati a far parte della classe dirigente, in un quadro diforte segmentazione dei saperi specialistici, in netto con-trasto con quel ”apprendere ad apprendere” che ha illumina-to le teorie e le pratiche (poche a dire il vero) degli anni ’80e ’90.A me sembra che questo esito non sia obbligatorio, anche inuno scenario di prevalenza dell’economia della conoscenza.Per rispondere allora alle domande iniziali, non dobbiamosottovalutare l’economia della conoscenza, anche perchéqui si crea parte della nuova occupazione, ma a due condi-zioni, che non sia la dimensione totalizzante dell’economiae che non si riduca l’economia della conoscenza all’informa-zione e alle biotecnologie. In Italia, ad esempio, quandoparliamo di economia della conoscenza dovremmo parlare dibeni culturali, di valori storici e paesaggistici racchiusi nel-la Piccola Grande Italia delle zone marginali, di prodotti ti-pici e di qualità, del valore tecnologico dell’artigianato lo-cale, oggi penalizzati dalla cultura e dall’economia dell’omo-logazione, delle megalopoli, dei supermercati. Perché tuttociò divenga economia vera e alla portata dei giovani servepiù cultura per tutti, ovvero, per dirla in modo schematico,serve che la scuola non accenni solo ai nuovi mestieri, mache li renda possibili lavorando sulla comprensione di dovesta andando il mondo e della costruzione più forte dei pro-cessi di identità personale, collettiva e dei luoghi.

* Responsabile nazionale Legambiente Scuola e Formazione.

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“Lavoretti” di donne

Stefania: «Che cos’è la normalità? Sono una persona, condelle qualifiche, che fa dei lavori, gli unici possibili. Peròper gli altri sono lavoretti. Allora una si trova – 35/40 anni– senza aver potuto comprare casa, senza aver potuto con-trarre un matrimonio, senza aver potuto fare dei figli. Aparte i lavoretti.Chi è Stefania? È una che ha una famiglia, che ha un marito?No. Che ha dei figli? No. È una che ha fatto dei lavoretti.Oggi le agenzie interinali somministrano all’azienda utiliz-zatrice… me. Somministrano all’azienda utilizzatrice: io sonouna persona, non sono una macchina; si somministra unfarmaco, non è che mi utilizza. Però oggi è questo, un’agen-zia interinale fa questo: ti somministra. Fino a quando l’azien-da utilizzatrice pensa che tu possa essere utilizzata. Quandopoi non gli servi più, allora l’agenzia interinale non ti som-ministra… Per me è aberrante pensare che io mi rivolgo auna persona dicendole “oggi ti somministro all’azienda ics”,ti somministro, ti presto. Io sono una persona, non sonouna cosa. Oggi ti presto, domani non sappiamo.Com’è, non capisco… All’inizio io non capivo: ogni 6 mesi,arrivata al quinto mese l’angoscia, l’ansia che cresce, chissà,parliamo col responsabile, ma il responsabile ha un altroresponsabile, un altro responsabile ha ancora un altro re-sponsabile, e allora tu non riesci ad arrivare al responsabileultimo del personale, soprattutto quando le aziende sonograndi.E allora la tua angoscia cresce sempre di più, perché ognigiorno puoi essere buttata fuori, letteralmente. Quando iosono uscita dall’azienda – a parte che era il 23 dicembrecioè Natale, possiamo immaginare che bel natale ho trascor-so… Il momento in cui uno va a restituire il badge, quelpezzettino di plastica che è un pezzettino di plastica ha unvalore assoluto, perché io disattivando il badge ti cancello;non esiste più per quella azienda, chissà se mai ci sarà trac-cia di questa persona. Con un clic sul computer cancello unapersona.Allora io vado a lavorare alla mattina, timbro alle 8, conl’angoscia che non so se il mio badge è ancora utilizzabile,entro in ufficio, mi trovo il collega cinquantenne che non midice neanche buongiorno, perché io per lui sono una minac-cia. E mi trovo il capo – che non ha ben capito che cos’è unlavoratore interinale – che mi tratta come una schiava.Dopo 8 ore così io torno a casa, in una casa che non è miaperché non me la posso comperare, magari litigo con il fi-danzato perché lui si vorrebbe sposare – ma su quali basi –e guardo mio padre che mi domanda per l’ennesima volta“allora, ci sono novità?”.Quando io vado a dormire la sera mi chiedo: che ho fatto dimale?Non è giusto, probabilmente non è giusto, però è così, ècosì. E allora si ricade o in quella solitudine di cui si parlavaprima, o si reagisce, e si tira fuori l’orgoglio, la dignità, manon è… semplice. Non è semplice, perché tu vivi giornodopo giorno questa situazione, questa condizione, e la cosapeggiore è che non è che dici ok, mi trovo in questa fase chedurerà 5 mesi, ok, faccio un bel respiro, vado fino in fondo,passeranno cinque mesi… Non lo sai quando finirà questacosa, ma finirà?».

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Paola: «La nostra azienda ha perso l’appalto per gli entiprevidenziali, e ha deciso di attuare un licenziamento col-lettivo per tutte le persone che lavorano su questi enti, tut-te persone con un contratto a tempo indeterminato comeme, 256 persone; che hanno un mutuo, una famiglia, tuttoquello che un tempo indeterminato ti assicura. È come se iltempo indeterminato fosse diventato improvvisamente uncontratto alla stregua del lavoro interinale, del contratto aprogetto…E quello che ti chiedi è: come è possibile che il contratto atempo indeterminato sia cambiato in modo così veloce, cosìdevastante?. Neanche questo è più una certezza oggi, non èuna certezza il fatto che ti laurei per fare il lavoro per ilquale hai studiato, non è una certezza il fatto che più sai e

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più vali nel mondo lavorativo, perché alla fine non è così…Più pensi più sei un pericolo per l’azienda, perché il lavoronon richiede questo oggi; richiede velocità, flessibilità, man-canza assoluta di qualsiasi legame, perché qualsiasi legametoglierebbe tempo al lavoro. È come se il lavoro precludessela tua vita.È difficile sicuramente sentirsi donna in un mondo dove spes-so vai a fare i colloqui e ti chiedono “ma lei ha dei figli” –no – “quindi vuole farne? quando ha intenzione di fare deifigli? Quanti?…”.Una domanda, anzi una discriminante dell’offerta di lavoro:io ti do il lavoro ma tu mi devi assicurare che non vai inmaternità. Però il lavoro che mi dai è flessibile, non ha nes-suna sicurezza, perché è un lavoro a progetto, perché è unaconsulenza, perché è una collaborazione; e però io ti devodare gran parte di me stessa…».

[Da un “Microfono aperto” di Radio Popolare sul lavoro precario condot-to da Letizia Mosca il 16 luglio 2004].

Bisognerebbe riuscire afermarsi a parlare... ledonne lo fannoLUISA MURARO *

Ha un titolo lungo come una recensione breve, l’ul-timo Quaderno della rivista Via Dogana: Parole chele donne dicono per quello che fanno e vivono nelmondo del lavoro oggi. Editrice, la Libreria delledonne di Milano. Autore, sette nomi fra i qualispiccano quelli di Lia Cigarini, una che c’era dagliinizi del femminismo (come Carla Lonzi e DanielaPellegrini) e di Oriella Savoldi della Camera del la-voro di Brescia. Si tratta dunque di lavoro-donne-oggi, ma non troviamo operaie né contadine néinfermiere né insegnanti né le tipiche segretarie:non ci sono le classiche categorie del lavoro fem-minile, ci sono “le altre”, quelle che si sono messea fare lavori che erano soprattutto di uomini (ar-chitetto, agente di borsa, capo del personale…) oche semplicemente non c’erano (call center) o chenon ci sono e loro stesse inventano. Non ci sononeanche grandi numeri, inchieste o statistiche, masolo donne in carne e ossa, invitate a raccontare ea ragionare del loro lavoro con le invitanti e con ilpubblico di un circolo femminista. Si cercano leparole e un linguaggio per dire un’esperienza didonna in rapporto ad un fuori molto segnato dagliuomini, sia come presenza fisica sia come organiz-zazione del lavoro. La situazione fa pensare a quelladelle immigrate di paesi di altre culture che devo-no imparare quasi tutto e, al tempo stesso, lottareper non perdere sé stesse. Che cosa ci fa vedere?Un paesaggio dove il lavoro, per quelle che hannolavoro, è troppo ma piace, il tempo libero è moltopoco, il perfezionismo domestico non è sparito,dove un filo di umorismo non manca mai e il risen-timento verso gli uomini non si sente, ma una cer-ta paura forse sì, e molte non sanno ancora chie-dere e contrattare, dove la voglia di fare bene spessosupera quella di fare carriera, dove non si rinunciaai bambini e agli amori… insomma vite sul trape-zio.È il fronte della civiltà che si muove e cambia:lavoro, aspirazioni, rapporti sociali, vita familiare,dentro-fuori-distante da casa, vestiti, cibi, petti-nature, e cambia in forme che non si pretende, onon si può, dirigere, ma almeno saperle, dirle eridisegnarle con parole proprie. Il libro non ha ca-pitoli, sostituiti da una serie di voci o lemmi, li-bertà di scelta è la prima, seguita da lingua mater-na, lingua d’azienda, per finire con corpo di donnain guerra, con la testimonianza di due fotogiorna-liste, in tutto ventidue voci. A parte che non c’èordine alfabetico, somiglia al fascicolo di un gran-de dizionario d’uso del mondo che cambia a causache le donne vanno ormai dovunque….

* Recensione pubblicata su l’Unità del 1 aprile 2005,ripresa dal sito della libreria delle donne di Milano(www.libreriadelledonne.it).

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Senza tutama ancora in technicolorGIUSEPPE PANELLA

Ken Loach e la rappresentazione

cinematografica della classe operaia

Mostrare al cinema il destino o le vicende della classeoperaia non è mai stato troppo facile. Il rapporto tra le tute(degli operai) e il technicolor (del grande e del piccolo scher-mo) 1 non è mai stato idilliaco. La grande cinematografiasovietica d’avanguardia (da Eisenstein a Pudovkin a DzigaVertov) non ci hanno nemmeno provato: quello che si met-teva in scena era la Rivoluzione e la macchina produttivaalimentata dagli operai veniva mostrata da fermo, in attesadella collettivizzazione a venire. Quando Eisenstein, infatti,ha provato a mostrare Il vecchio e il nuovo (già La lineagenerale) nelle campagne dei kolchoz appena realizzati neltrionfo del socialismo realizzato, il film, accusato di ecces-sivo lirismo, fu ampiamente censurato e di esso solo i cinéphi-les più accaniti hanno potuto vedere qualcosa (sta di fattoche è rimasto uno dei film meno noti e meno circolanti delregista di Riga; lo stesso accadrà con Il prato di Bezin del1937). Quando poi la cinematografia sovietica addomestica-ta da Stalin (e restituita ai dettami del realismo socialistazdanoviano) ha messo in scena la classe operaia lo ha fattoin toni e in modi così astratti e così poco significativi darendere quella modalità rappresentativa del tutto pleonasti-ca. In un suo cortometraggio assai denso del 1948, N. U.(Nettezza Urbana), Michelangelo Antonioni (tra i pochi inItalia) aveva provato a seguire la giornata di un netturbinodal primo mattino fino alla sera e a mostrarne il lavoro umilema importante quale metafora del cinema e della sua capa-cità di attraversare la realtà con il suo sguardo assoluto.Anche i film che volevano utilizzare la vita di fabbrica comespecchio della società italiana e della sua crisi di queglianni (come La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri del1971) sono rimaste importanti occasioni che spesso sonoandate perdute.Ma questa è già materia di dibattito per gli storici e gli“archeologi” del cinema, non per chi si pone il problema dicome farlo oggi.

Il “cantore della classe operaia”

È il caso, ad esempio, di Ken Loach, il grande regista ingleseche i suoi (non molti) critici 2 si ostinano a definire “trotzki-sta” senza neppure sapere (forse) che cosa si ostinano ascrivere. È vero che Loach può fare certamente a meno delleetichette – gli basta essere definito cineasta indipendente escarsamente condizionabile dal variare delle mode e degliumori (cinematografiche e politici insieme). Fin dal princi-pio, Loach prova a mettere in scena per la televisione ingle-se inquietudini e vicissitudini della classe operaia inglese.Sono gli anni del Free Cinema e di quel capolavoro sul mon-do del lavoro che è Every Day except Christmas (1957), il

documentario vincitore del premio Oscar di quell’anno chepermetterà a Lindsay Anderson di passare al lungometrag-gio. Anche se il suo primo film a soggetto (Poor Cow del1967) è legato alle poetica cinematografica di quella sta-gione, Loach diventerà il “cantore della classe operaia” (comela critica di sinistra ama chiamarlo) solo all’inizio degli anniNovanta, in piena era tatcheriana, con un film straordinarioe divertente come Riff-Raff (1991) che spiazza tutti gli ele-giaci sostenitori dell’inevitabile declino del proletariato ur-bano. La sua ricostruzione del mondo operaio continueràcon Piovono pietre di due anni dopo e The Navigators (iltitolo italiano è Paul, Mick e gli altri) del 2001 passando perBread and Roses del 2000.Il cinema di Loach è oggi l’unico esempio di una rappresen-tazione delle modificazioni della classe operaia e della suacomposizione organica che tenga conto non solo delle di-mensioni economico-sociali ma anche umane di esse. Glioperai di Loach sono disperati ma anche giocosi; si diverto-no (e fanno divertire) con lo spettacolo delle loro vicendepersonali e dei loro problemi così come provano a risolverlicollettivamente. E se lo sguardo del regista si fa serio efinisce talvolta con lo sconfinare nel melodrammatico (comenel caso di Bread and Roses), non perde mai di vista il pro-blema dell’espressività umana da rappresentare 3.L’importante è che la classe operaia continui a essere raffi-gurata sugli schermi cinematografici e non scompaia troppopresto nel gorgo delle immagini TV che in tutto il mondovorrebbero mostrarne l’avvenuta sparizione.

NOTE1. L’allusione è a un libro ormai vecchio (Tute e technicolor. Operai ecinema in America, a cura di Bruno Cartosio, Feltrinelli, Milano 1980)che contiene però spunti di riflessioni ancora utilizzabili. Il punto dipartenza del libro era Blue Collar (Tuta blu nell’edizione italiana), il filmd’esordio dello sceneggiatore Paul Schrader. Era un film che lasciavabene sperare ma è rimasto un’eccezione tematica in una carriera spessodiscontinua che ha alternato ottimi film (American Gigolo, Mishima) adaltri alquanto disastrosi (Cat People, Auto-Focus).2. Su Loach ci sono in italiano tre monografie di riferimento che vannotenute presenti ma che non vanno al di là della ricostruzione biografi-ca: Ken Loach, a cura di D. Audino e S. Ughi, Prefazione di A. Crespi,Dino Audino Editore, 1995; Ronan Bennett, Cinema & libertà. Il cinemasecondo Loach, Introduzione di R. Silvestri, Minimum fax, Roma 1995 ela monografia di Luciano De Giusti, Ken Loach, Il Castoro, Roma 1996.Due sceneggiature (Terra e libertà, La canzone di Carla) sono state tra-dotte dall’editore Gamberetti di Roma mentre i materiali preparatori delconvegno di Fiesole dello scorso anno sono state pubblicate in KenLoach. Un cineasta di razza, a cura di G. Rizza, G. M. Rossi e C. Togno-lotti, Firenze, Aida, 2004.3. «Il problema della forma è tipico dei borghesi decadenti; quello checonta è raccontare delle storie umane» (da una sua comunicazione per-sonale del luglio del 2001)».

TEMA SAPERE LAVORO

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educazione società

Il 16 luglio 1945 l’esplosione

sperimentale di Alamogordo nel NewMexico inaugurava l’era atomica. Il 6agosto 1945 l’Enola Gay sganciò la bom-ba all’uranio su Hiroshima. La notiziaufficiale venne data da Truman il 9 ago-sto. Lo stesso 9 agosto un’altra bom-ba, al plutonio, fu sganciata su Naga-saki.Alla fine del 1945 si valutava che ilnumero delle vittime ammontasse a cir-ca 140.000 persone a Hiroshima e70.000 a Nagasaki. Ma dopo cinque annile vittime erano già salite a 300.000 ela morte differita a causa di leucemie etumori continuò negli anni successivi.Inutile soffermarci sullo scenario apo-calittico della distruzione e sulle sof-ferenze di chi non morì subito ma fuustionato e contaminato.«Siamo stati schiacciati da una forza –arbitraria e violenta – che non aveva

nulla a che fare con la guerra», ha det-to Ota Yoko, uno scrittore giapponesesopravvissuto a Hiroshima. Ma, a benguardare, l’arma atomica fu febbrilmen-te progettata, costruita e usata nelquadro di una guerra che aveva rag-giunto l’ultimo grado di ferocia («Laciviltà meccanica è giunta al suo ulti-mo grado di ferocia», scrisse Camus l’8agosto del 1945). Hiroshima fu possi-bile all’interno della logica della guer-ra totale, dell’identificazione del nemi-co con il male assoluto, della mobili-tazione ideologica sul tema dello scon-tro tra civiltà e barbarie. La stessa logi-ca si rafforzò con la guerra fredda, an-che se proprio l’esistenza di arsenali ato-mici che avrebbero distrutto insiemeaggrediti e aggressori fu un potente fre-no a quella «scalata agli estremi» cui,come dice Clausewitz, tende la guerra.Per renderci conto dell’anestesia etica a

cui può portare la convinzione di doverfronteggiare un nemico totale basteràricordare due fatti riportati da Fieschi eParis. Nell’aprile ’43 Fermi e Oppenhei-mer discussero seriamente la possibilitàdi contaminare con sostanze radioattiveil cibo in Germania. Alla fine del 1950 ilgenerale McArthur, comandante delletruppe americane in Corea, propose nonsolo di usare le atomiche ma anche diisolare la Cina con una cintura di cobal-to radioattivo sparso nei mari.Questo per il dopo. Quanto al prima, l’usodell’atomica fu una svolta qualitativa chesi inseriva in una progressione di bom-bardamenti terroristici contro i civili cheha il inizio già nell’aprile del 1937, du-rante la guerra di Spagna, quando la cit-tadina basca di Guernica fu distruttadall’aviazione tedesca. Nel novembre del1940 la Luftwaffe distrusse Coventry,città delle Midlands, e una parte di Lon-

Il sole nero di HiroshimaCESARE PIANCIOLA

Non lasciamo passare il 2005 – sessantennale della Liberazione dal nazifascismo – senza

ricordare a scuola che è anche il sessantennale di Hiroshima e Nagasaki

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dra. Dopo Coventry i bombardieri inglesiebbero l’ordine di colpire il centro dellecittà in Germania. Ma questo fu conti-nuato ben oltre lo stato di emergenza.Non c’era più nessuna ragione bellicaquando fu distrutta Dresda, il 15 febbra-io del 1945, in un bombardamento apo-calittico che provocò 135.000 morti.Kurt Vonnegut, l’autore del capolavoroMattatoio n. 5 (ora ripubblicato da Fel-trinelli), era un giovane soldato, prigio-niero americano a Dresda quando ci fu lastrage: «Il bombardamento di Dresda fuun fatto irrazionale, senza significatomilitare... Volevano solo bruciare com-pletamente la città e uccidere tutti quel-li che potevano con il fuoco, il fumo ela mancanza di ossigeno. Stesso sche-ma di Hiroshima, ma con una tecnolo-gia più primitiva» (in Linea d’Ombra,dicembre 1990).La bomba atomica segnò un salto qua-litativo in quanto non era un mezzo diguerra nel senso tradizionale dello jusin bello, cioè di un mezzo per colpireobiettivi militari e per danneggiare icombattenti nemici. Era fatta per ucci-dere intere popolazioni. La strage dicivili, i danni ambientali, gli effettimicidiali e incontrollabili a lungo ter-mine, risultano inevitabilmente e tra-gicamente sproporzionati ai fini belli-ci, anche in un impiego limitato e “tat-tico” come fu quello del 1945. «Le arminucleari fanno esplodere la teoria dellaguerra giusta» ha scritto anni fa il teo-rico della guerra giusta Michael Walzer.Secondo Hannah Arendt, Hiroshima e ibombardamenti indiscriminati sulle cit-tà come avvenne a Dresda mostrano chenon è più possibile mantenere la di-stinzione tra guerra e crimine. Nellaseconda guerra mondiale, «il bombar-damento a tappeto di città aperte esoprattutto le bombe atomiche sgan-ciate su Hiroshima e Nagasaki eranoevidenti crimini di guerra nel sensodella convenzione dell’Aja [del 1899 e1907, NdR]. [...] Alla fine della secon-da guerra mondiale tutti sapevano chei progressi tecnici compiuti nella fab-bricazione delle armi rendevano ormai“criminale” qualsiasi guerra. Proprio ladistinzione tra soldati e civili, tra eser-cito e popolazione, tra obiettivi milita-ri e città aperte, su cui si fondavano ledefinizioni che dei crimini di guerraaveva dato la convenzione dell’Aja, pro-prio quella distinzione era ormai anti-quata» (La banalità del male. Eichmanna Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1992,p. 263).Hiroshima e Nagasaki sono state tal-volta, con buone ragioni, avvicinateper alcuni aspetti a Auschwitz. «C’era

Qualche proposta di lettura

Per un inquadramento generale:Roberto Maiocchi, L’era atomica, Giunti, Firenze 1993 (Collana XX Secolo). Scritto da undocente di Storia della scienza all’Università cattolica di Milano. Un libro, ricco apparatoiconografico, didatticamente utile su tutti gli aspetti della storia del nucleare militare ecivile.Luigi Bonanate, Orientamenti per la ricerca: la guerra atomica, in appendice alla voce“Guerra” di Fabio Levi, in “Gli strumenti della ricerca. 1” de Il mondo contemporaneo, LaNuova Italia, Firenze 1981. Per collocare la questione atomica nell’ampio panorama delleinterpretazioni e discussioni sulla guerra, si vedano di Bonanate: La guerra nella societàcontemporanea. Scritti scelti, Principato, Milano 1972 (e successive ristampe) e Guerra epace. Due secoli di pensiero politico, Franco Angeli, Milano 1994.Nanni Salio, Cinquant’anni di nucleare civile e militare, saggio molto chiaro, denso diriflessioni e di dati, in 10 d.C. (dopo Cernobyl). Cinema e nucleare, Catalogo della rasse-gna di Cinemambiente, Torino 1996.

