Clara dos Anjos

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LIMA BARRETO CLARA DOS ANJOS PREFAZIONE DI STEFANO ROLANDO DIABASIS Romanzo

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Un romanzo breve che affronta temi scottanti e rivelatori del contesto brasiliano profondo, come quello delle discriminazioni, combinate tra loro, di razza, classe e genere. Protagonista è una povera fanciulla mulatta che, sedotta e abbandonata, diventa corpo e simbolo dell’umiliazione classista e razzista nel Brasile repubblicano. Lima Barreto dipinge il dramma di tante ragazze nelle stesse condizioni di Clara, tentando di fare del suo personaggio una figura universale: la mulatta carioca, più che un personaggio, diventa un argomento vivo e un elemento di denuncia. L’autore, “patrono letterario” degli esclusi e simbolo di resistenza all’autoritarismo, è il maggior esponente del romanzo d’impegno sociale ove è possibile cogliere, oltre a una erudizione letteraria attinta dai grandi romanzieri russi e francesi, un’entusiasta adesione all’idea e all’impegno socialista.

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LIMA BARRETO

CLARA DOS ANJOSPREFAZIONE DI STEFANO ROLANDO

DIA

BASIS

Romanzo

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A l B u o n C o r s i e r o

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Coordinamento editorialeFabio Di Benedetto

RedazioneAnna Bartoli

Leandro del Giudice

Progetto grafico e copertinaStudio Bosio, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-750-6

© 2013 Diaroads srl - Edizioni Diabasisvicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia

telefono 0039.0521.207547 – e-mail: [email protected]

Opera pubblicata con il sostegno del Ministero della Cultura del Brasile/Fondazione Biblioteca Nazionale

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Lima Barreto

Clara dos Anjos

A cura diVincenzo Russo e Roberto Vecchi

PrefazioneStefano Rolando

Traduzione

Romina Santini e Franco Gurgone

D I A B A S I S

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Nota editoriale

Il volume Clara dos Anjos è stato tradotto da Romina Santini e Fran-co Gurgone. Un'attenta revisione del testo è stata compiuta da Vin-cenzo Russo. La prefazione al volume è di Stefano Rolando che, ol-tre a essere un esperto di comunicazione, è un profondo conoscito-re del Brasile sin dai tempi della dittatura militare. La postfazione Clara dos Anjos: razza, classe e genere in una periferiachiamata Brasile è curata da Roberto Vecchi.

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Prefazione

Perché proporre Clara dos Anjos un secolo dopo, alla suaprima traduzione in lingua italiana?

Perché proporre un testo importante della “letteratura de-gli esclusi” nel Brasile delle immense differenze sociali pro-prio quando il Brasile, ridotte parzialmente quelle differenze(pur sempre in parte esistenti), organizza la più grande vetri-na mondiale del terzo millennio (Olimpiadi, Mondiali, forseExpo) per presentare se stesso come player di prima gran-dezza?

Perché fare luce su una figura femminile di una età sen-za diritti quando il processo di emancipazione delle donneha creato una soglia irreversibile in larga parte del mondo,pur se derogata e aggredita quotidianamente?

Tenderei a non rispondere a nessuno dei tre quesiti. Perché il lettore che ha in mano la traduzione italiana del

romanzo di Lima Barreto ha già risposto correttamente intutti e tre i casi.

È un lettore che non è frenato dalla “moda”, ha sguardo sto-rico e cerca di adattare la realtà del presente alle sue evoluzioni.

Un lettore che ama il mondo e che, pur se dentro a ine-vitabili stereotipi, ha sul Brasile una percezione di com-plessità che rende appassionante la scommessa del presen-te a condizione di non avere censure sul percorso di cinquesecoli di una ex colonia.

Un lettore che sui diritti sa che niente – neanche la Dichia-

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razione universale dei diritti umani – è scolpita nel marmo persempre e per tutti; e che senza riflettere sulla condizione uma-na nessun codice mantiene vita, emozione, speranza.

La storia del Brasile – come quella di molti paesi in cui laricchezza ambientale ha prodotto potere e conflitti – è me-ravigliosa e raccapricciante.

Gli storici brasiliani sono di reputazione internazionale.Hanno smesso di “ricavare” la storia dalle storie delle civiltàpiù antiche. Hanno seguito il paradigma prioritario della for-mazione di un cosmopolitismo originario con un forte pro-filo identitario che ha agito come integratore prevalente.

Il luogo comune è che il paese nel Novecento abbia mag-giormente ridotto il conflitto etnico e razziale (la lei Aureadel 1888 aveva messo in libertà i 723.719 schiavi esistenti inBrasile) rispetto ad altri paesi – come gli Stati Uniti – nei qua-li tale conflitto ha invece agito con forme di segregazionismo.

Si ritiene che tale processo abbia consegnato il paese a unamodernizzazione più morbida, più coerente con i luoghi comu-ni del suo brand: l’allegria, la musica a “bassa tensione”, il car-nevale religioso e pagano al tempo stesso, il futebòl che è – noidiremmo “in senso partenopeo” – coralità sacra e passionale.

Ma, appunto, si tratta di luoghi comuni. In parte veri, inparte insufficienti a spiegare la realtà.

