Città e coscienza civile - RetinOpera

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www.retinopera.org 06/66132345 – [email protected] Città e coscienza civile V Seminario Estivo 7 - 9 luglio 2006 – Vallombrosa

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Città e coscienza civile

V Seminario Estivo

7 - 9 luglio 2006 – Vallombrosa

Retinopera – Atti Vallombrosa 2006

Presentazione Con il seminario di Vallombrosa Retinopera intende offrire un contributo al prossimo convegno di VR, dedicato alla ricerca di segni e alla costruzione di scelte di speranza. Tra gli ambiti in cui la speranza cristiana è chiamata a manifestarsi, la traccia preparatoria indica quella della cittadinanza, la più adatta a interpretare la sensibilità di Retinopera. Vorremmo approfondire, con il nostro seminario, il rapporto tra città e coscienza. Ogni città è espressione di una coscienza comunitaria che nel tempo le ha dato forma: nella bellezza, nell’organizzazione, nelle tradizioni, nei valori condivisi. I monumenti, le istituzioni, la qualità della vita di una città sono l’espressione esteriore del mondo interiore dei suoi abitanti. E d’altra parte, una città continua a vivere e a rinnovarsi nella misura in cui quella coscienza –che è appartenenza, che è responsabilità, che è creatività, che è cultura- continua ad alimentare, a far crescere, a rendere matura, aggiornata ai tempi e forte nell’affrontarne la prova. In questo processo, vorremmo affrontare il compito specifico della spiritualità; esiste una spiritualità delle città? Quale anima ha una città? Che spiritualità c’è dietro le cattedrali? E dietro la scelta di aprire le porte allo straniero? E dietro al di farsi solidale con i poveri? Per quanto possa sembrare poesia, vorremmo provare ad immaginare la città a partire da un’anima; le città, a partire dalla loro anima. Per capire quale anima –la nostra- può far vivere città a misura di persone. E per decidere quale contributo, insieme, come aggregazioni, possiamo offrire al futuro delle nostre città.

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Sommario INTRODUZIONE pag. 4 di Luca Jahier Meditazione biblica LA CITTÀ: TRA BABILONIA E GERUSALEMME pag. 9 di S.E. Mons. Gastone Simoni METTERSI IN RETE, NELLA PROSPETTIVA DEI TERRITORI pag. 20 di Savino Pezzotta Preghiera e meditazione SE IL SIGNORE NON COSTRUISCE LA CASA ….. SE IL SIGNORE NON CUSTODISCE LA CITTÀ …. pag. 21 di S.E. i l card Atti l io Nicora CITTÀ E QUALITÀ DELLA VITA pag. 36 di Mauro Magatt i CITTÀ E SVILUPPO UMANO pag. 49 di Luigi Fusco Girard VERSO IL CONVEGNO ECCLESIALE: LA CITTADINANZA pag. 58 di Luca Diotallevi Omelia GESÙ ATTRAVERSA LE CITTÀ pag. 63 di S.E. Mons. Arrigo Miglio INSIEME PER DARE UN’ANIMA ALLE NOSTRE CITTÀ pag. 68 Tavola rotonda coordinata da C. Genti l i , con L. Alici , A. Olivero, M. Marazzit i , F. Pasquali , A. Ferrari , M. Sala CONCLUSIONI pag. 87 di Paola Bignardi

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di Luca Jahier

Cari amici, benvenuti e grazie per essere ancora insieme a condividere una nuova tappa del nostro cammino. Ci siamo lasciati lo scorso anno, a pochi mesi dalla trasformazione di Retinopera da luogo di incontro e di scambio tra persone in Associazione promossa principalmente da aggregazioni laicali , con l’intento di qualificarci come luogo di dialogo, legami e sinergie, per raccogliere la sfida della ricerca, del discernimento e dell’orientamento, fino alla capacità di esprimere posizioni, proposte e formazione in comune. Siamo partiti dall’Agenda sociale; abbiamo dato vita e accompagnato diverse iniziative sui territori, dalla Convention di Napoli dello scorso gennaio alla Basilicata, fino al 1° seminario formativo dello scorso marzo per referenti di gruppi e realtà territoriali , con rappresentanti di 18 città. Abbiamo poi attraversato un periodo di diversi e importanti cambiamenti ai vertici delle principali aggregazioni e organizzazioni della nostra rete, fatto che ci ha spinti a riprecisare tra noi i l punto di origine, l’identità e la missione di Retinopera, fino a formulare più precise priorità per l’azione comune, che si basano principalmente su: formazione, radicamento e rete nei territori, iniziative e strumenti che contribuiscano a creare pensiero condiviso e visibilità di questo nostro lavoro comune. Il nostro V° seminario estivo assume il tema della cittadinanza e intende coniugarlo con la questione della città e della coscienza civile. Una scelta che taluni possono aver forse interpretato come un po’ distante dalle molte questioni scottanti dell’attualità dell’impegno pubblico dei cristiani, ma che noi crediamo invece si situi in quello sguardo lungo e programmatico che Retinopera vuole cercare di mettere in campo e che riprende una delle tre direttrici principali del cantiere dell’Agenda: il ripartire appunto dalle città. Stiamo conducendo questa nostra riflessione nel quadro del cammino preparatorio verso il convegno ecclesiale di Verona del prossimo ottobre, che propone cinque ambiti nei quali esercitare i l discernimento comunitario, per “dare ragione della speranza che è in noi”.

“La cittadinanza, che esprime una dimensione dell’appartenenza civile e sociale degli uomini – dice la traccia preparatoria- l’idea di radicamento in una storia civile, dotata delle sue tradizioni e dei personaggi specifici e insieme del suo significato universale di civiltà politica.”

Per il padre del personalismo comunitario, E. Mounier, l’impegno del cristiano è vivere la propria esistenza come ‘lotta’: per la libertà, la giustizia, la democrazia, perché la vita abbia un senso. A tal proposito egli scrive: <<Il cristiano deve mettersi bene in testa che è un cittadino della terra e che, se vuole imitare

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pienamente Cristo, deve pienamente con Lui assumersi i pesi e gli impegni di questa cittadinanza. Il cristiano sarà un uomo totalmente uomo tra gli uomini e non barerà con le esigenze della terra. Il mio Vangelo è il Vangelo dei poveri. Esso non si rallegrerà mai di ciò che può separare il mondo e la speranza dei poveri. Non è politica lo so, ma è una ragione sufficiente per rifiutare certe politiche.>> Mounier ci invita dunque a formare le persone ad una concezione esigente e dinamica della cittadinanza che oggi chiamiamo “cittadinanza responsabile”, ossia una visione che fonda la cittadinanza sul principio di responsabilità nei confronti della comunità. Ed è proprio qui che incontriamo, a mio avviso, il primo nodo problematico. Il tema della cittadinanza è da sempre coniugato strettamente nelle nostre società con la democrazia. La domanda è: esiste ancora uno spazio reale per la dimensione partecipativa della democrazia, ovvero essa è vieppiù ridotta ad una pratica formale / funzionalista, quasi contrattualista. La democrazia funziona apparentemente sempre meglio sul piano delle regole, delle procedure e delle forme ….. ma è ancora chiaramente orientata al fine e capace di suscitare tensioni e passioni convergenti sulla méta e dunque dare così un senso e una prospettiva all’essere cittadini? Intendiamo qui per fine della democrazia quello di realizzare pienamente il bene della persona umana, perseguendo il bene comune, attraverso un processo di progressiva e sempre più ampia inclusione, di estensione della piena agibilità ed esercizio dei diritti , in una dinamica di protagonismo dialettico, pacifico e concorrente di tutti i soggetti . Ma i nodi salienti dell’oggi sono sempre più la paura e l’insicurezza, il crescente ripiegamento sul presente, la trasformazione del cittadino in utente o consumatore, al più in stakeholder, che alla fine risulta però consumato nell’atto stesso e incapace dunque di essere generativo. Ancora, il pervadente relativismo, lo scambiare desideri e passioni per diritti , in una logica di egocentrismo individualista che distrugge gli altri (nel senso che li nega in quanto tali), che azzera il futuro (la rottura del dialogo e della prospettiva intergenerazionale e della stessa generazione dei figli) , che svuota il presente e perde anche il senso di essere parte di una storia, di una tradizione, di un passato e dunque di una comunità concreta. E’ come se l’uomo stesse vivendo una sorta di delirante processo di deificazione (tutto ciò che io penso, io posso), che in realtà si rivela un processo di tragica reificazione, che svuota di senso e conduce al nichilismo più assoluto. Da dove ripartire dunque? Perché qui è in gioco la duplice questione, del soggetto e della relazione civica, sociale, dunque politica. Il nodo diventa così la necessità di un impegno per recuperare ciò che connette il soggetto con la relazione storica, che accade in un territorio. Sarebbe facile qui riandare a Giuseppe Lazzati con i suoi pensieri del 1984 ne “La città dell’uomo”, ovvero ancora a Giorgio La Pira, per il quale le Città hanno sempre la “C” maiuscola, poiché sono delle entità spirituali, custodi e quindi “domicilio” della vita dei propri abitanti . Particolarmente illuminante poi, nell’orientare la nostra ricerca, mi sembra il n° 390 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa - che pure sviluppa assai poco i concetti di città e cittadinanza – a cominciare dal suo titolo “la convivenza basata sull’amicizia civile”:

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“Il significato profondo della convivenza civile e politica non emerge immediatamente dall’elenco dei diritti e dei doveri della persona. Tale convivenza acquista tutto il suo significato se basata sull’amicizia civile e sulla fraternità. Il campo del diritto, infatti , è quello dell’interesse tutelato e del rispetto esteriore, della protezione dei beni materiali e della loro ripartizione secondo regole stabilite; il campo dell’amicizia, invece, è quello del disinteresse, del distacco dai beni materiali , della loro donazione, della disponibilità interiore alle esigenze dell’altro. L’amicizia civile, così intesa, è l’attuazione più autentica del principio di fraternità, che è inseparabile da quello di libertà e uguaglianza.”

Siamo qui di fronte ad un orizzonte molto chiaro, nel quale si afferma che l’uomo realizza sé stesso non solo quando ottiene giustizia (cioè vede garantiti i propri diritti) ovvero quando è condotto attraverso una retta coscienza ad esercitare il proprio dovere verso la comunità, ma recupera appunto la prospettiva della gratuità e del dono, che supera lo stato del bisogno (che gestisce sia la logica del diritto che del dovere) e trasforma la realizzazione della persona nella ricerca e nella costruzione di una convivenza fraterna, in cui acquistano una nuova luce e senso sia i diritti che i doveri. L’esercizio della giustizia, la produzione delle leggi e delle regole, anche gli stessi strumenti di coercizione e di controllo, di cui doverosamente si dota ogni comunità umana, ritrovano così un senso e soprattutto una prospettiva rispetto ad un fine condiviso e sentito come buono, capace dunque di suscitare passione, adesione e anche militanza. Sorge allora la domanda: ma da dove ripartire con tutto questo? A nostro modo di vedere, dalla città. � non crediamo si tratti di un ripiegamento intimista. Il Card. Martini, in un incontro con gli amministratori di Milano di qualche anno fa, ebbe a dire: “…mai come in questo tempo stiamo infatti sperimentando più ancora che la forza la debolezza della nostra città. Eventi drammatici che hanno toccato altre metropoli, i l riproporsi recente di oscure minacce e più in generale la complessità dei processi in atto nei grandi agglomerati urbani sembrano indurre ad un senso di sgomento di fronte alle difficoltà di reggere. Alle sfide che pone la grande città. Eppure la città è un grande patrimonio dell’umanità” Cifre alla mano, potremmo poi dire che la città è anche il vero grande futuro dell’umanità. Nel 1800, prima della rivoluzione industriale, solo il 2% della popolazione mondiale viveva in città; nel 1900 siamo al 14%. Nel 2005 siamo giunti al 47%, con una spinta decisiva nei paesi del sud del mondo, cioè stiamo parlando di oltre tre miliardi di persone. Nel 2006 è ormai avvenuto il sorpasso e con questo trend nel 2030 saremo al 60% della popolazione mondiale che vivrà in agglomerati urbani di oltre 100.000 abitanti. Le città diventano sempre più il luogo nel quale è violentemente chiamata in causa la dimensione politica e civile della cittadinanza. Le città come dimensione di investimento da riscoprire. Le città dove si è tutti chiamati a far “quadrare il cerchio”: tra benessere economico e coesione sociale, tra libertà politica e sicurezza. Città ove si è chiamati ad aprire e cercare sempre nuove sintesi tra le molte diversità, perché chi chiude e alza i muri, pensando così si preservare la propria identità e le proprie conquiste civili e sociali, non ha più identità e viene presto travolto dai processi globali. Ogni identità viva è infatti di per se aperta, dialogica, curiosa, espansiva, quasi missionaria, proiettata verso il mondo, anche

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con tutti i rischi di derive e di perdersi, ma capace di rischiare e mutare, dentro un concreto processo storico. Il III° Forum urbano mondiale dell’ONU che si è svolto a Vancouver nelle scorse settimane ha messo al centro la sfida urbana delle megalopoli , del fatto che presto le baraccopoli conteranno 1,4 miliardi di persone, con situazioni di povertà estrema, mancanza di ogni servizio di base, lacerazioni e tensioni drammatiche. E ancora, nei giorni scorsi, proprio a Milano, David Croff, Presidente della Biennale di Venezia, nel presentare la X^ mostra internazionale di architettura che si terrà dal 10 al 19 settembre prossimi, dal ti tolo “Città, architettura e società”, ha posto con grande chiarezza la necessità di riflettere sulle nuove e urgenti sfide che pongono i mutamenti in corso. Zygmunt Bauman, nel commentare i fatt i delle periferie urbane francesi e parigine in particolare, afferma che “sono le città il nuovo campo di battaglia in cui si gioca il progetto di società di domani”. Sono le città allora, luogo storico di realizzazione di nuove libertà e di vita di relazione, oggi spesso luogo di separazione e di divisione – degli stranieri dai residenti, dei figli dai genitori, delle generazioni e così via – ad essere luogo che sfida la capacità di governo, di rapporto con il territorio, di costruzione di tessuto sociale, di creazione di dinamiche di relazione dentro e fuori, di nuove forme di solidarietà come virtù civica. “Non può esservi infatti cittadino – affermava il card. Dionigi Tettamanzi nel discorso per la festa di S. Ambrogio del 2004 – né tanto meno una città se viene rifiutata la solidarietà. Essa è ciò che rende solida la città….. è una virtù civile non tanto nel senso che essa fa si che il più forte aiuti i l più debole, quanto nel senso che rende possibile a tutti la convivenza civile” Una sfida dunque, ma anche una nuova opportunità di sperimentare e ricostruire tessuto di speranza. Le città sono infatti – come le ha definite il fotografo Gabriele Basilico nell’ultimo numero di Communitas – dei “corpi che respirano”, che si trasformano, ma anche che uniformano; eppure hanno un’anima (storia, cultura, spirito, relazioni, simboli, piazze, ecc.) cui attingere per dare risposte alla domanda di senso, alla paura di sentirsi soli e stranieri, che fa tornare prepotente il bisogno di appartenenze, di familiarità, di riconoscersi nel “borgo”, di sentirsi comunità, di essere parte di un sistema di relazioni vitali , spirituali, culturali, ma anche spazio-temporali . Qual’è allora lo spazio e il compito dei cristiani, del nostro tessuto associativo in particolare, di fronte alla sfida di una nuova sussidiarietà non rivendicata, ma praticata, per passare da quella che è stata definita la “cittadinanza parassita” (non pago le tasse, non voto, lavoro in nero) alla cittadinanza attiva (partecipo fino a “me ne faccio carico, offro gratuitamente impegno che diventa militanza”) superando lo stadio troppo diffuso e non sufficiente della “cittadinanza minima” (voto, pago le tasse e rispetto la legge). Le città, luogo nel quale riscoprire anche la dimensione fondamentale dello scambio, che non è il contrario del dono, ma sostanza dei legami, superando così la concezione di città come sistema dei bisogni, per i quali si rivendicano risposte o si fruisce di erogazioni, dentro una logica di lotta e conflitto rispetto ad un sistema dei servizi sempre inadeguato e insufficiente, per la riscoperta delle nuove

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domande e opportunità di mutualismo, cioè di solidarietà legate ai più diversi ambienti di vita e come risposta moderna alla sfida di una società solidale e aperta al protagonismo civico. Ma anche alle nuove domande di natura simbolica, di spazio, di bello, di arte e di cultura, di incontro umanizzante e costruttore di relazioni calde e amichevoli, fraterne per rievocare parole non solo religiose. La sfida non è dunque solo di natura organizzativa e sociale, ma anche educativa e simbolica. E per questo non può essere solo rivendicata verso le istituzioni e le forme tradizionali della politica, ma rappresenta un grande campo da arare per i corpi intermedi della società civile. Può diventare appunto la rotta concreta in cui articolare, dopo Verona, il radicamento e la rete territoriale della proposta e del metodo di Retinopera.

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Meditazione biblica LLaa cciittttàà:: ttrraa BBaabbiilloonniiaa ee GGeerruussaalleemmmmee11

di S.E. Mons. Gastone Simoni Quando ho avuto l’invito da parte di Paola Bignardi avrei voluto declinarlo, anche perché di fronte a un tema del genere… Non sono, effettivamente, un esperto biblico né un teologo, eppure ho detto di sì e allora ho scritto alcune considerazioni che ora vi espongo molto alla buona sul tema impegnativo che mi è stato assegnato: la città, tra Babilonia e Gerusalemme. Primo punto: la Bibbia vede la città profondamente segnata dal male . I l male dell’idolatria, dell’orgogliosa autosufficienza e rottura nei confronti di Dio, della prepotenza tirannica e imperialista che opprime soprattutto i poveri, dell’ingiustizia e dell’oppressione, soprattutto delle moltitudini di bisognosi. Questa visione può avere anche motivazioni culturali , ma resta, se ben compresa, una rivelazione di cui è necessario tener conto. Dico che può avere motivazioni culturali , a partire dal conflitto tra campagna e città, gli esperti biblici e gli storici del mondo antico, della cultura e delle religioni antiche toccano anche queste tematiche. Ma, anche se l’occasione della descrizione della negatività della città, per tanti aspetti , fosse data solo da contingenze di carattere culturale, resta che appartiene a una pagina biblica da interpretare e non da sopprimere, da non evitare. La prima città, si sa, secondo la Bibbia è stata fondata da Caino. Si chiamava Enoc, il nome del figlio. Nasce quindi all’interno di una storia di violenza e di crimine, di paura, di negatività. A Nimrod poi, discendente di Noè, figura di eroe gigante post diluviano, potente e prepotente tra gli uomini, come dice padre Emanuele Testa, un esperto del Pentateuco, risale la fondazione di Babele e di Ninive, le città così contestate dal popolo ebraico. Si pensi poi a Sodoma e Gomorra e si potrebbe continuare nell’elenco delle città di segno negativo. Eppure a rigore di analisi biblica e di riflessione biblico-teologica non credo si possa dire che secondo la Bibbia la città è in assoluto la società del male. Il Dio di Israele non comanda i fedeli di abbandonare la vita urbana di per sé. Al tempo stesso, però, denuncia la corruzione della città, i pericoli di idolatria e corruzione che in essa si annidano e mette in guardia dal farsene catturare e dominare, non c’è dubbio. Si contrappone la città del male alla città di Dio, a Gerusalemme. La Gerusalemme reale e soprattutto, lo dico subito, la Gerusalemme ideale. La città secondo la Bibbia è connotata da ambiguità. Di fatto è la massima realizzazione della società in concreto, indipendentemente dalle cifre eloquenti portate da Luca Jahier riguardo all’urbanizzazione contemporanea, anche il mondo antico viveva nella concentrazione delle grandi città. Sembra che la Bibbia preferisca la vita nomade, itinerant. C’è questo risvolto. Mi sono domandato il motivo, perché questa negatività della città? Forse perché la Bibbia, quindi la parola di Dio, i l Signore del popolo che ha scelto per tutta l’umanità preferisce la vita nomade e itinerante. Abramo è chiamato a lasciare la sua città, Ur dei Caldei,

1 Testo non rivisto dall’autore

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un’altra delle metropoli antiche, nell’attuale Iraq. I patriarchi vivono, in genere, ai margini della città con la loro gente, la loro tribù, i loro clan, le loro mandrie. Abramo prega per Sodoma, la corrotta. I messaggeri di Dio, ricordiamo quell’episodio biblico, invitano Loth a uscire da Sodoma. Forse perché c’è questa nostalgia dell’itineranza, perché solloca il popolo non si assesta, non si alloca in situazioni che poi, portando più benessere, degenerano nella dimenticanza di Dio e finiscono in rapporti di ingiustizia al proprio interno. Il deserto è sempre un richiamo, non c’è dubbio, ma non svolgo questo tema ora. Ma allora, ripeto, se le città vengono distrutte per la loro degenerazione, perché il Signore non comanda a tutti di uscire dalla città. D’altra parte, nota un noto biblista, padre Jean Louis Ska, uno dei massimi esperti del Pentateuco, “non è che la vita di campagna o sotto le tende sia esente dal male”. Nella Bibbia si possono aprire dei passi dove si raccontano crimini e degenerazioni anche nella vita di campagna. Piuttosto Dio comanda che i fedeli vivano nella giustizia, la piena giustizia di Dio. Vivano nel riconoscimento di Lui e degli altri come propri simili e fratelli e aspirino e si sentano impegnati per vivere da cittadini della città di Dio, dentro le città umane. Il secondo punto è un punto chiave . Tutto questo discorso che ho fatto, questi cenni che ho esposto, indubbiamente non possono evitare, anzi nascono molto dall’esame del famoso testo del capitolo undicesimo del libro della Genesi, quello che in genere è intitolato La torre di Babele , un testo che va compreso bene, contestualizzandolo anche nei testi più prossimi: i l capitolo decimo, quello sulla tavola delle Nazioni e il capitolo dodicesimo, l’inizio della storia di Abramo. Leggo, rileggo con voi questo testo secondo la versione ufficiale biblica, che però è contestata. Per esempio se voi andate a prendere la Bibbia di Emmaus trovate un’altra versione. Purtroppo non ho potuto consultare la versione ormai approvata del Nuovo Testamento dai vescovi italiani per l’uso liturgico, perché non ce l’avevo tra le mani in questi giorni. Sono curioso di andare a vedere come hanno tradotto questo testo. La traduzione ufficiale finora vigente è questa: capitolo undicesimo, versetto uno e seguenti. <<Tutta la Terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento.>> Padre Ska nota in questa insistenza “facciamoci i mattoni, cuociamoli al fuoco, il mattone servì da pietra” una certa ironia critica del popolo di Israele che costruiva su pietra, nei confronti di questa grande città di Babele, di Babilonia, che ha avuto bisogno invece di mattoni. Ma io non mi intendo di queste cose, di queste finezze, però tanto. “Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre..”. Anche questo è molto importante perché non si tratta soltanto della torre di Babele, ma della città di Babele, che ha al suo centro una torre, che non è una torre, una sorta di fortilizio, realizzato soprattutto da quella piramide a gradoni che sale su verso il cielo, che non è solo tempio ma è segno di riconoscimento della grandezza della città. “. .Una torre la cui cima tocchi i l cielo e facciamoci un nome..” diamoci gloria. “Facciamoci un nome”, contrapposto al nome di Dio, l’umanità non viene piuttosto dal nome di Dio, vuoi fare un nome, “..Per non disperderci su tutta la terra”. E questo è importante. “Per non disperderci su tutta la terra”. Ora, riguardo a questo, noto brevemente che la fine del capitolo decimo, intitolata dalla Bibbia di Gerusalemme, La terra popolata , ma intitolata da altre edizioni La

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tavola delle Nazioni termina così: “Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro generazioni, nei loro popoli”. Quindi la pluralità di questo non è negativa, anzi. “Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio”. Quindi qui la parola dispersione non ha carattere negativo. Qui, invece, si dice “per non disperderci su tutta la terra”. C’è una contrapposizione tra il finale del capitolo dieci e questo disegno umanistico, imperialista, orgoglioso. Già dò dei giudizi, facendo questo non faccio delle analisi . È difficile l’interpretazione della Torre di Babele. Io quando nella veglia di Pentecoste si trova questo testo, con altri testi pentecostali , dico sempre che è un po’ difficile interpretarlo bene e poi ne trovo riprova anche negli esegeti che variano. “Ma il Signore scese a vedere la città. .” è l’altro movimento. I popoli arrivano, si concentrano, questi popoli dell’Asia orientale, tutta la terra era loro conosciuta. Si concentrano, si innalzano verso il cielo, fanno la scalata al cielo. Il Signore scende a vedere cosa fanno. Sono due movimenti. “ Il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile”. C’è questa concentrazione nell’eliminazione delle varietà, delle distinzioni, della pluralità dei popoli. Questa concentrazione unitaria che è frutto di un atto di orgoglio nei confronti di Dio e che è realizzata attraverso quello che..non so, forse anche gli esegeti di oggi nell’interpretare questo saranno anche loro influenzati dalla cultura d’oggi in cui si parla molto di imperialismo, disegno imperialistico, diciamo così. Impero concentrato, che concentra i popoli fino ad annullarli in qualche maniera, a farne una lingua sola. “Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua..”. Confondiamo. Babele. Confusione. “Perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Si riprende quindi il tema della dispersione in positivo e dell’unità in negativo, di una certa unità in negativo. Dio vuole che le persone umane riempiano la terra e vivano in una pluralità armonica tra di loro. “Riempite la terra”. In questo senso parla Genesi 10, “La terra popolata” e “La tavola delle nazioni” che termina con le parole che ho letto. Perché i costruttori di Babele e della sua torre-fortezza, cittadella fortificata, alta, slanciata verso il cielo, che tenta il cielo, unione tra cielo e terra, simbolo di un’unità dei popoli che domina ed esprime la città, perché questi costruttori contraddicono il disegno divino? È chiaro che c’è una posizione fra loro e il disegno di Dio. Perché: a) basano l’unificazione e la gloria della città sull’autosufficienza orgogliosa, che ignora e sfida Dio; b) perché la loro opera è un’opera di imposizione e dominazione imperialistica. Unificazione, sicurezza, salvezza, i l futuro radioso dell’umanità non si realizza tramite questo tipo di città che non è di Dio, non è la città di Dio. Bensì dell’orgoglio, della prepotenza imperialistica umana. Ma si realizza l’unificazione, la sicurezza, la salvezza e il futuro: futuro luminoso dell’umanità e quindi della realizzazione dell’umanità in concreto che è la città. Tramite la fede di Abramo. “In lui saranno benedette tutte le nazioni della terra”. Ed è il capitolo dodicesimo. Inizia dal capitolo dodicesimo la storia di Abramo, che è, appunto, i l padre dei credenti e colui nel quale sono benedette tutte le genti e che avrà una discendenza più numerosa delle stelle del cielo viste in una sera d’estate. Chiamato da Dio fuori dalla città, egli lascia la sua città, a salvare la città corrotta e ad essere padre delle genti e centro di benedizione e di unità spirituale di tutta l’umanità, in una linea che arriverà a Gesù. Qui naturalmente si saltano secoli , ma ovviamente si

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arriverà a Gesù. Abramo vide il mio nome, il mio giorno e godette fino a Gesù. E alla città di Dio, la Gerusalemme celeste, anticipata dalla nuova Gerusalemme a Pentecoste, che prende l’avvio a Pentecoste. Come dice un esegeta, Abramo è l’antidoto della maledizione che incombe sulla città infedele a Dio. Qui si potrebbero leggere vari apporti , io lo faccio per essere più chiaro. Leggo da un libro che vi consiglio, di un amico toscano, Giordano Frosoni, “Babele o Gerusalemme? Per una teologia della città” Edizione Paoline, “Il rifiuto della città ha per l’agiografo motivazioni profonde. La grande città della perdizione, la grande prostituta che siede presso le grandi acque (Apocalisse 17, ricordatelo) attraversa tre fasi all’interno nella Bibbia: la fase preistorica, la fase storica e la fase apocalittica. Ma il suo clichè è costante. Essa porta scritto sulla fronte un nome misterioso: Babilonia la grande. La madre delle prostitute e degli abomini della Terra (sempre Apocalisse 17). Quando i compositori della Bibbia danno forma definitiva al testo sacro, Babilonia è carica di gloria e di splendore. Essa sarà colei che toglierà la libertà al popolo di Dio. La schiavitù dell’esilio si consumerà all’interno delle sue stesse mura. L’imprecazione nei suoi riguardi è carica anche di risonanze nazionalistiche..” Basterebbe allora leggere quel versetto del Salmo 136 che non leggiamo più nella liturgia: “Figlio di Babilonia, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li batterà contro la pietra”. Ma ancora lo sdegno è radice più profonda, il male radicale della grande metropoli è il peccato di orgoglio e di presunzione, d’idolatria del denaro e di ingiustizia, che tutta la pervade. L’orgoglio non tanto nei confronti degli altri , ma nei confronti di Dio. Di chi fa a meno di Dio, che lo contesta, che lo ignora, che dà la scalata al cielo senza Dio. Essa non solo vive, ma è anche nata nel peccato. Non c’è dubbio che la città di cui si parla in Genesi 11 è la Babilonia storica. Sul significato vero che ha il difficile testo ci sono spuntate molte penne. Ska, famoso esegeta del Pentateuco, della Genesi in particolare, dice che nelle parole e nei gesti degli uomini della pianura di Sennaar c’è un empito di ateismo, una ribellione contro l’Altissimo. Non per niente, in molti passi dell’Antico Testamento, Babilonia verrà descritta come compendio dell’orgoglio peccaminoso. Il racconto mostra come gli uomini nel loro sforzo per la gloria, per l’unità, nello sviluppo della loro forza si siano messi contro Dio, ma su di loro è caduta una punizione. Essi, che tanto si sono preoccupati dell’unità e della concordia di legarsi fra di loro, vivono ora dispersi in una confusione che non permette più di comprendersi. Qui c’è la sottolineatura negativa della dispersione. Gli esegeti più recenti dicono, invece, che il testo della torre di Babele mette in evidenza la dispersione in quanto positiva, cioè in quanto polarità: tutti i popoli popolino tutta la terra, nelle loro generazioni e nei loro popoli, secondo la loro propria identità. In una recentissima pubblicazione, aggiunge Frosini, “La pagina biblica è interpretata da lui come il peccato originale visto nella sua dimensione sociale e internazionale. Dio non ama la città o la nazione dominatrice della storia. Detesta l’imperialismo di un popolo sull’altro, rifiuta coloro che hanno piani di conquista e non di dialogo, di sopraffazione e non di collaborazione. Si comprende allora come la superpotenza Babel sia decifrata nel suo significato come derivante dell’avverbio Balal: confondere . Il suo sogno di imporre un’unità da schiavi è frustrato da Dio, dal Dio della libertà”. Il messaggio appare inquietante. Babilonia è l’incarnazione di tutte le potenze politiche che hanno fatto versare sangue e lacrime all’umanità. La torre è il segno di una religiosità trionfalistica che avalla il potere, anzi, che si confonde con esso e si

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pone come sfida al Signore del cielo e della terra, del tempo e delle vicende umane. Un terzo punto: Gerusalemme, l’anti-Babilonia . Però bisognerebbe aggiungere: eppure infedele anch’essa, ma nonostante questa infedeltà sempre amata e salvata. Babilonia è contestata nella Bibbia dal punto di vista di Sion, di Gerusalemme. È contrapposta a Gerusalemme, è vista in contrapposizione a Gerusalemme. Intanto c’è una convergenza tra Abramo e Gerusalemme. Se dopo la torre di Babele c’è la storia di Abramo e Abramo è il padre dei credenti, i l padre del popolo che benedice il mondo, che è una benedizione per il mondo e che così unifica il mondo e non attraverso un’imposizione politica e imperialistica, attraverso l’oppressione dei potenti , dei ricchi sui poveri, ma attraverso una riproposta di Dio e della fraternità umana. C’è una convergenza tra Abramo e Gerusalemme. Tra Abramo padre dei credenti e fonte di benedizione. La città contrapposta a Babele, tra Abramo e Gerusalemme. Abramo sarà benedetto dal re sacerdote Melchisedek, (Genesi 14 vv.18-21), re di Salem che, si sa, è la futura Gerusalemme. La prima volta che compare la Città Santa, proprio in Genesi 14, essa è associata alla benedizione di Abramo, il luogo del sacrificio di Isacco, o sacrificio di Abramo. È il Moria, i l luogo dove sorgerà il tempio di Gerusalemme, il luogo della fede e dell’unificazione spirituale del mondo. L’idea e la realtà di Gerusalemme come centro del vero culto, del vero e unico Dio, Gerusalemme città di Dio, è come centro, quindi, della benedizione di tutte le genti, attraverso l’intera storia di Israele. Allora Gerusalemme città dei popoli e della pace fra i popoli, perché città di Dio e dei suoi figli . Basterebbe leggere nei salmi. Indico il salmo 87, ma i testi biblici a riguardo sono tanti. “Le sue fondamenta sono sui monti santi . Il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe. Di te si dicono cose stupende, Città di Dio. Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono”. Città nemiche. I due poli nemici da cui è schiacciato il popolo di Dio, il popolo ebraico. “Ecco Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati . Si dirà di Sion l’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda. Il Signore scriverà nel libro dei popoli: là costui è nato. (Cioè Gerusalemme è nata) E danzando canteranno: sono in te tutte le mie sorgenti”. Un altro famoso Salmo, il 122, uno dei Salmi della salita a Gerusalemme. “Quale gioia quando mi dissero andremo alla casa del Signore. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme”. Quando venivano magari dalla Galilea, lungo la valle del Giordano, oppure dalla Samaria. Soprattutto dalla Galilea, quando arrivano sul Monte degli Ulivi e vedono la città. “Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore..” Testi paralleli come ad esempio Isaia. Qui si raduneranno tutti i popoli, qui si raduneranno tutte le genti. Dio e la scelta. E la scelta per tutte le città, per tutti i popoli. È la città messianica. Sede del movimento messianico salvifico dell’umanità. Scelta per essere la città di Dio e la città della giustizia di Dio, cioè della realizzazione piena del suo progetto di pluralità e di unità delle persone e dei loro raggruppamenti, i popoli e le genti. Accanto all’Arca dell’Alleanza e al tempio c’è la dimora del re, il quale è il vicario di Dio perché ci sia giustizia e misericordia nel popolo, solidarietà. “Il re è tale se pratica il diritto alla giustizia, libera l’oppresso dalle mani dell’oppressore, impedisce la violenza e l’oppressione del forestiero, dell’orfano e della vedova” (Geremia 22,1-3). Questo è l’accenno alla città di

