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43 Sotera Fornaro Sorelle dolorose dall’Iliade all’Antigone A Clara, sorella 1. Richieste di aiuto L’archetipo letterario delle sorelle si trova nel XVIII canto dell’Iliade. Ecco il contesto: Achille se ne sta in disparte dalla guerra, irato con i Greci che perciò vanno in rovina. Patroclo, per portare ausilio all’esercito dei Greci, si traveste da Achille, ne indossa l’armatura e va in battaglia. Ma invece di limitarsi a spaventare i nemici, affronta in campo Ettore e resta ucciso. Una nera disperazione coglie Achille quando gli portano la notizia: urla terribilmente. L’eco del suo grido viene ascoltata dalla ma- dre, una dea del mare; la quale, udendo dagli abissi lo strazio del figlio, prorompe subito a sua volta in lacrime, rispondendogli a distanza. Immediatamente accanto a Teti si pongono le sorelle, le ondivaghe figlie di Nereo, il dio del mare, circondandola in un collettivo abbraccio di dolore e compassione. La grotta splenden- te si riempie delle sorelle (kasignetai) 1 ; tutte insieme si percuo- tono il petto, Teti dà «inizio al compianto»: «Ascoltate, sorelle, figlie di Nereo, in modo che tutte / possiate sapere quanti dolori ho nell’animo...» (Iliade XVIII, vv. 51-53). Nel lamento, narra come il figlio soffra e come lei non possa portargli aiuto né cam- biarne il prematuro destino di morte; ma almeno, dice alle sorel- 1 L’etimologia della parola kasignetos (femminile kasignete) è incer- ta. Sembra essere termine più arcaico di adelphos (‘figlio della stessa madre, che è stato nutrito dallo stesso seno’) per connotare origi- nariamente il fratello (maschio), nato dallo stesso padre, oppure il cugino, in una struttura familiare e sociale patriarcale. Vedi Pierre Chantraine, Dictionnaire etymologique de la langue grecque, Paris, Klincksieck, 1968-1980, s.v. Il greco non dispone di una specifica parola per indicare la “sorella”.

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Sotera FornaroSorelle dolorose dall’Iliade all’Antigone

A Clara, sorella

1. Richieste di aiuto

L’archetipo letterario delle sorelle si trova nel XVIII canto dell’Iliade. Ecco il contesto: Achille se ne sta in disparte dalla guerra, irato con i Greci che perciò vanno in rovina. Patroclo, per portare ausilio all’esercito dei Greci, si traveste da Achille, ne indossa l’armatura e va in battaglia. Ma invece di limitarsi a spaventare i nemici, affronta in campo Ettore e resta ucciso. Una nera disperazione coglie Achille quando gli portano la notizia: urla terribilmente. L’eco del suo grido viene ascoltata dalla ma-dre, una dea del mare; la quale, udendo dagli abissi lo strazio del figlio, prorompe subito a sua volta in lacrime, rispondendogli a distanza. Immediatamente accanto a Teti si pongono le sorelle, le ondivaghe figlie di Nereo, il dio del mare, circondandola in un collettivo abbraccio di dolore e compassione. La grotta splenden-te si riempie delle sorelle (kasignetai)1; tutte insieme si percuo-tono il petto, Teti dà «inizio al compianto»: «Ascoltate, sorelle, figlie di Nereo, in modo che tutte / possiate sapere quanti dolori ho nell’animo...» (Iliade XVIII, vv. 51-53). Nel lamento, narra come il figlio soffra e come lei non possa portargli aiuto né cam-biarne il prematuro destino di morte; ma almeno, dice alle sorel-

1 L’etimologia della parola kasignetos (femminile kasignete) è incer-ta. Sembra essere termine più arcaico di adelphos (‘figlio della stessa madre, che è stato nutrito dallo stesso seno’) per connotare origi-nariamente il fratello (maschio), nato dallo stesso padre, oppure il cugino, in una struttura familiare e sociale patriarcale. Vedi Pierre Chantraine, Dictionnaire etymologique de la langue grecque, Paris, Klincksieck, 1968-1980, s.v. Il greco non dispone di una specifica parola per indicare la “sorella”.

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le, lascerà il mare, andrà da lui, per sentire con attenzione quale dolore luttuoso lo attanagli. Le altre piangono, poi con complici-tà muta vanno con lei: «attorno, l’onda del mare / si rompeva e quando arrivarono [...] / salirono in fila alla riva» (Iliade XVIII, vv. 66-68). Anche la natura partecipa al dolore dirompente, il mare si spacca come lastra pesante, non si apre gioioso.

Di cinquanta sorelle2, il catalogo omerico ne elenca tren-tatré. Nei loro nomi si trova il ‘destino’ (Protò), i segreti della conoscenza assoluta (Panope, ‘colei che tutto vede’), il nocciolo della verità (Nemerte, la ‘verità’ e Apseudès, ‘colei che non cono-sce il falso’), la bella spensieratezza (Amateia dai ‘bei riccioli’), il regno matriarcale (Ianassa, ‘la regina’ e Callianassa, ‘la bella regina’), oltre agli attributi del paesaggio marino: l’onda mu-tevole, l’isola, la grotta, la schiuma. Il cosmo di sorelle vive in un mondo lontano, a parte dagli uomini, nascosto negli abissi del mare; un mondo di armonia, tutelata dal vecchio padre Ne-reo, un mondo contrario anche in senso spaziale all’olimpica comunità divina retta da Zeus, dove regnano invece contese, tradimenti, schieramenti, invidie, simpatie, amori e inimicizie con i mortali. La comunità di sorelle, dunque, abbandona il suo regno argenteo (argypheon, v. 50) per recarsi nel mondo di guerra in cui Achille, a manifestazione del lutto, sta sporcando il volto grazioso con la terra, insozza le vesti, si strappa i capelli. Le schiave urlano e si disperano con lui. Le Nereidi, creature immortali dal lucore divino (una tra loro si chiama Leucotea, la ‘dea splendente’), irrompono perciò in un’atmosfera offuscata dalla «buia nube dell’angoscia» (v. 22). La madre e le sorelle giungono a portare il soccorso dell’ascolto e della vicinanza (v. 63: Teti vuole «vedere» e «ascoltare» il figlio) e anche ordine: in quel mondo sconvolto, approdano disciplinatamente, in fila (epischerò, v. 68). Le sorelle aspettano, in disparte, mentre la madre carezza il figlio e si fa raccontare quel che è successo. Achille disperato racconta: in battaglia è stato ucciso Patroclo, il compagno prediletto. Il senso di colpa lo attanaglia: lui stesso, infatti, aveva incitato l’amico, gli aveva concesso di andare in battaglia vestito con le sue armi, perché i nemici, scambiandolo

2 I nomi delle altre Nereidi sono date da Esiodo nella sua “enciclope-dia” genealogica dei miti divini: Teogonia, vv. 243-262.

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per lui, ne fossero terrorizzati. Il pensiero di Achille, adesso, si tinge di vendetta: deve uccidere Ettore, che non solo ha ucciso Patroclo ma lo ha anche spogliato delle sue armi, si è dunque simbolicamente impossessato di una parte di Achille. Nel suo incauto travestirsi, Patroclo aveva cercato di acquistare attra-verso le armi una forza che non possedeva. Patroclo era diven-tato Achille, una sua immagine in apparenza perfetta, invece assai fragile. Teti è dolorosamente consapevole che con Patroclo ha perso un doppio del figlio, che il dolore presente è un fram-mento soltanto del più grande imminente dolore per la perdita del figlio; perciò ha intonato il compianto funebre nella grotta marina. Quando Achille muore, le Nereidi tutte riemergono dal mare, ma non silenziose né ordinate, stavolta: le accompagna un boato terribile e spaventoso, che induce gli Achei a fuggire. Il vecchio Nestore li ferma, sa che quel maremoto fa da annuncio alla madre venuta con le sorelle a vedere il figlio morto. E le so-relle si dispongono attorno al feretro, gemendo angosciate, ab-bigliando il corpo di vesti ambrosie: unico segno d’immortalità che è concesso loro donare all’eroe. Il compianto viene intonato da altre sorelle divine, le nove Muse (Odissea XXIV, vv. 46-62).