Se per alcune specifiche comunità – come quella italianao quella tedesca –, integrabili in un sistema storicamente ari-stocratizzato dai colonialisti, si sono schiuse quasi tutte leporte, altri gruppi etnici hanno convissuto con il paradigmadella “morbidezza” ma non hanno avuto tutte le porte aper-te. Neri, mulatti e meticci in particolare. Potevi, nel Nove-cento, diventare ministro. Ma ti dovevi chiamare Pelè.

Il Brasile arriva all’appuntamento del Novecento – in cuiprende a poco a poco la definizione un po’ propagandistica

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(ma ora qualche conto torna) di Paìs do futuro – avendo re-golato il suo profilo costituzionale, ma dovendo fare quasitutto rispetto ai modelli sociali ed economici dell’Occiden-te1. È la casta militare – di cultura neopositivista, ma politi-camente poco sperimentata – a gestire i cambiamenti. Nel1889 il maresciallo Manuel Deodoro proclama la Repubbli-ca e diventa primo presidente (rinuncerà due anni dopo –con la nuova Costituzione – a favore di Floriano Peixoto, co-mandante dell’esercito di Rio, che nel ‘95 chiuderà nel san-gue la rivolta federalista di Rio Grande do Sul e passerà allastoria per la sorgente città di Florianópolis). In mezzo a ten-sioni, rivolte domate (da Chibata a Contestado), nuove rego-le sociali (sulla schiavitù si mantiene il punto, distruggendonel 1891 la traccia burocratica degli archivi che avevano re-gistrato gli schiavi), il Brasile – non molto popolato – assistetra il 1870 e il 1907 a una grande ondata migratoria: 56.000tedeschi, 288.000 spagnoli, 1.208.000 italiani, 520.000 por-toghesi, 55.000 russi e 200.000 di altre provenienze (in tota-le 2 milioni e 328 mila immigrati che raddoppieranno nellaprima parte del Novecento lasciando il primato agli italianicon oltre un milione e mezzo di immigrati che oggi costitui-scono con la loro discendenza la – stimata – più grande co-munità etnica del paese).

Il Brasile era attraversato, nel cambio di secolo, dal conflit-to tra Chiesa e Massoneria (a cui apparteneva la classe milita-re), e anche da una questione militare (nel senso che ai milita-ri era proibito occuparsi di politica, con un principio destina-to a essere perennemente infranto). Il conflitto di base diventaquello tra democrazia e golpismo – per dirla in parole povere –come modalità per regolare il corso della storia. Il Novecentoriprodurrà lo schema in Brasile e in tutta l’America latina.

Tra poveri, immigrati, un quadro di rapidissima urba-

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nizzazione, prima formazione di una economia industriale,arretratezza delle condizioni di lavoro nelle campagne, tut-ta l’iconografia del cambio di secolo ci consegna immaginiche una certa pittura sociale italiana – da Carlo Levi a Lo-renzo Viani – ci ha mostrato con non molta differenza.

La canzone popolare della nuova immigrazione italianadiceva così:

Na América onde chegamosNão encontramos nem palha nem fenoDormíamos no châo, ao serenoCome as bestas irracionaisE com o engenho dos nossos italianosE esforço de nossos paisanosCom o passar dos anosConstruimos paises e arraiais2

Appunto, con il passar dos anos. Intanto è dura per tut-ti. Per i nuovi arrivati, per gli emarginati di sempre (indi-geni e meticci, molti gravati da una storia di schiavitù ap-pena chiusa formalmente), per una società che arriva daschemi verticali rigidi povera di una borghesia intermedia,lo sviluppo ha regole naturalmente violente. Lenite da al-cune nuove missioni cattoliche che seguono in parte l’im-migrazione e agiscono sul fronte educativo, ma che devonotener conto di una cultura della rappresentanza che chiedetempo per incidere socialmente.

Con approssimazione è questo il contesto in cui Alfonsode Lima Barreto, nato il 13 maggio del 1881 a Rio dove mo-rirà nel 1922, figlio di genitori che avevano conosciuto per-sonalmente o di famiglia la schiavitù, considerato il mag-gior escritor libertário del Brasile, ha adattato i suoi teminarrativi.

Dal 1902, studente, prese a scrivere sulla stampa. Sul

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«Correio de Manhã» dedicò una serie di reportages alla de-molizione del Morro do Castelo, il quartiere storico di Riofondato nel Seicento e cancellato dalla riforma urbanisti-ca. Prima di essere travolto dall’alcool, la sua produzionegiornalistica e narrativa fu rilevante. La bussola è in parteautobiografica, in parte di guerra culturale all’ipocrisia so-ciale. Fu osteggiato dalla cultura ufficiale per un uso trop-po colloquiale della lingua, ma in definitiva per un suo filorosso, che partendo da sentimenti anarchici lo portò a pre-ferire la stampa di orientamento socialista.

Bernardo de Mendonça ha riunito alcuni suoi scritti(Um longo Sonho do Futuro, 1993) che ricompongono ilsuo difficile tratto autobiografico, attraversato da intuito,reattività, originalità, depressione. Un brasiliano moderno,testimone fondamentale per riscrivere quella che gli stori-ci brasiliani chiamano l’età delle iniquidades sociais na hi-storia brasileira.

Clara dos Anjos è del 1922, pubblicato postumo solo nel1948. Il cambiamento e la complessità della città si sentonomolto3. Clara è una mulatta carioca, ben educata ma espo-sta ai rischi della vita, che fanno emergere la sua fragilità inun racconto mirabile del contesto sociale. Nell’ultima rigadel testo, la sintesi dei mesti sentimenti della protagonista.