Sugli scienziati atomici:Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni. Storia degli scienziati atomici, Einaudi, Torino1958 (poi ristampato più volte nella PBE). Un “classico” molto avvincente.Antonino Drago e Giovanni Salio, Scienza e guerra. I fisici contro la guerra nucleare,Edizioni Gruppo Abele, Torino 1983. Sulla responsabilità delle stragi di Hiroshima e Naga-saki cfr. le pp. 11 - 45.Roberto Fieschi, Claudia Paris De Rienzi, Macchine da guerra. Gli scienziati e le armi,Einaudi, Torino 1995. Agilmente divulgativo. La questione atomica è trattata all’internodi un ampio quadro su scienza, tecnica, guerra nel mondo contemporaneo.Pietro Greco, Hiroshima. La fisica conosce il peccato, Editori Riuniti, Roma 1995. Trac-cia anche un’interessante tipologia delle diverse risposte etiche degli scienziati atomici.

Altri libri su Hiroshima:Giano pace ambiente problemi globali, “1945, anno zero. 3. La bomba”, n. 21, set-tembre - dicembre 1995. Articoli di L. Cortesi, L. Bonanate, G. Alperovitz, B. J. Bernstein,E. Collotti Pischel, F. Mazzei, L. Ciferri - M. Muramatsu, A. d’Orsi, C. Pianciola, M. Dioguar-di. Alcuni saggi sono stati ripresi in Francesco Soverina (a cura di), Olocausto/Olocau-sti. Lo sterminio e la memoria, Odradek, Roma 2003.John Rawls, Hiroshima, non dovevamo, Donzelli, Roma 1995 (I libri di “Reset”). Volu-metto che contiene oltre al saggio di Rawls (forse il più famoso filosofo politico statuni-tense) una bella introduzione di Nadia Urbinati e vari altri interventi.Ian Buruma, Il prezzo della colpa. Germania e Giappone: il passato che non passa,Garzanti, Milano 1994. Inchiesta giornalistica di alto livello sulla memoria, sulle rimozio-ni, sulla sacralizzazione simbolica dei luoghi.

Riflessioni filosofiche:Di Günther Anders sono da leggere il bellissimo, anche letterariamente, Essere o nonessere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961 (ripubblicato da Linead’Ombra, Milano 1995) e il volumetto, essenziale per capire la riflessione etico-politicaandersiana sulla tecnica, Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995. Importanteanche: G. Anders e Claude Eatherly, Il pilota di Hiroshima ovvero La coscienza albando, Linea d’Ombra, Milano 1992.Di Norberto Bobbio si segnalano due volumi densi di chiarimenti concettuali: Il proble-ma della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, più volte ristampato; Ilterzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e la guerra, Sonda, Torino 1989, a cura diPietro Polito.

Sui crimini di guerra:Michael Walzer, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazionistoriche, Liguori, Napoli 1990. Due capitoli contengono acute osservazioni su Hiroshima,Dresda, la deterrenza nucleare (pp. 329-373).Roy Gutman e David Rieff (a cura di), Crimini di guerra. Quello che tutti dovrebberosapere, Contrasto-Internazionale, Roma 1999. In ordine alfabetico, da “Aggressione” a“Zone grigie del diritto internazionale umanitario”. Ne è uscita un’edizione aggiornatanel 2003.

[C. P.]

ancora resistenza? Ci poteva essereresistenza? Non fu più che una strage.[...] L’uomo che distrugge le zanzarecoi mezzi della tecnica moderna, non“fa guerra”, perché non incontra resi-stenza; ma si limita ad eseguire uncompito tecnico. Così Hitler, quando“immetteva” i detenuti dei Lager ne-gli impianti di liquidazione, non face-va guerra agli ebrei, agli zingari o agliesseri inferiori, ma li annullava sem-plicemente. E questo principio ha avu-to la sua continuazione qui. Anche quinon si contava su nessuna resistenza.

Nagasaki e gli impianti di liquidazionesono delitti dello stesso genere» (G.Anders, Essere o non essere. Diario diHiroshima e Nagasaki, Linea d’ombra,Milano 1995, pp. 63 e 150).L’imperativo che secondo Anders dob-biamo assumere nell’era atomica è Abbiil coraggio di avere paura, non in sen-so negativo ma positivo e attivo. Loreinterpretiamo liberamente come im-perativo categorico a cercare ostina-tamente «le vie della pace» e a pro-muovere rapporti umani improntati allanonviolenza.

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L’Italia si trova da tempo inve-stita in pieno da questa “guerra dellamemoria” 1, diventata anche uno deicontrassegni distintivi del governo dicentro destra, impegnato su questoversante con molta determinazione.Mancando la fiducia nella scuola,considerata un pericoloso ed irreden-to feudo della sinistra, ad essere inve-stita del ruolo di magistra in questocampo è stata soprattutto la televisio-ne. La storia contemporanea ha per-meato di sé i palinsesti di tutte le retia tutte le ore. In ogni dibattito politi-co lo “storico”, spesso più presunto cheeffettivo, non manca mai a dire la sua,felice e ignaro di tradire la propria di-sciplina – ricerca pacata e rigorosa diverità provvisorie – per farsi strumen-talizzare dai toni accesi dello spetta-colo politico.Allo stesso modo è cresciuta sensibil-mente la produzione di teleromanzi asfondo storico. Di scarso livello arti-stico ma con ascolti considerevoli, alleopere di fiction televisive sembra siastato affidato un vero e proprio pro-gramma di rieducazione nazionale. Unasequela di brave e sfortunate persone– spiccano i salvatori di ebrei – è sfi-lata sui nostri teleschermi: Perlasca, ilcarabiniere D’Acquisto, l’ottimo questo-re di Fiume Palatucci, i martiri di Cefa-lonia, gli infoibati, gli esodanti. Nelcomodo della propria poltrona lo spet-tatore si può davvero riconfortare: gliitaliani sono sempre e comunque bra-vissima gente, eroi tanto grandiosiquanto malcerti e vittime innocentibisognose di pietà. In questa indige-

sta retorica nazionale gli italiani nonrisultano mai responsabili in propriodi alcunché: di volta in volta si pre-sentano come fascisti bonaccioni, inlinea con le belle «villeggiature» deiconfinati ricordate dal premier, o an-tisemiti per sentito dire, finiti chissàcome alleati in guerra a fianco dei na-zisti, loro sì davvero crudeli. Non unadomanda emerge, non una questioneproblematica, nulla che possa distur-bare i consigli per gli acquisti e la co-scienza storica nazionale in via di pa-cificazione.Ma l’offensiva della destra sulla memo-ria storica non si ferma qui.Proprio in occasione del sessantesimodella liberazione, il settimanale di Mar-cello Dell’Utri, Domenicale, non ha per-so l’occasione per festeggiare a modosuo la liberazione dal nazifascismo, ri-lanciando la campagna cara ai revisio-nisti nostrani per l’abolizione del 25aprile. Considerata «data che divideinvece di unire», il 25 aprile andrebbeabrogato anche perché marcherebbel’identità nazionale soltanto in nega-tivo (Marcello Pera).Ciò che in realtà disturba enormemen-te la destra è la (fondata) impressioneche bene o male sopra il fascismo tut-tora perduri nel sentire comune «unmarchio infamante»2 e che viceversal’antifascismo possa vantare un «valo-re etico» aggiunto da far valere in po-litica.Secondo il direttore del Domenicale, ciònon deriverebbe in alcun modo dai tan-ti disastri combinati dal regime ma sa-rebbe invece una colpa da attribuirsi

agli intellettuali. Irretiti dalla “vulga-ta” azionista e comunista (pari sono?),essi sarebbero stati poi così abili dafarsi seguire in questo antifascismo“mitico” dal popolo (popolo bue?).

Moltiplicare le feste

Allora se abolire tout court la festa dellaliberazione per la destra risulta impos-sibile proprio a causa di questo “fasti-dioso” perdurare dell’antifascismo, te-nace ostacolo ad una riabilitazionepiena del ventennio e della RSI, permodificare la «carta d’identità»3 dellarepubblica più furbescamente si è cer-cato di indebolire l’impatto delle ri-correnze del 25 aprile e del 27 genna-io moltiplicando per legge le feste ci-viche comandate attraverso il parla-mento.La più recente e sgraziata tra questeproposte governative è quella assai re-cente dell’istituzione del “Giorno dellalibertà” (9 novembre) con il compitodi commemorare l’abbattimento delmuro di Berlino e i nefasti dei totali-tarismi (altrui). Peccato che il 9 no-vembre sia in realtà il ben triste anni-versario del pogrom nazista della not-te dei cristalli (1938), data davveroimproponibile per qualsiasi “festeggia-mento” e celebrata invece giustamen-te in Germania dal governo e dalla co-munità ebraica come evento luttuosoper eccellenza. Evidentemente i nostrigovernanti ignorano non solo la storia«ma anche il più recente dibattito te-desco dopo la caduta del muro di Ber-

La guerra della memoria.Una questione politicaMARTA BAIARDI

Avere prodotto tante memorie divise e spesso

contrapposte è sicuramente un esito europeo e di

lunga durata della seconda guerra mondiale

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lino, che portò appunto a scartare que-sta data e a scegliere il 3 ottobre perla celebrazione dell’unificazione tede-sca»4.In realtà non solo di ignoranza e difiguracce si tratta ma di un vero e pro-prio «ritorno del rimosso fascista»5 neldiscorso pubblico.Il sintomo più vistoso di questa derivaè oggi rappresentato dal disegno dilegge6 di Alleanza Nazionale che vor-rebbe riconoscere ai militi della RSI lostato di militari combattenti equipa-rati a tutti gli altri belligeranti dellaseconda guerra mondiale. In nome del-l’«amore sconfinato» che i repubblichi-ni nutrirono per la patria e «per nondegradare la nostra razza» (sic!), chiha combattuto per la libertà e per co-struire la democrazia in Italia vienemesso sullo stesso piano di chi fiera-mente invece questo disegno avversa-va in nome di un’Europa fondata sulNuovo Ordine Europeo nazista.La verità è che una storiografia neofa-scista intesa come rigorosa ricostru-zione storica delle ragioni della rovi-nosa sconfitta non poté svilupparsi,inibita dalla stessa natura nostalgica– quindi acritica – della cultura politi-ca del Movimento Sociale Italiano, ere-de del ventennio e della Repubblica diSalò. Tuttavia un’«altra memoria»7, te-nacemente contrapposta all’antifasci-smo resistenziale, fondata su una co-spicua memorialistica di reduci, si pro-pose altrettanto precocemente. Da quioriginò una narrazione carsica, paral-lela ed alternativa a quella antifasci-sta capace di rivendicare legittimità

piena alla RSI e costituire il cementoideologico per una salda appartenen-za identitaria neofascista. Ed è proprioquesta narrazione, fortemente solleci-tata da istanze politiche, ad emergereoggi nella guerra di memoria in corso.Anche l’istituzione della giornata delricordo del 10 febbraio8, dedicata allevittime delle foibe e dell’esodo giulia-no-dalmata, nasce da questa memoriaparallela del neofascismo italiano. Main questo caso una specie di nemesiha prevalso sulla politica governativadella memoria e quest’anno l’occasio-ne, tanto sperata dalle destre per ce-lebrazioni di stampo meramente nazio-nalistico, è invece loro sfuggita com-pletamente di mano. Così di foibe edesodo hanno parlato in tutta Italia,chiamati prevalentemente nelle scuo-le, quegli storici che da anni proficua-mente se ne erano occupati, legati al-l’Istituto regionale per la storia delmovimento di liberazione nel Friuli eVenezia Giulia9 e da cui è scaturita unaricerca storica rilevante, che malgradoi numerosi e pregevoli contributi scien-tifici non aveva ancora avuto l’occa-sione di misurarsi con un pubblico tan-to largo e variegato.«Abbiamo girato l’Italia come trottoletrovando molto interesse, molta curio-sità ma anche tanta impreparazione dacolmare» ha dichiarato Raoul Pupodopo questa esperienza10.Con pazienza e superando ignoranze edisorientamenti, in occasione del pri-mo giorno del ricordo gli storici trie-stini hanno potuto esportare quantoavevano scoperto in anni di lavoro: la

natura profondamente europea e nienteaffatto localistica dei processi storiciche hanno segnato le terre del confi-ne orientale; quel “laboratorio giulia-no” attraversato tanto drammatica-mente da tutti i grandi sconvolgimen-ti che hanno caratterizzato il Novecen-to europeo: virulenza dei nazionalismi,guerre, stragi, violenze razziste, dolo-rosi spostamenti di popolazione e pe-santi fardelli di odi non estinti.

NOTE1. F. Focardi, La guerra della memoria. La Re-sistenza nel dibattito politico italiano dal 1945ad oggi, Laterza, Roma - Bari 2005.2. A. Crespi, “La fine del 25 aprile”, in Dome-nicale. Settimanale di cultura, anno IV, n. 14,2 aprile 2005.3. S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Ei-naudi, Torino 2004, p. 32.4. L. Novelli Glaab (presidente del Coordina-mento donne italiane di Francoforte), Letteraa “Prima Pagina”, Raitre (sabato 16 aprile2005, ore 8.00).5. E. Traverso, “Storia e memoria. Gli usi po-litici del passato”, in Novecento. Fare memo-ria, costruire identità, n. 10, gennaio - giu-gno 2004, p. 21.6. Legge n. 2244 (presentata nel febbraio2005).7. F. Germinarlo, L’altra memoria. L’Estremadestra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhie-ri, Torino 1999, p. 16.8. Legge n. 92 del 30/3/2004.9. Cfr.: R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, Bruno Mon-dadori, Milano 2003; G. Valdevit (a cura di),Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945,Marsilio, Venezia, 1997; B. Crainz, I dolore el’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa,Donzelli, Roma 2005.10. R. Pupo, impressioni raccolte dall’autriceil 19 aprile 2005 durante una conversazionetelefonica. Si ringrazia lo storico dell’Univer-sità triestina per la gentile disponibilità.

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MAESTRE E MAESTRI

Nato a Vienna da unpadre di nobili origini dalma-te e da una madre ebrea se-fardita e fin da piccolo compìfrequenti viaggi in Europa erimase fino all’ultimo un in-stancabile nomade. La sua for-mazione avvenne tra Salisbur-go, Firenze, Roma, ma Illich(1926-2002) non ebbe mai unbuon rapporto con le scuole,né con le discipline. Era so-ciologo, filosofo, linguista(conosceva un decina di lin-gue), teologo, ma forse più diogni altra cosa uno storicodelle istituzioni. Dopo la for-mazione teologica all’Univer-sità Gregoriana in Vaticano, fuordinato prete ed ebbe comeprimo incarico la cura di unaparrocchia a prevalenza por-toricana vicino a Manhattan.È lì che nel cuore del primomondo a contatto con gli ul-timi, cominciò a capire i mec-canismi dell’esclusione e del-l’alienazione degli individuiattraverso l’istituzionalizza-zione della vita. Nel 1956 di-venne vice rettore dell’Univer-sità di Puerto Rico e nel 1961fondò il Centro interculturaledi documentazione (CIDOC) aCuernavaca in Messico, uncentro in cui passò gran partedell’intellettualità radicaledegli anni Sessanta e Settan-ta, centro che avrebbe dovu-to formare i volontari e mis-sionari per i paesi del terzomondo. Qui nacque la criticadi Illich allo sviluppo, all’ideastessa di paesi in via di svi-luppo, condannati a un’eter-na povertà dall’impari con-fronto con i paesi già svilup-pati. Contemporaneamente Il-lich si impegnava contro laguerra, le banche, le grandicorporation e perciò riuscì fa-cilmente a divenire sospetto

alla CIA, al governo america-no e al Vaticano. Il Santo Uf-fizio cominciò un procedimen-to contro di lui e Illich abban-donò il proprio abito, la fun-zione sacerdotale e la Chiesa.Gli anni Settanta furono quellidella notorietà per la pubbli-cazione dei suoi scritti più notie polemici sulla critica alleistituzioni della scuola, dellasalute, per una rivoluzionenonviolenta verso un model-lo sociale di convivialità.Nei decenni successivi conti-nuò a lavorare secondo unostile diverso: conferenze inogni parte del mondo, brevisaggi che esploravano nuovicampi dei suoi multiformi in-teressi, seminari interdiscipli-nari con gruppi di collabora-tori scelti al di fuori dell’isti-tuzione accademica, prove-nienti da ogni parte del mon-do, soprattutto alle universi-tà di Brema e della Pennsyl-vania.Nei suoi ultimi scritti si è oc-cupato di temi affascinanticome la velocità, l’esperien-za del dolore nella contem-poraneità, i mutamenti nello

sguardo nell’epoca delle im-magini, la mente alfabetizza-ta e l’impatto con il compu-ter.La sua opera, soprattuttoquella degli ultimi anni, re-sta un campo immenso dacoltivare; il suo magistero, unesempio di come si possa es-sere veramente geniali senzaessere egocentrici, supponen-ti, accecati dall’importanzadel proprio lavoro, sempredisposti a spostare lo sguar-do e a mettersi in dialogo congli altri con una smisuratacuriosità umana .Tra le sue opere, che sono incorso di ristampa presso l’edi-tore Bruno Mondatori di Mila-no, ricordiamo La convivialità(1974), Nemesi medica(1977), Il genere e il sesso(1984), Lavoro ombra (1985),Nello specchio del passato(1992), Nella vigna del testo(1994).Particolarmente interessanteper avere un’immagine delpercorso di Illich è il libro Con-versazioni con Ivan Illich (acura di David Cayley), Elèuthe-ra 1994).

Ivan Illich,maestro dellaconvivialitàFILIPPO TRASATTI

Un genio nomade dai multiformi

interessi

Giù le mani daibambiniIl Ministero della Salute ha avviatol’inaugurazione dei centri regionaliper la somministrazione di psicofar-maci ai minori, e sta strutturando unregistro nazionale per la schedaturadi tutti i minori sotto terapia. È ladenuncia del Comitato “GiuleManidai-Bambini” ®,– costituito da alcuneassociazioni e nazionali, tra le qualil’Agesci e le ACLI, e l’Age – promoto-re dell’omonima campagna difarmaco vigilanza(www.giulemanidaibambini.org). Latavola rotonda nazionale (Torino, 28maggio 2005) sulla reintroduzionedel Ritalin e sull’apertura dei centriregionali per la somministrazione dipsicofarmaci ai bambini ha riaperto ildibattito sugli abusi nella sommini-strazione di psicofarmaci a bambini eadolescenti. Esperti italiani e constatunitensi hanno fatto il punto suquesta delicata tematica e hannolanciato una campagna d’informazio-ne.Per contatti e informazioni:tel. 337.415305, [email protected].

Il conflittocome risorsaÈ rivolto a genitori, insegnanti,educatori, operatori sociali, formatoriIl conflitto come risorsa, il corso diformazione sulle competenze percrescere nei conflitti (“La distinzionefra violenza e conflitto”; “L’impattoemotivo del conflitto”; “Lo stileconflittuale personale”; “Il conflittocome strumento relazionale e digruppo”; “Negoziazione e mediazionenella prospettiva della gestionemaieutica dei conflitti”) che si tienea Genova, dal 6 al 9 luglio 2005, periniziativa del CPP – Centro Psicopeda-gogico per la Pace e la gestione deiconflitti (www.cppp.it).

So-stare nelconflittoLa IX edizione di So-stare nelconflitto, corso di specializzazionedel Centro Psicopedagogico per laPace e la gestione dei conflitti diPiacenza, è articolata in 7 moduli: 9- 12 giugno 2005, Il gruppo diapprendimento come laboratorio diconflitti; 9 - 11 settembre, La ricercaintrapersonale: aspetti emotivi eautobiografici; 7 - 9 ottobre, Lacapacità esplicativa attraverso lapratica della negoziazione; 2 - 4dicembre, Aiutare a gestire conflittitra mediazione e consulenzamaieutica; 13 - 15 gennaio 2006, Lapratica della consulenza maieutica(I); 10 - 12 febbraio, La pratica dellaconsulenza maieutica (II), 1 aprile,Supervisione e prova di fine corso.Per informazioni: [email protected], sitowww.cppp.it.

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Israele: ilcoraggio dirifiutare

«Non vogliamo partecipare

all’occupazione».

