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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI Claudia Astarita Il danno ambientale in aree di conflitti o di forte instabilità politica (Codice AO-CC-06)

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CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

Claudia Astarita

Il danno ambientale in aree di conflitti

o di forte instabilità politica

(Codice AO-CC-06)

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Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.), costituito nel 1987 e situato presso Palazzo

Salviati a Roma, è diretto da un Generale di Divisione (Direttore), o Ufficiale di grado

equivalente, ed è strutturato su due Dipartimenti (Monitoraggio Strategico - Ricerche) ed un

Ufficio Relazioni Esterne. Le attività sono regolate dal Decreto del Ministro della Difesa del

21 dicembre 2012.

Il Ce.Mi.S.S. svolge attività di studio e ricerca a carattere strategico-politico-militare, per le

esigenze del Ministero della Difesa, contribuendo allo sviluppo della cultura e della

conoscenza, a favore della collettività nazionale.

Le attività condotte dal Ce.Mi.S.S. sono dirette allo studio di fenomeni di natura politica,

economica, sociale, culturale, militare e dell'effetto dell'introduzione di nuove tecnologie,

ovvero dei fenomeni che determinano apprezzabili cambiamenti dello scenario di sicurezza.

Il livello di analisi è prioritariamente quello strategico.

Per lo svolgimento delle attività di studio e ricerca, il Ce.Mi.S.S. impegna:

a) di personale militare e civile del Ministero della Difesa, in possesso di idonea esperienza

e qualifica professionale, all'uopo assegnato al Centro, anche mediante distacchi

temporanei, sulla base di quanto disposto annualmente dal Capo di Stato Maggiore dalla

Difesa, d'intesa con il Segretario Generale della difesa/Direttore Nazionale degli

Armamenti per l'impiego del personale civile;

b) collaboratori non appartenenti all'amministrazione pubblica, (selezionati in conformità alle

vigenti disposizioni fra gli esperti di comprovata specializzazione).

Per lo sviluppo della cultura e della conoscenza di temi di interesse della Difesa, il

Ce.Mi.S.S. instaura collaborazioni con le Università, gli istituti o Centri di Ricerca, italiani

o esteri e rende pubblici gli studi di maggiore interesse.

Il Ministro della Difesa, sentiti il Capo di Stato Maggiore dalla Difesa, d'intesa con il

Segretario Generale della difesa/Direttore Nazionale degli Armamenti, per gli argomenti di

rispettivo interesse, emana le direttive in merito alle attività di ricerca strategica, stabilendo

le lenee guida per l'attività di analisi e di collaborazione con le istituzioni omologhe e

definendo i temi di studio da assegnare al Ce.Mi.S.S..

I ricercatori sono lasciati completamente liberi di esprimere il proprio pensiero sugli

argomenti trattati, il contenuto degli studi pubblicati riflette esclusivamente il pensiero dei

singoli autori, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o

civili alle quali i Ricercatori stessi appartengono.

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CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

Claudia Astarita

Il danno ambientale in aree di conflitti

o di forte instabilità politica

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Il danno ambientale in aree di conflitti

o di forte instabilità politica

NOTA DI SALVAGUARDIA

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non

quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali

l’autore stesso appartiene.

NOTE

Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte.

Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici

Direttore f.f.

Col. AAran Pil. Marco Francesco D’ASTA

Vice Direttore - Capo Dipartimento Monitoraggio Strategico Col. AAran Pil. Marco Francesco D’ASTA

Progetto grafico

Massimo Bilotta - Roberto Bagnato

Autore

Claudia Astarita

Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa

Centro Militare di Studi Strategici

Dipartimento Relazioni Internazionali

Palazzo Salviati

Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma

tel. 06 4691 3205 - fax 06 6879779

e-mail [email protected]

chiusa a ottobre 2019

ISBN 978-88-31203-34-0

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INDICE

INTRODUZIONE 7

PARTE 1: INSTABILITÀ POLITICA, CONFLITTI E DANNO AMBIENTALE: IL

DIBATTITO NELLA LETTERATURA SCIENTIFICA 10

L’impatto ambientale delle varie fasi del conflitto 11

Fase 1: Preparazione al conflitto 12

Fase 2: Conflitto 13

Fase 3: Attività post-belliche 15

Guerra e ambiente: approccio attivo e passivo 17

PARTE 2: IL PUNTO DI VISTA DELLE NAZIONI UNITE 20

Nazioni Unite e ambiente, il quadro legale 21

Nazioni Unite e ambiente, la volontà di agire 23

PARTE 3: CASI DI STUDIO 31

Introduzione 31

Caso 1: La Guerra del Vietnam 32

Introduzione 32

L’impatto degli esplosivi 32

L’impatto degli agenti chimici – erbicidi 34

L’impatto dei trattori agricoli (“Aratri romani”) 35

Caso 2: La Guerra del Golfo 36

Introduzione 36

Inquinamento del suolo 37

Impatto della guerra sulla vegetazione, sulla fauna selvatica e sulle aree protette 37

Impatto sulle risorse idriche 38

Mine e altri residui di guerra 39

Ripristino e ricostruzione 40

Caso 3: La campagna del Kosovo e le accuse di terrorismo ambientale 40

Introduzione 40

La guerra in Kosovo: la posta in gioco per l’ambiente 41

Le condizioni ambientali nel Balcani prima e dopo la Guerra 42

Il disastro del Danubio 44

Il problema dell’uranio impoverito 44

Caso 4: Sudan, degrado ambientale e guerra civile 46

Introduzione 46

Il problema dei rifugiati 46

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Desertificazione e altri disastri naturali 47

Terreni agricoli e aree forestali 48

Inquinamento industriale e equilibrio delle risorse idriche 49

Aree protette, governance e aiuti esterni 49

Caso 5: L’impatto dei conflitti armati sull’equilibrio del suolo 50

Introduzione 50

Guerra e territorio: impatto fisico 51

Guerra e territorio: impatto chimico 53

Guerra e territorio: impatto biologico 56

Caso 6: L’impatto dei conflitti armati sull’equilibrio idrico del territorio 57

Risorse idriche: vulnerabilità in un contesto di guerra 57

Intensificazione dell'acquisizione delle risorse 58

Uso dell’acqua come arma offensiva o difensiva 58

Inquinamento dell’ecosistema originario 60

CONCLUSIONI 62

Tre tendenze chiave 62

Maggiore consapevolezza per rispondere alle nuove minacce per l’ambiente 63

Il problema della Jihad ecologica 64

Cambiamenti climatici e conflitti 64

Raccomandazioni 65

BIBLIOGRAFIA 71

SITOGRAFIA 81

ACRONIMI 81

NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SULL’AUTORE 82

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INTRODUZIONE

Nel mese di luglio 2019, alla vigilia di un vertice della Commissione di diritto

internazionale delle Nazioni Unite convocato per portare avanti l’ambizioso programma

lanciato nel 2013 per proteggere l'ambiente nelle regioni di conflitto armato, un gruppo di

scienziati ha firmato una lettera aperta indirizzata alla Commissione per chiedere di

orientare il dibattito sulla necessità di approvare una Quinta Convenzione di Ginevra per

sostenere la protezione ambientale durante i conflitti1.

La lettera, ripresa poi dalla prestigiosa rivista Nature, ha messo in evidenza come dal

2013 ad oggi le Nazioni Unite non abbiano fatto nulla per mettere a punto un sistema di

garanzie esplicite per tutelare l’ambiente e la biodiversità durante i conflitti. Eppure, questi

ultimi sono stati riconosciuti come variabili chiave nella distruzione della fauna, spingendo

sempre più specie verso l’estinzione, nell’avvelenamento delle risorse idriche, del suolo e

della biodiversità2.

Studi più recenti hanno verificato come la circolazione incontrollata dei mezzi pesanti

crei ulteriori pressioni sull’ambiente, ad esempio alimentando una caccia alla fauna selvatica

che è ormai diventata insostenibile. Sarebbe invece auspicabile che l'industria militare

diventasse più responsabile dell'impatto delle sue attività.

La comunità scientifica ritiene che una Quinta Convenzione di Ginevra sia diventata

essenziale per fornire, in un quadro ufficiale in grado di avere un impatto internazionale, un

trattato multilaterale che definisca strumenti legali per la protezione di risorse naturali

essenziali per l’area interessata dal conflitto e le popolazioni che ci vivono.

Mettere a punto una nuova strategia per limitare il danno ambientale in aree di conflitti

o di forte instabilità politica è essenziale anche da un altro punto di vista: si sta infatti

affermando una nuova letteratura scientifica che conferma l’esistenza di una relazione

causa-effetto tra degrado ambientale, riscaldamento climatico incluso, e aumento

dell’instabilità economica e politica del territorio interessato3.

Uno altro studio pubblicato sulla rivista Nature ha messo in evidenza come, nonostante

la sempre più evidente correlazione tra degrado ambientale e conflitti armati all’interno dei

singoli paesi, i fattori chiave per l’esplosione di un conflitto restino di natura socioeconomica

o legati alle scarse capacità di uno stato di gestire il paese4. Eppure, l’intensificazione del

1 S. M. Durant, J. C. Brito, “Stop military conflicts from trashing environment”, Nature, 23 luglio 2019, https://www.nature.com/articles/d41586-019-02248-6

2 J. C. Brito et al., “Armed conflicts and wildlife decline: Challenges and recommendations for effective conservation policy in the Sahara‐Sahel”, Conservations Letters, Vol.11, No. 5, September/October, https://doi.org/gfhst9

3 S. Cazora, “Clima e conflitti”, Informazioni della Difesa, Vol. 3, 2019, pp. 40-46. 4 K. J. Mach et al., “Climate as a risk factor for armed conflict”, Nature, Vol. 571, 2019, pp. 193–197.

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cambiamento climatico e del degrado ambientale, soprattutto in un contesto già post-

conflittuale, può innescare una dinamica perversa capace di aumentare in maniera

significativa i rischi futuri di nuovi conflitti.

Un articolo comparso su Limes a dicembre 2009, con la firma di Salvatore Santangelo,

era riuscito a catturare l’attenzione su una problematica grave, quella dell’impatto

ambientale dei conflitti armati, che, come sottolineato dall’autore stesso, viene spesso

sottovalutata o offuscata dall’enfasi riposta sulle catastrofi umane ed economiche provocate

da una guerra5. Eppure, basterebbe riflettere sul numero di “animali, piante e boschi distrutti,

sui corsi d’acqua e all’aria inquinati, sulla terra avvelenata” per rendersi conto di come ogni

guerra si traduca in un tragico e pericolosissimo disastro ecologico.

L’impatto di un conflitto sull’ambiente può essere di vario tipo: diretto, vale a dire

orientato alla distruzione immediata degli ecosistemi da parte degli eserciti, o indiretto,

ovvero responsabile della distruzione degli habitat, dell’inquinamento dell’aria, delle acque

e del suolo, della deforestazione, della distruzione di infrastrutture chiave, ad esempio ponti

per bloccare i collegamenti via terra, o centrali idroelettriche necessarie per alimentare

l’industria, dei danni alle biodiversità, e infine anche dei danni legati allo spostamento in

massa dei civili, che ha a sua volta un effetto importante sugli equilibri del territorio.

La Guerra del Vietnam (1961-1975) è stato il primo conflitto in cui l’impatto negativo

sull’ambiente ha creato una protesta su scala internazionale. La necessità di addentrarsi

nella giungla vietnamita rese infatti necessario l’utilizzo di erbicidi e defolianti chimici che

compromisero radicalmente il patrimonio vegetale del paese, per non parlare del fatto che,

nel corso della guerra, gli agenti chimici vennero utilizzati anche per distruggere le

coltivazioni per limitare l’autosufficienza alimentare dell’avversario. Santangelo parla di

6.000 kmq di foreste e 900 di campi coltivati bombardati con agenti chimici, e aggiunge

come “alla fine del conflitto furono cancellati circa 325mila ettari di superficie, e,

conseguentemente, furono depauperati gli ecosistemi di enormi foreste che ospitavano una

grande biodiversità. Infine, l’utilizzo indiscriminato dei pesticidi sulle foreste di mangrovie

trasformò ampi tratti del delta del Mekong in desertiche pianure fangose”6.

Quando, nel 1991, durante la prima Guerra del Golfo, 700 milioni di litri di petrolio si

riversarono nel Golfo Persico e circa “300 km di costa del Kuwait e dell’Arabia Saudita furono

coperti di greggio, con conseguente danneggiamento di zone umide e di paludi”,

5 S. Santangelo, “La sporca guerra: conflitti e ambiente”, Limes, 2 dicembre 2009, http://www.limesonline.com/la-sporca-

guerra-conflitti-e-ambiente/9314 6 Ibid.

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morirono tra i 15mila e i 30mila uccelli, e tanti altri persero la vita “in seguito alla

contaminazione da petrolio durante il transito nella zona”. Ancora, “gli iracheni sabotarono

circa 600 pozzi di petrolio, e conseguentemente agli incendi furono rilasciate nell’atmosfera

circa mezzo miliardo di tonnellate di anidride carbonica, determinando l’inquinamento

dell’aria perfino in India. Grandi laghi di petrolio si formarono a causa del più massiccio

versamento di petrolio sul suolo che si conosca”. Infine, il continuo movimento di

attrezzature militari pesanti nel deserto ebbe un impatto pesantissimo sull’ecosistema

locale. In generale, i danni ambientali complessivi della prima Guerra del Golfo sono stati

stimati in 108,9 milioni di dollari7.

Altro esempio importante citato da Santangelo è quello della guerra civile in Ruanda:

quando oltre mezzo milione di profughi furono costretti a rifugiarsi nel parco nazionale di

Virunga, nella Repubblica Democratica del Congo, le foreste vennero distrutte: legname e

fauna vennero presi d’assalto dai profughi per costruire ripari di fortuna e per alimentarsi.

Un rapporto pubblicato dall’Unep relativo all’impatto ambientale della Guerra del

Kosovo nel 1999 ha cercato di quantificare i danni causati all’ambiente dopo che obiettivi

militari, in particolare stabilimenti industriali e altre infrastrutture sul territorio della

Repubblica Federale di Jugoslavia, andarono distrutti. Oggetti dello studio sono stati le

coltivazioni adiacenti le zone colpite, la qualità dell’acqua e della fauna del Danubio,

l’impatto sugli insediamenti umani e la biodiversità e, infine, gli effetti dei bombardamenti

con munizioni ad uranio impoverito.

Oggi, questa ricerca si propone di fare il punto della situazione analizzando il problema

da tre diverse prospettive. Anzitutto, verrà preso in considerazione il dibattito sulle

conseguenze ambientali dei conflitti emerso nella letteratura scientifica. Successivamente,

la ricerca si soffermerà sull’evoluzione della posizione delle Nazioni Unite in merito, facendo

riferimento al programma di “protezione dell’ambiente in aree di conflitto” lanciato nel 2013

e ritornato al centro dell’attenzione in sede ONU proprio nel 2019. Infine, una terza parte

della ricerca metterà in evidenza i danni reali causati dai conflitti armati, facendo riferimento

a due tipologie di casi di studio. Dopo aver presentato quattro conflitti di varia natura, più o

meno lontani nel tempo, come la Guerra del Vietnam, la Guerra del Golfo, i bombardamenti

NATO nella campagna del Kosovo e la guerra civile in Sudan, gli ultimi due casi di studio

presenteranno una sintesi della letteratura sull’impatto dei conflitti sull’ambiente

concentrandosi su due risorse chiave: suolo e acqua.

7 Ibid.

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PARTE 1: INSTABILITÀ POLITICA, CONFLITTI E DANNO AMBIENTALE:

IL DIBATTITO NELLA LETTERATURA SCIENTIFICA

I primi studi sull’impatto della guerra sull’ambiente risalgono agli anni ’30, quando in

Gran Bretagna vennero documentati gli effetti delle “invasioni di piante” in una Londra

distrutta dopo la Battaglia d’Inghilterra del 19408. Il primo laboratorio specializzato

nell’analisi dell’impatto da radiazioni venne invece creato nel 1957, proprio a “Trinity Site”,

due anni dopo la prima esplosione atomica9.

Oggi è internazionalmente riconosciuto il fatto che uno degli elementi costanti della

guerra sia il suo effetto distruttivo sull’ambiente10. Contemporaneamente, va considerato il

fatto che l’uomo abbia spesso cercato di sfruttare la natura e l’ambiente per attaccare il suo

nemico11. Molti analisti attribuiscono le conseguenze di queste distruzioni intenzionali

dell’ambiente agli standard evidentemente inadeguati del diritto internazionale che si

occupa della protezione dell’ambiente12.

C’è chi ritiene sia sempre più urgente adottare una nuova convenzione internazionale

dedicata esclusivamente alla protezione dell’ambiente, chi spinge per la creazione di una

“Croce Verde” da affiancare alla “Croce Rossa” e chi per quella di una Corte internazionale

specializzata in danni ambientali, cui possa essere conferito il potere di far applicare in

maniera più efficace la normativa esistente13.

Eppure, in ambito accademico, la ricerca sull’impatto della guerra sull’ambiente, oltre

ad essere molto limitata, è estremamente frammentata nell’approccio a seconda della

disciplina che la analizza. Ad esempio, gli storici militari hanno sempre considerato

l’ambiente come una variabile indipendente, in grado di influenzare strategie, tattiche e

risultati14. Gli ecologisti si sono concentrati sulle conseguenze ambientali di specifiche

attività legate alla guerra, come gli esperimenti nucleari, le attività di addestramento

8 M. Davis, Dead Cities, New York, New Press, 2000. 9 F. B. Golley, A History of the Ecosystem Concept in Ecology: More than the Sum of the Parts, New Haven (CT), Yale

University Press, 1993. 10 M. T. Okorodudu-Fubara, “Oil in the Persian Gulf War: Legal Appraisal of an Environmental Warfare”, St. Mary's Law

Journal, Vol. 23(1), 1991, pp. 123-219. 11 E. T. Jensen, “The International Law of Environmental Warfare: Active and Passive Damage During Times of Armed

Conflict”, Vanderbilt Journal of Transnational Law, Vol. 38, 2005, pp. 146-7.

12 S. N. Simonds, “Conventional Warfare and Environmental Protection: A Proposal for International Legal Reform”, Stanford Journal of International Law, Vol. 29, 1992, pp. 165-188.

13 M. H. Nordquist, “Panel Discussion on International Environmental Crimes: Problems of Enforceable Norms and Accountability”, ILSA Journal of International & Comparative Law, Vol. 3, 1997, pp. 697-702; J. E. Seacor, “Environmental Terrorism: Lessons from the Oil Fires of Kuwait”, American University Journal of International Law and Policy, Vol. 10, 1994, pp. 481-2; M. J. T. Caggiano, Comment, “The Legitimacy of Environmental Destruction in Modern Warfare: Customary Substance over Conventional Form”, Boston College Environmental Affairs Law Review, Vol. 20(3), 1993, pp. 479-81.

14 J. Keegan, A History of Warfare, 1993, New York, Vintage; C. Townshend, ed., The Oxford History of Modern War, 2005, New York, Oxford University Press.

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operativo, le contaminazioni dei campi di battaglia, e l’impatto dei movimenti dei rifugiati in

un contesto post-bellico15. I politologi finiscono sempre col mettere l’accento sul fatto che lo

scontro per l’accaparramento di risorse (petrolio, acqua, campi coltivabili, scorte di materie

prime, e via dicendo) sia già diventato una delle cause principali dei conflitti

contemporanei16. Infine, i militari tendono a considerare il cambiamento climatico come un

moltiplicatore di minacce in grado di avere un impatto negativo sia sulla sicurezza nazionale,

sia sulla ricostruzione post-bellica e il conseguente processo di ripristino della pace17.

Quel che è certo è che la resilienza dell’ambiente, anche a fronte di attacchi gravi, non

può essere utilizzata per giustificare o anche solo ridurre la responsabilità dei leader militari

per aver intenzionalmente danneggiato l’ambiente per raggiungere un obiettivo di guerra. Al

contrario, per permettere di identificare in maniera più precisa le responsabilità, la letteratura

ha iniziato a distinguere tra comportamento “attivo” e “passivo” ai danni dell’ambiente in un

contesto di guerra. Per comportamento attivo si intende un’azione volta a danneggiare

l’ambiente e che, in quanto tale, dovrebbe essere considerata una violazione sia del diritto

internazionale sia del diritto bellico. Un comportamento passivo, invece, è un’azione che ha

effetti deleteri sull’ambiente, pur non essendo stata pensata come azione per arrecare un

danno allo stesso18.

Infine, la letteratura divide il conflitto in tre fasi, quella preparativa alla guerra, quella

del conflitto violento, e quella delle attività post-belliche. È evidente che, così come ogni

momento del confronto sia caratterizzato da un equilibrio diverso di alcuni elementi chiave

(attrezzature militari, status delle infrastrutture e governance), anche l’impatto sull’ambiente

degli stessi sarà diverso in ogni fase19.

L’impatto ambientale delle varie fasi del conflitto

Tutte le fasi della guerra, preparazione, combattimento e attività post-belliche, hanno

un impatto negativo sull’ambiente20. Nella fase preparatoria, in genere, si consuma una

quantità considerevole di risorse, si procede all’accumulo di materiali strategici, e si

effettuano test sui materiali e sulle strutture messe in piedi per affrontare il combattimento.

Durante questa fase si registrano con elevata frequenza fenomeni di contaminazione

chimica del territorio, deposito non intenzionale di ordigni che restano poi inesplosi sullo

15 T.F. Homer-Dixon, “Environmental scarcities and violent conflict: Evidence from cases”, International Security, Vol. 19,

2004, pp. 5-40. 16 M.T. Klare, Resource Wars: The New Landscape of Global Conflict, 2001, New York, Henry Holt. 17 S. Cazora, op. cit. 18 E. T. Jensen, op. cit, p. 149. 19 G. E. Machlis e T. Hanson, “Warfare Ecology”, BioScience, Vol. 58, No. 8, Settembre 2008, p. 730. 20 Ibid.