Per gli scrittori si ricordano abitualmente i premi lette-rari. Per Lima Barreto si deve ricordare che la Scuola diSamba GRES-Unidos da Tijuca lo ha homenageado nel1982 nel Carnaval Carioca con un samba-enredo dal titoloLima Barreto, mulatto povero ma libero.

Stefano Rolando

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Note

1. Sulla percezione del “futuro” di questo paese, non solo tra i brasiliani maanche tra i suoi più autorevoli conoscitori, resta il magnifico riferimentodel testo (pur impostato nella lettura del passato) di Stefan Zweig, Bra-sile. Terra del futuro, ora in edizione italiana (Elliot, 2013).

2. In America dove arriviamo / non troviamo paglia o fieno / dormiamo perterra, all’aperto / come bestie irrazionali / e con l’ingegno dei nostro ita-liano / e l’impegno dei nostri paesani / Col passar degli anni / costruia-mo paesi e villaggi.

3. La prefazione all’edizione brasiliana di Clara dos Anjos era stata scritta daun monumento culturale dell’approccio all’identità brasiliana, SergioBuarque de Holanda, che tra l’altro scrive: «L’opera di questo scrittoreè, in gran parte, una dissimulata confessione, con l’intima amarezza deirisentimenti e dei fallimenti personali, ma che nei suoi momenti miglio-ri lui sa trasfigurare in arte».

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Capitolo primo

Il postino Joaquim dos Anjos non era uomo da serenatee canzoni; amava però la chitarra e le modinhas1. Suonavail flauto, strumento molto apprezzato un tempo e oggi nonpiù come allora. I vecchi di Rio de Janeiro, ancora adesso,ricordano il famoso Calado2 e le sue polche, una delle qua-li – Ahimè, cugina mia! – è un ricordo emozionante per icarioca che vanno per i settanta. Da un po’ di tempo a que-sta parte, tuttavia, il flauto ha perso d’importanza, e soloun flautista dei nostri giorni è riuscito, per qualche breveperiodo, a riabilitare quel melodioso strumento, delizia deinostri padri e dei nostri nonni. Ovvero Patápio Silva3. Conla sua morte il flauto tornò a occupare un posto secondariocome strumento musicale, al quale i maestri di musica, ese-cutori o critici eruditi, non danno alcuna importanza.Tornò a essere uno strumento plebeo.

Eppure nella semplicità dei suoi natali, della sua origine edella sua condizione, Joaquim dos Anjos si riteneva un mu-sicista di un certo livello, ché oltre a suonare il flauto com-poneva valzer, tanghi e accompagnamenti per modinhas.Una delle sue polche – Granchio senza chele – e uno dei suoivalzer – Pene del cuore – ebbero un certo successo, al puntoche egli vendette la proprietà di ognuna, per 50.000 réis4, aun negozio di musica e pianoforti di Rua do Ouvidor.

La sua conoscenza musicale era scarsa; più che applica-re, intuiva le nozioni teoriche che aveva studiato.

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Aveva imparato l’abbecedario della musica nella sua terrad’origine, nei dintorni di Diamantina, dove nelle feste di chie-sa il suo flauto si era distinto, ed era considerato da molti il mi-glior flautista del luogo. Nonostante godesse di questa inco-raggiante fama, non volle mai ampliare le sue conoscenze mu-sicali. Era rimasto all’abbecedario di Francisco Manuel, chesapeva a memoria; ma non si era mosso da lì, per andare oltre.

Poco ambizioso nella musica, lo era anche nelle altre ma-nifestazioni della sua vita. Disgustato dall’esistenza me-diocre vissuta nella sua piccola città natale, un bel giorno,intorno ai ventidue anni, aveva accettato l’invito di un in-gegnere inglese che, da quelle parti, andava esplorando ter-re e terreni diamantiferi. Almeno era quello che tutti cre-devano che il tal mister facesse. La verità, tuttavia, era cheil saggio inglese faceva studi disinteressati. Stava condu-cendo pure e platoniche ricerche geologiche e mineralogi-che. Il diamante non era il fine dei suoi lavori; ma il popo-lo, che si ostinava a vedere, nei dintorni della città, il ventredella terra pieno di diamanti, non poteva ammettere cheun inglese che cercava pietre, dalla mattina alla sera, pren-dendo appunti e con rudi strumenti, non stesse cercandodiamanti. Non c’era modo per il mister di convincere lagente sempliciotta del luogo che non ne voleva sapere nul-la di diamanti; e non c’era giorno in cui il suddito di SuaGraziosa Maestà non ricevesse una proposta di vendita diterreni, nei quali doveva per forza esistere un’abbondanzadi pietre preziose, secondo gli indizi sicuri, di un “cercato-re di diamanti” esperto.