2. Insieme a una madre infelice

Tra le sorelle del mare, Teti ha una vicenda eccezionale, poi-ché è una dea data in sposa ad un mortale: da quell’unione è nato il figlio a cui non ha potuto trasferire la propria immortali-tà. Generazione imperfetta, dunque, di madre che non condivi-de col figlio la stessa natura. Achille rivela a Teti che rientrerà in battaglia; nemmeno lei può ormai dissuaderlo dal conquistare la gloria sanguinosa, strumento di vendetta ma anche l’unica ragione di vita che gli resta e che abbia mai avuto. La madre non lo contraddice; gli chiede solo di aspettare una notte: all’aurora, gli porterà una nuova armatura, divina. Allora potrà rientrare in battaglia. Lasciato il figlio, giunge per Teti il tempo di separarsi anche dalle sorelle: «Voi immergetevi nel vasto seno del mare, / andate dal vecchio del mare, alla casa del padre, / e ditegli tutto; io salgo all’alto Olimpo» (Iliade XVIII, vv. 140-144). Le sorelle prendono direzioni opposte: hanno compiti diversi da eseguire.

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Le une tornano a casa, negli abissi; lei invece, la sorella speciale, va verso l’alto, sull’Olimpo, dal fabbro divino, Efesto, perché forgi una nuova armatura adeguata al figlio. Le sorelle saran-no sue messaggere presso il padre, ne spiegheranno il gesto e l’assenza, nonché la trasgressione: col suo intervento la madre, che non può piegare il destino del figlio, perlomeno cerca di alleviarlo fornendogli strumenti divini, le armi. Ma infrange il suo ruolo di donna, che non dovrebbe prender parte alla guerra degli uomini, e di dea, che non dovrebbe cercare di modificare quanto è già stabilito. Le sorelle, sempre silenziose, obbedisco-no a Teti, consapevoli dell’urgenza del momento: «quelle s’im-mersero subito nelle onde del mare» (Iliade XVIII, v. 145). Un episodio, questo dell’Iliade, che amplifica e lascia immaginare una solidarietà assoluta, incondizionata tra le sorelle; un legame plurale che fa proprio il più grande dei dolori: quello di una ma-dre, la sorella infelice, la dea che per amore accetta e giustifica la strage che Achille porterà tra i Greci, preso da un’ira cieca e ancor più orgogliosa dell’ira che è il motore narrativo dell’Iliade (v. 1), in dispregio di ogni umana legge di pietà.

3. Un corpo conteso

Quando Teti e le sorelle approdano sulla riva del mare, il ca-davere di Patroclo è ancora sul campo di battaglia, conteso tra i due eserciti. Il corpo è nudo, le armi gli sono state tolte da Ettore. La contesa ha dunque valore simbolico: se i Troiani si imposses-sano del cadavere, ne troncheranno la testa, l’esporranno sulla lancia come trofeo (Iliade XVIII, vv. 177-178). Il corpo non avrà l’onore dei morti, un onore imprescindibile e la cui privazione costituisce una vera ossessione del guerriero durante lo scontro. Recuperare il cadavere, evitargli l’onta dello scempio da parte del nemico, diventa allora l’esigenza primaria dei Greci. In attesa ansiosa della madre, che deve portargli l’armatura nuova senza la quale non può entrare nella mischia, Achille comunque spa-venta a morte uomini e cavalli che stanno combattendo, affac-ciandosi sul fossato che dà sul campo di battaglia. Un’altra dea, Atena, vergine e guerriera, lo supporta dotandolo di una terribi-le aura soprannaturale: una fiamma gli arde intorno e lo rende

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un uomo di fuoco, immagine plastica della sua ira inestingui-bile. Emblema del terrore, Achille grida per tre volte e col solo grido e l’apparenza sbaraglia i nemici. I Greci perciò riescono finalmente a sottrarre il corpo di Patroclo ai Troiani, ne portano il cadavere in disparte, lo adagiano su un feretro perché Achille e gli altri possano guardarlo, scempiato com’è dalle ferite, lavarlo e piangerlo. Tutta la narrazione dell’Iliade, da adesso in poi, si tinge di morte e di aspettativa della morte.

4. La sorella in sogno

La scena del XVIII libro dell’Iliade costituisce, dicevo, l’ar-chetipo della sorellanza, rappresentato attraverso il filtro della “mentalità epica”, di cui i poemi omerici sono la voce corale. Lo spazio delle sorelle, in questa mentalità impregnata di gerarchie e valori maschili, si limita alla casa, alla vicinanza col padre e con la madre: allo spazio privato, dunque, proprio del femmini-le, che funge da rifugio, riparo, luogo di origine e ritorno anche per gli uomini, che però agiscono, e devono agire, fuori dalla casa. Le sorelle, quindi, sono deputate a dare sostegno e consi-glio, accanto alla madre e alla sposa, portano saggezza pratica e temperanza alle fatali intemperanze degli uomini: si intuisce, ad esempio, nel tentativo della madre e delle sorelle di Meleagro di distoglierlo dall’ira che lo perde (Iliade IX, vv. 584-585)3. Il soc-corso portato dalle sorelle si connota perciò come psicologico e si rivolge sia agli uomini (come nel caso di Achille e Meleagro), sia alle altre sorelle: una scena delicata di consolazione di una sorella a un’altra si ha nell’Odissea. Penelope dorme un son-no agitato, che temporaneamente calma i pianti e i singhiozzi, dovuti alla sua inquietudine perché il figlio Telemaco è partito; teme infatti per la sua vita, sa che è ancora troppo giovane ed i pretendenti al trono vogliono eliminarlo. Allora la dea Atena le invia un eidolon, un’immagine dal corpo simile a donna, ossia il fantasma della sorella di Penelope, Iftime, ‘colei che è forte’. Que-sto doppio di Iftime si avvicina al capezzale di Penelope addor-

3 Il mito di Meleagro è paradigma e mise en abîme poetica dell’ira di Achille.

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mentata, la sveglia, la rassicura, le dice di non disperarsi, perché il figlio tornerà. Penelope è meravigliata della presenza nella sua stanza della sorella, che vive lontano, nella casa del marito; ma dopo un primo sconcerto, le racconta subito le sue pene, di come abbia perso il marito, Odisseo, ed ora anche il figlio, con-tro la cui vita molti tramano. Ma l’oscuro fantasma le comanda di aver coraggio, le rivela che Atena guida e protegge Telema-co; la stessa dea la manda come messaggera, avendo pietà di lei che è addolorata. Penelope allora vuol sapere di più, le chiede se Odisseo è ancora vivo. Ma l’immagine di Iftime si allontana improvvisamente, «non si può far chiacchere al vento», dice, e scompare come un sibilo d’aria. Penelope si sveglia, e il cuore le batte forte per la gioia, poiché riconosce il «sogno chiaro»: il fi-glio tornerà (Odissea IV, vv. 795-841). Solo Iftime, la sorella, può curare l’afflizione di Penelope, perciò gli dei si servono del suo eidolon. La scena è intima, ha luogo nel cuore della casa, dove un uomo non sarebbe potuto entrare. Penelope non si spaventa alla visione, come se la sorella da lontano avesse potuto sentire il suo richiamo, sottile figurazione di un legame che supera lo spazio e che ha luogo nelle trame più segrete dell’animo: in sogno. In questo legame gli uomini sono esclusi. Ancora un esempio di intimità sororale si ha nell’Iliade: Elena sta nel palazzo di Troia dove è straniera. Lavora silenziosa nel cuore della casa, nel ta-lamo, ricama in una tela straordinariamente poetica proprio le «imprese che i Troiani e gli Achei soffrirono per lei» (Iliade III, vv. 125-128). Allora gli dei le mandano, per trarla fuori dalla sua solitudine, una cognata, una sorella di Paride, Laodice, la più bella delle figlie di Priamo. E all’esortazione di lei di andare a vedere quel che sta accadendo, Elena si reca subito, silenziosa, sulle mura, in preda a nostalgia del marito, dei genitori, della cit-tà che ha abbandonato. Laodice non è sua sorella, ma è come se lo fosse; invero si tratta di un eidolon di Laodice, di un fantasma che gli dei hanno appositamente forgiato per inviarlo ad Elena: ancora una volta il rapporto intimo, viscerale avviene tra sorelle (il mito non pecca di illogicità facendo sì che Elena, lontana dal-la sua casa d’origine, riconosca nella cognata una sorella sosti-tutiva). La prima reazione di Elena, che non pronuncia una sola parola, consiste in un «desiderio intenso e dolce» (Iliade III, v. 139) della sua famiglia, di quel che era e che non è più potuta es-