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stesso, rimozione della vegetazione, erosione del suolo e altre attività che possono portare

alla disgregazione socioeconomica del territorio interessato.

La fase attiva del conflitto si contraddistingue invece per l’utilizzo smodato di risorse

energetiche, distruzione dell’ambiente e estrazione incontrollata di tutte le risorse

depredabili, da rivendere poi per finanziare le attività belliche, distruzione di popolazioni

locali, habitat naturali e sistemi socioeconomici esistenti21.

Infine, la fase post-bellica è quella in cui diventa possibile quantificare l’impatto del

conflitto stesso, in termini di danneggiamento e distruzione delle infrastrutture, dei servizi,

dell’ecosistema. Quella post-bellica è poi una fase contraddistinta da tassi di inquinamento

elevatissimi, di emergenza sanitaria e di difficile gestione dei flussi di rifugiati22.

Fase 1: Preparazione al conflitto

Gli studi che hanno analizzato l’impatto ecologico delle attività di addestramento

militare sono numerosi. Le esercitazioni condotte con camion, carri armati e veicoli pesanti

hanno un impatto forte e di lungo periodo sul territorio, in termini sia di grado di compattezza

del suolo sia di alterazione della flora23. Gli addestramenti sui veicoli cingolati, invece,

possono compromettere le funzionalità dei territori, soprattutto se adibiti ai pascoli24. Gli

addestramenti con armi da fuoco favoriscono l’accumulo di sostanze inquinanti. Alla

presenza di fosforo bianco, ad esempio, sono stati collegati sia l’aumento dei tassi di

mortalità e ridotta fertilità degli uccelli acquatici, sia i fenomeni di avvelenamento secondario

dei rapaci25. Analisi realizzate per valutare gli effetti di lungo periodo di sessant’anni di

bombardamenti nelle esercitazioni della marina militare statunitense nei pressi dell’isola di

Vieques (Portorico), hanno rilevato la presenza di tossine nelle acque sotterranee, nella

vegetazione, nella fauna marina e sul suolo26.

Gli addestramenti militari non sempre hanno un impatto significativo sulla fauna.

In particolare, l’utilizzo di sonar ad alta intensità può causare comportamenti irregolari, danni

ai tessuti interni e mortalità nei cetacei27. Al contrario, le esercitazioni che utilizzano velivoli

21 P. Collier, “Rebellion as a quasi-criminal activity”, Journal of Conflict Resolution, Vol. 44, 2000, pp. 839–853. 22 G. E. Machlis e T.Hanson, op. cit.

23 D.V. Prose e H.G. Wilshire, “The Lasting Effects of Tank Maneuvers on Desert Soils and Intershrub Flora”, Washington (DC), US Geological Survey, 2000. Open-file Report no. 00-512.

24 J.A. Guretzky, A.B. Anderson e J.S. Fehmi JS. “Grazing and military vehicle effects on grassland soils and vegetation”, Great Plains Research, Vol. 16, 2006, pp. 51–61.

25 D.W. Sparling e N.E. Federoff, “Secondary poisoning of kestrels by white phosphorus”, Ecotoxicology, Vol. 6, 1997, pp. 239–247.

26 W. Porter, “Movement of toxic materials through the Vieques marine ecosystem: The effects of naval bombardment on a Puerto Rican coral reef”, Paper presented at the annual meeting of the Ecological Society of America; 4–12 agosto 2005, Montreal, Canada.

27 M.Schrope, “Whale deaths caused by US Navy’s sonar”, Nature, Vol. 415, 2002, p.106.

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militari a bassa quota non sembrano avere un impatto sui comportamenti di pecore e capre

di montagna28.

Una grossa fetta della ricerca si è concentrata fino ad oggi sull’impatto dei test nucleari.

Ebbene, le attività di monitoraggio di lungo periodo sul sito nucleare di Hanford hanno

dimostrato che i radionuclidi sono stati trasportati dal vento a una distanza dal sito di

produzione pari a 250 chilometri, dall’acqua fino a 650 chilometri più a valle29. Analisi

condotte sulla popolazione che vive in località percorse da correnti d’aria che attraversano

anche un altro sito nucleare, il Nevada Proving Ground, hanno evidenziato una correlazione

tra elevata densità di particelle rilasciate durante i test di armi atmosferiche e l’aumento della

leucemia nei bambini30. Per quanto gli effetti di una esposizione costante a livelli di bassa

radioattività non siano ancora stati confermati in maniera inequivocabile, è evidente che le

correnti atmosferiche siano in grado di trasportare queste particelle ovunque: tracce sono

state infatti rilevate sia in Antartide, sia ai tropici, sia nei sedimenti oceanici31.

Fase 2: Conflitto

Anche gli effetti della guerra sui campi di battaglia, diretti e indiretti, sono ampiamente

documentati. Ad esempio, esistono studi che dimostrano che i crateri generati dai

bombardamenti della Battaglia d’Inghilterra, che si sono successivamente riempiti d’acqua,

sono stati immediatamente popolati da una quarantina di specie di piante autoctone e

invertebrati32. La stessa cosa è successa in Vietnam, dove i crateri che si sono formati lungo

l’Ho Chi Minh Trail sono stati popolati da rane, piccoli pesci, anguille e gamberi33.

Molto diverso è invece l’impatto delle fuoriuscite di petrolio. Durante la Prima Guerra

del Golfo, ad esempio, le elevate quantità di petrolio riversatesi nella natura hanno

contribuito all’aumento del tasso di mortalità degli uccelli marini e a un’impennata

28 P.R. Krausman, L.K. Harris, C.L. Blasch, K.K.G. Koenen, J. Francine, “Effects of military operations on behavior and hearing of endangered Sonoran pronghorn”, Wildlife Monographs, Vol. 157, 2004, pp. 1–41.

29 M.S. Gerber, On the Home Front: The Cold War Legacy of the Hanford Nuclear Site, Lincoln, University of Nebraska Press, 1992.

30 W. Stevens, D.C. Thomas, J.L. Lyon, J.E. Till, R.A. Kerber, S.L. Simon, R.D. Lloyd, N. A. Elghany, S. Preston-Martin, “Leukemia in Utah and radioactive fallout from the Nevada test site: A case-control study”, Journal of the American Medical Association, Vol. 264, 1990, pp. 585–591.

31 D.J. Brenner et al., “Cancer risks attributable to low doses of ionizing radiation: Assessing what we really know”, Proceedings of the National Academy of Sciences, Vol. 100, 2003, pp. 13761–13766; H.D. Livingston, P.P. Povinec, “A millennium perspective on the contribution of global fallout radionuclides to ocean science”, Health Physics, Vol. 82, 2002, pp. 656–668.

32 T. Warwick, “The colonization of bomb-crater ponds at Marlow, Buckinghamshire”, Journal of Animal Ecology, Vol. 18, 1949, pp. 137–141.

33 B.L. Stuart, P. Davidson, “Use of bomb crater ponds by frogs in Laos”, Herpetological Review, Vol. 30, 1999, pp. 72–73.

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dell’inquinamento delle maree, che ha avuto un’influenza catastrofica sul benessere degli

uccelli migratori34.

La guerra civile e il genocidio in Ruanda hanno fatto aumentare le attività di

bracconaggio e di deforestazione, su un’area di circa 300 km2 vicina ai campi profughi

localizzati nei pressi del confine con la Repubblica Democratica del Congo. Secondo

indagini recenti, nello stesso periodo la popolazione di ippopotami nel Parco Nazionale

Virunga è passata da oltre 30mila a 629 unità35. Un’indagine delle Nazioni Unite, invece, ha

evidenziato un collegamento molto forte tra degrado del suolo, desertificazione, e conflitto

nel Darfur36.

Su scala regionale, sono stati rilevati picchi di contaminazione di mercurio negli oceani

adiacenti all’Europa e all’America del Nord in corrispondenza dei periodi di maggiore

produzione e dispiegamento di armi negli anni della Seconda Guerra mondiale37.

Nella regione del Nord del Sahara, i registri metereologici hanno evidenziato un

aumento di dieci volte dei livelli di polvere durante le tempeste di sabbia nel periodo delle

campagne militari della Seconda Guerra Mondiale, condizione che ha avuto un impatto

devastante sul suolo e sulla già fragile vegetazione del deserto38.

In Vietnam, nelle aree interessate dall’applicazione di massa di erbicidi, vale a dire

circa il 10 per cento della superficie della regione meridionale del paese, sono stati registrati

una altissima mortalità degli alberi e una drastica riduzione della capacità della foresta di

rigenerarsi39.

Infine, a livello globale i conflitti possono essere influenzati da fattori ambientali e, allo

stesso tempo, avere un impatto negativo enorme sugli stessi. Uno studio molto interessante,

pubblicato nel 2007, ha messo in relazione i dati sulle oscillazioni delle temperature e le

guerre. Ebbene, il campione analizzato, che copre il periodo che va dal 1400 al 1900, ha

rilevato una forte correlazione tra i cambiamenti della temperatura e i conflitti40. Altre analisi

confermano l’evidente correlazione tra cambiamenti climatici, scarsità di risorse e conflitti,

in particolare nei paesi in via di sviluppo, che si trovano già in una condizione di stress molto

34 M.I. Evans, P. Symens, C.W.T. Pilcher, “Short-term damage to coastal bird populations in Saudi Arabia and Kuwait following the 1991 Gulf War marine pollution”, Marine Pollution Bulletin, Vol. 27, 1993, pp. 157–161.

35 A.K. Biswas, H.C. Tortajada-Quiroz, “Environmental impacts of the Rwandan refugees in Zaire”, Ambio, Vol. 25, 1996,

pp. 403–408. 36 “Sudan: Postconflict Environmental Assessment”, United Nations Environment Programme, 2007. 37 I. Martins, V. Costa, F.M. Porteiro, R.S. Santos, “Temporal and spatial changes in mercury concentrations in the North

Atlantic as indicated by museum specimens of glacier lanternfish Benthosema glaciale (Pisces: Myctophidae)”, Environmental Toxicology, Vol. 21, 2006, pp. 528–532.

38 F.W. Oliver, “Dust-storms in Egypt and their relation to the war period, as noted in Maryut”, Geographical Journal, Vol. 106, 1945, pp. 26–49.

39 G.H. Orians, E.W., Pfeiffer, “Ecological effects of the war in Vietnam”, Science, Vol. 168, 1970, pp. 544–554.

40 D.D. Zhang, P. Brecke, H.F. Lee HF, Y.-Q. He, J. Zhang, “Global climate change, war, and population decline in recent human history”, Proceedings of the National Academy of Sciences, Vol. 104, 2007, pp.19214–19219.

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forte per quel che riguarda disponibilità e sfruttamento delle risorse. Da qui la realistica

previsione di un prossimo e consistente aumento dei conflitti legati alla crescente scarsità

di risorse essenziali come acqua, risorse ittiche, forestali, e terre coltivabili41.

Suscita, infine, una grande preoccupazione, l’interesse che tanti paesi mostrano sulla

proliferazione nucleare. Gli esperti del settore ipotizzano che le particelle atmosferiche

rilasciate da appena un centinaio di piccole detonazioni indirizzate verso i centri urbani

potrebbero comportare un raffreddamento globale diffuso, il cosiddetto “inverno nucleare”,

che, oltre ai danni legati alle distruzioni provocate dalle esplosioni, avrebbe un impatto

catastrofico sull’equilibrio ecologico del pianeta42.

Fase 3: Attività post-belliche

La maggior parte delle ricerche che si sono occupate dell’impatto post-bellico di un

conflitto si è concentrata sui diversi metodi utilizzabili per interventi di decontaminazione del

territorio, gli effetti degli stessi, e le attività di riconversione di siti militari in siti utilizzabili in

altro modo.

Rilevamenti condotti nell’area demilitarizzata al confine tra la Corea del Sud e la Corea

del Nord hanno rilevato la presenza di numerose specie e habitat naturali rari, al punto

dall’aver portato la comunità internazionale, con una forte spinta da parte di Seul, ad

immaginare di costruirvi una riserva naturale transfrontaliera permanente43.

Rifiuti tossici e altri scarti, spesso dispersi sui territori interessati da un conflitto in

maniera casuale, possono compromettere in maniera significativa la biodiversità dei siti

militari. Un’analisi condotta sugli effetti delle attività di decontaminazione portate avanti

nell’Estonia post-sovietica hanno evidenziato un elevatissimo tasso di contaminazione

da metalli pesanti nel suolo e la presenza di scorie radioattive nelle acque

sotterranee dipendenti dalla presenza degli impianti dell’esercito sovietico44. Un

gruppo di ricercatori ha stimato i costi di pulizia per gli impianti militari statunitensi, compresi

i siti in cui vengono gestite le armi nucleari, in circa un trilione di dollari45.

Gli interventi post-bellici comprendono anche le attività per ridurre l’impatto ambientale

di specifiche tattiche di guerra. Ad esempio, durante la guerra in Iraq, Saddam Hussein

41 T.F. Homer-Dixon, op. cit., Intergovernmental Panel on Climate Change, Climate Change 2007: Synthesis Report, 2007, Geneva, www.ipcc.ch/ipccreports/ar4-syr.htm; S. Cazora, op. cit.

42 O.B. Toon, A. Robock, R.P. Turco, C. Bardeen, L. Oman, G.L. Stenchikov, “Consequences of regional-scale nuclear conflicts”, Science, Vol. 315, 2007, pp. 1224–1225.

43 K.C. Kim, “Preserving biodiversity in Korea’s Demilitarized Zone”, Science, Vol. 278, 2007, pp. 242–243. 44 M.R. Auer, A. Raukas, “Determinants of environmental clean-up in Estonia”, Environment and Planning C Government

and Policy, Vol. 20, 2007, pp. 679–698. 45 S. Dycus, “National Defense and the Environment”, Hanover, University Press of New England, 1996.

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ordinò all’esercito di prosciugare le paludi mesopotamiche del sud del paese per

destabilizzare la comunità Marsh Arab. Ebbene, uno studio pubblicato nel 2005 ha messo

in evidenza come le attività di bonifica condotte nel dopoguerra abbiano favorito il

ripopolamento di queste aree da parte di piante e animali autoctoni, aumentando in maniera

considerevole il potenziale di recupero dell’intera area46.

L’impatto del conflitto su territorio può anche essere indiretto, e quindi diventare

evidente solo a conclusione dello stesso. Ad esempio, alla fine della Seconda Guerra

Mondiale, gli americani introdussero sull’isola di Guam il serpente marrone (Boiga irregis),

il cui impatto è stato devastante, perché ha provocato l’estinzione di oltre dieci specie di

uccelli e rettili autoctoni47.

Altre ricerche si sono invece concentrate sull’analisi dell’impatto dei conflitti

sull’equilibrio biologico dell’ambiente. Ad esempio, in Vietnam la deforestazione condotta

con erbicidi di varia natura ha provocato una profonda erosione del suolo, un’alterazione

netta della fauna locale, e una perdita permanente del manto forestale esistente. Ancora,

l’uso massiccio di erbicidi avrebbe provocato un’alterazione della composizione del suolo

che ha avuto poi un impatto a lungo termine sulla popolazione locale, dove è stato registrato

un aumento esponenziale di problemi gastrointestinali cronici, danni al fegato e difetti alla

nascita48. Infine, i test condotti sui militari statunitensi denunciano una relazione forte tra

esposizione diretta agli erbicidi e casi di cancro e diabete49.

Quindici anni dopo la guerra Iran-Iraq (1980-1988), i civili che sono stati esposti agli

attacchi chimici hanno mostrato tassi elevati di ansia cronica, depressione e disturbo post-

traumatico da stress50. Le analisi condotte in Afghanistan, Bosnia, Cambogia e Mozambico

sull’impatto sulle popolazioni locali della presenza di mine anti-uomo inesplose hanno

messo in evidenza come il 6 per cento delle famiglie sia stato interessato almeno una volta

da un incidente causato dalla presenza delle mine, mentre una percentuale che oscilla dal

25 all’87 per cento, a seconda dei paesi, abbia cambiato le proprie abitudini quotidiane per

minimizzare i passaggi sui territori in cui potrebbero trovarsi le mine51.

46 C.J. Richardson, P. Reiss, N.A. Hussain, A.J. Alwash, D.J. Pool, “The restoration potential of the Mesopotamian marshes of Iraq”, Science, Vol. 307, 2005, pp. 1307–1311.

47 T.H. Fritts, G.H. Rodda, “The role of introduced species in the degradation of island ecosystems: A case history of Guam”, Annual Review of Ecology and Systematics, Vol. 29, 1998, pp. 113–140.

48 A.H. Westing, Herbicides in War: The Long-term Ecological and Human Consequences, London, Taylor and Francis, 1984.

49 R. Stone, “Agent Orange’s bitter harvest”, Science, Vol. 315, 2007. pp. 176–179. 50 F. Hashemian, K. Khoshnood, M.M Desai, F. Falahati, S. Kasl, S. Southwick, “Anxiety, depression, and posttraumatic

stress in Iranian survivors of chemical warfare”, Journal of the American Medical Association, Vol. 296, 2006, pp. 560–566.

51 P. Le Billon, “The political ecology of transition in Cambodia 1989–1999: War, peace and forest exploitation”, Development and Change, Vol. 31, 2000, pp. 785–805.

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Guerra e ambiente: approccio attivo e passivo

Gli studiosi che propendono per una classificazione dei danni ambientali in danni

“attivi” e “passivi” partono dal presupposto che il Diritto Internazionale attuale (cfr. Parte 2,

paragrafo 1: “Nazioni Unite e ambiente, il quadro legale”) non sia in grado di intervenire in

casi di violazioni ambientali a meno che non sia possibile definire il danno generato dal

conflitto come “diffuso, con un impatto di lungo periodo e grave”52.

Da qui la proposta di chiarire questa situazione “inaccettabile” proponendo una nuova

classificazione dei danni ambientali53. Questa classificazione avrebbe il vantaggio di

valutare la gravità della violazione del Diritto Internazionale facendo riferimento al bersaglio

dell’attacco, e non all’impatto di lungo periodo dello stesso, permettendo quindi alla

comunità internazionale di valutare la responsabilità di chi ha provocato l’attacco e di

cercare la strategia più efficace per reagire alla violazione commessa.

Un danno ambientale passivo è quello che si concretizza in un contesto di guerra in

cui l’atto in se’ non viene specificatamente pensato per sfruttare l’ambiente a fini militari, ma

che finisce con l’avere comunque un impatto degradante sullo stesso. Un esempio di danno

ambientale passivo può essere legato all’utilizzo dell’artiglieria, in virtù dell’impatto di un

bombardamento sulla distruzione della flora, degli habitat naturali degli animali, dei territori

coltivabili e via dicendo54. Lo stesso vale per l’impatto sull’ambiente e in particolare sul suolo,

dei movimenti su larga scala dei veicoli militari pesanti: questi spostamenti non sono pensati

per compromettere la natura del terreno attraversato, ma inevitabilmente finiscono con

l’avere un impatto negativo sullo stesso.

Un danno “attivo”, invece, è un danno all’ambiente provocato in maniera diretta e

volontaria. Condizione essenziale per determinare l’esistenza di un danno “attivo” è quella

dell’utilizzo sistematico dell’ambiente come arma di guerra, ovvero per provocare danni al

nemico o per interferire nelle azioni di combattimento del nemico, indipendentemente dai

metodi utilizzati (armi convenzionali, non convenzionali, utilizzo anomalo del territorio o delle

risorse presenti nello stesso)55.

L’unica tipologia di attività esclusa da questa definizione è quella di un’azione militare

commessa in diretta relazione con le condizioni ambientali esistenti. Ad esempio, il lancio di

52 J. A. Cohan, “Modes of Warfare and Evolving Standards of Environmental Protection Under the International Law of War”, Florida journal of international law, Vol. 15, 2003, pp. 481-485.

53 E. T. Jensen, op.cit. 54 M. T. Okorodudu-Fubara, op. cit. 55 H. H. Almond, “The Use of the Environment as an Instrument of War”, Yearbook of International Environmental Law,

Vol. 2, 1991, pp. 455-460.

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un satellite militare per monitorare le informazioni metereologiche in maniera da poter fornire

aggiornamenti precisi e costanti all’esercito.

In un confitto, i danni “attivi” sull’ambiente possono essere legati alla scelta di creare

le condizioni per provocare un terremoto o altre catastrofi naturali, per alterare il tempo

atmosferico o il clima, nell’intento di compromettere il movimento delle truppe avversario o

di annientarle56. Altre tipologie di danni “attivi” possono essere legate al reindirizzamento di

corsi d’acqua, al rilascio di acque immagazzinate per inondare aree abitate o coltivabili,

generare artificialmente nuvole di pioggia, appiccare incendi nelle foreste per disorientare

l’avversario o annullarne la copertura, o ancora inquinare acque interne per compromettere

il movimento delle truppe57.

Gli analisti che hanno adottato questo tipo di approccio definiscono l’ambiente come

“vittima” del conflitto a fronte di danni passivi, e “strumento di guerra” vero e proprio a fronte

di danni attivi. Questa differenziazione è essenziale per stabilire la responsabilità e le

conseguenze della violazione58.

Se questa classificazione fosse stata proposta e assimilata dalla giurisprudenza prima

della Prima Guerra del Golfo (1991), sarebbe stato più facile per la comunità internazionale

imporre riparazioni in linea con la risoluzione 687 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni

Unite59. Ecco perché, per il futuro, resta auspicabile che questa differenziazione venga

presa in considerazione, nella speranza che il riconoscimento immediato di danni attivi nei

confronti dell’ambiente renda chi li ha commessi responsabile di fronte alla comunità

internazionale e perseguibile sulla base del Diritto Internazionale vigente.