Subito, all’arrivo del geologo, Joaquim s’offrì come pag-gio, guida, incassatore, servitore etc., e fu talmente obbe-diente e servì così bene il saggio, che questi, considerate con-cluse le sue ricerche, lo invitò ad accompagnarlo a Rio de Ja-neiro, incaricandolo di trasportare il suo ciottoloso o pietroso

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bagaglio, fino a bordo. Il saggio s’impegnava a pagargli la per-manenza a Rio, cosa che fece, fino al suo imbarco per l’Euro-pa. Gli diede del denaro per il ritorno, un cappello di sughe-ro, dei gambali, una pipa e una scatola di tabacco Navy Cut;Joaquim si era già ambientato a Rio de Janeiro, nel mese o po-co più in cui vi stette, al servizio del signor John HerbertBrown, della Reale Società di Londra; e decise di non torna-re a Diamantina. Vendette i gambali e il cappello di sugheroa un rigattiere e si mise a fumare il suo delizioso tabacco in-glese nella pipa che gli era stata regalata, passeggiando perRio, fintanto che ebbe denaro. Quando il denaro finì cercò iconoscenti che già aveva, e nel giro di poco tempo iniziò a la-vorare come impiegato nello studio di un grande avvocato,un suo conterraneo, un mineiro5.

«Non riceverai da me alcun compenso – gli disse subitoil dottore – ma qui fare conoscenze utili per trovare qual-cosa di meglio più avanti».

Vide bene che il “dottore” gli diceva la verità, e tutta la suaambizione si ridusse a ottenere un piccolo impiego pubblicoche gli desse diritto a una pensione e alle garanzie integrati-ve per la famiglia che avrebbe formato. Alla fine di due annidi lavoro, aveva ottenuto la qualifica di postino, e da benquattro lustri era molto contento e soddisfatto della sua vita,tanto più che si era meritato successive promozioni.

Si era sposato qualche mese dopo la nomina e, essendomorta sua madre, a Diamantina, come figlio unico, eredita-va la casa e qualche terra a Inhaí, una circoscrizione di quel-la città mineira. Vendette la modesta eredità, e trattò l’ac-quisto di quella casetta in periferia in cui ancora viveva e chediventò sua. Il prezzo era stato modico ma, pur così, il dena-ro dell’eredità non era bastato, e aveva pagato il resto a rate.Adesso però, e ormai da diversi anni, era in pieno possessodel suo “buco”, come lui chiamava la sua umile casuccia. Era

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semplice. Aveva due stanze; una che dava nel salotto e l’altranella sala da pranzo, una rimaneva alla destra, l’altra alla si-nistra di chi vi entrava. Al salotto, seguiva immediatamentela sala da pranzo. In fondo vi era un prolungamento, corri-spondente a poco più di un terzo della larghezza totale del-la casa, formato dalla cucina e da un minuscolo ripostiglio. Ilprolungamento comunicava con la sala da pranzo tramiteuna porta; e il ripostiglio, a sinistra, lo riduceva come a unbreve corridoio, fino alla cucina, che si estendeva per tutta lasua larghezza. La porta comunicante con la sala da pranzoera molto vicina a quella da cui si accedeva all’orto. Era cosìla pianta della proprietà di Joaquim dos Anjos.

Esterna al corpo della casa, vi era una baracca con ba-gno, vasca, etc., e nell’orto, di discrete dimensioni, vi cre-scevano alberi di guave, due o tre alberi di arancio, uno dilimone galiziano, alberi di papaia e una grande pianta di ta-marindo frondoso, proprio in fondo.

La strada in cui era la casa si sviluppava in piano e quan-do pioveva s’allagava e diventava peggio di un pantano.Tuttavia era una strada popolata ed era un percorso obbli-gato per chi che andava dai margini della stazione centraleverso la distante e affollata circoscrizione di Inhaúma.Grossi carri, auto, camionette che, quasi giornalmente,passavano da quelle parti per approvvigionare i negozian-ti che i grossisti fornivano; la percorrevano dall’inizio allafine, mostravano che tale via pubblica avrebbe dovuto me-ritare più attenzione dall’autorità municipale. Era una stra-da tranquilla e interamente, o quasi, edificata secondo l’an-tico gusto della periferia, il gusto dello chalet. Era abitata ededificata quasi interamente, da un lato e dall’altro. Da lì,s’intravedeva un bel panorama di montagne dai colori can-gianti, a seconda dell’ora del giorno e delle condizioni deltempo. Le montagne erano molto distanti ma sembravano

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attorniarla, e la strada sembrava essere l’asse di quell’arenadi monti che, durante tutto il giorno, parevano essere illu-minati da proiezioni luminose, rivestendosi di tutta la gam-ma del verde e dei toni azzurri e, verso il crepuscolo, veni-vano ricoperte d’oro e di porpora.

Al di là dei classici chalets suburbani, s’incontravano altritipi di case. Alcune relativamente recenti, con certi fronzolie decorazioni moderne, per nascondere la mancanza diconfort e giustificare l’esagerazione degli affitti. C’era peròuna casa degna d’essere vista. Si ergeva quasi al centro di ungrande podere ed era la caratteristica casa delle vecchie te-nute d’altri tempi: lunga facciata, poca profondità, soffittobasso, rivestita di maioliche fino a metà del piedritto. Un tan-tino brutta, è vero, così com’era, senza eleganza, ma si spo-sava perfettamente con gli alberi di mango, con le robustepiante di jaqueira6 e con le impertinenti palme da cocco e contutti quei grandi e piccoli alberi invecchiati, che coloro che lipiantarono, forse, non li avevano mai visti fruttificare. Traquesti alberi, dove si potevano ravvisare resti dell’antico giar-dino, vi erano statuette di ceramica portoghese con iscrizio-ni azzurre. Una era la Primavera; un’altra era l’Aurora; qua-si tutte, però, erano mutilate; alcune, in un braccio; altre nonavevano la testa, e altre ancora giacevano sul terreno, cadu-te dai loro rozzi piedistalli.