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sere. Un desiderio che si esprime con lo stesso termine, hymeros, dell’amore fisico e sensuale, irresistibile (Iliade III, vv. 121-160). Solo Laodice, un’altra sorella, poteva suscitare un desiderio del genere in Elena straniera e rassegnata, poteva avvicinarsi a lei nel talamo e distoglierla dalla sua assorta solitudine.

5. Fratelli e sorelle

Nel X libro dell’Iliade, quando si presenta Dolone, “l’ingan-natore”, un personaggio del tutto anomalo nel cosmo maschile eroico del poema omerico, si sottolinea la sua ricchezza, in sen-so ironico, perché tutto l’oro e il bronzo da lui posseduto non gli serve ad essere valoroso. E l’aedo soggiunge: «era l’unico ma-schio di cinque sorelle» (Iliade X, v. 317), quasi suggerendo che la sua forzata educazione in un ambiente femminile ne abbia condizionato il valore, lo abbia reso come una “donnicciola”4. I mondi dei fratelli e delle sorelle sono infatti divisi da barriere nette. L’aedo destina alla “sorella” il ruolo di spettatrice delle imprese guerresche dei fratelli maschi e il loro compianto, l’aver perso, con loro, chi la protegga. Così ad esempio Andromaca rimpiange i «sette fratelli che aveva in casa» e che Achille le ave-va ucciso tutti in un solo giorno (Iliade VI, vv. 420-424); così Briseide schiava rimpiange, mentre intona il lamento funebre per Patroclo, i tre fratelli che le aveva dato la madre, e che tutti avevano incontrato l’estremo giorno (Iliade XIX, vv. 293-294). Le sorelle condividono la cura per il figlio dell’altra in pericolo (come le Nereidi con Teti e Iftime con Penelope), il compianto per i fratelli e il padre ucciso, e inestinguibile e viscerale appa-re, in vari contesti mitici, il dolore per il fratello scomparso. Si ricordi nel mito il dolore assoluto delle Eliadi, figlie di Elio (il Sole) e sorelle di Fetonte, che precipita dal cielo con il suo carro la cui vicenda è già nota a Esiodo, che ricordava come le loro la-crime furono mutate in ambra, ossia un materiale prezioso, che

4 Così era già inteso lo strano verso omerico anche dai commentatori “esegetici” antichi: vedi The Iliad. A Commentary. Volume III, a cura di Bryan Hainsworth, Cambridge, Cambridge University Press, ad loc. (pp. 186-187).

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in altre fonti è persino l’oro (Filostrato, Immagini I, 11: «D’oro sono le lacrime delle Eliadi»), a dare il termine comparativo del valore del compianto e della solidarietà che lo caratterizza; un eccesso di dolore che – per altre fonti – fa sì che gli dei tra-sformino le sorelle dolorose in pioppi. Vi sono altre sorelle che compiangendo il fratello morto, muoiono a loro volta di dolore o vengono trasformate in stelle o uccelli: le sorelle di Iante, le sorelle di Meleagro5. Quel che caratterizza questi miti, come la scena delle Nereidi da cui abbiamo preso le mosse, è la collet-tività delle sorelle nel loro cordoglio: isolate, invece, sciolte del legame tra loro, come accade per Andromaca, per Briseide, ma anche per Elena che ignara cerca, dalla distanza delle mura di Troia, i suoi fratelli nell’accampamento dei Greci, che invece sono già morti (Iliade III, 237-238), le donne mostrano la loro fragilità, una solitudine sconfinata, che cerca rassicurazioni in altre figure maschili oppure, se questa rassicurazione non trova e non vuole, perde la lucidità della visione, si avvicina alla follia: ed ecco appare Antigone.

6. Le ambiguità della sorellanza

La disperazione della sorella che perde i fratelli o il padre, già efficacemente dipinta nell’epica (si ricordi per esempio An-dromaca che implora Ettore: «sei mio padre, mia madre, mio fratello, mio sposo»: Iliade VI, vv. 429-430) viene esplorata dal-la tragedia greca. La tragedia cerca di penetrare nella comples-sità del rapporto tra sorelle, nella sua forza, ma anche nelle sue ambiguità: invece di indagare ciò che unisce le sorelle o descri-verne la solidarietà, si interessa alle differenze, alle antitesi. Con la tragedia inizia l’analisi delle sorelle che pensano e agiscono in modo diverso, del loro rapporto conflittuale, dell’amore che sembra trasformarsi in odio, della rivalità che tanta fortuna ha in letteratura, cinema, teatro e che l’omogeneità epica, rivolta al mondo degli eroi, non approfondisce. La tragedia si avventura, insomma, nella descrizione del fenomeno della “sorellanza”, che

5 Vedi Giampiera Arrigoni, La sorella e lo zio materno di Polinice (Soph. Ant. 523), in «Dike», XVII (2014), pp. 121-152.

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sfugge alle categorie sociali e maschili della polis non meno di quanto sfugga al sistema di valori dell’epica. Un’analisi della sorellanza nella tragedia greca non sarà qui affatto tentata, ma ci si limiterà a un solo esempio, quello di Antigone ed Isme-ne. Sofocle, il poeta delle sorelle6, presenta la dissonanza tra le figure sororali, le loro diverse modalità d’agire secondo un compito diverso che si propongono. La situazione nella quale le sorelle vengono colte, però, è ancora quella epica del lutto e del compianto, della privazione di un uomo o degli uomini della famiglia. Antigone e Ismene nell’Antigone da una parte, Elettra e Crisotemi nell’Elettra dall’altra, sono – com’è noto – sorelle addolorate per la perdita dei fratelli e del padre. Ma il dolore si trasforma in un elemento dissociante, separativo: diverse sono le reazioni delle due sorelle ad esso. Nel prologo dell’Antigone, Ismene prende le distanze, con argomenti razionali e sensati, dalla decisione della sorella di seppellire il fratello Polinice no-nostante il divieto del re; nell’Elettra, invece, Crisotemi rimpro-vera Elettra, condivide il suo odio per la madre che l’ha privata del padre e per il suo nuovo sposo, ma la invita alla prudenza, al contegno, a temperare i suoi sfoghi. A lei Elettra oppone il linguaggio dell’odio, del disprezzo, la propria volontà di morte. Elettra amplifica l’ostinazione di Antigone, ma il contesto in cui si verifica lo scontro con Crisotemi, sorella più adattabile e in-tegrata con i potenti, presenta diversità sostanziali7, ed è segna-to dalla presenza determinante di Oreste, il fratello ritornato a vendicare la morte del padre. Il legame tra Antigone e Ismene, invece, è esclusivo: sono le uniche superstiti della loro famiglia; non possono sperare nell’intervento di qualcun altro che torni a ricomporre le cose; la loro sventura è definitiva, irrevocabi-le. Perciò le loro decisioni e le loro azioni hanno un potenziale simbolico. Antigone ed Ismene costituiscono insomma un caso

6 Anna Beltrametti, Immagini della donna, maschere del logos, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani. 6. La cultura dei Greci. Le forme della comunicazione e del sapere, a cura di Salvatore Settis, Torino, Einaudi, 1997, VI, pp. 897-935, specialmente pp. 917-919 (Le sorelle).