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Gerusalemme come città ideale. La Gerusalemme storica. La città ideale. L’anti-Babilonia. L’infedeltà di Gerusalemme. Andiamo avanti nella riflessione, sempre su Gerusalemme. Ma quanto è diversa nella realtà effettiva la Gerusalemme storica dalla Gerusalemme ideale? La città anti-Babele è corrotta da Babele. Don Frosini dice “Babilonia ha invaso Gerusalemme” non solo riferendosi alle invasioni che sono all’origine dell’esilio, ma nel senso che lo spirito di Babilonia, i l costume ha invaso anche Gerusalemme, la città di Dio. Allora Gerusalemme è stata invasa dalla città mondana, idolatrica, infedele, ingiusta. Di qui la contestazione dei profeti: pensate al lamento su Gerusalemme di Isaia 1,21-ss. <<Come mai è diventata una prostituta la città fedele? Era piena di rettitudine, la giustizia vi dimorava. Ora, invece, è piena di assassini. Il tuo argento è diventato scoria, i l tuo vino migliore è diluito con acqua, i tuoi capi sono ribelli e complici di ladri. Tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all’orfano e la casa della vedova fino a loro non giunge. Perciò, Oracolo del Signore e Dio degli eserciti , i l potente di Israele, esigerò soddisfazione dai miei avversari , mi vendicherò dei miei nemici. Stenderò la mano su di te. Purificherò nel crogiolo le tue scorie, eliminerò da te tutto il piombo. Renderò i tuoi giudici come una volta, i tuoi consiglieri come al principio. Dopo sarai chiamata Città della giustizia, Città fedele.>> Quindi è Dio che contesta e non si rassegna, non si rassegna. È il Dio fedele che la ama. Tutta la Bibbia è piena di questo motivo. Altre citazioni le troviamo in Geremia 2 versetti 20 e seguenti. Ezechiele 16, Ezechiele 22 ed Ezechiele 23. Nel secondo libro dei Re, al venticinquesimo capitolo. Nel secondo libro delle Cronache, capitolo 36, si vede che la distruzione di Gerusalemme è conseguenza della sua infedeltà. Nonostante la volontà di salvezza di Dio, le infedeltà del popolo e della città sono così grandi che non sono più contenibili o più superabili . Il popolo non comprende i continui appelli alla conversione che i profeti gli rivolgono a nome di Dio. Esso è convinto che la semplice promessa della salvezza concretizzatasi nel tempio sia sufficiente. Ma la presenza nel tempio del Signore non ha nessun valore se non corrisponde a una risposta di fedeltà alla sua parola. Appartenere alla Città non serve. Anche la Città sarà distrutta se rimane infedele e il peccato di Gerusalemme consiste nell’idolatria, avere come guida e come significato della vita un essere diverso da Dio, dall’unico Dio e la mancanza di giustizia sociale, mancanza di giustizia fra le genti. Gerusalemme, che ha assimilato lo spirito e la corruzione di Babilonia, sarà esule e prigioniera in Babilonia. Dio però non viene meno alla sua alleanza e Babilonia, che sarò lo strumento della sua punizione in qualche maniera, i l peccato poi si punisce da sé. Babilonia sarà però il luogo della purificazione di Gerusalemme e non solo della sua punizione. Gerusalemme sarà ricostruita. Da Babilonia avrà inizio il secondo esodo del popolo di Dio verso Gerusalemme. Qui si potrebbero richiamare le fasi alterne post-esiliche, fino a Gesù, ma questo non è possibile. Fasi di infedeltà e di caduta ma sarà sempre vivo l’ideale della città di Davide, della città santa, della città teocratica, nel senso migliore del termine. Città che ha per guida Dio. Il suo re è vicario di Dio, tanto è vero che Samuele non voleva che ci fossero re. Nella pienezza del tempo, a Gerusalemme vivrà un resto di persone fedeli al vero messianismo. Gerusalemme figlia diventa ambivalente. Resta sempre in lei l’ideale e l’immagine è una parziale realtà della città ideale, ma poi, purtroppo, si confonde con Babele. Ma resterà un resto. Gerusalemme nei

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suoi capi, purtroppo però, non riconoscerà il Messia. Dalla strage degli innocenti sotto Erode alla crocifissione di Gesù. Eppure sarà il luogo per eccellenza del Messia. Se è vero che il ministero di Gesù si è attuato più a lungo nel nord della terra di Israele, intorno al lago, a Cafarnao, la méta è Gerusalemme e la sede del compimento della vita di Gesù è Gerusalemme. La presentazione al tempio e il nuovo tempio che è Lui, crocifisso e risorto. Eppure sarà appunto il luogo del Messia, che la ama, la visita, la scuote anche spiritualmente. Desidera salvarla, vuole la sua pace. Annuncia e realizza la riconciliazione. Pensiamo a Luca 13,33 e ss: “Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te. Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina e la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto!”. Chi parla è la Gerusalemme religiosa o la Gerusalemme civile? Parla Gerusalemme. “Ecco la vostra casa vi viene lasciata deserta!”. Quante volte Gesù ha voluto raccogliere i suoi figli come fa la gallina con i suoi pulcini sotto le ali . Gesù porta a compimento la sua opera proprio con la sua pasqua a Gerusalemme. E’ a Gerusalemme, non nel trionfo nella casa di Davide e del tempio, bensì dall’alto della croce infame e santa al tempo stesso, che Gesù regnerà. Si realizzerà così compiutamente il regno da Lui annunciato e iniziato. Il significato della pasqua di Gesù, della Sua passione, della Sua morte e della Sua resurrezione è stato anticipato nel capitolo undicesimo del vangelo di S. Giovanni, capitolo undicesimo, dopo la resurrezione di Lazzaro, quando quello che pontificava, Caifa, dice: “Molti dei giudei che erano venuti da Maria alla vista di quello che Egli aveva compiuto credettero in Lui, ma alcuni andarono dai farisei e riferirono loro quel che Gesù aveva fatto. Allora i sommi sacerdoti e i farisei si riunirono al Sinedrio e dicevano: “Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così tutti crederanno in Lui e verranno i romani e distruggeranno il nostro luogo santo, la nostra nazione”. Non si ha più fiducia in Dio, si ha fiducia nei romani, come nel tempo antico si ha fiducia negli assiri o negli egiziani. Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla. E non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. La dichiarazione di morte, di condanna a morte di Gesù. “Questo però non lo disse da se stesso” aggiunge Giovanni “ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto ma per riunire insieme i figli di Dio, che erano dispersi”. Qui ritorna il tema della dispersione. Dispersione che, in questo caso, ha un carattere negativo . Il gioco delle parole e i loro significati vanno tenuti presenti. “Per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”. Non solo dispersi sulla terra, perché questo corrisponde alla volontà di Dio, ma dispersi nel senso di separati dalla frattura tra loro, divisi , non più segno di unità. Allora Dio trasforma in redenzione la condanna del sinedrio contro Gesù. La condanna di Gesù da parte della Gerusalemme infedele, che invece crede di essere fedele. Qui c’è tutto il segno della passione. Avvenuta la pasqua di Gesù (ancora andiamo avanti in queste piccole riflessioni), avvenuta l’effusione dello spirito pentecostale sulla comunità degli apostoli e dei discepoli, Gerusalemme non sarà più la città teocratica. Con Gesù è finita la teocrazia. Gli apostoli lo metteranno in risalto. Lo metterà in risalto ad esempio Paolo quando, nel capitolo tredicesimo della lettera ai Romani, fa quell’esortazione e dice di essere ubbidienti alle autorità. Con parole che a noi sembrano troppo realiste. Ai nostri orecchi democratici quelle parole non è che suonino molto simpatiche. Obbedite, obbedite a tutti i capi. In quelle parole che

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sembrano conservatrici in realtà c’è una grande innovazione: c’è l’abbattimento e il superamento della teocrazia, la distinzione tra Cesare e Dio, tra lo Stato e la Chiesa, tra l’ordine civile e l’ordine della salvezza, che pure non sono separati , ma sono distinti . Avvenuta la pasqua di Gesù è finito il sogno teocratico del regno di Dio, identificato con la restaurazione polit ica del regno di Davide. Anche se per i discepoli è difficile capire questo: tanto è vero che all’inizio degli Atti degli Apostoli si legge ancora: “quando ricostituirà il regno di Dio?” C’è da meravigliarsi! I testi evangelici, neo-testamentari portano anche nei momenti della manifestazione della fede di Gesù e dell’attaccamento a Lui la difficoltà a credere fino in fondo. Al finale di Marco: “Alcuni, però, dubitavano” mentre Gesù sta per ascendere. Gesù si consegna a loro prima dell’ascensione, dell’ultima apparizione e travasa in loro il suo potere salvifico e questi pensano ad un’altra cosa ancora. Un altro regno, con Gerusalemme città base, capitale che viene istaurato. La Gerusalemme ideale si realizzerà nella comunità di Gesù, come frutto della pasqua di Gesù e dell’effusione dello spirito e avrà la sua prima sedia a Gerusalemme e da Gerusalemme si estenderà in tutto il mondo. A Pentecoste si vede emergere questa nuova Gerusalemme: la Chiesa, che è proprio essa la vera anti-Babilonia, come dicono tanti altri passi del Nuovo Testamento, che poi terminano e si compiono nella visione della donna dell’Apocalisse, che si sa è il simbolo del popolo, la figlia di Sion. Sarà impersonata, in particolare, in Maria ma non si esaurirà in Maria: è il popolo di Dio, figlia di Sion. “Figlia di Sion” è un’espressione per dire Gerusalemme. Nome al femminile e quindi particolarmente impersonata nella donna, figlia di Sion per eccellenza, che è Maria. La Chiesa è proprio la vera anti-Babilonia. Il principio dell’unità dei popoli è realizzato dalla fede in Cristo e dallo spirito da Lui effuso. È un’unità di persone libere e credenti. Non un’unità forzata da motivazioni umane. È la Chiesa come segno, strumento e immagine dell’unità di tutto il genere umano. Anzi, della molteplicità coniugata con l’unità. Parlando del sacrificio, quindi dell’eucarestia, S. Agostino diceva: “qual è il sacrificio dei cristiani? Multi Unum” . Pur essendo molti sono una cosa sola. Multipla. Si potrebbe dire l’unità dei distinti . Immagine, appunto, della vera civitas umana . Mentre Gesù, ricordate l’episodio del litigio, della questione fra gli apostoli nell’ultima cena nella tavola eucaristica, nell’istituzione dell’Eucarestia del Ministero Apostolico, gli apostoli li tigavano fra loro su chi doveva essere il primo nel regno di Dio. I capi delle Nazioni dominano, addirittura c’è una ironia profonda e si fanno chiamare “benefattori”, ma fra voi non sia così. I capi della Chiesa sono esortati ad essere preoccupati della Chiesa, servitori della Chiesa e non illudersi che i poteri umani realizzino il disegno del regno di Dio, cioè non strumentalmente, tanto quanto. Anche Gesù aveva una casa, Gesù si vestiva, anche Gesù era servito. Quello che si dice dei capi umani, quando si dice loro che la loro grandezza, il loro servizio nello spirito del maestro, si usa un paragone politico “i capi delle nazioni” e io credo che si possa ribaltare quello che si dice agli apostoli sui capi delle nazioni o sui cristiani che si occupano di guidare o di animare le nazioni e le cit tà. Come si sottolinea nel racconto integrale del secondo capitolo degli atti “L’umanità riceve, ora dallo spirito di Dio, una qualità sorprendente” è Ravasi che dice così “pur essendo gli spettatori di lingue diverse..” cioè a Pentecoste “..ciascuno sentiva i discepoli parlare la propria lingua”. “Il pensiero corre per contrasto a Babele” secondo il celebre passo di Genesi 11, dove l’uno non comprendeva più la lingua dell’altro. Il senso dell’episodio è quindi trasparente alla confusione e alla

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dispersione, alla divisione e all’odio, all’unificazione oppressiva della Babilonia imperialistica di tutti i tempi si oppongono ora la concordia e l’armonia che la Gerusalemme dello spirito intesse con pazienza nella storia. La Chiesa, pur parlando le mille e mille lingue e dialetti degli uomini, proclama un unico linguaggio che è quello di Cristo e dell’amore. La diversità delle culture, delle razze e dei doni personali non è sorgente di incomprensione e di ostilità, ma diventa una sinfonia di voci che secondo timbri e tonalità differenti annunziano la stessa gioia e la stessa speranza. Qui sarebbe interessante confrontare le due tavole dei popoli: la tavola dei popoli prima della torre di Babele, il cui racconto termina con la dispersione di molti popoli su tutta la terra comandata da Dio. E la tavola dei popoli del capitolo secondo degli atti degli Apostoli: i popoli raccolti a Gerusalemme, con le loro rappresentanze. Sono l’immagine dell’umanità nuova, perché c’è sempre questo scambio tra la Gerusalemme dello spirito e la Gerusalemme della terra. Gerusalemme, la città alternativa a Babilonia, ma in quanto resta la nuova Gerusalemme. Gli apostoli parlano e ciascuno li intende nella propria lingua. “C’è un labbro solo e una sola impresa” Genesi 11, è la traduzione nuova di Emanuele Testa e di altri del primo versetto del capitolo 11 della Genesi. Invece di dire “Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole” qui dicono “Avevano un labbro solo e una sola impresa”. Gli esegeti di oggi dicono che questa è la migliore traduzione. Questo è un modo espressivo del linguaggio assiro: l’espressione “Avere un solo labbro e uguali parole” è un’espressione classica el l inguaggio burocratico ed encomiastico dei grandi imperi assiro e babilonese per indicare la sottomissione imperialista degli altri popoli. S cita una frase anche un senatore romano, non mi ricordo se si tratta di Sallustio o di un altro, comunque mi sembra appartenga alla guerra di Giugurta: “ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”. Il re di Giugurta nei confronti dell’imperialismo romano. “Dove portano il deserto, dicono che hanno portato la pace”. L’imperialismo di Babilonia. C’è un solo labbro ora e una sola impresa, ma in modo opposto a quella di Babele l’orgogliosa, universalità, unica da Dio voluta e realizzata in Cristo e nello spirito, che è spirito di comprensione e di libertà. Quindi c’è una dispersione nel senso negativo e c’è una dispersione positiva, quella voluta da Dio. La Chiesa rivivrà sulla sua pelle la contestazione alla Babele che si incarna nei vari imperialismi idiolatrici della storia, in Roma anzitutto. E sarà perseguitata dalla città imperiale, pagana, ma non sarà distrutta. Qui, un semplice cenno al libro diciottesimo dell’Apocalisse. <<po vidi un altro angelo discendere dal cielo con grande potere e la terra fu illuminata dal suo splendore. Gridò a gran voce: “È caduta, è caduta Babilonia la grande ed è diventata covo di demoni, carcere di ogni spirito immondo, carcere di ogni uccello impuro e aborrito e carcere di ogni bestia immonda e aborrita. Perché tutte le nazioni hanno bevuto del vino della sua sfrenata prostituzione, i re della terra si sono prostituiti con essa e i mercanti della terra si sono arricchiti del suo lusso sfrenato”. Poi udii un’altra voce dal cielo: “Uscite, popolo mio, da Babilonia per non associarvi ai suoi peccati e non ricevere parte dei suoi flagelli .>> Uscite per andare dove? Ci si potrebbe domandare. La comunità dei credenti in Gesù è la vera Gerusalemme. Non è un regno terreno, alla maniera terrena. È la comunità di Gesù vivente nella città umana che vive, prega, opera perché la città umana non sia Babele. Ed è la comunità che riflette e anticipa la città celeste, è la civitas Cristi , che è formata dalle persone e dalle genti ed è segno e strumento del regno di Cristo, regno di libertà, di unità e di pace.

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Conclusione . Questa implicherebbe forse più ragionamenti e più tempo ma devo essere sintetico. “Uscite da Babilonia”, capitolo diciottesimo del libro dell’Apocalisse. La mia risposta è sì e no. Sì perché non vivete nella corruzione di Babilonia, della città babelica, di sempre. Non ingolfatevi in essa. Non siate in essa sale scipito che non sala più e lucerna che non dà più luce e non riflette più il Cristo. Non porta più la sua luce e il suo sale. La sua illuminazione, la sua anticorruzione, la sua grazia, la sua promozione della vita in abbondanza. No. Si tratta di uscire dallo spirito e dal costume di Babilonia, non dai suoi spazi. Anche chi è chiamato ad uscire da questi spazi terreni, il Monastero, l’eremo, ne esce nella prospettiva di Gesù per esservi più addentro. No al fondamentalismo spiritualista. Non ci si salva dal male uscendo. Allora in ogni città una Chiesa. In ogni Babilonia terrestre una Gerusalemme. I cristiani sono, in radice, cittadini del cielo e mai devono perdere questa prospettiva della città celeste, verso cui vanno. Proprio nella contemplazione della città celeste - qui La Pira la fa da maestrio - proprio nella contemplazione, nell’attenzione verso la città celeste noi itineranti , abbiamo l’immagine prospettica della città terrena. Gerusalemme realizzata nella Chiesa, popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, come dice S. Cipranio, è l’immagine della nuova civitas umana: “La chiesa in Cristo come un sacramento, segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. Dell’unità di ogni cit tà , dell’unità dentro ogni città, dell’unità fra le città. I cristiani, figli della Chiesa e la Chiesa nel suo insieme, devono avere a cuore il regno di Dio nel secolo, in modi o forme non da etichetta esteriore ma da sostanza. Cercano di immettere la più alta misura di Gerusalemme nella città, molto spesso, di aspetto e di sostanza babelica. Cercano di togliere spazio a Babele e dare spazio alla Gerusalemme ideale. Commissioni e funzioni differenziate, diverse, ma coordinate, distinte e non separate tra il Papa e il laico impegnati in questo mondo. Ecco l’ideale della civitas umana , che risulta da una meditazione biblica, neotestamentaria, e che poi si è incarnata, oggi, nella dottrina sociale della Chiesa. La quale è un insieme di principi e di valori costanti, di antropologia personalistica e comunitaria, sociale. Un insieme di valutazioni che in base a questo principio giudicano la storia di fatto e un insieme di conseguenti indirizzi e orientamenti verso l’operatività. Perché questa città terrestre, spesso babelica, sia meno babelica possibile, sia posta a un argine alla babelicità della città e del rapporto fra le città e si creino, il più possibile, spazi alla Gerusalemme. Tutto ciò non con modalità teocratiche, (amo ripetere: i cristiani non sono comunisti), ma tramite un processo di incarnazione fedele e mediatrice al tempo stesso. Anche la dottrina sociale della Chiesa è nell’ambito di un processo di incarnazione mediatrice, perché se da una parte ha i principi e i valori continui, che però anch’essi lungo la storia e le contingenze sono aggiornabili e sono aggiornabili non in quanto principi e valori, ma in quanto capaci di illuminare ancora meglio la realtà storica. Dall’altra è uno sforzo di incarnare questi principi e valori in progettualità, aderenti alla contingenza storica. Qui entra in scena il tema della laicità, che naturalmente non si affronta qui. I testi del Nuovo Testamento da una parte esigono l’estraneità dei cristiani dalla città corrotta, dall’altra esortano a

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pregare per la città. Una delle citazioni che a me piace di più è quella della prima lettera a Timoteo, capitolo secondo, versetti uno e seguenti, quando Paolo esorta il suo fedele discepolo a organizzare la comunità e anzitutto a organizzare la preghiera della comunità. Ordina che si faccia una preghiera di supplica e ringraziamento per tutti i popoli, per tutta l’umanità e per i re e coloro che stanno al potere. Quindi il potere non è solo un nome da intendersi come demoniaco di per sé. Sarà demoniaco di fatto ma non è demoniaco in sé. Perché? Perché dice il fine della politica, dice il fine della guida della città, della presenza della città. Perché possiamo vivere una vita calma e tranquilla in tutta armonia e dignità. Questo è il fine della politica. Questa è una cosa accetta e cara e gradita a Dio e questo favorirà, secondo quel testo, la diffusione del Vangelo per le strade di un impero, di un regno, di una città ordinata. La prima legge della Chiesa, la preghiera “Lex orandi est rex vivendi”. Se i cristiani devono pregare per la politica, per la città, dovranno anche operare per la città e di fatto ci sono esortazioni ad operare. Nel Nuovo Testamento si possono trovare dei testi , delle esortazioni, delle riflessioni, delle teologie, dai quali si evince che è costituzionale alla sequela di Cristo interessarsi della città, dell’umanità, del bene comune della città. Una cittadinanza celeste non contraddice, ma esige una cittadinanza terrena, fatta di preghiera, di presenza, di cooperazione a una città politica per il bene comune. Termino. Qui è uno dei motivi di Retinopera. È uno dei motivi di quell’esperienza a cui abbiamo dato vita, i l Collegamento Sociale Cristiano. (Ho scritto un libretto e faccio un po’ di propaganda) Ma i cristiani potranno giovare alla pluralità positiva e all’unità positiva dell’umanità, se essi stesi superano la condizione di essere forzati a stare insieme, in maniera indebita, o dispersi nella non comunione e nella non fraternità, nella mutua ignoranza, nella reciproca estraniazione. Se sono cioè, tutto sommato, babelici. C’è un’interpretazione dell’autonomia laicale di tipo privatistico e individualistico, tutto sommato riconducibile non a Gerusalemme, ma a Babele. Io credo che questa possa essere una conclusione attuale e legata anche al momento che ci vede riuniti . Grazie.

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MMeetttteerrssii iinn rreettee,, nneellllaa pprroossppeettttiivvaa ddeeii tteerrrriittoorrii 22

Savino Pezzotta Il compito che mi è stato affidato questa sera è abbastanza impegnativo, ma io lo vorrei svolgere proprio perché non ho più nessun obbligo di rappresentanza, con attenzione ma anche con un po’ di libertà, che forse un anno fa non avrei potuto permettermi. Lo posso anche fare per aver fatto parte di quella pattuglia che alcuni anni fa diede vita a questa esperienza. Visto che dobbiamo parlare delle esperienze, io vorrei fare all’inizio una breve riflessione sull’esperienza di Retinopera. A mio parere Retinopera rappresenta una novità dentro il mondo cattolico italiano, anche se occorre rilevare che non è ancora stato colto nel suo valore di fondo. Questa esperienza sicuramente porta con sé le gracilità di chi avvia un percorso, ma credo che porti con sé anche delle grandi potenzialità. La novità vera di Retinopera consiste nel fatto che è sorta con l’obiettivo di mettere in relazione, cosa non semplice, le forme storiche dell’associazionismo cristiano con i nuovi movimenti, cosa che sembrava difficoltosa. Tante storie le conosciamo. All’inizio sembrava un’impresa impossibile, ma che lentamente e progressivamente è venuta crescendo, ha reso possibile, anche se forse non ancora del tutto, il superamento dell’estraneità che esisteva tra le associazioni e i movimenti. Credo che ora ci si conosca di più, si dialoga e anche quando si confligge lo si fa con uno spirito diverso. Questo avviene perché nessuna associazione, nessun movimento, è stato chiamato a rinunciare o ad attenuare caratteri della propria esperienza, a mortificare i carismi fondativi, per costituire una sorta di super associazione. Retinopera non ha mai voluto essere la super associazione. Nulla di questo. Ma più semplicemente la presa di coscienza dell’esistenza di un insieme di questioni e di problemi, che all’inizio avevamo sintetizzato come la causa cattolica. Pertanto la necessità di risignificare, dentro la società italiana, i valori e i principi della dottrina sociale cristiana, perché questo è l’inizio. E abbiamo scelto, cosa su cui si può discutere, ma la scelta è chiara, di restare nel sociale, evitando ogni tentazione (pur presente), che attraversava anche singolarmente alcuni di noi, di dare vita a una nuova forma politica dei cattolici italiani. Non sono mancate e non mancano sollecitazioni in questa direzione. Anche perché, ed è bene che ce lo diciamo, il tema della presenza dei cattolici in politica, soprattutto in Italia per le peculiarità tipiche del nostro Paese, continua ad essere un problema, un problema aperto. Non è che il fatto che abbiamo scelto di stare nel sociale abbia fatto sparire il problema. È un problema aperto, sul quale mancano allo stato attuale riflessioni attente e rivolte sia al presente che al futuro. C’è ancora troppa nostalgia di ciò che siamo stati . C’è nostalgia tra di noi, c’è nostalgia nella gerarchia e c’è il pensiero “Come eravamo..”. Il problema è invece capire: come faremo. Perché i temi sono qui. A mio parere non sono più riproponibili le esperienze fatte, positive, utili , significative per la democrazia italiana e per il ruolo dei cattolici nel nostro Paese, per la democrazia per tutti , ma non sono più riproponibili . Però noi abbiamo un’altra strada, pur

2 Testo non rivisto dall’autore

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avendo presente e non essendo indifferenti alla questione politica dei cattolici i taliani, che permane, ma abbiamo scelto il sociale come luogo privilegiato dell’impegno di Retinopera. Credo che questa non sia, però, una disattenzione alla politica. È un modo diverso, peculiare di fare politica. Bisogna che lo sappiamo. Abbiamo scelto un altro modo, che non è quello dell’impegno istituzionale, che non è quello dell’impegno politico e che è quello dell’impegno sociale. Con questa scelta non abbiamo proprio inteso disdegnare l’attenzione verso ciò che si muove, si agita e si presenta sul terreno politico ed istituzionale. Ma affrontare i temi della politica e del Paese partendo da un’ottica fortemente sociale. Avendo così coscienza che in questa fase non c’è solo un problema della debolezza della politica, ma c’è anche un problema della debolezza della rappresentanza sociale sul quale, probabilmente, bisogna che anche noi, proprio per come siamo, apriamo una riflessione e un’attenzione. Noi abbiamo scelto con chiarezza questa collocazione, perché convinti che oggi, in Italia, i l compito principale dei laici cristiani sia quello di comunicare il vangelo in un mondo che cambia. Il nostro radicarsi nel sociale vuole rispondere alle esigenze, all’urgenza dell’evangelizzazione, o come dice il t i tolo del Convegno di Verona “Come essere testimoni di Gesù Cristo risorto: speranza nel mondo”. Però sappiamo, e la tradizione cattolica ce lo dice, che l’annuncio del vangelo non può essere separato dalle opere, dal fare, dall’impegno civile e questo oggi, a nostro e a mio parere, si esercita nella realtà sociale, dove occorre essere presenti con le parole, i gesti e con un fare che evidenzi la potenzialità del vangelo e della dottrina sociale della Chiesa. Credo che anche questo serva per far germinare una nuova idea della politica. Ecco perché questo nostro stare in rete e fare opere è importante. E può produrre, lo diciamo senza presunzione e con tutta l’umiltà del caso, frutti di rinnovamento ecclesiale, di rinnovamento sociale e una nuova missionarietà, di cui c’è bisogno in questo Paese. Questo non è più il Paese cristiano che abbiamo conosciuto. È un’altra cosa. Bisogna esserne convinti e bisogna saperlo, perché questo ci carica di una nuova responsabili tà. Questa non è solo di partecipare alla politica o di stare nel sociale: ma di come noi diventiamo testimoni e annunciatori del vangelo, in una società che in buona parte sembra aver smarrito questa coscienza. Io sono convinto che un corretto e incisivo agire di Retinopera può produrre indirettamente, forse, anche processi di cambiamento nella politica. Soprattutto se mantiene questa dimensione sociale e se accentua la sua caratterizzazione di ecclesialità. Quest’ultima intesa come capacità di vivere nella Chiesa la comunione tra le diverse vocazioni e i diversi carismi. Tra le ragioni che militano a favore di questo stare insieme tra associazione e movimenti possiamo sicuramente mettere la necessità di confrontarsi e stare dentro da cristiani nella transizione, sociale, economica, politica e culturale, comunemente definita post-industriale e post-moderna, che sta mutando in profondità i modi di vivere e di pensare delle persone ed in particolare delle nuove generazioni, ma muta anche il modo di pensare dei credenti. L’individualismo, che non giudichiamo sempre in termini negativi, muta anche il modo con cui si vive la fede cristiana. Non so fino a che punto il senso della comunità è vissuto dai nostri cristiani, perché l’idea che mi rapporto direttamente con il Padre Eterno, è dentro la modalità della modernità, che salta l’elemento comunitario. Eppure noi sappiamo che come cattolici non possiamo fare a meno di

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fare comunione e di fare comunità. Ecco perché abbiamo bisogno di ritornare a queste cose. Credo che questa sia una situazione inedita per un Paese di antica tradizione e cultura cristiana. Ed è una modalità che rende ogni giorno manifesta la difficoltà della comunicazione della nostra fede. Io come genitore faccio fatica, a differenza di mio padre e di mia madre, a comunicare ai miei figli la mia fede. Ma possiamo dircelo? Perché è una difficoltà vera. Mentre prima avevo un ambiente, avevo un contesto, che aiutava mio padre e mia madre a comunicarmi una fede, il comunicarla oggi ai miei figli è molto più complicato di un tempo. Ecco perché c’è bisogno di una dimensione ecclesiale più forte. Oggi in Italia per noi cristiani c’è l’esigenza, che oserei definire primordiale, che forse viene prima della politica e dell’impegno sociale, di come annunciare il vangelo, ed è proprio questa urgenza che ci dovrebbe spingere ad uscire dai nostri recinti , ad individuare risposte valide alle inquietudini, alle incertezze, a quelle passioni tristi che sembrano dominare oggi la nostra società. C’è già una svolta antropologica sotto i nostri occhi, che sta trasformando la vita sociale, lasciatevelo dire da uno che ha fatto esperienza in un sindacato: guardate che è più complessa di quanto pensiamo questa trasformazione sociale che sta dentro alle nostre comunità, ed è diversa, e dovremmo rifletterci, dal nord al sud. Non è la stessa cosa. E se non è la stessa cosa, l’annuncio evangelico non può essere la stessa cosa al nord e al sud. Io credo che ci sia una necessità delle nostre chiese, in particolare, di interrogarsi sulle proprie peculiari realtà, da questo punto di vista. Ed è una sfida vera. Siamo dentro una trasformazione della vita sociale che, in modi diversi, conduce su lidi pluralistici, secolarizzanti, policentrici, dove, come ci insegna il Santo Padre Benedetto XVI, sembrano determinarsi esit i relativisti ed edonistici. È un problema. Lo vediamo nei comportamenti di chi ci sta attorno, di chi vive nelle nostre famiglie, di chi vive nella nostra comunità. A questi comportamenti dobbiamo aggiungere l’ economicismo dominante: che tutto vorrebbe misurare sul piano del vendere e comprare. Un vendere e un comprare che coinvolge il valore stesso della vita. Tutto è comprabile, tutto è vendibile: il mercato. Sono temi che ci inquietano, ma io credo che poi non dobbiamo avere paura, anzi. Sono quei temi che ci devono spingere sul terreno di una testimonianza concreta, propositiva e non difensiva. Non possiamo chiuderci in casa. Dobbiamo essere nel mondo. Ce lo spiegava bene Monsignor Simoni, cosa voleva dire “stare nella città”. Dentro i momenti, i mutamenti, dentro la realtà storica di questi tempi, testimoni non delle estraniazioni e delle fughe, ma delle presenze, dell’incarnazione, dell’essere coinvolti . Rischiando anche. Noi abbiamo la necessità, proprio per la libertà che si viene dal vangelo, di rischiare. Credo che sia il compito che oggi hanno i credenti, ai quali Retinopera può dare un contributo. Proprio in questo contesto noi siamo chiamati ad operare in un nuovo spirito di comunione fraterna. La fraternità non è mai omogeneizzazione. Ma riconoscimento di una paternità, di una familiarità condivisa, a partire da vocazioni diverse. Perché l’esperienza di Retinopera, dal mio punto di vista, è una proposta di una nuova presenza cristiana nel vivere la società italiana, di un collocarsi dove i processi avvengano. La dobbiamo costruire con pazienza, attenzione, con il coraggio di stare insieme, che non è facile, di stare insieme nelle nostre diversità, puntando ad una presenza attiva militante. Poi dobbiamo renderci conto

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sicuramente dei nostri limiti e delle nostre debolezze, però se ci pensiamo bene, se lo vogliamo, noi possiamo essere un luogo di innovazione, di proposta, per la nostra Chiesa e per la missionarietà a cui essa oggi è chiamata in Italia. Noi lo possiamo essere. È una responsabilità. Da laici oggi dentro la Chiesa. In questa nuova situazione sociale ed ecclesiale, in cui sembra essere venuta meno la corrispondenza tra comunità cristiane e luogo civile, possiamo veramente, se lavoriamo con attenzione, con determinazione, con meno gelosie, con meno timori e con meno protagonismi, contribuire a ridisegnare le forme e i modi della presenza ecclesiale ed evitare che ognuno di noi si chiuda nel proprio ambito associativo o di movimento, generando così, magari anche indirettamente o senza volontà, una visione un po’ federalista della Chiesa, che a me non piace ma che è la tendenza. Io mi chiudo nella mia associazione, mi chiudo nel mio movimento, faccio le mie messe particolari e facciamo una bella federazione che chiamiamo Chiesa. Ma non funziona. Il nostro obiettivo è pertanto quello di costruire insieme una maturazione di una fede adulta, pensata, vissuta. Se le cose che sono venuto dicendo hanno un qualche fondamento di condivisione, allora occorre, proprio partendo da questo seminario, che Retinopera apra una nuova fase del suo percorso e si dia come obiettivo non solo quello di accrescere la relazione, la sinergia a livello nazionale fra le diverse aggregazioni che la compongono, ma anche di estendere questa dimensione di incontro a livello territoriale, a livello diocesano, a livello di parrocchia, se posso usare il termine. Certo, non siamo all’anno z0ro, ci sono in campo esperienze, ci sono tentativi di implementazione che ci fanno ben sperare, però bisogna che insieme, andando via da Vallombrosa, facciamo uno sforzo in più. Lo dobbiamo fare noi. Dobbiamo chiedere alla nostra Chiesa e ai nostri vescovi un’attenzione nuova e diversa per il lavoro che stiamo facendo, perché non serve solo a noi, ma serve alla dimensione della Chiesa oggi in Italia. Proprio perché dentro le metamorfosi che stanno trasformando la nostra società e che pongono a noi cristiani molte domande, dobbiamo anche avere la capacità di rilevare che ci sono molti segni di speranza. Non ci sono solo i problemi che prima cercavo di individuare. E questi segni di speranza, guarda caso, stanno tutti dentro la dimensione territoriale. Se ci guardiamo attorno con attenzione vediamo che sta maturando una nuova coscienza di fede, un nuovo modo di interpretare la fede che coinvolge. In molti casi però si formano, un po’ embrionali, le esperienze personali e comunitarie che danno un senso alla vita, all’impegno e che in tanti casi aiutano a vivere con serenità i problemi della quotidianità. Io credo che noi abbiamo l’esigenza e la necessità di cogliere questi segni, di valorizzarli , perché proprio sul terreno della fede e della testimonianza, si tende a realizzare una stretta relazione tra la salvezza e la storia umana, perché in molti casi nelle dimensioni territoriali , nelle nostre associazioni, nei movimenti che agiscono in modo molto diverso a livello territoriale e a livello nazionale, si tratta di una fede che si nutre della parola di Dio, che vive con attenzione i segni della grazia, ma che nello stesso tempo vive i segni e i valori umani. Più in profondità di quanto noi pensiamo, cioè con una incarnazione maggiore di quella che, tante volte, noi riusciamo ad esprimere. Però noi siamo, troppe volte, anche nei nostri discorsi, attenti alla politica ecclesiale, a che cosa fanno i vescovi, al rapporto, che tante volte ci turba, che i vescovi hanno con la politica, alle questioni interne alla Chiesa. Il problema è che tante volte siamo attenti a questo e ci sfugge che nelle nostre comunità stanno emergendo esperienze di fede che non sono ideologiche, molto diverse dal passato, che non si rifugiano