Riportiamo la lettera

coraggiosa e importante

sottoscritta da oltre 300

ragazze e ragazzi studenti

liceali israeliani (14 aprile

2005) refusniks al Capo del

Governo Ariel Sharon, al

Ministro delle Difesa Shaul

Mofaz, al Capo di Stato

Maggiore Moshe Yaalon, al

Ministro dell’Educazione Limor

Livnat

«Noi, ragazze e ragazzi, cittadini israeliani che cre-diamo nel valore della democrazia, dell’umanesimo, e del plura-lismo, annunciamo che rifiuteremo di prendere parte alla politi-ca d’occupazione e di oppressione decisa dal Governo israelia-no. Le nostre origini sociali sono diverse, ma siamo tutti d’ac-cordo che questi valori siano la base per l’esistenza di una so-cietà giusta. Ogni persona ha il diritto alla vita, all’uguaglian-za, all’onore, alla libertà, che sono i diritti fondamentali del-l’uomo. Il nostro obbligo civile e morale è operare in favore diquesti diritti, rifiutando di partecipare alla politica di occupa-zione e oppressione.L’occupazione porta alla perdita dell’umanità e di molte viteumane. Colpisce i diritti fondamentali di milioni di persone ecausa ogni giorno sofferenza e morte. Porta alla confisca diterre, alla distruzione massiccia di case e di edifici pubblici, adarresti e condanne a morte senza processo, alla tortura e ucci-sione di persone innocenti, produce fame, mancanza di curemediche adeguate, punizioni collettive, costruzione e ingrandi-mento di insediamenti, e, in una parola, la negazione di ognivita normale nei territori occupati e in Israele. Questa flagranteviolazione dei diritti umani va contro la nostra visione del mon-do ed è contraria alle convenzioni internazionali firmate e rati-ficate dallo Stato d’Israele.L’occupazione non contribuisce alla sicurezza dello Stato e deisuoi cittadini, ma all’opposto, la pregiudica. Fa crescere la di-sperazione e l’odio fra i palestinesi, incoraggia il terrorismo e facontinuare lo spargimento di sangue. Una vera sicurezza saràraggiunta solo con la fine dell’occupazione, con l’abbattimento

del muro dell’Apartheid, e con un accordo di Pace fra lo Statod’Israele e il popolo palestinese e il mondo arabo. L’attualepolitica dello Stato non deriva da una necessità militare, ma dauna visione nazionalista e messianica.L’occupazione corrompe la società israeliana rendendola unasocietà militarista, razzista, sciovinista e violenta. Israele spre-ca le sue risorse per perpetuare l’occupazione e la repressionenei territori occupati, quando molte centinaia di migliaia dicittadini israeliani vivono in una povertà vergognosa. Gli israe-liani hanno subito negli ultimi anni un degrado di tutti i siste-mi pubblici. Educazione, sanità, infrastrutture, pensioni, servi-zi sociali – tutto quello che riguarda il benessere dei cittadiniisraeliani – è trascurato per il mantenimento degli insediamen-ti, quando maggior parte della popolazione è contraria ad essi.Non possiamo guardare senza fare qualcosa per quanto riguardaquesta situazione che è una “liquidazione mirata” dell’ugua-glianza.Speriamo di vivere in una società giusta dove regni l’uguaglian-za fra tutti i cittadini. La politica dell’occupazione e dell’op-pressione impedisce questa visione e noi rifiutiamo di farneparte. Chiediamo di contribuire alla società per mezzo di unavia alternativa che non colpisca gli esseri umani.Chiamiamo tutti i giovani prossimi all’arruolamento e tutti isoldati nell’esercito israeliano di domandarsi se vogliano farparte della politica di distruzione rischiando la propria vita.Crediamo che ci sia una via alternativa».

[Per chi voglia saperne di più: www.shminsitim.org].

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Non è affatto facile tro-vare insieme a raccontare e di-scutere padri e figli, nonni enipoti. Si sentiva vera passio-ne, come il segno di una sto-ria comune, di un filo dellamemoria di cui ancora si ten-gono i capi. Che non si “addi-pana” del tutto, tipo casa deidoganieri.Non capita spesso però. Noncapita a scuola.Il primo rischio qui è che resi-stenza e costituzione si ridu-cano a materie scolastiche,capitoli fra gli altri. E nonsono tanto sicuro si depositiqualcosa fuori della dimensio-ne delle lezioni e dei voti,magari come senso della sto-ria e dello stato. In aprile misono trovato con classi intereche non chiedevano ma pre-tendevano di passare tutta lamattina a guardare in tv i fu-nerali di Giovanni Paolo II.Come si poteva non permet-terlo? Una ragazza mi ha det-to che ha fatto molti miracolie ha fermato una guerra; qua-le?, una. Che importanza hase ci sono dei non cattolici onon credenti, perché dovreb-bero impedirci qualcosa a noiche siamo italiani? (e infattisi guardano bene quelli, perpaura di essere odiati temo,dal chiedere qualcosa). Ma ilsenso della storia e della mi-sura non è meno in crisi fuoridelle aule, anzi. Forse proprionel luna park di riti, spetta-colo, santità (subito!), mito-logia che festeggia dappertut-to, il bisogno di guide e rife-rimenti forti cresce e attraeragazze e ragazzi (che hannosinceramente, mi sembra, vis-suto l’evento come l’Evento).Ma io continuo a pensare chec’è anche altro in questo vuo-to di senso, fiera mediaticadelle appartenenze. Una spe-cie di distanza da tutto, che

può essere spazio di ricerca eapertura.Non che sia più facile per que-sto parlare dei valori della re-sistenza e della costituzione.Anzi un discorso che tendesemplicemente a farne un og-getto di venerazione, se fini-sce nella retorica e nella no-stalgia non funziona (forsefunziona solo se parlano i vec-chi partigiani: allora la leggescritta diventa vita, speranzadi cambiamento per la qualesi può morire; e anche la fa-mosa violenza, una specie diautonegazione: difesa e pre-figurazione di un’altra societàche dica mai più guerra, tes-suto e pratica di liberazione).Ma il disastro del teatro poli-tico presente getta la sua lucesul passato della repubblica enon è un bel vedere; difficileriproporlo, difficile pensarlo (efarlo pensare) riformabile.Il punto è quel vuoto-apertu-ra di cui dicevo. La forza diquelli che vogliono farla fini-ta con le lungaggini della de-mocrazia parlamentare (piùnumerosi di Berlusconi, bastaguardare gli statuti regionalipresidenzialisti che riduconole assemblee elettive a poco

più di organismi consultivi) èla crisi del sistema dei partitie della rappresentanza. Ridottia comitati elettorali di un vol-to e a cura del proprio colle-gio. Se i “corpi intermedi” re-stano questi, se la cittadinan-za orfana di partito resta chiu-sa nelle sue casette, chiaro cheil messaggio che offre di sca-valcare tutto e affidarsi diret-tamente al Premier funziona.Il fatto è che c’è altro in quel-la crisi. Anche per ragazze eragazzi credo (se non c’è, temosia inutile predicare certi va-lori).Il punto è che la Costituzionedel ’48 (così com’è, le costitu-zioni mica si aggiornano comecalendari) è un sistema di ga-ranzie che vale anche per quelvuoto e per quella apertura.Mi viene in mente la discus-sione sulla difesa della magi-stratura e dello stato di dirit-to dal berlusconismo che haattraversato una parte delmovimento dopo Genova. Chec’entriamo noi con lo stato ela magistratura, quante volteci hanno arrestato e processa-to, che dobbiamo difenderedella democrazia formale bor-ghese...

C’è da difendere proprio lo sta-to di diritto, la possibilità dispazio per la politica e l’esi-stenza. Per un’altra forma didemocrazia, fatta di singola-rità più che di masse, forse;più di auto-rappresentazioneche di rappresentanza. Fonda-ta su spazi pubblici disponi-bili a una vita da inventare(collettiva però, per gli iper-mercati e le televisioni neisalottini va bene Berlusconi).È una garanzia per l’agibilitàpolitica delle strade e dellepiazze. Per le reti di volonta-riato e associazionismo, con-sumo critico ed economia al-ternativa. Per la lingua perso-nale e politica che parla daibalconi, perfino dalle scrittesulle magliette, dagli sms edalle email.Perché chi ha diciott’anni pos-sa inventare qualcosa.Quel pomeriggio di sole, ascol-tando i partigiani si sentivache per loro la costituzioneparlava ancora del presente edel futuro, non del passato ebasta. E non solo per gli arti-coli programmatici ancora darealizzare (lavoro salute istru-zione...): strumenti per esse-re liberi e dunque fare societàe politica, più che orizzontefinale da raggiungere una vol-ta per tutte.È che quando parli della tuavita sei sempre vicino alla vitadegli altri, quando raccontidelle tue speranze ascolti eparli alle speranze di tutti.Secondo me bisognerebbe di-fenderla così la Costituzione.Parlando del futuro, di quelloche potranno fare della loroesistenza (cioè della repubbli-ca) ragazze e ragazzi di oggi.Di quello che potranno costru-ire come mondo comune inquesto vuoto spettacolare,prima che lo riempiano i San-ti e i Premier.

Resistenza,costituzione e scuola

ANDREA BAGNI

Mi hanno invitato alcuni miei ex studenti a

una celebrazione dei sessant’anni della

Resistenza. Hanno ormai una trentina d’anni,

ma si ricordano ancora della scuola (bello) e

sono figli di partigiani, addirittura iscritti

all’Anpi (bellissimo). E l’incontro è stato

splendido

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ESPE

RIEN

ZE N

ARRA

TE

Strangers inmusicFILIPPO TRASATTI

Li vedi circolare sugli autobus, a

scuola per i corridoi, a volte in

classe, tra un’ora e l’altra,

attaccati alle cuffie del walkman

come alla bombola d’ossigeno (i

più ricchi ancora pochissimi a

scuola con il trendy iPod: ma che ci fai

di 10.000 o 30.000 canzoni?). A volte

soli, persi in un mondo di musica

finalmente scelto da loro, qualcosa che

possono godersi in pace, senza che nessuno li

disturbi. Altre volte tenerissimi in coppia, con

un auricolare a testa, come strane creature a

due teste, tenute insieme da una colonna

sonora

Capita anche a me, naturalmente. Lo faccio spesso, sugliautobus, sui metrò, persino in gita con loro, quando con grandesoddisfazione ci scambiamo i cd da ascoltare. Anche a scuolacapita di scambiarsi dischi, pareri, a volte addirittura di andareinsieme a un concerto. Certo molto spesso anche nella musica,come in mille altre cose, i nostri mondi hanno pochi punti ditangenza. Ma grazie ad alcuni di loro particolarmente appassio-nati e competenti in questi anni ho scoperto musicisti che poiho continuato ad ascoltare. Qualche anno fa uno studente miha portato per mesi da ascoltare, a due cd alla volta, l’intera ladiscografia dei Queen, in rigoroso ordine cronologico. Insommauna notevole fatica, ma l’intenzione era buona.

Scambi

Non mi basta però vivere questi scambi come un complottocarbonaro, da nascondere negli interstizi di tempo libero.Così da un paio d’anni, con le classi nuove del triennio (insegnofilosofia e storia in un liceo classico alla periferia di Milano),prima di dedicarmi al corso programmato, allo sviluppo degliargomenti e a tutte le altre attività che fanno parte della varie-gata attività didattica, riservo una giornata (un paio d’ore) aquella che chiamo la carta d’identità musicale della classe. Chiedoa ciascuno di portare a scuola un pezzo che lo rappresenti, chelo descriva musicalmente agli altri, un pezzo del cuore da con-dividere. Ovviamente sono perplessi, alcuni addirittura all’ini-zio rifiutano. Perché sembra una violazione inopportuna del loromondo: puoi farmi domande sulla rivoluzione francese o sul

dualismo cartesiano, ma per favore non chiedermi la parola e lamusica che mi definisca. Poi riluttanti accettano e ci sediamotutti insieme in quella che, pomposamente, chiamiamo aulad’ascolto, con un impianto hifi e una tastiera e a turno ciascu-no propone un brano musicale. È anche un esercizio di pazien-za, perché non sempre si ama la musica che gli altri ci propina-no. Che so Francesca propone un pezzo di Laura Pausini (orro-re!), oppure Tommaso Gangster Paradise di Coolio (mai sentito,però non mi dispiace). In un ordine casuale, a turno, si apronomondi: dal prevedibile, ma sempre per me commovente Imagi-ne di John Lennon che mi trattengo dal canticchiare, al bellis-simo Sogno di Maria di Fabrizio (segno che tra me e Piero c’èun’affinità segreta, invisibile fuori dalla musica?). Ci sono tantimodi di ascoltare la musica, come si mangia un bignè alla cre-ma o un gelato al pistacchio e cioccolato, oppure danzando(senza darlo troppo a vedere), oppure invece immersi in unaconcentrazione intima e dolorosa, e tutti questi modi si mesco-lanoAlcuni te li aspetti, non so Elio e le storie tese di Fabio ironicoe sornione, ma che ci fa lì Piece of my Heart di Janis Joplin? E iltranquillo timidissimo quasi invisibile studente che ci fa ascol-tare un arrabbiatissimo Bad Loves di Eric Clapton? E last but notleast il Dies irae dal Requiem di Mozart di Federico, quasi imba-razzato per la scelta classica?Da dove viene questa musica? Attraverso quale vie li ha rag-giunti e commossi? Perché hanno scelto proprio quel brano percondividerlo con gli altri della classe e con me?Per capirlo ci vorrebbe un anno scolastico. Forse impareremmodavvero qualcosa di questi sconosciuti che ci stanno di fronte.Per finire ho cercato di rimettere insieme questi pezzi propo-nendo un altro lavoro. Ciascuno poteva scrivere un breve rac-conto, a partire dal testo del brano o dalla circostanze in cuil’ha incontrato la prima volta, per provare a dire agli altri qual-cosa di più. L’esperimento non è riuscito, per ora. Alcuni mihanno detto che lo stavano facendo, ma non siamo ancora arri-vati a farne un’antologia. L’idea mi piace assai. Io, che sonosempre stato abituato a fare i compiti, il mio racconto l’hoscritto a partire da una canzone anche troppo prevedibile: Whi-ter Shade of Pale dei Procol Harum. Troppo intimo, non so seavrò mai il coraggio di farglielo leggere.

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R/Esistere tra i banchistrategie per salvarsi dalla/nella scuola

P ossiamo provare atracciarne alcune tra le moltelinee generali:a. ripartizione ordinata e vi-sibile dei corpi nello spazio:ogni corpo deve essere al suoposto e ogni spazio deve es-sere al limite occupabile dauno e un solo corpo alla vol-ta; vi sono strategie di occu-pazione dei posti nello spazioe norme che regolano il flussodei corpi medesimi andando adefinire anche le condizionidella loro staticità;b. separazione per localizza-zione: i corpi sono così sepa-rati per permetterne una visi-bilità e una immediata loca-lizzazione; come sa ogni in-segnante che realizza all’ini-zio dell’anno scolastico lapiantina della classe con iquadratini con i nomi dei/lleragazzi/e, il fatto che ogniragazzo/a abbia un suo pro-prio banco e un suo proprioposto assegnato è anche unprincipio d’ordine (oltre a co-stituire una possibilità di in-vestimento affettivo per il ra-gazzo/la ragazza);c. isolamento come punizio-ne: pratica di eliminazioneprovvisoria o definitiva delreprobo dal gruppo sociale eal tempo stesso di utilizzodell’elemento spaziale (di so-lito ridotto ma non sempre: sipensi all’espulsione dei ragazzinei corridoi) come agente dicondizionamento dell’indivi-duo, questa strategia puniti-va non ha conosciuto eccezio-ni nemmeno nel Lager;d. visibilità e scorporamen-to dei luoghi del potere: laPresidenza, la Direzione, cosìcome a livello sociale la Que-stura, il Provveditorato, l’Epi-scopio, sono luoghi separatidal corpo sociale, visibili, con-statabili (e perciò al limiteanche attaccavbili);e. presidio degli accessi: al-l’istituzione non può entrarechiunque e in qualunque mo-

mento, le porte della scuolavengono chiuse (simbolica-mente e fisicamente) quandol’ultimo degli allievi o l’ulti-ma delle insegnanti è entra-to/a e da quel momento re-stano chiuse fino all’orariostabilito per l’uscita. Ogni al-tra regolamentazione del flus-so in entrata o in uscita pre-vede il tramite di permessiscritti e firmati dai/dalle re-sponsabili.

La cosa curiosa è constatarequello che è in realtà il carat-tere obsoleto di questa archi-tettura del potere, in una si-tuazione sociale come quellaattuale nella quale:a. alla ripartizione ordinatae visibile dei corpi nello spa-zio si sostituisce l’addensa-mento apparentemente di-sordinato di masse e comun-que anche nelle pratiche di or-ganizzazione del lavoro tendea scomparire la rigida corri-spondenza biunivoca “unuomo un posto”; le nuove pra-tiche di potere tendono a su-perare questa logica taylori-

stica per combinare più uomi-ni/donne allo stesso posto epiù spazi occupabili (anchecontemporaneamente: si pensialla realtà virtuale e al mul-toitasking) dallo stesso uomo/donna;b. alla separazione per loca-lizzazione si tende a sosti-tuire l’aggregazione in grup-pi che sottraggono all’indivi-duo la dimensione della loca-lizzabilità ma anche la perce-zione della sua identità; è ilgruppo ad essere posto sottocontrollo e localizzato, e se cisi interessa all’individuo è soloin quanto membro del gruppoda controllare (i reduci di Lot-ta Continua piuttosto che gliautonomi del Leonka; gli Ul-tras della Roma piuttosto chela gang di ragazzini che rapi-nano le vecchiette sui tram);c. all’isolamento come puni-zione si sostituisce la logi-ca di una responsabilità col-lettiva e dunque punire signi-fica semmai far interiorizzarecoercitivamente al soggetto lalogica del gruppo costringen-dolo al lavoro in gruppo; si

tratta della logica della riedu-cazione che prevede a voltal’isolamento come spazio diresistenza dell’individuo (que-sto non vale per le carceri);d. alla visibilità e scorpora-mento dei luoghi del poteresi sostituisce una invisibili-tà un nascondimento delpotere stesso che se non sirafforza più manifestandosiacquisisce nel nascondersi unasorta di intangibilità e si sot-trae alla verificabilità; i pote-ri occulti non sono allora undifetto superabile all’internodelle democrazie, perché l’oc-cultamento è la dimensionepeculiare delle nuove forme dipotere;e. al presidio degli accessisi sostituisce l’ideologia del-la trasparenza e della com-pleta attraversabilità deglispazi di contenimento; scuo-la “aperta”, fabbrica “aperta”,caserma “aperta”, carcere“aperto”... sembra quasi che,garantita la invisibilità deipropri meccanismi più internie più decisivi, il potere con-senta la visibilità e la traspa-renza di tutto il resto (ovveroforse dell’inessenziale!).

Ad una scuola “vecchia” sicontrappongono allora nuovelogiche del potere; e volereuna scuola che sia all’altezzadei tempi anche nel suo esse-re istituzione di contenimen-to e spazio di disimpegno del-le forme di potere significachiedere alla scuola di esserese stessa, di recuperare quelcarattere di relais tra le formeassunte delle istituzioni dicontenimento che solo le puòpermettere di incidere suimondi vitali di chi vi lavora;perché la scuola non può soloessere buona: nessuna istitu-zione lo è davvero, e più leistituzioni si sforzano di es-serlo più sottraggono ai sog-getti la possibilità di conte-starle e di cambiarle.

Gli spazi della scuolaRAFFAELE MANTEGAZZA

C’è una materialità e una ritualità della scuola

che i ragazzi e le ragazze vivono

inconsapevolmente ogni giorno, e che occorre

esplicitare a partire dalle dimensioni dello

smontaggio e del rimontaggio; una pratica che

si definisce anzitutto a partire dalle strutture

architettoniche; le scuole sono molto simili

agli ospedali, alle caserme, agli ex-manicomi

o alle carceri. Lo sono in senso fisico e

materiale: i lunghi corridoi, gli alti soffitti, la

ripartizione dei corpi nello spazio, tutto

questo rende possibile un richiamo circolare

tra le varie istituzioni di contenimento della

società occidentale avanzata

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Laicità offesa,mortificata,stravoltaL’onda lunga non si è ancora deltutto arrestata, ma come dopola violenza di uno Tsunami sicomincia a misurare l’entitàdella distruzione. L’uraganomassmediatico della malattia,agonia, morte, esequie,sepoltura di Papa Woytjla si èabbattuto sul nostro paese conun crescendo d’intensità, diarroganza spavalda, di conquistaprogressiva di spazi che solo latotale acquiescenza potevanoincoraggiare. [...] Forsel’operazione più grave agli occhidi chi opera nella scuola e ha ilcompito di esercitare l’azioneformativa sui giovani è laconfusione – certo non nuova,ma in quest’occasione fortemen-te potenziata – tra valori etici,principi laici, fondamento dellacivile convivenza, e valorireligiosi della religione cattolica,come se da questi ultimidiscendessero i primi. La figuradel papa Giovanni Paolo II èstata in questo senso utilizzatadal ministro Moratti nella letterainviata a tutte le scuole, letterache esalta - ed invita tutto ilmondo della scuola ad esaltare –la grandezza “umana e politica”di questo Papa e invita i giovaniad identificarsi coi valori delcristianesimo.Ancora una volta la nostraassociazione protesta con forzacontro questa invasione da partedel ministero degli spazi didemocrazia scolastica. Propriocontro l’invadenza del governo adanno delle scelte didattichedegli organi collegiali dellascuola si è espresso il primodocumento dell’associazione“Per la Scuola della Repubblica”:dalla scuola del ministero allascuola della Repubblica.“Per la Scuola della Repubbli-ca”, tel. 06 3337437, fax 063723742, [email protected], sitowww.comune.bologna.it/iperbole/coscost.