7 Per un’analisi recente vedi Anna Beltrametti, Palinsesti sofoclei. I guerrieri, i fratelli, il sovrano. Prima e dopo il 411, in «Dioniso», II (2016), pp. 72-79.

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unico di sopravvivenza sororale, e perciò tanto hanno dato e danno da pensare alla teoria politica, vale a dire la teoria che si occupa del vivere insieme.

7. La sorellanza difficile

Così appare Antigone, la sorella per antonomasia della tra-dizione interpretativa8: cioè colei che seppellisce il corpo del fratello, nonostante il divieto del re, affrontando consapevol-mente la pena di morte, perché non può permettere che quel corpo da lei amato venga scempiato dai cani e dagli avvoltoi. La sororità di Antigone verso il fratello Polinice ha lasciato spesso in ombra la sorellanza viscerale, intima e conflittuale che nel-la tragedia di Sofocle la lega alla sorella Ismene, e che invece costituisce il punto iniziale e lo snodo decisivo della struttura drammatica. Antigone, prima di seppellire il fratello, come ha già deciso, chiede la complicità della sorella. Ismene rifiuta di aiutarla, crede che si tratti di un’azione impossibile, rivolta con-tro il Re, rivolta contro i maschi che detengono il potere: un’a-zione suicida, dunque, non giustificata dall’amore per i morti. Antigone allora si separa da lei e compie comunque quel che si era proposta. Ismene non è affatto, nello svolgersi dei fatti in scena, una presenza secondaria o addirittura insignificante; non è solo una figura contrastiva, funzionale ad illuminare la solitudine eroica di Antigone. Le due figure sono legate anche drammaticamente: una volta che Antigone scende nella sua tomba-prigione e scompare, anche Ismene scompare scenica-mente, nella sua luttuosa solitudine che non può più aspettarsi consolazione: resterà nel palazzo degli orrori, lì dove ha regnato il padre Edipo, inconsapevole assassino del padre e sposo della madre; in quel palazzo Edipo si è accecato, Giocasta, appresa la verità, si è impiccata, in quel palazzo si uccide Euridice, la sposa di Creonte, quando apprende della morte del suo ultimo figlio, Emone. Ismene sopravvive? Perché nella tragedia di So-

8 Cioè «la sorella di Polinice», come nel classico George Steiner, Antigones (1984), trad. it. di Nicoletta Marini, Le Antigoni, Mila-no, Garzanti, 1990.

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focle non si accenna nemmeno alla sua disperazione quando giunge la notizia che Antigone si è impiccata e che Emone si è ucciso davanti al padre? La sopravvivenza di Ismene si svolge in un luogo di morte e di una vita che è già morte, privata com’è della sua parte gemella.

8. Dopo Sofocle

Ismene torna a parlare in prima persona dopo Sofocle, per quel meccanismo della ricezione per cui si colmano i vuoti e i si-lenzi dell’originale. Qualche esempio: nel poemetto permeato di dissoluzione di Ghianni Ritsos (1972), monumento alla memo-ria della dittatura dei colonnelli; nel monologo Ismene, sorella di (2014) dell’olandese Lot Venekoen, dove Ismene scompare infi-ne nella nebbia dell’anonimia, dopo una vita spesa per amore. Quando le donne si sono impossessate del discorso sull’Antigo-ne, cercando di sottrarlo al monopolio maschile su cui gravava e grava l’ombra di Hegel, per il quale Ismene non esiste, Ismene è tornata a vivere. È tornata a vivere come modello negativo, dap-prima, di chi non sa farsi interprete delle esigenze di genere e si accomoda al sistema (Luce Irigaray), poi come modello propo-sitivo del “fare politico”, colei che vorremmo “sorella” nella lotta per l’emancipazione senza l’irrazionalità distruttiva di Antigo-ne: così ad esempio in Anni di Piombo di Margareth von Trotta, in cui il richiamo al mito è solo implicito, ma poi esplicitamente nel romanzo Mia sorella Antigone di Grete Weil (1980) e – an-cora ad esempio – in Il resto è silenzio (2007) di Chiara Ingrao. Il femminismo ha dunque prima disprezzato Ismene, poi l’ha occultata, identificandosi in Antigone. Infine, però, la ragione pratica di Ismene è sembrata impersonare la posizione “giusta”, di chi vuole cioè cambiare le cose dall’interno del sistema, il pa-radigma mitologico della assennata lotta di genere9. Quanto più

9 Per una antologia delle diverse posizioni, qui basti rinviare a Fe-minist Readings of Antigone, a cura di Fanny Söderbäck, Albany, Suny Press, 2012, con scritti di Judith Butler, Adriana Cavarero, Tina Chanter, Luce Irigaray, Julia Kristeva. Per l’influenza delle teorie femministe sull’interpretazione della tragedia si può ricordare Si-

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l’irrazionalità di Antigone è servita da specchio per un tipo di rivolta femminile ideologica e cruenta, come il terrorismo degli anni Settanta e da ultimo il terrorismo delle vedove nere cecene o delle islamiste10, tanto più si sono ricordate le ragioni di Isme-ne. La domanda posta, semplificando, è stata: siamo dalla parte di Antigone, che ciecamente obbedisce ad un dovere familiare e tributa l’onore della sepoltura al fratello? O dalla parte di Isme-ne, che invita alla cautela, ad analizzare le ragioni ed i pericoli dell’agire, che rifiuta la violenza e nella sua muta sopravvivenza insegna l’arte del resistere?

9. Ritorno a Sofocle

La tragedia di Sofocle, però, sebbene costruita per dico-tomie ed a “dittico”11, non sta da nessuna delle due parti, non prende una posizione tra Antigone e Ismene. Il conflitto che interessa Sofocle e il suo pubblico è quello tra chi rappresenta la legge costituita della polis e chi consapevolmente la trasgre-disce in nome di una legge familiare e tradizionale (Creonte ed Antigone sono zio e nipote): conflitto politico tra logica del ghenos, della famiglia, le cui regole si confrontano e scontrano

mon Goldhill, Antigone and the Politics of Sisterhood, in Laughing with Medusa: Classical Myth and Feminist Thought, a cura di Vanda Zajko, Miriam Leonard, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 141-163 (poi in Simon Goldhill, Sophocles and the Language of Tragedy, Oxford, Oxford University Press, 2012). Vedi anche In-terrogating Antigone in Postmodern Philosophy and Criticism, a cura di Stephen E. Wilmer, Audronė Zukauskaité, Oxford, Oxford University Press, 2010. Per una sintetica contestualizzazione si veda il mio Antigone, Storia di un mito, Roma, Carocci, 2012, pp. 163-177. Per le letture al femminile di Antigone vedi ora Elena Porciani, Nostra sorella Antigone, Catania, Villaggio Maori, 2016.

10 Vedi Sotera Fornaro, L’ora di Antigone dal nazismo agli ‘anni di piombo’, Tübingen, Narr, 2013; Ead., Antigone ai tempi del terrori-smo. Letteratura, cinema, teatro, Lecce, Pensa Multimedia, 2016.

11 Vedi Roberto Nicolai, Antigone allo specchio, in Antigone e le Anti-goni. Storia forme fortuna di un mito. Atti del Convegno internazio-nale (Roma 13, 25-26 maggio 2009), a cura di Anna Maria Belar-dinelli, Giovanni Greco, Firenze, Le Monnier, 2010, pp. 182-189.

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con quelle nuove della città; conflitto determinante per prospet-tare soluzioni utili all’equilibrio politico, al mantenimento della cosa pubblica, a prevenire sue inopportune lacerazioni. Ora: a rappresentare il ghenos di Edipo sono rimaste due sorelle. Sofo-cle ha perciò un atteggiamento analiticamente descrittivo della “sorellanza”, della sua forza ed i pericoli ai quali è esposta, nel momento in cui irrompe in uno spazio che non le è proprio, quello pubblico, dunque politico, di cui le donne, nell’Atene del V secolo, non possono essere soggetti attivi.