I danni all’ambiente, a prescindere dalla loro natura attiva o passiva, fanno parte della

guerra moderna. Ecco perché diventa sempre più necessario mettere a punto sia strumenti

per valutarne l’impatto, sia strategie per perseguirli in maniera adeguata. È dagli anni

’80 che il Sipri, Istituto di ricerca per la pace di Stoccolma, denuncia come la

tecnologizzazione dei conflitti fosse destinata a provocare una crescita esponenziale delle

ripercussioni degli stessi sull’ambiente60. La Prima Guerra del Golfo ha chiarito in maniera

inequivocabile la necessità di trovare nuovi sistemi più efficaci per rendere gli stati

responsabili delle proprie azioni durante i conflitti anche in riferimento ai danni provocati

56 W. G. Sharp, “The Effective Deterrence of Environmental Damage During Armed Conflict: A Case Analysis of the Persian Gulf War”, Military Law Review, Vol. 137, 1992, pp. 40-41.

57 L. Low, D. Hodgkinson, “Compensation for Wartime Environmental Damage: Challenges to International Law after the Gulf War”, The Virginia Journal of International Law, Vol. 35(2), 1995, pp. 405 – 483.

58 E. T. Jensen, op.cit. 59 S. M. Bernard, “Environmental Warfare: Iraq's Use of Oil Weapons during the Gulf Conflict”, New York International

Law Review, Vol. 6, 1993, pp. 106-109. 60 “Warfare in a Fragile World: Military Impact on the Human Environment”, Stockholm International Peace research

institute, 1980.

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all’ambiente. Il consolidamento di una giurisprudenza sulla differenziazione tra danni “attivi”

e “passivi” e la rigidità nell’applicazione di sanzioni adeguate nei confronti di chi li provoca

potrebbe portare i singoli paesi a limitare lo sfruttamento dell’ambiente come arma, anche

in un contesto bellico, generare maggiore coesione nella condanna di questo tipo di

iniziative, e, idealmente, creare le condizioni per rilanciare il dibattito sulla necessità di

colmare le lacune nel Diritto Internazionale in vigore ai fini di rafforzare gli attuali strumenti

preposti alla protezione dell’ambiente.

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PARTE 2: IL PUNTO DI VISTA DELLE NAZIONI UNITE

Il 5 novembre 2001, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 6

novembre la Giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento dell'ambiente in

guerra e conflitto armato. L’istituzione di questa giornata è legata alla necessità di

aumentare la sensibilità sul fatto che l’ambiente, tanto quanto civili, militari, città e

infrastrutture, debba essere annoverato tra le principali vittime di guerra. Risorse idriche

inquinate, raccolti bruciati, foreste abbattute, terreni avvelenati, animali uccisi: sono tutte

pratiche utilizzate in guerra per ottenere un vantaggio militare che, alla fine di un conflitto,

hanno un impatto devastante sull’ecosistema, al punto da minacciarne, nei casi più gravi, la

sostenibilità.

Il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (Unep) ha calcolato che negli ultimi

60 anni almeno il 40 percento di tutti i conflitti interni è stato collegato allo sfruttamento delle

risorse naturali, sia che si tratti di risorse con un alto valore economico come legname,

diamanti, oro e petrolio, sia di risorse scarse come terreni fertili e acqua potabile. È stato

stimato che i conflitti che coinvolgono le risorse naturali hanno una probabilità doppia di

riesplodere una seconda volta, e che il depauperamento dell’ambiente, quando legato al

sostentamento della comunità stessa, rende il ritorno a una situazione di stabilità molto più

lungo e complicato.

Nel celebrare il 17esimo anniversario di questa giornata di sensibilizzazione

sull’impatto dei conflitti sull’ambiente, Erik Solheim, direttore esecutivo dell’agenzia Unep,

ha ricordato che “quasi 1,5 miliardi di persone, oltre il 20% della popolazione mondiale,

vivono in zone colpite da conflitti e in stati politicamente instabili”61. Le guerre in Afghanistan,

Colombia o Iraq, solo per citarne alcune, hanno causato la perdita di risorse naturali dal

valore immenso. In alcune aree dell’Afghanistan i tassi di deforestazione hanno raggiunto il

95 per cento. Nel 2017, la pratica dello Stato Islamico di bruciare pozzi petroliferi e una

fabbrica di zolfo vicino alla città irachena di Mosul ha generato nuvole tossiche il cui impatto

sull’ambiente e sulle persone continua ad essere difficile da calcolare. In Colombia,

Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan, la scelta dei gruppi ribelli di cercare rifugio

in punti critici per la biodiversità come le foreste ha avuto un impatto disastroso sulle

stesse: disboscamento illegale, estrazione di risorse non

61 “Preventing the exploitation of the environment in war and armed conflict”, 6 novembre 2018, https://www.unenvironment.org/news-and-stories/statement/preventing-exploitation-environment-war-and-armed-conflict

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regolamentata, bracconaggio di massa ne hanno minato, probabilmente per sempre,

l’equilibrio. Nella Repubblica Democratica del Congo e nella Repubblica Centrafricana le

popolazioni di elefanti sono state decimate. Infine, nel ricordare come a Gaza e nello Yemen

le infrastrutture idriche, dai pozzi sotterranei agli impianti di trattamento delle acque reflue,

dalle stazioni di pompaggio agli impianti di desalinizzazione, siano state danneggiate,

comportando rischi per l’ambiente e la salute pubblica, Solheim ha ribadito la necessità di

sollecitare la comunità internazionale a intervenire per limitare le conseguenze ambientali

del conflitto, onde evitare di ritrovarsi a dover gestire le pericolose e nella maggior parte

irreparabili conseguenze delle aggressioni armate ai danni dell’ecosistema.

Nazioni Unite e ambiente, il quadro legale

Il quadro giuridico internazionale esistente contiene molte disposizioni che proteggono

direttamente o indirettamente l'ambiente e regolano l’utilizzo delle risorse naturali durante i

conflitti armati62. Nella pratica, però, queste disposizioni vengono applicate solo di rado.

Tutte le volte che la comunità internazionale ha cercato di responsabilizzare gli stati o le

persone per danni ambientali provocati da un conflitto armato, ha ottenuto molto poco.

Esistono delle evidenti lacune nel quadro giuridico internazionale vigente, riassumibili

nei dieci punti seguenti:

1) Con gli articoli 35 e 55 del Protocollo Aggiuntivo I delle Convenzioni di Ginevra del 1949

non si protegge in maniera efficace l’ambiente nel corso dei conflitti armati a causa

dell’imprecisione con cui viene definita l’entità del danno necessaria per dimostrare la sua

esistenza. I due articoli condannano danni “diffusi, di lungo periodo e gravi” all’ambiente.

Tuttavia, oltre a non definire in maniera precisa il significato di questi tre termini,

impongono la necessità che si verifichino tutte e tre le condizioni per poter parlare di una

violazione.

2) Le disposizioni di diritto umanitario che regolano mezzi e metodi del conflitto o proteggono

civili e beni immobili, di fatto garantiscono una protezione indiretta all’ambiente. La loro

efficacia è però minata dal fatto che non vengano regolarmente rispettate.

62 “Protecting the environment during armed conflict. An inventory and analysis of international law”, UNEP, novembre 2009.

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3) La maggior parte delle disposizioni legali internazionali che proteggono l'ambiente

durante il conflitto armato sono state pensate per i conflitti internazionali, quindi non sono

applicabili nei casi di conflitti interni. Ne consegue un importante vuoto giuridico per tante

delle guerre contemporanee, spesso di natura locale e civile. Ancora, non esistono

meccanismi istituzionalizzati per impedire il saccheggio delle risorse naturali durante i

conflitti o per limitare l’appropriazione delle stesse da parte di gruppi di combattenti privi

di qualunque legittimità politica o autorità legale.

4) Il numero limitato di cause ambientali presentate ai tribunali nazionali e internazionali

continua a impedire l’affermazione di una giurisprudenza consolidata sulla protezione

dell’ambiente durante i conflitti armati. A sua volta, questa mancanza di giurisprudenza

alimenta la sensazione di una difficoltà o riluttanza generalizzata a far applicare le

normative esistenti.

5) Non esiste un meccanismo internazionale permanente in grado di monitorare infrazioni

legali e indirizzare il risarcimento di reclami per danni ambientali subiti durante i conflitti

armati internazionali: la comunità internazionale non è adeguatamente equipaggiata per

monitorare le violazioni legali, determinare la responsabilità e supportare i processi di

compensazione su base sistematica per danni ambientali causati dalle guerre. Esiste un

organo investigativo per intervenire sulle violazioni del Protocollo Aggiuntivo I delle

Convenzioni di Ginevra, ma quest’ultimo può effettuare le indagini solo dopo aver ricevuto

l’autorizzazione da parte degli stati interessati.

6) I principi generali del Diritto Umanitario di distinzione, necessità e proporzionalità

potrebbero non essere sufficienti per limitare i danni all'ambiente, essenzialmente per la

difficoltà pratica di identificare dei parametri di riferimento per valutare “necessità militare”

e “danno ambientale corrispondente”.

7) Un danno ambientale che porta a commettere crimini di guerra, crimini contro l'umanità

o genocidio va considerato un crimine perseguibile in base al Diritto Internazionale

vigente. La distruzione dell’ambiente e l’esaurimento delle risorse naturali (anche a fronte

di un saccheggio) possono rientrare in questa categoria.

8) Il fatto che, salvo diversa indicazione, le convenzioni internazionali sull’ambiente debbano

continuare ad essere rispettate anche durante i conflitti di fatto crea una base legale per

la protezione dell’ecosistema in un contesto bellico. L’idea secondo cui il Diritto

Ambientale Internazionale vada sostituito con il Diritto Internazionale Umanitario in casi

di conflitti sta progressivamente perdendo di rilevanza nel dibattito tra gli esperti del

settore.

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9) Associando i danni ambientali a violazioni di diritti umano fondamentali permette di

appoggiarsi alle Commissioni e ai Tribunali internazionali esistenti per sanzionare gli

stessi.

10) In ambito Nazioni Unite non esiste una definizione standard di “risorsa legata al

conflitto”, ne’ viene specificato quando sarebbe opportuno applicare sanzioni per

frenare lo sfruttamento illegale e il commercio di risorse come diamanti, petrolio,

legname, o altre risorse di alto valore in grado di generare profitti per finanziare

l’acquisto di armi o l’arruolamento di nuovi combattenti. Definire in maniera chiara

queste risorse potrebbe facilitare l’applicazione di sanzioni per limitarne lo sfruttamento

e il depauperamento del territorio da cui vengono estratte.

Nazioni Unite e ambiente, la volontà di agire

Nel corso della 65esima sessione (2013), la Commissione di diritto internazionale delle

Nazioni Unite ha deciso di includere il tema “Protezione dell’ambiente in relazione ai conflitti

armati” nel suo programma di lavoro. La Commissione ha quindi incaricato Marie G.

Jacobsson di condurre un’indagine approfondita sull’argomento.

Nel corso della 66esima sessione (2014), la Commissione ha esaminato con

attenzione la relazione presentata da Jacobsson (A/CN.4/674), che ha fornito un’importante

panoramica introduttiva su quella che la Commissione ha indicato come “Fase 1” del

dibattito, vale a dire quella dell’identificazione delle norme e dei principi ambientali applicabili

a un potenziale conflitto armato (i cosiddetti “obblighi di pace”).

Nel corso della 67esima sessione (2015), la Commissione ha preso in considerazione

la seconda relazione di Jacobsson sull'argomento (A/CN.4/685), incentrata sull’analisi delle

norme esistenti in materia di conflitti armati direttamente pertinenti per la protezione

dell’ambiente nel corso di un conflitto armato.

La relazione ha altresì presentato cinque ipotesi di principi e tre paragrafi preambolari

per definire in maniera più chiara la materia in oggetto. Le proposte di Jacobsson sono state

accolte dal Comitato di redazione della Commissione stessa, che le ha riformulate in un

primo documento ufficiale sulla “Protezione dell'ambiente in relazione ai conflitti armati”63.

Il documento in questione ha definito nell’Introduzione l’estensione e lo scopo dei

principi proposti, definendoli come “principi che si applicano alla protezione dell'ambiente

prima, durante o dopo un conflitto armato”, e che “mirano a migliorare la protezione

63 “Protezione dell'ambiente in relazione ai conflitti armati”, Documento n. A/CN.4/L.870, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Commissione per il Diritto Internazionale, 66° Sessione, Ginevra, 4 maggio, 5 giugno, 6 luglio, 7 agosto 2015.

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dell'ambiente in relazione ai conflitti armati, anche attraverso misure preventive per ridurre

al minimo i danni all’ambiente durante i conflitti armati anche attraverso il ricorso a misure

correttive”.

La prima parte del documento, dedicata alle misure preventive, ha precisato la

necessità di indurre gli Stati a “designare, di comune accordo o meno, aree di grande

importanza ambientale e culturale come zone protette”.

La seconda parte ha invece identificato 5 principi applicabili nel corso di un conflitto

armato. In particolare, il documento prescrive quanto segue:

Principio 1) Protezione generale dell’ambiente naturale durante i conflitti armati:

L'ambiente naturale deve essere rispettato e protetto conformemente al diritto

internazionale applicabile e, in particolare, al diritto che regola i conflitti armati.

È necessario prestare attenzione alla protezione dell'ambiente naturale da danni diffusi,

a lungo termine e gravi.

Nessuna parte dell'ambiente [naturale] può essere attaccata, a meno che quest’ultima

non sia diventata un obiettivo militare.

Principio 2) Applicazione della legge sui conflitti armati all'ambiente:

La legge sui conflitti armati, compresi i principi e le regole in materia di distinzione,

proporzionalità, necessità militari e precauzioni di attacco, deve essere applicata

all’ambiente naturale, per garantirne la protezione.

Principio 3) Considerazioni ambientali:

Le considerazioni ambientali devono essere prese in considerazione quando si applicano

il principio di proporzionalità e le norme sulla necessità militare.

Principio 4) Divieto di rappresaglie:

Sono vietati attacchi contro l'ambiente naturale a titolo di rappresaglia.

Principio 5) Zone protette:

Un’area di grande importanza ambientale e culturale designata di comune accordo come

zona protetta deve essere protetta da qualsiasi attacco, purché non contenga un obiettivo

militare.

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Nel corso della stessa sessione, la Commissione ha anche chiesto ai singoli Stati di

fornirle informazioni dettagliate sulla giurisprudenza nazionale relativa all’interpretazione del

conflitto armato internazionale o non internazionale. Nello specifico, la Commissione ha

sollecitato la condivisione di informazioni relative a trattati, compresi quelli regionali o

bilaterali pertinenti, alla legislazione nazionale sull’argomento, compresa quella attuativa dei

suddetti trattati, e sulla giurisprudenza in cui il diritto ambientale nazionale o internazionale

è stato applicato alle controversie generatesi nel corso dei conflitti armati. La Commissione

ha poi invitato i singoli Stati a condividere eventuali strumenti pensati per proteggere

l’ambiente in relazione ai conflitti armati, come legislazione e regolamenti nazionali, manuali

militari, procedure operative standard, regole di ingaggio o accordi sullo status delle forze

applicabili durante le operazioni internazionali, ed eventuali politiche di gestione ambientale

legate alle attività di difesa.

Nel corso della 68esima sessione (2016), la Commissione ha analizzato il terzo

rapporto di Jacobsson (A/CN.4/700), incentrato sull’individuazione di norme utili nella

gestione delle situazioni pre e postbelliche. Anche in questo caso, la relatrice ha indicato tre

progetti di principi relativi alle misure preventive, cinque riguardanti la fase postbellica, e uno

riguardante i diritti delle popolazioni indigene, ma il Comitato di redazione della

Commissione ne ha presi in considerazione solamente alcuni.

Nel corso della 69esima sessione (2017), la Commissione ha istituito un gruppo di

lavoro, presieduto da Marcelo Vázquez-Bermúdez, cui ha assegnato il compito di valutare

la pertinenza dei suddetti principi, e ha chiesto a una nuova relatrice, la sig.ra Marja Lehto,

di fare il punto sulla situazione della protezione dell’ambiente in relazione ai conflitti armati.

Nel corso della 70esima sessione (2018), la Commissione, dopo aver analizzato il

rapporto del comitato di lavoro incaricato, ha deciso di adottare i progetti di principi 4, 6, 7,

8, 14, 15, 16, 17 e 18 preselezionati nel 201664. Ancora, la Commissione ha commentato il

rapporto Lehto (A/CN.4/720), incentrato sulla protezione dell’ambiente ai sensi della legge

sull’occupazione; protezione dell'ambiente in situazioni di occupazione attraverso il diritto

internazionale dei diritti umani; e il ruolo del diritto ambientale internazionale nelle situazioni

di occupazione.

64 “Protezione dell'ambiente in relazione ai conflitti armati”, Documento n. A/CN.4/L.876, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Commissione per il Diritto Internazionale, 68° Sessione, Ginevra, 2 maggio – 10 giugno, 4 luglio- 12 agosto 2016.

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Il nuovo documento approvato dalla Commissione prescrive quanto segue:

Principio 465) Misure per migliorare la protezione dell’ambiente:

Gli Stati dovrebbero adottare, conformemente ai loro obblighi ai sensi del diritto

internazionale, misure legislative, amministrative, giudiziarie e altre misure efficaci per

rafforzare la protezione dell’ambiente in relazione ai conflitti armati.

Inoltre, gli Stati dovrebbero adottare ulteriori misure, a seconda delle necessità, per

migliorare la protezione dell’ambiente in relazione ai conflitti armati.

Principio 6) Protezione dell’ambiente delle popolazioni indigene:

Gli Stati dovrebbero adottare le misure appropriate, in caso di conflitto armato, per

proteggere l’ambiente dei territori in cui vivono le popolazioni indigene.

Dopo un conflitto armato che ha avuto un impatto particolarmente negativo sull’ambiente

dei territori in cui vivono le popolazioni indigene, gli Stati dovrebbero avviare consultazioni

e collaborazioni con le popolazioni indigene interessate, attraverso procedure appropriate

e in particolare appoggiandosi alle istituzioni rappresentative di queste ultime, al fine di

definire misure correttive volte a limitare l’impatto dei danni.

Principio 7) Accordi relativi alla presenza di forze militari in relazione a conflitti armati:

Gli Stati e le organizzazioni internazionali dovrebbero, se del caso, includere disposizioni

sulla protezione ambientale negli accordi riguardanti la presenza di forze militari in

relazione a conflitti armati. Tali disposizioni possono comprendere misure preventive,

valutazioni di impatto, misure di ripristino e bonifica.

Principio 8) Operazioni di pace:

Gli Stati e le organizzazioni internazionali che partecipano alle operazioni di pace in

relazione ai conflitti armati devono considerare l'impatto di tali operazioni sull’ambiente e

adottare le misure appropriate per prevenire, mitigare e porre rimedio alle conseguenze

ambientali negative degli stessi.

65 I principi 4, 6, 7 e 8 sono inseriti in una ipotetica prima parte di trattato relativa ai Principi Generali in materia di protezione ambientale.

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Principio 1466) Processi di pace:

Le parti coinvolte in un conflitto armato dovrebbero, nell’ambito del processo di pace,

affrontare le questioni relative al ripristino e alla protezione dell’ambiente danneggiato dal

conflitto.

Le organizzazioni internazionali competenti dovrebbero, se possibile, facilitare questo

processo.

Principio 15) Valutazioni ambientali postbelliche e conseguenti misure correttive:

La cooperazione tra attori pertinenti, comprese le organizzazioni internazionali, è

incoraggiata per quanto riguarda le valutazioni ambientali postbelliche e le conseguenti

misure correttive da applicare.

Principio 16) Residui di guerra:

Dopo un conflitto armato, le parti in conflitto devono impegnarsi a rimuovere o a rendere

innocui i residui di guerra tossici e pericolosi che si trovano sotto la loro giurisdizione o il

loro controllo e che causano o rischiano di provocare danni all’ambiente. L’applicabilità

di tali misure deve essere resa oggetto di specifiche norme di Diritto Internazionale.

Le parti si impegnano inoltre a raggiungere un accordo, tra di loro e, se del caso, con altri

Stati e con organizzazioni internazionali, in merito all’assistenza tecnica e materiale,

compreso, in circostanze appropriate, l’avvio di operazioni congiunte per rimuovere o

rendere innocui scarti tossici o altri residui di guerra considerati pericolosi.

I due precedenti paragrafi non pregiudicano l’obbligo, ai sensi del Diritto Internazionale,

di cancellare, rimuovere, distruggere o mantenere campi minati, aree minate, trappole

esplosive, ordigni esplosivi e altri dispositivi.

Principio 17) Residui di guerra in mare:

Gli Stati e le pertinenti organizzazioni internazionali dovrebbero cooperare per garantire

che i residui di guerra in mare non costituiscano un pericolo per l’ambiente.

66 I principi 14, 15, 16, 17 e 18 sono inseriti in una ipotetica terza parte di trattato relativa ai Principi applicabili alla conclusione di un conflitto armato. E’ interessante notare come nessuno dei principi proposti per la seconda parte del trattato, quella relativa ai principi applicabili durante un conflitto armato, sia stato preso in considerazione.

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Principio 18) Concessione e condivisione dell’accesso alle informazioni:

Per facilitare l’implementazione di misure correttive dopo un conflitto armato, gli Stati e le

organizzazioni internazionali pertinenti devono concedere e condividere l’accesso alle

informazioni pertinenti conformemente ai loro obblighi ai sensi del Diritto Internazionale.

Nulla nel presente progetto di principio obbliga uno Stato o un’organizzazione

internazionale a condividere o concedere l’accesso alle informazioni vitali per la sua

difesa o sicurezza nazionale. Tuttavia, tale Stato o organizzazione internazionale hanno

l’obbligo di cooperare in buona fede al fine di fornire quante più informazioni possibili in

tali circostanze.