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nell’utopia e nell’intimismo, ma che sono vere. Mi sorprende molto, anche in modo positivo, che in questa società così tesa al successo, alla ricchezza, al potere, almeno così come cercano di rappresentarla i mezzi di comunicazione sociale, ci siano persone, ai livelli più disparati, cristiani, che fanno le scelte dei poveri. Il povero, noi lo sappiamo, è la verifica costante del nostro essere Chiesa. E se questa attenzione permane, anche in questa società un po’ dispersiva, vuol dire che molte cose sono ancora oggi possibili . E che la speranza, pur essendo virtù piccina, non è assente. Credo che questo sia per noi un segnale, una responsabilità. È da qui che noi dobbiamo partire per costruire un nuovo percorso. Allora Retinopera deve diventare sempre di più un luogo dove i cristiani impegnati nelle associazioni e nei movimenti, imparino, soprattutto a livello locale, a vivere il loro impegno secondo uno stile di comunione, di partecipazione, sia nel sociale che nella comunità ecclesiale. Più profezia nella Chiesa e più capacità di mediazione nella società civile. Questo potrebbe essere lo stile che caratterizza il fare e l’essere di Retinopera. Per concludere vorrei indicare dei possibili campi di intervento, che colgono un po’ anche quel documento che avete in cartella. Per prima cosa noi siamo convinti che Retinopera non può essere imposto, in modo burocratico, partendo dalla dimensione nazionale. Retinopera deve sorgere come esigenza dentro la comunità locale. Il l ivello nazionale deve stimolare, proporre e accompagnare. Credo che Retinopera a livello locale debba realizzare alcuni obiettivi concreti e non limitarsi a incontri, convegni, che pure sono utili e necessari da fare, ma alcune indicazioni di percorso su cui riflettere e lavorare. Io credo che la prima cosa sia contribuire allo spirito di comunione nella Chiesa, soprattutto nelle Chiese particolari. Promuovendo momenti di incontro e di dialogo dei laici, impegnati nelle associazioni e nei movimenti, con l’obiettivo di promuovere la conoscenza, l’accettazione, la cooperazione, in modo da approfondire le implicazioni della condizione laicale e della sua missione nella Chiesa, nella società e nel rapporto con la dimensione politica. La seconda cosa è la generazione di momenti di formazione: formazione umana, ma anche formazione spirituale. Noi dobbiamo avere più momenti di ricerca spirituale tra di noi, perché è quella che ci aiuta a creare quell’unità alla quale teniamo. Momenti di formazione culturale, dottrinale, con particolare attenzione alla dottrina sociale della Chiesa. Che diventino, però, momenti comuni tra le associazioni e i movimenti, perché questo crea qualche novità. Occorre poi dare vita o partecipare alla realizzazioni di progetti di intervento concreto in ambito sociale, su alcuni temi sulla quale la società si interroga. Penso ai temi del lavoro, dell’economia sociale, del volontariato, delle attività di cura, di lotta alla povertà e all’emarginazione, di contrasto alla povertà sul terreno della scuola, della solidarietà internazionale e della famiglia. Questi stanno già nell’agenda che abbiamo presentato un anno fa, ma vanno ripresi. Potremmo continuare nell’elenco. Io credo che un punto di riferimento, almeno dal punto di vista del metodo, delle cose concrete da fare, sia per esempio il progetto Policoro , che non può rimanere l’unico progetto bello al quale partecipiamo tutti direttamente o indirettamente. Dobbiamo triplicarlo. Quanti Policoro possiamo fare insieme? Ognuno mettendo la propria capacità, i l proprio carisma, le sue

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responsabilità. Lo dobbiamo fare a livello locale, per cui Retinopera deve essere in grado di produrre alcuni progetti di intervento concreti nel sociale, piccoli o grandi che siano, non mi interessa la grandezza, mi interessa la concretezza, la presenza. Credo che questo sia un modo perché ognuno metta in campo le proprie esperienze e le proprie competenze. Cioè un’agire sociale pieno, dove le diversità (perché noi rappresentiamo delle diversità), possano valorizzare e diventare sinergiche, comunitarie. Credo che questo sia veramente un modo per dare concretezza al tema della cittadinanza che stiamo discutendo, o del vivere dentro la città, che trova così questa declinazione che abbiamo detto. La città come luogo concreto, in cui forgiare e mettere alla prova nuove sintesi di azione sociale e culturale cristianamente ispirata. Occorre vedere se siamo in grado di contribuire o di generare, attraverso un intreccio di interventi formativi di azione concreta, perché anche il fare è educare, il fare è formare, è contribuire alla creazione di una nuova classe dirigente, cristianamente ispirata, che si possa impegnare nel sociale, nella politica e nell’economia. Ultima annotazione: noi oggi siamo tutti convinti di essere di fronte a una povertà della politica e che ci sia bisogno, nel nostro Paese, di una cultura politica cristianamente ispirata. Anche se resta aperta, e non so come affrontarla (anche se ho le mie idee), la questione delle forme e dei modi della presenza dei cattolici in politica. È questione aperta oggi. Non so come la risolviamo, ma è questione aperta. Già il sapere che abbiamo quella questione aperta è un passo avanti. È questione aperta perché ci dobbiamo confrontare con un sistema di rappresentanza politica che è mutato e che abbiamo teso a negare, che abbiamo teso ad averne un po’ timore. Ma un conto era prima e un conto è quello che è avvenuto in questi ultimi dieci anni. Non si tratta più solo di ragionare del rapporto tra cattolici e politica, che va sempre ragionato e ripuntualizzato. Ma oggi siamo nel bipolarismo, e siccome non usciamo dal bipolarismo per un periodo di tempo dato, dobbiamo dire che stare in politica oggi è un problema diverso dal passato. E non possiamo scappare, con la nostalgia che tante volte ci prende e magari ricreiamo un po’ di Democrazia cristiana, cosa impossibile. Oppure più surrettiziamente rifacciamo il centro. Guardate che sono tutte cose buone, che ci fanno discutere tanto, ma il problema è che bisogna fare i conti con la realtà. Io penso che sia anche un dato provvidenziale per i cattolici. Perché i laici cattolici sono chiamati ad esprimere la loro responsabilità di come stare in politica, sia che scelgono una parte sia che ne scelgono un’altra. Ma se non si affronta il tema del bipolarismo e della libertà con cui stare in politica, ci inibiamo. Io oggi non sono qui per trovare la soluzione, perché non è compito di Retinopera. Ma il problema c’è. E non possiamo far finta che non esista. E se i processi di aggregazione o di rimescolamento che avanzano nelle diverse forme della rappresentanza politica ci sono, visto quello che ci ha detto Mons. Simoni oggi rispetto al fatto che in politica ci dobbiamo stare, qualche domanda ce la dobbiamo porre. Dico solo questo. E ce la dobbiamo porre guardando in avanti e non guardando indietro. Perché con la nostalgia non cambiamo nulla. Pertanto ho chiesto a noi laici, e non alla Chiesa, di decidere come stare in politica, sapendo che non ci si può stare, come diceva prima Primicerio, guardando solo una parte. Io non voglio come cattolico che sceglie di andare in politica, farmi marginalizzare o diventare un elemento minoritario perché sto solo su un tema. La mia presenza in politica è presenza completa. Mi interessa il lavoro, gli elementi eticamente sensibili , le riforme istituzionali. Cioè tutto ciò che appartiene alla politica. Guardate che noi

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rischiamo una marginalizzazione. Credo che sia un’urgenza che abbiamo. Non tocca a Retinopera, perché Retinopera deve fare altro, ma voglio porre il problema perché il problema c’è. Forse trovare il modo, le forme, i momenti per cui affrontarlo credo sia una cosa buona. Poi c’è un’altra questione. Noi cattolici, anche nei nostri discorsi, siamo molto attenti al sociale, al politico: ma abbiamo delle difficoltà, delle ritrosie, dei pudori strani sull’economia. L’idea che il denaro sia una cosa sporca, che il mercato sia il luogo dello sfruttamento, che la concorrenza sia moralmente discutibile, è ancora dentro il nostro subconscio. Poi magari nel nostro mondo si usa il denaro disinvoltamente, più che in altre parti , però il denaro è sterco del demonio. Anche qui non siamo laici. La misura della laicità si misura anche sull’economia. Io resto convinto che serva ai cristiani, a noi cristiani, in questo Paese, per le sfide che abbiamo di fronte, avere una buona cultura economica. Risanare il debito è una questione etica. La dico così, visto se ne discuterà tra pochi giorni. Risanare il debito è una questione etica. Bisogna dire come ma è una questione etica, perché c’è il principio di responsabilità. Se non risano il debito lo pagherà chi viene dopo di me. E se noi cattolici non abbiamo la cultura economica e non diciamo alcune cose sull’economia, parliamo solo di politica e di sociale, facciamo bene ma siamo parziali . Io credo che non sarebbe male se Retinopera, oltre che i seminari sul sociale, sulle istituzioni, sulla laicità, sulla città, mettesse in campo un momento di riflessione sull’economia e sull’agire economico. Perché l’economia oggi condiziona la nostra vita. La globalizzazione, l’interdipendenza. Guardate un po’ che cosa sta succedendo. Ma anche il vivere sociale, il vivere relazionale. Tutto è misurato: quanto prendo, quando compro, quanto vendo e via dicendo. E non credo neanche che noi possiamo ripartire dalla cit tà se non abbiamo un’idea chiara di come l’economico, in tutti i suoi aspetti , trasformi, modifichi, condizioni o valorizzi il vivere cittadino. Io credo che queste siano le nuove frontiere, i nuovi modi con cui Retinopera è in campo e sta in campo. E continuo a pensare che questa sia l’esperienza più innovativa che si è aperta nel mondo cattolico, proprio per la sua capacità, impensabile alcuni anni fa, di far sedere allo stesso tavolo associazioni storiche e nuovi movimenti. Da chi può scaturire un’idea di ecclesialità nuova? Un’idea di una presenza nel sociale? Una capacità di una presenza di evangelizzazione? Ma anche produrre quelle sensibilità sociali che possono cambiare e modificare la politica. Guardate che è una sfida vera che abbiamo di fronte. Possiamo anche fallirla, ma io credo che la dobbiamo rincorrere fino in fondo, partendo e sostenendo la grande pluralità e vitalità delle buone pratiche dei territori.

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Preghiera e meditazione ““SSee iill SSiiggnnoorree nnoonn ccoossttrruuiissccee llaa ccaassaa …….. SSee iill SSiiggnnoorree nnoonn ccuussttooddiissccee llaa cciittttàà……”” 33

di S. E. il card. Attilio Nicora Aprirei con una preghiera che ebbi già modo di meditare insieme con voi e che mi pare, sempre, tanto ricca e tanto profonda. La preghiera che in latino comincia con l’espressione “Adsumus Domine Sancte Spiritus, adsumus peccati quidem immanitate dententi. .”. Una preghiera che è nata in occasione delle assemblee dei vescovi in ambiente spagnolo, nel VII secolo dopo Cristo, che in qualche modo è anche preghiera tipica di ogni assemblea di cristiani riuniti davanti allo Spirito Santo, per lasciarsi riscattare dall’immanità delle loro colpe e il luminare dalla luce di Dio e poter arrivare a determinazioni feconde in linea con il disegno divino sul mondo. La recito in italiano, così creiamo un po’ lo scenario spirituale in cui inserire la meditazione. “Siamo qui, Spirito Santo Signore. Siamo qui gravati dall’immanità dei nostri peccati e però radunati in modo singolare nel Tuo nome. Vieni a noi. Resta con noi. Dégnati di scendere nei nostri cuori. Insegnaci ciò che dobbiamo fare. Mostraci il cammino da percorrere. Fa tu ciò che noi facciamo. Opera tu dentro il nostro operare. Sì Tu solo il suggeritore e il realizzatore dei nostri giudizi e delle nostre decisioni. Tu che solo possiedi un nome glorioso insieme con il Padre e con il Figlio. Tu che ami sommamente l’equità, non tollerare che noi diventiamo stravolgitori della giustizia. Fa che l’ignoranza non ci porti fuori strada. Che il favore clientelare non ci pieghi a scelte arbitrarie. Che non siamo corrotti da regalie e da influenze personali. Congiungici a te in modo efficace con il dono della Tua grazia, contro ogni tentazione di separarci da Te, perché in Te troviamo unità e in nessuna cosa ci scostiamo dalla Tua verità. In modo tale che rimanendo uniti nel Tuo nome congiungiamo in ogni cosa la giustizia con la pietà, in modo da far sì che quaggiù il nostro giudizio in nulla dissenta dal Tuo. E lassù, nella vita futura, per ciò che abbiamo bene operato quaggiù, ci sia dato il premio eterno. Amen”. Ho pensato che come testo per questa riflessione mattutina, nell’ambito del tema generale dell’incontro di quest’anno a Vallombrosa, potesse essere utile scegliere il Salmo 127. E’ uno dei salmi appartenenti a quel gruppo che è chiamato Salmi delle ascensioni, cioè i salmi che venivano cantati dai pellegrini che salivano a Gerusalemme. Non a caso è stato scelto come Canto delle ascensioni, così dice il suo titolo, perché, come vedremo, il tema della casa e della città è molto presente nel testo. È un salmo molto breve, che però si può ben prestare a qualche riflessione stimolante, che già ieri è stata aperta dalla riflessione di Mons. Simoni. Sono soltanto cinque versetti . Salmo 127, Canto delle ascensioni, di Salomone. Essendo legato al tema della città, richiamando il tema della città in ambito israelitico, in modo caratteristico la Città Santa, Gerusalemme, e nella città il tempio; ed essendo stato, il tempio, costruito da Salomone, la pia tradizione ebraica ha attribuito questo salmo a Salomone. Il salmo dice così: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non 3 Testo non rivisto dall’autore

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custodisce la città, invano veglia il custode. Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore: il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno. Ecco, dono del Signore sono i figli , è sua grazia il frutto del grembo. Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non resterà confuso quando verrà a trattare alla porta con i propri nemici”. Questo è il testo. Si tratta, lo avete subito avvertito, di una sorta di riflessione sapienziale, che ha come oggetto la benedizione divina che accompagna lo sforzo umano che si dipana nel tempo sotto il profilo, indistinguibilmente, personale e sociale. Nel contesto comunitario del popolo di Israele era ben difficile separare questi due profili . Gli uomini insieme passano il tempo impegnandosi a costruire la casa, a custodire la cit tà, a svolgere il proprio lavoro (allora prevalentemente agricolo) e conoscono la realtà di una famiglia arricchita da numerosa discendenza, che assicura la continuità delle generazioni. Il tempo scorre dall’alba al tramonto, avendo gli uomini come protagonisti di uno sforzo edificativo, e gli anni trascorrono l’uno dopo l’altro, trovando nella continuità delle generazioni, assicurate dalla numerosa discendenza, “la faretra piena di frecce”, i figli, la garanzia di un futuro. Su questo sta la benedizione divina. Questo è il tema di fondo del brevissimo salmo. L’affermazione essenziale che ho così sintetizzato, viene ribadita sotto due profili che si intrecciano tra loro. Anzitutto in un modo che diremmo in negativo: “Se il Signore non allora tutto è vano”. Invece di dire in positivo. Occorre l’intervento di Dio perché la presentazione è piuttosto in negativo. E c’è una evidente costruzione letteraria che sottolinea con forza, per tre volte, da un lato il Signore e dall’altro la parola invano . “Se i l Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se i l Signore non custodisce la città, invano veglia il custode. Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore: il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno”. Interessante questo triplice ritorno della coppia i l Signore e invano . “Se i l Signore non interviene”, dice il salmista, “l’uomo agisce invano” . Questa espressione invano , nell’uso biblico è molto carica di significato. Ultimamente si riconduce allo stesso tema dell’idolatria, la vanità per eccellenza è l’idolo. Cioè una realtà che si presenta come determinante, decisiva, tale che l’uomo è tentato di affidarle il destino, ma in realtà è talmente un nulla che poggiando sull’idolo nulla consiste, nulla sta, nulla trova fondamento. Solo Dio è la roccia su cui si può stare, su cui tutto può consistere, cioè aver consistenza duratura. Questo che è tema classico della rivelazione biblica, viene qui ripreso con speciale riferimento all’attività umana, non soltanto al tema della concezione della vita, della visione del mondo, dell’atteggiamento e della scelta radicale a cui l’uomo biblico è chiamato, la scelta tra Dio e l’idolo, tra la roccia e l’inconsistenza. Qui il tutto è riferito, sempre in modo particolare, sempre dentro a questo scenario, all’attività, allo sforzo che l’uomo produce nel tempo per edificare le quattro realtà che in un certo senso riassumono tutto il senso dell’attività umana: la casa, la città, i l lavoro, i figli e la continuità delle generazioni. L’orizzonte umanistico, antropologico, culturale del Dio israelita era questo: la casa, intesa non come edificio di mura, ma intesa come la realtà della famiglia allargata com’era in uso allora: la famiglia patriarcale nella quale le generazioni intrecciate tra loro da vincoli di stretta parentela vivevano insieme e si formava

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una sorta di comunità che manteneva in dinamico collegamento, le diverse età e le diverse esperienze della vita. La casa è da costruire. La città è da custodire. La città che è la raccolta delle case, è l’accostarsi progressivo delle case tra loro secondo un disegno non solitamente e formalmente previsto, ma apparentemente affidato al caso eppure spesso rivelatore di una sua profonda identità, si plasma a poco a poco nel tempo ma è perennemente esposta al rischio della violenza interiore e dell’assalto esteriore da parte dei nemici. Per questo viene solitamente circondata dalle mura e per questo sono deputati dei vigilanti, dei custodi, delle sentinelle. Le porte vengono chiuse alla sera e qualcuno veglia, perché il nemico non sopravvenga. Il lavoro, che è quello prevalentemente agricolo: alzarsi di buon mattino e uscire verso la campagna. Andare tardi a riposare, perché è duro piegarsi sulla terra e cavare a fatica il frutto della terra coltivata. Occorre “mangiare pane di sudore”. Riecheggiano le prime pagine del libro della Genesi. Questo è l’impegno comune a cui gli uomini si devono dedicare. Tutto questo nella prospettiva di una continuità che è assicurata di generazione in generazione dal dono dei figli . Dono numeroso. Che è ricchezza e nello stesso tempo è sicurezza e difesa. Tutto questo non dura e perde senso finendo nella divisione e nella frammentazione, dice il salmista, se viene vissuto senza un riferimento a Dio. Sembra che il salmista ci voglia dire: l’attività umana non basta a se stessa. Ha il suo oggettivo valore. Ha una sua strutturale importanza cui non ci si può sottrarre, che è una sorta di debito che ciascuno di noi ha verso se stesso, la sua dignità, la sua responsabilità e verso gli altri che vivono con lui, verso il domani comune, verso il destino del popolo. Però l’impegno umano non basta a se stesso. Occorre che in esso sia misteriosamente presente anche il gratuito, il dono di Dio. L’attività umana è misurabile. Conosce anche il segno del successo, della riuscita, accanto a quello della fatica e della difficoltà. Ed è tentata, quindi, di automisurarsi secondo la propria esclusiva misura. Ma il salmista ci mette in guardia: quando gli uomini intendessero fare così, costruirebbero invano. Per costruire saldamente su un fondamento che sta, che consiste, che sfida il tempo e la nostra istintiva tendenza alla frammentazione e alla divisione, occorre l’intervento di Dio, cioè occorre qualcosa che è di altra misura rispetto alla misura umana, che non è riconducibile a noi, che non è padroneggiabile da noi, che non può diventare motivo di nostro orgoglio, che presuppone il riconoscimento di una nostra radicale dipendenza. Ed ecco allora che si delinea il grande paradosso caratteristico della visione della fede. Proprio nel momento in cui l’uomo si riconosce radicalmente dipendente dalla gratuità benevola di un altro, più buono e più grande di lui, l’uomo diventa grande e diventa capace di costruire efficacemente e di assicurare stabilità alla propria impresa. È Dio che permette all’uomo di riuscire. Se l’uomo pensa di riuscire da solo, escludendo volutamente la presenza di un altro dentro all’impresa che vive, si autocondanna alla sterilità. Dio permette all’uomo di riuscire. E questo Dio, il Dio della Bibbia, i l Dio che poi si rivelerà come il Dio cristiano nella pienezza della Sua rivelazione, è un Dio che non soltanto provvede benevolmente dall’alto, ma rimanendo accuratamente fuori dalla povera vicenda dell’uomo. È un Dio che interviene, collaborando, in un certo senso, con l’uomo. È

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un Dio che si implica. Qui l’affermazione che il salmista sviluppa prende la sua nota positiva, che è implicita più che esplicita. Esplicitamente c’è: “Se il Signore non . . invano”. ma implicitamente questo significa: “Se il Signore è con, allora..”. E il Signore è con. Il Signore costruisce la casa. Il Signore custodisce la città. Il Signore rende fruttuoso il lavoro per i suoi amici, cioè per quelli che non pensano di essere loro il Dio, ma si affidano ultimamente a Lui, che è Padre buono. Il Signore dà a costoro il pane nel sonno, mentre dormono. Non c’è bisogno che si affatichino a lavorare. È paradossale l’affermazione. È per dire che il Signore è talmente con, è talmente dentro, è talmente per l’uomo che, al l imite, i l risultato potrebbe assicurarglielo anche senza la mediazione umana. Non è questa, peraltro, la normalità delle cose. La normalità delle cose è questo misterioso agire insieme. C’è dunque il rifiuto di quello che ieri Monsignor Simoni ha già ampiamente messo in luce, questo protagonismo babilonico. La pretesa di essere costruttori della città e del destino, facendo leva soltanto sul proprio orgoglio ed escludendo la dipendenza da Dio e l’affidamento a Lui. Ma se è vero quello che abbiamo detto c’è anche il rifiuto di un modo deresponsabilizzato di mettersi di fronte ai compiti storici e terreni. Il salmista non guarda con un sorriso beffardo e quasi da presa in giro allo sforzo degli uomini che, pur così puntualmente, descrive. È attento a mettere in luce il l imite, ma lo apprezza, lo valorizza, sa che è dovere a cui l’uomo non può abdicare. Non possiamo vivere desolatamente nella pura attesa di un oltre che verrà alla fine del tempo. Possiamo fare la nostra parte e dobbiamo farla innervando il tempo che ci è dato dall’alba al tramonto, di generazione in generazione, del nostro sforzo responsabile, costruttivo, pur avvertendone e custodendone radicalmente il l imite, in un intreccio di grazia e di libertà. La grazia misteriosa di Dio, che costruisce con noi la nostra libertà responsabile, che non deflette dal necessario impegno di giocarsi, quotidianamente, perché la casa sia costruita, perché la città sia custodita, perché il lavoro sia fruttuoso e perché una generazione trasmetta all’altra il senso dell’impresa comune e la prospettiva del destino. Questo mi pare il significato complessivo di questo salmo. Ma a questo punto nasce una domanda che, mi pare, non possiamo evitare per non finire in una sorta di considerazione un po’ spiritualista e generica. Dio interviene e solo se Lui interviene l’impegno umano è efficace. Ma come interviene Dio? L’istinto di una religiosità un po’ superficiale, non propriamente cristiana, è quello di pensare all’intervento del Dio come a un intervento estrinseco, di t ipo miracolistico. Dio deve intervenire a cambiare le cose per farle andare meglio o trattenendo le sciagure o eliminando le ragioni delle insidie e delle violenze o ricomponendo i vuoti e le sofferenze che di volta in volta si creano. È una tentazione facile, istintiva, perché se lui intervenisse e facesse quello che può fare i problemi sarebbero risolti . Qualche volta questo modo di pensare si ripiega su se stesso in modo iroso, arrabbiato, tendenzialmente blasfemo. Ma perché Dio fa succedere queste cose o tollera che succedano queste cose? Perché lo tsunami? È Dio che deve impedire lo tsunami o sono gli uomini che vi debbono provvedere? Che cosa vuol dire che Dio interviene? Perché non possiamo ignorare la parola del salmo, che rimane vera. Ma come Dio interviene? Qui entriamo in temi molto complessi e difficili che non è il caso di sviluppare in questo momento. Io mi limito a fare queste piccole osservazioni. La prima: occorre comprendere con rinnovata convinzione che Dio, ordinariamente, non cambia le cose, ma cambia il cuore dell’uomo. Il modo

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proprio di intervenire da parte di Dio nella storia degli uomini, non è di cambiare le cose al posto degli uomini, ma è di cambiare il cuore e la coscienza degli uomini. Noi, astrattamente, ne siamo convinti: chi lo negherebbe? Ma ho l’impressione che non sempre ne siamo esistenzialmente convinti. Alla fine siamo tutti un po’ inclini a ritenere che se Dio c’è dovrebbe pur farsi vedere e sentire in una maniera più limpida, più netta, più efficace, a che riporti le giuste misure, che dia torto a chi ha torto e ragione a chi ha ragione. Che risolva. Il guaio è che Dio, ordinariamente, non cambia le cose ma cambia gli uomini. Impresa enormemente più difficile. Perché? Perché ha creato gli uomini dotati di intelligenza e di liberta, l i ha chiamati ad essere interlocutori del dialogo con sé, li ha abilitati ad essere edificatori del mondo come collaboratori e continuatori della sua opera creatrice e provvidente e perciò non può rinnegare se stesso. Accetta fino in fondo il rischio di tutto questo. Cioè, di nuovo, l’intreccio misterioso tra la sua grazia e la nostra libertà. È lì i l punto dell’azione di Dio. Poi gli uomini, se cambiano, cambiano le cose. Se vivono la limpida passione dell’edificare qualcosa di consistente, perché ultimamente riferito a Dio e al quadro di valori che da Lui discendono, allora gli uomini diventano capaci di costruire la casa, di costruire la città, di rendere fecondo il lavoro, di crescere di generazione in generazione. Tutto però parte da lì . Allora, seconda osservazione, se questo è il punto di inserimento dell’azione misteriosa di Dio, possiamo forse provare a rispondere alla domanda “come Dio interviene”, in ordine alle responsabilità e ai compiti di cui parla il nostro salmo. Più ampiamente in ordine all’edificazione, alla custodia della città, intesa nel suo ampio significato, non soltanto urbanistico. Potremmo dire: la prima grazia, i l primo dono che Dio fa all’uomo è la verità sull’uomo, sul mondo e sul destino. Perché se è vero che si tratta di edificare su un fondamento e non sul vuoto, sulla vanita, allora occorre conoscere qual è il fondamento di ogni impresa umana. Il che significa che occorre conoscere chi è l’uomo, qual è il senso delle sue relazioni fondamentali, qual è il significato del mondo che egli è chiamato a costruire, qual è il valore della responsabilità che egli gioca nella luce del suo eterno destino. Dio rivela tutto questo. Questa è la prima immensa grazia che Dio fa all’uomo. E così lo aiuta a costruire la casa e a custodire la cit tà. Svelando il senso e identificando la verità dell’uomo e delle sue relazioni fondamentali nella luce del destino. In questo quadro noi ritroviamo la dottrina sociale della Chiesa, come uno sviluppo coerente e specifico, soprattutto su queste tematiche che stiamo evocando, del dono della rivelazione divina che sarà poi, nella pienezza, rivelazione cristiana. Noi non siamo molto abituati a considerare la dottrina sociale della Chiesa come grazia. Ne siamo convinti come necessario criterio di valori, di riferimento, come elemento di giustizio e di verifica, come punto di stimolazione e di critica, come orientamento appassionante che può e deve motivare un impegno. Ma, prima di tutti questi aspetti , che pure sono fondamentali, forse dovremmo ritrovare questa semplice, umile capacità di cogliere la dottrina sociale della Chiesa come dono, come grazia. Dio interviene dandoci innanzitutto questo. Gratuitamente. Non è lo sforzo di una nostra applicazione tenace e faticante. È innanzitutto dono. È luce che viene dall’alto. È splendore di umanità pienamente identificata che brilla nel volto e nella persona di Gesù Cristo. Il dono per eccellenza. La dottrina sociale della Chiesa è grazia. È Dio che interviene, offrendoci i l criterio della verità e la fondazione del senso di ogni impresa umana. Nel momento che stiamo vivendo, ma non è né la prima e non sarà l’ultima volta che questo appare, è agevole comprendere la bellezza e la

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grandezza di questa grazia di Dio. Mentre assistiamo a questa terribile e progressiva frammentazione del suo piano dei valori, delle convinzioni fondanti. Mentre vediamo che anche tradizioni, che pure avevano una loro componente umanistica di segno diverso da quella cristiana, ma non priva di una nobiltà, di un suo rigore, di una profondità che poi, ultimamente, aveva radici ancora cristiane, anche se ribaltate; mentre vediamo che queste tradizioni si consumano desolatamente. La cultura radicale investe sempre di più quelli che una volta erano i templi di una sorta di altra religione, che aveva i suoi dogmi, che aveva le sue forze, che aveva le sue tensioni assolute. E tutto relativizza, erigendo il desiderio a criterio ultimo di ogni valutazione e di ogni scelta. Mentre noi sperimentiamo drammaticamente, perché fa soffrire tutto questo, ci accorgiamo, una volta di più, della grazia incredibile di cui noi godiamo e di cui non sempre teniamo conto. La grazia di una verità. La grazia di un qualcosa che dà senso, che non toglie la fatica, talvolta le penombre. Resta il dovere di ricercare con impegno, per capire sempre di più che cosa significa, di fatto, nell’intrico delle umane vicende, però nella certezza che ci è data una verità e che ci sono strumenti storicamente visibili e percepibili che ci accompagnano e, in qualche modo, ci assicurano. Parlavo recentemente con un ormai anziano esponente di quello che fu un grande partito della sinistra, il quale, dopo avermi raccontato con una certa tristezza, alcune situazioni e alcune cose, alla mia domanda un po’ ingenua ma anche un po’, volutamente, provocatoria: “Ma tra voi c’è qualcuno o qualcosa che cerca di rialimentare un valore, un senso, un attenzione?”. Mi rispondeva desolato: “Vede, Eminenza, noi non abbiamo una gerarchia. Noi non abbiamo principi trascendenti”. Sono cose da prendere sempre con grande rispetto e finezza ma che hanno anche molto pensare. Noi abbiamo, per grazia, i l dono di una verità sull’uomo e degli strumenti, storicamente concreti e utili , per poter camminare, non senza fatiche, ma certi che non vien meno una guida. È il dono della Chiesa. E nella Chiesa è il dono dell’autorità magisteriale. È il servizio della verità. Abbiamo dei vescovi, abbiamo un Papa, che, senza nulla togliere alla chiarezza, continuerà a dire ciò che è giusto dire, perché rimanga chiaro il senso, perché si sappia chi è l’uomo, qual è il valore delle sue relazioni fondamentali a cominciare da quella tra uomo e donna, che cosa vuol dire famiglia, che cosa significa costruire una casa. È grazia. Ed è il primo modo in cui Dio interviene. Qui, veramente, “Se il Signore non custodisce la città invano veglia il custode”. Cioè, se il Signore non illumina le coscienze tramite gli strumenti che il Signore ha voluto, che siamo noi e la Chiesa nella sua responsabilità evangelizzatrice. Se il Signore non illumina le coscienze, invano veglia i l difensore civico. L’altro modo in cui Dio interviene (ricordiamo che ho detto che Dio non interviene sulle cose ma interviene sulle coscienze) è con il dono degli atteggiamenti virtuosi, delle virtù, in particolare, delle virtù civiche e sociali , quelle che sono richiamate da un documento di cui adesso è un po’ di moda parlar male, e cioè il documento del Vaticano II sull’apostolato dei laici, l’Apostolicam Actuositatem. C’erano dentro delle cose notevoli in quel documento. Tra l’altro, c’era scritto: “I laici cristiani facciano gran conto della competenza professionale, del senso della famiglia, del senso civico e di quelle virtù che riguardano i rapporti sociali: cioè lo stile di correttezza, lo spirito di giustizia, la sincerità, l’amabilità, la fortezza

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d’animo, senza le quali non ci può essere vita cristiana”. Le virtù civiche e sociali sono costitutive della vita cristiana. Dunque se Dio le anima nella coscienza dei cristiani, se con la sua grazia, e qui per grazia intendiamo la grazia santificante, trasmessa mediante la fede e i sacramenti, nutrita in modo particolare dall’eucarestia, se Dio non interviene così non si costruisce. Se, invece, Dio alimenta nei suoi queste virtù, allora si crea quel tessuto relazionale stabile, perché ciò che è proprio della virtù è di essere intesa come un abito stabilmente acquisito, un corredo di comportamenti che diventano quasi una sorta di seconda natura, un modo di essere, non meccanicamente realizzato, ma frutto di una costante riconquista, perché alimentato dalla grazia di Dio e da una risposta sacrificata e generosa dell’uomo, che accetta la stimolazione di Dio e si plasma, si modella a poco a poco su queste necessità oggettive. Se c’è questo complesso di virtù allora si crea la rete stabilizzante e buona che dà sapore al tessuto umano connettivo delle convivenze. Se manca questa, non possono bastare i provvedimenti di vario genere o gli intereventi di varia ingegneria costituzionale, ed è l’esperienza che facciamo tutti quotidianamente. Penso a voi che siete sulla frontiera, da questo punto di vista. C’è uno scarto, talvolta, veramente impressionante, a limite dello scandaloso, tra i discorsi che si fanno e si propinano e poi un modo di sentire, di atteggiarsi che ormai è nel segno dello spietato interesse, del rifiuto voluto di ogni fedeltà. Qui non penso solo alle infedeltà coniugali: qui penso alle fedeltà civili , alle fedeltà che generano affidabilità, perché senza affidabili tà non si costruisce niente. Se siamo insieme soltanto per interessi e domani so che tu sarai dall’altra parte, arriverà notte tempo un altro che ti offrirà di più, allora non costruiremo mai niente insieme. E questo è solo la virtù che lo può garantire. Si possono anche fare le leggi costituzionali anti-ribaltoni, ma i ribaltoni avvengono innanzitutto nelle coscienze, avvengono quotidianamente nelle piccole prassi. È il tradimento quotidiano delle fedeltà quello che impressiona. Dio, invece, interviene. La grazia cristiana è grazia che è destinata, se è grazia educatrice, a maturare nelle virtù, come atteggiamenti stabili e acquisiti dei cristiani. Tra queste ci sono le virtù civiche e sociali. Ultimo elemento che possiamo ricordare: come Dio interviene? Non sulle cose. Nei cuori e nelle coscienze. Come? Offrendoci una testimonianza e un accompagnamento nei momenti della contraddizione e della prova. Ogni impresa che voglia costruire, conosce, prima o poi, la crisi , lo sconforto, la tentazione del ritirarsi. Ebbene proprio in quei momenti, che sono momenti bui perché fanno venir meno le chiarezze fondamentali e fanno dubitare dei motivi che sostengono l’impegno, quasi che tutto sia vano, quasi che, paradossalmente, la vanità stia proprio nell’essersi affidati a Dio. Quando sembra che si costruisce invano perché si è scelto di stare dalla sua parte, non accettando altri t ipi di sicurezze, di appoggi, di garanzie. Proprio in quel momento Dio interviene. E ci aiuta con la sua testimonianza, Gesù Cristo crocifisso, e con la sua forza, con la sua grazia, a mettere dentro alla contraddizione libertà e amore, cioè a non cadere vittime della prova della contraddizione e della tentazione ma a viverla, pur nell’impossibilità di vedere la via d’uscita, come possibilità di valore e di riscatto, tanto quanto riusciamo a fare come ha fatto lui. Mettere addirittura nella morte la libertà e l’amore. Fare della morte un atto di l ibertà e offrirla per amore a Dio in riscatto per tutti . Se il cristiano, dentro alla contraddizione, riesce a rivivere questo atteggiamento di Gesù Cristo, senza lasciarsi opprimere dalla croce, ma facendola