Una stranacircolareA firma del ministro dell’Istru-zione, il 4 aprile 2005 è arrivatanelle scuole di ogni ordine egrado, una circolare (protocolloN. 15971) assai singolare, il cuiincipit è «Cari insegnanti». Inessa, la signora Moratti siesibisce in sintetici elogi delpontificato di Giovanni Paolo II,che tutti i docenti dello Statodovrebbero fare propri edivulgare.

Le note professioni di fedecattolica della Moratti sonocertamente legittime. È propriola laicità dello Stato repubblica-no a garantire il diritto ad averediverse visioni del mondo, nelreciproco rispetto delle libertàindividuali e dei principidemocratici garantiti dallaCostituzione. Lo stupore non stacertamente in questo, ma nelfatto che la Signora utilizzi ilproprio ruolo per una sorta dievangelizzazione in chiavecattolica. La circolare dellaMoratti, infatti, contieneaffermazioni che contrastano colsupremo principio della laicità,che un ministro della Repubblica(Ministro significa servitoredello Stato) dovrebbe alcontrario affermare e difendere.L’onorevole ministro, a nostroavviso, infatti, facendo forsequalche confusione trasentimenti privati e sferapubblica, indica in GiovanniPaolo II «un punto di riferimen-to per tutti gli uomini e ledonne, al di là di ogni fede e diogni cultura», particolarmenteper i giovani. E, dando perscontata l’assimilazionedell’insegnamento ai principicattolici, sollecita gli insegnantia diffondere i principi del papascomparso: «Penso sia impor-tante […] – recita la circolare –promuovere in classe momentidi riflessione su questo grandeuomo e sul suo messaggio,condividendo con i vostri alunnila sua eredità morale espirituale».Le scuole della Repubblica sonodivenute una succursale delVaticano?Maria Mantello, vicepresidenteAssociazione Nazionale delLibero Pensiero Giordano Bruno.Associazione Nazionale delLibero Pensiero “GiordanoBruno”, via Aldo Manuzio 91,00153 Roma,tel. 329.7481111, [email protected],www.liberopensiero.20m.com

L’estate allaCasaLaboratorio diCenciDal 4 al 10 luglio 2005,Villaggio educativo: 7 giorni e 7notti per partecipanti dai 7 ai70 anni (Franco Lorenzoni, tel.339.5736449).Dal 5 al 15 agosto 2005,Incontro con l’India. La ricercadelle sorgenti: suonatori Baul,danzatori Chhau e maestri d’artimarziali Kalari Payattupropongono le loro pratiche(Abani Biswas, tel. 06.6386131,

[email protected],[email protected]).Dal 23 al 25 settembre 2005,Matematica e colori. L’officinamatematica di Emma Castelnuovo(Franco Lorenzoni, tel.339.5736449).Casa-laboratorio di Cenci,strada di Luchiano 13, 05022Amelia (Terni), tel.0744.9803300 - 744.980204,e-mail: [email protected],sito www.prospettive.it/cenci.

Scuole di paceNell’ambito della CampagnaNazionale di EducAzione allapace e ai Diritti Umani 2004-2005, del Decennio delle NazioniUnite per l’educazione ai DirittiUmani (1995-2005) e delDecennio delle Nazioni Unite peruna Cultura di Pace e Nonviolen-za per le Bambine e i Bambinidel Mondo (2001-2010), si èsvolto Rovereto (29 - 30 aprile2005) il secondo Meetingnazionale delle scuole di pace.Nel corso dell’iniziativa La sceltadella pace insegnanti, studenti,enti locali e associazioni hannodiscusso dell’educazione alla pacea scuola e definizione ilprogramma di attività per l’annoscolastico 2005-2006.L’incontro è stato promosso da:Coordinamento Nazionale degliEnti Locali per la pace e i dirittiumani, Tavola della pace,Provincia Autonoma di Trento(Assessorato all’Istruzione,Assessorato alla Solidarietàinternazionale, Consiglio),Consiglio della Regione TrentinoAlto Adige/ Sudtirol, ForumTrentino per la Pace, Comune diRovereto, Fondazione Opera

abb.La rivista bimestrale,

la lettera bimestrale, il sito (www.ecolenet.it), il cd rom annuale.L’abbonamento (5 numeri + 5 lettere di école + cd) costa 35 euro.

Conto corrente postale n. 25362252 intestatoa Associazione Idee per l’educazione,

via Anzani 9, 22100 Como

Attivazione immediata: tel. 031.268425

Campana dei Caduti di Rovereto,in collaborazione con il CentroDiritti Umani dell’Università diPadova e la Cattedra UnescoDiritti Umani, Democrazia e Pacedi Padova.Tavola della Pace, via dellaViola 1, 06100 Perugia, tel.075.5736890, fax075.5739337, e.mail:[email protected], sitowww.scuoledipace.it.

PrevenzioneIl quinto Convegno nazionale“La prevenzione nella scuola enella comunità” si terrà aPadova dal 23 al 25 giugno.Per informazioni: http://dpss.psy.unipd.it/link/index.htm.

Perché non civolete più?Il Coordinamento genitoriTuttiascuola per riaffermare idiritti dei bambini disabili nellascuola pubblica italiana halanciato una campagna di inviodi cartoline al ministro LetiziaMoratti. Le cartoline si possonoscaricare al sitowww.tuttiascuola.org

LetterePer problemi di spazio nonriusciamo a pubblicare le lettereche lettrici e lettori ci hannoscritto. Le potete leggere sulsito di école (www.ecolenet.it).

B R E V I

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32 L’Oscar dell’altro mondoÈ l’Oscar “dell’altro mondo” quello che, ogni due anni, riunisce nella capitaleOuagadougou registi, attori, produttori africani ed europei, per il Fespaco,(www.fespaco.bf), il festival del cinema africano.Ignorati dal mercato italiano, i film raccontano la realtà di questo continente(dal Marocco al Sudafrica). I temi forti sono le guerre, la discriminazione controle donne, il difficile rapporto tra città e villaggi, la forza (o il peso) delletradizioni. Ma anche i momenti migliori della storia africana, come la lottacontro l’apartheid o i movimenti per l’indipendenza. Alcuni film sono girati inEuropa, per esempio a Parigi, ma raccontano ugualmente storie “africane”:toccano temi come l’emigrazione, la difficoltà di vivere in un paese straniero, lasolitudine. Uno di questi è il cortometraggio Une place au soleil, del marocchinoRashid Boutounés, interpretato da Ismail Amidou, attore francese di originemaghrebina.Il vincitore dell’edizione di quest’anno (dal 27 febbraio al 5 marzo scorso) èstato Drum, del sudafricano Zola Maseko, ispirato alle vicende di un giornalistanero negli anni ’50, quando in Sudafrica furono introdotte le prime leggisull’apartheid. Premi speciali sono andati a Tassuma di Daniel Kollo Sanou, unacommedia brillante, dalla trama equilibrata e ben costruita, che racconta leavventure storia di un ex combattente dell’esercito francese che aspettainutilmente la propria pensione da Parigi. E ancora, La nuit de la verité (la nottedella verità) della regista Fanta Régina Nacro, premiato per la miglioresceneggiatura, una storia dura e coraggiosa sulle guerre etniche che insanguina-no l’Africa.Tra i cortometraggi, ha fatto incetta di riconoscimenti Safi, la petit mère (Safi,la piccola mamma), realizzato da Raso Ganemtoré, regista burkinabé che vive inItalia. È la storia di Safi, la cui madre muore nel dare alla luce un altro bambino.I vecchi del villaggio vogliono uccidere il neonato, perché lo consideranostregato. E Safi – per salvare il fratellino – fugge in città, dove trova una nuovafamiglia disposta ad accoglierla.Una sezione speciale del Fespaco è dedicata ai video e ai reportage. Tra questi, èstato premiato Ask me I’m positive (Chiedimi se sono sieropositivo), delsudafricano Toboho Edkins, dedicato al problema dell’Aids in Africa. È statogirato in Lesotho, dove le persone infettate dal virus sono il 30 per cento dellapopolazione (ma solo 5 di loro, attivisti nella lotta contro l’Aids, hannoaccettato di “uscire allo scoperto” e farsi filmare).Ottimi film, dunque, ma non distribuiti in Italia, al di fuori di ristrettemanifestazioni. Una possibilità di procurarseli è costituita dalla “Mediathequedes trois mondes”, con sede a Parigi, che vendo in tutto il mondo videocassettee dvd di film prodotti in Africa, Asia e America latina (i tre mondi, appunto).Per informazioni e per ricevere il catalogo: www.cine3mondes.com, [email protected].

Scolari della scuola di Tatyou (foto Francesca Capelli).

le culture

È mezzogiorno a Tatyou, nella re-

gione di Boulkiendé (Burkina Faso). Per ibambini della scuola primaria è il momen-to di lavarsi le mani prima di pranzo. Sem-bra banale, ma non lo è, in uno dei 5 paesipiù poveri dell’Africa, dove la grande mag-gioranza della popolazione non ha accessoall’acqua potabile. Tantomeno al sapone.L’acqua usata dai bambini di Tatyou è quelladi un forage, una trivellazione profondacirca 30 metri, sulla quale è installata unapompa manuale. In altri villaggi esiste unpozzo. Gli alunni sono divisi in gruppettiche fanno capo a ragazzi più grandi, inca-ricati di sorvegliare che tutti si lavino, perpoi riporre le caraffe e il sapone.«Abbiamo dotato di sapone e recipienti lescuole sostenute dal nostro progetto, e diacqua le due che ne erano prive», diceMarina Martinetto, italiana che da oltre 20anni vive in Burkina Faso, dove è respon-sabile della sede del Ciai (Centro italianoaiuti all’infanzia 1, un’organizzazione nongovernativa che opera nel paese). «Com-priamo il sapone prodotto da un gruppodi donne di un villaggio vicino e ogni meseriforniamo le tre scuole rurali che appog-giamo della quantità necessaria», dice Ma-rina.

Riso e fagioli

«Anche il pasto di mezzogiorno è fornitoda noi». Riso e fagioli, olio e sale iodatonelle proporzioni raccomandate dall’Uni-cef per ottenere il massimo valore nutri-zionale dalla miscela. Per quasi tutti i bam-bini, l’unico pasto che la famiglia può per-mettersi è quello serale. «Per di più il rac-colto del 2004 è andato male – continuaMarina –. E non è facile, per un ragazzinodi 8 - 9 anni, andare a scuola e studiare,tutti i giorni, a stomaco vuoto». I ragazzisono anche invitati a coltivare un orto sco-

Sapone e matiteFRANCESCA CAPELLI

Andare a scuola a stomaco vuoto in

Burkina Faso, uno dei cinque paesi più

poveri dell’Africa

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Dalla parte delle bambineCELESTE GROSSI

Nel mondo 115 milioni di bambine e bambini non

hanno accesso all’istruzione. L’Unicef, pur

riconoscendo che negli ultimi anni ci sono stati

dei miglioramenti, denuncia una situazione

drammatica soprattutto in Asia meridionale, dove

42 milioni di bimbi non vanno a scuola e dove è

davvero allarmante la condizione delle bambine

Solo 5 dei 24 paesi presi in esame nell’ultimo rapportodell’Unicef, riescono a soddisfare gli obiettivi fissati per l’istruzio-ne dall’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia. La situazione èparticolarmente grave se si tiene conto che – come dice CarolBellamy, il direttore esecutivo dell’agenzia – «L’istruzione non èsolo apprendimento scolastico. In molti Paesi è addirittura unsalvavita, specialmente per quanto riguarda le ragazze. Unaragazza che non va a scuola è più soggetta al rischio di esserevittima dell’Aids e risulta meno predisposta ad allevare unafamiglia sana».

Dai dati pubblicati da Save the Children nel sesto Rapporto sulloStato delle Madri nel Mondo (maggio 2005) emerge che cinquan-totto milioni di bambine non vanno a scuola. Il dossier compren-de il primo Rapporto sull’Educazione delle Ragazze, un’indagine,effettuata su un campione di 71 paesi in via di sviluppo, cheprende in esame il numero delle iscrizioni e l’effettiva partecipa-zione scolastica. «Più è il tempo che le bambine passano a scuola,maggiori sono le loro possibilità di rompere il ciclo di povertà ediventare mamme che allevano figli sani e che mandano i propribambini a scuola, siano maschi o femmine» ha commentatoFilippo Ungaro, portavoce di Save the Children Italia.I risultati peggiori per la scolarizzazione delle bambine sono statiregistrati in Iraq, Rwanda, Eritrea e Malawi a causa di fattorinegativi come la guerra, la diffusione dell’Aids, la rapida crescitadella popolazione. Ma ci sono anche nazioni “ad alta probabilitàdi successo” come la Bolivia, il Marocco, il Messico, il Vietnam.L’impossibilità delle famiglie di pagare le spese scolastiche, lacarenza di insegnanti e di libri rappresentano un ostacolo allascolarizzazione sia dei bambini sia delle bambine, ma per questela frequenza scolastica è compromessa ulteriormente dalladiscriminazione di genere (sono ostacoli aggiuntivi le limitazionid’ordine religioso e culturale, ma perfino l’assenza di serviziigienici separati).La maggior parte dei governi, è consapevole dell’importanzadell’educazione femminile per lo sviluppo nazionale e si appresta,perciò, ad attuare delle strategie per favorire pari opportunità.Secondo l’Unicef, anche in paesi come il Pakistan e l’Afghanistanentro il 2015 le bambine saranno scolarizzate tanto quanto ibambini. La parità di accesso scolastico non sarà, invece,raggiunta in Bielorussia, in Tagikistan, in Turchia.

NOTA1. La versione integrale del Rapporto sullo Stato delle Madri nel Mondo èscaricabile all’indirizzo: http://www.savethechildren.it/pubblicazioni.

lastico, per vendere gli ortaggi. O consu-marli e variare un po’ l’alimentazione, inun paese dove la dieta base è costituitada polenta di miglio con salsa.Ufficialmente, i ragazzi iscritti alla scuolaelementare sono circa il 50 per cento deltotale, ma le percentuali reali sono anco-ra più basse. E chi ne fa le spese sonosoprattutto le donne. In campagna, lebambine che frequentano la scuola sonola metà circa dei maschi. Qualche annofa, le cose andavano anche peggio. «Incittà – dice Marina Martinetto – le iscri-zioni delle bambine sono pari a quelle deimaschi, perché qui il loro lavoro non èindispensabile. Non devono andare a cer-care la legna, portare l’acqua o accudire ifratellini». Ma poche proseguono gli studidopo le elementari.Le scuole sono insufficienti ad accoglieretutti i bambini. Le classi sono molto nu-merose, con 80 - 100 alunni. E mancano isoldi per la manutenzione degli edifici sco-lastici, spesso fatiscenti.La qualità dell’istruzione è piuttosto bas-sa. Il metodo di insegnamento si basa so-prattutto sulla ripetizione a memoria, conprogrammi “adattati” da quelli francesi.«I contenuti sono diventati in gran partelocali, ma vengono studiati a memoria, pergiunta in francese, e non nella la linguamadre degli alunni, senza confronti conla realtà e senza esperienze pratiche – spie-ga Marina Martinetto –.Per esempio, i ra-gazzi studiano le malattie parassitarie el’importanza dell’igiene, ma non vengonoaiutati a cogliere l’attinenza di questi temicon la loro vita».Anche la lingua è un problema. Quasi tut-ti i bambini in famiglia e nella loro comu-nità parlano il moré o un’altra lingua lo-cale. E il primo giorno della scuola ele-mentare, a 7 anni, si ritrovano in un luogosconosciuto, dove si sentono rivolgere laparola in una lingua ignota e misteriosa.“La riflessione sul ruolo della scuola nelleex colonie francesi ha stimolato la ricercadi nuove formule, più locali e vicine allarealtà”, dice Marina Martinetto. Per ora sitratta di sperimentazioni, ma si spera chesiano esperienze destinate a diffondersi,coinvolgendo gli insegnanti nel processodi cambiamento. Questi progetti pilota pre-vedono per esempio che la scuola inizi conla lingua nazionale e che introduca gra-dualmente il francese.

NOTA1. Il Ciai, oltre ad assistere direttamente le scuole,aiuta i bambini delle famiglie in difficoltà (sele-zionate dal ministero della Solidarietà sociale) conun programma di sostegno a distanza: una piccolasomma mensile da versare al Ciai per l’acquisto dimateriale scolastico (in un paese dove persino unamatita è un lusso) e cibo.Per informazioni, www.ciai.it, tel. 02.540041.

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Per questo il dottor T.sta cercando di modellare informa di pollici i due brevimonconi focomelici di Semia-na: «Vedrai, un poco alla vol-ta ce la faremo a costruirtimani quasi normali». Fuori,nell’aria colorata e tiepida,fanno uno strano effetto lebianche bende di fantasma,ma là sotto, la pelle nuova sista saldando con la pelle diprima, il pollice cresce e cre-scerà fino a quando… Mani involo come farfalle, unghie acolori come le sue compagne,mani forti per guidare il mo-torino… Non sarà mai così, eSemiana lo sa, ma chi può dire,oggi… «Ci vorrà tempo – diceil dottore – ma tu sei corag-giosa, tu hai pazienza, vero?».Semiana ha pazienza perchéha patito, ma le cose che lesono accadute sono così gran-di e forti e improvvise che nonle ha viste e non se ne ricor-da, le ritrova solo nei raccon-ti degli altri, a pezzi. La suavita non le sta dentro con im-magini e date in bell’ordinecome nell’album che Emilia hamostrato a scuola: Emilia ap-pena nata, Emilia alla primacandelina, a tre anni, a quat-tro anni, al campeggio… Se-miana viene da partenze eapprodi, naufragi e salvatag-gi fortunosi, che diventanosuoi a poco a poco, attraver-so le parole di chi l’ha vista el’ha raccolta. Di quando han-no lasciato la casa in Kosso-vo, per esempio, ha saputosolo dalla mamma: «Il babbo

non sta bene, andiamo noi alavorare, andiamo in Italia, siarriva presto, non c’è bisognodi nuotare, andremo sulla navedi gomma tutti e tre, io tu eGavrilo. No, Enver non viene,tuo fratello deve prima guari-re, se non guarisce non glidanno lavoro».In Italia è arrivata a setteanni, ma era Italia quel neroscuotimento, il vorticare dimotori urla e corpi e piediannaspanti e il muro d’acquache avvolge e tira in fondo, equella spinta verso l’alto equel rantolo in cerca di respi-ro? L’indicibile prendeva for-ma nel racconto del poliziot-to, in Puglia, in una casa pie-na di gente e parenti e amici:«Quei disgraziati li hanno but-tati in mare, fanno semprecosì, appena si sentono avvi-stati li buttano a mare, senzascrupolo, e scappano. e poiricominciano. ma non parlia-mo davanti a loro, poveretti,sono già sotto shock, il bam-bino non capisce ma la bam-bina si impressiona. ve lo rac-conto dopo, quando si addor-menta».La prima volta le parole si era-no confuse col sonno ma poichiudere gli occhi era stato unbuon modo per raccogliere ipezzi di vita dalle voci deglialtri. Se la vedeva dormire, ilpoliziotto Franco raccontavameglio: «Li buttavano a marecome si butta la zavorra, qual-cuno andava subito sotto escompariva, e che fatica pren-derli sott’acqua, graffiavano

come gatti per lo spavento, etu non sapevi se arrabbiarti oavere pietà». Semiana sullaspiaggia ce l’ha portata unodi loro, per poco non annega-va pure lui. Lei non sapevanuotare, e come poteva, conquelle mani? era tutta blu, lamamma povera donna tenevain braccio il piccolo, che po-teva fare?Ad occhi chiusi Semiana met-teva in fila i fatti della suavita.A Roma la mamma lavora dal-le suore, al fratellino badaSemiana. Viene prima Gavriloperché Gavrilo è piccolo e bi-sogna salvarlo, a salvare leiforse verrà qualcun altro, for-se. Televisione? No, c’è Gavri-lo da accudire. Passeggiata?No, c’è il cortile da spazzare.Telefonate alle amiche? Semia-na sorride a quest’assurdità.