Infine, nel corso della 71esima sessione (2019), la Commissione ha analizzato la

seconda relazione di Lehto (A / CN.4 / 728) sulla protezione dell’ambiente nei conflitti armati

non internazionali e questioni relative alla responsabilità e alla responsabilità per danni

ambientali. A seguito del dibattito in Aula, la Commissione ha deciso di sottoporre i sette

progetti di principi, proposti dalla relatrice speciale nella sua seconda relazione, al comitato

di redazione. A seguito di un dibattito durato sei anni, la Commissione ha quindi adottato 28

progetti di principi sulla protezione dell'ambiente in relazione ai conflitti armati, e li ha poi

trasmessi, attraverso il Segretario Generale, ai governi, alle organizzazioni internazionali,

compreso l’Unità delle Nazioni Unite che si occupa di ambiente, invitandoli a formulare

commenti e osservazioni entro il 1° dicembre 2020.

I principi contenuti nella seconda relazione di Lehto sono:

1) Principi relativi alla protezione delle risorse naturali in relazione ai conflitti armati:

13 ter, saccheggio: Il saccheggio delle risorse naturali è vietato.

6 bis, adeguata valutazione (della responsabilità e dell’operato) delle aziende: Gli

Stati dovrebbero adottare le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire

che le società registrate o con sede o centro di attività nella loro giurisdizione esercitino

le dovute valutazioni e prendano le necessarie precauzioni riguardo alla protezione

della salute umana e dell’ambiente quando operano in aree di conflitto armato o in

situazioni di conflitto. Ciò include la garanzia che le risorse naturali vengano acquistate

e ottenute in modo equo e sostenibile per l’ambiente.

14 bis, trattamento degli sfollati: Gli Stati ed eventuali altri attori pertinenti dovrebbero

adottare le misure appropriate per prevenire e mitigare il degrado ambientale nelle

aree in cui si trovano le persone sfollate a causa di conflitti, fornendo al contempo

assistenza a ai rifugiati e alle comunità locali.

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2) Principi relativi alla responsabilità e agli obblighi degli attori non statali:

13 quinques, responsabilità aziendale:

1) Gli Stati dovrebbero adottare le misure legislative e di altro tipo necessarie per

garantire che le società registrate o con sede o centro di attività nella loro

giurisdizione possano essere ritenute responsabili per i danni causati alla salute

umana e all’ambiente in aree di conflitto armato o in situazioni postbelliche. A

tal fine, gli Stati dovrebbero prevedere procedure e rimedi adeguati ed efficaci, e

metterli a disposizione anche delle vittime delle azioni societarie.

2) Gli Stati dovrebbero adottare misure legislative e di altro tipo necessarie per

garantire che, in caso di danni causati alla salute umana e all’ambiente in aree di

conflitto armato o in situazioni postbelliche, la responsabilità possa essere attribuita

alle entità aziendali con controllo di fatto delle operazioni. Le società madri devono

essere ritenute responsabili delle pratiche di accertamento e verifica che di

accertare che le loro filiali esercitino adeguate valutazioni delle loro responsabilità

e del loro operato.

3) Principi relativi alle responsabilità e agli obblighi degli stati

13 quater, responsabilità e obblighi:

1) Questi progetti di principi lasciano impregiudicate le norme esistenti di diritto

internazionale in materia di responsabilità e obblighi degli Stati.

2) Quando la fonte del danno ambientale nei conflitti armati non è identificata o la parte

responsabile non è in grado di offrire una riparazione per il danno provocato, gli

Stati dovrebbero adottare le misure appropriate per garantire che il danno non

rimanga non compensato e prendere in considerazione l’istituzione di fondi speciali

di compensazione o altri meccanismi di riparazione collettiva a tale scopo.

3) I danni all’ambiente soggetti a riparazione comprendono i danni ai servizi

ecosistemici, se esistenti, indipendentemente dal fatto che i beni e i servizi

danneggiati fossero stati commercializzati o meno.

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4) Questioni aggiuntive: tecniche di alterazione ambientale e Clausola Martens67

13 bis, tecniche di alterazione ambientale: È vietato l'uso militare o qualsiasi altro uso

ostile di tecniche di alterazione ambientale che abbiano effetti diffusi, duraturi o gravi

in quanto mezzi che possono distruggere, danneggiare o lesionare un altro Stato.

8 bis, Clausola Martens: Nei casi non coperti da accordi internazionali, l’ambiente

rimane sotto la protezione e l’autorità dei principi del diritto internazionale derivati dalle

consuetudini consolidate, i principi dell’umanità e i dettami della coscienza pubblica

nell’interesse delle generazioni presenti e future.

L’interesse delle Nazioni Unite ad andare avanti nella definizione di un nuovo Trattato

che regoli in maniera più chiara ed efficace la protezione dell’ambiente in relazione ai conflitti

armati è evidente. Tuttavia, si tratta di un processo molto lento e difficoltoso, che al momento

le Nazioni Unite stanno cercando di portare avanti nella maniera più trasparente e inclusiva

possibile.

67 La Clausola Martens, introdotta nel preambolo della Convenzione dell’Aia (1899) sulle leggi e gli usi della guerra terrestre, prende il nome da una dichiarazione letta da Friedrich Martens, il delegato russo alla Conferenza di Pace dell’Aia del 1899. La clausola stabilisce che “In attesa che venga promulgato un Codice più completo delle leggi relative alla guerra […] nei casi non compresi nelle disposizioni regolamentari […] le popolazioni ed i belligeranti rimangono sotto la tutela e sotto l’imperio dei principi del diritto delle genti, quali risultano dagli usi stabiliti fra Nazioni civili, dalle leggi dell’umanità e dalle esigenze della pubblica coscienza”.

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PARTE 3: CASI DI STUDIO

Introduzione

I conflitti armati provocano danni significativi all’ambiente, alle risorse naturali presenti

nello stesso, e alle comunità che vivono nelle zone interessate dal conflitto. I danni

ambientali generati nel corso di una guerra, diretti o indiretti che siano, associati o meno

all’annientamento delle istituzioni, provocano conseguenze che possono minacciare la

salute, i mezzi di sostentamento e la sicurezza delle comunità interessate dal conflitto,

andando quindi anche a minare la costruzione e il consolidamento della pace postbellica68.

Del resto, è difficile pensare di ripristinare un equilibrio di pace sostenibile se le risorse

naturali necessarie al sostentamento della comunità locale sono state danneggiate,

degradate in maniera irreparabile o, ancora peggio, distrutte.

Questa parte della ricerca si pone l’obiettivo di mettere in evidenza, attraverso l’analisi

di casi specifici, i diversi tipi di impatto che una guerra può avere sull’ambiente circostante.

I casi di studio selezionati sono stati scelti per illustrare il problema da punti di vista diversi.

I primi due, Guerra del Vietnam e Guerra del Golfo, analizzano l’impatto del conflitto sui

territori in tutta la sua durezza. Il terzo, il bombardamento NATO durante la Campagna del

Kosovo, aggiunge l’elemento opinione pubblica nella discussione, dimostrando come una

maggiore attenzione verso l’impatto della guerra sull’ambiente possa essere ottenuta

aumentando la consapevolezza sull’entità del danno e le sue conseguenze. Il quarto, la

guerra civile in Sudan, illustra come, in talune circostante, il degrado ambientale porti alla

guerra che, a sua volta, lo intensifica. Infine, il quinto e il sesto caso analizzano le

conseguenze dei confitti su specifiche risorse naturali, suolo e acqua, e sono stati scelti per

dimostrare come solo adottando questo tipo di prospettiva sia possibile elaborare algoritmi

di calcolo speditivo in grado di anticipare l’impatto di un conflitto sull’ecosistema.

La lista dei casi presentati non è ne’ completa ne’ esaustiva. L’obiettivo di questa

selezione è quello di contribuire a stimolare un dibattito tematico sia relativamente ai singoli

conflitti, sia relativamente ai danni più gravi e diffusi che questi ultimi possono generare, in

particolare sull’equilibrio e la biodiversità del suolo e delle risorse idriche.

68 D. Jensen et al, “Protecting the environment during armed conflict. An inventory and analysis of international law”. UNEP, novembre 2009.

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Caso 1: La Guerra del Vietnam

Introduzione

La Guerra del Vietnam (1955-75) è passata alla storia anche per l’impatto devastante

avuto sul territorio, ed è forse il primo conflitto che ha portato l’opinione pubblica in tutto il

mondo ad interrogarsi un po’ di più sul reale impatto ambientale delle guerre69.

Arthur H. Westing, un silvicoltore e professore di botanica, è lo studioso che meglio di

tutti ha approfondito le conseguenze sulla natura dell’intervento statunitense in Vietnam,

dove ha effettuato diversi viaggi di ricerca tra il 1969 e il 1973, le cui scoperte sono

documentate in una copiosa letteratura. A differenza di altri ricercatori, Westing non si è

concentrato solo sullo studio dell’impatto dei defolianti. Anzi, il suo inquadramento variegato

e complessivo degli effetti dei conflitti sull’ambiente è anche diventato il punto di riferimento

per altri studiosi che, con le loro ricerche, hanno deciso di approfondire l’analisi di queste

tematiche.

Relativamente al Vietnam, Westing ha analizzato l’impatto ambientale di diverse

categorie di armi. La prima fa riferimento a bombe, proiettili e altri strumenti esplosivi70.

La seconda agli agenti chimici, la terza all’impatto dell’utilizzo degli “Aratri Romani”.

L’impatto degli esplosivi

Designando la maggior parte delle parti rurali del Vietnam del Sud come "zone a fuoco

libero", gli Stati Uniti le hanno sottoposte a bombardamenti di quantità senza precedenti di

munizioni altamente esplosive. La maggior parte di queste munizioni fu di gran lunga spesa

per scopi di "molestie e interdizioni", non necessariamente indirizzate verso un obiettivo

particolare71. Quantità minori di munizioni ad alta esplosività vennero invece indirizzate

verso obiettivi specifici, vale a dire missioni di combattimento e distruzione delle colture. Si

stima che, tra il 1965 e il 1973, gli Stati Uniti abbiano utilizzato in Vietnam circa 11 milioni di

bombe (di circa 241 kg) e altri 217 milioni di proiettili di artiglieria (di circa 13 kg). Il peso

combinato di queste munizioni ammonterebbe quindi a circa 7.000 milioni di chilogrammi.

Se gli attacchi americani si fossero concentrati sul tutto il territorio in maniera uniforme, circa

412 kg di esplosivo si sarebbero depositati su ogni ettaro di territorio. Tuttavia, i

bombardamenti riguardarono circa un terzo del paese, provocando concertazioni di

esplosivo molto più elevate.

69 A. H. Westing, "The Environmental Aftermath of Warfare in Viet Nam," Natural Resources Journal, Vol. 23, No. 2, April 1983, pp. 365-390.

70 A. H. Westing, “Environmental Consequences of the Second Indochina War: A Case Study”, Ambio, Vol. 4, No. 5/6,

War and Environment: A Special Issue, 1975, pp. 216-222. 71 Ibid.

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In una regione occupata da foreste, la detonazione iniziale di munizioni esplosive è

destinata a distruggere una quantità significativa di animali selvatici e alberi nelle sue

immediate vicinanze per un processo di esplosione e frammentazione. I danni effettivi, però,

si estendono anche al di là di questa area ristretta, a causa dell’impatto dei frammenti volanti

di metallo. L’impatto di resti di esplosivo sulle piante più essere devastante, perché il punto

di rottura si trasforma in un sito perfetto per l’attecchimento di funghi in grado di attivare il

processo di decomposizione della pianta interessata. Soprattutto ai tropici, questo processo

può essere molto rapido e finire, nel lungo periodo, col distruggere intere foreste.

Un secondo effetto dell’impatto degli esplosivi sul territorio è legato ai crateri che questi

ultimi si lasciano alle spalle. Questi incavi, che sono destinati a mantenere la loro integrità

topografica per molti decenni, si trasformano in un problema di natura ecologica quando si

concentrano su un’area ristretta. I crateri che si sono formati nel Vietnam del Sud hanno

una superficie combinata di circa 148.000 ettari72 e un volume combinato di 2.000 milioni

metri cubi73. Una così elevata concentrazione ha avuto un effetto catastrofico

sull’ecosistema vegetale, per l’impatto negativo sul modello locale di drenaggio, sulla falda

acquifera e per l’accelerazione del processo di erosione del suolo innescato74.

72 Si tratta all’incirca dell'1 percento della superficie totale del paese. 73 Corrispondenti alla quantità di dislocazione del suolo. 74 Westing A.H., “Environmental Consequences of the Second Indochina War: A Case Study”, in Machlis G., Hanson T.,

Špirić Z., McKendry J. (eds), Warfare Ecology. NATO Science for Peace and Security Series C: Environmental Security,

2001, Springer, Dordrecht.

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Figura 1: Mappa del Vietnam del sud che mostra le zone militari e il grado di distruzione durante la

guerra del 1955-75. (Fonte: Westing A. H., 1975, op. cit.).

L’impatto degli agenti chimici – erbicidi

Circa 1,7 milioni di ettari del Vietnam del Sud, vale a dire un decimo della superficie

totale del paese, sono stati trattati con erbicidi con i quali, l’esercito degli Stati Uniti, ha

cercato di raggiungere tre obiettivi: distruggere il manto forestale, i campi coltivabili, e

decimare le colture industriali75.

L’analisi delle conseguenze ambientali di un attacco con erbicidi varia a seconda sia

del tipo di vegetazione che viene colpita, sia dal numero di volte per cui l’attacco è ripetuto.

Un singolo attacco erbicida che colpisce una fitta foresta di altopiani si traduce in

un’escissione di foglie (e anche di fiori e frutti) nell’arco di due o tre settimane.

75 Ibid.

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Gli alberi sopravvissuti, in genere, restano spogli fino all’inizio della stagione delle piogge

successiva. Si stima che solo il 10 percento degli alberi venga completamente ucciso da

una sola irrorazione di erbicidi. La mortalità sale al 25 per cento in seguito a un secondo

attacco, al 50 dopo il terzo, e all’85/100 per cento al quarto.

Un’altra importante considerazione da fare a fronte di un attacco erbicida, soprattutto

in una foresta tropicale, riguarda l’effetto delle numerose foglie cadute. Queste ultime,

ricchissime di sostanze nutritive, finiscono col decomporsi rapidamente ma le loro proprietà

si perdono a causa del danneggiamento subito dal suolo forestale, che ne riduce la capacità

di riciclo. Questa dinamica crea un impoverimento importante dell’ecosistema totale, e il suo

ripristino naturale può richiedere anni, se non decenni, per essere completato.

Meno evidente, ma altrettanto importante, è l’impatto degli attacchi erbicidi. Ciò che

all'inizio potrebbe non essere così evidente è che gli attacchi con erbicidi (in particolare se

ripetuti) hanno conseguenze negative anche per la fauna degli ecosistemi colpiti. Questo è

vero anche se gli erbicidi utilizzati non sono di per sé tossici per gli animali. Il problema

dipende dal fatto che la fauna selvatica non è in grado di sopravvivere senza cibo o riparo,

entrambi derivati in gran parte, direttamente o indirettamente, dalla vegetazione dell’area.

Relativamente agli attacchi sui siti agricoli, va ricordato che, sebbene le risaie del Sud

del paese siano state in gran parte risparmiate, circa 180.000 ettari dei terreni coltivati son

stati sottoposti a uno o più attacchi con erbicidi. Ebbene, le colture direttamente colpite dagli

agenti chimici sono andate distrutte, e i campi hanno registrato problemi di fertilità di lungo

periodo.

L’impatto dei trattori agricoli (“Aratri romani”)

I cosiddetti “Aratri romani” sono stati impiegati per la rimozione diffusa delle foreste, la

distruzione delle colture e per radere al suolo frazioni e villaggi. Inizialmente impiegati per

ripulire i bordi delle strade al fine di scoraggiare gli agguati, nel 1968 questi mezzi pesanti

furono sfruttati dagli americani per radere al suolo intere foreste creando uno svantaggio

militare notevole per il nemico.

Quello che però non è stato considerato è che l’impatto ecologico della rimozione della

vegetazione, con conseguente esposizione di migliaia di ettari di suolo, è stata devastante,

in particolare in una regione con terreno collinare e caratterizzata da forti piogge regolari.

Un terreno che resta esposto troppo a lungo agli agenti atmosferici non solo perde gran

parte dei suoi nutrienti vitali, ma finisce col distruggere l’habitat naturale della fauna selvatica

locale. Ancora, il territorio in questione è maggiormente esposto alle conseguenze negative

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delle inondazioni tipiche della stagione dei monsoni. Anche in questo caso, il

ripristino dell’equilibrio precedente all’intervento può richiedere decenni.

Caso 2: La Guerra del Golfo

Introduzione

Durante l'invasione e l'occupazione irachena del Kuwait (1990-1991), quest’ultimo subì

uno dei peggiori disastri ambientali causati dall’uomo di tutti i tempi76. Mezzi pesanti di vario

tipo si spostarono attraverso il deserto distruggendo il fogliame e lacerando il suolo,

sconvolgendo quindi gli habitat terrestri. Lungo centinaia di chilometri vennero scavati

fossati per costruire rifugi improvvisati. Enormi quantità di rifiuti solidi, semi-solidi e liquidi

furono semplicemente abbandonati, causando una crescita esponenziale dei tassi di

inquinamento terrestre77. Ancora, milioni di mine anti-uomo vennero posizionate su tutto il

territorio78.

A partire da febbraio 1991, a intervalli di dieci-quindici minuti, le truppe irachene

iniziarono a fare esplodere la maggior parte dei pozzi petroliferi del Kuwait79, causando la

fuoriuscita di grandi quantità di petrolio sulla superficie terrestre. Seguendo le depressioni

naturali della superficie terrestre, il flusso del petrolio ha finito col formare centinaia di "laghi

petroliferi". Questi laghi, di varie dimensioni, hanno finito col penetrare nel suolo,

posizionandosi a diverse profondità80. L’acqua salata utilizzata per contenere gli incendi

derivanti dalle esplosioni ha a sua volta contribuito a compromettere l’equilibrio ecologico

del suolo, spingendo il petrolio in profondità. In generale, l’impatto di queste attività su

piante, fauna selvatica, uccelli migratori, movimento della sabbia, qualità dell'acqua e

salvaguardia della biodiversità dell’area resta incalcolabile81.

76 M. N. Alaa El-Din, A. H. Dashti, A. S. Abdu e H. A. Nasrallah, "Environmental Impacts of Burned Oil Wells and Military Operations on Some Desert Plants and Soils of Kuwait," in Proceedings of the International Conference on the Effects of the Iraqi Aggression on the State of Kuwait, Vol. III: Environmental and Health Effects and Remediation, Kuwait University, 1996.

77 S. Omar, E. Briskey, R. Misak e A. Asem, “The Gulf War impact on the terrestrial environment of Kuwait: An overview”, in J. Austin e C. Bruch (Eds.), The Environmental Consequences of War: Legal, Economic, and Scientific Perspectives, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 316-337.

78 G. Karrar, M. A. Mian e M. N. Alsa El-Din, A Rapid Assessment of the Impacts of the Iraqi-Kuwait Conflict on Terrestrial Ecosystems, Part Two: The State of Kuwait, Bahrain, UNEP/ROWA, 1991.

79 Si tratta di 1,164 pozzi petroliferi, responsabili del 91,8 per cento della produzione nazionale. 80 N. Al-Awadhi, M. T. Balba, K. Puskas, R. Al-Daher, H. Tsuji, H. Cheno, K. Tsuji, M. Iwabuchi e and S. Kumamoto,

“Remediation and Rehabilitation of Oil-Contaminated Lake Beds in the Kuwait Desert,” J. Aridland Studies/Special Issue of Desert Technology III55(1995), pp. 195-98.

81 S. Omar et al, op. cit.

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Inquinamento del suolo

Durante la Guerra del Golfo, si stima che siano stati rilasciati oltre 60 milioni di barili di

petrolio, che a loro volta avrebbero formato 246 laghi petroliferi estesi per una superficie di

oltre 49 km2. Questo versamento di petrolio avrebbe contaminato circa 40 milioni di

tonnellate di terreno82.

Il vento ha contributo a trasportare i residui di petrolio bruciato e non su una superficie

complessiva di circa 100mila ettari. Una serie di analisi condotte sul campo ha messo in

luce come le particelle di terreno contaminate dal petrolio si siano aggregate insieme,

mentre quelle contaminate da residui trasportati per via aerea non hanno seguito lo stesso

processo. Ancora, la contaminazione ha reso i terreni sia idrofobici, ovvero incapaci di

assorbire acqua, sia anaerobici, vale a dire incapaci di ospitare sia le radici delle piante sia

gli organismi che riescono a vivere senza ossigeno libero, rendendoli inadatti alla crescita

delle piante83.

L’impatto delle trincee, successivamente riempite di petrolio per scoraggiare i

movimenti di liberazione con la minaccia di dare fuoco a queste ultime, resta incalcolabile,

soprattutto per quel che riguarda gli effetti del combustibile trasportato dall’acqua piovana

in profondità.

Infine, è stato notato come la formazione di dune di sabbia sia aumentata molto

rapidamente dopo l’invasione irachena. Distrutti gli strati protettivi che permettevano a un

suolo già fragile di rimanere compatto, la sabbia si è ritrovata esposta alla forza del vento,

tant’è che le circa 1.300 dune che si trovano in Kuwait sono quasi tutte concentrate nell’area

più battuta negli anni della Guerra84.

Impatto della guerra sulla vegetazione, sulla fauna selvatica e sulle aree protette

La collocazione di mine, la costruzione di bunker, l’impatto delle “nuvole di petrolio”, la

formazione di laghi di petrolio e la libera circolazione di veicoli pesanti durante la guerra

hanno avuto un impatto drammatico sulla vegetazione del Kuwait. Gli effetti più devastanti

si registrano a livello di struttura della vegetazione e di composizione chimica della stessa.