10. La sorella completa

L’ Antigone inizia con due giovani donne, abbigliate no-bilmente: sono all’aperto, davanti al palazzo di Tebe, la sede del potere. L’ora è l’alba: la città spettrale, deserta. Nella notte appena trascorsa, l’esercito ha sventato l’attacco nemico. Una parla per prima e si rivolge all’altra che forse tiene per mano, per guidarla lontano dal palazzo (il luogo della reclusione, lo spazio dell’operosità femminile); sono dunque all’aperto: una prima, grave, trasgressione simbolica. Irrompendo sulla scena le due sorelle irrompono in uno spazio politico e maschile: tan-to più in una città che è in stato d’emergenza. Sull’invenzione drammatica di Sofocle pesa la tradizione epica, ossia il modulo narrativo della sorella che va a chiamare, a sollecitare, l’altra sorella, come Laodice fa con Elena e Iftime con Penelope. Il pri-mo verso dell’Antigone di Sofocle rappresenta il manifesto della sorellanza: o koinon autadelphon Ismenes kara: ‘o comune capo di Ismene, sorella in ogni possibile senso’. Ho provato a tradur-re, nella consapevolezza che ogni traduzione, in questo caso, significa una sconfitta. Il genio tragico di Friedrich Hölderlin (1805) coniò un neologismo per sussumere i significati dei due aggettivi greci koinon autadelphon: Gemeinsamschwesterliches! Un neologismo che diventa per noi a sua volta intraducibile, una parola mostruosa, è stato detto, che amplifica l’idea di so-rellanza rendendola indissolubile. Pier Paolo Pasolini, per por-tare ancora un esempio di rango, tradusse «dolce capo frater-no, mia Ismene», aggiungendo un dolce sostanziale nella sua poetica, ma che in greco non c’è, e sapendo sottolineare con

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l’aggettivo fraterno che in greco la parola per dire ‘fratello’ e ‘sorella’ è la stessa12. L’Antigone comincia dunque con un’inte-riezione, un appiglio, nello sconvolgimento emotivo, per An-tigone che parla; la ricerca di un punto fermo, nella nebbia del dolore, di una rassicurazione affettiva. Antigone è stretta nel morso dell’angoscia, la sua parola indugia nell’incertezza del voler raccontare: i due fratelli si sono uccisi, ma la guerra non è ancora finita. Anzi, se la guerra degli eserciti si è appena con-clusa, adesso sta iniziando un’altra guerra, che Antigone vuole intraprendere; ma ha bisogno di alleati: e cerca allora, appellan-dosi all’unico essere umano con cui vuole e può condividere la sua sfida, le parole adatte per spiegarsi. ‘Oh capo di Ismene’, detto subito, con forza, ma insieme come una preghiera. Non il nome semplice: ma la perifrasi: ‘capo’, ‘testa’, come volto, il luo-go fisico dell’identità, il luogo delle somiglianze: ‘volto di Isme-ne’, come a dire: ‘volto a me così simile’, ‘tu che mi assomigli’ (e insieme assomigli ai fratelli che sono morti). Bertolt Brecht rende i tre termini greci (koinon, autadelphon, kara), sintetiz-zandoli e semplificandoli insieme, con una sola parola: ‘gemella’ (Schwester, Ismene, Zwillingsreis / Aus des Ödipus Stamm). Ma kara ‘capo’, significa anche sede dei pensieri, delle intenzioni, delle emozioni: tu che come me hai sofferto e soffri, vuole dire Antigone, tu che come me ti sei tormentata e ti tormenti, tu nei cui pensieri io posso leggere come fossero i miei. Niente ci è stato risparmiato – dice Antigone. E non è ancora finita. Lo sai? Antigone parla in maniera concitata, usa un lessico militare e virile, pone con insistenza domande, è morsa nell’animo da una parola che la oscura, una parola «rossa» (v. 20), traduce (sbagliando) Hölderlin, come il sangue. Ismene sembra invece sotto choc. Sa della guerra finita, conosce il reciproco omici-dio dei fratelli, ma sta come in una condizione impermeabile al dolore e alla gioia: si nasconde nel buio del non voler sapere. È davvero possibile che Ismene non conosca quello che sta ac-cadendo? E cioè che Creonte, il nuovo re, ha decretato che uno

12 Pier Paolo Pasolini, Teatro, a cura di Walter Siti, Silvia De Laude, con due interviste a Luca Ronconi e Stanislas Nordey. Cronologia a cura di Nico Naldini, Milano, Mondadori, 2001, p. 1013 (il frammento della traduzione dell’Antigone data 1960).

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dei fratelli, l’aggressore, Polinice, ‘l’uomo dalle molte battaglie’, debba rimanere insepolto, scempiato dalle fiere e dagli avvoltoi, mentre invece l’altro, che aveva difeso come re la città, debba ricevere i più solenni tra gli onori funebri?

11. Le Nereidi e il prologo dell’Antigone

C’è una specie di ironia narrativa nell’esordio dell’Antigone. Come è possibile che Ismene non sappia? Finge di non sapere13? Sembrerebbe trattarsi di un escamotage psicologico per caratte-rizzare la cautela di Ismene. Anche nell’archetipo iliadico, del re-sto, sia Teti, che è una dea, sia le Nereidi, sanno bene quello che è accaduto, poiché posseggono il sapere assoluto e totale degli dei: eppure in coro si recano da Achille, così che questi possa raccontare alla madre quel che lei certamente già conosce (si ri-cordi lo stesso Achille alla madre: «perché devo dirlo a te che sai tutto quanto?», Iliade I, v. 365). Nel racconto delle sventu-re c’è già consolazione. E del resto, mentre Antigone narra ad Ismene quel che lei presumibilmente già conosce, anche Ismene racconta ad Antigone quel che lei sicuramente conosce: cioè la sorte del padre, la morte della madre, i due fratelli che si sono reciprocamente uccisi (vv. 49-67). L’Iliade, con il passo specifico di Teti e le sue sorelle che vanno ad incontrare Achille, agisce forse sulla costruzione del prologo sofocleo anche per altri ver-si: pure nell’Iliade, come abbiamo visto, c’è un corpo conteso, quello di Patroclo, che Achille vuole sottrarre allo scempio e alla rovina; anche nel discorso di Achille nell’Iliade c’è il ricordo della sventura passata e di quella incombente; anche Achille – come Antigone – manifesta una forza irremovibile, andrà in battaglia qualunque sia il parere della madre; e la madre, che ne carezza la ‘testa’14, lo fa parlare, gli dà consigli ispirati ad una pratica sag-

13 La finzione di Ismene sembra supposta anche da Antigone, che inve-ce di raccontare, comincia il suo resoconto con una domanda: «Cre-onte non ha forse onorato di sepoltura uno dei nostri due fratelli, e ne ha ritenuto indegno l’altro?» (vv. 21-22; traduzione di Luigi Bel-loni).

14 Kare, v. 71. Vedi kara al primo verso dell’Antigone.

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gezza, gli dice di attendere, come Ismene invita maternamente alla cautela Antigone, ad agire in segreto, a non esporsi; Achille, come Antigone, è irremovibile: alla madre dice: «pur amando-mi, non mi convincerai» (Iliade XVIII, v. 126); l’eroe epico ha lo stesso atteggiamento, ferito, rabbioso, di Antigone; ad Achille è morto Patroclo in battaglia, suo doppio e suo simbolico fratello; ad Antigone sono morti i fratelli, ma è del corpo di uno, conteso tra lei e la città, che è questione. Ed infine, ampliando lo sguardo sulle due vicende: Achille appare già una prima volta in battaglia, nascosto da Atena, e spaventa i nemici, prima ancora di rientrare in battaglia; nell’Antigone, come vedremo meglio, il corpo di Po-linice è sepolto due volte, la prima volta di nascosto, quasi un atto solo dimostrativo, e poi da Antigone che è colta sul fatto. Nell’I-liade, Teti infine si separa da Achille e anche dalle sorelle, come Antigone si separa da Ismene, mentre questa sottolinea ancora il suo amore per lei; ognuno va incontro al proprio compito, e la decisione di Achille, supportata dagli dei, non differisce nella sua irrazionalità da quella di Antigone. Su ambedue grava l’aspetta-tiva di morte. Alla fine, del resto, il corpo scempiato di Patroclo riceverà gli onori che gli si devono; e così quello di Polinice.