Un pezzo di vita

Oggi nella biblioteca di quar-tiere c’è la festa del racconto:questa volta sono i ragazzi ascegliere un adulto per offrir-gli una fiaba. Semiana ha scel-to la sua insegnante di italia-no, le legge una pagina da unlibro che le piace. Laura ascol-ta, ringrazia e racconta anchelei, racconta di Semiana che ècoraggiosa e buona, e qualchevolta è triste, come al saggiodella classe, dove lei non hapotuto ballare. A Semiana ildottor T. aveva raccomanda-to: «Non toccare queste ben-

NUOVIARRIVI

A poco a pocoLIDIA GARGIULO

«Semiana Bregovic? Anni 13? Albanese?», si è

accertato il segretario prima di consegnarla

alla mamma. All’ospedale Semiana ci torna

ogni anno, per curare le dita delle mani. Che

sono sei, tre per mano, indice medio e

anulare, quasi inutili però, senza l’aiuto del

pollice

de, non le togliere mai, te letoglierò io quando sarà il mo-mento. e cerca di non urtare,altrimenti perdiamo tutto illavoro».L’una di fronte all’altra, Laurae Semiana si raccontano e sidicono grazie ognuna a suomodo.«Io mi piaceva la danza di miecompagne, non posso starecon loro e piangevo…». «Maoggi è diverso». «Sì moltobello, oggi io dimentico, iooggi ero felice». Semiana sor-ride ma Laura: «Scusate, quan-do parlo di queste cose mi vie-ne sempre da… mi si rompo-no le fialette… eppure, lo giu-ro, per le cose tristi mica pian-go…». Respira forte e poi:«Ma lo sapete che Semiana hasuonato, l’anno scorso? il pro-fessore di educazione musica-le, aspetta come si chiama…».«Marcello», suggerisce Semia-na. «Marcello, sì, per il sag-gio di fine d’anno Marcello hacomposto un pezzo per Semia-na, da suonare con l’indice,perché l’indice è il dito piùforte. Marcello suonava a duemani e lei usava gli indici,teneva benissimo il tempo,non ha fatto un errore».«Quattro mani e dodici dita,dieci più due; otto in panchi-na, ma i due che pestavano latastiera, come danzavano as-sieme alle mani di Marcello!».Semiana ascolta: dalla voce diLaura. Quel pezzo di vita si faavanti pieno e gioioso, staentrando nella storia, sarà suoper sempre.

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` SPAGNA

AbrogazioneconcompromessoPINO PATRONCINI

Alla fine Zapatero ce l’ha fatta: la

riforma scolastica della destra

(Loce), la cui applicazione era

stata sospesa un anno fa

all’indomani della vittoria elettorale

socialista, sarà abrogata e sostituita da una

nuova legge

Il Ministero dell’Educazione spagnolo infatti ha presentatoalla fine di marzo la bozza di una nuova riforma (Loe). In que-sto modo ha ottemperato alla clausola costituzionale che pre-vedeva di poter non applicare una legge se in un tempo con-gruo si è in grado di portare a termine una legge differente. Ecosì il governo conta di approvare il tutto entro il 2005. I primicambiamenti si applicheranno a partire dal 2006-2007.La nuova legge tenta però la sintesi di un lavorio legislativoche va dal 1985 ad oggi e che passa attraverso l’opera di gover-ni differenti e, pur modificando gli aspetti più impopolari dellalegge della destra, introduce anche soluzioni che possono esse-re lette come altrettanti compromessi. Non mancheranno quin-di le polemiche: già si sentono, nell’aria e non solo.La nuova legge elimina il provvedimento più odioso, cioè quellacanalizzazione precoce (a 13 anni) e obbligatoria, in base airisultati scolastici, in tre percorsi (preliceale, preprofessionalee prelavorativo), che era stata tacciata di segregazionismo eche per fortuna non era ancora stata applicata. Ma il quartoanno della scuola media (15 anni), sarà orientato o al liceo oalla formazione professionale, non obbligatoriamente ma a sceltadei ragazzi e delle famiglie. Perciò, diversamente dalla Loce,nessuno a 15 anni sarà preparato per l’avviamento al lavoro, eperò i ragazzi tra i 16 e i 21 anni che non hanno completato lamedia potranno completarla in un corso di avviamento al lavo-ro.Altro aspetto, stavolta già in vigore, che viene cambiato è co-stituito dalla norma sulle bocciature. La Loce prevedeva checon due insufficienze fosse obbligatorio bocciare, la nuova leg-ge prevede che nella scuola secondaria inferiore la bocciaturascatti obbligatoriamente solo con quattro insufficienze, mentrecon tre la questione viene rimessa alla decisione del Consigliodi classe.Altro aspetto di rottura con la legge della destra è l’abolizionedell’esame terminale del percorso liceale e le trasformazioneinvece dei preesistenti esami di ammissione alle università inuna prova unica nazionale che funzioni sia come valutazionefinale della preparazione liceale che come selezione per l’acces-so al numero chiuso.La nuova legge mantiene invece della Loce alcune cose: la gra-tuità della scuola materna (che però comporta finanziamenti

pubblici anche per le numerose scuole materne private), la pos-sibilità di respingere gli alunni anche in prima media (una voltasi prevedeva che le bocciature potessero iniziare solo in secon-da) e la partecipazione dell’Amministrazione alla elezione deicapi di istituto (in Spagna il preside è elettivo) anche se rispet-to alla legge della destra il grosso della scelta resta nelle manidei Collegi docenti e dei Consigli di istituto).Il testo conterrà anche norme sulla valutazione di sistema datenersi in riferimento alla quarta elementare e alla seconda mediae l’impegno del governo a un resoconto annuo davanti al parla-mento delle valutazioni sull’andamento del sistema scolastico.Ma la cosa su cui la polemica è più viva resta sicuramente laquestione dell’insegnamento della religione, sottoposta agliaccordi tra stato spagnolo da una parte e chiesa cattolica, co-munità ebraica, chiesa evangelica e comunità islamica dall’al-tro. Probabilmente sarà valutabile nella media ma non nellasecondaria superiore. Resta rinviato ad un decreto reale la defi-nizione della materia alternativa e della sua gestione. Su que-sto punto la polemica è già scoppiata violentemente dopo che ilpartito socialista ha fatto sapere che in parlamento sosterrà latesi del diritto dei non credenti di non avvalersi né dell’insegna-mento religioso né della disciplina alternativa. I socialisti in que-sta battaglia sono sostenuti dai sindacati delle Comisiones Obre-ras e dell’Ugt, mentre alla sua sinistra lo Stes, accusa il governo dinon avere avuto il coraggio di applicare il parere del consiglio distato che suggeriva di mettere la religione fuori dall’orario scola-stico. Dall’altra parte le organizzazioni cattoliche dei genitori edegli insegnanti gridano al mancato rispetto della pari dignitàdell’insegnamento religioso e della discriminazione verso gli “av-valentisi” che avendo una disciplina in più avrebbero più proba-bilità di incappare nelle norme sulle bocciature.

La missione dell’Unicef èdifendere i bambini: difendila!Il Movimento della Salute dei Popoli (People’s Health Movement,[email protected]), che ha rapporti di lavoro con l’Unicef, conl’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) e con altre agenzie delleNazioni Unite, allarmato alla notizia della designazione di Ann Venemancome nuovo Direttore Generale dell’UNICEF, ha scritto una lettera alSegretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, e ai membri delConsiglio Esecutivo del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia, in cuiesprime preoccupazione e chiede che ci sia un ripensamento tanto sulladesignazione che sul processo che la determina.Chi volesse sottoscriverla può farlo sul sito: www.saveunicef.org/save_unicef_form.htm.

Infanzia«Quasi la metà dei bambini del mondo (oltre 1 miliardo su una popolazio-ne infantile di 2,2 miliardi) vive l’infanzia come “un’esperienza orribile”,devastata da “povertà, guerre e Aids”. Di questi bambini, uno su 6 soffregravemente la fame; uno su 5 non ha accesso all’acqua potabile; uno su 3vive in case prive di servizi igienici e uno su 7 non usufruisce diassistenza sanitaria», si legge nel dossier Child trafficking. Per proteggerel’infanzia in tutto il mondo il 30 dicembre 2004 è stato presentatoall’UNESCO l’appello Infanzia, Patrimonio dell’Umanità (http://childm.splinder.com).

Per sottoscrivere l’appello: http://blog.libero.it/aderisci/, http://adesioni.3000.it;per presentare l’appello a scuola: tel. 045 8347701 - 347 2542819, [email protected] - [email protected].

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de rerum natura

Roma, piazza del Quirinale, ore8.30. Nel silenzio, data l’ora, una ap-parente turista abbraccia con lo sguar-do il palazzo del Quirinale, quello dellaConsulta e la fontana con i Dioscuri e icavalli rampanti: sono tutti ancora nel-l’ombra. La luce è limpida, bello il luo-go. Poco prima delle 9 un fascio di luceillumina la testa di uno dei gemelli.L’apparente turista si riscuote, guardal’ora, si guarda intorno e con passodeciso si dirige verso il grande portaledi palazzo Rospigliosi. Entra nel corti-le, il portiere in divisa le indica la stra-da attraverso il giardino, anch’esso ap-partato e silenzioso. Prima di entrarein una seconda porta che dà nel vesti-bolo affrescato, tira fuori fogli, sche-de, il quaderno di appunti e la matita,in breve la sua dotazione da convegno.La sua compagna d’avventura è al ta-volo monumentale usato come scriva-nia di registrazione. Sbrigate le forma-lità, insieme si siedono, nella sala an-cora completamente deserta, nelle pri-me file: non vorrebbero perdere parolepreziose, sono qui per un compito cheritengono importante: ascoltare il se-minario per poi raccontarlo ai lettoridi école.

Un laboratorio vero

Invece che alle 9.30 il seminario hainizio alle 11, con le relazioni d’aper-tura che introducono ai temi che, suc-cessivamente, saranno trattati dai par-tecipanti, divisi in quattro gruppi: “Glo-balizzazione e dimensione locale nel-l’educazione ambientale”; “Il cambia-mento culturale, obiettivi e strategie”;“Qualità educativa e innovazione: comecambia l’educazione ambientale”; “At-tori, competenze e strategie per un si-stema maturo di educazione ambienta-le”.I gruppi di lavoro saranno chiusi e aper-ti allo stesso tempo: a metà dei lavori,infatti, ogni gruppo riceverà il resocon-to di un altro gruppo, e quindi ne di-scuterà. Ciascuno perciò parteciperà adue gruppi, e a un resoconto generale

provvederà la relazione conclusiva(quella del sabato, in tarda mattina-ta).Le due giornate testimoniano di unmetodo che ha caratterizzato sia la fasepreparatoria (le riunioni del Tavolo diAlimentazione Culturale) sia la condu-zione dell’intero seminario. Disegnareun buon contesto è cruciale per quelloche dentro accadrà. Qui il contesto hafunzionato bene, ha garantito davverola circolazione delle idee. I documentipreparatori (molti e densi) erano statiinviati per tempo (anche a noi, che liabbiamo studiati una settimana prima),e, in aggiunta a questi, altre riflessio-ni scritte sono state consegnate quellamattina.Andate lì non come addette ai lavori,noi abbiamo imparato molto e fattoesperienza di un come un seminario,pur se d’impianto tradizionale (relazionie discussione), possa costituire unabuona pratica di confronto: gruppi vi-vaci, nell’intesa comune e anche neimomenti conflittuali, persone mosse daldesiderio di fare esperienza di lavorod’insieme: un laboratorio vero quindi,che apre i temi proposti senza prefigu-rarne né determinare l’esito. E questoci sembra importante per la vitalità deigruppi ambientalisti.Fare un resoconto dettagliato è ovvia-mente impossibile, e poi gli organizza-tori si sono impegnati a rendere noti e

a far circolare relazioni e interventi 1;ci limiteremo perciò a riferire quantoha avuto in noi “risonanza”.Dicevamo che i temi di cui si è dibat-tuto erano stati già annunciati nel do-cumento preparatorio “Educazione am-bientale, facciamo il punto. Sei appun-ti per un documento” (pubblicato suécole di aprile 2005, pp. 14 - 16); fraquesti, la necessità di un maggioreomogeneità culturale, con la ripresa oil rafforzamento dello spazio da asse-gnare alla ricerca e alla riflessione suipresupposti teorici – anche sul ruolodi una pedagogia esplicita – e alla ri-cerca di un linguaggio comune.

I presupposti condivisi

Partiremo da qui, dal bisogno – sentitoda molti – di trovare un linguaggio co-mune affinché si possa dare lo stessosignificato alle parole, alle parole piùricorrenti e “ovvie” (innovazione, pro-getto, sviluppo, territorio, paesaggioecc.), e che pertanto necessitano con-tinuamente che se ne verifichi l’enci-clopedia sottintesa. Le parole infattisono cariche di teoria – denotano nonsoltanto “oggetti” ma anche idee –, enon è (non è sempre) ozioso perdersidietro le parole, perché, quando si pas-sa alla concretezza (ai progetti, allepratiche), si rischia di perdere di vista

Mosaico ambientaleROSALBA CONSERVA E LAURA SCARINO *

Italia nostra, Legambiente, TCI, Terra Nostra, VAS, WWF, a

partire dall’esperienza condotta insieme nel Gruppo di

Alimentazione Culturale, hanno organizzato un seminario

nazionale sull’educazione ambientale (Roma 1 e 2 aprile 2005)

per avviare un percorso di riflessione sull’educazione

ambientale condivisa dai numerosi e diversificati soggetti,

istituzionali e non, che in questi anni hanno operato in questo

campo e per disegnare i problemi oggi sul tappeto sul piano

culturale, organizzativo ed educativo

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37la matrice teorica che quella concre-tezza l’ha generata (è dalle idee chenascono le azioni concrete). Prendia-mo ad esempio i modelli pedagogici: purse ogni educatore (che ne sia consape-vole o no) ha in mente una teoria im-plicita, che in molti casi funziona bene,conviene tuttavia risalire a una teoriagenerale della vita e della conoscenza,oltre che dell’educazione in senso stret-to; rendere insomma esplicita la doman-da: che vuol dire educare? Che cos’è unessere umano che si prende cura di unaltro essere umano?, che ne sollecitala crescita, che cambia il suo modo dipensare, di agire, e così via. E comecollocare l’educazione ambientale in unquadro teorico? (Valadia). Nella forma-zione dei formatori, quali le competenzeper affrontare il cambiamento?, fino ache punto i formatori condividono glistessi scenari?Nel mosaico ambientale, dove si formal’identità territoriale di ciascuno, è im-portante, per esempio, cercare di capi-re come si legge un paesaggio, perchéun paesaggio è capace di dare il metrodi ciò che è avvenuto e dare indicazio-ne sugli scenari futuri (Poce). E comeparlano i nostri “paesaggi” (concreti eimmaginari) ai ragazzi e alle ragazzedi altre realtà culturali? (Salacone).I formatori hanno spesso un deludenterapporto con gli insegnanti – deleganol’educazione ambientale allo speciali-sta, e specialistico, chiuso nel suo for-malismo, resta il loro “sapere discipli-

nare” –; eppure la scuola resta il luogoprivilegiato per una seria educazioneambientale. Oggi la scuola manifestacambiamenti dovuti alla diversità deisoggetti: la multicultura modifica nonsoltanto l’assetto disciplinare ma an-che il rapporto con l’ambiente. Occorreallora che almeno il tempo dell’educa-zione sia un tempo disteso: della con-divisione, della cooperazione, a comin-ciare dal gruppo classe: una risorsa pocosfruttata: si pensi all’interrogazione‘personale’, che chiude, prima ancoradi farlo nascere, un dialogo a più voci– cruciale per la qualità della conoscen-za – al quale i bambini sono per naturapredisposti.

La dimensione pubblicadell’educazione ambientale

Sul locale/ globale, Tamburini ha os-servato che l’educazione ambientale èfortemente connessa al progetto di svi-luppo dell’Italia: è importante alloraessere capaci di immaginare l’educazio-ne ambientale sullo sfondo dello svi-luppo. L’educazione ambientale potreb-be essere un motore per creare un con-testo di rinascita a livello locale per laprogettualità delle imprese, e per con-trastare quindi la de-industrializzazio-ne. In che consiste la dimensione pub-blica dell’educazione ambientale? Pub-blico non vuol dire “statale” – ha os-servato Cogliati Dezza –, e c’è un’offer-ta non statale che può avere una utili-tà pubblica, che può garantire l’inte-resse generale forse meglio del pubbli-co, il quale, ricorrendo allo spoil system,riproduce spesso una logica di lottiz-zazione. È stato quindi ribadito, in ri-ferimento particolarmente alla rete IN-FEA 2, che l’educazione ambientale do-vrebbe avere un ruolo prevalentemen-te pubblico con riferimento alle regio-ni, tuttavia chiarendo che:1. questi centri devono essere distri-buiti in tutte le regioni (e dalla discus-sione tra i rappresentanti di realtà re-gionali del Friuli, della Toscana, dellaCampania, della Basilicata, del Piemon-te è emerso chiaramente come ci siauna forte disomogeneità);2. che devono parteciparvi soggetti delcosiddetto privato sociale (associazio-ni);3. che queste realtà non devono esserein competizione tra di loro, cosa cheinvece tende a verificarsi.Inoltre da più voci è emersa l’indica-zione che le associazioni devono smet-tere di avere un ruolo suppletivo neiconfronti delle istituzioni pubbliche e

che debba essere data applicazione alprogramma approvato nel 2000 dallaCommissione Stato-Regioni, tuttoranon applicato.Tuttavia un altro punto di debolezzadell’educazione ambientale è statoidentificato nella precarietà degli ope-ratori (da quattro anni il Ministero del-l’ambiente ha interrotto i finanziamen-ti); un sistema fondato sul precariatoseleziona certamente per passione manon investe sul capitale umano a me-dio e lungo termine. Data la frammen-tazione dell’offerta e, in alcuni casi,l’abbassamento della qualità, occorre-rà creare degli strumenti di concerta-zione (forum, consulta) tra pubblico eprivato sociale. La complessità dellequestioni ci fa toccare con mano lanecessità di lavorare insieme e di co-struire identità non chiuse (Borgarel-lo). L’obiettivo dovrebbe essere non dicreare poli di eccellenza bensì di ele-vare lo standard medio, per esempio nelgoverno delle regioni.A chiusura, le relazioni hanno fatto ilpunto. Senza pretendere che le conclu-sioni fossero definitive. Eravamo alla vi-gilia delle votazioni regionali: le cosepossono cambiare – è stato detto –, enoi dobbiamo immaginare questo futu-ro. Anche perché immaginare il futuro èun buon metodo per interpretare il pre-sente (Arcangeli). Come lo vorremmodunque questo futuro cambiato?, comesiamo capaci di immaginarcelo?

* Circolo Bateson.

NOTA1. Per informazioni: Margherita Fazzi,[email protected]. Il sistema nazionale INFEA (InformazioneEducazione Ambientale) è un programma delMinistero dell’Ambiente finalizzato a diffon-dere sul territorio strutture di informazione,formazione ed educazione ambientale.

Vacanze natura conil WWFI Campi avventura – le attività turistico-educative che il WWF propone a bambine ebambini, ragazze e ragazzi e ai loro genitori– sono presentati in tre cataloghi (dai 6 ai14 anni, dai 15 ai 17 anni, Famiglie) chepossono essere richiesti a JuniorpandaAvventure (via dei Reti 28/a, 00195 Roma,tel. 06.44291587 - 06.44291598, fax06.44291603, [email protected]) o essereconsultati sul sito www.wwf.it/vacanze.

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ambiente

Caro Signor Sindaco di Milano,Caro Signor Presidente della Provincia Milanese,Caro Signor Presidente della Regione Lombardia,Caro Signor Ministro della Salute dello Stato Italiano,Caro Signor Ministro dell’Ambiente dello Stato Italiano,una volta si diceva: «È una bella giornata di sole», oggi si dice: «È una spaventosa giornata dipolveri sottili»1, e persino il meteorologo, nell’annunciare le infauste previsioni, quasi si scusa einvoca in cuor suo la misericordia del cielo, che con diluvi e cicloni provvidenziali ci liberi dal maldell’aria.Peccato che a Milano non soffi più il vento del rinnovamento, capace di trasformare ogni inspi-razione in un’ispirazione. Ci sarebbero più giardini, più zone pedonali, più piste ciclabili, piùmezzi pubblici. Anche più bambini, tutti per legge con il diritto di voto. Allora la danza dellapioggia sarebbe solo un gioco e l’altalena un bel modo per toccare il sole con un dito.«Signore Bambine e Signori Bambini – direste voi Sindaci, Presidenti e Ministri, rivolgendovi aglielettori con un po’ di cipiglio e molto garbo –, non siamo i soliti grandi confusi e inconcludenti,ciò che promettiamo manteniamo».La promessa è una città europea con un’aria da bambino. Una città dove poter correre e giocaresenza trattenere il fiato. Con al massimo 20 microgrammi di polveri sottili al metro cubo 1, non

con picchi fino a 200 o oltre, come capita adesso.Sì, 20, un bel numero che vuol dire anche venti. Venti, folate, zefiri,soffi gentili. Sbuffi lieti di bambini: figli, nipoti, piccoli amici. Sospirianche nostri: sospiri ispirati di grandi ormai cresciuti. Respiri dottori,che di tutti, senza affanno, sanno prendersi cura.

Aquilino, Paul Bakolo Ngoi, Stefano Bordiglioni, Cristina Brambilla,Emanuela Bussolanti, Janna Carioli, Chiara Carter, Giovanni Caviezel ,Vanna Cercenà, Sara Cerri, Lodovica Cima, Sabina Colloredo, FrancescoCosta, Francesco D’Adamo, Erminia Dell’Oro, Giovanni Del Ponte, Ro-berto Denti, Franco Enna, Pietro Formentoni, Silvana Gandolfi, LuigiGarlando, Roberta Grazzani, Vivian Lamarque, Anna Lavatelli, Dome-nica Luciani, Beatrice Masini, Luisa Mattia, Alberto Melis, Mino Dila-ni, Emanuela Nava, Luca Novelli, Giulia Orecchia, Daniela Palombo,Antonella Panini, Arianna Papini, Paola Parazzoli, Roberto Ravanello,Angelo Petrosino, Bianca Pitzorno, Roberto Piumini, Chiara Rapacci-ni, Silvia Roncaglia, Sebastiano Ruiz Mignone, Giorgio Scaramuzzino,Dino Ticli, Bruno Tognolini, Maria Vago, Anna Vivarelli, Paola Zanno-ner, Donatella Ziliotto

NOTA1. Le polveri sottili sono particelle che vengono inalate sotto forma di aerosola ogni respiro. L’Unione Europea fissa oggi a 50 microgrammi a metro cubo lasoglia d’allarme e a 40 microgrammi a metro cubo la media annuale. La stessamedia scenderà a 20 nel 2010. A Milano questi valori si ottengono solo conl’aiuto di eventi atmosferici quali il vento o la pioggia.