I muri che circondavano la casa, a ragionevole distanza,compreso il muro al quale si appoggiava l’inferriata davan-ti all’immobile, erano ricoperti di edera, che li aggroviglia-va in tutto o in parte, non come un sudario, ma come unaustero, cerimonioso e vivo manto d’altre epoche e d’altregenti, provocando nostalgie e evocazioni, animando la ro-vina. Oggi è raro a vedersi a Rio de Janeiro un muro rico-perto di edera; eppure trent’anni fa a Laranjeiras, in RuaConde de Bonfim, a Rio Comprido, nell’Andaraí, nell’En-

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genho Novo, insomma, in tutti i quartieri che furono unavolta stazioni di riposo e di piacere, s’incontravano a ognipasso lunghi muri ricoperti di edera che esalavano malin-conia ed evocavano ricordi.

Joaquim dos Anjos aveva conosciuto la “tenuta” ancoraabitata dai rispettivi proprietari; recentemente però, eranoandati via e avevano affittato ai “luterani”. I loro inni al sa-bato (era il loro giorno della settimana consacrato al ripo-so), intonati quasi di ora in ora, riempivano le vicinanze einfondevano in chi li ascoltava una cupa ombra di mistici-smo. Il popolo non li vedeva con ostilità, alcuni umili uo-mini e povere giovinette dei dintorni li frequentavano ad-dirittura, perché vi trovavano un segno di superiorità in-tellettuale rispetto ai propri simili e per cercare, in un'altracasa religiosa che non fosse quella tradizionale, un sollievoper le loro anime afflitte, al di là di tutti i dolori che perse-guitano qualsiasi esistenza umana.

Alcuni, tra i quali João Pintor, giustificavano la frequen-tazione dei “luterani”, perché – diceva lui – non erano co-me i preti, che per ogni cosa vogliono soldi.

Il tal João Pintor lavorava nelle officine dell’Engenho deDentro con la funzione di pittore, da cui derivava appunto ilsuo nomignolo. Era un negro scuro, aveva grosse labbra, zi-gomi sporgenti, fronte bassa, denti ben fatti e molto chiari,lunghe braccia, mani enormi, lunghe gambe e dei piedi taliche in nessun negozio di scarpe esisteva una calzatura adattaa essi. Se le faceva fabbricare su misura; e nonostante ciò, peril dolore, riusciva a malapena a metterle un giorno, e quelloseguente doveva già tagliuzzarle col coltello se voleva farequalche passo e zoppicare almeno fino alla fiera di Mafuá.

Diceva “Turuna”, un fedele del padre Sodré, cappellanodel santuario di Nostra Signora di Lourdes, che João Pin-tor si era messo con i “luterani”, perché questi gli avevano

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dato una stanza nella tenuta, dove egli poteva vivere gratisin cambio di certi piccoli doveri da adempiere. João Pin-tor contestava con veemenza; la cosa certa, tuttavia, era cheegli abitava nella “tenuta”.

Era a capo dei protestanti un americano, Mr. QuickShays, uomo tenace e intriso di biblica eloquenza, che do-veva essere magnifica in inglese, ma che nel suo portoghe-se stentato risultava semplicemente pittoresca. ShaysQuick o Quick Shays apparteneva a quella curiosa razza diyankees fondatori di nuove sette cristiane. Di tanto in tan-to un cittadino protestante di questa razza che desidera lafelicità di noialtri, in cielo e in terra, alla luce di una sua in-terpretazione di uno o più versetti della Bibbia, fonda unanuovissima setta, si mette a propagarla e subito trova fer-venti devoti, i quali non sanno molto bene perché si sianodati alla nuovissima religione né quale sia la differenza traquesta e quella dalla quale provengono.

Nella loro terra, come qui, questi piccoli Lutero fannoproseliti; là, più che qui. Mr. Shays conquistava, nelle vici-nanze del postino Joaquim dos Anjos, non proseliti mamolti ascoltatori, dei quali una quinta parte alla fine si con-vertiva. Quando si trattava di iniziare un gruppo, i novizidormivano in baracche di campagna erette intorno alla ca-sa negli spazi esistenti tra i vecchi alberi della tenuta, mal-trattata e disprezzata. Le cerimonie preparatorie all’inizia-zione, nella religione di Mr. Quick Shays, duravano una set-timana, piene di digiuni e di inni religiosi, piene di unzionie di appelli contriti a Dio, Nostro Padre; e la vecchia pro-prietà, da luogo di svago, con le tende militari e le litaniecontinue, acquistava un aspetto strano e imprevisto: unconvento all’aria aperta, nascosto dietro la facciata burbe-ra da accampamento guerriero. Lo si sarebbe detto un di-staccamento di un ordine di cavalleria monastico-guerrie-

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ro che si preparava a combattere il turco o il moro infede-le, in Palestina o in Marocco.

Del vicinato, non erano molti i seguaci ortodossi all’indot-trinamento religioso di Mr. Shays; tuttavia, oltre alle speciegià alluse, vi erano quelli che assistevano alle sue prediche perpura curiosità o per deliziarsi con l’oratoria del pastore ame-ricano. Il tempio era sempre pieno nei suoi giorni solenni.