12. Tra due donne

Nel primo dialogo tra Antigone e Ismene, il prologo della tragedia sofoclea (vv. 1-99), Ismene sottolinea indirettamente la propria offesa solitudine. La sorella l’ha abbandonata in un mo-mento in cui non doveva, non era opportuno: «non mi è giunta parola né dolce né dolorosa dei nostri cari» (vv. 11-12), esordisce Ismene, «da quando sono morti i nostri due fratelli»: quella pa-rola, quel mythos, che invece poteva aspettarsi da lei, la sorella, l’unica dei “cari” che le è rimasta, e che ora le arriva invece come «parola che inquieta» (epos kalchainousa, v. 20). Ma Antigone ha infranto l’ethos della sorellanza (ed anche quello della femmini-lità): è uscita fuori dal palazzo, si è recata presso le mura dove è accaduto l’eccidio; ha sentito l’editto del nuovo re. Antigone è rabbiosa: «Creonte ha dato quest’editto per te e anche per me, anche per me dico» (vv. 30-31); tuttavia, invece di agire subito, va dalla sorella, ne cerca la complicità. Ma l’appello di Antigone

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coglie Ismene nell’inerzia, nell’abbandono, nel dubbio. Arriva allora Antigone e la scuote: ‘Tu che sei connessa a me, inscindi-bile da me, tu che sei a me comune, ascolta quel che sta accaden-do. La guerra non è ancora finita, non per noi. Dobbiamo sep-pellire il fratello lasciato insepolto. Dev’essere un lavoro ed una fatica comune’ (vv. 1-41; l’imperativo è sottolineato con i verbi composti con syn al v. 41: ei xymponeseis kai xynergase skopei).

13. Due modelli conservativi

Nel confronto iniziale di Antigone ed Ismene, Sofocle sa con-densare due modelli femminili tradizionali, che esprimono cioè valori condivisi dal pubblico ateniese: Ismene è colei che resta nel palazzo, nello spazio proprio della donna, non autorizzata ad agire («cosa vuoi che faccia?» – chiede ad Antigone, vv. 39-40), consapevole della propria condizione subordinata («siamo don-ne, non possiamo combattere contro uomini; sottomesse ai più forti, dobbiamo obbedire a questi ed altri più dolorosi ordini», vv. 61-64); Antigone, da parte sua, è la donna che risponde al suo ruolo di sorella, anche letterariamente archetipico, ossia quello del compianto del fratello morto, un compito e un dovere ine-ludibile per le sorelle sopravvissute, sin dall’epica, e che Creonte vuole impedire («si dice che tale bando Creonte abbia annunciato per te e per me – per me dico!»: vv. 31-32). Il pubblico di Sofocle simpatizza sia con Ismene che con Antigone, nessuna delle due sorelle si presenta come irregolare: «ad alcuni tu sembri davvero ragionare bene, dirà Antigone, per altri, invece, sono io a farlo» (v. 557). Irregolare appare invece, sin da subito, il bando di Cre-onte: non perché impedisca la sepoltura di un nemico, ma per-ché impedisce alle sorelle il compianto di un fratello. Nemmeno il furore cieco di Achille, nell’Iliade, giunge a tanto, poiché alla fine l’eroe restituisce il corpo di Ettore alla famiglia. La follia di Antigone, la sua sconsideratezza, non è mai identificata col ge-sto della sepoltura: ma con la sua contraddizione di una legge nuova, di una misura di sicurezza adottata a scopo dimostrativo da Creonte esplicitamente contro la famiglia di Edipo, la cui tra-sgressione significa la pena di morte; e anche con la sua pretesa di compiere tale crimine “davanti a tutti”, come ogni compianto che

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si rispetti, sollecitando quasi, con questa esibizione, la partecipa-zione della comunità. Ismene propone la soluzione più pratica, di cui si fa complice: «Non avvertire nessuno di questo tuo atto; celalo in segreto, ed io farò altrettanto» (vv. 84-85); invita cioè ad agire “con misura” (v. 68). Invero, nonostante la prima reazione («dillo a voce alta»: v. 86), Antigone segue il consiglio della sorel-la: la prima volta al corpo di Polinice vengono dati onori funebri senza che se nessuno se ne accorga, di notte, in segreto; la secon-da volta, Antigone è scoperta dalle guardie, ed è da sola: non ha certo gridato ai quattro venti quel che intende fare, si nasconde in una bufera, forse spera di non essere scoperta; solo il calmarsi del vento e della polvere permette alle guardie di vederla e cat-turarla: ed i soldati, del resto, provano subito «dolore» per lei (v. 436), che è una persona «amica» (v. 437), e non sta commetten-do nulla di riprovevole. La follia di Antigone, dunque, che tanto soggioga la ricezione della tragedia di Sofocle, va ridimensionata. E va ridimensionato soprattutto l’apparente dissidio tra le sorelle. Alla fine del prologo, prendono due direzioni diverse, è vero: ma il loro cuore batte all’unisono. «Va, se così ti sembra bene – dice Ismene ad Antigone – ma sappi questo: che vai via pazza (anous), ma veramente amata da chi ti ama: vv. 97-98)». Phile, ‘cara’, ‘ama-ta’, è l’ultima parola di Ismene alla sorella; non c’è separazione, al contrario condivisione di un segreto, complicità. Antigone va via, ma Ismene resta idealmente con lei, le resta vicino con il suo amore indissolubile. Gli ultimi versi di Ismene, riecheggiano quello che Antigone le ha già detto: «Sii quale tu vuoi essere» (v. 71). Si separano non perché un conflitto irreparabile si sia aperto tra loro, ma perché ognuna ha da svolgere un compito diverso.

14. Le ragioni politiche di Antigone (e di Ismene)

La “comunanza” tra Antigone e Ismene15 costituisce il noc-ciolo della loro fragilità ed insieme della loro forza. La fragilità, perché in comune hanno la famiglia e la sua maledizione, una serie che pare infinita di atrocità e umiliazioni; la forza: perché sono due donne e nella loro unione consiste, nell’occasione, l’u-

15 Sottolineata tra l’altro dall’uso del duale ai vv. 3 e 21.

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nica possibilità di difesa estrema, di affermare le ragioni del lega-me familiare. Un legame sentimentale, ma soprattutto politico, perché significa ribadire l’importanza della famiglia, del ghenos, rispetto al nuovo, legittimo, governo della città16. Nel primo ver-so della tragedia, Antigone fa appello a tale legame: autàdelphon, dice ad Ismene, che vuol dire qualcosa in più che ‘sorella’17. ‘So-rella’ in ogni possibile senso, nata dagli stessi genitori, legata agli stessi fratelli, sorella mia come nessun’altra: legame unico, in cui, proprio come nell’eredità genetica dei lineamenti fisici, si intrec-ciano pensieri concordi e anche discordanti, modalità dell’agire e del pensare che si incontrano ma possono anche scontrarsi. Il nucleo, dunque, di una sorellanza consapevole, che non evita il confronto dialettico. Ismene è ‘colei che sa’, secondo un’etimo-logia del suo nome18: la riflessione, il pensiero pratico, razionale, che elabora il lutto col tempo e con la consapevolezza, che soppe-sa i rischi dell’agire e cerca l’occasione migliore. Antigone è ‘colei che è contro’, persino contro la vita, contro il ruolo che le im-pongono, e in questo esasperato antagonismo persegue col cuore “caldo” anche cose che ghiacciano (v. 88): che risponde, dunque, d’istinto. Ismene è l’agire meditato, ragionato, che usa le parole; Antigone l’agire del gesto e non della parola (v. 543).