Vogliamo una città con l’ariada bambino

Parte dalla città di Milano, che per la sua situazione specifica è forse la più“a rischio” d’Italia – ma si intende allargato idealmente a tutte le altre cittàitaliane i cui amministratori non rispettino le soglie stabilite dalle normeeuropee per le concentrazioni degli inquinanti nell’aria – l’appello con cui gliscrittori di libri per ragazzi chiedono che vengano rispettate le leggi europee,che fissano a valori molto bassi le soglie di concentrazioni degli inquinantinell’aria; che siano rimossi gli amministratori che permettono che le leggisiano costantemente violate; che vengano adottate misure severissime neiconfronti dell’inquinamento atmosferico, che, come il fumo, minaccia lasalute di tutti i cittadini, soprattutto dei bambini e delle persone più deboli

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media

E in virtù del sentimento che a

lui ci legava, ci sia permesso allora scri-verne con la fraternité che di noi e dilui ha fatto prima di tutto dei compa-gni di strada.Alla cronaca di questo incontro occor-re ancora una premessa. Giuseppe,

I maestri dellalettura. Omaggio aGiuseppe PontremoliALBERTO MELIS

Il passo di un libro, una figura retorica, una

citazione dotta. Chiunque si cimenti a

scrivere la cronaca di un convegno svoltosi

nel corso di una fiera del libro, sa quali

artifici del mestiere utilizzare perché l’incipit

apra la strada al correre leggero delle parole

sulla carta. Perché da subito, definito

l’argomento e suggerito anche lo stile, si

fondi o si rifondi il patto tra chi scrive e chi

legge.

Ebbene, questo articolo, che è la cronaca

dell’incontro “I maestri della lettura.

Omaggio a Giuseppe Pontremoli” svoltosi il

16 aprile scorso alla Fiera internazionale del

libro per ragazzi di Bologna, non si aprirà

con alcun artificio del mestiere. E

probabilmente peccherà, se non di scarsa

oggettività, dell’opportuno distacco. Perché

il Giuseppe Pontremoli che è stato ricordato a

Bologna era nostro amico. Era un maestro.

Era uno di noi

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scomparso l’11 aprile dello scorso anno,aveva scritto un libro intitolato Elogiodelle azioni spregevoli. Un saggio digrandissimo spessore sulla lettura, sul-l’arte e la passione di far scuola e sul-l’infanzia, che è andato però incontroa un parto tanto contrastato quantoestenuante. Perché come spesso capi-ta a chi è incapace di mercanteggiarele proprie opere e il proprio pensiero –e Giuseppe ben lo sapeva avendo scrit-to spesso del catalogo delle difficoltàe del dolore in cui sono iscritte le vi-cende di tanti grandi scrittori –, il suolibro restò arenato a lungo nei panta-ni di un’editoria distratta e miope. Im-pantanato e rifiutato sino a pochi mesiprima della sua scomparsa, quando fi-nalmente venne pubblicato dalle edi-zioni l’Ancora del Mediterraneo.Ecco allora che se una sensazione co-mune, o meglio un timore, ha attra-versato il cuore e la mente degli amicipresenti a Bologna insieme alla suacompagna Lia e a suo figlio Giacomo –gli amici che conoscevano la sua vita-lità e la sua ironia ma anche le vicissi-tudini che hanno accompagnato lanascita dell’Elogio – questo timore erache di Giuseppe, del Giuseppe vero, sipotesse cantare anche involontaria-mente niente più che un’agiografia.Un po’ anche perché dal momento del-la sua scomparsa l’Elogio delle azionispregevoli – insieme a un delizioso vo-lume di poesie uscito postumo, La bal-lata per tutto l’anno e altri canti, editodalle Nuove edizioni romane –, ha rac-colto a piene mani una vasta messe diriconoscimenti. E un po’ perché ognicelebrazione porta con sé il rischio eil sapore acre dell’autoreferenziale ri-parazione dei torti.Così, per fortuna, non è stato.

Un ricordo cantato a più voci

Promosso dal centro di Documentazio-ne Biblioteche per Ragazzi della regio-ne Sardegna, l’incontro coordinato daTeresa Porcella (docente di letteraturaper l’infanzia all’università di Cagliarima soprattutto innamorata cultrice del-l’Elogio), si è mosso in una sala affol-latissima sulle diverse tonalità di unricordo cantato a più voci.Non tanto e non solo per il consisten-te numero dei relatori presenti (ai cuiinterventi si sono aggiunti i messaggiinviati da Pino Boero e da Matteo Fa-glia e le letture di brani dell’Elogio edella Ballata fatte da Beniamino Sido-ti e Riccardo Diana), quanto perché lacomplessità del pensiero e dell’opera

di Giuseppe, il suo spaziare tra lette-rature e visioni illuminate dell’infan-zia, tra culture dell’educazione e teo-rie di trasmissione del sapere, non po-teva non sollecitare una riflessione aenne dimensioni.A partire da quella offerta da RobertoDenti, scrittore, libraio e uno dei grandipadri della letteratura per ragazzi inItalia, che di Giuseppe ha cercato direstituire prima di tutto la dimensionedi uomo libero, la cui essenziale laici-tà affondava però le radici in una ap-partenenza prima smarrita negli in-ciampi della storia e poi ritrovata, ov-vero nella sua lontana discendenzaebraica, «in quella profonda culturaatavica della libertà di Mosè».Se ancora di libertà, di poesia dellalibertà e insieme del senso di un’ami-cizia sedimentatasi sul comune amoreper i libri hanno parlato i relatori in-tervenuti per presentare La ballata (ilcritico letterario Walter Fochesato,l’editrice Gabriella Armando, il graficoClaudio Saba e l’illustratrice OctaviaMonaco), i due interventi che forse piùdegli altri hanno offerto un approccioorganico alla complessità del pensieroe dell’opera di Giuseppe sono statiquelli di Fulvio Panzeri e di CelesteGrossi.E se il primo, critico letterario ma an-che insegnante, ha motivato e sottoli-neato, insieme a Teresa Porcella, il va-lore e l’importanza dell’Elogio (un li-bro «atteso da anni», della stessa va-lenza di «un testo fondamentale comeIl lettore, il narrare», le lezioni su let-tura e letteratura tenute nel 1982 al-l’università di Francoforte da Peter Bi-chsel), a Celeste Grossi, direttrice diécole, è spettato il compito di raccon-tare il compagno di strada, il maestrodi scuola, il redattore della rubrica Leg-gere negli anni verdi.Giuseppe tra i fondatori della rivista.Giuseppe che creava percorsi narrativinei boschi incantati delle storie. Giu-seppe che oltre ad essere un grandesaggista, un tenerissimo poeta e ungrande narratore, è stato anche il fi-nissimo costruttore di un’antipedago-gia della libertà e della responsabili-tà.Fare una scelta di campo dalla partedei bambini, rispettare la loro sete dilibertà, non “istruirli” ma accompagnar-li per aiutarli a crescere – «Crescere.Non: sopravvivere; non: trascinarsi;non: adeguarsi all’esserci consenten-do comunque» –, richiedeva per lui ilrigetto di ogni indifferenza, di ognisvuotamento meccanicistico del ruolodell’insegnante e l’assunzione intera di

una responsabilità. Perché era convin-to che fare scuola, il riferimento è an-cora a Peter Bichsel, non possa cheessere “un compito globale”. E perché«agire la propria parte» – e qui Giu-seppe richiamava spesso a sé l’espe-rienza di don Milani –, implica il ri-getto di quella «invincibile ansia diconformismo» bollata con il marchiodell’infamia dal Pasolini delle LettereLuterane, e insieme la volontà e il co-raggio di ricostituirsi quali autenticiMaestri dei bambini.

Farsi Maestro

Il fatto poi che nel suo farsi MaestroGiuseppe Pontremoli abbia anche trac-ciato un inedito approccio al sapere,basato essenzialmente sulla lettura ditesti poetici e narrativi – poiché le sto-rie “sono ciò che ci costituisce, quan-to noi siamo venuti essendo sino almomento in cui ci troviamo a poter diredi essere”, come dichiarò nella sua ul-tima intervista concessa a Marino Si-nibaldi per Radio3 Fahrenheit –, nonè un dato né secondario né disgiuntodal suo pensiero educativo.Nel porre all’indice la triste spocchiadi una «Principessa Pedagogia» inca-pace di «ridiscutere le immagini gene-riche e di comodo dell’infanzia», lasottesa ma sempre più invasiva dico-tomia da istruzione ed educazione, laframmentazione del sapere, le ansieclassificatorie e il mito-feticcio dellaverificabilità oggettiva di ogni ap-prendimento, Giuseppe nutriva la stessaconvinzione di Hannah Arendt ed eraconvinto che nella ricerca di conoscenzae di senso la ricchezza della trasmis-sione di tipo “narrativo”, al contrariodi ciò che avviene nei processi mera-mente informativi, sta nel fatto che essa«rivela il significato senza commetterel’errore di definirlo».Certo, questo pensiero ricordato sul filodell’emozione da Celeste Grossi, e conidentica emozione accolto da chil’ascoltava, ha in sé qualcosa del cantointrinsecamente anarchico del conta-storie, qualcosa di volutamente e sa-pientemente donchisciottesco. Lo stes-so Giuseppe ne dava d’altronde questadefinizione: «una piattaforma donchi-sciottesca, da perseguire e praticaredonchiosciottescamente».Ma è anche di questo, di questa suacapacità di fare da apripista e da con-tastorie, di spaziare nei vasti cieli del-l’immaginazione e dell’utopia, che tut-ti noi ancora oggi lo ringraziamo.Shalom, Giuseppe, shalom alejchem.

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Buonini, a dire il vero, ci stanno,anche se tra chi dormicchia e chi telefo-nina (voce del verbo più digitato dai gio-vanissimi) non si sa quanti colgono perdavvero il tentativo di un professore, tan-to vero quanto inatteso “fuori sede”, discuotere coscienze sopite. Roberto Vec-chioni, conosciuto più come cantautoreche come insegnante, è in tour senzamusica, ospite in varie città per parlaredel suo romanzo Il libraio di Selinunte(Einaudi). Gli incontri, organizzati da di-verse associazioni, hanno forma di lezio-ne aperta dedicata alle scolaresche delleclassi Superiori, che arrivano a saturarele platee anche se certi discorsi non fa-rebbero male né agli educatori né agliadulti in genere.Argomento centrale è il senso estetico,attraverso la storia della parola dai Greciad oggi. Il legame tra lo strumento dicomunicazione primario e la bellezza puraviene così spiegato dal cantautore: «Tut-te le parole scritte dagli uomini sono for-sennato amore non corrisposto; un dia-rio frettoloso ed incerto che dobbiamoriempire di corsa, perché tempo ce n’èpoco. Un immenso diario che teniamo perDio, per non recarci all’appuntamento conLui a mani vuote». È l’ennesima confer-ma che il tentativo di esplorare la pro-fondità dell’intelletto umano attraversole emozioni, ovvero la razionalità inter-pretata dal cuore, non fa altro che rimar-care l’irrinunciabilità – per sentirsi per-sone vive – di quel che non si riesce aspiegare.Ma perché scomodare gli Ellenici? «Sonostati loro ad inventare tutto ciò che par-liamo – riprende Vecchioni – il vocabolonasce dalla radice greca log, ed è fonda-mentale: così proprio quel che significa“parlare” è lego, cioè raccogliere. Ho scrit-to una favola per adulti che parla al cuo-re ed al cervello, dove si narra di un li-braio che non vende volumi ma li leggead alta voce. […] Parole quindi, cometrasposizione di emozioni. Veicoli di re-altà e di sogno, mai comunque casuali

come non lo è il loro suono. Questo pic-colo libro dice cosa ci hanno dato i Gre-ci, ed è quello che stiamo perdendo, cioèla grande potenza che l’Uomo ha in séquando evoca il bello. Che non è qualco-sa di effimero, è quel che conta; il sensodi ciò che facciamo».«Ai media piace tutto il contrario di quelloche è vero – riflette il prof. – e difatti igiovani si lasciano affascinare dalla su-perficie delle cose, ciò che colpisce e ca-piscono subito. Insomma, c’è una bellascorza da scalfire per esercitare il sensoestetico profondo, astratto, purissimo.Come fare, quindi? Il mio personaggio,maltrattato dai grandi, viene capito dachi lo guarda senza pregiudizi e senza lapreoccupazione di essere giudicato. Soloun bambino, quindi, lo spia di nascostoall’inizio e poi lo ascolta apertamentedeclamare romanzi e storie che, pur sen-za capirne granché, finiscono per affa-scinarlo. Scatta così una magia che elevalo spirito: il bello è sentire che c’è qual-cosa da captare di lontano, che c’è se-greta vibrazione. Per carità, nulla di faci-le o di immediato (ed ecco perché occor-re pazienza, lentezza); com’è per il benee la virtù, anche la bellezza è difficile».Col tempo si arriva a capire, però, comestanno davvero le cose, dove c’è la veritàe dove no. «Non bisogna obbligare chiascolta – ecco un segreto – ad impararecomunque, a capire tutto. Agli alunni sidevono però dare ogni indizio e stimolopossibile».Difficile farlo in un sistema scolasticocome l’attuale. «Pitagora aveva una suascuola, durissima –rivela Vecchioni – maeccellente. Chi la frequentava era o “udi-tore” o “allievo”: bisognerebbe farlo an-che oggi, dando ai primi solo i Che? o iCome? ed agli altri i Perché? Invece stia-mo andando verso una istruzione di soliChe? e lo dobbiamo al potere, alla veloci-tà».«Certo, ciò che troviamo ‘bello’ oggi è bendiverso dall’epoca Classica – va insisten-do l’ospite – però se alla bellezza ci si

può educare, mi preoccupa molto il fattoche ormai abbiamo solo sogni, non piùbisogni. Senza il concetto di necessità, iragazzi crescono col rischio di frantuma-re la propria capacità di Amare, in quan-to lo “sfizio” è momentanea futilità».D’altro canto, per esempio, nessuno spotpubblicitario spinge a qualcosa di vitale,bensì solo verso oggetti di desiderio. «Inrealtà – bacchetta il professore – abbia-mo bisogno di 7/8 cose per vivere deco-rosamente. Tutto il resto è quel “di più”praticamente inutile: quando di una cosac’è bisogno davvero siamo disposti a tut-to, e nel momento in cui si riesce ad ot-tenerla non si molla facilmente. Un ca-priccio, una volta soddisfatto, quantodura?».«Dobbiamo ricostituire il senso del biso-gno, che poi (nella condizione di benes-sere della nostra civiltà) è il non aver noia.Forse i momenti morti, di distacco dallenostre frenesie sono anche un bene, ognitanto; però in parte si possono riempirecapendo dov’è e cos’è la bellezza. Esiste,nell’animo umano, una grandezza enor-me cioè la certezza di amare, di potersisalvare. Quando se ne diventa consape-voli, non ci deve spaventare che tuttofinisca, anzi!».«Delle tre opere fondamentali sul sensoestetico – la conversione dell’Innomina-to, la tolstojana morte di Ivan Illiic e latragedia di Edipo – voglio citare la con-clusione dell’ultima, che non è proprio unbest seller delle nuove generazioni. Dopoaverne passate di tutte, sofferto in modoindicibile, perso ogni cosa il protagoni-sta, prima di morire, cosa fa? No, nonmaledice il destino feroce che l’ha an-nientato, ma si volta sapendo che sarà ilsuo ultimo gesto e… sorride! Qualcosadi eccezionale, inimmaginabile dopo lasua tremenda storia».«Allora – così conclude Vecchioni rivol-gendosi ai ragazzi – non pretendo chefacciate come Edipo; ma almeno, se nonriusciamo a farlo in punto di morte, viauguro di saper sorridere alla vita».

La parola bellezza esisteMONICA ANDREUCCI

Lezione extra-ordinaria del professor Roberto Vecchioni che

presenta Il libraio di Selinunte, il suo libro sulla lettura

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Vita, l’ultimo romanzodi Melania Mazzucco, un libromolto letto nelle scuole – l’au-trice stessa lo ha presentatoa tante classi – ha suscitatodibattiti sul tema dell’emigra-zione e ha generato scritti diragazze e ragazzi. Abbiamo in-contrato la scrittrice insiemead alcune classi delle scuolesuperiori fiorentine pressol’Istituto Tecnico Agrario diFirenze (1 aprile 2005). In se-guito Melania ha ripreso inuna chiacchierata alcuni pun-ti interessanti.

Hai detto che ti sei avvicina-ta alla storia di emigrazionedi tuo nonno Diamante, rac-contata nel romanzo, dopoavere incontrato, per inter-vistarli, i nuovi migranti chegiungono in Italia. Pensi cheper gli italiani sia importan-te ricordare il tempo in cuieravamo noi emigranti poveried emarginati?Sì, per me questo scardina ilmodo in cui da ragazzi si ten-de a studiare la storia. È diffi-

cile appassionare i giovani allastoria, vedono il passato sen-za legami col presente, comeuna alterità assoluta. Vita facompiere un corto circuito trai tempi, è quello che è acca-duto anche a me. Oggi si haun’idea dell’Italia mistificata,in realtà sino a 30 - 40 annifa il nostro era un paese po-verissimo. Raccontare che sia-mo stati noi gli stranieri chefanno paura, che a tutti gliitaliani in America venivanoattribuiti i comportamenticriminosi che ora addossiamoagli extracomunitari è unochoc culturale salutare. Pensosia importante che nella sto-ria si insegni che le cose pos-sono cambiare. La storia ha deiritorni, ma anche possibilitàdi evoluzione. Questo fa pen-sare all’altro non solo comeminiera di miseria, ma anchedi potenzialità.

Molti studenti hanno presospunto dal tuo romanzo perscrivere anche loro storie chetrattassero di emigrazione.

Gli studenti dell’IstitutoAgrario di Firenze, che ci haospitate, hanno raccolto uncentinaio di interviste a emi-granti e ne hanno ricavato unvideo. Pensi che questa let-tura sia servita, oltre checome stimolo tematico, an-che come una lezione di scrit-tura, da un punto di vistastilistico?È stato utile come possibilitàdi leggere precocemente unlibro “importante”, con unargomento forte e una strut-tura complessa. Di solito,quando ci si innamora dellalettura, la passione nasce pre-sto. Perciò è fondamentaleleggere anche libri impegna-tivi, non solo di evasione.Anche gli studenti “costretti”a impattare in un libro così,ne hanno – penso – ricavatoqualcosa. Quando avevo undicianni la mia insegnante mi feceleggere Il rosso e il nero. Cer-to lo trovai difficile, ma nonl’ho mai dimenticato, mi misedi fronte a temi di gran peso.Vita poi ha per protagonistidue ragazzi, questo ha avutoun’eco negli adolescenti.L’emigrazione è una problema-tica universale e attuale nellostesso tempo. Mi ha moltocolpito l’interesse suscitato inscuole che non fossero licei,con allievi meno abituati allacultura umanistica.

Nei tuoi libri ci sono spessoprotagonisti bambini e ado-lescenti. Quali sono i motividi questa attenzione?Mi è piaciuto raccontare lecose che accadono per la pri-ma volta, provare a guardareil mondo con occhi che aves-sero la stessa verginità mia,in quanto scrittrice giovane,che si affacciava al mondo

Scrivere l’emigrazioneMARIA LETIZIA GROSSI

Una chiacchierata con Melania Mazzucco

Melania MazzuccoMelania Mazzucco è nata, vive e scrive a Roma. Il suo libro d’esordioIl bacio della Medusa, pubblicato da giovanissima, nel 1996 pressoBaldini e Castoldi, ha suscitato grande attenzione nel pubblico enella critica, per la forza dolorosa della trama e la sapiente articola-zione linguistica e di stile. I libri successivi, La camera di Balthus,Baldini e Castoldi, 1998, e Lei così amata, Rizzoli, 2000, sono statianch’essi largamente apprezzati. Vita, Rizzoli 2003, premio Strega2003, è la vicenda di emigrazione, ricostruita attraverso un’ampiadocumentazione, di due ragazzini di Tufo di Minturno nei primidecenni del ‘900. È insieme epopea picaresca dell’arrangiarsi nellalotta per la sopravvivenza e il successo, riflessione sulle discrimina-zioni etniche, storia d’amore nata nell’infanzia e sopravvissuta aglianni. Se per Vita, vitale e sicura di sé, il sogno americano delbenessere materiale troverà realizzazione, Diamante tornerà in Italia,rinunciando non solo alla riuscita, ma anche al mito stesso dell’Ame-rica, in nome di un altro sogno, quello della dignità personale e dellacoerenza, difese negli anni del fascismo. [M. L. G.]