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sua insieme con Gesù Cristo, e rinnovando la disponibilità a portarla con libertà e per amore, allora qualcosa di grande può andare avanti. Allora si può costruire. Questo è un aspetto assolutamente importante perché è inesorabile che nell’esperienza umana ogni tentativo di edificazione conosca il momento della crisi . Non esiste autentica e significativa impresa umana che possa essere semplicemente una scarrozzata, una serie di successi, un susseguirsi di grandi e belle cose. Prima o poi viene il momento. Talvolta, l’ ho detto anche in qualche altra occasione, è il momento in cui si deve decidere di passare la mano, che può essere l’ultimo modo di servire davvero, non per ritirarsi, ma passare la mano perché nessuno può identificarsi con la causa per cui si batte. La causa è sempre più grande e noi siamo strumenti. Ma è dura. Allora anche lì bisogna metterci dentro libertà e amore, come ha fatto Gesù. Anche per Lui morire voleva dire il fallimento della causa per cui si era battuto. Fallimento conclamato, perché quel tipo di morte era la morte dello schiavo, era la morte infamante, e perché i commenti dei teologi di turno che passavano sotto erano confermativi: “Tu, hai detto di essere il Figlio di Dio. Dunque come fa un Figlio di Dio a morire sulla croce. O vieni giù dalla croce o è il segno che eri un illuso”. Così dicevano i sacerdoti passando sotto la croce. Era il fallimento, non solo suo ma della causa. Era il buio. Gesù ci ha messo dentro la libertà. “La mia vita la do io. Nessuno me la toglie”. E l’ha data per amore. Ecco, forse in questa prospettiva il salmo 127 prende un suo significato più concreto. Questo salmo è molto bello, ma se rimane in una sfera un poco spiritualistica e generica può anche dir poco, perché la domanda che rimane è: “Se il Signore non..invano”. Ma come interviene il Signore? Il Signore interviene col dono della verità, con la forza unificante delle virtù relazionali e delle fedeltà costruttive e con la capacità, che è pura grazia, dono suo, di metter dentro libertà e amore nella contraddizione e nella croce. Se è grazia va invocata. Allora potremmo concludere accennando a un tema che, peraltro, era caro ad alcuni esponenti della storia dell’impegno dei cattolici , al valore politico della preghiera. Alcune volte, nelle cosiddette preghiere universali o preghiera dei fedeli , nella messa domenicale, ricorre, come vuole la liturgia, qualche intenzione, se non è travolta dalle mille intenzioni che aggiungono i nostri bravi preti, dovrebbero essere quattro o al massimo cinque e tra queste ci dovrebbe essere quella già indicata dall’apostolo Paolo, pregare “pro eis qui nos in potestate regunt”. Pregare anche per i reggitori delle cose del mondo, perché garantiscano la pace. Qualche volta qualcuno si ricorda che c’è e mette questa intenzione. Anche qui resta da domandare ai nostri fedeli che percezione ne hanno, ammesso che la percepiscano, perché tra queste richieste una travolge l’altra. Ho già detto altre volte: se il lettore furbacchione provasse una volta ad inserire: “Che venga un terremoto e che ci distrugga tutti” la gente potrebbe anche rispondere: “ Ascoltaci o Signore”. Ammesso che capiscano che c’è un’intenzione “pro eis qui nos in protestate regunt”. C’è tutto un lavoro formativo da fare magari a partire dalla liturgia. C’era un prete che una volta disse: “Dopo l’omelia, tra le intenzioni diremo questa”. Questa può significare fare l’omelia, perché l’omelia si può fare sulle letture ma, dice la liturgia, si può fare anche sui testi l i turgici. Sarebbe interessante in queste domeniche un po’ vaghe, durante l’anno, prendere quell’intenzione e provare a spiegare che cosa vuol dire.

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Chiudo con una preghiera che a me piace: “Actiones nostras quesumus domine aspirando preveni et adiuvando prosequere ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiant et per te cepta”. Il latino è sempre una gran cosa. Traduco: “Previeni, o Signore, con la tua ispirazione le nostre azioni e seguile e accompagnale col tuo aiuto, perché ogni nostra preghiera e ogni nostra attività cominci sempre da te e da te cominciata, attraverso di te, giunga a compimento”. La cosa sarebbe da sfumare ulteriormente, i l latino non è così semplice. “Actiones nostras quesumus Domine, aspirando preveni”. Qui c’è lo Spirito Santo. Potremmo dire: “Infondici Signore il tuo Spirito, perché le nostre azioni nascano da lì”. “Et adiuvando prosequere”. “Falle andare avanti col tuo sostegno permanente”. Poi quel “A te incipiat et per te cepta (…)”, qui c’è tutta la mediazione di Cristo e la finalizzazione cristologia del nostro impegno, ma adesso andremo oltre. Io credo che questa preghiera la potreste anche imparare a memoria e potrebbe essere una bella, piccola, breve preghiera che inizia le vostre faticose giornate quando “Vi alzate presto al mattino e tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore”. Voi che il pane ve lo dovete guadagnare allora potreste imparare questa preghiera. “Previeni, o Signore, con la tua ispirazione, le nostre azioni e seguile e accompagnale col tuo aiuto, perché ogni nostra preghiera e ogni nostra azione cominci sempre da te e da te cominciata, per te finisca. Amen”.

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di Mauro Magatti Ho interpretato con molta libertà il t i tolo della relazione all’interno delle due giornate. Vorrei svolgere con voi alcune riflessioni che si fondano sul tema della città, delle sue trasformazioni, del modo di vivere come cristiani questa stagione, a partire da una ricerca molto grande ed entusiasmante che abbiamo svolto in università Cattolica, con la Caritas nazionale, su dieci quartieri di dieci cit tà italiane, il cui rapporto uscirà verso la fine dell’anno. Le riflessioni che offrirò, oltre al lavoro sulla letteratura, sugli studi e sulle ricerche esistenti, nascono anche dall’aver girato quartieri delle cit tà i taliane e dall’aver cercato di entrare in profondità in quello che sta accadendo dentro queste realtà urbane. Come dicevo, offro queste riflessioni che sono ancora da mettere a punto e colgo questa occasione come un momento della mia stessa elaborazione. Ascoltando prima Mons. Nicora faccio una premessa: se si guarda lo stato delle città in giro per il mondo e quello che sta accadendo alle realtà urbane in giro per il mondo, si ha veramente l’impressione che invano lavorino i costruttori. Nel senso che quello che noi occidentali , noi europei, noi italiani, chiamiamo città , se usciamo da questi confini, a noi abbastanza noti, e proviamo un po’ a viaggiare, ci accorgiamo che queste realtà, le città, stanno prendendo delle forme abbastanza impressionanti. Stanno nascendo delle realtà urbane che rispetto alla nostra storia, rispetto ai nostri criteri, sono sconvolgenti. Parto da qui per una piccola premessa, perché credo che sia utile inquadrare l’analisi delle realtà a noi più vicine, in un quadro storico-contemporaneo un po’ più ampio. Queste realtà urbane, in giro per il mondo, sono il luogo di una grave crisi antropologica, che oggi l’umanità sta incontrando. Le città in giro per il mondo rispecchiano visivamente la perdita di senso e di capacità di pensare l’umano. Questa incapacità poi si produce in forme urbane devastanti , che sono caratterizzate da tre grandi processi: il primo è lo spostamento di popolazione che produce queste agglomerati urbani privi di qualunque organizzazione. L’ultimo rapporto ONU stima in circa un miliardo di persone coloro che vivono in bidonville. Poco meno un sesto delle persone che vivono sulla terra vivono in queste condizioni, non so se ci rendiamo conto. E nelle gradi megalopoli del Terzo Mondo si stima che circa l’85% delle persone che vi abitano non ha nessun titolo di proprietà rispetto a “l’abitazione in cui sta”. Ci sono situazioni che noi occidentali neanche riusciamo a concepire. Una seconda grande tendenza, che vediamo invece nelle grandi cit tà occidentali , è che rimangono in piedi, come delle cattedrali, le grandi opere nelle grandi periferie operaie che sono nate a metà del secolo scorso su dei grandi progetti i l luministici o neo-illuministici. Queste periferie hanno visto rimanere gli edifici ma cambiare le popolazioni. La grande classe operaia con tutte le sue problematiche, ma che comunque era un gruppo relativamente coeso e dotato di una cultura, si è svuotata e in questi grandi contenitori si trovano per esempio dei gruppi etnici che si sono concentrati , come nel caso delle banlieu parigine. A un

4 Testo non rivisto dall’autore

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certo punto, per qualche ragione, queste realtà si infiammano in una situazione di segregazione abbastanza impressionante. Oppure in altri casi penso ad alcune zone, che ho visto proprio in Italia, in cui concentriamo le popolazioni che non contano niente, gli anziani. Se uno va a Begato, a Genova, (dove sono andato io), che è un quartiere in un delirio urbanistico degli anni ’70, ci trova una popolazione sostanzialmente di anziani, abbandonata completamente a se stessa, in uno stato di sopravvivenza, dove si vede la gente alle undici di mattina andare in giro in pigiama, perché si perde il riferimento a una quotidianità. È come stare in un altro mondo. Si vive in un microcosmo segregato rispetto alla città. La terza grande tendenza, che è la più diffusa, è il fatto che vediamo delle logiche di sviluppo urbano che sono dominate da ben altro rispetto ad un ragionamento sulla città, più che da un ragionamento sul fatto che gli esseri umani abitano, vivono, crescono i figli , stanno insieme. Le città si sviluppano, ingrandendosi secondo delle logiche che sono o produttive, quindi legate agli investimenti, oppure a logiche di tipo speculativo. Per cui siamo di fronte ad uno sviluppo urbano che si estende, esce, supera i confini della stessa città e abbiamo questa urbanizzazione continua di grandissime regioni, dove non si riesce più a distinguere il passaggio da una città all’altra. In Italia abbiamo qualcosa di simile, però con una storia secolare di città, soprattutto nel centro-nord che resiste, perché abbiamo dei radicamenti locali cittadini, per cui abbiamo ancora il “centro”. Se uno, ad esempio, va tra Milano e Brescia trova tante cittadine perché sono intorno alla Chiesa, alla piazza e quindi noi in Italia ci salviamo un po’. Ma in altre aree del mondo, penso a tutta la zona intorno a Shangai o la zona che parte da New York, si hanno delle estensioni urbane prive di qualunque caratterizzazione. Questo per dire che nel 2006, se abbiamo un quadro globale, dobbiamo dire che le città oggi si stanno trasformando in maniera radicale, stanno subendo delle trasformazioni profondissime, dei fenomeni che veramente ci inquietano. Le città sono un luogo dove la crisi antropologica si manifesta, perché voi trovate dei modi di vivere che a noi occidentali , a noi europei, a noi i taliani, possiamo dire anche a noi cristiani, ci sconvolgono. Naturalmente questo quadro ha un logica di fondo e credo che questa debba essere qui richiamata. Cioè una logica che io e tanti altri , chiamiamo rispazializzazione . Questo è un tempo in cui si stanno modificando non solo i luoghi in cui le attività umane si radicano, ma anche la logica in cui le attività umane prendono forma nel tempo e nello spazio. Questo processo di rispazializzazione è un processo molto intenso. Le forme umane le possiamo analizzare da una parte guardando al modo in cui gli uomini strutturano la loro stanzialità e in rapporto a questo al modo in cui gli uomini strutturano la loro mobilità. Noi abbiamo distinto nei libri di storia delle scuole superiori tra le società nomadi e le società stanziali e adesso sta nascendo una strana forma di vita sociale in cui non siamo né nomadi né stanziali , ma mescoliamo queste due dimensioni in forme che stiamo ancora cercando di capire, con delle tensioni sul territorio molto forti . Quando dico rispazializzazione intendo dire che combiniamo diversamente e naturalmente con delle differenze molto forti con chi sta in alto nella scala sociale e chi sta in basso, tra chi è forte e chi è debole, combiniamo diversamente la mobilità e la stanzialità.

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Tanto che mi verrebbe da usare questa metafora che il territorio è la nuova fabbrica. La nuova fabbrica nel senso che nell’età industriale, che è alle nostre spalle, la fabbrica è stata il luogo fisico in cui venivano mediate delle logiche, capitalistiche, di investimento, con la vita delle persone. La gente si alzava, andava lì , entrava in questo edificio e lì c’era la mediazione e anche la tensione. Lì si è cercato di trovare un punto di compatibilità tra le esigenze dello sviluppo economico, che erano esigenze con una loro sensatezza, perché erano legate al fatto che c’erano le nuove opportunità e si trattava di organizzare le cose in una certa maniera, e dall’altra parte c’era la vita delle persone che, in qualche modo, cercava di dare senso e cercava anche di piegare quelle istanze economiche a delle esigenze dell’umano. A me sembra che, in quest’epoca, quella tensione si scarica più sul territorio che nella fabbrica. Da questo punto di vista io credo che sia davvero importante provare ad illuminare questo tema perché forse riusciamo a cogliere tutta una serie di dinamiche e riusciamo anche a cogliere che il nostro modo di stare in questo punto, in questo luogo, è davvero importante. Questo, naturalmente, è legato al fatto che un altro grande luogo di mediazione, che è lo Stato nazionale, ha oggi le sue difficoltà nell’essere davvero un luogo di mediazione, tra interessi, identità, processi macro e vita quotidiana. Quindi da una parte abbiamo questo Stato che continua e continuerà ad esistere, ma con tutta una serie di difficoltà che lo spingono a cedere alle regioni e ai territori alcune funzioni e dall’altra parte perché lo Stato è sempre stato percepito come un po’ troppo distante dalla vita delle persone. Quando parliamo di politica, stiamo attenti, perché le persone che incontriamo al bar, per strada e in piazza hanno la netta sensazione che la politica ormai sia un palcoscenico a cui partecipano quelle trenta, cento, mille, diecimila persone, però è un palcoscenico e nasce la domanda: “Ma io cosa c’entro?” poi dall’altra parte: “Ma che nesso c’è tra questi dibattiti e la mia famiglia, il mio vicinato e i problemi che ho?” La distanza che c’è oggi tra l’esperienza quotidiana, non la fantasia ma la realtà delle persone e la capacità di mediazione della politica è molto grande. Questo fa sì che lo Stato nazionale oggi risulti un pochino astratto. Questo naturalmente ha i suoi pericoli . Non dobbiamo far finta che questa cosa non ci sia o che non sia un problema. Per queste ragioni parlare di cit tà oggi è opportuno, anche perché lì si incontrano le persone, lì si incontrano le vite e io credo che anche lì sia possibile recuperare il senso della politica. Questa rispazializzazione, come ci dicono coloro che sono più capaci di interpretare questa trasformazione, la possiamo leggere così: una città che è allo stesso tempo invasa e estroflessa. I processi di rispazializzazione che si sono messi in atto da tempo e che manifestano con forza i loro effetti , incidono sulla città, da una parte perché i confini urbani tendono ad essere facilmente superati, per cui i territori sono invasi da popolazioni. È evidente pensare alla percezione dell’invasione rispetto agli immigrati . In altri casi se uno sta a Firenze dei turisti non ne può più, “Ma state a casa vostra”. Vivere in una città turistica è un suicidio, perché uno deve andare in giro dalle due alle quattro di notte per poter, minimamente, riappropriarsi di un contesto in cui arriva tutta questa gente che ti fa sempre le stesse domande, vestita alla stessa maniera, con le stesse modalità, che violentano la città. Non la riconosci più. Diventa una sorta di grande stazione all’aperto, in cui uno non riesce neanche più a trovare l’intimità perchè ci sono flussi di turisti che ti arrivano addosso e poi dopo ci sono altri tipi di invasioni, come le invasioni di idee e di culture, che passano certamente attraverso i grandi media, per cui le

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culture locali sono invase e si deve sempre fare i conti con qualche cosa che ti viene dentro, anche se tu non lo vuoi. Chi ha dei figli lo sa benissimo, perché si ha la sensazione nettissima che non c’è un luogo in cui tu puoi avere il tempo di allevare tuo figlio e di educarlo prima di aprire la porta, di dargli la pacca sulla spalla e dirgli “Vai”. Oggi qui il problema è, invece, che uno deve educare il figlio e mentre parla c’è rumore intorno e il figlio dice innanzitutto che non ti sente e poi che ti vuole bene però come fa a riconoscere la tua autorità, la tua autorevolezza? Ti vuole bene e ti dà anche un bel bacio, però alla fine le voci che gli corrono nella testa sono tantissime. Questa continua invasione che, naturalmente, sulla formazione della cultura è una cosa destabilizzante. L’epoca contemporanea tende infatti a destabilizzare il concetto di cultura. Il concetto di cultura è il concetto di qualcosa che si sedimenta e si trasferisce da una generazione all’altra, sennò la cultura non c’è. Allora le culture tendono ad essere destabilizzate, perché qui invece è un vento impetuoso dove arriva dentro di tutto e il contrario di tutto e riprodurre una cultura è un’operazione terribile. La post-modernità è questo. Tutto tende a sfasciarsi. Le città da una parte sono invase e dall’altra parte sono estroflesse, dall’altra parte gli si chiede esattamente il movimento opposto. Il movimento del dire: “Non puoi più pensarti qua. Il territorio non basta più a se stesso. Devi comunque collegarti a qualcos’altro. Devi comunque sforzarti di essere altrove. Devi comunque essere in competizione con qualcos’altro”. Questo doppio movimento è terribile da gestire. Mentre tu sei “minacciato” nella tua riproduzione, al tempo stesso devi comunque fare uno sforzo che ti porta altrove, a collegarti altrove, a muoverti altrove. È un’operazione estremamente difficile. Questa dinamica, che è una dinamica contemporanea, vale su ciascuno di noi, su ogni singola persona e vale nel caso di un territorio, di una comunità locale, di una collettività. Possiamo ben capire, dall’esempio personale, che per gestire questo doppio movimento ci vogliono molte risorse: molte risorse culturali , molte risorse umane e molte risorse economiche. Possiamo anche capire che non è solo una dannazione, o una maledizione. Perché questa capacità di gestire lo stare e l’andare, il flusso e il luogo, in sé è una ricchezza. Ci consente di superare tutti i localismi. Ci consentirebbe di essere radicati , di stare da qualche parte ma nello stesso tempo di beneficiare di altri . Quindi siamo di fronte, mettiamola così, ad una opportunità. Non siamo solo di fronte a uno sfascio. Questo è utile dirlo. Il problema è che questa cosa avviene senza la nostra capacità di pensarla, prima di tutto, e senza riuscire a mettere in pista tutti quegli strumenti, tutte quelle risorse, tutte quelle condizioni, che rendono questa mediazione possibile e sensata e non, invece, insensata. Ho la sensazione che il tema della città oggi sia esattamente questo: dobbiamo cercare di lavorare domandandoci in che cosa consiste questo lavoro di mediazione. Come si fa a rendere possibile ancora un radicamento, ma un radicamento che sia capace di gestire un’apertura. E come sia possibile gestire un’apertura senza che questa sfasci i l radicamento. Questo lavoro di mediazione è un lavoro difficilissimo e credo che parlare di città oggi voglia dire ragionare su questo doppio movimento. Mi verrebbe da dire che questa città che è insieme invasa ed estroflessa, non è più in sé una polis. La polis greca da questo punto di vista era completamente diversa, nel senso che le proporzioni tra interno ed esterno, tra stare e andare, erano

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radicalmente differenti . Questa crisi della città come polis, l’avevamo già vista nel corso del tempo e avevamo in qualche modo spostato l’idea di polis al livello dello Stato nazionale, ma oggi facciamo fatica anche a collocarla lì l’idea di polis. E questo ha naturalmente tutta una serie di conseguenze, perché se la città non è più una polis si svuota, perde la sua anima. Si rischiano di perdere le ragioni dello stare insieme, come anche le condizioni strutturali che permettono di creare delle forme di convivenza umana sensate e non insensate. Perché dico questo? Perché da una parte i quartieri della città tendono ad essere mondi che non necessariamente sono integrati e collegati tra di loro. Questa cosa in Italia la si vede tendenzialmente bene solo a Milano, credo. Però se uno va a Milano e va in via Monte Napoleone e ha un minimo di sensibilità, di osservazione sociale, si accorge che lì (se ne accorge banalmente, dai prezzi dei beni esposti o dai prezzi delle abitazioni, o dal modo in cui le persone si vestono o dalle lingue che si parlano), è un luogo che sta a Milano a duecentocinquanta metri dal Duomo, in cui ci passano certamente anche dei milanesi, ma che ha una proiezione in tutta una serie di altri centri , che ha pochissimo a che fare con altre realtà che sono spazialmente vicine. Se uno va, invece, in un quartiere periferico si accorge, come dicono le persone che stanno in questi quartieri periferici, che vanno a Milano. Anche se sono dentro il Comune di Milano, hanno la percezione di essere in un altro luogo “Vado in città”, perché la loro vita è in quel quartiere lì e gli anziani, che ho nominato prima, che fanno anche fatica a muoversi, sono letteralmente in un altro mondo, rispetto a via Monte Napoleone. In un altro mondo. Qui ci sono problemi legati anche agli interessi, che poi sono le risorse economiche gli interessi e non sono di per sé una cosa brutta. Gli interessi di via Monte Napoleone sono interessi che viaggiano rispetto a collegamenti che vanno interpretati ma che comunque centrano pochissimo con gli interessi di coloro che stanno nel quartiere periferico di Milano. Tutto sommato c’è anche la possibilità di un totale disinteresse. Quello che noi stiamo vedendo oggi è che i processi di rispazializzazione tendono a spezzare i territori . I territori non si spezzano fisicamente perché fisicamente sono sempre lì , ma nel modo in cui la vita sociale si organizza si vede che i territori tendono a spezzarsi. Il quartiere che abbiamo considerato nel quadro della ricerca a Milano è molto interessante (la zona di Forlanini), perché in un raggio relativamente limitato voi ci trovate queste quattro componenti: una zona concentrata di case popolari, altamente problematiche, dove vivono fondamentalmente immigrati e anziani segregati (segregati nel senso che sono concentrati l ì) . Si attraversa la strada e c’è la parrocchia, col suo pezzettino di quartiere residenziale, con vita normale: si fa volontariato nelle case popolari, si creano i collegamenti, ma è più difficile percepire da dentro il ruolo della parrocchia. Poi c’è una zona, intorno a via Mecenate, in cui vecchi edifici industriali sono stati presi da studios televisivi i taliani e stranieri, fotografi, architetti , i quali sono entrati in queste aree, l i hanno completamente rammodernati. C’è gente che non c’entra assolutamente col territorio, neanche con Milano, che va e viene in questa zona e che si è fatta pub e bar e che non sa assolutamente niente né della zona residenziale parrocchiale, né della zona popolare. In più, di fianco, c’è un’altra zona, la famosa zona di Santa Giulia, che è oggetto di un mega investimento immobiliare che è un’altra cosa che va ancora per conto suo. Tutto questo in una porzione limitata di città. Non stiamo parlando di tutta Milano. La cosa drammatica è che lì , parlando col parroco, questo tendeva a dire: “Io non riesco neanche più a capire cos’è questo territorio. Non lo capisco

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più. Non è fatto di persone che abitano qui, lavorano, magari vanno via la sera e quindi possono dire che più o meno vivono qui. C’è un territorio impenetrabile”. In Italia fenomeni così sono molto limitati , però è interessante questa cosa che vediamo a Milano perché Milano è uno dei punti più avanzati . Questa osservazione su Milano mi permette di fare una considerazione relativamente all’Italia. Questi scenari che abbiamo disegnato, in Italia sono molto debolmente presenti, per cui rischierei di fare un discorso campato per aria se non facessi questa osservazione: l’Italia è molto debolmente esposta ai fenomeni di cui sto parlando. Ma questa cosa, in realtà, ci deve preoccupare e dobbiamo fare una riflessione relativamente allo scarso peso di questi fenomeni sull’Italia. Perché? Perché in realtà ci accorgiamo che l’Italia rischia di essere marginale a tutti questi fenomeni perché rischia di essere periferizzata lei. Noi sentiamo meno la drammaticità di alcune trasformazioni, che in altri luoghi si vedono con un’intensità impressionante, sia perché abbiamo tutta una storia che ci consente di essere molto più stabili rispetto ad altri territori, sia perché noi italiani siamo in una fase (il tema dello sviluppo e così via) di debolezza e siamo in una fase in cui abbiamo delle logiche che tendono a marginalizzarci, dal punto di vista economico, tecnologico e culturale. Ed è su questo punto che vorrei attirare la vostra attenzione, perché questo è legato al fatto che l’Italia rimane un contesto che si porta dietro secoli di storia, che hanno creato, a proposito di cit tà, un tessuto urbano straordinario, una rete di città che è una risorsa formidabile, in cui esistono straordinari depositi culturali . L’Italia è ancora un luogo in cui l’integrazione culturale è molto più forte di quello che vediamo in altri paesi, in cui il grado di disomogeneità sociale è ancora contenuto, in cui i l grado di disuguaglianza, peraltro crescente, è preoccupante ma non raggiunge i livelli che vediamo in altri paesi. Quindi l’Italia ha tutte le risorse di capitale culturale e di capitale sociale per cui sarebbe anche nelle condizioni, forse, di affrontare questo tempo come un punto di riferimento per altre realtà che non hanno queste risorse. Invece noi tendiamo a giocare queste risorse in una chiave di chiusura, in una sorta di dinamica localistica dove solo gli interessi locali, spesso del luogo o della città, che si richiamano all’identità intesa come un baule su cui mi siedo sopra e nessuno deve toccarlo perché è la mia identità. Voi capite che l’identità pensata così è un’identità patologica. Cioè, se io a vent’anni avessi detto: “Io sono Mauro Magatti , sono questa cosa, è la mia identità e nessuno mi deve più toccare perché io sono fatto così” a questo punto sarei in un manicomio perché sarei andato fuori di testa. Io sono Mauro Magatti non perché sono lo stesso di quando avevo vent’anni. Sono Mauro Magatti perché mi so raccontare e ho seguito una linea di vita tendenzialmente coerente, per cui ho la mia identità che è tale in quanto si trasforma. Le identità che vivono sono le identità che sono capaci di affrontare la storia e senza perdersi si riproducono. Spesso nelle nostre città noi vediamo invece una proposta di identità come esattamente una proposta di chiusura. Si sfascia tutto, allora chiudiamoci. Oppure ci sono degli interessi locali così forti , anche economici, che vogliono conservare quei sistemi di potere locali e non sono interessati nemmeno a fare quello sforzo, per cui dovremmo chiedere agli interessi di fare degli investimenti per il futuro, che comportano dei sacrifici. Nella dottrina sociale della Chiesa si dice peraltro che l’imprenditore, responsabile dei beni di cui dispone, è responsabile verso qualche collettività oltre che verso se stesso, e impegna le risorse per il suo

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futuro, della sua famiglia e della collettività in cui vive. Non è che semplicemente si fa gli affari suoi o semplicemente sfrutta quel tempo che ha a disposizione per conservarsi uno spazio di potere economico e cerca di mantenere quello spazio lì proteggendosi dagli altri . è un’attività che è possibile in un contesto economico come il nostro che ha un secolo e mezzo di sviluppo. L’Italia è in una fase in cui affronta questa fase storica dove i processi di trasformazione urbana sono molto intensi, con un patrimonio storico che gli fornisce tutta una serie di risorse e che ci consentirebbe di essere esploratori di equilibri più sensati . Perché è difficile che questa esplorazione avvenga laddove le risorse storiche sono zero o quasi. Ci consentirebbe di essere degli esploratori per riuscire a costruire quell’equilibrio tra apertura e chiusura di cui c’è bisogno, ma solo se noi siamo consapevoli di questa sfida, ce la giochiamo, e non ci facciamo prendere, invece, dalla logica, che mi sembra invece un po’ prevalente, che è quella della chiusura, della paura, che sia quella del dire che il mondo è grande e non ci arriviamo. In Italia, in un contesto come quello che ho disegnato prima, della modifica tra stanzialità e mobilità, invece non si muove nessuno. Ma abbiamo la Chiesa che è una rete mondiale. Prendiamo i ragazzi di quattordici anni figli di non so chi, portiamoli un mese in Argentina con i voli economici, l i facciamo dormire in un oratorio dell’Argentina, per terra naturalmente, e poi l i riportiamo a casa. Facciamogli fare esperienza nel mondo. La Chiesa è una rete mondiale. È una risorsa incredibile da questo punto di vista. Intendo dire che abbiamo delle risorse che forse dovremmo valorizzare di più. Mettendo in condizione la nostra gente, anche coloro che non possono farlo perché studiano, fanno l’università, i l dottorato e vanno a studiare chissà dove, di fare questa esperienza dell’apertura, in modo tale che poi, quando saranno radicati in un territorio, non si sentano inferiori, non si facciano deportare dai tour operator che li deportano in questi luoghi allucinanti dei villaggi vacanze e così via. I processi storici sono molto complessi, ci sono molte inerzie, molte resistenze, molti aggiustamenti. Per cui lo scenario che ho fatto è uno scenario che ci consente di capire il senso di fondo delle trasformazioni in atto, poi però bisogna essere cauti nel tirare le conseguenze. Vorrei concentrarmi adesso su questo tema della mediazione. Mi sembra che parlare della città oggi e parlare della politica della città oggi, sia parlare di questa mediazione tra il locale e il globale, banalmente, tra l’apertura e la chiusura, tra la riproduzione dell’identità e la capacità di gestire una complessità crescente. Questa mediazione, ho parlato prima del territorio come nuova fabbrica, nel senso di essere il luogo in cui questa mediazione avviene e dove si incontrano le vite delle persone con i processi macro che si producono in quest’epoca. Guardiamo un attimo i termini di questa mediazione: prima di tutto i soggetti . Chi sono i soggetti di questa mediazione e come si organizzano questi soggetti che possono tentare di mettere in piedi questi livelli di mediazione? Nella fabbrica lo schema era abbastanza chiaro: c’era il proprietario, c’erano i dipendenti, si è creata una dinamica che per alcuni era la lotta di classe, per altri era qualcosa di meno drammatico e di meno radicale, però la logica era abbastanza chiara. Se voi prendete il territorio, i soggetti quali sono e che partita giocano? E quali sono gli interessi che si difendono e quali sono i soggetti che possono giocare una partita positiva per lo sviluppo della città? Qui la cosa è un po’ complicata. Sto dicendo che non è ben chiaro chi sono i soggetti che possono avere a cuore il futuro della città e neanche le tensioni che possono essere positive. Perché da una parte c’è quella parte di popolazione che è tutta radicata sul territorio, penso agli anziani

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per esempio, o al negoziante che ha il bar qua e quindi è interessato al fatto che la sua strada sia sicura e pulita, il resto del mondo sono discorsi da sociologi e quindi non interessano. Ci sono, chiaramente, degli interessi locali che sono importanti perché il locale è uno degli spazi in cui viviamo. Però questi interessi sono facilmente attirati in questa trappola del localismo. Un’altra osservazione che vorrei fare a questo proposito è che tutti coloro che hanno risorse, culturali piuttosto che economiche, hanno sovente quella che si chiama la possibilità di exit , cioè di dire: “Io ci provo, se però non mi ascoltate e non mi date retta, vi saluto e vado da un’altra parte. Non è che io posso crepare qui con voi”. Quindi le parti che potrebbero essere più progressive e che magari tendono a creare innovazione nel tessuto locale, per altre ragioni hanno questa possibilità di exit, di uscita, e questo pesa. Questo vuol dire che i territori locali rischiano di essere poco stimolati, di non capire nemmeno quali sono le sfide. Spesso, poi, i soggetti che operano dentro il territorio, tendono a generare quella che potremmo chiamare la guerra tra poveri , che è il rapporto che spesso si crea tra i residenti e gli immigrati. È una guerra tra poveri, nel senso che lì l’idea dell’evoluzione, della crescita e della trasformazione non c’è, mentre invece c’è il fatto che ci si l i t iga, come quando eravamo all’oratorio su “chi deve prendersi il gelato” (scusate l’esempio). Fondamentalmente si dice: “siamo qui, io ho il mio interesse, tu sei diverso da me, mi dai fastidio” quindi va finire che nascono delle tensioni, che però sono tensioni che difficilmente hanno dentro una progressività, che possa contribuire a far trasformare la città. Quello che sto dicendo è che i soggetti sono carenti e noi dovremmo invece ragionare su quali sono i soggetti sociali capaci di essere protagonisti positivi di questo ruolo di mediazione. Un secondo punto su cui vorrei concentrare l’attenzione è quello delle condizioni istituzionali dentro cui le decisioni possono essere prese o dentro cui possono essere realizzati i percorsi. L’osservazione che dobbiamo fare è che gli assetti istituzionali, i l funzionamento delle regole, non è ancora appropriato per far sì che i territori possano essere all’altezza di gestire questa mediazione tra locale e globale. Abbiamo fatto, anche in Italia, alcune riforme che hanno sicuramente colto questa trasformazione, per cui si è andati nella direzione di favorire una maggiore capacità decisionale sul piano locale. Ma non basta, per almeno due ragioni. La prima è che dobbiamo stare attenti al fatto che ci sono territori che sono prigionieri di monopoli locali, che diventano un problema stesso per la località che deve evolvere e ne abbiamo molti esempi in giro per l’Italia. La solita obiezione giusta di chi dice: ognuno fa da sé. È una cosa sacrosanta. Però se abbiamo una qualche parentela, se ognuno fa da sé poi chi ha meno risorse rischia di essere intrappolato nelle sue poche risorse. L’altra difficoltà istituzionale è che non abbiamo ancora trovato un punto di mediazione tra il localismo, il dare enfasi al locale, e il fatto che però abbiamo bisogno di connessioni orizzontali . Per cui se dobbiamo fare un’autostrada e il Comune, che ha il Sindaco ipersensibile o che tiene alla sua rielezione e dice che di lì non si passa, non si fa un’intera infrastruttura. Questo non ci deve scandalizzare: nel senso che può essere anche un’attenzione che serve per arrivare ad una decisione migliore. Non è che il Sindaco necessariamente ha torto. Magari ha ragione perché l’ingegnere dell’Anas che non è mai stato sul territorio, non ha capito che lì crea davvero un problema. Non sto dicendo che il Sindaco sbaglia: sto dicendo che, però, dobbiamo trovare delle compensazioni e dei luoghi in cui il locale sia

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collegato ad altri locali, altrimenti facciamo un pasticcio. E su questo tema mi sembra che arranchiamo ancora. Voglio dire – ed è il secondo punto - che gli assetti istituzionali non ci aiutiamo ad affrontare questa mediazione tra apertura e chiusura. Quindi abbiamo una grave arretratezza istituzionale, che abbiamo gestito malamente negli ultimi trent’anni, ponendo delle questioni come la secessione, il centralismo, quindi ponendo, come tendiamo sempre a fare noi italiani, le contrapposizioni ideologiche radicali , che non servono a niente, evitando invece di andare a costruire delle architetture istituzionali che non sono di destra o di sinistra, ma sono di sensatezza rispetto al quadro storico che stiamo vivendo. Poi ovviamente ci possono essere delle accentuazioni da una parte o dall’altra. La terza considerazione a proposito di questa mediazione dei caratteri riguarda le ragioni e le motivazioni che devono sostenere questa mediazione. Cioè le ragioni della città oggi. L’anima della città. Se non è più una polis in sé (dobbiamo ripensare a questa polis), quali sono le culture, i valori, le buone ragioni che ci possono portare a fare un discorso sulla città oggi. A me sembra che da una parte c’è il pluralismo delirante di chi dice che è tutto un frammento e che cinquantaquattro culture possono vivere su un territorio, perché tanto non c’è problema, perché ognuno ha la sua cultura e poi si troverà un luogo di mediazione. Ci sono, dal punto di vista antropologico, delle idee dell’umano che, secondo me, sono veramente campate per aria, in cui si nega il valore della cultura. Gli esseri umani sono tali perché sono esseri culturali . Siamo esseri culturali e poi noi possiamo giocare la nostra culturalità in una trasformazione oppure chiudendoci, ma siamo tali solo se sappiamo dire il sopra e il sotto e il destra e sinistra di ogni cosa, sennò siamo completamente dispersi. Dall’altra parte, l’altra patologia, l’altro racconto grottesco, è il racconto identitario della chiusura. La città come cittadella che deve essere difesa da questo mondo che rompe tutto e che sfascia tutto. Il discorso della città oggi è i l discorso di chi riconosce il valore della cultura, dove la cultura è fatta di pratiche prima di tutto. I pensieri e i valori o diventano azione concreta, oppure sono declamazioni. Permettetemi questa osservazione: i valori sono qualcosa che naturalmente noi riconosciamo come fondamentale e che quindi ci consentono di dare valore alle cose, ma per essere effettivi, questi valori devono avere la forza e devono tradursi in pratiche di vita, per cui le persone dentro la loro vita sono capaci di riscontrare che quel valore è dotato di senso. Lo sperimentano. I moralismi si producono quando uno declama un valore che sta lì a mezz’altezza, senza fare tutto questo lavoro di mediazione che lo porta alla realtà della vita delle persone. Facciamo l’esempio della famiglia: la famiglia è un valore, ma è e continuerà ad esserlo se facciamo scoprire alle persone che la loro vita è infinitamente più bella perché stanno riuscendo a costruire, a mantenere insieme e a far vivere una famiglia, cosa che non è alquanto semplice, facendogli scoprire la positività della loro esperienza e scoprendo che c’è molta più famiglia di quella che alcuni immaginano. In un contesto che fa di tutto per sgangherarla c’è una quantità di famiglie enorme, perché le persone alla fine si accorgono che questa cosa è molto importante, ma il valore ha sempre bisogno di concretizzarsi.