Ad esempio, concentrazioni molto elevate di metalli pesanti sono state rinvenute nelle

piante che sono state ricoperte dal petrolio o dalle nuvole di petrolio. Quando

82 A. Y. Al-Ghunaim, Devastating Oil Wells as Revealed by Iraqi Documents, Center for Research and Studies of Kuwait, 1997.

83 S. Zaman, “Impact of the Gulf War on Kuwait's Desert Flora and Soil”, atti della International Conference on Desert Development, Kuwait, 23-26 marzo 1998.

84 F. El-Baz, Kuwait Desert after Liberation, Boston University Center for Remote Sensing, 1994.

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i primi laghi di greggio sono stati svuotati, sono state rinvenute le carcasse di centinaia di

uccelli, avvicinatisi ai laghi di petrolio convinti che fossero bacini di acqua85.

Le conseguenze ecologiche a lungo termine di questa contaminazione profonda del

suolo e della vegetazione non sono ancora chiare. Quel che è certo è che i tempi di ripristino

potrebbero essere lunghissimi, visto che l’erosione del suolo e l’aumento della

concentrazione di sabbia libera potrebbero ulteriormente rallentare la naturale germinazione

dei semi e, di conseguenza, la crescita delle piante86.

Esistono in Kuwait numerose aree protette, come il Parco Nazionale del Kuwait e le

Riserve di Jal-Az-Zor, Jahra e Doha. Queste aree sono state istituite nel periodo prebellico

per proteggere specie animali selvatiche locali e migratorie, nonché gli habitat naturali più

delicati. La Guerra del Golfo e la conseguente parziale distruzione di queste aree hanno

comportato la perdita completa di anni di sforzi fatti per tutelare e conservare la vegetazione

e la fauna selvatica in Kuwait, oltre che la perdita di infrastrutture importanti dedicate alla

ricerca in questo campo. Dopo il conflitto, il governo locale ha investito almeno sette anni

nelle attività di ripristino del Parco87.

Infine, un’altra conseguenza dei conflitti di cui si è iniziato a parlare a partire dalla

Guerra del Golfo è quella della “trascuratezza forzata” delle risorse, ovvero dei danni

derivanti dall’impossibilità di potersi occupare delle risorse naturali presenti sul territorio. Ad

esempio, piante che necessitavano di una irrigazione regolare sono state trascurate e sono

morte, andando a compromettere in maniera ancora più profonda l’equilibrio ecologico del

paese.

Impatto sulle risorse idriche

Le informazioni sull'impatto dell'inquinamento da idrocarburi nelle acque sotterranee

sono piuttosto scarse. Gli specialisti del campo confermano come l’inquinamento delle

risorse idriche potrebbe essere una conseguenza delle infiltrazioni di petrolio nel sottosuolo,

dei resti di depositi di petrolio bruciati in superficie e trasportati all’interno del terreno

dall’acqua piovana, e della fuoriuscita di petrolio dal sottosuolo a seguito della distruzione

dei pozzi. Una ricerca ha dimostrato che i livelli relativamente elevati di contaminazione

dell’acqua nel periodo tra gennaio e giugno 1992 sono stati causati dalla crescita

esponenziale del tasso di contaminazione della superficie e del sottosuolo, dalle condizioni

85 F. Alsdirawi, “The Negative Impact of the Iraqi Invasion on Kuwait's Protected Areas”, articolo presentato al Fourth World Congress on National Parks and Protected Areas, 1991.

86 A. A. Dashti, “Environmental Impacts of Burned Oil Wells and Military Operations on Some Desert Plants and Soils of Kuwait”, tesi preparata per il programma Desert and Arid Zones Sciences dell’Arabian Gulf University, 1993.

87 S. Omar et al, op. cit.

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idriche locali e dal livello relativamente più basso di assorbimento dei terreni vicini ai pozzi

petroliferi rispetto a quelli in prossimità della falda88.

Mine e altri residui di guerra

I campi minati strategici iracheni coprivano una superficie che dal Golfo Persico

arrivava fino al Wadi Al-Batin, nell’estremità occidentale del paese. Le ricerche condotte fino

ad oggi hanno rilevato che le mine sono state posizionate a diverse profondità, ma gli effetti

sull’ambiente di questa esposizione di lungo periodo agli agenti contenuti nelle mine non

sono ancora stati studiati in maniera approfondita.

Figura 2: I campi minati iracheni in Kuwait durante la Guerra del Golfo. (Fonte: Rick Atkinson,

Crusade: The Untold Story of the Persian Gulf War. Copyright: Houghton Mifflin Company 1993.

Anche la rimozione, a conflitto concluso, dell’elevato numero di camion, carri armati

e altre attrezzature belliche ha provocato numerosi danni all’ambiente. Molti veicoli

danneggiati sono stati accatastati in aree appositamente predisposte. Infine, l’elevato

numero di munizioni anticarro usate dalle truppe alleate durante il conflitto ha creato un

88 Ibid.

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problema di accumulo di uranio impoverito e di rischi per la popolazione locale derivanti

dall’esposizione allo stesso89.

Ripristino e ricostruzione

Nonostante, subito dopo la guerra, il governo del Kuwait abbia adottato con grande

rapidità misure volte a ripristinare la piena funzionalità del comparto petrolifero e a rimuovere

i residui bellici dal deserto, resta ancora tantissimo da fare per recuperare il pieno equilibrio

naturale dell’area. In particolare, gli esperti del settore suggeriscono di prestare attenzione

soprattutto a:

Impatto a lungo termine della contaminazione da petrolio nel suolo, e dell’effetto della

stessa sul tasso di compattazione;

Effetto dell’esposizione prolungata a radiazioni da uranio impoverito;

Impatto sulla salute dell’uomo delle particelle inquinanti contenute nelle “nuvole di

petrolio”;

Entità dell’assorbimento da parte delle piante di agenti inquinanti e eventuali ripercussioni

sulla salute degli esseri viventi attraverso la catena alimentare;

Studi specifici per provare a quantificare l’impatto a lungo termine delle fuoriuscite di

petrolio e della detonazione di mine e altri ordigni esplosivi sul territorio;

Studi per individuare nuove specie vegetali per il paese, con ecotipi adattati e specifici

requisiti e strategie di germinazione e crescita sul territorio;

Particolare attenzione dovrebbe essere riservata alla riabilitazione su larga scala dei

terreni, per ripristinare l’ecosistema originario, anche in termini di fauna selvatica;

Infine, vanno trovate nuove strategie per monitorare e registrare in maniera regolare e

continuativa le infiltrazioni di petrolio nelle falde acquifere sotterranee.

Caso 3: La campagna del Kosovo e le accuse di terrorismo ambientale

Introduzione

Durante la guerra dei Balcani del 1999, l'intensità degli attacchi aerei, i bombardamenti

sulle strutture militari industriali, e il fortissimo interesse mediatico sul conflitto hanno creato

i presupposti per convincere l’opinione pubblica che la Guerra del Kosovo rappresentasse,

oltre che un disastro umanitario, una tragica catastrofe ambientale. Le immagini delle

raffinerie di petrolio Pancevo e Novi Sad in fiamme, quelle di tonnellate di sostanze chimiche

tossiche riversate nel Danubio, quelle dei bombardamenti di aree protette e degli

89 Ibid.

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spostamenti in massa di decine di migliaia di rifugiati in fuga hanno rapidamente creato la

necessità di condannare la guerra in corso anche per il suo impatto sull’ambiente.

Non è questo il contesto adatto per ripercorrere le ragioni che hanno portato sia

all’esplosione del conflitto sia all’intervento NATO nello stesso. Ciò che è essenziale per

questa analisi è ricordare come “la campagna condotta in Kosovo abbia visto reciproche

accuse di terrorismo ambientale avanzate da entrambe le parti coinvolte. È stato forse il

primo conflitto a sollevare denunce di violazione dell'ambiente in modo così sentito.

Dopo gli attacchi aerei delle forze NATO contro gli insediamenti industriali jugoslavi, la parte

colpita richiamò l'attenzione sui pericoli legati ai rischi di inquinamento, anche oltre confine,

dell'aria e delle acque (nel caso specifico, del Danubio). Ma la NATO sostenne che le

procedure di scelta degli obiettivi da colpire tenevano conto delle ripercussioni ambientali e

che quindi sarebbero state fatte con scrupolosa accuratezza”90.

Per quanto non potrà mai esistere una “guerra pulita”, il lavoro fatto da Undp in Kosovo

è stato fondamentale non solo per dimostrare che i danni ambientali durante un conflitto

possono essere drasticamente ridotti e che la comunità internazionale deve impegnarsi di

più per far sì che le comunità che abitano nei paesi colpiti da una guerra non soffrano anche

per i danni ambientali provocati dalla stessa. Per la comunità degli esperti di relazioni

internazionali, rapporti come quelli messi a punto da Undp, anche se meno tecnici rispetto

alla letteratura scientifica che analizza il problema dell’impatto della guerra sull’ecosistema

ambientale, sono essenziali sia per denunciare questo tipo di aggressione, sia per creare

una maggiore consapevolezza al riguardo, sia per dare l’esempio su come anche tutti i

conflitti futuri dovrebbero essere analizzati per poter disporre di una valutazione

complessiva dell’impatto degli stessi e, di conseguenza, permettere di procedere con

interventi mirati ed efficaci di pulizia, bonifica e ripristino91.

La guerra in Kosovo: la posta in gioco per l’ambiente

I danni causati dalla campagna in Kosovo possono essere classificati sia sulla base

degli obiettivi distrutti sia sulla base del tipo di armi utilizzate, e le analisi pubblicate

dall’UNEP seguono la stessa ripartizione.

Il primo rapporto (ottobre 1999), intitolato, “Il conflitto in Kosovo: ripercussioni

sull'ambiente e gli insediamenti umani”, prende in esame i danni ambientali provocati dalla

90 “I danni ambientali nei Balcani”, discorso di Pekka Haavisto a Padova, al convegno nell'ambito di Civitas 2001, tradotto in italiano da Osservatorio balcani e caucaso transeuropa, 01 maggio 2002, https://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/I-danni-ambientali-nei-Balcani-21126

91 Ibid.

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distruzione degli obiettivi militari, come impianti industriali e infrastrutture di altro tipo, in

particolare sui terreni coltivabili adiacenti alle zone colpite. Un secondo rapporto si è

concentrato sugli effetti della guerra nella zona del Danubio, un terzo su quelli sulla

biodiversità, un quarto sugli insediamenti umani, e un quinto sul problema dell’uranio

impoverito, e in particolare degli effetti dei bombardamenti condotti con bombe e proiettili

all’uranio impoverito (2001), dal titolo “Uranio impoverito in Kossovo: valutazione ambientale

dopo il conflitto”.

Per valutare in maniera più precisa l’impatto del conflitto sull’ambiente, però, è

necessario capire quale fosse lo status quo antecedente allo stesso.

Le condizioni ambientali nel Balcani prima e dopo la Guerra

L’inizio dello sviluppo industriale della ex Jugoslavia risale al 1950, ed è stato uno

sviluppo che ha innescato processi di sfruttamento intensivo di materie prime e risorse

energetiche, che ha profondamente danneggiato l’ambiente. Ecco quindi che il ventennio di

sviluppo della regione si è concluso con un significativo deterioramento della qualità delle

risorse idriche, con una diminuzione massiccia delle aree forestali, e con una crescita

esponenziale dei tassi di inquinamento dell’aria nelle città e nelle aree industriali.

Il rapporto Unep del 1999 ha identificato quattro “punti caldi” a livello ambientale:

Pancevo, Kragujevac, Novi Sad e Bor, tutte località situate in Serbia92.

La città di Pancevo possiede un polo industriale distribuito in un’area complessiva di 8

chilometri. Uno dei principali poli industriali della nazione, Pancevo era specializzata nella

produzione di fertilizzanti, e altri prodotti petrolchimici93. Il bombardamento dell’intero

complesso industriale negli anni della guerra ha comportato, oltre alla distruzione delle

stesse, il rilascio di una serie di sostanze particolarmente pericolose per l’ambiente. Si

stima che 2.100 tonnellate di dicloro etano si siano riversate sul suolo e nei canali di scolo,

e che circa 460 tonnellate di vinil cloruro monomero siano bruciate nell'aria.

Anche Kragujevac è stata bersagliata due volte durante il conflitto, e a seguito dei

bombardamenti diverse tonnellate di policloro bifenile si sono disperse sul territorio, e in

particolare sul fiume Morava, che continua a registrare tassi elevatissimi di inquinamento da

metalli pesanti. Durante gli attacchi NATO, il petrolio fuoriuscito dai trasformatori si è poi

bruciato ed è stato assorbito dal suolo circostante.

92 Unep, Unchs, The Kosovo Conflict. Consequences for the enviroment & human settlements; 1999. 93 F. Alessandrini, “Questione ambientale e guerra nei Balcani: danni sociali, ambientali e sanitari dei bombardamenti del

1999 attraverso la stampa locale yugoslava”, Tesi di Laurea, Università di Bologna, Facoltà di Scienze Politiche, Anno Accademico 2001/2002.

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Nei bombardamenti su Novi Sad sono andati distrutti, oltre agli impianti industriali

locali, tratti di ferrovia e alcuni ponti sul Danubio. Dopo l’attacco al complesso della raffineria

locale abbondanti perdite di petrolio si sono riversate sul suolo e nei corsi d’acqua

circostanti, compreso il Danubio.

I bombardamenti su Bor hanno preso di mira il deposito di petrolio di Jugopetrol, una

miniera di rame e una fonderia. Quando è stata colpita la centrale elettrica della miniera,

sono andati distrutti una serie di trasformatori contenenti petrolio, che si è quindi disperso

nell’ambiente. Infine, anche il bombardamento sistematico di abitazioni avvenuto in Kosovo

ha avuto conseguenze sull’ambiente. Lo United Nations Centre for Human Settlements

(UNCHS) stima che il numero di abitazioni danneggiate durante il conflitto possa aver

raggiunto le 120.000 unità, e che almeno un terzo di queste abitazioni non potrà mai essere

ricostruita. L’impatto della nuova dislocazione dei rifugiati è un altro problema molto grave

per quel che riguarda le pressioni sull’ambiente relative alla gestione delle risorse idriche e

dello smaltimento dei rifiuti.

Figura 3: Siti presi di mira dai bombardamenti. (Fonte: “The Kosovo Conflict. Consequences for the

Environment and Human Settlements”, UNDP, 1999).

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Il disastro del Danubio

Il Bacino del fiume Danubio copre 817.000 km2 di territorio e attraversa ben 17 paesi

dell’Europa Centrale. La biodiversità di un corso d’acqua così esteso può essere minacciata

sia dalle forme classiche dell’inquinamento industriale sia dalle conseguenze dei

bombardamenti.

Il rapporto Unep del 1999 definisce i danni subiti dal Danubio nel corso della

Campagna del Kosovo come “ingenti”, rifiutandosi quindi di adottare la dicitura di “catastrofe

ecologica”. Tuttavia, la ricerca conferma oggi che nel corso della suddetta campagna il

Danubio ha registrato danni di natura ambientale potenzialmente irreparabili94. “Quando il

petrolchimico di Pancevo è stato bombardato, più di 1.000 tonnellate di etilene-dicloro sono

finite nel Danubio, oltre alle 50 tonnellate di petrolio giunte nell'acqua attraverso gli impianti

di trattamento delle acque di scarico che al momento non erano in funzione”95. Ancora, in

seguito all'impatto di alcune bombe sulla raffineria di Novi Sad, altre centinaia di tonnellate

di petrolio e derivati si sono incanalati nel fiume.

L’accumulazione di sostanze tossiche è altamente cancerogena, e ha comportato una

crescita esponenziale della mortalità della fauna ittica, con scomparsa di alghe e altri

microorganismi, il cui ripristino, hanno stimato gli esperti, potrebbe completarsi nell’arco di

almeno un decennio.

Il problema dell’uranio impoverito

Il problema dell’uranio impoverito nella guerra del Kosovo è descritto in maniera

impeccabile dal politico finlandese Pekka Haavisto nel suo discorso al convegno di Padova

di Civitas 200196.

L’uranio impoverito è un materiale a bassa radioattività ricavato dagli scarti dell'uranio

arricchito o come combustibile nelle centrali nucleari, o ancora nella produzione di armi

nucleari, ma con una densità che permette di conferire ai proiettili un altissimo potere di

penetrazione dei materiali, acciaio e cemento armato inclusi. Nel momento dell’impatto, il

proiettile si polverizza, spargendo polveri radioattive nell’aria e sul suolo. L’uranio impoverito

non è esplosivo, ma la polvere scaturita dall'impatto prende fuoco alle alte

temperature prodotte, rendendo il proiettile ancora più efficace. I

rischi di contaminazione da uranio impoverito sono legati nell’immediato all’ingestione di

94 F. Alessandrini, op. cit. 95 Ibid. 96 “I danni ambientali nei Balcani”, discorso di Pekka Haavisto, op. cit.

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terra contaminata, nel medio-lungo periodo all’inquinamento delle falde acquifere che

continua ad essere alimentato dai moltissimi proiettili che ancora oggi sono dispersi sul

territorio.

Come ha ricordato Haavisto, i possibili utilizzi dell'uranio impoverito erano noti all’esercito

americano fin dal 1940, ed è stato utilizzato per la prima volta durante la Guerra del Golfo

del 1991 dalle forze militari britanniche e statunitensi.

“Durante l'estate del 1999, l'Unep costituì un team di valutazione con l'intenzione di

analizzare proprio l'argomento uranio impoverito. In diversi siti bombardati durante il conflitto

in Kosovo furono fatte misurazioni preliminari sul tasso di radioattività, ma non risultò nulla

di sospetto. Il Team di valutazione concluse che non era necessario condurre ulteriori

ricerche, e che comunque esse non sarebbero state possibili senza ottenere maggiori

informazioni da parte della NATO”97.

Nel 2000 venne avviata una nuova “missione uranio impoverito”, cui parteciparono

agenzie delle Nazioni Unite e rappresentanti della NATO. “Il team visitò 11 siti colpiti da armi

all'uranio impoverito, e raccolse 355 campioni destinati ad analisi scientifica: includevano

249 campioni di terra e cemento, 46 di acqua, 36 botanici (erba, licheni, funghi, ecc.), 3

campioni di latte, 13 strisci, 3 “punte” (la parte di munizione all'uranio impoverito costituita

esclusivamente da tale sostanza) e 4 “jacket” (un'altra parte della munizione all'uranio

impoverito che aiuta la punta a seguire una traiettoria rettilinea)”98.

Il rapporto si concluse con l’ammissione di una contaminazione solo molto superficiale del

terreno, eppure, i risultati di questa spedizione sono stati in più occasione contestati dalla

letteratura, che continua a sottolineare la necessità di portare avanti più studi per capire

quale possa realmente essere l’impatto di questa sostanza sull’ecosistema. L’urgenza di

arrivare a una conclusione scientificamente accettabile dipende non solo dalla necessità di

valutare in maniera più precisa i livelli di tossicità dei luoghi contaminati da uranio impoverito,

ma anche da quella di evitare che questo tipo di arma possa essere utilizzato in conflitti

futuri, vista la sua relativa accessibilità a costi moderati.

L’enigma della “Sindrome dei Balcani”, quindi, non è ancora stato risolto. Con questo

termine si indicano una serie di malattie (leucemia, linfoma di Hodgkin e altre forme di

patologie tumorali) di cui sono stati vittima i soldati rientrati da missioni militari internazionali,

e i primi casi risalgono proprio alla missione in Bosnia-Erzegovina. Il nesso causale tra

esposizione all’uranio e sviluppo delle malattie non è stato chiarito in maniera

97 Ibid. 98 Ibid.

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inequivocabile, ma le statistiche confermano che la percentuale dei malati tra i militari è

molto più alta rispetto ad altre categorie di cittadini.

Caso 4: Sudan, degrado ambientale e guerra civile

Introduzione

A gennaio 2005, il governo sudanese e l’Esercito popolare di liberazione del Sudan

hanno finalmente firmato un accordo che ha cercato di mettere fine a 22 anni di guerra civile.

Anziché soffermarsi sugli anni del conflitto, questo caso di studio mette in evidenza la stima

dell’impatto del conflitto elaborata dall’Unep nel 200799. La sua rilevanza deriva non solo

dalla meticolosità con cui l’impatto del conflitto sull’ambiente è stato valutato (effetti sul

suolo, deforestazione, cambiamenti climatici, ed altri aspetti che potrebbero compromettere

sicurezza alimentare, sviluppo sostenibile, e quindi la pace per il paese), ma anche dal fatto

di essere riuscito a mettere in evidenza un collegamento diretto tra i problemi ambientali del

Sudan e il conflitto in Darfur.

Secondo il rapporto Unep, il legame tra ambiente e conflitto è duplice. Da un lato la

lunghissima guerra civile (1983-2005) ha avuto un impatto tremendo sull’ambiente:

trasferimenti in massa della popolazione, assenza di governance, sfruttamento eccessivo

delle risorse naturali per esigenze belliche, investimenti insufficienti in pratiche di sviluppo

sostenibile sono solo alcuni dei problemi che il paese ha dovuto gestire. Dall’altro, sono

proprio questioni di natura ambientale che continuano ad alimentare la conflittualità sul

territorio: concorrenza sul possesso delle risorse di gas, petrolio, legname, acque del Nilo,

sfruttamento agricolo del territorio, pascoli, e via dicendo. Tutti temi importanti per lo

sviluppo della realtà locale e che, sommandosi ad altre questioni di natura politica, sociale

ed economica, rendono l’identificazione di un compromesso sostenibile troppo difficile.