La scuola:pensiamolaper storieIl Centro Studi per la ScuolaPubblica invita a partecipare conun racconto breve ad una raccoltadi narrazioni sulla scuola. L’idea èdi raccogliere i testi entro la fine diagosto 2005 e di pubblicarne unascelta in volume tra settembre eottobre, entrando nel dibattito enella riflessione pubblica che siaccompagnano al movimentocontro le riforme Moratti. Ilprogetto fa seguito alla pubblica-zione (settembre 2004) del libroOgni scolaretta sa che. Controlessicodella scuola ai tempi della “riformaMoratti”, consultabile sul sitowww.cespbo.it. L’intento del CESP èdi tenere insieme la riflessioneculturale e l’impegno conflittualenella società.

Per informazioni: CESP CentroStudi per la Scuola Pubblica, tel./fax 051.241336,[email protected],www.cespbo.it.

della narrativa. Mi attraggo-no le figure aurorali, bambinie bambine, adolescenti, gio-vani donne. Mi piacciono ibambini non per l’innocenza,in cui non credo, ma per laloro forza vitale bruta, ener-gia pura, che viene bruciatadal crescere e talvolta anchedalla scuola. Hanno un verotalento per la vita.

Intorno al tuo libro è nato unconcorso, organizzato dallacasa editrice Rizzoli, scritti distudenti a partire da esso ocomunque attinenti all’argo-mento dell’emigrazione, con inpremio un viaggio a New York,incontri a scuola con te, libri.Cosa ti ha colpita in questagerminazione creativa?Soprattutto l’appropriazioneda parte dei ragazzi del libro.A Palermo ne è stato tratto unfilm, c’è stata anche una mes-sinscena teatrale, un musical.Alcuni studenti hanno riscrit-to il finale, altri dei capitoli amodo loro, altri ancora storieindipendenti. Insomma il ro-manzo è stato veramente di-gerito, non solo letto ma an-che riscritto.

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Il cinema non è un giocat-tolo. Ciò nonostante può es-ser rotto, a volte deve. Adesempio ricordando agli spet-tatori, appena entrati nellamagia di un film, che ciò chestanno vedendo è appunto unfilm. Rompendo subito l’illu-sione, con uno shock che –strano – paradossalmente nonè un fastidio, come ci si aspet-terebbe, ma anzi uno stimoloper l’intelligenza. Lo si puòprovare anche a casa. Se si hapaura, è meglio farlo a scuo-la, in apposito laboratorioaudiovisivo. Punto primo, si fagirare il dvd di Persona 1, nel-la recente edizione italiana“Bergman Collection”. Si spe-gne la luce, ci si siede. Quan-do inizia il dvd, lo shock nonè meno forte che se si fossein sala cinematografica (ma-gari nel 1966, quando il filmuscì). Bianco, la luce di unalampada di un cineproiettore,bordi bucherellati di pellico-la, immagini follemente giu-stapposte, una mano, un chio-do, addirittura un pene chesembra provenire da un por-nofilm passato per caso. Comese Bergman, lentamente, sistesse mettendo al lavoro elentamente risvegliando dal-l’aver sognato altri film, coa-gulati assieme, agitati, con-fusi. Ed ecco che la storiaprende il via, scorre regolar-mente, ma intanto Persona èiniziato annunciandosi comefilm. Si tratta d’una maschera(in latino persona, appunto),qualcosa di finto e di costrui-

Persona.Comerompere ilcinema conun dvdGABRIELE BARRERA

Teatro dell’Oppresso25 - 26 giugno, Reggio Emilia, “Il Jolly e l’attore strategico”:uno stage rivolto a chi fa Teatro dell’Oppresso.1 - 5 luglio, Casaltone di Parma, “Il lavoro flessibile”, stage eazioni di Teatro Invisibile per leggere gli atteggiamenti versoil lavoro oggi.14 - 16 luglio, presso l’agriturismo Bethaid, in provincia diPisa, “Terra e TdO”, laboratorio di giochi-esercizi di Boal e diTeatro Immagine per iniziare a riscoprire un “sentire” legatoalla terra.29 - 30 luglio presso l’agriturismo Bethaid, in provincia diPisa, “Le immagini della globalizzazzione”, laboratorio diTeatro immagine, per esplorare il modo in cui un temaapparentemente lontano dal quotidiano quale quello dellaGlobalizzazione, abbia cominciato a colonizzare le nostreabitudini, stili di vita, modi di pensare24 - 25 settembre, Parma, “La solitudine dell’educatore”,laboratorio rivolto a insegnanti, allenatori, educatori sullacentralità della relazione educativa, uno spazio in cui narraree confrontare le diverse esperienze alla ricerca di nuovepossibili strategie.24 - 25 settembre, 15 - 16 ottobre, 12 - 13 dicembre, ReggioEmilia, “Il racconto del conflitto”, un percorso-laboratorioper imettersi in gioco nel conflitto e dar voce e corpo anuove storie più ludiche e meno violente.

Per informazioni: tel. 0522.772154,e-mail [email protected].

to apposta perché-abbia-il-si-gnificato-di, per-comunicare-al-pubblico-quelle-emozioni-così, ma che in realtà è illu-sione. Eppure, lo shock inizialedi Persona non è un’operazio-ne che voglia porre una distan-za (o straniamento brechtiano,diremmo in campo teatrale).Non vuole ricordare al pubbli-co la falsità d’ogni spettaco-lo, magari con intenti politi-ci. Il discorso è un altro. Sitratta di dire, ovvio, che nonsi è nel campo del verismo.Dunque nessun paesaggio èesteriore, la realtà è interio-re. Ma si tratta soprattutto –e questo è il punto – di sotto-lineare la forza eversiva, dirottura, delle immagini inte-riori, così selvagge e non-co-ordinabili, non-ordinabili, daspezzare anche la cornice delcinema. Fermi tutti. Premerestop sul telecomando del dvde rivedere come si passa dalcaos primario di Persona (ci-nema dell’inconscio, dall’in-conscio) al cosmos narrativo(cinema ordinato come ognu-no si aspetta, secondo tradi-zione). Premere play a piace-re, ringraziando il piccolo dvddel fatto che – un ripasso così– nella grande sala non lo sipoteva fare.Un secondo modo per rompe-re il cinema (che non signifi-ca rompere col cinema, maanzi sperimentare nuovi modiper renderlo espressivo) èquello di spezzare le linee nar-rative. Le immagini correlatefra loro. Le storie coese. I per-

sonaggi costruiti con coeren-za, con progressivo approfon-dimento psicologico. Rispostadal pubblico: siete matti? Lacinefilia vi dà alla testa? Vo-lete davvero proiettarci imma-gini a casaccio, storie a vico-lo cieco, magari personaggiche si scambiano di identità?Beh, l’idea non era malvagia…Il cinema d’avanguardia, infat-ti, ha da sempre dato al pub-blico cose così, da sempre rot-to linee narrative, con risul-

tati spesso affascinanti. Ma lacosa più affascinante, e segre-ta, è che non solo l’avanguar-dia lo ha fatto. Bergman, perl’appunto, non ha fatto filmcosiddetti d’avanguardia. An-che gli autori classici, anche icontemporanei, più o meno dinascosto, si son divertiti ainserire in opere tutte d’unpezzo elementi che rompeva-no il cinema dall’interno. Adesempio, i flussi d’immaginilibere (in Kubrick, per dirne

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internetNew literacyGIANCARLO ALBERTINI

Dall’Unesco un manuale sull’uso delle TIC

nella società della conoscenza

È stato da poco pubblicato sul sito dell’Unesco ilmanuale A Handbook for Teachers or How ICT Can CreateNew, Open Learning Environments (http://unesdoc.unesco.org/images/0013/001390/139028e.pdf),dedicato a tutti coloro che nel mondo dell’istruzione edella formazione lavorano usando le Tecnologie dell’In-formazione e della Comunicazione (in italiano l’acronimoICT diventa TIC).Più di ogni altra tecnologia, esse permettono agli stu-denti accesso ad ampie basi di conoscenza che stanno aldi fuori della scuola, insieme a strumenti multimedialiche si aggiungono alle conoscenze stesse e innescanomeccanismi di generazione di nuove competenze. E inol-tre esse spostano l’attenzione dall’insegnante al discen-te: gli insegnanti non sono più la fonte chiave dell’infor-mazione e trasmettitori di conoscenze, ma diventano gui-da per l’apprendimento degli studenti. A loro volta glistudenti cambiano ruolo, dalla ricezione passiva delle in-formazioni alla partecipazione attiva al proprio apprendi-mento.L’impostazione caratteristica di questo manuale, che lopone nel cuore dell’attualità del ruolo delle TIC nel lororapporto con la società della conoscenza, è legata allanew literacy: essa aggiorna il tradizionale concetto dellecompetenze alfabetiche di base legate al leggere, alloscrivere ed al far di conto:- leggere: trovare informazioni cercandole in risorse scrit-te, esaminarle, organizzarle ed archiviarle;- scrivere: comunicare per mezzo di hypermedia;- calcolare: progettare oggetti ed azioni.Il manuale esamina le TIC quali potente e versatile mezzodi supporto dello sviluppo socioculturale; i punti di forzae di debolezza della didattica tradizionale e come le TICpossono essere integrate in essa; gli elementi atomici del-l’insegnamento e delle attività di apprendimento in rap-porto all’aiuto, al miglioramento e all’ampliamento resipossibili dalle TIC; i problemi legati all’uso pratico e criti-co delle ICT a scuola; le tecnologie didattiche della men-te; le presentazioni multimediali; le intelligenze multi-ple; i computer indossabili; gli obiettivi dell’educazione egli oggetti di informazione. Ci sono inoltre sezioni su comemodellare le forme e i significati della lettura e della co-municazione orale nella prospettiva della nuova literacy.Altre sezioni affrontano gli esperimenti scientifici, l’ap-prendimento delle lingue straniere, la ricerca negli studisociali e nelle materie umanistiche, e la matematica del-l’informatica.Due altre pubblicazioni Unesco disponibili online com-pletano il manuale: “Information and Communication Te-chnologies in Teacher Education: A Planning Guide” (UNE-SCO 2002a) e “Information and Communication Techno-logy in Education: A Curriculum for Schools and Program-me of Teacher Development” (UNESCO 2002b).

uno). Le storie di geometrianon euclidea (in Buñuel, perdirne un altro). I personaggiche si scambiano di identità(in Lynch, tutti gli altri sco-priteli da voi). Persona utiliz-za anche questo secondomodo, questa seconda rottu-ra. Chi è mai, il bambino checerca di aggrapparsi a un’im-magine irraggiungibile di don-na? Che significano, le imma-gini dell’agnello sacrificale?Perché, la neve sporca? Eppu-re, come scrivevamo sopra,non appena la storia prendel’abbrivio – una storia sempli-cissima, due donne e un’iso-la, una malata e un’infermie-ra, una donna muta perchésmarrita nel proprio dolore,l’altra donna intenta a curarela prima, parlando e cercandodi farla parlare – ci si dimen-tica quasi dello shock speri-mentale dell’inizio. Ma è dav-vero tutto in regola, siamo si-curi? Bergman sta raccontan-do di due donne o di una sola?Di due persone / maschere /personae, o di due parti dellastessa personalità? E quelleimmagini in cui i volti paionofondersi, non ricordano lo sti-le dell’inizio? E il tema di fon-do, così fortemente bergma-niano, della rabbia di viverecon una maschera / personasul volto, di esser costretti acontenere (di fronte agli altri,peggio ancora, di fronte a sestessi) sentimenti che nonchiedon altro che di venir fuo-ri? Questa tensione verso larottura, che innerva tutta lastoria, è la stessa furia (rab-biosa, creativa) che porta arompere il contenitore-cine-ma? La risposta è nel finale:dopo che la storia delle duedonne è giunta al capolinea,la pellicola di Persona conti-nua a scorrere, poi prende fuo-co, si distrugge. Basta, il filmsi è rotto.Ingmar Bergman (Uppsala,1918) autore molto noto e no-tevole, regista non solo dimolto cinema (da Kris, ’45, aIl settimo sigillo, ’56; da Ilposto delle fragole, ’57, a Fan-ny e Alexander, ’82) ma anchedi molto teatro, opera, tele-visione, radio, ha da sempredichiarato di esser spinto dauna molla creativa con qual-cosa di atroce e insaziabile,un vuoto, una nevrosi o Fame

metafisica «insopportabile,che strepita per essere soddi-sfatta, che non mi lascia maiin pace» (come ricorda G. Fofinel convincente ritratto con-tenuto in Come in uno spec-chio, Donzelli, Roma 1997).Più di tanti film parlati e co-struiti, scritti e messi-in-sce-na – si pensi alla trilogia co-stituita da Come in uno spec-chio, ’61, da Luci d’inverno, ’62e da Il silenzio, ’63, che feceaddirittura parlare di cinema-da-camera –, un’opera comePersona fa sì che il suo autoresia parlato dai suoi fantasmiinteriori, sia messo-in-scenatramite la rottura delle con-venzioni cinematografiche.«La procedura di Bergman,nelle rotture iniziali e finali,nonché nella spaventosa ce-sura di metà film» – recensì“a caldo” il film Susan Son-tag, pubblicando le sue im-pressioni sulla rivista Sightand Sound, London, autunno1967 – «è qualcosa di moltopiù complesso della strategiabrechtiana di straniamento,del ricordare il carattere di fin-zione di uno spettacolo. Qui,invece, si tratta di qualcosadi più profondo. Qualcosa cheha a che vedere con una forzaprofondamente distruttiva econ i lati più oscuri e violentidell’animo umano, che siesprimono metaforicamentecome tornando a una formapiù violenta e violentata, unaforma rotta e caotica dellastessa concezione del cine-ma». In un rettangolo rigidodi cartone della “BergmanCollection”, in un dvd perfet-tamente lucido, è ora possi-bile recuperare – con una for-za che diremmo ancor oggiintatta – quella stessa rottu-ra liberatoria.

NOTA1. Persona (Id., Svezia 1966, b/n, 79’) di Ingmar Bergman. ConLiv Ullmann, Bibi Andersson, Gun-nar Björnstrand. Soggetto e sce-neggiatura di Ingmar Bergman.Fotografia di Sven Nykvist. Mon-taggio di Ulla Ryghe. Audio rimis-sato Dolby Digital 2.0 Dual Mono.Formato video anamorfico, ratio1.33:1. Dvd extra: interviste a LivUllmann e Gunnar Björnstrand,intervento critico di Piera Detas-sis, trailer originale. Libretto sulfilm allegato con schede tecnico-critiche. Collana “Bergman Collec-tion”, distribuzione Bim, euro 20circa.

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il libro

Il libro è stato scritto nel1996 e sembra davvero unasorta di testamento politico epedagogico. Freire morirà l’an-no dopo a settantasei anni.Leggere questo libro oggi fauno strano effetto: sembramolto più antico. E sembraparlarci da un mondo lonta-no, quasi perduto. Ci sonoconcetti che stiamo dimenti-cando, sommersi dal diluvionella “nuova scuola” impren-ditoriale, ci sono valori che giàsono stati dimenticati. E Pau-lo Freire è lì a rimetterli ingioco, con quale efficacia nonlo so, ma almeno ci si può pro-vare. Prima di tutto guardia-mo verso l’interno, anzi versosinistra. Freire afferma ed ar-gomenta che «formare è mol-to più che addestrare l’educan-do nell’uso di alcune abilità»e che insegnare non è trasfe-rire conoscenza, ma creare lepossibilità per produrla o co-struirla. Come siamo lontanidall’idea tecnocratica di unascuola per l’impresa come dallaposizione idiota che la scuolaè la pura riproduzione del po-tere dominante e che non po-trà che riprodurre la societàtale e quale. «Se l’educazionenon è la chiave delle trasfor-mazioni sociali, non è neppu-re semplicemente uno stru-mento di riproduzione del-l’ideologia dominante», perFreire, insomma, la scuola nonè la perpetuazione dello sta-tus quo, ma il luogo dell’ela-borazione critica del sapere edella relazione tra potere econtropotere che vivono nel-la stessa relazione tra inse-

gnante ed allievo. Con unaprecisazione: che l’importan-te è il dialogo e l’autonomiadegli allievi. Radicalmente lai-co, Freire non si perde dietroa battaglie di resistenza: luiva al cuore del problema: lareciprocità della relazione diapprendimento che si realizzaproprio dentro il fare scuola enon altrove. Laddove, insom-ma, il maestro può veramenteintervenire, conscio dei suoilimiti, della sua incompiutez-za ontologica ed epistemolo-gica, ma preciso nella sua at-tività concreta.«Uno dei più significativi van-taggi di cui godiamo comeesseri umani è quello di esserdiventati capaci di andare ol-tre i nostri condizionamenti»:cosa che molti resistenti disinistra non hanno ancora ca-pito appieno. Ed ora volgia-moci altrove. La scuola di oggicrede di salvarsi l’anima conl’oggettività del sapere: ascuola ci sono delle cose pre-cise da imparare, non si scap-pa. Freire, con gentile fermez-za, spiega saggiamente cheinsegnare non si esaurisce nel“trattare” l’oggetto ed il suocontenuto, che la conoscenzanon può basarsi su un proces-so di memorizzazione mecca-nica e che educare significarispettare i saperi degli edu-candi. Chiaro, mi pare. Eppu-re così terribilmente distanteda noi che ogni giorno vedia-mo insegnanti di buon sensoaffaticarsi esattamente nelladirezione opposta, vittime for-se della propria rinuncia, del-la propria impiegatizia limita-

tezza. Troppo pragmatici, di-rebbe Freire. Forse il maestroha perso di vista l’idea che lascuola ha anche un fondamen-to etico, che impone di nonessere falsi, di rifiutare falsi-ficazioni ideologiche di ognitipo, che educare significa noncreare discriminazioni, chevalutare non è giudicare maaiutare a far crescere. E pensopoi ai “puri della scuola”, aquelli che a scuola “non cidevono essere interferenze”: aloro Freire ricorda il caratteresocializzante della scuola perquel tanto di informale edemotivo che entra di forzanella formazione. Oggi al mas-simo si chiama uno psicologoe si va in crisi se un allievo cicontesta. S’è persa la vicinan-za con l’“esperienza vitale”della nostra comune incompiu-tezza che è la stessa fontedella formazione come ricercacomune, fatta di esperienzeconcrete e di vita condivisa.È la capacità di dialogare chefonda l’autonomia degli allie-vi e che orienta la via dell’in-segnamento. Dialogare: ovve-ro ascoltare, non insultare,non avvilire, rispettare la di-gnità altrui, essere allegri edanimati da un approccio posi-tivo, direbbero oggi i gurudella comunicazione. Ma gliinsegnanti sono tristi, incom-presi, avviliti, non consci del-la propria socratica ignoran-za, per nulla curiosi ma certoconsumatori, stanchi comemai, sfruttati e tanto autori-tari («non è l’arroganza intel-lettuale a dimostrare la miarigorosità scientifica»). «La

percezione che l’alunno ha dime, non è il risultato esclusi-vamente del mio modo di agi-re, ma anche del modo con cuiegli percepisce il mio agire».L’educazione non è neutra eneppure il modo di essere de-gli insegnanti: ecco un’altrapista da percorrere, per esse-re critici anche verso le pro-prie debolezze. Che ci fannoscordare, come sosteneva Bru-no Ciari, che la classe è primadi tutto una comunità di per-sone in cui tutti sono respon-sabili. Uno dei meriti di que-sto libro è di affrancare, al-meno per la ricezione del suopensiero che si è diffusa direcente, Freire dall’idea di rap-presentare esclusivamente lapedagogia dei campesinos, diun’area culturale specifica elimitata. Qui la sua voce èalta, ferma ma persuasiva, si-curamente più “universale”.Freire non è certo uno da “pen-siero debole”, ma non è nep-pure uno da “socialismo realee vincente”. Egli rifiuta i fata-lismi di qualsiasi segno cosìcome ogni banalizzazione delruolo dell’insegnante, ma an-che ogni ideologia del mercatoe del profitto come ogni cer-tezza della rivoluzione proleta-ria. Con linguaggio poetico epolitico ci spiega che i primisaperi necessari per la praticaeducativa vanno cercati nellarelazione educativa e nella ri-cerca della verità, senza com-promessi, ma con nuova e mol-ta cura per gli altri e per se stes-si. Senza dignità etica non c’èeducazione. Di qui si può rico-minciare.

Senza eticanon c’è educazioneSTEFANO VITALE

Una voce piena e profonda che ci parla dei

saperi necessari per non naufragare nel

tecnicismo efficientista, per non illuderci con

l’ideologismo a buon mercato

Paulo Freire,Pedagogia dell’autonomia.Saperi necessari per lapratica educativa,Edizioni Gruppo Abele,Torino 2004,pp. 120, euro 10,00

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libri sulla scuola

Tiziana Chiappelli, AnnaWhittle, Italiano attivo,Almaedizioni, Firenze2005, pp. 143, euro 19,90

È possibile fare scuola a bambiniitaliani e bambini stranieri insie-me? È possibile pensare ad unpercorso di educazione linguisti-ca che coinvolga tutti? È possibi-le approfittare della socializzazio-ne al di là dei momenti informali,costruire dei dispositivi di condi-visione delle conoscenze che fun-gano da moltiplicatori degli ap-prendimenti?Sono sfide con cui chi lavora ogginella scuola si confronta ormaiquotidianamente. Questo testocerca di dare una prima, provvi-soria, risposta proponendo un re-pertorio di attività per chi inse-gna nella scuola elementare ed haalunni che non hanno l’italianocome lingua madre, che comincia-no appena a parlarlo, oppure sigestiscono autonomamente la co-municazione quotidiana anche se“studiare” in italiano resta per loroancora un obiettivo faticoso.Il testo è una raccolta di schedeche attingono ad un patrimoniodiffuso nella scuola elementare,nell’insegnamento precoce dellelingue, nell’insegnamento dell’ita-liano come lingua straniera. Ogniattività è, però, rivisitata per di-ventare laboratorio linguistico pergli alunni stranieri e al contempoattività di arricchimento per alun-ni italiani.Colpiscono soprattutto le propo-ste sulla narrazione: delle storiesemplici, classici della narrazioneper l’infanzia o inediti, racconta-te per incantare tutti, e poi dram-matizzate, completate coralmen-te, disegnate, analizzate, ragiona-te. Le proposte mirano tutte a fa-vorire l’interazione linguistica fraalunni, a creare le condizioni per-ché abbia luogo la magia di unospontaneo tutoraggio linguistico;puntano, perciò, su un compitolinguistico (nel senso che si dàalla parola inglese task) da svol-gere collettivamente: coralmente,in piccoli gruppi o a coppie. Infin dei conti un pratico “ricetta-rio”, con istruzioni precisissime(fino a sfiorare la pedanteria) epagine fotocopiabili da proporreagli alunni, che mescola la tradi-zione della scuola attiva, rievo-cata anche nel titolo, con la ri-cerca nel campo della glottodidat-tica dell’italiano.