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Il tema dei valori della città oggi è il tema di questa mediazione tra apertura e chiusura. Questo è il valore. Perché è un valore? Perché ci fa uomini e donne dentro una cultura, capaci di vivere questo tempo e di essere persone, uomini, culture che accettano un cambiamento. Non perché perderanno la loro identità, ma perché la loro identità potrà continuare ad esistere. Non è che devo definirmi tutti i giorni cristiano o cattolico. Non ho quest’ansia. Cioè non ho bisogno di dire: “Sono un sociologo cattolico”. Il mio problema prima di tutto è cercare di mettere dentro a una disciplina, che ha una sua autonomia, tutta quella radice da cui io mi ispiro. Sennò se vengo qui a farvi il breviario della dottrina sociale della Chiesa è utile sì, però il mio piccolo contributo personale in questo momento è che faccio, in questo caso, una mediazione. Uso un linguaggio che è di una disciplina e uso la letteratura internazionale, mettendoci dentro una interpretazione che è radicata da qualche parte. La stessa cosa vale per la vita della città oggi: cioè la capacità di trovare in questa creazione di una mediazione tra apertura e chiusura il luogo di un’identità che si rinnova. I temi sono della difesa della vita, della persona, della famiglia. Questa mediazione ha dei soggetti che non sono ben identificati, una debolezza istituzionale e una debolezza nell’elaborazione culturale. Quindi dobbiamo lavorarci. Dobbiamo lavorare di più per approfondire questa mediazione: che soggetti deve avere, chi la può gestire, chi la può sostenere, quali sono le riforme istituzionali che renderanno possibile questa mediazione, qual è l’elaborazione culturale e quali sono i comportamenti che possiamo anche assumere e che rendono possibile questa mediazione in positivo e non in negativo. Vado verso la conclusione offrendo alcune piste, delle aperture anche un po’ più costruttive. Sono cinque punti. Il primo punto è questo: siamo in un tempo nel quale, a me sembra, questo discorso della mediazione tra apertura e chiusura (che per me è fondamentale) ha bisogno del tema della narrazione, cioè abbiamo bisogno dei discorsi. In questo gioco tra apertura e chiusura, tra mobilità e stanzialità, per trovare un equilibrio, sono molto importanti i discorsi pubblici. Le parole sono pietre in molti casi. Dobbiamo stare attenti alle parole che circolano in una città e dobbiamo stare attenti alle parole che noi mettiamo in circolo nella città, al racconto dei fatti , alla rilettura di quello che succede. Perché il racconto, la narrazione è proprio una ricucitura che noi facciamo. È lo strumento che noi abbiamo per tenere insieme. D’altra parte il simbolo è questo: la parola simbolo significa esattamente tenere insieme, ricomporre. Tanto è vero, qualcuno me lo ha già visto fare questo esempio, che questa, che è una fede nuziale, è un pezzo di metallo, pur pregiato, che simbolicamente mi ricorda una fedeltà perché mi riunisce pur, come in questo caso, essendo lontano. Allora è la memoria che mi consente di rimanere unito. Questo è il simbolo. E il simbolo ha questo potere, che tra l’altro nella radice è il contrario di diavolo, che è esattamente il divisore; il simbolo, il potere simbolico è un potere di ricomposizione. Il discorso nella città è importante. Oggi la città ha bisogno di discorsi. Non di generici discorsi irenici, “vogliamoci bene”, che non servono assolutamente a niente. Ma di fare lo sforzo di dare luogo alla narrazione della città: i suoi soggetti , le sue fatiche, il percorso che si sta facendo, all’elaborazione culturale collettiva. Io abito a Como. Per ragioni professionali tendo a non leggere il giornale, perché sennò non capisco più niente. Quando vado

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alla stazione vedo queste locandine della provincia di Como che mi fanno angosciare, perché (proprio su questo tema dell’apertura e chiusura) ci sono fatti globali e loro ti trovano sempre l’idiozia locale che li collega al globale. “L’Italia vince, sul Lario festa nella notte”. Ma chi se ne frega! C’è proprio un deficit culturale del capire che il problema non è: “io sono importante perché trovo una stupidata che ti consente di fare la connessione diretta tra te e il fatto globale”. Non è questa l’apertura e la chiusura di cui stiamo parlando. C’è proprio un deficit culturale. I giornalisti hanno delle grandi responsabilità nel raccontare una città, nel farla vivere, nell’aiutarla a capire le diverse posizioni, le fatiche, le sofferenze, le speranze, i progetti . Questo è gestire un locale-globale, non dire “Cloneey ha bevuto il caffè nel bar di piazza Volta”. Ma chi se ne frega! Non è che noi siamo più locali , siamo solo più imbecilli . Naturalmente adesso sto radicalizzando, però questo tema della narrazione e del discorso pubblico sulla città è importante. Se non c’è discorso pubblico locale non c’è niente. Questo vale nella famiglia. Se la famiglia non ha il tempo per trovare il momento di ricreare questo discorso, la famiglia non c’è più, si scioglie. Letteralmente. Perché se tu non hai i tempi, i modi e i luoghi per rimettere insieme, attraverso la parola, le tante esperienze che i membri della famiglia fanno, la famiglia è destinata a sfasciarsi. Perché sei proprio dentro una tensione che ti si disfa. Questo vale dappertutto e vale per una città. Se la città non crea dei luoghi in cui fa circolare le idee, fa i racconti di sé, è destinata a frammentarsi . Naturalmente questo tema della narrazione ha a che fare con tutto il tema dell’uso della tradizione, della storia, che è molto prezioso, e che va fatto giocare in chiave positiva e non in chiave negativa. Secondo punto: la questione del valorizzare e nella città si può, è un livello giusto, adeguato, le tante risorse micro che ci sono. Le tante risorse umane, le tante risorse di relazione che ad altri l ivelli non si possono vedere. La vitalità del quartiere, la capacità delle famiglie di aiutarsi , le piccole solidarietà dentro la parrocchia, l’associazione che opera sul territorio. Tutti questi luoghi di socialità spontanea che sono una grande risorsa. Non è che non lo sono. Perché quelle cose lì non vengono fuori dalla luna: vengono fuori da una storia e vengono fuori dalla nostra umanità, perché sennò poi non si capiscono tante cose che poi spuntano. Vengono fuori dal fatto che noi siamo umani e abbiamo certe capacità e certe attitudini. Allora riuscire a dar peso a questi luoghi, che sono luoghi creativi. Intendo dire che sono luoghi che ci servono anche per fare le riforme istituzionali, per creare gli appoggi per fare le trasformazioni delle istituzioni. Non disprezziamoli. Il tema della sussidiarietà è questo: non è pensare che queste cose qui sostituiscono le istituzioni. Ma è capire, invece, che quello è un luogo creativo da cui le istituzioni possono imparare e possono trasformarsi dall’interno. Perché anche utilizzando queste risorse diffuse, cioè il fatto che tanti uomini e donne, dispersi da qualche parte, vedono dei problemi, si mettono insieme e cominciano ad affrontarli è una risorsa. E anche utilizzando questo tipo di risorse copriremo questo deficit di isti tuzioni che abbiamo. Poi ci sarà anche il grande architetto istituzionale, il grande politico che metterà a posto, ma occorre anche saper util izzare queste risorse diffuse. Terzo punto: io credo che sia molto importante, in questo processo di rispazializzazione contemporanea, dove le città sono invase ed estroflesse insieme e così via, io credo che abbia molta importanza giocare dei grandi progetti . Non

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sto pensando solo alle colombiadi di Genova o ai giochi invernali di Torino, quelli sono degli esempi molto classici. Perché l’idea di progetto è un’idea molto contemporanea, che ha i suoi pericoli, come il mio amico Voltanskii insegna. Però Voltanskii, che è questo autore francese, coglie molto bene in queste idee di progetto uno degli elementi caratteristici di tutta la contemporaneità: nella vita personale, delle imprese e nella vita del territorio. Perché il progetto ha questa forza temporanea di stimolare un mettersi insieme e di riattivare delle risorse che altrimenti, nella quotidianità, così indefinita, noi facciamo una gran fatica a generare. Le trasformazioni urbane, oggi, sono spesso associate alla capacità di avviare dei progetti , che possono essere tante cose. Per esempio nelle nostre Chiese un sinodo può essere un progetto, se viene gestito in una certa maniera: un progetto che attiva delle risorse e produce una mobilitazione, che è capace di fare un passo in avanti. Questo tema è importante perché il progetto, oggi, lega insieme lo spazio e il tempo. Ed è una risorsa preziosa. Naturalmente non è che possiamo sfornare progetti a tutto spiano, perché sennò, chiaramente, la moneta si svaluta subito, però questo tema del progetto io lo trovo molto significativo e molto importante. Quarto punto: ritornare a lavorare, a proporre, ad agire quello che qualcuno ha definito il mito della solidarietà . Dobbiamo lavorare sulle eccellenze, ma dobbiamo lavorare anche sulle cose, perché questo tema dell’apertura e chiusura è esattamente come dire: immaginate un pezzo di stoffa, se voi lo tirate e le nostre città, i nostri luoghi sono in una dinamica del genere, sono tirati . allora la cosa più probabile è che il tessuto tirato si spezzi, anche se è molto forte, comunque tende a spezzarsi. Sentiamo molti discorsi che sono rivolti o alle eccellenze o altri discorsi che sono rivolti alle code, a quelli che rimangono indietro. I due discorsi non si possono separare. Il tessuto è tessuto se fa insieme il discorso delle eccellenze e ricorda alle eccellenze che da sole si schiantano, perché alla fine crei un deserto, crei una giungla e non c’è eccellenza che può vivere senza un contesto sociale o umano. Dall’altra parte non bisogna mai separare il tema dell’importanza delle cose , dalla consapevolezza che le cose non vanno semplicemente assistite, ma c’è questo problema di accompagnamento in un percorso. Siamo in un esodo. Non è che siamo lì fermi. Il mito della solidarietà è importante. Capire che si correrà un po’ di meno, ma abbiamo anche la consapevolezza che questo passo, un po’ più lento, è un passo innanzitutto umano, è un passo che decidiamo di scegliere, perché non vogliamo stare fermi ma vogliamo muoverci, ma vogliamo muoverci in una certa prospettiva, perché alla fine quella è la prospettiva vincente. È l’unica prospettiva vincente per l’umano, perché gli esseri umani si differenziano dalle altre specie animali anche perché (tra tante ragioni) l’uomo ferito non viene abbandonato. Ma al compagno con la gamba rotta gli mettiamo il pezzo di legno, ce lo portiamo in barella perché alla fine guarirà e tornerà ad essere uno di noi. Se è anziano ci accudirà i bambini o ci insegnerà le cose che dobbiamo ancora imparare o qualunque altra cosa. Gli esseri umani hanno fatto di questo una forza. Non è una debolezza questa, ma è la forza dell’umano. Una delle forze dell’umano. Ultimo punto, che è un po’ simile a questo: lavoro sulle infrastrutture, perché questa gestione dell’apertura e chiusura ha bisogno di infrastrutture adeguate: i computer, le tecnologie, le strade, gli aeroporti. Ma nessuna infrastruttura servirà se insieme non lavoriamo sulle persone. E qui abbiamo un ritardo pazzesco.

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Dobbiamo tornare a lavorare sulle persone. A investire su di esse. È l’unico investimento sensato. Uno dei problemi dell’Italia è questo. Lo continuiamo a ripetere, ma ora basta: dobbiamo investire sulle persone. Ho fatto una ricerca sui cosiddetti nuovi ceti popolari. Do questo dato perché anche quando l’ho scoperto io, faccio il sociologo e quindi avrei dovuto saperlo, mi sono stupito. Tra i venti e i cinquant’anni, in Italia, la quota di popolazione che non ha il t i tolo di studio di scuola superiore, che cioè non arriva al diploma, è il 54%. È una cosa che non può esistere. Abbiamo accumulato un ritardo incredibile. Significa che è un’emergenza nazionale. Ma una persona di ventidue anni, cosa può fare tra vent’anni? Come lo rendiamo un cittadino? Come lo renderemo minimamente consapevole di quello che gli gira intorno? Ci rendiamo conto del mondo in cui viviamo? Cento anni fa chi ha pensato di rendere obbligatoria la scuola quando c’era il 3-5-8% di persone che sapevano leggere e scrivere, qualcuno avrà cominciato a dirlo e gli avranno detto: “è un sogno. Chissà quando mai arriveremo a creare le scuole nel paese di campagna o su in cima alla montagna?” Ce l’abbiamo fatta invece. Ce l’abbiamo fatta, perché si è deciso che quella era una cosa importante e si sono messe le risorse su quella cosa lì . Questo vuol dire anche, banalmente, che naturalmente i soldi non devono essere sprecati, però le risorse devono andare lì piuttosto che in altre cose. È molto semplice. Le risorse invece di andare in altri t ipi di spese devono andare lì . Lo volete fare attraverso le tasse, attraverso gli incentivi, attraverso le donazioni: fatelo come volete, ma le risorse devono andare lì piuttosto che in altre spese. Come bisogna fare in una famiglia. Questo tema dell’investire sulle persone per vivere in un mondo così è importante. Dobbiamo mettere più risorse sul tema dell’educazione. Più risorse. Chiudo e mi scuso se sono stato molto lungo. L’ultima cosa che dico è che davvero credo, da sociologo, che la questione sia prima di tutto antropologica. È prima di tutto antropologica l’idea di persona, che fa problema. Poi tutto il resto viene dopo. Non so se un giorno, anche perché i neo in genere non funzionano, ci sarà un neo personalismo o qualunque altra cosa, ma comunque credo davvero che una riflessione antropologica adeguata alla contemporaneità sia necessaria: sia sul fronte della vita, dove si aprono scenari in prospettiva di lungo termine impressionanti, sia però anche su questo fronte. Il sociale, oggi, non è più semplicemente una composizione. Il sociale, oggi, rimette esso stesso in questione l’umanità. Non è che faccio un rilancio pazzesco. Lavorare nella città, impegnarsi nella città, l imitatamente, con delle cose che durano un anno, dentro l’amministrazione piuttosto che in un’associazione, però è importante perché questa riflessione antropologica, la farà qualche filosofo o qualche teologo, ma poi la facciamo noi nella misura in cui la genereremo nella nostra umanità concreta. La città è il laboratorio in cui si può fare questa cosa. Non ne vedo altri . è quello più vero, più efficace, più centrale. Mi piace che questo seminario sia dedicato al tema della città, come avrete capito io do una lettura di questi fenomeni un po’ ampia e credo che in questo quadro anche il tema della politica debba radicarsi in questioni concrete. Credo che il tema della politica oggi sia un tema molto più ampio e che, forse, allargandolo possiamo stimolare la partecipazione di tanti in più rispetto ai pochi che oggi sentono la politica come qualcosa di significativo.

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di Luigi Fusco Girard Ho letto questa introduzione e ho trovato una forte assonanza con i miei interessi e ho aderito, con entusiasmo, alla richiesta di Paola Bignardi. Ho interpretato così questa riflessione: come costruire una speranza nella città di oggi, illuminati dallo spirito. Cioè come costruire il futuro in queste nostre città dove, ormai, vive la gente. Che sia un futuro non a misura di impresa, auto, parchi, ecologia, ma a misura di persona. In questo straordinario momento di cambiamento, che è una cosa incredibile che si sta realizzando, in questa città che è il luogo del massimo cambiamento, della massima accelerazione, dove i ritmi sono più accelerati di quanto si può immaginare e quanto più è possibile. E in questa corsa, come essere presenti da cristiani? Da associazioni? Non tradendo le radici, ma essendo presenti concretamente. Ho cercato di esprimere la mia tesi innanzitutto sul piano culturale, cercando di introdurre una pausa in questa folle corsa, introducendo quanto più tempo possibile e quanto più futuro possibile: è il nostro modo di pensare, di vedere e di agire. Perché da cristiani dobbiamo sempre ricordare che i nostri tempi sono assonanti a quelli della Creazione, che vede un momento di interruzione nel processo creativo. C’è una sfasatura straordinaria che si sta, invece, riscontrando tra i tempi della città, che sono i tempi dell’economia, i tempi del qui e ora, i tempi dell’istante e i tempi ecologici, che sono i tempi della Creazione: i tempi del sole che gira, della terra che gira, della luna. In sostanza i tempi ecologici. Una traccia di risposta mi veniva sollecitata leggendo questa introduzione da quella che La Pira definiva come lo spirito e l’anima di una città. Cercherò di mantenere, per quanto più possibile, questa traccia, cercando di inserirla in quella che è oggi la tesi . Una città costruisce il futuro nella misura in cui è capace di ricreare il suo ruolo. Nella misura in cui riesce ad essere una città creativa. Qualche giorno fa sono stato a Vancouver, al forum mondiale delle Nazioni Unite, proprio sulle città. C’erano tre tematiche: la tematica fondamentale era la tematica delle povertà. La tematica della povertà significa la tematica delle abitazioni a chi non si può permettere un’abitazione decente. La tematica della povertà richiama la tematica del finanziamento, le risorse, dove reperirle. Una terza tematica è la tematica della governance , cioè della partecipazione, della costruzione partecipata di una visione strategica non a dieci anni, non a vent’anni, ma a cento anni. È già, perché il progetto impegnativo si sviluppa in un tempo non medio, ma medio-lungo e questo significa andare contro i tempi del qui ed ora, dell’economia che si finanzializza e che valuta solo quelle che c’è da qui a qualche settimana, a qualche mese, forse all’anno al massimo. La tematica dello sviluppo umano delle nostre città in sostanza è quella che cercherò di mettere a fuoco. Anticipo una mia tesi: questo futuro umano dipende da tre condizioni fondamentali . C’è un futuro umano per la città innanzitutto se la città è in grado di catturare questo capitale globale così mobile. Questo è un discorso indispensabile che ci

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dobbiamo porre, sennò facciamo astrazioni interessantissime ma poco efficaci. La domanda è: questo capitale globale così mobile, che tende a localizzarsi qui invece che lì , come acchiapparlo, come essere attraenti, capitale globale poi significa investimenti esogeni, ma anche forza lavoro specializzata, senza diventare una città come Shangai, o come San Paolo in Brasile. Cos’è San Paolo in Brasile? È un buon esempio: 7% della popolazione del Brasile, 37% di contributo al PIL del Brasile. Una città che ha saputo introdurre tutte le innovazioni possibili e immaginabili, che attrae capitale. Qual è il costo di questa produzione in ricchezza economica? Il costo è molto elevato in termini ecologici e ambientali e in termini di capitale culturale. Cioè in altri termini ci si arricchisce e nello stesso tempo, il paradosso, si diventa più poveri sotto un aspetto di capitale culturale e di capitale ambientale. Allora la domanda diventa: ma è vero sviluppo questo? È chiaro che se parliamo di sviluppo umano non parliamo di uno sviluppo che mette a fuoco solo una dimensione, quella economica, tendendo a sotto dimensionare le altre dimensioni che sono, invece, fondamentali per la qualità della vita che si svolge. Shangai era più efficace ancora, ma qual è la caratteristica di queste esperienze? Possiamo vedere la successiva. Contrapposta a quella confusione, che è San Paolo, noi abbiamo la Benita Paulista, un asse stradale, che è fatto per accelerare i ri tmi richiesti dall’economia. Diventa un corridoio in cui si corre, si corre, si corre senza incontrarsi mai. E perché? Perché l’incontro avviene in questi luoghi che poi sono i luoghi del potere finanziario, del potere dove si produce ricchezza e si è collegati in questo flusso mondiale. San Paolo, in sostanza, sta diventando una città mondiale, ma certamente non è questa l’immagine dell’ordine che descrive e che identifica una città a misura di persona, come è scritto in questo documento introduttivo. Direi che è l’antitesi. Però il paradosso è questo: molte città stanno sviluppando questo aspetto di produzione di ricchezza economica e finanziaria e si stanno impoverendo sotto il profilo del capitale umano, sociale ed ambientale. Noi dovremmo cercare di fare un’analisi, cercando di mostrare quanto costa questo tipo di sviluppo. Una seconda precondizione per costruire un futuro umano, sostenibile dalle nostre città, dipende dal rapporto tra la città, che è il luogo di produzione della ricchezza economica di un Paese, di una regione e l’economia dell’Italia, l’economia della Svezia: l’economia di tutti i paesi è l’economia delle sue città. Non c’è niente da fare. C’è una politica delle città che va messa a fuoco con chiarezza e che non c’è. Questi sono i punti nei quali si produce la ricchezza. Il problema è che queste benedette città, che occupano il 2% del territorio disponibile, inquinano per il 70% (ci dicono le Nazioni Unite), quindi capite che c’è un problema ecologico, un problema di rapporto tra la città e il suo eco-sistema. Ed è un problema da affrontare, perché i più grandi responsabili del cambiamento climatico sono le città, luoghi che sembrano fatti apposta per consumare il massimo possibile e immaginabile di energia e di petrolio. Allora voi capite che il nodo delle città è il nodo ecologico, richiama il nodo energetico, richiama il nodo del cambiamento climatico. È stato interessantissimo, andando a Vancouver, ho dovuto sorvolare la Groenlandia ed è spettacolare questa distesa di ghiacciai che si stanno sciogliendo. È uno spettacolo che qualche anno fa non era visibile. La stabilità del clima, che ritengo sia il più importante obiettivo strategico di tutti i nostri progetti , a qualunque scala architettonica, urbana e territoriale. Poi viene la tutela del

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paesaggio. Ma che tutela del paesaggio riusciremo a fare se il ciclo dell’acqua, il ciclo idrico delle regioni si modifica, una diventa desertificata e una no, stiamo scherzando? La stabili tà del clima è l’obiettivo strategico più importante rispetto al quale misurarci. Le città avranno un futuro nella misura in cui riusciranno, già da oggi, a porre i passi per una transizione verso l’epoca del post petrolio, che è l’epoca del CO2, che sarà l’epoca, in sostanza, della riduzione. E guardate che queste si stanno facendo, perché molte città (800 città in Giappone) si stanno muovendo in questa prospettiva. Anche 317 città statunitensi si stanno muovendo in questa direzione, malgrado la politica di Bush. Per non parlare di Vaxio in Svezia, per non parlare di Friburgo. Il nostro Paese è silente nei confronti di questa cosa. Qualche anno fa stavo a Rekiavik, con un collega che è stato il promotore di quella politica energetica dell’Islanda, di affrancamento dal petrolio e mi fatto vedere come trasformavano dal geotermico, attraverso la fotosintesi, l’idrogeno e come usavano la prima società all’idrogeno. Poi mi guarda e mi chiede: “Luigi, ma perché il tuo Paese è fuori?” io rispondo: “Ci saranno delle ragioni. Forse la tecnologia?” E lui dice: “No, il geotermico ve lo siete inventato voi. Lardarello è vostro. Voi avete una serie potenziale di elementi e avete una serie di ricerche che, per ragioni totalmente estranee alla ricerca scientifica ma per altre scelte (voleva dire politiche), hanno portato il vostro paese ad essere fuori”. Questo che cosa determina? Determina che mentre Friburgo, mentre Basilea, o altre città, hanno reagito all’ipotesi di nuclearizzazione, identificando un’altra strategia che si chiama la strategia della città solare, che ha dato luogo a una filiera nuova di attività, di posti di lavoro, in cui si rende compatibile la tutela ecologica con lo sviluppo economico, con il problema sociale dell’occupazione. Nel nostro Paese, io vengo da Napoli dove c’è tanto sole, gli stabilimenti balneari che stanno a Varcaturo hanno realizzato decine e decine di metri quadrati di celle fotovoltaiche, ma l’ENEL da otto mesi non gli fa l’allacciamento nonostante le normative. Dunque il rapporto tra città ed ecosistema è davvero centrale. Il terzo nodo è collegato con quello che io definisco il rapporto tra l’anima della città, lo spirito della città e le tecnologie. Questo è un grosso nodo. Ci sono i luoghi storici, luoghi della tradizione, i centri storici, una qualunque città. Per esempio a Coimbra, in Portogallo, la città universitaria per eccellenza. Sono i luoghi che, molto spesso, rappresentano lo spirito di una città. Queste grandi piazze in cui troviamo le funzioni tradizionali e la cultura, le funzioni civili , le funzioni del mercato come anche la funzione religiosa. Le quattro funzioni fondamentali che determinano l’umanità di questi spazi. Poi contrapposta troviamo questa tesi: le città di fronte alla crisi economica si inventano un nuovo ruolo e grazie alla tecnologia riescono a fare questi capolavori, come a Bilbao, il Guggenheim Museum. Il primo anno, l’inaugurazione del Museo, ha determinato un milione e trecentomila visitatori a Bilbao: che è ricchezza economica. Poi bisogna vedere al netto e la bolletta energetica, perché voi capite che ogni cosa ha un suo costo e anche qui si tende a sovradimensionare il problema tralasciando questa questione per quelli che verranno dopo. Un museo straordinario anche dal punto di vista architettonico, perché rompe il tradizionale angolo retto. La terra e i pilastri verticali. Tutto si muove, perché la nostra società è una società mobile, è una società i cui i ritmi sono accelerati , l’architettura si muove e produce simboli che esprimono e valorizzano il movimento. I danzatori: lei con la gonna e lui, più robusto che controlla e che governa. Anche qui c’è un’enfasi sul futuro costruibile, sulla tecnologia che attrae,

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che attira, che determina interesse. Vediamo un’altra immagine. Qui l’anno scorso è stato inaugurato questo grattacielo: sono 199 metri, a Malmo. Il grattacielo è straordinario: dal punto di vista tecnologico è una cosa straordinaria, è un grattacielo che si torce su se stesso, è una torsione. Ma non è soltanto torsione: le pareti non sono verticali, sono oblique. È spettacolare questa cosa. È il trionfo della tecnologia. Ma la domanda è: che rapporto c’è con la vita della città? Perché se non troviamo un rapporto tra queste forme straordinarie di creatività umana, che è collegata alla tecnologia, con la vita reale, con la vita nei luoghi, con l’incontro della gente e delle persone, non dei turisti , non della vita che si riduce al commercio dello scambio mercantile, ma la vita reale che è relazionalità. Che città è questa? Se non si trova un rapporto con lo spirito di una città, quello spirito che ci ha consegnato la piazza tradizionale. E questo trionfo delle città che si stanno inventando nuovi simboli: Malmo si presenta così sul mercato del marketing internazionale, così come si presenta Bilbao. Praga no. Praga non si presenta così perché può vendere ancora meglio sul mercato. Ora capite che questi sono problemi, il rapporto tra la tecnologia e la vita reale, che determinano il t ipo di futuro che una città riesce a costruire. La mia risposta è che se vogliamo partecipare alla costruzione di questo futuro allora dovremmo enfatizzare. Parlando in termini economici (io insegno anche questa disciplina che si chiama economia urbana), c’è un’economia dei luoghi, un’economia legata con questi simboli, con la creatività dei monumenti espressa dal patrimonio culturale. C’è un’economia della cultura che è un’economia dei luoghi, che dovremmo mettere in rapporto con l’economia dei flussi, quell’economia di San Paolo, quei flussi globali , quei flussi mobili , che rappresentano il grado di interdipendenza tra una città e l’altra e quindi la sua forza, la sua capacità di attrarre. Quindi l’economia dei luoghi in rapporto all’economia dei flussi, che è l’economia che oggi si chiama della creatività perché è collegata con l’innovazione continua, con (il terzo elemento del treppiede) l’economia civile, che è l’economia dello scambio, non necessariamente monetizzato. Ma è l’economia dello scambio che va oltre il mercato, quello che Stefano Zamagni e altri hanno messo a fuoco da molti anni, che è l’economia che gioca sul recupero di un centro storico, sull’arte prodotta nel corso dei secoli, gioca su nuove funzioni di tipo non locale ma sovra locale, mondiale. Ma poi è capace anche di rapportarsi con le scuole del quartiere, con la gente del quartiere, con la vita dei luoghi. Io questa l’ ho chiamata economia civile e sociale per recuperare questa dimensione un po’ più unitaria. Facciamo un passo indietro. Oggi le città stanno diventando degli attori di straordinaria rilevanza. Il Canada ha una popolazione di circa trentatre milioni di persone. La popolazione dell’area metropolitana di Tokyo è esattamente lo stesso numero. Voi capite che i sindaci delle città, parlo delle grandi come delle medie città, stanno costruendo una serie di rapporti che vanno ben oltre i rapporti regionali, proprio perché siamo in un contesto che si sta globalizzando. In sostanza voglio dire che le città sono diventate gli attori politici di straordinaria rilevanza e come tali si stanno muovendo. Nelle città si costruisce lo sviluppo economico o si realizza il declino economico. Nelle città si costruisce l’ambiente futuro del nostro territorio, della terra. La lotta alla povertà si realizza, si vince o si perde nelle città, nei quartieri delle città.