I frequentatori, che appartenessero all’una o all’altra ca-tegoria, vi si recavano senza alcun ritegno, tant’è tipico delnostro popolino fare uno stravagante amalgama di religioni ecredenze di ogni sorta, e ricorrervi a seconda delle circostan-ze e delle momentanee difficoltà della propria esistenza. Sesi tratta di superare gli ostacoli della vita ci si appella alla stre-goneria; se si tratta di curare una malattia ostica e pervicace sicerca lo spiritista; ma non dite alla nostra umile gente di nonfar battezzare il proprio figlio da un sacerdote cattolico per-ché non c’è, tra di essi, chi non se ne risentirebbe: “Ma seimatto! Mio figlio un pagano! Dio me ne scampi e liberi!”.

Joaquim dos Anjos non frequentava Mr. Shays né il reve-rendo padre Sodré del santuario di Nostra Signora di Lour-des poiché, nonostante fosse nato in una città imbalsamatad’incenso e ricca di echi sonori, di litanie e il continuo rin-toccare di campane a festa, non era animato da grande fervo-re religioso. Sua moglie, Dona Engrácia, al contrario lo era fi-no all’eccesso, sebbene andasse poco in chiesa a causa deisuoi impegni domestici. Entrambi erano, comunque, d’ac-cordo su un punto della religione cattolico-romana: battez-zare quanto prima i figli nella Chiesa Cattolica Apostolica Ro-mana. Fu così che fecero, non soltanto con Clara, l’unica figliasopravvissuta, ma anche con gli altri che erano morti.

Erano sposati da quasi vent’anni e Clara, essendo la se-condogenita della coppia, andava per i diciassette anni. I ge-nitori si occupavano di lei con molta premura e affetto e, al

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di fuori del padre o della madre, Clara usciva soltanto conDona Margarida, una serissima vedova che abitava nelle vi-cinanze e che le insegnava il ricamo e il cucito. Per di più, maera raro e succedeva soltanto la domenica, Clara lasciava avolte la casa paterna per andare al cinema del Méier o del-l’Engenho de Dentro, solo quando la sua insegnante di cu-cito si offriva di accompagnarla, poiché Joaquim non era maidisponibile e non amava uscire la domenica, giorno prescel-to per dedicarsi al suo passatempo preferito, il solo giocato acarte con i compagni abituali; e sua moglie non amava uscirdo casa di domenica, così come in qualunque altro giornodella settimana. Era sedentaria e casalinga. I compagni concui Joaquim giocava a solo7 erano quasi sempre gli stessi: il Si-gnor Antônio da Silva Marramaque, suo compare, padrinodell’ unica figlia; e il Signor Eduardo Lafões. Non cambia-vano mai. Tutte le domeniche, intorno alle nove, bussavanoal cancello della casa del “postale”; non entravano in casama, attraverso il corridoio in comune con la vicina, si dirige-vano verso la grande pianta di tamarindo in fondo all’orto,sotto la quale era montato il tavolo con i segnapunti, dei chic-chi di lentisco rossi e neri come le pupille, il loro mazzo dicarte, i loro piattini, un calice e un litro di acquavite, al cen-tro, rozzo e sfrontato quasi a sfidare in maniera superba e ci-nica le convenienze formali.

Joaquim dos Anjos li aspettava, leggendo il suo giornalepreferito. Non appena arrivavano, scambiavano qualcheparola, si sedevano, “si bagnavano la bocca” con il litro diacquavite e si mettevano a giocare. Ogni fiches, venti réis.

Ore e ore così, in attesa della merenda serale che quasisempre arrivava in tavola all’ora abituale della cena, si ab-bandonavano al gioco, sorseggiando acquavite, senza da-re uno sguardo sopra le montagne circostanti, nude e roc-ciose, che disegnavano l’alto orizzonte. Di tanto in tanto,

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ma senza grandi intervalli, Joaquim gridava verso la cucina:«Clara! Engrácia! Caffè!».

Di là rispondevano con tono seccato: «Arriva!».È che le due donne, per preparare il caffè, dovevano to-

gliere da uno dei due fornellini a carbone vegetale la pen-tola con cui stavano preparando, in modo da poter scalda-re il caffè richiesto; il che ritardava la cena.

Mentre aspettavano il caffè, i tre sospendevano il gioco echiacchieravano un po’. Marramaque era e sempre era sta-to più o meno politicizzato, a modo suo.

Nonostante al momento fosse un semplice usciere del mi-nistero, dove peraltro non svolgeva il servizio assegnato nénessun altro a causa dello stato invalidità, in quanto semi-stor-pio e semi-paralitico dal lato sinistro, era tuttavia appartenu-to a una modesta cerchia di letterati e poeti bohémiens nellaquale, alla pari della poesia e della letteratura, si discutevamolto anche di politica, abitudine che gli rimase. Con la ri-volta del 18938, la cerchia si sciolse. Alcuni si schierarono conl’ammiraglio Custódio, altri con il maresciallo Floriano9.Marramaque fu uno di questi e ottenne persino i gradi di al-fiere dell’Esercito. Fu allora che ebbe la prima congestione,cioè verso la fine del governo del maresciallo, nel 1894.

La sua cerchia non aveva nessun nome di rilievo, vi era-no però alcuni uomini notevoli. Persino membri di altrecerchie più quotate cercavano la sua.