PAOLO CHIAPPE

Laura Faranda, Non unodi meno, Armandoeditore, Roma 2004, pp.221, euro 20

Una cultura dell’ascolto, una pra-tica dell’osservazione sistematicadei bambini stranieri stenta a farsistrada nella scuola, nonostante lavasta produzione bibliografica ele riflessioni teoriche dell’ultimodecennio, nel tentativo di ridefi-nire la mediazioni didattica e lestrategie di intervento. Nel testodi Laura Faranda, docente di et-nologia all’Università “La Sapien-za” di Roma, la pedagogia del-l’ascolto diventa invece il filo con-duttore di una ricerca condottaqualche anno fa presso alcunescuole elementari e medie roma-ne e siciliane, per dare un voltoed una fisionomia precisa a bam-bini ed adolescenti stranieri, ri-scattandoli dalle stereotipie diuna cultura genericamente intesacome diversa e da una retorica del-la convivenza, Il libro consta didue parti, la prima è l’osservazio-ne e la trascrizione simultanea ein forma di diario dei profili diallievi stranieri, della modulazio-ne dei loro comportamenti nellaclasse, nel tentativo di intercet-tarne problemi e difficoltà ed aiu-tarli nel loro cammino identita-rio. La rilettura ed il commentoin chiave antropologica del ma-teriale raccolto è l’elemento diraccordo con la seconda parte, cheriporta l’esperienza fatta nelleclassi sopracitate di un maestrosenegalese e la voce narrante diun poeta cantastorie. Rimane,sullo sfondo, il rapporto con lefamiglie dei bambini stranieri chesarebbe stato interessante inda-gare più a fondo a partire dalladifficoltà della lingua e di un ap-paesamento che ostacolano un’ef-fettiva integrazione

MARISA NOTARNICOLA

Alison Lurie, Bambini persempre, Mondadori,Milano 2005, pp. 250,euro 13

Che cos’hanno in comune i piùgrandi autori per ragazzi? Da HansChristian Andersen a J. K.Rowling, da Louise May Alcott aCollodi e Dr Seuss, Alison Lurie(docente di Letteratura inglesealla Cornell University di NewYork) non ha dubbi: è la capacità

di restare bambini. O se voglia-mo, l’incapacità di diventare adul-ti (almeno in alcuni aspetti dellavita). Non c’è solo questo, ovvia-mente, altrimenti anche MichaelJackson – e con lui una schiera dipsicopatici – sarebbe un pluripre-miato scrittore per ragazzi, conbuona pace dei suoi guai giudi-ziari.In questa raccolta di saggi, Lurietiene insieme il punto di vistadella critica letteraria con quellodella psicologia, senza che que-sta prenda il sopravvento. Certo,gli autori di maggior talento, An-dersen in testa, hanno usato laletteratura per l’infanzia per espri-mere nostalgie, insoddisfazioni,ferite e conflitti che hanno carat-terizzato la loro esperienza per-sonale. Non solo. Nelle loro pagi-ne è presenta anche una spintasovversiva, contro una pedagogiadell’adattamento che oggi ha tro-vato nuovi e impliciti sostenito-ri. Un esempio per tutti, l’analisiacuta e priva di pregiudizi ideo-logici che Lurie fa di Harry Pot-ter: un elogio della disubbidienzae dell’imperfezione, che caratte-rizzano tutti i personaggi positi-vi della saga. Harry è leale e co-raggioso, ma non è il primo dellaclasse e spesso non rispetta leregole. Non è insomma uno stu-dente modello, funzionale al si-stema-scuola, come direbbe Tal-cott Parsons. Non a caso, controHarry Potter si sono scagliati – trai tanti – i neo-cons americani,secondi i quali il personaggio delgiovane mago non è moralmentecompatibile con il cristianesimo.I libri di Rowling offrirebbero, se-condo loro, esempi di comporta-mento “poco biblici”. Un motivoin più, secondo noi, per apprez-zarlo.

FRANCESCA CAPELLI

Pier Aldo Rovatti, DavideZoletto, La scuola deigiochi, Bompiani, 2005,pp. 102, euro 6,50

Interessante il contenuto di que-sto libro dove i due autori rac-contano un sempre più dimenti-cato binomio, in particolar modonella scuola dell’obbligo, quellotra apprendimento e gioco. Lascuola è una cosa seria… e pareimpossibile che il gioco possa se-riamente entrarvi come veicolodell’apprendimento. Da questa

considerazione partono alcunedomane a cui gli autori tentanodi rispondere. Si chiedono cioè,se può esistere una scuola delgioco, se è davvero possibile in-segnare e apprendere senza chia-mare in causa l’esperienza delgioco. Tentano di rispondere aqueste domande con riferimentiteorici puntuali, anche se nonsempre di facile lettura, ma co-munque utilizzabili come interes-santi spunti di approfondimento.Vengono presi in considerazioneautori come Huizinga, Callois,Bateson e Goffman, ma ancheFreud, Winnicott e Wittgensteinper citarne alcuni. Non esiste unateoria di riferimento esaustiva,ma il tentativo che ci propongo-no è quello di prendere in consi-derazione i differenti autori af-fermando che «solo prendendo inconsiderazione tutte le teorie diriferimento, e magari lanciandospazio ad altre, riusciamo a ve-dere qualcosa del gioco» (p. 21).Altra riflessione importante fat-ta a partire dal pensiero di Win-nicott è quella sugli aspetti direaltà e finzione del gioco (p. 33)sulla possibilità di mettere travirgolette la realtà che non vie-ne cancellata nel gioco ma cheviene solo «mantenuta a distan-za». Nel gioco vengono utilizza-te delle regole che servono a tra-sformare la realtà ma non la an-nullano, è necessario saper cor-rere rischi, sapersi mettere ingioco soprattutto a scuola e datutti gli attori presenti, inse-gnanti ed alunni. Nella secondaparte, Davide Zoletto, partendoda Dewey e dal suo paragonare,in Esperienza ed educazione, laclasse ad un gioco arriva alla con-clusione che nella classe, spes-so, c’è troppo poco gioco, con-traddicendo le lamentazioni dimolti insegnanti. Riprendendopoi il paragone fatto sia da Win-nicott che da Bateson tra il gio-care e il suonare uno strumentoemerge una riflessione molto si-gnificativa: per poter suonarebene uno strumento è necessa-rio conoscerne molto bene la tec-nica che però nell’atto dell’ese-cuzione deve essere dimentica-ta, per lasciare spazio all’inter-pretazione. Nella “scuola dei gio-chi”, per gli insegnanti, è alloranecessario «programmare bene,certo, ma dimenticare poi, nelgioco, tutta la nostra program-mazione» (p. 95).

MARILENA GIULIACCI

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libri per la scuola

Pierluigi Sassetti, Lapedagogia perversa.Tra Pasolini e Lacan(prefazione diAlessandro Guidi),Clinamen, Firenze,2004, pp. 207, euro 20

Che cosa collega Pier Paolo Paso-lini (scrittore e regista cinemato-grafico/ omosessuale/ polemistae uomo di punta della cultura de-gli anni Sessanta in Italia) a Jac-ques Lacan (psicoterapeuta/ ete-rosessuale/ artefice principale del-la ripresa teorica della psicoana-lisi in Europa)? Molto poco: Paso-lini aveva letto qualche scritto delmaestro francese, Lacan sapevachi era Pasolini e sicuramente ave-va visto qualcuno dei suoi film.Ciò non basterebbe certo a creareun rapporto forte tra di essi comequello postulato da Sassetti nelsuo bel saggio se non fosse per ilfatto che entrambi sono stati “ma-estri” in un’accezione particolaredel termine. Entrambi hanno cer-cato di costruire un livello peda-gogico di apertura nei confrontidei loro possibili discepoli rifiu-tando la “perversità” della peda-gogia ufficiale. Se Pasolini ha af-fidato alla prima parte delle sueLettere luterane il tentativo di in-segnare in maniera non autorita-ria alle vittime di una società (edi una scuola) altamente autori-taria, Lacan ha fondato, invece,la propria pratica di formazionedei futuri psicoterapeuti sulla pro-vocazione, l’eccesso e la consa-pevolezza che ciò che davveroconta è il rapporto con il propriodesiderio. Quello che interessa aSassetti è in realtà non tanto lapedagogia come pratica istituzio-nalmente garantita quanto la suafunzione “liberatoria” dalla di-mensione omologata della valu-tazione e del controllo sociali eculturali.«Una pedagogia anti-perversioneconsiste nella produzione di unsapere che faccia luce su ciò chenel quotidiano si genera silenzio-samente come perverso. […] pos-siamo trovare in Pasolini e in La-can i mezzi indispensabili per laconcretizzazione di tale partico-lare sapere.», si legge a p. 22.Analizzando la produzione cine-matografica dell’ultimo Pasolini ealcuni degli scritti del primo La-can, Sassetti giunge alla conclu-sione che la “perversione pedago-gica” di cui la scuola soffre è le-gata alla sua volontà di escludere

il desiderio dalla pratica dell’ap-prendimento e di non voler tenerconto di quelle relazioni tra do-centi e allievi che costituisconoil momento primario della praticadell’insegnamento.

GIUSEPPE PANELLA

Simona Forti (a curadi), La filosofia difronte all’estremo.Totalitarismo eriflessione filosoficaEinaudi, Torino 2004,pp. XXXIV - 240,euro 18

Il libro è una raccolta di saggi diR. Aron, J. Pato?ka, H. Arendt, E.Lévinas, M. Foucault, C. Lefort, L.Kolakowski, V. Havel, R. Schür-mann, J. Derrida, J.-L. Nancy. Nelsuo denso profilo sulla storia delconcetto e delle interpretazioni (Iltotalitarismo, Laterza 2001) Simo-na Forti, acuta studiosa di HannaArendt, della quale ha recente-mente curato i primi due volumidell’Archivio uscito da Feltrinelli,ha indicato nitidamente i pregi ei limiti delle indagini filosofichesul fenomeno totalitario. L’inte-resse, rispetto a ricerche storicheo politologiche, è di interrogarneil significato globale per l’umani-tà contemporanea e di vederne leconnessioni con aspetti antropo-logico-politici che non sono limi-tati al periodo del nazismo o del-lo stalinismo, ma anzi hanno a chefare con situazioni permanenti econ la nostra esperienza quotidia-na. Per esempio H. Arendt dice cheil micidiale binomio di ideologiae terrore produce un individuo peril quale la distinzione tra fatti efinzioni e la distinzione tra veroe falso non esiste più. È una si-tuazione estrema di uso politicodella menzogna (da rileggere 1984di Orwell) che troviamo, in altrimodi e forme, in situazioni nontotaliarie ma non meno inquietan-ti, come la stessa Arendt indagòin Politica e menzogna (Sugarco1983) e in Verità e politica (Bol-lati Boringhieri 1995), e qui tro-viamo analizzato da Derrida, chetraccia i prolegomeni di una Sto-ria della menzogna. Un altro esem-pio: Foucault vede il nazismocome «sviluppo parossistico deinuovi meccanismi di potere in-staurati a partire dal XVIII seco-lo» e analizza il razzismo non tan-to come ideologia e mentalitàquanto come tecnologia del bio-

potere che gerarchizza la popola-zione e ne destina una parte al-l’esclusione e alla morte. È super-fluo sottolineare l’attualità deltema della biopolitica. Aron vedenazismo e comunismo stalinianocome «religioni secolari». Al di làdei fenomeni totalitari, nasce ladomanda dei modi in cui nella sto-ria contemporanea la politica sipresenta in forme religiose o come«scontri di civiltà» che assolutiz-zano il conflitto e giustificanomezzi di violenza estremi. Anco-ra: quale debolezza costitutivadella democrazia, si chiede Lefort,apre gli spazi che rende desidera-bile per le masse la risposta tota-litaria? Questi pochi esempi ba-stano a segnalare l’interesse di unapproccio che talvolta ha il difet-to di annegare in grandi costru-zioni teoriche la specificità e lafisionomia particolare degli even-ti. Ma è un rischio che i miglioritra i saggi raccolti corrono rara-mente.

CESARE PIANCIOLA

A cura di MariapaolaFimiani, Vanna GessaKurotchka, ElenaPulcini, Umano Post –Umano. Potere,sapere, etica nell’etàglobale, EditoriRiuniti, Roma 2004,pp. 351, euro 18

Dopo il libro di Roberto Marchesi-ni Post – human. Verso nuovi mo-delli di esistenza (Boringhieri2002) che ha acceso attenzioneverso le modificazioni ingenera-te dalla tecnica dell’oggi sul-l’umano, adesso il volume degliEditori Riuniti riparte da qui, dalmedesimo interrogativo. È ElenaPulcini che lo pone ed affronta:«quale immagine dell’umano vo-gliamo salvare nel momento incui è diventato possibile il suo

“superamento”; quali aspetti vo-gliamo prendere in cura per scon-giurare il rischio della perdita delmondo e per assicurare, a noistessi e alle generazioni future,una “vita riuscita”, una vita de-gna di essere vissuta?» (p. 34).Sul tema del soggetto si soffer-ma anche Rosi Braidotti traccian-do il “soggetto sostenibile”, cioèun soggetto incarnato e imma-nente, per il quale ha grande ri-levanza «reiterare l’importanza ela positività delle sperimentazio-ni trasformative, le quali costi-tuiscono le differenze…» (p.105). Braidotti si colloca nel sol-co di Deleuze, ma correggendolodato che «egli non riesce… avedere la portata dell’orizzonteteorico aperto dalla differenzasessuale» (p. 87). Alberto Olive-rio riprende e riepiloga la que-stione del rapporto tra cervello emente. Già in precedenza in Bio-logia e filosofia della mente (La-terza 1999) aveva parlato di “uncervello plastico” che ora raccor-da alla mente modulare cui face-va riferimento Howard Gardner inLa nuova scienza della mente(1985). Da ultimo, ma non ulti-mo, vorrei citare il contributo diMariapaola Fimiani che opera unriferimento a Foucault ed in spe-cie all’etica di Foucault. Per que-sta studiosa (cfr anche Foucaulte Kant. Critica clinica etica, Cittàdel sole 1997) nel mondo del post– umano più dirimente del pen-sare è il sentire che va al centro«dell’ipotesi critica la questionedel corpo, il pensiero delle radicicorporee dell’esistenza». Il ri-chiamo etico alla cura di sé, allacura della propria esistenza, di-viene opportuno dato che l’autri-ce del contributo ritiene che l’eti-ca assuma, nella sfera della nuo-va tecnica, un rilievo del tuttoparticolare e decisivo. È un’eticaed una estetica dell’esistenza chesi staglia sui bordi dell’attuale.

GIOVANNI SPENA

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Andersen ha reinventato la fiabatuffandosi a capofitto nei suoi motivi piùtradizionali, ma rivitalizzandoli in manieracosì originale da saper creare un nuovoparadigma narrativo. Le fiabe di Ander-sen s’identificano con l’idea stessa di fia-ba, almeno nella nostra cultura. E sonoletteratura vera che fa riferimento, colle-gandole, a fonti letterarie ed ispirazionicomplesse: la tradizione popolare nordi-ca con la novellistica del Boccaccio, i rac-conti de Le Mille ed una Notte con i rac-conti di Hoffmann. Egli riuscì a intrec-ciare cultura alta e letteratura popolaregrazie alla capacità di emanciparsi dalletipiche situazioni favolistiche legate almondo contadino entrando nel vivo disogni, paure, emozioni e desideri propridella modernità. Egli rappresenta un per-fetto esempio di produzione che si rivol-ge sia ai bambini che agli adulti. La suaopera è molto vasta e comprende tuttoed il contrario di tutto. Andersen, infat-ti, è perfetto nella sua convenzionalità,nel suo moralismo e non a caso l’indu-stria culturale se ne è impossessato vei-colando personaggi e situazioni al limitedello stereotipo, anche a costo di ridu-zioni, semplificazioni e persino tagli. Mac’è anche l’Andersen ossessionato dai suoifantasmi sessuali, quello capace di gio-

care con gli stereotipi narrativi (si pensia Il bambino cattivo ed anche a La princi-pessa sul pisello, a Gian Babbeo, al Guar-diano dei porci), completamente calatonell’animismo vitalista infantile e perfettonel gioco dei chiaroscuri dei sentimentie dei valori. Nelle sue fiabe più belle c’èsempre un tragico intreccio di felicità edolore, vendetta ed altruismo, violenza,sacrificio crudele, ma anche desiderio ditrasformazione ed emancipazione (Il brut-to anatroccolo ne è oramai il paradigma).La piccola fiammiferaia, la sirenetta, laKaren de Le scarpette rosse sono perso-naggi e situazioni memorabili perché an-che tragici, per nulla convenzionali. Per-sino fiabe come Il piccolo Claus, Il grandeClaus, L’ombra, Il compagno di viaggiosono lontanissime dalla mielosa melensamelassa dei nostri narratori quotidiani.Andersen ha poi la capacità della rifles-sione filosofica esistenziale che passaspesso attraverso situazioni allegoriche:L’uomo di neve, Psiche, ancora L’ombrasono qualcosa di più che un sempliceapologo, così come La campana è qual-cosa di più di una fiaba, tanto sa ben

raccontare della ricerca ossessiva e fasci-nosa della felicità, identificata con labellezza della natura, raggiunta da unprincipe e da un ragazzo povero per stra-de opposte. Il colletto può essere acco-stato a certi racconti brevi di Kafka, mi-steriosi quanto sorprendenti. Si ha comel’impressione che il suo pubblico sianoprima di tutto gli adulti e non i bambini.Nelle sue fiabe e nei racconti, i protago-nisti restano esseri “diversi” spesso de-stinati alla solitudine, al dolore, alla scon-fitta magari conquistata nel gesto finaledella vittoria, come nel romanzo brevePeer Fortunato. La morte e la vita si con-fondono, come spesso accade nella stes-sa mentalità dei bambini, e non è facilesopportare situazioni tanto difficili. Maquesta “diversità” è anche capacità diguardare il mondo con occhi nuovi per-ché veri: I vestiti nuovi dell’Imperatoreappartengono a questa rara specie di rac-conti in cui sono i bambini a dire la veri-tà sul mondo dei grandi proprio perché lovedono così com’è. «Bisogna chiamareogni cosa col suo nome, se in genere nonse ne ha il coraggio, bisogna farlo alme-no nelle fiabe» (I verdolini). Storie comeL’usignolo ci raccontano del potere dirom-pente dell’arte e della vita sulla stupiditàdell’uomo e la necessità della Morte. Di-cevo prima dei suoi legami con la tradi-zione: tappeto del suo narrare, ma anchemondo distante e rinnovato. In un aspettoAndersen vi resta legato: quello che con-trappone ricco e povero, potenza ed astu-zia. Nelle sue storie, chiave della magiabianca del soggetto, l’umile e l’astuto vin-cono sui ricchi e sui potenti. Ma c’è unvelo scuro: essi sono sempre lo specchiouno dell’altro ed i poveri non sono perforza buoni ed i ricchi non sono tutti cat-tivi. E soprattutto l’happy end non è cer-to di casa nelle sue fiabe: a differenzadella tradizione l’eroe molto spesso con-clude tragicamente la sua parabola. Il chenon rende sempre facilmente digeribilela storia ai bambini. Tra i libri: Fiabe eracconti (Donzelli), Peer Fortunato (Iper-borea), Il violinista (Fazi); sempre di An-dersen Il bazar di un poeta (Ed. Robin),La favolosa vita di Hans Christian Ander-sen di Varmer e Brogger (Castoro), rivol-to ai bambini. Quando leggerete que-st’omaggio alla grandezza, ambigua e fa-scinosa, di Andersen le manifestazionicelebrative volgeranno al termine: matemo che le sue fiabe continueranno adessere un classico della letteratura perl’infanzia, e non un Classico della Lette-ratura e basta.

Duecento anni di fiabeSTEFANO VITALE

Nacque duecento anni fa, il 2 aprile del 1805, da

un ciabattino e una lavandaia, visse un’infanzia

povera e difficile. Divenne però un grande

scrittore, così grande da meritarsi una statua

quando ancora era in vita. Sembra una fiaba, e

infatti stiamo parlando di Hans Christian

Andersen