15. Nascere per amare

Ismene non è però mai una vigliacca: nel prologo della tra-gedia non rifiuta l’azione di Antigone, si è detto, ma le consiglia di agire di nascosto (vv. 84-85), provocando una reazione esa-gitata: dillo a tutti – le grida Antigone – mi diventerai nemica se non lo annuncerai pubblicamente (vv. 86-87); Ismene ten-

16 Vedi ad esempio Gherardo Ugolini, Sofocle e Atene. Vita politica e attività teatrale nella Grecia classica, Roma, Carocci, 2012; Davide Susanetti, Catastrofi politiche. Sofocle e la tragedia di vivere insie-me, Roma, Carocci, 2012.

17 Sul termine si veda da ultimo Giovanni Greco, Autadelphon nel-l’‘Antigone’ di Sofocle, in «Annali Online Lettere – Ferrara», I-II (2011), pp. 342-354, con ulteriore bibliografia.

18 Vedi Umberto Curi, Figure della duplicità, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 93-104.

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ta di temperare l’aspirazione della sorella a compiere imprese impossibili, Antigone con impeto vuole portare avanti il suo dovere che è diventato una sfida19. Ma quando Antigone sta in catene, davanti al re che la vuole morta, Ismene abbandona il suo stato di apparente indifferenza, il sangue purpureo che co-lorava metaforicamente le parole della sorella (v. 20) le scorre ora sulle guance, una nube fosca le impedisce la vista (vv. 528-530). Davanti al Re, Ismene si dichiara colpevole, anzi: chiede ad Antigone il permesso di dichiararsi colpevole. Un dialogo quasi insensato, un rompicapo per chi ascolta e legge: cosa vuol dire la battuta di Ismene: «sono autrice del fatto, se lei è d’ac-cordo; condivido l’accusa e la sopporto»? (v. 536)20. Si lasciano in dubbio gli spettatori e i lettori: Ismene è davvero anche lei colpevole? Di cosa è “autrice”? Quale crimine ha commesso? Creonte non capisce, ha paura di Ismene come di Antigone: la prima poi, che non aveva dato sino ad allora segni di squili-brio, gli sembra un mostro, un serpente velenoso; le due ragaz-ze, sue nipoti, cospirano insieme contro di lui, pensa nella sua paranoia da potente (vv. 531-535). Ritorna la casa come luogo deputato e segreto della sorellanza, inaccessibile agli uomini e di cui perciò gli uomini hanno timore. Ritorna anche la casa come prigione, perché è lì che Creonte, dopo il sommario “pro-cesso”, ordinerà di rinchiudere nuovamente le donne (vv. 577-581). Due battute di Creonte hanno anche valore di didascalia drammatica, commentano cioè quello che è accaduto in scena: «Dico di queste due fanciulle: una ha svelato proprio ora di es-sere pazza (anous), l’altra lo è da quando è nata» (vv. 561-562). A-nous, letteralmente ‘senza il ragionare, il pensare’ è l’agget-tivo con cui Ismene ha definito Antigone alla fine del prologo (v. 98): attraverso le parole di Creonte si svela l’evoluzione e la natura del personaggio di Ismene, che non meno della so-rella è “irragionevole”, o almeno lo è diventata. La confessione di Ismene (v. 536) riecheggia nel lessico quella di Antigone (v.

19 Perciò nelle due figure sono state viste due diverse forme di resisten-za: vedi Jennet Kirkpatrick, The Prudent Dissident. Unheroic Re-sistance in Sophocles’ Antigone, in «The Review of Politics», LXXIII (2011). 3, pp. 401-424.

20 Traduzione di Luigi Belloni.

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443). Se pure, nell’esordio, sembra aver esistato, adesso Ismene non esita più. Condivide il crimine di Antigone, si dichiara sua complice. Solo la sottigliezza di un avvocato difensore, quale qui è timidamende il coro (v. 770), richiede pene diverse per chi ha commesso il fatto e per chi vi ha partecipato solo ide-almente. Ismene non ha «toccato» (vv. 546 e 771) il corpo, ma nondimeno è colpevole dello stesso ‘errore’ (amartia, v. 558), in senso giuridico. Ismene condivide in tutto il gesto di Antigone, se ne assume la responsabilità morale; l’ha sempre condiviso, anche se avrebbe preferito che fosse rimasto nascosto; lo con-divide come atto politico, di cui è colpevole come Antigone e cerca la sua approvazione («se lei è d’accordo»). Non vuole mo-rire per lei, ma con lei. Nell’atto epico del morire insieme, e del giacere insieme nella stessa tomba21, si realizza l’eroizzazione della sorellanza, la sua equiparazione ai tanti esempi di “fratel-lanza” epica. Il legame di sorellanza non è dunque soltanto bio-logico, in una famiglia, del resto, segnata in maniera inaudita dall’incesto e dal sovvertimento di ogni struttura parentale. La sorellanza è un legame ideale, ha bisogno del consenso («se lei è d’accordo»): un legame che culmina nella vita comune, ideo-logicamente orientata alla tutela del ghenos, oppure nella morte comune, quando la causa soccombe. Ma sempre insieme. Nel “noi”. Antigone, allora, l’irrazionale Antigone, davanti alla con-fessione della sorella, diventa ragionevolissima. E salva la so-rella, non ne vuole la morte: non farmi ridere di te, le dice; ma non si tratta di disprezzo: «io soffro, se mi prendo gioco di te», dice Antigone (v. 551). Salvati (v. 553), le impone, e vuole dire: non rendere inutile quella parte di me che resterà a te legata anche dopo la morte. Io devo morire, afferma Antigone, lo so da tempo e l’ho scelto: tu devi vivere. Solo così resterai unita a me, sottintende. Solo attraverso te potranno sopravvivere le nostre ragioni. La sua morte, però, alla considerazione della ra-gione pratica di Antigone, sarebbe adesso inutile. Creonte gra-zia Ismene, ma non per un atto di clemenza, quanto per com-

21 Si ricordi ancora il modello di Achille e Patroclo. Quest’ultimo ap-pare in sogno al compagno e lo prega che «un’urna sola racchiuda» le loro ossa (Iliade XXIII, vv. 91-92). Anche Achille e Patroclo sono cresciusti insieme, nella stessa casa, come due fratelli.

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minare un’ulteriore sottile tortura ad Antigone: la separa per sempre dalla sorella. D’altro canto, quel che Antigone ignora e vuole ignorare incitando Ismene al «coraggio» (v. 559)22 è che il loro progetto può dirsi oramai definitivamente fallito. Tutto il ghenos è stato distrutto; con la loro separazione perde ogni forza anche l’ultimo nucleo che lo rappresenta, le due sorelle. La sopravvivenza di Ismene si rivelerà inutile non meno della morte di Antigone: con la scomparsa delle sorelle, scompare il loro mondo. Le ragioni di Ismene ed Antigone non differiscono, insomma, tra loro: ambedue sono nate da una «nobile stirpe» (v. 38) che continuano a rappresentare, nonostante il loro essere donne. È stato più volte ipotizzato che nemmeno le loro azioni sono diverse: anche Ismene darebbe sepoltura al fratello, di notte, di nascosto, senza che nessuno se ne accorga23. Nell’An-tigone, come si è accennato, si racconta di una prima sepoltura, che il coro attribuisce agli dei e scatena l’ira di Creonte quando un buffo soldato, una delle sentinelle a guardia del cadavere, gliela riferisce. Non sapremo mai con certezza rispondere alla domanda su chi per la prima volta abbia sepolto Polinice24: So-focle intende duplicare il punto di vista, così come nelle figure di Antigone e di Ismene sdoppia la maniera di intendere il le-game con il corpo del fratello e con il ghenos in generale. Due

22 Tharsei: la stessa rassicurazione intima che Iftime fa a Penelope in Odissea, IV v. 825.

23 È la tesi, suggestiva ma indimostrabile, sostenuta, tra altri, da Bon-nie Honig, prima in Ismene’s Forced Choice: Sacrifice and Sorority in Sophocles’ Antigone, in «Arethusa», XLIV (2011), 1, pp. 29-68 e poi nel libro Antigone, Interrupted. Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2013. Della Honig si condivide qui l’idea di “sorel-lanza” tra Antigone e Ismene.