Quando narrava episodi di questa parte della sua vitaaveva un grande garbo e mostrava orgoglio nel dire cheaveva conosciuto Paula Nei10 e che frequentava Luís Mu-rat11. Non mentiva, pur non confessando a tutti il ruolo cheaveva avuto nel gruppo di letterati. Coloro che lo conosce-vano, sin da quei tempi, non nascondevano l'incarico chegli dava l'onore di esser membro di un cenacolo poetico.Aveva tentato di comporre versi, ma il suo buon senso e

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l’integrità del suo carattere gli fecero capire che non eraportato per la cosa. Lasciò perdere, coltivando rompicapi,rebus etc. Divenne un abile enigmista e, come tale, figura-va quasi sempre come redattore o collaboratore dei gior-nali che i suoi compagni e amici della bohème letteraria,poeti e letterati, improvvisavano da capo a piedi, quasi sem-pre senza denaro, neppure per comprarsi un completonuovo. Invecchiato e ormai invalido, dopo due attacchiapoplettici, fu costretto ad accettare quell’umile posto diusciere, per tirare avanti. I suoi meriti e il suo sapere, tutta-via, non erano molto superiori al suo incarico. Aveva im-parato molte cose per sentito dire e, per sentito dire, parla-va di molte cose. Aveva avuto, da giovane, buone relazionisociali. Era questo il segreto della sua fama. Marramaque,nonostante tutto, al di là del suo stato di salute e della suadifficoltà a spostarsi, non abbandonava l’innocua maniadella politica e andava sempre a votare, anche col rischiodi vedersi coinvolto nel tumulto del suffragio universale,incitato a fare a coltellate, a dare calci, testate, colpi di pi-stola e altre eloquenti manifestazioni elettorali dalle quali,in virtù del suo precario stato delle gambe, non avrebbe po-tuto fuggire con abilità e la necessaria rapidità.

Avendo vissuto in cerchie di un certo livello – come ab-biamo già visto – e non per fortuna, ma per l’educazione el’istruzione ricevute, avendo sognato un altro destino, di-verso da quello che aveva avuto e in più con la sua invali-dità, Marramaque era per istinto acido e oppositore. Quel-la domenica il suo carattere lo aveva portato a parlare ma-le del dottor Saulo de Clapin: «Vedrete: Clapin è ormaicotto, in politica è finito. Ha avuto la sfacciataggine di an-dare contro la corrente popolare, si è dato la zappa sui pie-di. Chi ha vinto è il barbuto Melo Brandão, quell’ebreo me-ticcio. È un mascalzone, ma è un maestro in politica».

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Joaquim non era più di tanto interessato a questa storia dipolitica, ma Lafões se ne mostrava appassionato e aggiunse:

«Macché! Pensi davvero, Marramaque, che un uomo in-telligente, così superiore, come il dottor Clapin, si lasci im-brogliare da un truffatore di leggi e cose peggiori come Me-lo Brandão! Macché! Inoltre, la classe operaia…»

«Cosa ha fatto per la classe operaia?», chiede Marramaque.«Molto».Lafões non era operaio, come si potrebbe pensare. Era

ispettore dei lavori pubblici. Portoghese di nascita, era ve-nuto da piccolo in Brasile più di quarant’anni fa; ben prestoera entrato all’Ufficio delle acque della città, facendosi no-tare dai suoi superiori per il rigore della sua condotta e, apoco a poco, l’avevano fatto arrivare fino all’Ispettorato divigilanza delle condutture e dei rubinetti, che perdevanonei lavatoi delle case private. Era talmente contento dellasua posizione, della nomina, della sua lettera di naturaliz-zazione che, probabilmente, non lo sarebbe stato neanchese si fosse arricchito con centinaia di migliaia di réis. Chefosse contento della sua posizione tutto lo faceva credere:dall’importanza del campagnolo che diventa qualcuno nel-lo Stato, alla solennità delle maniere con cui attraversavaquelle virtuali strade di periferia.

Portava sempre la divisa verde militare e il berretto conle iniziali dell’Ufficio; un ombrello col manico che, quandonon lo teneva aperto per proteggersi dai raggi del sole, ma-neggiava come un bastone da vicario di un villaggio porto-ghese, bucherellando il terreno e alzandolo per poi posar-lo di nuovo man mano che avanzava con le sue lunghe fal-cate. Lafões rispose così a Marramaque:

«Ha fatto molto. In tutte le commissioni per le quali ildottor Clapin è passato, ha sempre cercato di dare lavoro almaggior numero di operai»

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«Bel servizio! Manda all’aria i fondi; nel giro di due o tremesi, ne licenzia più della metà… Questo non si chiamaproteggere; si chiama imbrogliare»

«Sarà, ma almeno ci prova, e gli altri? Non fanno niente.Del resto, è un democratico. Da tempo si batte per l’ugua-glianza tra i servitori della nazione. Non vuole distinzione trafunzionari pubblici e lavoratori alla giornata. Chi serve la na-zione, qualunque servizio svolga, è un funzionario pubblico»

«Aria fritta! Non ci si riempie la pancia con questo! Perchénon si adopera per diminuire la povertà e gli affitti delle case?»

«Capperi, Marramaque! Non hai letto il suo progettosulla costruzione di case per famiglie povere e modeste?Non lo hai letto tu, Joaquim?». Il postino, che aveva ascol-tato la conversazione senza dare opinioni, alla domanda diLafões, intervenne:

«Sì, l’ho letto, ma ho letto anche che aveva aumentato delquaranta per cento gli affitti delle sue innumerevoli case»

«Ecco! – si affrettò a aggiungere Marramaque – Clapinè molto generoso con i soldi degli altri, dello Stato. Con isuoi è di una taccagneria da ebreo e di una voracità da usu-raio. Gesuita!».