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Così come la questione della partecipazione, che è un’esperienza tipica delle città. Nelle città si costruisce la partecipazione, si realizza quel capitale civile o sociale, oppure se ne parla soltanto. Voglio dire che da sempre la città è il luogo del dibattito. È il luogo della democrazia. Città e democrazia sono strettamente collegate. Queste città sono sempre più sospese tra evoluzione e involuzione. Questo è lo stato dell’arte oggi. Sono città sospese. Noi vediamo delle città che stanno facendo una serie di traiettorie virtuose. Erano in crisi, ma hanno rigenerato se stesse. Come? Reinventandosi. Questa è la parola. Ricreando il loro ruolo. Ci sono città, invece, che sembrano ignorare questo nuovo contesto e declinano. Noi assistiamo a un quadro molto controverso: le scelte che si fanno per il futuro prossimo, venturo, pure di medio o lungo termine, vanno costruite oggi con un progetto. Questo è il punto fondamentale. Con un progetto strategico. Il progetto strategico o il piano strategico non è un piano urbanistico? Guardate non è addirittura previsto dal nostro Ordinamento. Il piano strategico è lo strumento con cui in tutto il mondo le città stanno reagendo a questa serie di problemi, a questa competizione sempre più violenta che li mette in competizione, identificando anche delle alleanze strategiche, per competere meglio anche su altri fronti. Il piano strategico non è un piano urbanistico, non è un piano ambientale, non è un piano ai trasporti , non è un piano sociale. È insieme tutte queste cose ma non è nessuna di esse. Il piano strategico è un piano che non nasce soltanto da un sapere esperto, ma nasce dalla costruzione di visione strategica di futuro condivisa. Questo è il punto fondamentale. Secondo, nasce dalla capacità di identificare dei progetti strategici con i quali realizzare questa visione e, guarda caso, questi progetti strategici sono il più delle volte collegati con la capacità di riprogettare i luoghi. I luoghi che sono i luoghi della vitalità urbana, che sono i luoghi in cui si intreccia la vita in tutte le sue dimensioni, non solo quella dello scambio economico o dello scambio politico. Voglio dire in sostanza che se c’è un’assonanza tra i luoghi e lo spirito delle città, il piano strategico si fonda proprio sull’identificazione dello spirito, dell’anima della città, nel riprodurre, nel moltiplicare questi luoghi e facendo di questi luoghi un assetto multipolare, in cui non c’è il luogo centrale che attira ma c’è un sistema. Il terzo punto: la connessione tra tutti questi luoghi. Insisto molto su questa dimensione sistemica, perché? Perché la città oggi è vista per parti . C’è il centro storico, c’è l’area portuale, e si fa il piano del porto, c’è la periferia, e si fa il piano della periferia e così via. A Napoli noi abbiamo piani per tutto. Il problema è che la città vera, la città reale è un sistema. La città interdipendente, la città è un unico che noi invece, per comodità, dividiamo in parti . Ma non è che esiste la parte a parco e la parte per dormire e la parte per produrre. Esiste questa serie di parti , ma esiste una forte interdipendenza fra di esse. Quindi progettare la città per parti diventa uno sforzo molto difficile, quando, invece, la vera sfida è quella della riconnessione di queste parti . Che significa riconnessione, ricollegamento? Riconoscimento che la città è un sistema di parti e che il nodo sta nel recuperare una nuova architettura organizzativa sistemica. Questo significa che il nodo è rappresentato dalle nuove connessioni tra le parti . È qui che si gioca il progetto che porterà a evoluzione o a decadenza, involuzione. Questo piano strategico introduce, gioca su quelle che sono le risorse endogene di una città. Come possiamo assumere che le risorse endogene della

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città siano quelle che noi abbiamo chiamato qui l’anima, lo spirito della città stessa? Che cos’è l’anima di una città? Io proverei a rispondere non dicendo che cos’è, ma da che cosa dipende. Innanzitutto dipende dallo stile di vita dei suoi abitanti. Dipende dalla vita pubblica, dalle tradizioni culturali. Dipende dai suoi rituali sociali, dipende dai suoi simboli. Non c’è dubbio che lo spirito della città dipende dai colori della città, dai rumori, dagli odori, dall’immagine complessiva, dal paesaggio che richiama tutte queste dimensioni. Lo spirito della città riguarda anche lo spirito comunitario, se c’è o non c’è, cioè quel collegamento sistemico che lega e collega le parti , in questo caso le persone. Lo spirito comunitario che determina poi la capacità, lo spirito pubblico, cioè la capacità di prendersi cura della produzione dei beni o della conservazione dei beni comuni, collettivi, pubblici. Lo spirito di una città dipende dalle capacità professionali che hanno maturato in suoi abitanti, dai talenti della sua popolazione, della sua gente. Cioè dipende dalla cultura. Sicuramente lo spirito di una città dipende dai valori, dal patrimonio culturale e artistico. Dipende, in sostanza, dai suoi luoghi. Parlare dello spirito della città significa, innanzitutto, parlare della città che non è una macchina ma è una persona. Perché ha una personalità. È una persona come tutte le persone hanno un cuore, una mente e un sistema circolatorio, tutto interconnesso e la salute di una persona è collegata con la forza del sistema che lega le singole componenti. Ancora una volta l’enfasi sui rapporti e non sui singoli elementi. L’identità di una città è fatta dalla forza, così come la salute di una persona. La salute di un ecosistema dipende dalla forza dei rapporti di interdipendenza tra i singoli componenti, dalla rete relazionale dei suoi soggetti , dalla presenza di microcomunità, dalla capacità auto organizzativa che ha questa comunità, in gergo si chiama capacità di resilienza, capacità autopoietica. Questo è lo spirito della città come risorsa, come memoria che diventa risorsa. Io sono convinto che il futuro della città si delinea, si costruisce valorizzando queste identità della città. Ho parlato del piano strategico e ho parlato della necessità di identificare una visione strategica condivisa. Questo nodo richiama il nodo culturale di una città. La mia convinzione è questa: che non c’è futuro alcuno se non si costruisce su un fondamento. E il fondamento non può che essere il fondamento culturale. Oggi il fondamento culturale credo che sia la più grande sfida che c’è di fronte per costruire un futuro più significativo per i nostri quartieri , i nostri territori urbani. Una città ha futuro nella misura in cui è creativa. Che significa creatività? Io sono entrato tanti anni fa nel movimento ecclesiale di impegno culturale. Ho lavorato in Caritas e poi ho trovato nel MEIC un luogo di particolare interesse. Qual è stato il messaggio che quest’esperienza ecclesiale mi ha trasmesso? Il messaggio (uno dei tanti, ma questo è quello che mi sembra opportuno cogliere), alla fine dei conti è stato che il pensiero binario delle due “o-o” è una grossa insufficienza, è un elemento che non costruisce progetto. Mi sono convinto che oggi questo è un nodo fondamentale, perché noi tutti continuiamo a ragionare o-o. O è giorno o è notte. Ignorando la realtà. Il pensiero alternativo a questo, il pensiero che lega le cose, lega le dimensioni, costruisce rapporti sistemici è il pensiero dell’e-e: il pensiero creativo oggi è questo.

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Bisogna superare il pensiero binario. Vuoi l’ecologia? Devi rinunziare allo sviluppo economico. Vuoi lo sviluppo economico? Devi pagare un prezzo ecologico. Vuoi l’efficienza? Devi rinunziare alla partecipazione. Vuoi la partecipazione? Devi essere inefficiente. Devi scegliere: cosa vuoi delle due? Una cosa sale e una cosa scende, non puoi massimizzare. Rinunziare a questa impostazione significa identificare che il conflitto non è nella realtà. È anche nella realtà, ma è soprattutto nella nostra incapacità di essere creativi e di mettere insieme elementi che sembrano divergere, che sembrano confliggere. Capite che sto dicendo? Sto dicendo che il conflitto che c’è nella realtà, perché la realtà è cooperazione ma anche conflittualità, come ci indicano tutte le esperienze, i l conflitto è soprattutto nella nostra incapacità di mettere insieme opposti conflittuali in maniera originale e creativa. Cioè la nostra incapacità a progettare. Questo è il nodo fondamentale. La nostra è una carenza di creatività. E quali sono le città che sono vincenti? Sono le città che hanno fatto progetti a somma positiva. Questa è più significativa e più semplice da esporre: si tratta del quartiere di Friburgo, Boban, da dove è partita la rivoluzione contro la centrale nucleare a Friburgo, in Germania. Che hanno fatto? Dicevano che Friburgo oggi nel mondo è vista come eco-city, cit tà ecologica. Ma qual è il progetto? Vedete queste abitazioni? Sopra queste abitazioni ci stanno pannelli solari. Questo è banale. Questo fatto, però, determina, insieme con l’efficientamento energetico di queste abitazioni che chi compra queste abitazioni (quindi badate bene: il mio punto di ingresso è economico, cioè ha a che fare con l’unico parametro col quale si comunica nella società globalizzata) fa un investimento tradizionale, perché voi sapete che ogni anno c’è la rendita immobiliare che si sviluppa con dei tassi non indifferenti . Due. L’efficientamento energetico di queste abitazioni consente, in certi casi, di passare da centocinquanta kilovattori al metro quadrato annuo di consumi energetici a quindici. Questo significa che la bolletta energetica si riduce del 90%. Questo è un reddito, sotto forma di costo risparmiato che si guadagna, si guadagna nel senso che non si perde. Terzo. Siccome i quindici kilovattori al metro quadrato annuo sono poco e niente, questi pannelli solari consentono di vendere l’energia all’ENEL locale e questo è un terzo guadagno. Ora capite il gioco qual è? Capite la somma positiva? Mentre io proprietario ci guadagno, mentre io attivo tutta una produzione di servizi collegati con l’efficientamento energetico e la produzione di quei pannelli , ho tutta una filiera economica e nello stesso tempo riduco del 90% la CO2 emessa, cioè salvaguardo dall’effetto serra i miei figli . In altri termini: essere efficienti economicamente si integra con l’essere solidali dal punto di vista della giustizia sociale, rispetto alle legislazioni future. Non so se è chiaro: questi progetti sono esempi di progetti a somma positiva in cui tutti beneficiano: i proprietari, gli imprenditori, le generazioni future e quindi l’ecosistema in generale. La creatività oggi è collegata con la capacità a identificare progetti a somma positiva, cioè è collegata a questo sforzo di ricreazione di quello che già c’è, di ricreazione continua. Se partecipiamo, oggi, alla costruzione della città futura dobbiamo essere portatori non solo di istanze, valori generali, ma di progettualità in questa direzione. Questo è il modo con il quale oggi si riesce ad essere presenti realmente nel progetto culturale. Che cos’è il progetto culturale di una città? Cos’è il progetto strategico di una città più in generale? Cos’è un progetto? Un progetto è l’identificazione di

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azioni in una successione organizzata di priorità basate sul riconoscimento che la cultura è la risorsa strategica. Questo è il progetto culturale. È l’insieme di azioni programmate in una successione, basate sull’idea che la cultura è la risorsa strategica fondamentale. Ma questo che cosa determina? Determina che tutte le politiche di settore, da quelle del lavoro, dei trasporti, dell’ambiente, dell’uso del suolo, sono riconfigurate dal progetto culturale. Capite che il progetto culturale diventa il modo con il quale dai una nuova configurazione alle politiche di settore. Quali sono gli strumenti, oggi, che si possono identificare per costruire questa partecipazione, per ridare un’anima alle nostre città? Io sono convinto che il contratto di quartiere è stato una grande esperienza sotto utilizzata nelle nostre città. Ci sono pochissime esperienze di contratti di quartiere ben riuscite. Queste erano un modo con il quale si mettevano insieme tanti elementi anche in conflitto. Un altro elemento è la capacità di costruire architetture di qualità, un restauro di qualità che abbia la capacità di riprodurre luoghi. Non solo tecnologie. Ancora una volta il problema non è solo tecnologico. Invece il problema è la creatività tecnologica con la vitalità, l’umanità in sostanza. Ridare umanità alle periferie, alle nostre città significa prendersi cura da parte di tutti . Che significa partecipare? Significa partecipare alla gestione di alcuni beni comuni: il verde, i parchi sono un esempio, un punto di ingresso a questa partecipazione. I piani strategici di cui vi parlavo hanno una genesi: sono molto poco tecnici e sono molto più fondati su processi deliberativi e partecipativi. La sfida è entrare in questi processi, in queste nuove arene. Queste nuove arene sono arene formali in alcuni posti e informali in altri . Si tratta di formalizzare queste arene e richiedere, come aggregazioni ecclesiali , di essere presenti. Penso al bilancio partecipativo, come esperienza che mi convince sempre di più se prevista a Statuto, dà senso alla partecipazione e consente di incentivare. Il rapporto costi-benefici di chi partecipa diventa positivo se questo strumento è previsto dallo Statuto. Io credo poi che c’è uno strumento che i nostri sindaci, i nostri presidenti di provincia non hanno molto interesse ad attivare. Si tratta dell’agenda locale ventuno per la cultura. Questo strumento, secondo me, può essere promosso o dal mondo delle scuole o dal mondo delle università o dalla società civile. Non c’è nessun altro interesse a che i nostri amici Assessori, mentre nell’agenda locale ventuno sono promotori, non c’è nessun interesse da parte loro. Quindi ritengo che le aggregazioni ecclesiali possano sollecitare le amministrazioni locali all’adozione, insieme con il sistema scolastico, i l sistema culturale e se c’è anche quello universitario, questa agenda locale ventuno per la cultura, che è esattamente la costruzione di quel piano strategico di cui parlavo, come fondamento di tutte le politiche urbane. Un elemento che si frappone fortissimamente alla partecipazione è collegato con la conoscenza. Non abbiamo un patrimonio di conoscenze che ci consente di partecipare. Questo è il dramma. Vi faccio un esempio: noi abbiamo disponibili una serie di indicatori. Se prendete gli indicatori assunti dalle pubbliche amministrazioni, come gli ultimi indicatori elaborati dalla Banca Mondiale, di solito servono a un imprenditore per decidere se investire a Napoli oppure a Tokyo. Ma non servono per partecipare. Perché? Perché il punto di vista quantitativo, economico, tecnico e così via è volto, indirettamente, a soddisfare questa domanda: qual è la città più efficace complessivamente? Gli indicatori di cui abbiamo invece bisogno per poter partecipare sono indicatori costruiti dal basso. Sono indicatori in cui mettiamo a fuoco, in maniera rigorosa, la percezione che i soggetti sociali hanno e come si sta modificando la qualità della loro vita da

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un anno all’altro, attraverso un certo tipo di azioni e di progetto. Se non si costruisce un patrimonio di conoscenza organizzato in cui, oltre agli indicatori, ci sia una banca dati delle buone pratiche, che sono esattamente le esperienze di creatività realizzate (quelle che io chiamo i segni di speranza), in cui si vede come un progetto a somma positiva è stato condotto ed è stato portato avanti. Se la gente non ha un elemento relazionale di riferimento e quindi non può comparare alternative, quindi può soltanto dialogare in maniera salottiera. Ma se deve esserci partecipazione, questa trova il fondamento nello spirito critico. Lo spirito è capacità comparativa, è capacità di confronto e di costruzione di un’argomentazione a sostenere una tesi che si contrappone in maniera rigorosa a contro argomentazioni. Se volgiamo stimolare la partecipazione dobbiamo stimolare le nostre amministrazioni locali a un grosso investimento in conoscenza. E in conoscenza non solo gli indicatori tradizionali , ma gli indicatori nuovi sulla percezione della qualità della vita e sulla banca dati di esperienze positive che esprimono questa strategia a somma positiva, che ha dato successo, che non è replicabile automaticamente, ma che è comunque indispensabile per poter comparare quello che si è fatto in situazioni analoghe. Porto Allegre è una città di un milione e trecentomila abitanti, come Napoli. Aveva un livello di degrado amministrativo molto superiore a Napoli. Eppure ogni volta che ho chiesto all’Amministrazione di fare un’agenda locale o un Forum mi è stato risposto che non serviva. Di fatto a Porto Allegre si è attivato un processo partecipativo che ha visto migliaia e migliaia di persone coinvolte. Ma spesso nei nostri comuni si scambia la promozione per partecipazione: è un gioco di public relation. Un gioco in cui io dico e tu ascolti . Non in cui tutti diciamo e ascoltiamo in un processo retroattivo in cui mettiamo a fuoco le buone ragioni e cresciamo insieme. Io penso che occorre moltiplicare gli spazi pubblici. Occorre usare ogni progetto: il progetto di una strada, di illuminazione, di una fontana, di una scuola come pretesto per una scelta di un progetto partecipato, perché non è che la partecipazione la dobbiamo assegnare soltanto ai grandi progetti strategici. Se vogliamo possiamo pretendere che ogni progetto diventi il punto di ingresso per un nuovo stile di costruzione.

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Ho interpretato questa opportunità come occasione per un personale bilancio della preparazione, ovvero di questa prima fase di celebrazione del convegno ecclesiale nazionale.

1. Qualche parola di introduzione Pur nel grande interesse, testimonianza di una Chiesa ancora viva e popolare, vedo un grado eccessivo di rassegnazione alla ritualità dell’appuntamento decennale ed una attenzione alla forma dell’evento sproporzionata rispetto alla attenzione dedicata ai qualità dei contenuti ed alla forza reale del processo.

Alcuni esempi:

( i ) scarso approfondimento teologico e non solo teologico del tema;

( i i ) scarsa attenzione al senso primario dei convegni ecclesiali nazionali, i l bilancio della ricezione del Concilio, che per questo quarto convegno ecclesiale nazionale doveva invece risultare addirittura rafforzato dal quadro offerto dalla Novo Millennio Ineunte;

( i i i ) il possibile fall out negativo dello scontro tra notevole attesa nelle chiese locali e celebrazione in sordina e sostanzialmente povera (per quanto esteticamente molto curata) dell’evento veronese.

Mi sono posto così tre domande, o meglio ho prestato più attenzione a tre domande che spesso mi sono state rivolte con riferimento a «Verona 2006». Riflettendoci, ho pensato che il senso di questo mio contributo ai vostri lavori consisteva soprattutto nel trasferirvi queste domande, o, se non altro, nel testimoniarvi quanto esse sono avvertite – certo non vi risulteranno nuove! – poiché mi pare che proprio questa vostra sia una delle sedi in cui tali domande possono essere prese sul serio.

Spero scuserete una certa franchezza. Essa è funzione di amore per la Chiesa, di stima in voi, e certamente anche della mia condizione di laico senza particolari responsabilità intraecclesiali .

(a) Il tema di Verona ha davvero qualcosa da dire, in generale e con riferimento al bilancio della ricezione italiana del Concilio? (Domanda che svolgerò ora esclusivamente in relazione alla questione della cittadinanza.)

(b) Come spiegare il rischio reale di un Convegno ecclesiale incapace di fare accumulazione e discernimento?

(c) Come calibrare le aspettative verso «Verona» anche in considerazione di una certa ansia di espressione e di partecipazione da parte di strati importanti del cattolicesimo italiano?

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2. Mondo, speranza cristiana e cittadinanza Davvero il tema di Verona (Gesù Cristo Risorto speranza del mondo) ha qualcosa da dire in ordine al ripensamento della cultura civile delle Chiese e dei cristiani italiani, oggi e a 40 anni dal Concilio?

Certamente. Ha molto da dire, e qualcosa di piuttosto abrasivo rispetto alla cultura politica media dei cattolici italiani. Una trattazione sistematica potrebbe e dovrebbe essere molto lunga6. Ritengo perciò utile, anche se un po’ ruvido, concentrami su quello che mi sembra il nodo cruciale, primario.

Se la speranza cristiana crede, come la prima lettera di Pietro ci ha ricordato durante quest’anno e come Paolo VI aveva affermato con forza nella Evangelii Nuntiandi, che la destinazione sovrannaturale appartiene alla definizione essenziale di quello che deve essere considerato il bene di ciascuna persona umana e di tutta l’umanità (non del “mondo”!), ne deriva che tutta una cultura politica, e le sue prassi, fondata ed ormai arroccata intorno alla nozione di bene comune come fine della politica, anzi più esattamente dello stato, risulta come largamente insufficiente – per usare un eufemismo (G. Colombo) – alla luce di questa ripetizione della novità evangelica7.

Che tale sia la cultura e la prassi politica largamente prevalente tra i cattolici italiani, pastori ed intellettuali in primis8, è ormai corroborata evidenza empirica, e sarebbe stata sufficiente una anche superficiale attenzione alla recente campagna referendaria per rendersene facilmente conto. Forte della certezza di non poter essere scambiato per marxista, mi permetto di aggiungere che il medesimo risulterebbe altrettanto evidente a chi analizzasse la sovrarappresentazione di statali e parastatali nelle sedi ecclesiali in cui si fa discernimento ed orientamento sociopolitico. (Provare per credere.)

«Verona» ed il Concilio ci propongono uno specifico «duc in altum», una specifica richiesta di discontinuità evangelica rispetto ad un bene comune riduttivamente inteso come qualcosa che possa essere fine di istituzioni storiche, anzi di una sola organizzazione politica: lo stato; ovvero, ma è lo stesso, rispetto ad una città ridotta a politica ed ad una politica ridotta a stato (o parastato). (Persino la dottrina dei ‘corpi intermedi’ non resiste alla critica teologica che prende forma da una nozione adeguata di bene comune e si esprime, ad esempio, in una comprensione piena della sussidiarietà – verticale ed orizzontale –. Che rapporto c’è tra il magistero sociale della Chiesa, di cui il Compendio è sono una espressione e certo non al vertice nella gerarchia delle fonti, e la cultura sociopolitica reale dei reali cattolici italiani?9)

Potremmo andare molto avanti, ma non è possibile. Occorre limitarsi ad una osservazione integrativa e dal valore oggettivamente ironico. Mentre le nostre matrici teologiche ci spingono verso visioni capaci, tra le poche, di interpretare (nel senso pieno del termine) l’evoluzione della città e del sistema politico in tempi di fine della “modernità societaria” (Magatti) e di globalizzazione, la maggior parte di noi resta abbarbicata a difesa di schemi e di prassi inadeguate e 6 Cfr. un mio scritto su “Antonianum” del 2005. 7 Mostrando un rilievo teologico immediato, e non moralmente mediato, della questione della città. 8 Tra le cose per cui non c’è tempo, purtroppo, va ricordata la riflessione sull’inspiegabile silenzio ecclesiale e cattolico intorno alla differenza e persino all’isolamento politico e sociale del “lombardo-veneto”. 9 Quale è la diffusa capacità di riconoscere le distanze che separalo il realismo spirituale cristiano, anche in politica, da cinismo ed idealismo, e dalla ancor più pericolosa combinazione dei due?

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perdenti, che per di più esprimono fedeltà agli oppressori di un tempo, con un comportamento che sembrerebbe spiegabile in termini di nostalgia, pigrizia, ingenuità10 o interesse (a sempre più breve termine, però).

3. Condizioni del discernimento ecclesiale? Sarà possibile, a «Verona», verso «Verona» ed oltre «Verona», porsi questioni del genere, a prescindere dalle risposte che emergeranno, se ne emergeranno?

Il rischio è che questa possibilità non ci sia, o che venga còlta in misura insufficiente. Se riconosciamo la realtà di questo rischio è nostro dovere domandarci quali siano le condizioni che minano la possibilità di praticare con parresia il discernimento ecclesiale (a volte difese persino in nome del rispetto della “libertà dello Spirito”).

Anche in questo caso devo correre il rischio di essere un po’ ruvido, ma avendo poco tempo a disposizione preferisco indicare quello che in coscienza mi pare il nucleo della questione.

A me pare – ma anche in questo caso le corroborazioni empiriche non mancano – che nella nostra Chiesa prevalga in questo momento un esagerato interesse per la “religione” (nel senso ovviamente riduttivo del termine).

La comprensione e persino la giustificazione del processo che ci ha condotti sin qui non esclude che si possa ora essere convinti della necessità di una svolta, della necessità di spostare il baricentro della attenzione ecclesiale dalle sue esteriorità al Suo mistero (cfr. LG 1; cfr. anche NMI).

Ma se nella Chiesa prevale un esagerato interesse per la religione (in senso riduttivo rispetto all’«ampiezza, l’altezza, la lunghezza e la profondità della vocazione cristiana») ciò è innanzitutto perché nelle Chiese e nel cattolicesimo italiano di oggi mancano i «laici». Ben più dei preti – e fatevelo dire da chi li studia almeno empiricamente – e degli stessi monaci, oggi alle nostre Chiese ed al cattolicesimo italiano manca quel tipo di credenti la cui concreta sequela Christi ha ampiezza, lunghezza, larghezza, e profondità occupate di esperienze e conoscenze non immediatamente coincidenti con funzioni, poteri e dinamiche intraecclesiastiche. Solo la presenza di questi “laici” potrebbe spostare i l baricentro della attenzione ecclesiale nel senso predetto.

Si badi, non sto ponendo una questione di principio («tutto è lecito»), ma una questione di fatto («non tutto», e sempre, «conviene»). Oggi le nostre assemblee ecclesiali sono composte quasi esclusivamente di laici “leader religiosi”, presunti e reali , piccoli e grandi, catechisti o liturgisti , operatori pastorali o capi spirituali, ma sono pressoché vuote non dico di leader ma almeno di tizi e tizie socialmente (politicamente, scientificamente, economicamente, …) responsabili .

Ripeto: non sto ponendo una questione di diritto!

Potremmo chiederci perché questo si sia verificato, e dovremmo farlo. Potremmo scoprire che il processo che ci ha condotto sin qui ha avuto anche tanti aspetti positivi, ma la situazione non migliorerebbe per questo. Il fatto è che ci troviamo di fronte una maggioranza di laici tutti assorbiti da mansioni o preoccupazioni 10 Come quella che comprende solo dimensione giuridico-formale del complesso eben più concreto problema della cittadinanza.

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intraecclesiastiche e da una maggioranza di pastori paralizzati dalla paura di una deflagrazione o dal rischio (per loro stessi) di dispiacere questo o quello. Pastori più “arbitri” che “giocatori”, o magari più “tifosi”.)

Alla latitanza del laicato una risposta non può venire dalla disponibilità dei pastori a professionalizzare l’impegno laicale intraecclesiastico11. Parimenti, la risposta non viene dalla esperienze di nuove (?) comunità e movimenti, all’interno dei quali la questione del “laicato” è del tutto irrisolta e solo velata dalla presenza di “leader religiosi non ordinati”.

Debbo esser breve e questo può aiutare ad essere chiari. La questioni dei “laici”12, può esser affrontata adeguatamente solo dai “laici”. La storia della Chiesa l’ha mostrato (cfr. De Rosa, Scoppola), la teologia l’ha compreso e spiegato (cfr. von Balthasar!), i l magistero lo insegna (ad es. LG, CD, AG). Ultimamente questo nodo ha un nome e persino questo nome oggi è un problema. A volte se ne evita persino la pronunzia! Ma io, che me lo posso permettere non avendo nulla da difendere né alcuno da rappresentare, lo pronunzio egualmente. Il problema è quello della azione cattolica.

E non si dica che la questione dell’azione cattolica riguarda solo alcuni, che essa è una possibilità tra le altre. Perché questo è falso storicamente, magisterialmente, teologicamente e persino canonicamente, ma, soprattutto, il nostro problema comincia spesso quando ci riduciamo a parlare in questi termini.

Azione cattolica è il t i tolo della questione ecclesiologica cruciale della presenza nella Chiesa, con piena dignità, di laiche e di laici non innanzitutto intraecclesialmente impegnati. La questione della azione cattolica riguarda tutti – che proviene dai movimenti non meno di chi proviene dalla ACI, un catechista non meno di un animatore della Caritas – perché non è questione di quale spiritualità seguire, ma di come aiutarsi a rimanere insieme da “laici” nella Chiesa, aiutarsi ad essere Chiesa in quanto “laici”. Per questo, tra l’altro, l’azione cattolica è associazione e non movimento, ha assistenti e non preti propri, vota i propri responsabili pro tempore. La azione cattolica è il nome, imposto dalla storia e recepito dal magistero, della esigenza di una maggiore rilevanza della fede per la vita in tutti i suoi aspetti e condizioni, e della maggiore rilevanza della storia per la fede e la Chiesa. La azione cattolica non è una questione di forme, ne ha avute tante! La azione cattolica è il nome di un problema ecclesiologico serio.

Lasciamo pur da parte quelle auctoritates che definirono la azione cattolica “non storicamente contingente ma teologicamente motivata”, e concentriamoci sul problema di fatto. Siamo soddisfatti di una Chiesa specialista in religione (ed in cui magari certi non ordinati sono ancora più specialisti dei preti)? Siamo soddisfatti di una Chiesa capace di audience ma incapace di storia e di cultura13? Perché, se non siamo soddisfatti di tutto questo, la questione da cui partire, partire non tornare, è la questione della azione cattolica come questione delle forme e dei gradi di legittima autonomia con cui un laicato adulto e spiritualmente plurale si aiuta ad essere se stesso nell’unica Chiesa e dunque si aiuta anche a concorrere anche unitariamente ad un corretto equilibro delle attenzioni nella Comunità Ecclesiale. 11 Od a far proliferare i consigli o le “unità pastorali”. 12 E dunque la questione del ‘popolo di Dio’, coscienza la cui emersione è uno dei grandi doni del “laicato” a tutta Chiesa come persino la storia della redazione della Lumen Gentium ha mostrato (Sartori). 13 Ci soddisfa l’esito del processo di denominazionalizzazione del protestantesimo americano?

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Vi sembra esagerato? E che impressione vi fa allora leggere un passo come ad es. AG 15?

A me pare che nessuno nella Chiesa ha oggi il coraggio di porre questo problema. Chi meglio dei laici, di tutti i laici potrebbe porlo ed affrontarlo. Quale migliore occasioni per farlo che le varie fasi della lunga celebrazione del Convegno Ecclesiale, visto anche il suo tema, la sua ratio, e la natura degli ambiti sui quali è chiamato a riflettere. Non foss’altro, non provate curiosità per una questione che tutti accuratamente evitano?

4. «Verona» e la voglia di intrapresa politica? Partecipando a tante iniziative locali di avvio della celebrazione di «Verona» ho avuto sempre più netta la sensazione che una parte almeno dell’interesse e della voglia di partecipare fosse indipendente dal tema e dalla specificità evento del prossimo Ottobre.

Tra i cattolici i taliani resiste ed anzi si rafforza – almeno relativamente ai tempi – la passione politica. Anche nel caso si esprimesse spesso in modo confuso o disordinato essa resterebbe una passione sana, un modo di avvertire comunque una responsabilità vera.

Note vicende storiche hanno fatto sì che siano diminuite e si siano frastagliate le occasioni di espressione e di discernimento della passione politica dei cattolici. Ciò genera il rischio oggettivo di interpretare «Verona» come una occasione per trovare una risposta a questo bisogno.

Ancora una volta, in breve: proprio il valore della passione politica richiede che si riconosca e si denunci questo rischio. Per il bene del convegno, e, se possibile, ancor più per il futuro della passione politica dei cattolici italiani.

Mettere il bisogno di politica dei cattolici italiani al centro delle preoccupazioni di un evento ecclesiale significa predisporsi a declinarlo nei modi peggiori: ad esempio in chiave di nostalgia e di rancore … di nostalgia della DC e di un minore pluralismo politico dei credenti, di insofferenza indiscriminata verso il ril ievo politico dell’episcopato, di opposizione al maggioritario, al bipolarismo ed in generale alla riforma democratica delle istituzioni politiche italiane faticosamente avviata negli ultimi 20 anni. Ma tutto questo, tutto ciò che scatterebbe inevitabilmente per il solo affrontare un tema urgente in quella sede impropria, sarebbe falso e suonerebbe persino autodenigratorio.

Infatti , senza i cattolici italiani non ci sarebbe stata la Dc, e senza la Dc ed i cattolici i taliani non ci sarebbe stato quel processo di riforma politica che è andato oltre la democrazia bloccata e lo statalismo: o non ricordiamo quella storia che va da De Gasperi a Bachelet, Ruffilli , Tarantelli e Marco Biagi?

Che bisogno abbiamo di essere nostalgici quando proprio le riflessioni iniziali su speranza e cittadinanza ci mostrano quanto sia viva la intuizione politica sturziana. Pur nella loro brevità ci mostrano come quella intuizione e quella esperienza, dopo aver avuto una fortunata stagione democristiana, ed una importante stagione postdemocristiana, possa avere un’altra stagione ancora (e chissà quante altre). Quella intuizione politica, quella cultura e quella prassi, non hanno bisogno di recinti ecclesiali protettivi, tollerano bene anche una presenza

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pubblica diretta e distinta delle gerarchie ecclesiastiche, danno il meglio di sé proprio in condizioni di bipolarismo, maggioritario e democrazia dell’alternanza. In ogni caso, credo che Retinopera possa, anzi, per il bene di tutti , debba cogliere questi segni di passione politica che si esprimono già anche nella celebrazione del Convegno Ecclesiale, e debba dar loro una espressione propria e matura, contemporaneamente – come dire? – decongestionando «Verona» e facendo maturare una esperienza essenziale per il futuro difficile e per nulla certo della comunità nazionale, di questa “città” che non ci può essere indifferente, neppure quanto alla forma storicamente sempre e per fortuna imperfetta che ne condiziona la abitabilità, ne definisce la cittadinanza ed il grado di qualità civile.