Il problema dei rifugiati

Con oltre cinque milioni di sfollati interni e rifugiati internazionali, il Sudan detiene il

primato della più grande popolazione di sfollati nel mondo. Dal 2003 ad oggi, dal Darfur si

sono spostate circa 2,4 milioni di persone. E’ evidente come questo spostamento in massa

abbia avuto conseguenze importanti sia per le persone coinvolte sia per l’ambiente. Le

aree in prossimità dei campi per i rifugiati sono oggi estremamente degradate, e l’assenza

di controlli meticolosi ha fatto crescere il numero di violazioni di diritti umani, conflitti

99 “Sudan, Post-Conflict Environmental Assessment”, 2007, United Nations Environment Programme, https://www.unenvironment.org/pt-br/node/22621

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per l’accaparramento delle risorse base e insicurezza alimentare100. Infine, il ritorno

in massa dei sudanesi del sud in patria a conclusione della guerra civile non potrà che creare

nuove pressioni su un ambiente che, per conformazione, è già molto fragile101.

Desertificazione e altri disastri naturali

Rispetto agli anni ’30, quando sono stati raccolti i primi dati sullo stato della

vegetazione locale, il confine tra area semi-desertica e desertica si è spostato da 50 a 200

chilometri più a sud. Ancora, la riduzione delle precipitazioni non potrà che continuare ad

alimentare questo fenomeno. Quel che resta dell’area semi-desertica, che rappresenta il 25

per cento dei terreni agricoli del Sudan, rischia quindi di scomparire. Se questo dovesse

succedere, la produzione di cibo locale potrebbe calare del 20 per cento. Infine, la riduzione

delle precipitazioni ha messo sotto pressione le comunità pastorali, in particolare in Darfur

e Kordofan, dove il livello generale di conflittualità è molto aumentato.

Se da un lato l’aumentato tasso di siccità compromette ogni giorno di più anche i

pascoli e l’allevamento del bestiame, il Sudan oggi deve far fronte anche alle conseguenze

dell’aumento del numero di inondazioni, diretta conseguenza della deforestazione e di un

utilizzo eccessivo del bacino superiore del Nilo azzurro. Da notare come il degrado

complessivo del bacino idrografico e le alluvioni ad esso associate stanno progressivamente

riducendo la stretta ma molto fertile fascia rivierasca del Nilo, e anche questo, nel lungo

periodo, finirà col creare conflitti.

100 M. Tran, “Darfur conflict: civilians deliberately targeted as tribal violence escalates”, The Guardian, 14 marzo 2014, https://www.theguardian.com/global-development/2014/mar/14/darfur-conflict-sudan-civilians-deliberately-targeted

101 B. Bromwich “Environmental degradation and conflict in Darfur: implications for peace and recovery”, UNEP, luglio 2008, https://odihpn.org/magazine/environmental-degradation-and-conflict-in-darfur-implications-for-peace-and-recovery/

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.

Figura 4: Il bacino del Nilo. (Fonte: Laura Canali, Limes 1/2011, "Il grande tsunami")

Terreni agricoli e aree forestali

L’agricoltura è il principale settore produttivo del paese, oggi attraversato da una crisi

gravissima proprio per problemi legati all’ambiente, che ne ha favorito il degrado in varie

forme: erosione del terreno fertile rivierasco, invasione di specie nocive, cattiva gestione dei

pesticidi nei sistemi di irrigazione, e inquinamento delle acque. La pessima gestione del

sistema agricolo, che si estende su circa 6,5 milioni di ettari di terra, ha comportato una

deforestazione su larga scala, con perdita di una significativa fetta di fauna selvatica e una

profonda alterazione del suolo. Contemporaneamente, la crescita esplosiva dei capi di

bestiame allevati, passata da 28,6 milioni nel 1961 a 134,6 milioni nel 2004, ha avuto un

impatto insostenibile sui campi adibiti ai pascoli.

Anche la deforestazione, che procede a ritmi dello 0,84 per cento all’anno, rappresenta

un problema molto importante per la stabilità del paese. Legata a necessità di

approvvigionamento delle risorse e ricerca di nuovi territori da adibire all’agricoltura, nelle

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aree più problematiche del paese il tasso di deforestazione ha raggiunto l’1,87 per cento

annuo. Tra il 1990 e il 2005, il paese ha perso l’11,6 per cento del suo manto forestale, vale

a dire quasi 9 milioni di ettari di foreste. Se nelle aree più colpite da questo fenomeno non

verrà fatto nulla per frenarlo, i tassi di deforestazione potrebbero raggiungere il 10 per cento

a decennio. Secondo Undp, in queste stesse zone il Sudan potrebbe, nell’arco di dieci anni,

ritrovarsi alcuna copertura forestale, il che vuol dire anche senza risorse. L’impatto sulla

stabilità della nazione di uno scenario di questo tipo è senza dubbio drammatica.

Inquinamento industriale e equilibrio delle risorse idriche

La chiave per garantire una stabilità di accesso alle risorse idriche è legata al

completamento della costruzione di circa venti dighe. Il progetto più controverso è quello di

Merowe, un impianto che certamente porterà benefici enormi dal punto di vista della

produzione energetica, ma che rischia di avere un impatto devastante sull’ambiente e sulle

comunità locali, per la perdita di fertilità del terreno e l’erosione del letto fluviale.

Ancora, la capacità di stoccaggio di acqua nei serbatoi adiacenti alle dighe è seriamente

compromessa dall’accumulo di sedimenti. La presenza delle dighe ha anche avuto un

impatto negativo sugli habitat circostanti, e se consideriamo che la costruzione del canale

Jonglei, iniziata negli anni ’70, è stata una delle cause scatenanti della guerra civile, a

dimostrazione di come un paese particolarmente sotto pressione per accesso alle risorse e

stabilità dell’ecosistema circostante corra rischi molto più alti di dover gestire un conflitto

interno.

Negli ultimi tempi, in Sudan si è discusso molto dell’opportunità di investire nel settore

degli idrocarburi. Ebbene, le stime elaborate da Undp confermano che, qualora venisse

intrapresa questa strada, l’equilibrio ambientale del paese ne risulterebbe fortemente

compromesso per l’incapacità di gestire i processi produttivi e lo smaltimento dei loro rifiuti

in maniera ecosostenibile.

Aree protette, governance e aiuti esterni

A livello nazionale, è molto difficile per un paese come il Sudan tener fede agli impegni

presi sul piano internazionale in merito alla protezione dell’ambiente. Tuttavia, visto che la

salvaguardia dell’ecosistema è strettamente interconnessa alla capacità del paese di fornire

le risorse primarie di base alla popolazione e con la messa a punto di piani di sviluppo

economico sostenibile, è evidente come qualsiasi errore commesso, visto l’impatto atteso

sulla popolazione, rischi di creare nuovi focolai di dissenso, compromettendo in maniera

definitiva il futuro del paese.

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Altro aspetto molto importante che il rapporto stilato dalle Nazioni Unite ha messo in

evidenza è come solo una parte dei programmi di aiuto esterno abbiano un’impostazione

ecosostenibile. Il che è molto grave, perché almeno i progetti di cooperazione dovrebbero

essere fatti in maniera da poter risolvere problematiche convincenti attuando strategie che

possano essere ecosostenibili.

Uno dei problemi chiave del Sudan, oggi, è legato da un lato alla capacità di gestire

l’impatto ambientale derivante dalla necessità di fornire alimenti e altri tipi di aiuto al 15 per

cento della popolazione, dall’altro all’urgenza di mettere a punto piani di emergenza che

possano ridurre la dipendenza del paese dagli aiuti esterni. Il paese sembra infatti essere

stato fagocitato da un circolo vizioso di dipendenza alimentare, arretratezza del comprato

agricolo e degrado ambientale. Tuttavia, riducendo gli aiuti esterni per indurre il paese a

rilanciare il settore agricolo rischia di aumentare le difficoltà legate all’approvvigionamento

delle risorse alimentari e creare nuovi movimenti di sfollati in tutto il paese.

Il rapporto Undp evidenzia in maniera molto chiara il nesso tra equilibrio ambientale e

conflittualità in Sudan. Ecco perché, per dare un contributo efficace al mantenimento della

pace, è necessario intervenire nel paese con progetti ecosostenibili che possano aiutare a

interrompere il processo di degradazione dell’ambiente che lo contraddistingue, annullando

le ragioni alla base della continua lotta per l’accaparramento delle risorse tra le varie

comunità.

Caso 5: L’impatto dei conflitti armati sull’equilibrio del suolo

Introduzione

Meglio delle ricerche interessate a stimare l’impatto sull’ambiente dei singoli conflitti,

quelle che si occupano di analizzare le conseguenze delle guerre su un particolare elemento

naturale riescono a dare un’immagine più chiara dell’urgenza di intervenire per limitare gli

effetti di questa enorme fonte di degrado ambientale.

Per questo motivo, gli ultimi due casi di studio presi in considerazione da questa ricerca

si concentrano sull’impatto dei conflitti armati sul suolo e sulle risorse idriche dei paesi

belligeranti.

L’uomo influenza la pedogenesi principalmente attraverso attività agricole e

urbanizzazione. Eppure, sempre più studiosi concordano sul fatto che anche la guerra sia

diventata un processo attraverso cui l’uomo interferisce profondamente con la biodiversità

dei terreni. L’impatto di un conflitto sul suolo è sempre negativo, ma la sua intensità varia,

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oscillando tra casi di cali di fertilità nel breve periodo fino alla perdita completa dell’utilizzo

dello stesso102.

Nonostante esistano in natura esempi di impatti positivi della guerra sugli ecosistemi

forestali, come la fecondazione da azoto e fosforo contenuti negli esplosivi nitroaromatici e

bombe incendiarie, o la creazione di terre non abitate dove diventa possibile la proliferazione

di nuove specie naturali, molto più spesso gli effetti delle attività di guerra sull'ambiente sono

negativi, in alcuni casi persino devastanti che perdurano nel tempo103.

In generale, l’impatto dei conflitti armati sull’equilibrio del terreno può essere di tre tipi:

fisico, chimico e biologico.

Guerra e territorio: impatto fisico

La guerra ha cambiato la morfologia dei suoli nel corso dei millenni, contaminandoli

con elementi innaturali. L’impatto fisico sul suolo derivante dalle attività militari può essere

molto circoscritto nello spazio, ma può anche estendersi su scala regionale. Un esempio di

impatto profondo e a lungo raggio dell’ingegneria bellica orientale è quello della Grande

Muraglia Cinese, costruita 4.000 anni fa, dove chilometri di terra sono stati prima scavati e

poi ricoperti da pietre e mattoni. Altro esempio sono le trincee della Prima Guerra

Mondiale104. In queste operazioni di scavo non solo una enorme quantità di suolo viene

rimossa dal suo luogo abituale e la composizione dello stesso ne risulta alterata, ma anche

l’assetto idrologico del sito in questione viene compromesso105.

Anche i bombardamenti possono avere un impatto grave, profondo e duraturo sul

suolo, creando crateri che ne alterano l’equilibrio naturale. Nel momento dell’esplosione,

una importante quantità di suolo viene rimossa creando, appunto, un cratere. Il terreno che

circonda il cratere viene turbato, compattato e contaminato da ceneri e frammenti metallici.

Questo tipo di fenomeno è stato definito in letteratura bombturbation, e include anche tutto

il territorio che è stato spostato nel momento dell’esplosione al di fuori del cratere106. Come

succede per altri tipi di alterazione del suolo, la bombturbation ne rimescola gli strati,

annullando in parte gli effetti della pedogenesi, e modifica il paesaggio. Questo perché,

102 G. Certini, R. Scalenghe, W. I. Woodsc, “The impact of warfare on the soil environment”, Earth-Science Reviews, Vol. 127, dicembre 2013, pp. 1-15.

103 T. Hanson, T.M. Brooks, G.A.B. Da Fonseca, M. Hoffmann, J.F. Lamoreux, G. Machlis, C.G. Mittermeier, R.A. Mittermeier, J.D. Pilgrim, “Warfare in biodiversity hotspots”, Society for Conservation Biology, Vol. 23, 2009, pp. 578-587; J.A. McNeely, “Conserving forest biodiversity in times of violent conflict”, Oryx, Vol. 37, 2003, pp. 142-152.

104 E.P.F. Rose, “Impact of warfare activities on local and regional geologic conditions”, Geological Society of America Reviews in Engineering Geology, Vol. 16, 2005, pp. 51–66.

105 G. Certini, op. cit.

106 J.P. Hupy, R.J. Schaetzl, “Introducing ‘bombturbation”, a singular type of soil disturbance and mixing. Soil Science, Vol. 171, 2006, pp. 823–836.

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generalmente, una fitta vegetazione invade il fondo delle fosse, visto il forte tasso di umidità

nel suolo107.

In guerra non c’è solo il problema delle bombe che cadono sul suolo, ma anche quello

delle mine anticarro e antiuomo che vengono nascoste al suo interno. Il semplice

posizionamento delle mine altera la composizione del suolo, e l’impatto sullo stesso

naturalmente aumenta al momento dell’esplosione. Quest’ultima contamina il terreno

circostante con frammenti metallici, plastici e residui di esplosivo. Spesso i danni legati al

posizionamento delle mine diventano permanenti perché le operazioni di sgombero sono

così difficili e costose che, soprattutto nei paesi poveri, non possono essere portare a

termine.

Altro elemento di disturbo per il suolo è legato allo spostamento di veicoli pesanti,

cingolati o su ruote. L’effetto immediato di questi passaggi è una compattazione del suolo,

che ha un impatto molto negativo sulle proprietà idriche dello stesso, rende i terreni più

facilmente soggetti a processi di erosione, e nei suoli più “saturi” il sovraccarico rischia di

creare fenomeni di liquefazione/decomposizione, e quindi di creazione di fango108. La

ricerca ha dimostrato che gli effetti sulla compattazione del suolo sono maggiori in profondità

che in superficie, e che le conseguenze di questa compattazione possono durare per

decenni, nonostante l’impatto benefico di una rilavorazione del suolo effettuata con cicli

regolari di congelamento e scongelamento109.

È importante ricordare come la compattazione del suolo rappresenti un prerequisito

per portare avanti manovre di guerra, vista la necessità di preparare i terreni a sostenere

macchinari pesanti. Spesso la stabilizzazione del suolo viene accelerata dall’applicazione

di specifici agenti compattanti, naturali o artificiali, come calce, bitume, cemento, ma anche

lignosolfonati, polimeri, silicati e resine di alberi110.

Anche la presenza di fango o l’aggiunta deliberata di acqua per formarlo e creare

difficoltà di movimento per i nemici danneggia i terreni. In genere il modo più efficace per

ottenere questo tipo di risultato è giocare sull’alterazione del clima. Con l’operazione

Popeye, ad esempio, gli americani in Vietnam cercarono di intensificare la forza dei monsoni

107 J. P. Hupy, T. Koehler, “Modern warfare as a significant form of zoogeomorphic disturbance upon the landscape”, Geomorphology, Vol. 157-158, 2012, pp. 169-182.

108 C.T. Garten Jr., T.L. Ashwood, “Modeling soil quality thresholds to ecosystem recovery at Fort Benning, GA, USA” Ecological Engineering, Vol. 23, 2004, pp. 351-369; C.E. Wood, “Soil and warfare”, in E.R. Landa, C. Feller, (eds.), Soil and Culture, Springer Science + Business Media B.V., Dordrecht, The Netherlands, 2010, pp. 401–415.

109 R.M. Iverson, B.S. Hinckley, R.M. Webb, B. Hallet, “Physical effects of vehicular disturbance on arid landscapes”, Science, Vol. 212, 1891, pp. 915–917; W. B. Voorhees, W.W. Nelson, G. W. Randall, “Extent and persistence of subsoil compaction caused by heavy axle loads”, Soil Science Society of America Journal, Vol. 50, 1986, pp. 428–433.

110 J.S. Tingle, R.L. Santoni, “Stabilization of clay soils with nontraditional additives”, Transportation Research Record, Vol. 1819, 2003, pp. 72–84.

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caricando le nuvole con ioduro d'argento per aumentare frequenza e intensità delle scariche

di pioggia111.

Infine, anche gli incendi sono stati utilizzati frequentemente per esaurire più in fretta le

risorse dei nemici, senza pensare troppo al loro impatto sul suolo. Il primo è indiretto, a

causa dell’erosione più rapide delle superfici bruciate, che restano evidentemente

sprovviste del manto protettivo della vegetazione. La presenza di scorie e detriti può invece

comportare l’aumento della possibilità di frane, e sempre a causa della mancanza di

vegetazione, che a sua volta riduce la capacità del terreno di assorbire acqua, il ripristino

della situazione pre-incendio è molto lungo è difficile112.

Guerra e territorio: impatto chimico

Il deterioramento delle proprietà chimiche dei suoli è spesso una conseguenza di

azioni belliche volte ad ottenere un impatto distruttivo sulle persone, distruggere colture e

infrastrutture, e rendere più difficoltoso l’addestramento delle truppe. Anche i trasferimenti

forzati degli sfollati provocano pressioni fortissime sui territori, le cui risorse naturali iniziano

ad essere sfruttate in maniera non sostenibile. Deforestazione, desertificazione, estrazione

non sostenibile di acque sotterranee, inquinamento del suolo e delle acque sotterranee sono

alcuni dei problemi che vengono regolarmente registrati in prossimità dei campi di sfollati

interni o rifugiati. Gli esempi più recenti di degrado del suolo conseguente alla presenza di

campi profughi sono Pakistan, Ruanda, Darfur e Sud Sudan113.

Il fattore principale di contaminazione chimica del suolo è legato al contatto con

componenti tossiche deliberatamente o accidentalmente introdotte nel terreno e in grado di

ostacolare qualsiasi uso produttivo del suolo per lunghi periodi di tempo. Metalli pesanti,

idrocarburi, solventi organici, fenoli sintetici, cianuro, diossine e radionuclidi possono essere

utilizzati a questo scopo. Ancora, cromo, antimonio, arsenico, cadmio, rame, mercurio,

nichel, piombo e zinco sono i metalli che più spesso vengono rilasciati nei terreni contaminati

111 K. C. Harper, „Climate control: United States weather modification in the cold war and beyond”, Endeavour, Vol. 32, 2008, pp. 20–26.

112 J.R. McNeill, “Woods and warfare in world history”, Environmental History, Vol. 9, 2004, pp. 388-410; J. Mataix-Solera, A. Cerdà, V. Arcenegui, A. Jordán, L.M. Zavala, “Fire effects on soil aggregation: a review”, Earth-Science Reviews, Vol. 109, 2011, pp. 44–60; R. A. Shakesby, S. H. Doerr, “Wildfire as a hydrological and geomorphological agent”, Earth-Science Reviews, Vol. 74, 2006, pp. 269-307.

113 A.K. Biswas, H.C. Tortajada-Quiroz, op. cit.; M. Hagenlocher, S. Lang, D. Tiede, “Integrated assessment of the environmental impact of an IDP camp in Sudan based on very high resolutionmulti-temporal satellite Imagery”, Remote Sensing of Environment, Vol. 126, 2012, pp. 27–38; V. Gorsevski, M. Geores, E. Kasischke, “Human dimensions of land use and land cover change related to civil unrest in the Imatong Mountains of South Sudan”, Applied Geography, Vol. 38, 2013, pp. 64–75; N.J.R. Allan, “Impact of Afghan refugees on the vegetation resources of Pakistan’s Hindukush–Himalaya”, Mountain Research and Development, Vol. 7, 1987, pp. 200–204.

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con residui bellici114. L’impatto negativo di queste sostanze sul suolo e sulla sua vegetazione

varia a seconda del livello di areazione, umidità e composizione batteriologica dello stesso,

ma in genere dura a lungo, e può essere così forte da limitarne la fertilità. Gli interventi di

pulizia del territorio contaminato possono essere molto complessi. Spesso, infatti, un

semplice “lavaggio” non basta, e diventa necessario, nella migliore delle ipotesi, intervenire

sul terreno per modificarne la composizione batteriologica in maniera da favorire la

rigenerazione dello stesso. Nello scenario peggiore, si può essere costretti a rimuovere il

territorio contaminato e sostituirlo con terreni provenienti da altri luoghi115.

Un altro processo che comporta elevati livelli di contaminazione del suolo è il contatto

con materiale esplosivo. I composti utilizzati per fabbricare esplosivi in genere tendono a

restare a lungo nel suolo a causa della loro intrinseca resistenza a processi di

volatilizzazione, idrolisi e biodegradazione. Per questa ragione possono essere assorbiti

dalle piante ed entrare nella catena alimentare attraverso quelle commestibili, e finire col

contaminare il bacino idrico del territorio in cui si accumulano116.

Gli agenti chimici utilizzati in scenari di conflitto sono sostanze chimiche tossiche

capaci di uccidere, ferire o paralizzare il nemico in guerra o nelle operazioni militari e non

ad essa associate. Proprietà, tecniche di fabbricazione, tossicità, esposizione e gestione

farmacologica delle vittime variano a seconda dell’agente utilizzato. In generale, questi

composti chimici tendono ad essere classificati in quattro categorie: irritanti, come

lacrimogeni, urticanti, starnutatori, vale a dire sostanze leggermente tossiche, ma non letali,

anche se possono diventarlo se la popolazione non è attrezzata in maniera adeguata a

proteggersi dalla loro diffusione, o se vengono utilizzati in grandi quantità. Poi ci sono

le sostanze vescicanti (iprite, mostarde azotate, lewisite, arsenicali), che possono essere

letali o meno, quelle soffocanti e asfissianti (fosgene e cloropicrina) e i veleni sistemici

(cianuri, fluoroacetati e gas nervini), entrambi letali117.