Per fortuna Clara era arrivata con il caffè. L’accesa conver-sazione terminava e i due ospiti di Joaquim ricevevano i salu-ti della ragazza: «Mi benedica, padrino mio; buongiorno, seoLafões».

Rispondevano e si mettevano a scherzare con Clara.Diceva Marramaque: «Allora, figlioccia mia, quando ti

sposi?»«Ancora non ci penso», rispondeva lei facendo un sorrisino

beffardo.«Figurati! – osserva Lafões – La ragazza ha già qualcuno

sott’occhio. Facciamo così, per il giorno del suo com-pleanno… Vero, Joaquim, organizziamo una cosa».

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Il postino mise giù la tazzina e domandò: «Cosa?»«Volevo chiederti il permesso di invitare per il com-

pleanno della ragazza, un maestro di chitarra e di modinha.Clara non si trattenne e chiese subito: «Chi è?»Lafões rispose: «È Cassi. La ragazza…».L’ispettore dei lavori pubblici non poté finire la frase.

Marramaque lo interruppe furioso:«Tu frequenti una simile “pustola“? È un soggetto che

non può entrare nella casa di nessuna famiglia. Nella mia,per lo meno…»

«Perché?», indagò il padrone di casa.«Lo dirò subito, lo dirò io il perché», fece sconvolto

Marramaque.Finirono di prendere il caffè. Clara si allontanò con il

vassoio e le tazzine, colma di una grande, tenace e malsanacuriosità: «E chi sarebbe questo Cassi?».

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Note

1. Canto popolare con accompagnamento di chitarra.2. Compositore e flautista brasiliano molto noto del XIX secolo.3. Compositore e flautista nato a Itaocara nel 1880, morto a soli ventisette

anni, era considerato un virtuoso del suo strumento musicale.4. Plurale di real, l’antica unità monetaria portoghese e brasiliana. Succes-

sivamente in Brasile fu assunto a unità monetaria il mil-réis (mille reis),più tardi denominato cruzeiro.

5. Dello stato di Minas Gerais.6. Pianta delle moracee il cui frutto commestibile, jaca, è conosciuto come

“albero del pane”.7. Consiste nel giocare da solo contro due come in certi giochi a carte, la ca-

labresella e simili.8. Nota come Revolta da Armada, provocata dalla Marina per timore che la

neonata República Velha non indicesse nuove elezioni, repressa nel san-gue dall’esercito repubblicano.

9. Floriano Peixoto, secondo presidente della República Velha, sopranno-minato “maresciallo di ferro” per il modo energico di esercitare il pote-re. La rivolta del 1893, poco prima menzionata, vide appunto contrap-posti l’Esercito con a capo Floriano e la Marina capeggiata dall’ammira-glio Custódio de Melo.

10. Si tratta di Francisco de Paula Nei, figura conosciuta negli ambienti let-terari della Rio de Janeiro della Belle Époque.

11. Altro appartenente alla vita bohémienne della Rio de Janeiro dei primidel Novecento.

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Lima BarretoClara dos Anjos

5 Prefazione, Stefano Rolando

13 Capitolo primo

28 Capitolo secondo

47 Capitolo terzo

60 Capitolo quarto

73 Capitolo quinto

88 Capitolo sesto

103 Capitolo settimo

129 Capitolo ottavo

150 Capitolo nono

173 Capitolo decimo

185 Capitolo undicesimo

201 Postfazione, Roberto Vecchi

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Storia di Claradi un Paese gravido e fragile

non più ai marginidi Lima Barretoescritor libertárioin questo libro

stampato nel carattere Simoncini Garamonda cura di PDE Spa

presso lo stabilimento di LegoDigit Srl - Lavis (TN)per conto di Diabasisnell’ottobre dell’anno

duemilatredici

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Collana «Al Buon Corsiero»

Silvio D’Arzo, Casa d’altri: tre redazioni

Helder Macedo, Da qualche parte in Africa

Antonio Bassarelli, Per questi motivi

Rocco Brindisi, Il bambino che viveva nello specchio

Josè Maria Eça Queirós, La corrispondenza di Fradique Mendes. Me-

morie note

Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema

Pepetela, La generazione dell’utopia

Ludovico Ariosto, Lettere dalla Garfagnana

Giorgio Prodi, L’opera narrativa

Angela Giannitrapani, Parigi, una breve estate

Nicolas Bouvier, La polvere del mondo

Luan Starova, Il tempo delle capre

Evgenij Borisovic Rejn, Balcone e altre poesie

Rino Genovese, Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell’esilio mentale

Francesco Petrarca, Lettere all’imperatore: carteggio con la corte di

Praga, 1351-1364

Cesare Padovani, Paflasmòs il battito del Mar Egeo. Viaggio nell'anima

della Grecia

Aleksandar Gatalica, Secolo. Cento e una storia di un secolo

Alessandra Sarchi, Segni sottili e clandestini

Giorgio Messori, Storie invisibili e altri racconti

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AL BUON CORSIERO

«Non vogliamo più una letteratura contemplativa... ma una letteratura militante per una gloria maggiore della nostra specie sulla terra e anche in Cielo».

Lima Barreto, Rio de Janeiro, 31 agosto 1916

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