24 Si tratta di una crux interpretativa a cui gli studiosi hanno risposto in maniera diversa, ma mai in via definitiva. Per due letture com-plessive della tragedia si rinvia a William Blake Tyrrell, Larry J. Bennett, Recapturing Sophocles’ Antigone, Lahnam, Rowman & Lit-tlefield, 1998; Luigi Belloni, Dentro il testo, in Sofocle, Antigone, a cura di Luigi Belloni, Pisa, ETS, 2014 (dello stesso autore si rac-comanda anche la limpida traduzione italiana del testo); Douglas Cairns, Sophocles: Antigone, London, Bloomsbury, 2016. Si veda inoltre per un nuovo commento al testo Antigone, a cura di Davide Susanetti, Roma, Carocci, 2012.

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maniere di agire diverse, ma complementari ed uguali nel ri-sultato, in cui quel che spicca è proprio la dualità, la sorellanza anche nella differenza.

16. Nate per condividere amore

Un elemento costitutivo della sorellanza consiste nel prin-cipio di «condividere l’amore e non l’odio» familiare (v. 523), e in questa condivisione sta l’alternativa etica e politica tradi-zionale al potere appena insediato che invece introduce cate-gorie nuove, scinde e classifica: da una parte l’amico, dall’altra il nemico; da una parte la legge, dall’altra chi la infrange; da una parte lo Stato, dall’altra la famiglia. Per Antigone ed Isme-ne, invece, conta l’appartenenza, l’essere dalla stessa parte, una conseguenza della loro natura di figlie e sorelle del ghenos i cui maschi si sono autodistrutti, ponendo fine al vecchio ordine. Solo una prospettiva contemporanea può dare al valore dell’u-nione di Ismene ed Antigone un significato politico in senso dirompente, contro le strutture politiche e familiari tradiziona-li: nel contesto storico dell’Antigone di Sofocle, invece, le due sorelle difendono la più tradizionale delle strutture sociali, una famiglia patriarcale che coincide con un’idea politica affatto ri-voluzionaria, ma anzi conservativa. Perciò la città, come dice Emone, le approva e trova esagerata la punizione che Creonte vuole comminare ad Antigone. Se il vecchio ordine non esiste più, nondimeno occorre clemenza verso i suoi rappresentan-ti superstiti, perché il cambiamento non sia troppo repentino. Né Antigone né Ismene sono due “rivoluzionarie”; al contrario, difendono leggi arcaiche, ataviche, non scevre da scrupoli reli-giosi, che il nuovo potere vuole definitivamente superare senza soluzione di continuità. La legge dell’amore che Antigone affer-ma nel più celebre dei versi della tragedia sofoclea (v. 523) non è universale, è stata resa universale dalla tradizione successiva. È invece la legge particolare dell’amore familiare, che non inten-de piegarsi alle logiche cittadine, politiche. Anche se un nemi-co, anche se l’aggressore della città, Polinice resta il fratello che deve essere sepolto ed onorato.

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17. Sorelle diverse e gemelle

Ed è proprio nell’affermazione di quest’amore, amore ob-bligato, ereditato per nascita, che Sofocle vede il rispecchiarsi reciproco delle sorelle: con uno scambio di ruoli ed un chiasmo narrativo, all’inizio Antigone vuole che il suo gesto sia urlato, ed Ismene di converso chiede il silenzio; alla fine è Antigone a far passare sotto silenzio la colpa di Ismene, e quest’ultima ad urlar-la, dichiararla. All’inizio della tragedia Ismene tenta di salvare Antigone, e non ci riesce, poi Antigone tenta di salvare Ismene, e ci riesce. All’inizio Ismene afferma di “non sapere” nulla di quel che è accaduto, alla fine, davanti a Creonte, ammette di sapere (vedi v. 535: eidenai), ed invece Antigone finge di non sapere perché la sorella vuole morire con lei. All’inizio Antigone vuole seppellire un fratello (anche Polinice è autadelphon, v. 503), alla fine Ismene “sorella” vuole seppellirsi con Antigone, e questa ri-fiuta. Si dirà che Antigone, nel prologo, dice alla sorella: «Io non ti ordinerei mai di agire con me, né se ancora tu volessi farlo, vedrei con piacere una tua azione con me» (vv. 69-70) e dunque si assolutizza il rifiuto di Antigone, che coerentemente esclude la sorella dalla colpa e dalla condanna. Ma lì Antigone vuole dire che non accetterebbe mai un coinvolgimento di Ismene se obbligata: “non te lo ordinerei mai”; la condivisione che Anti-gone vorrebbe è un atto spontaneo, come appunto spontanea (e coraggiosissima) è la confessione di Ismene davanti a Cre-onte. Oltretutto le affermazioni di Antigone nel prologo sono caratterizzate da impulsività: invece alla fine Antigone obbedi-sce a un calcolo umano e politico, vuole che Ismene sopravviva. «Quale vita potrò desiderare senza di te?» – le chiede Ismene. E Antigone risponde:«Chiedilo a Creonte: tu infatti sei la sua guardiana (kedemon)» (vv. 548-549). In questo scambio di bat-tute si è vista una frattura insanabile; Antigone consegnerebbe Ismene a Creonte, la disconoscerebbe come sorella. Ma non si tiene conto che il dialogo tra le due sorelle, dopo, si addolcisce e si colora di solidarietà e disperazione; ed anche del cambia-mento del ruolo di Antigone. La battuta di Antigone è ironica, dolorosamente ironica: Ismene deve continuare a rappresentare il ghenos, la famiglia, proprio accanto al suo oppositore, a Cre-onte, standogli accanto, ma anche, come si capisce dalla rara

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Sorelle dolorose dall’Iliade all’Antigone

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parola kedemon, curando il suo funerale25 (che gli spettatori per ironia tragica sanno imminente). Ad Ismene, Antigone attri-buisce adesso un ruolo maschile: kedemon è la parola epica per i ‘compagni’ dello stesso esercito. Il ruolo virile, che Antigone ha dovuto assumere per ottemperare ai suoi doveri di sorella, ora passa ad Ismene: ed è in questa trasmissione che consiste il senso della sopravvivenza di Ismene, da Antigone adesso fortemente voluta e presentata come necessità politica. Solo con la sua scelta di vivere, di cui adesso Antigone implicitamente riconosce le ragioni (vv. 555-556), Ismene può ancora «essere d’aiuto» (v. 552) alla sorella. Sofocle così ci racconta di un legame indissolubile tra donne, lo rende accettabile proprio alla parte più conservatrice del suo pubblico; ma implicitamente avverte quanto pericolosa e destabilizzante sia una tale sorellanza, se sottovalutata, per il potere costituito: Creonte uscirà infatti annichilito dalla vicenda, perderà tutto, compreso il trono. Proprio la complementarità di Ismene e Antigone, non la loro differenza o addirittura antitesi, risalta nella tragedia di Sofocle e si consegna alla considerazione delle epoche successive che la rendono emblema di altre “sorellanze”.

25 La parola infatti nell’Iliade (XXIII, vv. 163 e 674) ha una sua applica-zione specifica in rapporto a ‘chi si occupa’ del rituale funebre: vedi nei dettagli Susanetti, Antigone, cit., ad loc. (pp. 260-265).

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