L’elevato grado di tossicità di questi elementi ha purtroppo spinto la ricerca a occuparsi

principalmente dei loro effetti sull’uomo, nel tentativo di mettere a punto trattamenti capaci

di ridurne il grado di letalità. Eppure, è logico immaginare che il loro impiego abbia un impatto

114 L. Ghanbarizadeh, T.S. Nejad, “Change patterns of agronomy and agricultural lands by war”, Life Science Journal,

Vol. 9, 2012, pp. 1454-1462. 115 S. K. Brar, M. Verma, R.Y. Surampalli, K. Misra, R. D. Tyagi, N. Meunier, J.F. Blais, “Bioremediation of hazardous

wastes—a review”, The Practice Periodical of Hazardous, Toxic, and Radioactive Waste Management, Vol. 10, 2006, pp. 59-72; G. Certini et al, op. cit.

116 K. Von Stackleberg, C. Amos, T Smith, “Military munitions-related compounds fate and effects: a literature review relative to threatened and endangered species”. US Army Corps of Engineers. Engineer Research and Development Center, Final Report, 2005, ERDC/CERL TR-05-10, www.dtic.mil/dtic/tr/fulltext/u2/a435907.pdf

117 S. Chauhan, S. Chauhan, R. D'Cruz, S. Faruqi, K.K. Singh, S. Varma, M. Singh, V. Karthik, “Chemical warfare agents”, Environmental Toxicology and Pharmacology, Vol. 26, 2008, pp. 113-122; “Guerra chimica: succede anche in Siria?”, Focus, 4 aprile 2017, https://www.focus.it/cultura/storia/siria-guerra-chimica-che-cosa-sono-i-gas-tossici

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catastrofico anche sul terreno, che meriterebbe di essere studiato con maggiore

attenzione118. Le prime ricerche fatte mettono in evidenza come l’impatto dell’agente

chimico allo stato puro sia molto più forte di quello che in un momento successivo finisce

col contaminare il suolo119. Tuttavia, l’esperienza documentata relativa all’utilizzo degli

erbicidi, e in particolare l’Agente Arancio, durante la Guerra del Vietnam ha mostrato come

la loro presenza sul territorio venga mantenuta per periodi lunghissimi, e a causa di questa

contaminazione gli agenti finiscono con l’essere trasferiti nella catena alimentare120. Ancora,

l’uso del Naplam ha contribuito a bruciare decine di migliaia di ettari di foresta, e l’impatto

sul suolo di questa sostanza è molto simile a quello provocato dai classici incendi, ma più

grave a causa del livello elevatissimo delle temperature generate (circa 1000 °C). Queste

temperature provocano la morte immediata del biota terrestre, nonché una rapida

incrostrazione dovuta al processo di ossido-riduzione. La crosta implica uno scambio di gas

più lento e riduce l’infiltrazione delle acque, e l’erosione del suolo diventa una ramificazione

frequente delle “piogge” al Naplam. I residui di Naplam possono facilmente infiltrarsi nel

terreno e causare gli stessi problemi di tutti gli altri combustibili.

L’era nucleare si è aperta nel 1945, quando la prima bomba atomica fu testata a

Socorro, nel New Mexico. Un mese dopo Hiroshima e Nagasaki vennero attaccate con

ordigni equivalenti. Dal 1945 al 2006 sono state contate un totale di 2.053 esplosioni121.

Nessun agente chimico contamina il suolo più dei radionuclidi, che possono rimanervi

immagazzinati per decine di migliaia, in alcuni casi addirittura milioni di anni122. In maniera

indiretta, lo stoccaggio o lo smantellamento di materiali nucleari con metodi inadeguati può

portare alla contaminazione del suolo con plutonio, uranio, stronzio e cesio123.

Diversi autori hanno cercato di calcolare l’impatto dei suoli contaminati da

radionuclidi sulle piante e sulla catena alimentare, quindi indirettamente anche sull’uomo.

118 G. Certini et al, op. cit. 119 N.B. Munro, K. R. Ambrose, A. P. Watson, “Toxicity of the organophosphate chemical warfare agents GA, GB, and

VX: implications for public protection”, Environmental Health Perspectives. Vol. 102, 1994, pp. 18-38. 120 T.A. Mai, T.V. Doan, J. Tarradellas, L.F. de Alencastro, D. Grandjean, “Dioxin contamination in soils of Southern

Vietnam”, Chemosphere, Vol. 67, 2007, pp. 1802-1807; L.W. Dwernychuk, H.D. Cau, C.T. Hatfield, T.G. Boivin, T.M. Hung, P.T. Dung, N.D. Thai, “Dioxin reservoirs in southern Viet Nam—a legacy of Agent Orange”, Chemosphere, Vol. 47, 2002, pp. 117-137.

121 V.F. Fedchenko, R. F. Hellgren, Appendix 12B. Nuclear explosions, 1945–2006. SIPRI, Yearbook 2007, Armaments, Disarmament and International Security, Oxford University Press, Oxford, UK.

122 H. Xiaolong, W. Baosong, “Evaluation of 235U decay data”, Applied Radiation and Isotopes, Vol. 67, No. 9. 2009, pp. 1541-1549.

123 J. M. Zachara, J. Serne, M. Freshley, F. Mann, F. Anderson, M. Wood, T. Jones, D. Myers, “Geochemical processes controlling migration of tank wastes in Hanford’s vadose zone”, Vadose Zone Journal, Vol. 6, No. 4, 2007, pp. 985-1003.

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La contaminazione tra radioisotopi e piante dipende dal tipo di radioisotopi e dal tipo di

piante124. Ad esempio, le risaie sono particolarmente esposte a questo genere di

contaminazione a causa dei metodi di coltivazione del riso125. E’ tuttavia stato scoperto che

questo trasferimento di agenti inquinanti può essere limitato arricchendo il suolo con zeoliti,

allumino-silicati molto economici e facili da reperire126. Nel 2009, Hildegarde Vandenhove,

con la collaborazione di un gruppo di colleghi, ha ultimato una ricerca che è stata capace di

stimare l’entità del trasferimento di uranio, torio, radio, piombo e polonio per i principali

gruppi di colture (cereali, ortaggi a foglia, ortaggi non a foglia, radici, tuberi, frutta, pascoli e

foraggio)127.

Infine, va considerato il problema dell’uranio impoverito. La contaminazione del suolo

con uranio impoverito è direttamente proporzionale alla vicinanza del territorio in questione

con l’obiettivo colpito con armi all’uranio impoverito. Quest’ultimo viene infatti rilasciato

nell’ambiente sotto forma di frammenti e polveri insolubili, la cui presenza nel suolo resta

quindi stabile nel tempo128. Ecco perché, per quanto siano stati testati vari metodi per pulire

un territorio contaminato con uranio impoverito, al momento la soluzione più efficace

continua ad essere quella di smettere di utilizzare lo stesso in qualsiasi frangente per evitare

di estendere il raggio dell’eventuale contaminazione129.

Guerra e territorio: impatto biologico

Un impatto della guerra sul territorio di cui si parla meno, forse perché tendenzialmente

molto più raro, è quello derivante dall’impiego di agenti patogeni e delle tossine che

producono. Anche se in genere l’obiettivo di questi agenti sono gli esseri umani, queste armi

finiscono con l’avere un effetto anche sul suolo. Esistono almeno una cinquantina

di agenti patogeni che possono essere usati in un conflitto, capaci di causare

malattie orribili come botulismo, febbri emorragiche, tularemia o ebola130.

124 P. Linsalata, “Uranium and thorium decay series radionuclides in human and animal foodchains—a review”, Journal of Environmental Quality, Vol. 23, 1994, pp. 633-642.

125 M. Gavrilescu, L.V. Pavel, I. Cretescu, “Characterization and remediation of soils contaminated with uranium”, Journal of Hazardous Materials, Vol. 163, 2009, pp. 475-510.

126 P. Misaelides, “Application of natural zeolites in environmental remediation: a short review”, Microporous and Mesoporous Materials, Vol. 144, 2011, pp. 15-18.

127 H. Vandenhove, G. Olyslaegers, N. Sanzharova, O. Shubina, E. Reed, Z. Shang, H Velasco, “Proposal for new best estimates of the soil-to-plant transfer factor of U, Th, Ra, Pb and Po”, Journal of Environmental Radioactivity, Vol. 100, 2009, pp. 721-732.

128 S. Handley-Sidhu, M.J. Keith-Roach, J.R. Lloyd, D.J. Vaughan, “A review of the environmental corrosion, fate and bioavailability of munitions grade depleted uranium”, Science of The Total Environment, Vol. 408, 2010, pp. 5690-5700.

129 A.J. Francis, C.J. Dodge, “Remediation of soils and wastes contaminated with uranium and toxic metals”, Environmental Science & Technology, Vol. 32, 1998, pp. 3993-3998.

130 M. Leitenberg, “Biological weapons in the twentieth century: a review and analysis”, Critical Reviews in Microbiology, Vol. 27, 2001, pp. 267-320.

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La pratica di diffondere epidemie tra i nemici è forse vecchia quanto la guerra. I vantaggi

delle armi biologiche sono legati alla loro efficacia, facilità di fabbricazione, e longevità

dell’agente patogeno, sia nella fase di stoccaggio sia nell’ambiente una volta rilasciato.

Alcuni agenti patogeni hanno spore che possono sopravvivere all’infinito nel terreno,

perché si sono dimostrate resistenti al calore, alle radiazioni ultraviolette, e a una vasta

gamma di disinfettanti131.

Il Protocollo concernente la proibizione di usare in guerra gas asfissianti, tossici o simili

e mezzi batteriologici firmato a Ginevra il 17 giugno 1925, il cosiddetto protocollo di Ginevra,

entrato in vigore nel 1928, seguito, nel 1975, dalla Convenzione sulla proibizione dello

sviluppo, produzione e immagazzinamento delle armi batteriologiche e sulle armi tossiche

e sulla loro distruzione, regolano l’utilizzo di queste armi, rendendone quindi l’utilizzo

teoricamente meno probabile, ma non impossibile, soprattutto nell'eventualità di attacchi

terroristici.

Caso 6: L’impatto dei conflitti armati sull’equilibrio idrico del territorio

Gli ecosistemi d’acqua dolce sono considerati tra i più vulnerabili all’impatto di un

conflitto. Dal momento che l’acqua è una delle risorse più preziose per la sopravvivenza di

un ecosistema, sia da un punto di vista ambientale sia per il suo ruolo cruciale nel fornire

una serie di servizi essenziali alla società, è importante cercare di stimare l’impatto che un

conflitto può avere su questa risorsa, sia quando viene utilizzata come arma, sia quando la

guerra ne limita l’accessibilità da parte dell’ecosistema considerato132.

Ciò che la ricerca ha messo in evidenza fino ad oggi è che l’impatto delle tecniche di

guerra tradizionali sulle risorse idriche di un territorio è significativamente più modesto

rispetto a quello che caratterizza le guerre contemporanee, da qui la necessità di

concentrarsi soprattutto sugli effetti di queste ultime133.

Risorse idriche: vulnerabilità in un contesto di guerra

Sono almeno tre le ragioni per cui i sistemi d’acqua dolce sono particolarmente

vulnerabili ai conflitti. Anzitutto, in molti casi svolgono un ruolo centrale nel conflitto,

trasformandosi in causa scatenante dello stesso, obiettivo di guerra, o addirittura arma di

guerra. Del resto, la concentrazione di insediamenti umani intorno agli ecosistemi d’acqua

131 K. Levent, O. Mesut, Y. Hakan, K. Turan, A. Hakan, “Comparative sporicidal effects of disinfectants after release of a biological agent”, Military Medicine, Vol. 172, 2007, pp. 616–621.

132 R. A. Francis, “The Impacts of Modern Warfare on Freshwater Ecosystems”, Environmental Management, Vol. 48,

No. 5, 2011, pp. 985-999. 133 Ibid.

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dolce conferma la loro essenzialità per la sopravvivenza degli stessi, e le controversie

politiche relative alla sovranità o all’utilizzo di risorse idriche continuano ad essere molto

frequenti134. In secondo luogo, l’impatto di un conflitto sulle risorse idriche può essere

amplificato dall’elevato livello di connettività delle stesse. Una connettività che può essere

di tipo longitudinale, vale a dire tra fiumi e laghi che fanno parte di uno stesso bacino e sono

collegati tra loro; laterale, che dipende quindi dalla presenza di canali e dal collegamento

tra le fonti d’acqua e le pianure alluvionali e le zone rivierasche eventualmente circostanti;

e ipoerico, che riguarda quindi la connessione tra flusso superficiale e falde acquifere.

E’ evidente come questo elevatissimo grado di interconnessione possa aumentare e

ampliare l’impatto del conflitto sul territorio, oltre che trasferirlo in aree sotto la sovranità di

altri attori135. Infine, va ricordato che le attività di ricostituzione dello status quo precedente

al conflitto possono essere molto complesse quando si interviene sulle risorse idriche, tant’è

che molte delle attività di guerra finiscono con l’avere un impatto di lungo periodo, spesso

addirittura irreversibile, sulle stesse136.

Intensificazione dell'acquisizione delle risorse

L’intensificazione della produzione e dell’acquisizione delle risorse è un processo

complesso e dipendente da molti fattori. Tuttavia, le priorità generate da uno stato di guerra

possono significativamente aumentarne la velocità, la scala e l’intensità. Se in genere sono

minerali e materie prime ad essere presi d’assalto per la fabbricazione di materiali bellici,

anche l’acqua rappresenta una risorsa essenziale per generare energia137. Capita spesso

che vengano costruite dighe per incrementare i livelli di produzione di energia idroelettrica,

e questi sbarramenti improvvisati posso avere un impatto importante sull’equilibrio ecologico

del sistema fluviale nel suo complesso. Allo stesso tempo, infrastrutture idriche di vario tipo

possono essere prese di mira durante e dopo un conflitto138.

Uso dell’acqua come arma offensiva o difensiva

Capita spesso che gli ecosistemi di acqua dolce vengano usati come armi

offensive o difensive, soprattutto quando questi ultimi si trovano al confine tra due stati.

134 P.H. Gleick, “Water and conflict: Fresh water resources and international security”, International Security, Vol. 18, 1993, pp. 79-112.

135 R. A. Francis, op. cit. 136 J.A. Gore, F.D. Shields, “Can large rivers be restored?”, BioScience, Vol. 45, 1995, pp. 142-152. 137 M. Evenden, “Mobilizing rivers: hydro-electricity, the State, and World War II in Canada”, Annals of the Association

of American Geographers, Vol. 99, 2009, pp. 845-855. 138 C. Pringle, “What is hydrologic connectivity and why is it ecologically important?”, Hydrological Processes, Vol. 17,

2003, pp. 2685-2689.

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I fiumi possono diventare un’arma quando uno degli attori coinvolti nel conflitto è in grado di

alterarne il corso. Una diga può essere bombardata e finire col ridurre drasticamente la

disponibilità di acqua del paese colpito e, allo stesso tempo, sommergere le aree circostanti,

rendendole così inutilizzabili (la Turchia, ad esempio, ha la possibilità di intervenire sul corso

dell’Eufrate mettendo in difficoltà sia la Siria che l’Iraq)139.

La distruzione intenzionale di riserve e dighe si verifica in casi di conflitti non solo per

ridurre la disponibilità di acqua potabile per la comunità e per l’irrigazione agricola nei territori

nemici, o per limitare la produzione di energia elettrica, ma anche per trasformare lo

specchio d’acqua attaccato in una barriera tattica più efficace140. Ad esempio, i

bombardamenti che hanno distrutto le dighe sul Fiume Rosso in Vietnam negli anni ’70 sono

stati pensati non solo per distruggere le coltivazioni, ma anche per creare, grazie alle

inondazioni, un ambiente più favorevole al contagio della malaria141. Nel 1938, la rimozione

delle dighe lungo il Fiume Giallo cinese per bloccare l’avanzata dell’esercito giapponese

provocò un’inondazione che sommerse oltre 23mila chilometri quadrati di territorio,

provocando la morte di 800mila persone a causa dell’impatto dell’inondazione e anche delle

carestie e delle malattie che la accompagnarono142.

In genere quando si analizza l’impatto dell’uso dell’acqua come arma di guerra si fa

riferimento alla perdita di vite umane, alle perdite economiche, all’impatto sulla salute della

comunità locale o a quello dello sfollamento della stessa, ma raramente si calcola l’impatto

che il danno creato ha avuto sull’ambiente. E invece l’alterazione anche temporanea del

corso di un fiume o della sua portata può avere delle conseguenze molto gravi sull’equilibrio

dell’ecosistema circostante. Le inondazioni possono compromettere i raccolti, e il loro

impatto diventa ancora più grave quando l’acqua entra in contatto con terreni

potenzialmente pieni di agenti inquinanti, organici o inorganici, come zone agricole o

industriali, perché questi ultimi vengono inevitabilmente trasportati a valle in tempi

rapidissimi. La ricerca ha dimostrato che mentre alcuni di questi agenti inquinanti riescono

ad essere smaltiti in tempi relativamente brevi, i metalli pesanti possono rimanere

immagazzinati nei sedimenti fluviali per periodi molto lunghi143.

139 N.A. Zawahri, “International rivers and national security: the Euphrates, Ganges-Brahmaputra, Indus, Tigris, and Yarmouk rivers”, National Resources Forum, Vol. 32, 2008, pp.280-289.

140 D. Lary, “Drowned earth: the strategic breaching of the Yellow River Dyke, 1938”, War in History, Vol. 8, 2001, pp.

191-207. 141 Y. Lacoste, “An illustration of geographical warfare: bombing the dikes on the Red River, North Vietnam”, Antipode,

Vol. 5, 1973, pp. 1-13. 142 D. Lary, op. cit. 143 W. Giger, “The Rhine red, the fish dead: the 1986 Schweizerhalle disaster, a retrospect and long-term impact

assessment”, Environmental Science and Pollution Research, Vol. 16, 2009, pp. 98-111.

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Inquinamento dell’ecosistema originario

I fiumi si trasformano spesso in obiettivi chiave per i bombardamenti, sia perché in

genere si trovano in prossimità dei centri abitati, sia perché rappresentano fondamentali

corridoi di trasporto, sia perché le strutture idriche che si appoggiano ai fiumi, come ponti,

pontili, canali di irrigazione, dighe e impianti idroelettrici, hanno una chiara importanza

strategica144. Ancora, i conflitti possono essere alla base di un forte aumento del livello di

inquinamento, sia su elementi dell’ecosistema naturale (trasporto di sedimenti inquinati a

fronte di un bombardamento, che finiscono con l’essere immagazzinati dai fiumi), sia per la

presenza di inquinanti sintetici in genere non presenti in natura (come i radionuclidi sintetici),

che si accumulano molto velocemente nelle risorse d’acqua.

Per quanto l’inquinamento dei bacini di acqua dolce tende ad essere associato

all’aumento della produzione industriale per esigenze di guerra, per questa ricerca è più

interessante capire la tipologia di inquinamento derivante dai conflitti attivi, dai test effettuati

sui sistemi d’arma, o quello legato allo smaltimento degli ordigni. Alcune armi producono

particelle inquinanti che, se in un primo momento tendono a disperdersi liberamente

nell’atmosfera, in un secondo momento finiscono con l’accumularsi nei bacini d’acqua, come

succede, per esempio, per i radionuclidi generati nel corso di test su ordigni nucleari145.

Sia il collaudo che lo smaltimento di altri tipi di munizioni possono avere un impatto

molto forte sull’equilibrio idrico di un territorio. La decomposizione delle munizioni, ad

esempio, può rilasciare metalli pesanti e composti esplosivi tossici che possono rimanere

attivi anche per decenni visti i lunghissimi tempi di conservazione degli involucri delle

munizioni e degli esplosivi146. I metalli pesanti inquinano profondamente, mentre numerose

componenti dei materiali esplosivi hanno un impatto forte sulla sopravvivenza dei

microorganismi che vivono nell’acqua147.

Il bombardamento, la distruzione di infrastrutture o impianti industriali, a prescindere

dal fatto che siano intenzionali o meno, possono determinare la crescita dei

livelli di inquinamento da sostanze tossiche nei sistemi idrici circostanti.

144 U. Oslender, “Another history of violence: the production of ‘‘Geographies of terror’’ in Columbia’s Pacific Coast region”, Latin American Perspectives, Vol. 35, No. 5, 2008, pp. 77-102.

145 M.A. Cross, J.T. Smith, R. Saxe`n, D. Timms, “An analysis of the environmental mobility of radiostrontium from weapons testing and Chernobyl in Finnish river catchments”, Journal of Environmental Radioactivity, Vol. 60, 2002,

pp. 149-163. 146 J. Schwarzbauer, S. Sindern, L. Dsikowitzky, G. Liebezeit, “Geochemical analysis of Lake Bant sediments to

ascertain inorganic and organic indicators for warfare residues”, Journal of Soils and Sediments, Vol. 10, 2010, pp. 104-118.

147 S. M. Harmon, “Effects of pollution on freshwater organisms”, Water Environment Research, Vol. 21, 2009, pp. 2030-2069.

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Una ricerca di Boban Stojanovic del 2001 ha messo in evidenza come, nell’ex Jugoslavia,

sia le acque di superficie che quelle sotterranee siano rimaste profondamente contaminate

a seguito dei bombardamenti della NATO sui territori circostanti, che hanno portato alla

dispersione di petrolio, trasformatori elettrici delle centrali distrutte, prodotti petrolchimici e

altri inquinanti industriali148.

Un ultimo problema gravissimo che può interessare le fonti d’acqua è quello della

contaminazione con nuove specie particolarmente invasive. Questa può essere “naturale”,

vale a dire derivare dall’alterazione scaturita da un bombardamento o un altro attacco

all’ecosistema naturale, o “indotta”, vale a dire voluta dal nemico interessato ad usare la

nuova specie invasiva come arma di guerra. Questi tipi di interventi possono infatti ridurre il

grado di biodiversità dell’ecosistema naturale preso di mira, cambiare la composizione della

sua comunità batteriologica e modificare l’habitat della stessa, creare una situazione di

disagio nell’equilibrio dell’ecosistema e creare problemi anche per la salute dell’uomo149.

148 B Stojanovic, “Some facts on the state of environment in Fr Yugoslavia before and after NATO bombing”, Spatium, Vol. 7, 2001, pp. 24-29.