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Omelia GGeessùù aattttrraavveerrssaa llee cciittttàà 1144

di S.E. Mons. Arrigo Miglio La liturgia ci ha messi sulla strada di questa riflessione e ci invita a vivere continuamente per un passaggio dal tempio, edificio materiale, attraverso un nuovo tempio, che è il corpo del Signore risorto, che è la comunità istituita da Cristo verso la Gerusalemme celeste, dove l’Apocalisse di Giovanni ci ricorda che sulla piazza della città non ci sarà più né tempio né altro segno religioso, perché non ce ne sarà più bisogno. Dire che non ci sarà più tempio nella Gerusalemme futura vuol dire che anche il tempio costituito dalle pietre, la comunità dei credenti e le membra del corpo di Cristo, non avrà più questa funzione di tempio, perché non ci sarà più questa distinzione tra chi riconosce il Signore e chi ancora non Lo ha conosciuto nella città futura. Anche questa distinzione cadrà. Dire tempio significa dire perimetro delle mura , la porta da cui si entra e si esce . Questo vale anche per il tempio: La comunità cristiana vuol dire una distinzione tra chi è dentro e chi è fuori (è sempre difficile capirlo), tra chi appartiene e chi non appartiene (anche questo è diventato difficile, come tante appartenenze sfumate che oggi viviamo). Ma, comunque, stiamo camminando verso una città futura dove tutte queste distinzioni sono destinate a sparire. Rispetto all’Antico Testamento, dove il tempio era ultimo ed era proprio un tempio materiale, fatto di quelle pietre in quel luogo, che era la dimora del Signore, nel Nuovo Testamento ci troviamo in una situazione intermedia, una situazione di pellegrinaggio. Abbiamo ancora degli edifici materiali , ma sono poco più che dei gusci, anche se preziosi. Il vero tempio, ormai, è la comunità cristiana. Ma, come ricordavo prima, questa non è la situazione definitiva. La comunità cristiana è in cammino, attraversa la città, che il Vangelo ci ha sottolineato a proposito di Gesù in Gerico, una delle città in cui non ha mai abitato, ma che ha attraversato. Noi attraversiamo la città per camminare verso la Gerusalemme nuova, dove cadrà ogni divisione e ogni distinzione. Mi pare davvero che nella scrittura, nella liturgia, nell’esperienza della Chiesa pochi simboli abbiano una valenza così forte come quella del tempio, se lo prendiamo davvero in tutta la sua ricchezza. Il simbolo del tempio ci descrive la nostra storia e dunque ci descrive il nostro essere, ci aiuta a capire le nostre identità, la nostra missione proprio perché il simbolo del tempio, il segno del tempio indica un continuo passaggio e un continuo andare oltre. Guardando al segno del tempio capiamo ancora meglio cosa significa che siamo stranieri e pellegrini, come ci ricorda la prima lettera di Pietro. Per contro Paolo, nella lettera agli Efesini, sembra dirci i l contrario. Non siete più né stranieri , né pellegrini, né ospiti . Ma siete concittadini, edificati sul portamento degli apostoli e dei profeti . Perché abbiamo anche questo titolo di cittadinanza di questa città futura, di questa Gerusalemme futura, nella quale non solo non ci sarà più impegno materiale, ma avrà finito la sua funzione anche il tempio della comunità vivente, perché sarà completa l’opera della redenzione. Dunque con questa nostra forza interiore, dire identità mi pare troppo poco, che ci spinge a seguire l’evoluzione del segno del tempio, un’evoluzione che viene da lontano perché neanche il tempio di Gerusalemme è il vero punto di partenza. Quando Davide aveva deciso di costruire

14 Testo non rivisto dall’autore

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i l tempio, il Signore Dio gli manda a dire, attraverso il profeta Nada: Fino a questo giorno in tutti i secoli precedenti io non ho mai chiesto a nessuno di costruirmi un tempio. Ho camminato con voi nel deserto abitando in una tenda, come abitavate voi. Quindi neanche il tempio di Gerusalemme è il punto di partenza e, in qualche modo, l’Esodo ci aiuta a capire che si parte da una situazione di provvisorietà, poi si attraversano delle stagioni diverse, come il tempio unico, solo il tempio fatto di pietre materiali . Nel Nuovo Testamento siamo entrati in una stagione diversa, dal tempio materiale alla comunità vivente, ma torniamo e camminiamo verso una situazione di non più tempio, ma di presenza immediata, visibile di Dio e di tutta la sua ricchezza. Dunque il segno del tempio ci aiuta a capire la tensione di fare la parola più giusta. L’identità dice qualche cosa di statico, di fermo. Una tensione, invece, indica un andare continuamente oltre. Mi pare questo un messaggio che la liturgia di oggi ci offre, riflettendo sul nostro vivere nella città, attraversare le città come Gesù ha attraversato Gerico. Nella città terrena, in questa città provvisoria, ma nella quale siamo chiamati a vivere e a prendere sul serio tutti i suoi problemi, siamo chiamati ad essere portatori di una speranza, che è una tensione continua ad andare oltre. Non è solo la speranza di chi aspetta che finiscano i problemi per stare finalmente in pace, tranquilli; ma è invece una speranza carica di gioia, di chi vede il valore di questo momento, del tempio provvisorio, ma già sa che deve andare oltre perché c’è qualche cosa di più grande. Quindi una speranza che ci spinge a passare di luce in luce, come ancora ci ricorda Paolo nella seconda lettera ai Corinzi. Portatore di una tensione verso l’oltre, chiamati ad essere segno e fermento delle nostre città, di questa esigenza, di questa necessità di superare, di trascendere, di non fermarci, di non chiuderci. Andare oltre che cosa? Andare oltre, certo, gli orizzonti terreni, pur riconoscendone la funzione provvisoria, come ha avuto una funzione importante il tempio di Gerusalemme, dove Gesù è stato e ha insegnato, sul quale Gesù ha pianto. Ma un invito ad andare oltre questi orizzonti terreni: direi anche un invito ad andare oltre a tanti nostri schemi, che rischiano di farci dimenticare questa chiamata ad andare più avanti, più in alto, più al largo, più oltre. Questa speranza e questa tensione diventano anche un invito a fare un ridimensionamento profondo di noi stessi, di noi che esistiamo, chiamati ad essere segno e fermento. Se la cit tà deve guardare oltre, anche noi siamo chiamati a guardare oltre, anche noi veniamo ridimensionati nella nostra visione di portatori di questa speranza. E vengono ridimensionate tante nostre ansie, tanti nostri problemi, tante nostre difficoltà. Spinti dallo spirito del Signore ad andare oltre siamo, però, anche chiamati ad essere dentro, così come Gesù è stato dentro alla cit tà. i l compito dello spirito è quello di portarci verso la Gerusalemme celeste, ma l’incarnazione del verbo di Dio ci mette di fronte alla vita di Cristo, che è stata ben piantata nella città. Gesù ne ha avute tre di città proprio sue: la prima è Nazareth, la città dove è stato allevato, ci dice l’evangelista Luca. La seconda è Cafarnao. L’evangelista Matteo ci dice esplicitamente che Gesù sceglie le sue città e più volte si dice: “Ritornò nella sua città” e si parla di Cafarnao. La terza è Gerusalemme, che è la città di ogni fedele ebreo, come lo è stato Gesù. È la città sulla quale Gesù ha pianto e dove Gesù ha consumato la sua Pasqua. Tutte e tre queste città hanno fatto sperimentare a Gesù la sofferenza del rifiuto. A Nazareth ha rischiato di essere lapidato. Lo hanno condotto sul ciglio della città per precipitarlo giù. A Cafarnao Gesù un giorno esclamerà: “Guai a te, Cafarnao! Perché se a Sodoma e Gomorra

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fossero stati operati i segni che io ho operato in te, si sarebbero già convertiti”. E di fronte a Gerusalemme, più famosa ancora, la pagina che ci presenta Gesù che piange sulla città. C’è poi anche la città dove Lui è nato, Betlemme. Gesù è nato fuori, in qualche modo, dalla città. Il Vangelo ci dice che non c’era posto per lui. Anche a Gerusalemme, la lettera agli ebrei sottolinea che Gesù è morto fuori non solo dal tempio, ma dalle mura della città, proprio per indicare che si è entrati in una situazione nuova. Poi c’è Gerico, la città che Gesù ha attraversato. Gesù non ha abitato a Gerico, vi ha fatto una tappa, una sosta. Potremmo mettere anche Samaria, un’altra città dove Gesù si è fermato brevemente. Due città nemiche: Samaria perché erano i nemici giurati dei giudei. Gerico perché era la città dei traffici e degli affari, quindi era una città guardata con estrema diffidenza, la città impura. Queste due città Gesù non le abita, ma le attraversa e questo attraversamento produce un cambiamento notevole. Abbiamo sentito la storia di Zaccheo. Ricordando la pagina della samaritana ci ricordiamo anche la conclusione: i samaritani che dicevano alla donna: “Adesso noi crediamo non perché ce lo hai detto tu, ma perché noi abbiamo visto e capito che costui è davvero il Salvatore del mondo”. Dunque il rapporto di Gesù con le diverse città è un rapporto molto intenso. Un rapporto molto sofferto quello di Gesù con le sue tre città. Vorrei far notare due cose. Gesù entra nel cuore della città. I luoghi dove noi vediamo Gesù a Nazareth, a Cafarnao e a Gerusalemme sono il cuore della città. a Nazareth Gesù va nella sinagoga della città dove era stato allevato. E la sua prima manifestazione ai suoi concittadini avviene nella sinagoga. Va anche a Cafarnao. Lo ritroviamo più volte nella sinagoga di Cafarnao. Chi è stato a Cafarnao ricorda i resti grandiosi delle due sinagoghe, una sovrapposta all’altra. E a Gerusalemme Gesù insegna normalmente nel tempio, quindi veramente nel cuore della città e della Nazione. Anche i tempi che Gesù scelse portano al cuore di Israele. Di solito di sabato. Sia a Nazareth sia a Cafarnao Gesù di sabato entra nella sinagoga e insegna. Anche a Gerusalemme, nel tempio, avviene proprio uno dei primi scontri sul valore del sabato con il mondo giudaico, con il mondo farisaico. Poi entra nel cuore della città attraverso la cultura di queste città, attraverso le scrit ture. Parte dal cuore delle scritture e annuncia: “Oggi, questa scrittura che avete ascoltato sia adempiuta davanti a voi e vi annunci il compimento di queste scritture”, i l compimento di una cultura. Le scritture non erano e non sono, soltanto, un libro di devozione, un libro religioso; ma sono il progetto di vita di Israele e di tutto il popolo di Dio. Ecco i tre aspetti che ci aiutano a capire come Gesù ha cercato di entrare in profondità nella vita di queste sue tre città. Dicevo prima che in tutte e tre Gesù ha vissuto un rifiuto che era, in qualche modo, annunciato. I profeti lo avevano detto e ridetto che il destino era questo. Un rifiuto, in qualche modo, annunciato che non ha tenuto Gesù lontano da queste città, ma anzi, lo ha fatto entrare in esse con un amore ancora più grande, se possibile. “Gesù, rifiutato a Nazareth” (i Vangeli commentano così) “non potè compiere molti segni a causa della loro incredulità, ma guarì alcuni”, così anche a Cafarnao nonostante il r ifiuto. A Cafarnao Gesù arriva a dire ai dodici: “Volete andarvene anche voi?” Tutti lo hanno abbandonato ad un certo punto, eppure Cafarnao è il luogo delle guarigioni. E così a Gerusalemme, nel tempio. È proprio nel tempio, di sabato, che il paralitico viene

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guarito e viene instradato a rendere gloria al Signore e a riconoscere ciò che gli è capitato. Dunque questo rifiuto non impedisce a Gesù di stare dentro con amore e di compiere dei segni di amore. E questi segni di amore, lo notiamo immediatamente, sono un’attenzione alle persone, un’attenzione alle sofferenze, un’attenzione alle povertà. Mi pare che si delinei un quadro che, sicuramente, già conosciamo, ma direi che questa rilettura del Vangelo ci conforta a vivere questo passaggio attraverso la città, ridimensionandoci proprio per questa provvisorietà che siamo chiamati a vivere, ma entrando nel cuore profondo della città in cui noi oggi viviamo, con lo stesso amore con cui Gesù è entrato, senza scandalizzarci troppo delle difficoltà, dei rifiuti, delle incomprensioni e facendo di questa situazione di provvisorietà un’occasione per manifestare, in modo ancora più grande e ancora più completo, l’amore del Padre.

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IInnssiieemmee.. PPeerr ddaarree uunn’’aanniimmaa aallllee nnoossttrree cciittttàà 1155

Tavola rotonda con i responsabili associativi

Claudio Gentili16

Abbiamo convenuto con i Presidenti delle associazioni ecclesiali e delle associazioni che partecipano a questa tavola rotonda di dividere le loro risposte in due tornate, per dare a questa tavola rotonda un tono più vivace. Il nostro obiettivo è raccogliere anche i frutti di queste intense giornate di Vallombrosa e dare un contributo in vista del Convegno ecclesiale di Verona. La prima domanda al Presidente dell’Azione cattolica Luigi Alici, è proprio rivolta allo specifico. Ogni associazione ha uno specifico e questo specifico dell’associazione è una ricchezza. In fondo Retinopera è una grande occasione per mettere in pratica quello che diceva San Paolo nella lettera ai Romani: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda”. Di solito noi siamo autocentrati e quindi il nostro mondo finisce nell’orizzonte del nostro linguaggio o della nostra prassi associativa. Retinopera è una grande occasione per arricchirci delle diversità, anche delle peculiarità con cui il Signore e lo Spirito del Signore ha voluto che i carismi delle varie associazioni, dei vari movimenti, incarnassero lo spirito del Vangelo nel mondo. Oggi nell’omelia ci è stato detto da Monsignor Miglio che noi siamo dentro e siamo oltre. Siamo dentro la città sporcandoci le mani per renderla più umana e siamo oltre la città perché cerchiamo la città futura. La prima domanda è: Come vi sporcate le mani? Cioè con quali modalità, con quali ricchezze, con quali peculiarità, la vostra associazione cerca, quotidianamente, di rendere più umana la città? Di fare della città una vera dimora dell’essere umano, della persona? Di mettere al centro della città la persona?

Luigi Alici

Io credo che gran parte delle cose che riuscirò a dire possono essere condivise in larga misura, perché appartengono alla grande lezione conciliare che ci ha invitato a cogliere, a valorizzare e a condividere la legittima autonomia delle realtà terrene e la città è una cifra fondamentale della convivenza umana, in cui le relazioni tra le persone sono protette dal diritto e sono promosse dalla politica e, in un certo senso, grazie appunto alla città possono essere concretamente incarnate nello spazio e nel tempo. Questa è una delle ragioni per cui questo tema, in un certo senso, si potrebbe dire appartiene al codice genetico della nostra Associazione, che cerca di tener viva una riflessione sul tema della città e della cittadinanza. L’ultimo Convegno dell’Isti tuto Bachelet è stato dedicato proprio a questo tema per interrogarci su quel grande paradosso che è rappresentato dalla doppia cittadinanza del cristiano. Cioè dal fatto che in quanto figli della Creazione ogni essere umano vive di un legame originario con tutti i suoi fratelli e in quanto è stato chiamato a passare dall’uomo vecchio all’uomo nuovo vive di una nuova cittadinanza. I padri della Chiesa insistono molto su questo aspetto e cioè che è il cristiano che, in quanto tale, è stato chiamato a condividere una nuova umanità senza essere liberato dalla vecchia umanità. Questo ci rende, nello stesso tempo, 15 Testi non rivisto dagli autori 16 Direttore de “La società”, rivista di studi, ricerche e documentazione sulla Dottrina sociale della Chiesa, edita dalla Fondazione Toniolo di Verona

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cittadini di due città e questo è lo spazio della testimonianza laicale, che nella città e nella cittadinanza trova un luogo esemplare. In un certo senso potremmo dire che la città è il dono che lo spazio fa agli umani per salvare il tempo della dispersione e trasformarlo in una storia condivisa. Noi sappiamo, lo abbiamo visto anche ieri e anche nel nostro Convegno Bachelet questo tema è emerso con forza, che il paradosso delle nostre città oggi è quello in cui si rischia progressivamente di separare la città dalla cit tadinanza. Si rischia, cioè, di separare la tutela del paesaggio urbanistico, che sta diventando una giusta preoccupazione da parte di tutte le politiche urbanistiche, da quella rete di relazioni invisibili che costituiscono il paesaggio istituzionale delle città in cui si realizza la fraternità. Ha detto Baumann in uno dei suoi ultimi libri, evocando un concetto già noto, che la forza di un ponte si misura dal suo pilone più debole. Ieri qualcuno parlava delle periferie: dobbiamo misurare la coerenza della nostra testimonianza cristiana a partire dal pilone più debole e cioè a partire dalla nostra capacità di assumere un atteggiamento inclusivo e non misurare, quindi, l’autenticità della testimonianza cristiana dal modo di abitare il centro, ma dal modo di aprire il centro alla periferia. Questo è l’ultimo spunto che volevo offrire e ci porta direttamente al tema di Verona. In questi mesi, girando in varie realtà diocesane, come capita a molti di noi, ho percepito una tendenza strisciante a trasformare la speranza da virtù teologale in virtù cardinale. E cioè il pericolo di fare della speranza un additivo psicologico per rianimare delle pastorali un po’ anemiche. In realtà, la speranza cristiana deve il suo spessore teologale solo alla sua forza escatologica. Cioè alla sua capacità di aiutarci a contemplare quella città in cui i legami di fraternità saranno resi definitivi e che oggi abbiamo persino il pudore di chiamare paradiso. Allora la vera sfida per noi è quella di fare questa sintesi tra l’escatologia e la storia, tra la grande speranza cristiana e le piccole attese degli uomini di oggi. Tra la capacità di contemplare l’ultimo e la verifica della nostra coerenza nella capacità di abitare positivamente il penultimo. Interrogarci sul pilone debole della cittadinanza significa misurare la nostra capacità di fare questa sintesi, che è la vera grande sfida che abbiamo davanti. Il tema della speranza non deve rappresentare una parentesi spiritualistica per staccare il tasso di frustrazione nella testimonianza missionaria che caratterizza la nostra vita, ma deve essere quel pungolo e quella tensione che deve aiutarci a far sì che nella città si misuri i l tasso di una cittadinanza aperta, ospitale, inclusiva, che solo dalla sua capacità di partire dall’ultimo, cioè dal pilone più debole, può costruire dei ponti solidi su cui possano transitare tutti .

Claudio Gentili

Nella parte finale del documento della nostra agenda sociale c’è un’affermazione che a me sembra particolarmente significativa e quest’affermazione riguarda proprio “ripartire dalla città”. Voi sapete che le ACLI sono organizzate attraverso dei circoli che sono come gli uffici postali , sono dappertutto. Sono dei terminali di un’esperienza associativa, diffusi in ogni luogo, città o campagna. La domanda che faccio al nuovo Presidente delle ACLI, Andrea Olivero, è: agenda sociale e città. Cosa fanno concretamente i circoli ACLI?

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Andrea Olivero Faccio una premessa dicendo che noi viviamo una forte difficoltà a stare nella città. I circoli ACLI, che pure sono presenti in tutti i luoghi, o quasi, sono maggiormente vitali fuori dalla città propriamente detta, o quanto meno nelle periferie delle città. La domanda del perché questo avviene (domanda che ci siamo posti spesso) fa pensare, probabilmente, a motivazioni storiche: cioè nel passato, quando le ACLI sono nate, non era il centro della città il luogo tradizionale del lavoro. Tanto la fabbrica quanto l’attività nei campi, naturalmente, la si faceva fuori, nei paesini, nei luoghi dove non vi era la città propriamente detta. In secondo luogo io credo che le ACLI siano strumento di socialità e necessitino di comunità calde, di comunità che sanno sviluppare socialità, sanno creare relazioni buone tra i cittadini. Questo è un punto che per noi è complesso. Oggi, volendo continuare ad essere associazione popolare ma volendo radicarci anche nella città, ci rendiamo conto di dover trasformare, di dover promuovere quei valori che in qualche modo, in precedenza, erano già esistenti. Noi eravamo soltanto delle rappresentazioni. Eravamo degli strumenti di un qualcosa già esistente. Riuscivamo a dare voce all’esistente e oggi, invece, dobbiamo promuovere. Promuovere socialità e azione sociale, per utilizzare un termine caro alle ACLI in tutta la loro storia, vuol dire saper interpretare i l ruolo di sentinelle nel territorio. Sentinelle capaci di leggere questo territorio, di scorgere le difficoltà, di stare nei luoghi del rischio: questo è il punto che storicamente ha caratterizzato maggiormente le ACLI, talvolta mettendole anche in forte difficoltà, in situazione di fatica, ma comunque sentinelle che sanno trasmettere, che sanno allertare. Noi cerchiamo ancora oggi di svolgere questa duplice funzione, rinnovando le metodologie e cercando di predisporre, di preparare i nostri dirigenti a far tutto questo. Se nel passato la relativa semplicità, o minore complessità del territorio consentiva a persone semplici, popolari, che svolgevano la funzione dirigenziale dell’Associazione, nei diversi territori , nei circoli, di poter compiere questa missione di sentinella, di poter guidare, di poter accompagnare la propria comunità nei percorsi della propria vita, oggi abbiamo bisogno sempre di più di strumenti nuovi e di una formazione specifica. Vado già a prefigurare quello che vorrei dire nella seconda parte. Abbiamo bisogno di persone preparate. Questo perché quella città che ci è stata descritta in questi giorni, quella città che si modifica non tra quartiere e quartiere, ma tra via e via, tra isolato e isolato è difficile da comprendere, da interpretare e all’interno di essa è difficile fare promozione sociale. Anche per un particolare destino, che credo caratterizzi la nostra Associazione (forse non solo la nostra), noi abbiamo mantenuto nei circoli e nelle realtà territoriali , una forte identità. Nelle ACLI troverete circoli che hanno un’adesione partecipata e convinta da parte degli iscritti . Ma, a questa forte identità territoriale, legata al nucleo e alla comunità che ha costituito il circolo medesimo, corrisponde invece spesso una debolezza nei legami associativi complessivi. Le ACLI si sono diffuse molto, si sono radicate profondamente, ma faticano a far sì che questa rete sia coesa e che vi sia la capacità da parte di tutti gli iscritti , ma anche da parte di tutti i dirigenti territoriali , di far emergere quali sono i valori più capaci di dare dinamismo, di produrre nuovo pensiero che l’Associazione e le ACLI nel loro complesso possono dare. In qualche modo, lo sforzo che stiamo facendo, oggi ancora più di un tempo perché c’è più necessità, è quello di far scorgere a tutti che anche nel frammento, cioè nell’attività associativa specifica, nell’attività del circolo, nell’attività di un centro servizi, nelle attività più diversificate che vengono promosse, nel frammento c’è, o ci

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dovrebbe essere sempre, la visione del tutto. Cioè il progetto di società che sta a monte e cioè il vivere la socialità non soltanto come lo stare insieme, ma lo stare insieme con un progetto, lo stare insieme prefigurando un modello di società. Un modello attento agli ultimi, un modello che sappia dare spazio alla vita spirituale, un modello che consideri il lavoro come piena realizzazione dell’uomo e come contributo dell’uomo al progetto della creazione. Per noi è importante promuovere una cittadinanza responsabile, facendo scorgere a pieno la varietà dei carismi laicali . È fondamentale riuscire a far comprendere che si può, nella società, svolgere tante e diverse funzioni. Anche le più umili . Anche quelle che non fanno prefigurare un impegno importante, rilevante nei confronti della collettività, ma che sommate, che viste nell’ottica del tutto possono ricomporre i diversi frammenti e quindi aiutarci a comprendere questa grande complessità che abbiamo intorno a noi.

Claudio Gentili

Chiedere a Franco Pasquali, che rappresenta la Coldiretti , cosa fa la sua Associazione nella città è un po’ porre il problema del rapporto città-campagna. Se pensate al film “Il laureato”, ricorderete come in quel film ci sia in nuce una rota di lectio divina sulla nascita della città, di cui ci ha parlato Mons. Simoni, e cioè su Enoch, figlio di Caino, sul peccato originale della città, sulla città che è un luogo di perdizione. Invece della campagna come luogo della tradizione, dei valori caldi. Cosa fa un’Associazione come la Coldiretti per rendere più umana la città?

Franco Pasquali

Anche io vorrei partire, a questo punto, da un richiamo a un film, “Blade Runner “, visto che nel 2007, a livello globale, avremmo più cittadini urbanizzati nelle megalopoli che non nel rurale. Questo è un dato storico. È la prima volta che ciò accade, con delle conseguenze che poi leggeremo e “governeremo”. Partendo da questo la città fa emergere drammaticamente delle situazioni molto pesanti , che obbligano un’interazione col proprio territorio molto più forte rispetto al passato. Mi riferisco alle sindromi di inquinamento che in questi giorni stiamo leggendo già come effetti devastanti, penso all’effetto Cina, quando si parla di città che hanno sessanta giorni all’anno di respirabilità, contro i restanti 300 giorni di irrespirabilità. Quindi città con una situazione estremamente pesante anche dal punto di vista delle qualità umane, non solo economiche e quant’altro. Quindi è chiaro che ci sono delle emergenze impellenti su cui bisogna, anche in modo severo, deciderne un atteggiamento. Forse i protocolli che sono stati firmati, Kyoto e quant’altro non sono più sufficienti, ma occorre avere un coraggio più forte. Passando a quello che si fa oggi e a quello che facciamo noi nel nostro Paese, partendo da un altro aspetto che abbiamo visto ieri, in modo particolare, l’Italia ha una sua originalità rispetto a queste situazioni. Il nostro Paese ha ottomila comuni, ottomila cittadine, mille piazze. Non è, quindi, modello della megalopoli, per cui sbaglieremo a semplificare l’analisi traducendo tutto nello stesso modo. Non ha problemi? Ne ha altrettanti, ma diversi. Quindi noi ci relazioniamo con questo ambito, con delle azioni e con delle relazioni. Quali sono le azioni che noi abbiamo messo in moto nel giocare in modo diverso l’agricoltura. Innanzitutto bisogna farsi carico, come realtà produttive, non solo agricole ma anche

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manifatturiere, di una nuova idea di sviluppo. La discriminante, oggi, tra chi è disponibile a mettersi in gioco su un nuovo modello di sviluppo e chi no, è quello che fa il successo di un sistema. Noi riteniamo che occorra rigenerare profondamente lo sviluppo che abbiamo di fronte. È finita l’industrializzazione, come l’abbiamo vista, e siamo nel post-fordismo. Riempiamo il post. Questa è stata la sfida che ci siamo dati. Come? Dare le armi per leggere quello che accade. ma con una traiettoria precisa. Nel nostro Paese purtroppo una traiettoria precisa non c’è. Siamo alla ricerca di una traiettoria precisa di sviluppo, quindi coloro che operano partono da questo contesto. Come intrecciare queste forti emergenze con delle azioni. Come intrecciare l’energia, per esempio. L’energia più pulita. Abbassare le polveri. Oggi l’agricoltura può farlo producendo i biocarburanti . L’Italia può fare oltre il 6% del petrolio usato nel nostro Paese, che sono dieci milioni di tonnellate equivalenti a petrolio: questo significa che si abbassano drasticamente le polveri. Per esempio impiegandoli nelle flotte pubbliche. È una situazione che già contribuisce direttamente ad educare sul fatto che c’è un qualche modo diverso di procedere. Noi siamo impegnati su questo in modo molto pesante, non solo con dei “prodotti energetici” ma anche con delle relazioni. Affrontando questo aspetto, qui siamo specifici, aggredendolo sotto un contesto più generale nel protocollo di Kyoto; non è solo che produciamo un no food, ma produciamo anche un contesto di diverso modello di approccio. Passando poi ai prodotti che sono destinati alle nostre mense, cerchiamo di lavorare ad una gestione che veda impegnata in modo diverso la città con il suo territorio. Qui saltano fuori tutti i problemi, per esempio, dei riciclaggi. Penso ai prodott i rinnovabili , penso alle plastiche da prodotti agricoli: quindi anche una più facile gestione dei rifiuti . Penso al discorso del cibo, che è, oggi più che mai, legato ai territori e contribuisce a ridare una qualità e un’identità forte anche a chi consuma, quindi una consapevolezza e un orgoglio. Contribuisce anche a permettere il racconto di un progetto nuovo, il che è sempre decisivo nel fare del nuovo. Ma ho detto non solo azione, anche relazioni. Le relazioni sono mettere in evidenza gli attori del modello che sta emergendo. L’attore nuovo non è più l’industria, non è più la fabbrica. L’attore nuovo sta diventando, in maniera dirompente, il cittadino consumatore. Anche con una scelta forte. Se il cittadino consumatore è un attore nuovo allora bisogna parlare con il cittadino consumatore. Bisogna essere in grado di andare nelle piazze a incontrarlo e a costruire con lui un dialogo. Noi abbiamo scelto questa strada: abbiamo fatto raccolte di firme su iniziative: l’etichettatura con l’origine, i biocarburanti. Sono pretesti che rompono un diaframma tra territori, aprono la città, aprono il territorio e questo, a nostro avviso, è un elemento innovativo in senso generale. Quindi ridà coscienza dei luoghi, dei luoghi in modo più vasto, e permette anche un dialogo che rende meno autoreferenziali i soggetti che si muovono, perché tu devi sempre relazionarti con la possibilità di spiegare il tuo progetto, di spiegare quello che fai. Perché se noi vendessimo solo biocarburanti (semplifico) ma non avessimo raccolto le firme presso le piazze, non facessimo una comunicazione forte per spiegargli che dietro quel biocarburante c’è un’azienda nel territorio che fa quelle produzioni in modo pulito, verrebbe depotenziato questo messaggio di modello. Quindi un fare agricoltura a 360°, multifunzionale. Ci siamo chiesti anche: visto che la globalizzazione richiede specificità per reggerla, questi sono tutti atti che vanno in questa specificità, ma che coerenza e che spendibilità ha questo modello con il Sud del mondo? Ci sono oggi due

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tendenze diametralmente opposte: il Sud si sta inurbando e il Nord del mondo si sta espandendo sul territorio. I ricchi stanno uscendo dalle città, anche nel nostro Paese. Quindi questo problema Nord-Sud è presente a tutti i l ivelli . Io credo che il problema è che oggi è possibile costruire, nel post-fordismo dell’agricoltura, un modello che sia molto più omogeneo a livello del nord e sud del mondo: un’agricoltura multifunzionale può avere questa interazione, più aperta e più comprensibile in un percorso che può essere fatto come sfida più ampia. Lo dico perché lo stiamo misurando in questi giorni, in sede di OMC, la trattativa di questi giorni, può aiutare ad abbassare le barriere protezionistiche e a creare un valore aggiunto che va bene agli agricoltori, ai piccoli-medi produttori brasiliani e africani e anche del Nord del mondo.

Claudio Gentili

Chiedere a Sant’Egidio e al suo rappresentane se si occupano di città è come chiedere a un’eschimese se vive al freddo, nel senso che Sant’Egidio nasce dentro la città. Mario Marazziti è anche autore di un libro “La città di tutti”, che è un po’ un diario sociale di questo organismo vivo che è la città. A lui chiediamo qualche idea nuova, anche per trasmettere e trasferire la ricchezza di un’esperienza spirituale, come quella di Sant’Egidio che si incarna quotidianamente nelle nostre città.

Mario Marazziti

“La città di tutti . Diario sociale di una grande città”: sono 148 pagine, ve le leggete voi. Io ne traggo solo alcuni spunti. Intanto vorrei dire che è giustissimo quello che ha detto Franco, sul fatto che l’anno prossimo è il primo anno della storia umana dove più di metà della popolazione sarà in città. Cinquant’anni fa c’erano solo due città con più di dieci milioni di abitanti: New York e Tokyo. Adesso ce ne sono già ventitre e diciannove nel Sud del mondo. Bombay: diciotto milioni di abitanti in baraccopoli: più di tutta la Norvegia. Noi parliamo dell’Italia, ma almeno ricodiamocelo perché dovremo avere un rapporto con tutto questo. Sant’Egidio nasce nella città. Sembrava che tutto dovesse passare per la cristianizzazione della città attraverso la professione, attraverso la politica. Sant’Egidio prova ad essere cristiani e ad essere umani: ovvero preghiera, comunità, amici dei poveri. Tutto il Vangelo, e quindi non solo una parte di esso e non solo per gli specialisti . E dall’altra: tutto ciò che è umano mi interessa. Il risultato è stato, per esempio, volontariato puro, cercare di essere amanti dell’uomo, della donna, dei poveri nella città. Preghiera, amicizia, poveri. Che cosa significa tutto questo? Che dobbiamo fare nella città? Io mi ricordo di aver sentito a Bologna: “San Martino divide il mantello e noi facciamo la fabbrica del mantello”. Sant’Egidio invece non fa la fabbrica dei mantelli . Non perché lo ritiene sbagliato, ma perché non è quello che sentiamo come nostra vocazione. Per esempio noi abbiamo scelto volontariato puro e non terzo settore a metà tra profit e no profit . È tutto sacrosanto e legittimo, parlo ad amici, tanti sono coinvolti in questo, però io ho un punto di domanda a cui non ho una risposta definitiva: per esempio se nella città è opportuno creare tante cose intermedie, profit e no profit , oppure, per cambiare e umanizzare la città, se sia meglio o peggio Bill Gates e Warren Buffet, che creano il più grande fondo di solidarietà mondiale per

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cambiare dei pezzi di mondo. Lo dico per dire che siccome non c’è un antidoto al diventare come gli altri nel peggio, io non ho una scala di valori, nella città, per dire se una cosa è ontologicamente meglio (in quanto la facciamo noi) di quella stessa cosa fatta da altri . Dov’è che si deciderà quando quello è meglio? Siccome non ho questa risposta definitiva, noi abbiamo pensato che per stare nella città e per umanizzare la città dobbiamo mettere al centro la preghiera. Al centro della vita della città c’è questa preghiera serale, in tanti luoghi, che è un modo di ripensarci tutti come animali urbani. Nel momento in cui tutte le chiese del mondo chiudono noi abbiamo ricominciato ad aprire la Chiesa, pensandoci dentro la città, cioè nei ritmi di una vita urbana. La città come? La città dell’inclusione e non dell’esclusione. Tutti ci siamo interrogati sul problema delle periferie parigine. Ci sono i super realisti , i quali ci hanno detto che il problema delle periferie parigine è anche il problema dell’eccesso di immigrazione e così via. In realtà, i l mio parere è che la periferia parigina ci pone davanti un problema: il problema di città fatte male, di vita sociale fatta male. Non il problema di un eccesso di umiliazione, ma di un’assenza di politica e di integrazione sociale. Il problema è l’integrazione e non il minor numero di immigrati o altro. La politica di naturalizzazione e di integrazione dei diritti è fondamentale e va accompagnata con un investimento in politica e di integrazione sociale. Per questo noi ci muoviamo. Nella città: la prima cosa che bisogna fare è accorciare le distanze. Noi siamo tanti, siamo diversi e viviamo gli uni accanto agli altri . Ci sono i semplificatori che dicono: separiamo, i diversi o i poveri sono troppi. Io dico, invece: accorciamo le distanze. Dico: più integrazione sociale. Provare a vivere senza nemici e una città, i l pilone più debole, a misura dei deboli è per forza a misura di tutti . Due proposte concrete: cit tà plurali , no allo scontro di civiltà, no alle semplificazioni. Anziani, immigrati: come trasformare ciò che è sentito come problema in qualcosa che sia, di fatto, una risorsa. Anziani e immigrati , a mio parere, sono due grandi terreni dove, nella città, quello che è avvertito come problema può diventare una risorsa. Noi abbiamo provato (faccio solo l’esempio di Roma) dopo le morti per i l caldo, a inventare un programma che vada a scoprire gli anziani nascosti e quindi quelli che muoiono per il caldo e per il freddo. Dopo tre anni abbiamo un risultato. Integralmente coperti due interi quartieri di Roma, noi abbiamo fatto trentacinque mila interventi, o di contatto o di visita, coprendo circa tremila anziani, prima andando a scoprire quali erano, perché i registri del Comune non sono aggiornati. Il risultato finale è questo: in questi punti c’è minor mortalità, siamo al 5,4 della mortalità degli ultra settantacinquenni, a livello nazionale era il 7,2 nell’anno più favorevole dell’ultimo decennio, che è stato il 2002. Si muore di meno di quando si muore di meno in Italia. Chi? I più a rischio, i più nascosti, i più deboli. Tutto questo costa mezzo euro al giorno per anziano. Tutta la nostra politica sociale e sanitaria, invece, è istituzionalizzazione, allontanamento dalla famiglia, non inclusione, ma esclusione, nascondimento, solitudine, morte da soli. Detto questo, domanda: non è possibile che si crei sinergia per far diventare questo modello di cambiamento globale, di idea globale di vita in città, dove si vive in un posto, si lavora in un altro e ci si diverte in un altro ancora e dove, alla fine, chi non ce la fa non vive, non si diverte e non lavora? Seconda cosa: immigrati , cittadinanza. Abbiamo lavorato fortemente per l’integrazione, per la regolarizzazione, per togliere dalla clandestinità e dalla marginalità centinaia di migliaia di immigrati. Il successo di aver provocato la più

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grande regolarizzazione della storia italiana con la legge Bossi-Fini, che è stata la più grande restrizione sul terreno dell’immigrazione della storia italiana, è stato un successo molto forte, ottenuto anche insieme alle ACLI e a molti altri tra voi. Detto questo oggi lavoriamo sul problema della cittadinanza, modifichiamo il diritto di cittadinanza da ius sanguinis a ius soli , anche a ius domicili; lavoriamo per la cittadinanza dei bambini italiani nati in Italia, miglioriamo il percorso di cittadinanza per gli immigrati già regolari e già presenti nel Paese: non più dieci anni più tre per avere le pratiche in regole, ma qualcosa di più normale e di più umano. Io credo che tutto questo possa essere un modo per essere umani, cristiani e lavorare per la città di tutti .