149 L. Pejchar, H.A. Mooney, “Invasive species, ecosystem services and human well-being”, Trends in Ecology and Evolution, Vol. 24, 2009, pp. 497-504.

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CONCLUSIONI

Tre tendenze chiave

Questa ricerca si è posta l’obiettivo di mettere in evidenza come, in contesti

internazionali marcati da notevole instabilità politica e conflittualità, l’ambiente finisca col

subire aggressioni ben più significative rispetto ad altri contesti più stabili.

Come la letteratura e i casi di studio presentati hanno confermato, i danni a carico

dell’ambiente sono in maggioranza molto gravi e profondi, spesso addirittura irreversibili,

soprattutto in contesti già in partenza compromessi per una scarsa cultura e sensibilità nei

confronti dell’ambiente. I costi di ripristino, parziale o totale che sia, sono spesso così elevati

da rendere impossibile per i paesi più poveri di sostenerli, con conseguenze incalcolabili per

l’ambiente, sia sul piano dell’equilibrio dell’ecosistema, sia su quello della sicurezza delle

comunità che vi abitano.

Le diverse tipologie di casi esaminati, vale a dire sia quelli che si riferiscono a specifici

conflitti, sia quelli che hanno preso in esame l’impatto delle guerre su specifiche risorse,

hanno messo in evidenza tre caratteristiche importanti:

1) La difficoltà di effettuare una stima attendibile dei costi di ripristino, per almeno due motivi.

Anzitutto, l’impatto diverso che un conflitto può avere sul territorio, che a sua volta

dipende da quali strategie verranno messe in pratica per rispondere nella maniera più

efficace ai movimenti del nemico, e le caratteristiche da un lato e lo stato di salute

dall’altro del territorio considerato. Questo perché, ad esempio, il movimento di mezzi

pesanti su un ecosistema già fragile come quello desertico sarà nettamente superiore a

quello, ugualmente problematico, su un territorio di altra natura. In secondo luogo, la

stima dei costi dipende anche dal numero di sfollati che il territorio si troverà a gestire,

visto l’impatto enorme che il loro spostamento e l’eventuale insediamento costruito per

ospitarli comporta sull’ambiente circostante.

2) Un elemento ancora più importante della difficoltà di stimare l’entità dei costi di ripristino

messo in evidenza da questa ricerca è quello della consapevolezza dell’entità del danno.

Consapevolezza che, purtroppo, manca a troppi livelli. Anzitutto alle fazioni o agli eserciti

che innescano il conflitto, spesso con azioni che finiscono col realizzare danni irreversibili

sul territorio (come la distruzione di un pozzo petrolifero), di cui nella maggior parte dei

casi finiscono esse stesse per pagare le conseguenze, anche qualora dovessero uscire

vittoriose dallo scontro, ritrovandosi a gestire un territorio il cui ecosistema è altamente

compromesso. La consapevolezza dell’entità del danno manca spesso anche negli

eserciti che intervengono per contenere il conflitto, che continuano a dare la priorità ai

dettagli tecnici e funzionali delle strategie di guerra adottate, senza prendere in

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considerazione gli effetti di breve, medio e lungo periodo delle stesse sull’ambiente.

Infine, la percezione del danno manca nelle persone direttamente interessate dallo

stesso, vale a dire nelle popolazioni locali che, non essendo in grado di valutare l’entità

dell’alterazione del sistema biologico che li circonda, non sono nemmeno capaci di

prendere le dovute misure di sicurezza per cautelare la loro salute e quella del ciclo

alimentare di cui fanno parte, ne’ riescono ad esercitare pressioni sulla classe dirigente

per indurla ad intervenire nel più breve tempo possibile per consentire il ripristino quanto

meno di un livello di sicurezza accettabile.

3) A queste due importanti problematiche se ne affianca una terza: la vaghezza del sistema

di Diritto Internazionale per quel che riguarda la regolamentazione dei danni provocati

all’ambiente. Questa ricerca ha messo in evidenza come negli ultimi sette anni la

Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite abbia cercato di stimolare un

dibattito in tal senso, cercando di arrivare alla stesura di una serie di Principi Generali che

sono da poco stati sottoposti all’attenzione dei singoli stati e di una serie di Organizzazioni

Internazionali affinché possano esprimere entro il 1° dicembre 2020 un loro parere a

riguardo. Tuttavia, nonostante si tratti di un significativo passo in avanti verso una

ridefinizione delle responsabilità e degli obblighi degli attori statali e non statali nei conflitti

armati, in particolare in riferimento ai danni provocati all’ambiente, siamo ancora molto

lontani dall’ideale auspicato da una parte della letteratura e dell’opinione pubblica, vale a

dire quello della stesura di una nuova Convenzione di Ginevra per sostenere la

protezione ambientale durante i conflitti.

Maggiore consapevolezza per rispondere alle nuove minacce per l’ambiente

Per aumentare il livello di consapevolezza dell’entità del danno provocato da un

conflitto sull’ambiente è necessario definire un sistema che possa calcolarlo in tempi rapidi

e con relativa precisione. Non solo, aumentare il livello di consapevolezza generale del

degrado ambientale innescato dai conflitti e della sua possibile irreversibilità è fondamentale

anche per calcolare in anticipo la gravità di altri fenomeni come, ad esempio, la “Jihad

ecologica” o i cambiamenti climatici come cause di guerra150.

150 S. Somers, “How Terrorists Leverage Climate Change”, New Security Beat, 9 settembre 2019, https://www.newsecuritybeat.org/2019/09/terrorists-leverage-climate-change/; S. Cazora, op. cit.

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Il problema della Jihad ecologica

Per quanto si tratti di un fenomeno molto nuovo, la letteratura di riferimento sta

crescendo molto rapidamente. Di fatto una minaccia ancora più latente che reale, per Jihad

ecologica in genere si intende l’intenzione, da parte di gruppi terroristici, di sfruttare

l’esistenza di ecosistemi vulnerabili e la minaccia di distruggere gli stessi per intimidire o

innescare uno stato di terrore nella popolazione che vive nelle aree prese di mira e creare

così condizioni più favorevoli per portare avanti la propria agenda politica o ideologica.

Tra le organizzazioni che hanno già sfruttato il concetto di jihad ecologica ci sono

naturalmente Isis, Hezbollah e Al Qaeda. Le “tattiche” di questo tipo di Jihad comprendono

contaminazione delle risorse idriche, del suolo e incendi. In generale, quindi, si tratta di

interventi mirati che possono essere pianificati ed eseguiti in tempi ravvicinati e rapidissimi,

e che richiedono poca esperienza sul piano dell’esecuzione pratica. Dettagli, questi, che

rendono l’implementazione della Jihad ecologica più facile, e quindi anche più pericolosa e

preoccupante.

In contesti già sotto stress per motivi contingenti, l’effetto coercitivo di una minaccia

volta a distruggere o contaminare in maniera irreversibile una risorsa scarsa ma allo stesso

tempo essenziale per la stabilità sociale ed economica del luogo preso di mira diventa

enorme. Se da un lato è essenziale aumentare la consapevolezza dell’impatto di un attacco

sull’ambiente e delle sue ripercussioni su chi lo sferra nel tentativo di ridurre gli incentivi per

questo tipo di strategia, dall’altro emerge come nuova priorità quella di aumentare gli

interventi per ripristinare e riequilibrare gli ecosistemi esistenti per essere in grado di limitare

la minaccia terroristica. Ad esempio, nel 2012 un numero della rivista online Inspire ha

documentato la presenza su un forum online jihadista di articoli che descrivevano nel

dettaglio la procedura per costruire “bombe di brace” per colpire aree boschive degli Stati

Uniti. Ebbene, nonostante questo tipo di minaccia non sia facilmente contenibile, gli esperti

del settore ritengono che un riequilibrio dell’attuale affollamento delle aree in questione

potrebbe contribuire a limitare l’impatto dell’eventuale attacco, ridurre i tempi necessari per

contenerlo, e tenere sotto controllo i costi di ripristino post-attacco151.

Cambiamenti climatici e conflitti

Relativamente al ruolo giocato dai cambiamenti climatici sugli scenari geopolitici in

generale e sulle guerre in particolare, sappiamo già che “dal 3% al 20% dei conflitti del

151 S. Somers, op. cit; B. Gabbert, “Al Qaeda magazine encourages forest fire arson in the US”, Wildfire Today, 2 maggio 2012, https://wildfiretoday.com/2012/05/02/al-qaeda-magazine-encourages-forest-fire-arson-in-the-us/

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secolo scorso ha avuto fra le cause scatenanti fattori legati al clima, e il rischio aumenterà

per effetto del riscaldamento globale”152. Il riscaldamento globale porterà a problemi di

riduzione delle risorse disponibili, insostenibilità degli habitat naturali, inaridimento dei

terreni (e conseguente diminuzione della capacità agricola dei vari territori interessati, oltre

che della capacità di far crescere bestiame)153. Anche il semplice fatto che intere popolazioni

saranno costrette a spostarsi perché le temperature dei luoghi in cui abitano si alzeranno

troppo, o perché i territori in cui vivono potrebbero essere sommersi dall’acqua, creerà

un’escalation di tensioni che, a loro volta, avrà ripercussioni importanti sugli equilibri

ambientali. Del resto, più le risorse diventeranno scarse, più aumenterà la competizione per

appropriarsene. Gli effetti di questa tendenza su sistemi in partenza meno prosperi e quindi

più esposti ai fattori di rischio potrebbero risultare incontrollabili, andando a minare non solo

la sfera economica, ma anche quella “sociale e dei diritti umani. Ne consegue un calo della

coesione e della stabilità delle comunità rurali, che si ripercuote anche sulle aree urbane in

termini di insicurezza e conflittualità, favorendo le spinte migratorie”154.

Raccomandazioni

Una fetta sempre più consistente della letteratura ha ricominciato a parlare della

necessità di rilanciare il dibattito sull’ “ecologia di guerra”, in inglese warfare ecology, un

concetto di approccio al conflitto capace di tenere in conto in maniera preventiva delle

conseguenze delle varie tattiche e strategie adottate durante lo stesso. “Lo sviluppo e il

potenziamento di una nuova ‘ecologia di guerra’ sono oggi una necessità tanto scientifica

quanto morale”, scrivono i ricercatori Gary Machlis e Thor Hansondi nel loro articolo

intitolato, appunto, ‘Warfare Ecology’155. Le ragioni scientifiche includono l’impatto dei

conflitti sull’ambiente, la complessità dell’interazione, nel corso della guerra, con i sistemi

naturali e sociali preesistenti, e le specifiche caratteristiche del conflitto, in particolare il

livello di distruttività e l’intensità dell’impatto sull’ecosistema ecologico antecedente al

conflitto. Le ragioni morali, invece, includono da un lato la necessità di controbilanciare gli

avanzamenti nello sviluppo di nuove tecnologie di guerra con contributi significativi

all’ecologia di guerra capaci sia di ridurre l’impatto dei conflitti sull’ecosistema e sull’uomo,

152 S. Cazora, op. cit, p.42.

153 Gruppo di lavoro 70^ sessione di Studio dell’Istituto Alti Studi per la Difesa, “Climate Security l'influenza dei mutamenti climatici sugli scenari geopolitici e ripercussioni sugli interessi nazionali”, Codice ricerca AO-SMD-02, giugno 2019, Centro Militare di Studi Strategici, Roma, http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/ricerche/Pagine/Ricerca_AO_SMD__02.aspx

154 Ibid, pp. 23-24. 155 G. E. Machlis e T. Hanson, op. cit, p. 734.

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sia di contribuire alla promozione della pace e della sicurezza su scala locale, regionale e

globale156.

Anche questa ricerca, nel tentativo di offrire un contributo al dibattito in questione, si

conclude offrendo qualche suggerimento e raccomandazione:

Potenziamento della letteratura: per sviluppare al meglio il concetto di ecologia di guerra

è necessario definire in maniera più precisa il quadro teorico di questa disciplina, dando

priorità all’interconnessione tra sistemi e modelli biofisici e socio-economici. Un buon

punto di partenza potrebbe essere quello di approfondire il collegamento tra guerra,

intenzionalità della stessa, livello di distruttività raggiuto, e intensità dell’impatto sia sulla

natura sia sul contesto socio-economico circostante.

Messa a punto di nuove strategie di ricerca in grado testare la validità del quadro teorico

proposto. A questo scopo, va aumentato il numero di casi di studio analizzati, per poter

mettere insieme un numero sufficiente di dati che aiuti a individuare delle regolarità sulla

scala e sulla tipologia dell’impatto dei conflitti sulla natura.

Questo tipo di ricerca è essenziale per lo sviluppo di modelli in grado di prevedere e

documentare con un elevato livello di attendibilità gli effetti a cascata dei conflitti su

ecosistemi specifici.

La speranza è che l’approfondimento, anche sul piano teorico, di questa disciplina,

possa sia contribuire ad aumentare la consapevolezza dell’impatto negativo dei conflitti

sull’ambiente e sulle comunità che vi abitano, sia creare nuovi incentivi per cercare di

contenere in partenza l’inevitabile distruzione degli ecosistemi toccati dai conflitti.

Ad esempio, una parte di studiosi ritiene che aumentando la capacità di quantificare i danni

ambientali di un conflitto e di prevedere gli effetti a cascata dello stesso si potrebbero

raggiungere i seguenti obiettivi:

Incoraggiamento dell’integrazione delle nozioni di ecologia di guerra nel processo di

pianificazione delle strategie militari, allo scopo di mitigare l’impatto della guerra

sull’ambiente sia nella fase di addestramento che in quella di combattimento,

potenziando lo studio di politiche di guerra e piani tattici che prendano in considerazione

la protezione dei servizi critici dell'ecosistema per garantire capacità postbelliche di base

e il monitoraggio dei movimenti di massa degli sfollati.

156 Ibid.

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Incoraggiamento dell’applicazione delle convenzioni internazionali pertinenti per la tutela

dell’ambiente e della creazione di nuove convenzioni in grado di occuparsi dello

smaltimento dei residui di guerra e del restauro postbellico.

Incoraggiamento dello sviluppo di politiche in grado di aumentare il livello di sicurezza per

l’uomo e per l’ambiente in zone di conflitto. Le strategie utilizzate per promuovere la pace

e la sicurezza spesso falliscono a fronte dell’elevato stato di degrado che caratterizza i

servizi esistenti (produzione agricola, energetica, reperibilità di risorse naturali e acqua

potabile), e per le pressioni causate dagli sforzi di gestione delle comunità di sfollati. Una

buona ecologia di guerra può contribuire a sviluppare sistemi di monitoraggio dei singoli

ecosistemi, per metterli poi al servizio della rete di governi, organizzazioni militari e

umanitarie chiamate ad intervenire per occuparsi del restauro post-bellico.

A questo punto, le chiavi del successo per creare abitudini virtuose in grado di limitare

l’impatto dei conflitti sugli ecosistemi naturali e di gestire nella maniera più efficace possibile

gli interventi post-bellici sembrano essere due. In primo luogo, va potenziata quella parte

della ricerca specializzata nella quantificazione dei danni (prima del conflitto, durante il

conflitto, nel periodo immediatamente successivo alla sua conclusione, e di lungo periodo).

Come illustrato in figura 5, l’impatto di una guerra sull’ecosistema naturale di un territorio

può essere molto variegato. Tuttavia, l’avere a disposizione tabelle che possano stimare

l’entità del danno a seconda sia della strategia bellica impiegata sia dello stato di salute e

delle caratteristiche intrinseche dell’ambiente è fondamentale per permettere ai governi, agli

eserciti e alle organizzazioni umanitarie di rendersi conto del problema che pianificano di

creare o che si troveranno ad affrontare.

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Figura 5: Esempi dei possibili impatti di una guerra sul territorio, nella fase pre e post confitto.

(Fonte: G. E. Machlis e T. Hanson, op. cit, p. 732).

L’indubbia utilità di poter disporre di tabelle di riferimento e algoritmi di calcolo capaci

di stimare l’entità del danno non significa, purtroppo, che arrivare a questo risultato sia

semplice. Al contrario, l’estrema varietà di situazioni e variabili da tenere in considerazione

rende molto difficile arrivare a una sintesi di questo tipo. La ricerca che ha permesso

l’elaborazione di questo rapporto ha messo in evidenza è la necessità di continuare a

studiare i conflitti, in particolare quelli più lontani nel tempo, perché è in questi teatri che

sono stati raccolti più dati e informazioni.

Come alcuni casi di studio presentati in questa ricerca hanno messo in evidenza,

quando il bacino di dati numerici è importante, le valutazioni sull’impatto del conflitto

sull’ecosistema diventano sia più chiare sia più convincenti. Uno studio di questo tipo

potrebbe aiutare ad individuare le aree relativamente alle quali è più utile, o urgente, definire

algoritmi di calcolo speditivo in grado di elaborare previsioni accurate sull’impatto del

conflitto su una risorsa particolare, o in uno specifico contesto.

Una metodologia che permette di stimare questo tipo di impatto esiste, anche se

raramente viene applicata in contesti di guerra. Relativamente al suolo, ad esempio, è il

ramo del Geographic Information System (GIS) che se ne occupa, elaborando mappe di

utilizzo del suolo, che riprendono immagini satellitari di ampie aree, le aggiornano in base

alle caratteristiche base del territorio (spessore del suolo, conformazione geografica del

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paesaggio, ecc.), e le utilizzano per calcolare l’impatto sullo stesso di un particolare

fenomeno, come l’inondazione di un suolo agricolo, stimando l’entità dell’alterazione

dell’assetto originario del terreno157.

È evidente come studi di previsione di questo tipo potrebbero essere adattati anche

allo studio dell’impatto di altri fenomeni, come passaggio di mezzi pesanti, esplosioni e via

dicendo. In particolare, dopo aver recuperato le mappe satellitari corrispondenti alla zona

da monitorare, andrebbero definite funzioni di usura o di impatto, e a questo punto calcolati

gli algoritmi di riferimento, moltiplicando la variabile suolo per una funzione che definisce la

distribuzione del danno, ottenendo quindi una stima affidabile del danno inferto al territorio

e una previsione degli equilibri ecologici successivi all’attacco.

Alla possibilità di disporre di dati convincenti si lega il secondo punto chiave identificato

come determinante nella creazione di dinamiche virtuose capaci di limitare l’impatto dei

conflitti sugli ecosistemi naturali: la sensibilizzazione degli operatori e del pubblico.

La ricerca condotta per questo rapporto ha messo in evidenza l’assenza quasi totale

di consapevolezza da parte del grande pubblico dei danni contingenti e permanenti legati a

un conflitto, nel breve, medio e lungo periodo. Spesso sono proprio le dinamiche base della

presenza militare su un territorio ad essere ignorate dal grande pubblico: conseguenze della

compattazione del suolo, inquinamento in profondità delle falde acquifere, impoverimento

del manto vegetale, pressione esercitata dagli spostamenti in massa degli sfollati, sono tutte

dinamiche il cui impatto reale non viene descritto in maniera sufficientemente precisa ne’

dagli addetti ai lavori ne’ dai media, riducendo la capacità degli osservatori esterni di

percepire l’entità reale del disastro.

Per questo motivo sarebbe auspicabile mettere a punto campagne di sensibilizzazione

mirate sull’impatto di un conflitto sull’ecosistema naturale. La percezione complessiva è che

campagne concentrate su singoli disastri, soprattutto se supportate più che da immagini da

dati numerici relativi a una stima dell’entità della distruzione nel breve e nel lungo periodo,

all’impatto della stessa per la flora e la fauna locale ma anche per l’uomo, e dei costi

necessari per eliminare le conseguenze del danno (quando possibile) e ripristinare lo status

quo antecedente all’intervento militare, possano essere più efficaci nel facilitare la

comprensione della gravità di un problema specifico nelle sue varie sfaccettature.

157 X. Zhu, GIS for Environmental Applications: A practical approach, London, Routledge, 2016; X. Zhu, “GIS and Urban Mining”, Resources, Vol. 3, 2014, pp. 235-247; A. Bayes, Md. Kamruzzaman, X. Zhu, Md. Shahinoor Rahman, K. Choi, “Simulating Land Cover Changes and Their Impacts on Land Surface Temperature in Dhaka, Bangladesh”, Remote Sensing, Vol. 5, 2013, pp. 5969-5998.

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Una descrizione troppo generale sull’impatto di un conflitto sul territorio potrebbe risultare

vaga ed essere percepita come “conseguenza inevitabile” di una guerra.

Sempre nell’intento di aumentare la consapevolezza sull’impatto reale di un conflitto

su un ecosistema, potrebbe essere efficace organizzare campagne di comunicazione che

mettano a confronto strategie diverse di intervento e relative stime di danno inferto,

nell’immediato ma, soprattutto, nel medio e nel lungo periodo.

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NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SULL’AUTORE

Ce.Mi.S.S.158

Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è l'Organismo che gestisce, nell'ambito e

per conto del Ministero della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico.

Costituito nel 1987 con Decreto del Ministro della Difesa, il Ce.Mi.S.S. svolge la propria

opera valendosi si esperti civili e militari, italiani ed esteri, in piena libertà di espressione di

pensiero.

Quanto contenuto negli studi pubblicati riflette quindi esclusivamente l'opinione del

Ricercatore e non quella del Ministero della Difesa.

CLAUDIA ASTARITA

Claudia Astarita è docente presso Sciences Po-Lyon e ricercatrice per

l’area “Asia Orientale” presso il Centro Militare di Studi Strategici

(CeMiSS) del Ministero della Difesa. Scrive approfondimenti sull’Asia

per riviste nazionali e internazionali. Ha un dottorato in Studi Asiatici

(The University of Hong Kong) e ha lavorato per molti anni come

ricercatrice a New Delhi, Hong Kong e Melbourne.

158 http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pagine/default.aspx

FOTO AUTORE

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