Claudio Gentili

Alberto Ferrari rappresenta il CTG, cioè il Centro turistico giovanile. Che senso ha, per un’associazione di promozione dell’educazione al bello, al godimento delle nostre bellezze, al turismo intelligente e così via, la città? Come il CTG vive il suo rapporto con la città?

Alberto Ferrari

Ieri Fusco Girard nella sua relazione mi ha dato un po’ un assist, nel senso che ha parlato del turismo come seconda economia mondiale, dopo quella del petrolio, quindi non mi sento tanto un pesce fuor d’acqua in questa sede. Il problema è che non bisogna parlare solo di economia del turismo, ma di tutto quello che muove il fenomeno turistico. Tu dicevi, giustamente, qual è l’educazione al turismo nelle città? Nell’immaginario collettivo ci immaginiamo il turismo come fuga dalle città. In realtà, nella nostra realtà italiana in particolare, come si diceva ieri che non c’è nessuna nazione che ha i siti Unisco come quelli i taliani, molti di questi siti Unisco sono le città. Allora c’è la necessità di riscoprire questo lato della città e noi abbiamo lanciato, in questi anni, anche alcune campagne su questo versante. Noi non ci occupiamo solo di giovani, ma anche di famiglie, di gente normale. Siamo nati nel ’49, dall’Azione cattolica e chi c’è stato nel ’49 si è trovato bene e non ha più voluto andar via, quindi ci portiamo dietro anche tutta l’esperienza adulta. Noi abbiamo recentemente lanciato una campagna rivolta ai giovani e alle famiglie, in cui abbiamo detto che ciò che conta è lo stupore. Oggi non sappiamo più stupirci. Giriamo nelle città è le viviamo quasi come non luoghi. Invece bisogna andare a riscoprire la bellezza di una città che non è fatta solamente di monumenti o delle vestigia storiche, ma della gente che ci vive ancora dentro. Perché crediamo che le città non si possano vivere come musei, ma vadano concepite nella loro interezza globale. Questo discorso lo abbiamo portato ai ragazzi nelle scuole, con l’iniziativa: “Un’aula grande come la mia città”, e abbiamo scoperto che i ragazzi di Torbellamonaca non conoscono Roma. Sono ragazzi di Roma ma non conoscono Roma. Restano a bocca aperta se li porti al Pantheon, ad esempio. Questa è la realtà in cui troviamo oggi a vivere. Ci siamo accorti che i ragazzi e i giovani sono un altro segmento debole della nostra città. Ci siamo accorti che queste non sono costruite a misura dei giovani. Abbiamo dei luoghi dove li ghettizziamo: abbiamo dei bar, abbiamo dei pub. Ma non sono i luoghi in cui i ragazzi crescono, non sono i luoghi in cui entrano veramente in contatto con quelle che sono le dinamiche della città. E quando dico “dinamiche della città” intendo tutto il discorso della cittadinanza e cioè dell’essere

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protagonisti all’interno del loro mondo. Se non cominciano ad esserlo a scuola, il rapporto con la città che gli sta attorno diventa molto più difficile. Un altro anello debole che abbiamo trovato, e concordo con Mario Marazziti, è il discorso degli immigrati. Noi abbiamo tentato delle esperienze di turismo nelle città per gli immigrati, perché gli immigrati e i figli degli immigrati non conoscono le nostre città. Non vivi una città se non conosci la città in cui vivi, se non sai la sua storia, se non sai il perché di quel monumento, se non sai il perché di quella Chiesa. Abbiamo avviato un’iniziativa finanziata con la legge 383 sull’associazionismo di promozione sociale. Il problema è che noi dobbiamo arrivare all’integrazione anche tramite la conoscenza delle nostre città da parte dei cittadini immigrati che vi si trovano. Dico questo perché noi agiamo in una maniera particolare: agiamo con delle realtà che sono nelle città e che sono i gruppi che costruiscono il turismo per sé, un turismo di uscita ma anche un turismo di conoscenza del luogo in cui vivono, di valorizzazione del luogo. Parliamo anche delle case periferiche, che non vanno viste solamente come un piatto o come un letto per dormire, ma anche come un luogo per entrare in un territorio, in un territorio particolare come è quello della città. Non è una questione facile, però credo che dovremmo imparare a vivere le città anche nel tempo libero. Noi non siamo solamente associazione di turismo, ma siamo associazione di turismo e tempo libero, perché poi il turismo si fa in gran parte nel tempo libero. Allora ricordo quello che diceva Giovanni Paolo II, proprio in un discorso al CTG: “L’uomo è più libero nel tempo libero”. Questo perchè ha la possibilità di riscoprire se stesso, di rientrare più in contatto con gli altri , di scoprire anche Dio attraverso la conoscenza degli altri . Noi parliamo di ambiente ma ci dimentichiamo che il nome più alto di ambiente è creato, ed è creato sia nelle parti naturali che nelle parti che l’uomo, come maggiore creatura di questo creato, ha contribuito a edificare. Allora credo che dovremmo riuscire a vedere il creato anche nelle città, che possono sembrare la cosa più contraria, perché quando parliamo di creato pensiamo immediatamente alla natura, pensiamo a Vallombrosa, pensiamo ai boschi, pensiamo al mare, alle montagne ecc. C’è un creato che è il creato delle città, che sono opera dell’uomo ma diventano in se stesse opera di Dio, quando l’uomo le costruisce da cristiano.

Claudio Gentili

Ascoltando questa riflessione di Alberto mi veniva in mente il commento che al salmo 127 ci ha offerto il Cardinal Nicora, soprattutto quando insisteva sul fatto che Dio cambia il nostro cuore, non cambia le cose. E persone con il cuore trasformato diventano capaci di cambiar le cose. La domanda che vorrei fare a Marco Sala, che rappresenta qui l’Agesci, è come un’associazione che ha fatto del primato dell’educativo la sua ragione ontologica, crea personalità significative che sappiano creare città diverse e umanizzare la nostra città.

Marco Sala

Dici giustamente che la nostra è un’associazione educativa, che pone al centro del proprio essere il giovane e la giovane, il ragazzo e la ragazza, il bambino e la bambina. E la sua azione, l’azione degli educatori , l’azione dei suoi capi, l’azione totalizzante della sua associazione è portare questi ragazzi a essere persone

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responsabili di sé e responsabili dei luoghi dove si trovano a vivere. Vado per immagini. La prima immagine che mi permette di collegarmi al tema della cittadinanza deriva proprio dal nostro fondatore, da Baden Powell . Inventarsi lo scoutismo e il buon cittadino sono stati un tutt’uno per lui. L’immagine del buon cittadino è stata l’immagine che lo ha spinto a pensare a un metodo educativo che aiutasse i giovani e le giovani a diventarlo. Era la necessità di avere uomini nuovi che fossero partecipi e fossero responsabili della società dove si trovavano a vivere. La seconda immagine è quella della seconda intuizione di B.P., quella che dedica allo sviluppo complessivo del ragazzo, del carattere, della salute, delle capacità manuali, ma soprattutto del senso religioso della vita che si traduce nel servizio, l’obiettivo completo di progetto su queste persone. La responsabilità verso il sociale e la fratellanza fra le persone nei luoghi dove le persone vivono, sono i cardini fondamentali . Poi questo nel tempo è cresciuto. Lo spirito di cittadinanza si declina come educazione al servizio, come educazione alla responsabilità, alla legalità e, ultimamente, come educazione alla polit ica, intesa proprio in questa accezione della presenza attiva, della cittadinanza attiva all’interno dei nostri luoghi. Baden Powell dice che porre delle responsabilità sui giovani e aiutarli a crescere. Porre delle responsabilità in maniera graduale e aiutarli e prepararli ad assumersi personalmente le responsabilità della vita. Acquisire i diritti dipende dalla capacità di essere persone che sanno cos’è il proprio dovere. Pensate ad andare a fare oggi ai giovani e alle giovani, in una società come quella tipica delle nostre città, delle proposte di questo tipo. Può sembrare sicuramente selezionante. Per noi non lo vuole essere. Vuole essere, anzi, aiutare il più possibile in questo spirito di assunzione e di responsabilità dei singoli, ad avere uomini e donne della partenza, che hanno completato un iter di formazione, attivi all’interno della cittadinanza e della città. Una seconda immagine: se vedete passare dei boy scout vedete che hanno tutti i l foulard al collo e hanno un distintivo con il nome della propria città. Il foulard è del colore del proprio gruppo e il proprio gruppo è quello del proprio paese e della propria città. Il nome del proprio paese e della propria città sulla spalla ricorda a ciascuno di loro che non sono in un’isola felice, che non sono in un ambiente protetto che gli permette di essere delle persone fortunate. Lo sono, ma sono delle persone fortunate perché hanno la possibilità di crescere per mettersi a servizio degli altri , a servizio della città. In questo modo l’acquisizione della partecipazione al bene comune diventa una partecipazione di crescita personale. La seconda immagine: chi pensa allo scout pensa all’uomo e alla donna della frontiera, dell’avventura, all’uomo dei boschi che va con i calzoncini corti in mezzo a questa splendida natura, probabilmente avvicinato come cultura a un certo tipo di “turismo ecologico” di queste persone. Il nostro andare nei boschi è tuttora una cosa vincente. È un’esca importante per i giovani. Ma perché dai boschi si torni, all’interno delle città, con un cuore nuovo, come dicevamo prima. E questa metafora è una metafora che va all’interno dell’esperienza concreta: noi insegniamo ancora a fare i nodi, insegniamo ancora ad accendere un fuoco. A prima vista uno si chiede cosa farci di un nodo o di accendere un fuoco nella città. Invece l’acquisizione di queste capacità, che sono delle capacità personali , dirette, che danno soddisfazione per un risultato ottenuto, ti dà la capacità e la possibilità di poter crescere in questo. Mi è piaciuto molto il discorso che ha fatto Andrea Olivero del progetto, della necessità di avere un progetto comune. Questa carrellata mi sembra che stia

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andando anche a delineare come queste sinergie si basino proprio su un progetto che deve essere comune. Per noi progettare è fondamentale. Il tema del progetto attuale della nostra associazione è: “Testimoni nel tempo, che agiscono in rete”. Il progetto è qualcosa che si fa in un luogo su delle persone precise, determinate e che si aiutano a crescere. C’è un tempo in cui questo progetto si realizza. C’è un termine in cui questo progetto viene verificato. Anche nella città questo modo di agire per progetti è fondamentale. Cosa deve avere al centro e cos’ha per noi al centro questo progettare? Al centro ha la persona. La persona col suo forte protagonismo, con la responsabilità che viene acquisita man mano che cresce e scopre le proprie capacità. Acquisisce fiducia in sé e acquisisce fiducia negli altri . Nell’incontro di questa rete che si crea sul territorio mi accorgo che io, ragazzo e ragazza, non sono l’unico, non mi chiudo nel mio gruppo in cui faccio esperienza, in cui inizio a provare ad acquisire responsabilità, ma mi incontro con tanti altri , che magari mettono in crisi quelle che sono state le convinzioni che io ho avuto fino a un attimo prima. Ma ho le capacità per poter insieme a loro trovare qual è l’idea migliore per poter proseguire. Questo ci permette di avere anche dei tempi della crescita delle persone che sono dei tempi che vanno al di là dei tempi dell’uomo corrente. Non tutti i ragazzi crescono in maniera uguale: hanno bisogno di un progetto che si declini in tempi personali e la città, spesso, questi tempi personali non li accetta, non li accoglie. Anche la scuola, ultimamente, sta andando in direzione un po’ contraria a costruire dei progetti calibrati sui tempi di ciascuno. Invece il progettare la propria vita ha anche la necessità di tempi diversi. Allora, come capo educatore, accogliere i tempi dei ragazzi che ti sono affidati. Questo ti aiuta anche a vedere un orizzonte di trascendenza, cioè un orizzonte che non è limitato, che non è finito lì . E i ragazzi le capiscono queste cose, le accolgono. Dicevo prima che può sembrare selezionante, ma non è così. Se l’esca è buona l’esca è qualcosa che attira e fa appassionare. Allora nei nostri progetti dobbiamo mettere delle esche entusiasmanti, delle esche adatte ai tempi di oggi, delle esche che siano legate alla tipicità del tempo. Le immagini che dicevamo prima, che mi sono piaciute molto, come quella di Andrea del progetto, del fare insieme, il pilone del debole. Pensate nelle nostre squadriglie come l’attenzione all’ultimo, al novizio, da parte del capo squadriglia, è una propedeutica. L’attenzione al più debole, all’inesperto, quello che non ha ancora le capacità per. L’inclusione e non l’esclusione. Il tentativo di rimanere nelle nostre unità può sembrare discriminante o selezionante, ma invece il tentativo è quello di includere tutti , per poter poi, con questa esperienza, andare ed uscire. La preghiera. Anche questa diventa un’immagine fondante nel nostro processo educativo. Anche nella nostra città le sedi che si aprono. Abbiamo delle belle esperienze di questo tipo. Le sedi regionali dove la Chiesa, sull’esempio loro, è aperta alla città. È la sede del gruppo scout ma è la sede che si apre all’interno della città. Quindi un’idea globale è un progetto globale di vita che fa della nostra parte una parte che si completa con le parti degli altri . Scusa se cito ancora Andrea, ma nella formazione di Andrea c’è un grosso pezzo di esperienza di vita scout. Nell’esperienza di tanti di noi c’è esperienza di formatori in Azione cattolica. Questo complementarsi e questo contaminarsi ci permette di essere nella città come persone che sanno far diventare luogo di vita e di cuore qualcosa che sembrava arido.

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Claudio Gentili Adesso passiamo alla seconda parte. Abbiamo visto le specificità e mi pare che tutte queste specificità siano una ricchezza. Il punto adesso è: qual’è il valore aggiunto. Cioè perché in venti città, come ci siamo dati in programma e come in parte già abbiamo realizzato, dovrebbe nascere Retinopera? Cosa spiega e cosa giustifica la fatica in più di chi già fa una pesante fatica associativa di creare una rete oltre alla rete associativa? Questa è la domanda fondamentale. Non vorrei buone intenzioni ma fatti . Perché le buone intenzioni ci lasciano come prima, mentre il racconto di qualche fatto aiuterà poi Paola, che chiuderà la nostra riflessione, a dare degli spunti sulla base di una realtà, che abbiamo già ascoltato soprattutto la prima sera. Per fare la domanda io vorrei riandare al nostro documento fondativo, che diceva sostanzialmente quattro cose circa il perché deve nascere Retinopera? Parliamo del 2002, del documento “Prendere il largo”. Primo elemento: riappropriarsi della dottrina sociale della Chiesa, nella sua interezza. Vuol dire non in modo bipolare. Questo è un fatto che a me sta sempre a cuore. Significa che non c’è l’associazione sensibile alla pace e quell’altra, dall’altra parte, sensibile alla famiglia. Ma articolo 11 e articolo 29 della nostra Costituzione: “Simul stabunt simul cadunt”. Secondo elemento: concordare una selezione ordinata di fini parziali. Noi l’abbiamo concordata e si chiama Agenda sociale. C’è scritto: il valore della vita come fine parziale realizzato dal punto di vista del Referendum. Pace (il tema del Nord e Sud del mondo). Immigrati (la cittadinanza, di cui parlava Marazziti). Welfare, i l quoziente familiare. Lavoro. Cooperazione. Impresa. Abbiamo un’agenda sociale. Quindi abbiamo qualcosa che già può costituire una base comune di azione nella città. Terzo elemento: le direttrici in cui muoversi. Io ricordo sempre che se Retinopera non avesse avuto alle sue spalle la forza spirituale del card. Nicora ci saremmo stufati molto presto. Abbiamo fatto decine di incontri sempre fondati su una fortissima dimensione spirituale. Non era un incontro per coordinare organizzativamente le associazioni, che sarebbe stato vuoto. Diceva prima Marazziti: preghiera nella città e impegno. Quattro direttrici dunque: spirituale, culturale, educativa, operativa. Sull’ultima dimensione. quella operativa, pesa la riflessione sull’azione cattolica con la “a” minuscola, diciamo così. Quale tipo di azione facciamo sulla città. Ultimo: formazione di laici autenticamente liberi e responsabili . Questo è un po’ il menu da cui siamo partiti . La mia domanda è: a quattro, cinque anni di distanza dalla nascita originaria e a un anno e mezzo, due anni dalla nascita delle associazioni, qual è, secondo voi, dalla vostra esperienza, i l valore aggiunto di Retinopera.

Luigi Alici

Io provo a rispondere in maniera indiretta, spero non troppo, sottolineando la centralità della riflessione sulla comunione che, non soltanto per ragioni teologiche come è ovvio, ma anche per ragioni storiche, oggi rappresenta per noi una grande sfida. Questo è il modo in cui, dal mio punto di vista, si può rispondere alla domanda. Il valore aggiunto sta, non nell’elenco delle iniziative che si perseguono o nello scambio di esperienze che, in ogni caso, potrebbero circolare attraverso forme più impersonali e indirette; ma nell’essere un esercizio di comunione ecclesiale in un momento in cui questo è particolarmente urgente. Oggi

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forse si fa fatica, anche nella comunità cristiana, a resistere alla tentazione di banalizzare la comunione, che è invece il più grande mistero sul quale tutta la storia della salvezza può essere, in un certo senso, ripercorsa e misurata, perché il nostro tempo, la nostra cultura ci portano a pensare la relazione tra le persone secondo il modello mercantile del contratto, del contratto tra pari, che si scelgono in un regime revocabile, di neutralità originaria. Quindi questo ci porta, soprattutto nei confronti dei giovani, a pensare la relazione come il risultato di una scelta e non come un orizzonte che ci precede, che ci custodisce e che ci vincola. Questa è, oggi, la grande sfida. È una grande sfida che sul versante ecclesiale ci impegna a superare ogni interpretazione federalista della comunione, che di fatto tende a presentare la Chiesa al mondo come un contenitore di esperienza, spesso competitive, se non conflittuali e, nelle quali, per tornare al tema di Verona, si perde il valore profetico del noi. Guardando a Verona, il soggetto della speranza, essenzialmente, nella prospettiva cristiana e nella dimensione teologale della speranza, è il noi. Ma noi sappiamo che il noi si può intendere in tanti modi: si può intendere come risultato di una somma tra l’io e il tu e si può intendere come risultato della somma tra la prima, la seconda e la terza persona. Per un cristiano il paradigma ultimo sul quale misurare il tasso di credibilità della nostra comunione, è quel paradigma misterioso e inarrivabile che è la comunione dei Santi , rispetto al quale i passi di Retinopera non possono che apparire dei passi di formica, che impegnano ad accelerare sempre di più. Ma questa sfida assume anche un carattere storico in rapporto ai tempi che caratterizzano il paese, la vita delle città in genere, perché, da un certo punto di vista (provo a dirlo nella maniera più soft possibile), anche nel panorama politico si sta di fatto rafforzando un vero partito trasversale che è quello che continua, a destra e a sinistra, a inoculare nell’organismo sociale, i l virus dell’individualismo libertario, nei confronti del quale ci si aspetta che il mondo cattolico continui ad offrire degli anticorpi solidaristici, curando le sofferenze sociali , senza avere il dirit to di interloquire sui fattori che li provocano. Questo, certo, rappresenta una grande responsabilità per i cattolici e una grande responsabilità per Retinopera. È chiaro che ci sono dei livelli diversi di testimonianza, perché il vincolo della comunione, da un certo punto di vista, ci porta a misurarci secondo quel paradigma inarrivabile della comunione dei Santi. Lo sappiamo, la comunione è la forma redenta e liberata della fraternità. Ma c’è un volto civile della comunione cristiana che è quella testimonianza di fraternità, se vogliamo potremmo anche dire di amicizia civile, nella quale si cerca di far passare questo messaggio fondamentale, secondo il quale la relazione tra le persone non è il risultato di una scelta facoltativa, ma è un orizzonte condiviso nella misura in cui è ancorato al bene comune, che è molto di più della somma degli interessi individuali. Quindi credo che ci sia, da un certo punto di vista, un rapporto, anche se –ripeto- a livelli diversi, tra la responsabilità che Retinopera ha a livello ecclesiale, di essere non semplicemente un luogo in cui aumenta il flusso di scambio di esperienza; ma sia un luogo nel quale si testimonia il noi della speranza, in una forma di convergenza profonda che sia, di per se stessa, un luogo testimoniale. Le realtà aggregative della Chiesa non offrono soltanto un alimento alla virtù individuale della testimonianza, ma hanno un valore nella misura in cui esse stesse si presentano in termini comunitari, secondo la forma della testimonianza. Quindi da un certo punto di vista credo che, soprattutto oggi, Retinopera, abbia una grande responsabilità nell’essere un luogo di esercizio di comunione testimoniabile, riconoscibile e autentica. Ma abbia un ruolo anche nei confronti

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del paese, per rimettere al centro del dibattito quell’insieme di legami tra le persone, senza i quali un paese non sta insieme e che rischiano di essere messi in pericolo se ci si accontenta di considerarli come un collante estrinseco, con il quale si cerca di tenere insieme una convivenza fondata sul principio dell’autoreferenzialità dell’individuo. Qui stiamo veramente in un momento storico di grande svolta. C’è stato il Referendum sulla Costituzione, in Azione cattolica vorremmo iniziare una grande riflessione, invece, sulla prima parte della Costituzione, perché a volte anche coloro che li difendono, quasi in maniera dogmatica, più o meno volontariamente, si rendono responsabili di una delegittimazione strisciante dei valori condivisi che stanno nella prima parte della Costituzione. E noi sappiamo che un paese se perde quel tasso minimale di etos condiviso, entra in un processo involutivo nei confronti del quale nemmeno dei cattolici ridotti ad una croce rossa sociale riusciranno, poi, ad essere efficaci. Quindi vedo questa doppia responsabilità di Retinopera, di esemplarità comunionale a livello ecclesiale e di testimonianza civile in un momento storico in cui questa testimonianza mi sembra particolarmente urgente.

Andrea Olivero

Condividendo completamente quanto diceva ora Alici, parto anch’io dal fatto che il primo aspetto, il primo elemento che ha caratterizzato il lavoro fatto in questi anni, anche il lavoro sul territorio, perché la domanda che ci era posta era su cosa abbiamo trovato, cosa abbiamo sviluppato, quali sono state le esperienze, quindi il primo risultato è stato quello di accorgerci via via di sentirci maggiormente in comunione. Questo è un elemento che naturalmente ha un valore straordinario per noi ed è elemento fondante. Una comunione che, naturalmente, non si era mai spezzata, ma che aveva bisogno di essere rinnovata, di essere sostenuta e, In qualche modo, Retinopera ci ha dato l’occasione per sentirci maggiormente, per rendere anche visibile in alcuni momenti questa comunione, che non è soltanto lo stare insieme. Ma è lo stare insieme vivendo momenti forti di spiritualità, vivendo una condivisione profonda anche nello scambio di idee, nell’approfondimento, nella bozza di progettualità comune come è stato fatto in questi anni. Un secondo valore aggiunto che mi pare sia estremamente significativo, soprattutto nei territori, è quello dell’acquisizione di consapevolezza della non autosufficienza della nostra organizzazione. Noi abbiamo sempre un tasso di autoreferenzialità abbastanza notevole come organizzazione, perché, rafforzando la nostra identità, ed è una necessità per l’associazionismo, per i movimenti, tendiamo a collocarci al centro e quindi far cogliere la nostra esperienza ai nostri associati come l’esperienza che può trasformare la propria vita, far sentire cittadini responsabili , far sentire cristiani pienamente realizzati nella propria comunità. Trovarci insieme da un lato mette in discussione le nostre certezze e dall’altro lato fa capire quanto ci sia una pluralità positiva e quanto noi abbiamo bisogno gli uni degli altri . In molti luoghi questo è venuto fuori nei dibattiti , ma è venuto fuori ancora di più quando si è iniziato a progettare, allora ci si è divisi i compiti e ci si è accorti che vi erano delle capacità specifiche, delle riflessioni, delle progettualità che erano state acquisite nel tempo da ciascuna organizzazione, che potevamo essere messe al servizio di tutti e che potevamo essere fatte fruttare di più nell’interesse della comunità.

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Il terzo elemento è la contaminazione. Se è vero che ciascuno ha una sua specificità, ciò non toglie che non si può dare delega. Venivano ricordati poc’anzi alcuni temi chiave: priorità del povero, la questione risorsa e potenzialità dello straniero. Non sono temi che noi possiamo demandare a una delle nostre organizzazioni: certo, potranno non essere il fulcro dell’attività della nostra organizzazione, ma ci dobbiamo sentire tutti quanti impegnati in questo e quindi alcuni temi che non erano propri di un’organizzazione hanno iniziato ad essere comunque temi importanti, anche in questa organizzazione. Noi l’abbiamo visto in una stagione particolarissima, questa degli ultimi due anni, rispetto al tema della vita, della bioetica. Abbiamo visto come, in qualche modo, questo ci abbia radicalmente interrogato. Come sia diventata priorità anche all’interno di un’associazione per cui la difesa della vita era prevalentemente la difesa dei lavoratori, la difesa degli ultimi, ma non si era mai posta dei termini che, invece, è corretto porre soprattutto oggi, nell’epoca in cui anche la vita umana è manipolabile. Allora la parola chiave che ha caratterizzato sempre Retinopera, cioè la “formazione”, (a più riprese abbiamo detto che è questo il primo compito del nostro stare insieme) credo che vada interpretata in maniera un po’ specifica e particolare: io direi che più ancora che di formazione noi abbiamo bisogno di discernimento comunitario del mondo in cui viviamo. Territorio per territorio. Il fatto che le nostre organizzazioni si trovino luogo per luogo diventa straordinariamente importante, perché questo discernimento è certamente formazione, per le persone che vi partecipano, ma è anche confronto con la Parola, è anche un discernimento alla luce con il Vangelo, ma è anche un discernimento che noi facciamo essendo consapevoli del rischio laicale che poi ciascuno di noi e ciascuna delle nostre organizzazioni deve correre, sporcandosi le mani, come ci veniva detto al principio. Noi abbiamo bisogno di cattolici pensosi, cioè capaci di riflettere, di leggere la realtà, ma anche di disegnare il futuro. Ci veniva ricordato anche qui: l’anno scorso lo abbiamo fatto in maniera specifica, andando a riprendere il codice di Camaldoli e andando a ripercorrere quella stagione del cattolicesimo italiano. Abbiamo bisogno ancora di avere persone che abbiano in tasca non la Costituzione da scrivere nel futuro, ma persone che abbiano dei progetti , delle idee comuni per il futuro, idee non specifiche in tutto ma già precise nella direttrice, ce lo siamo detti anche nell’Agenda elencando quelle priorità che prima Claudio ci ha ricordato. Noi abbiamo bisogno, innanzitutto su questi temi, di trovare dei punti di contatto e già negli anni passati l i abbiamo trovati. Quindi abbiamo bisogno di trasformare queste cose anche nei territori, in proposte condivise, in progetti per crescere insieme. Credo che se Retinopera continuerà a svolgere questo compito, da un lato, di rendere esplicita la comunione che, permettetemelo, la si vede in altre forme e in altri momenti, anche sacramentali , ma abbiamo bisogno a livello comunitario di avere queste espressioni, se riuscirà a scardinare la nostra autosufficienza e ad aumentare la nostra capacità di compenetrarci, di contaminare e far crescere la nostra capacità di discernimento comunitario, credo possa, nei diversi territori , davvero aiutarci a rinnovare il nostro servizio. Perché è questo poi il punto essenziale: vedere le nostre organizzazioni non centrate su se stesse, ma rivolte all’altro, poste al servizio dell’altro e in particolare al servizio dell’ultimo.

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Franco Pasquali Vorrei iniziare ricordando la data in cui si è costituita Retinopera, cioè la fine del ‘900 per proiettarsi nel Terzo Millennio. Ogni tanto ce ne dimentichiamo perché spesso abbiamo ancora alcuni parametri del vecchio secolo nel guardare avanti . Certamente è un’esperienza che oggi mi fa dire che Coldiretti , già come sono collocato oggi tra Sant’Egidio e le ACLI non era una cosa così normale a fine nel Novecento, mentre nel Terzo Millennio è una cosa che sembra quasi naturale. Questo mi fa dire altrettanto che è una sfida che riempie un vuoto. Ed è una duplice sfida e noi dobbiamo rendercene conto. È una sfida di metodo: per continuare ad elaborare come stare assieme, perché è un metodo originale ed è una sfida di contenuti e questo aspetto non è comune perché, spesso, diamo per acquisito almeno uno dei due e qua dobbiamo avere la forza di operare in questi due aspetti . Io parto da questa considerazione definendo anche la Coldiretti come forza sociale di imprese: che non è né una lobby né una corporazione (e questo aspetto delle lobby e delle corporazioni è un tema che sta esplodendo nel nostro Paese). Ci siamo messi in un progetto che ha bisogno di comunione, di sensibilità, di crescere e di dare un valore aggiunto che, dentro Retinopera, noi stiamo costruendo. Un valore aggiunto di nervatura, un progetto sociale, civile che interseca un modo di stare nell’economico, un modo di stare nella crescita dei cittadini che non dobbiamo sottovalutare e che è un’esperienza veramente originale, in Italia e non solo. Credo che dovremmo fare anche patrimonio di questo. Ergo anche saperla raccontare. Lo sforzo che noi stiamo facendo è proprio essere in grado di saper raccontare l’esperienza che stiamo vivendo, con alle spalle delle scelte molto precise. È chiaro che chi sta attorno a questo tavolo ha scelto l’inclusione, lo stare assieme rinunciando anche a qualcosa di ognuno per ottenere qualcosa di più grande. Questo ci deve aiutare a lavorare, anche con più coraggio, anche se, magari, la titubanza del Novecento ci porta a stare anche un po’ fermi. Quindi l’eterogeneità è l’apertura, è il grande valore aggiunto, che io come forza sociale di imprese ho la mia specificità intorno a questo tavolo e lo vedo come un vero grande valore da portare avanti. Io ho scelto di partecipare alla crescita del Paese come organizzazione con un metodo: che è quello di una concertazione progettuale. Progettuale vuol dire avere delle idee. Adesso c’è un dibattito nel Paese, che dice: “Ma no, ma poi tutte queste concertazioni. .”. è bellissima la concertazione. Ma trentasei sigle sono troppe. Come si risolve? Semplifichiamole. Le riduciamo a quindici. Errore. Errore drammatico. Vediamo invece di far crescere la voglia e la sfida di progetto di queste ventisei. Possono anche essere quaranta sigle, che se hanno un progetto non fanno confusione. Andiamo a vedere poi come questi progetti possono essere qualificati. C’è un deficit di direzione, dicevo prima. Retinopera è un forte elemento che può contribuire a creare la giusta direzione di uno sviluppo, quindi è un qualcosa, a mio avviso, che può accelerare questa crescita. Dicevo anche antidoto: oggi sta esplodendo. È inutile che facciamo finta di niente: i l grande cambiamento che stiamo vivendo ha messo alla luce i grandi vizi e le grandi virtù del Paese. I vizi certamente in questi giorni stanno esplodendo: lobbismo, corporativismo. La politica che cavalca e accarezza il lobbismo e il corporativismo, in modo deteriore, ritagliandoci un ruolo al ribasso nel costruire la democrazia, quindi l’esperienza che noi stiamo facendo qua è un antidoto al lobbismo, all’autoreferenzialità molto importante, che ci impegna nel metodo e nel

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contenuto, in particolare oggi che abbiamo nuove leadership attorno al tavolo di Retinopera e dobbiamo costruire una nuova tappa. Nel frattempo, anche qui dobbiamo aiutare a sviluppare le realtà territoriali , che abbiamo visto anche con quanta forza quelle esperienze che ci sono arrivate sul tavolo sono coerenti con questo tipo di traiettoria: una traiettoria positiva. Ecco perché credo che noi dobbiamo continuare a guadagnare quel tempo che mettiamo dentro Retinopera. È un tempo veramente importante per la crescita del Paese, ovviamente con delle caratteristiche particolari. Chi è cattolico oggi non si può sottrarre a costruire una nuova coscienza civile. Retinopera è uno strumento, un acceleratore di una nuova coscienza civile in Italia e noi, come Coldiretti , crediamo che questo sia importante e decisivo, quindi bisogna andare avanti su questa strada. L’invito che io faccio è che quando partite sul territorio, cercate di coinvolgerci, perché a volte rischiamo di essere ancora considerati come una nicchia sociale di imprese per cui si resta sempre in un ambito un po’ particolare. E’ bene che ci si intrecci sempre di più perché c’è molto in comune ed è veramente un grande arricchimento in comune che possiamo avere.

Mario Marazziti

Fermo restando che abbiamo tutti in comune il fatto che vogliamo e dobbiamo cercare di essere laici e aspirare a essere anche santi, questa come idea di fondo per provare a vivere e a cambiare in meglio noi stessi e la società, i l valore aggiunto di Retinopera penso che sia nel fatto che è un’ottima occasione per fare tutti gli sforzi possibili per mettere il reale al centro. Intendo dire: ciò che non è in tv non esiste e per noi il mondo è diverso. Proviamoci. Possiamo vincere o possiamo perdere. Retinopera non è una lobby, comunque, prepartitica o un po’ politica. È un luogo di contaminazione culturale e spirituale, oltre le specificità. Abbiamo bisogno tutti di essere cristiani, seri, adulti e capaci di pensare, quindi un po’ di progettualità. Più maturi, forse più intelligenti. Io credo che Retinopera sia un laboratorio di questo che, in qualche misura, (uso anche io la parola acceleratore) aiuta un po’ le singole associazioni a non dover fare ogni volta tutto il cammino per accumulare il l’esperienza, la sensibilità culturale e spirituale in quel campo specifico che, magari, non è il primo o il principale del proprio impegno e di azione. Questi semi di contaminazione culturale e spirituale poi danno i loro frutti sostanzialmente in luoghi precisi e all’interno dei diversi percorsi associativi, con frutti che a volte vediamo e a volte no. Concludo dicendo che è anche un modo di imparare a vivere carismi senza copyright e questo secondo me apre la fase del Terzo Millennio.

Alberto Ferrari

Noi non abbiamo avuto queste domande stamattina, ma gentilmente Claudio ce le ha fatte arrivare qualche giorno fa, ma credo che sia normale anche perché bisogna anche un po’ prepararsi . Nella domanda scritta che ci ha fatto c’era una parola che mi ha molto colpito e mi ha anche messo in crisi. Stamattina non l’ha usata, ma ha detto: “Raccontate il valore aggiunto”. Nello scritto ha messo: “Raccontate concretamente il valore aggiunto”. Credo che questo concretamente sia veramente un problema, sia veramente una parola che fa paura perché io sono d’accordo con quello che hanno detto gli amici fino ad ora, però guardandomi dentro vedo come è facile enunciare i l valore della comunione e quanto difficile sia poi realizzarla nel

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concreto. Il valore aggiunto dello stare insieme per un cristiano non penso che sia quella che io chiamo la sindrome del monte Tabor. Il monte Tabor trasportato qui a Vallombrosa. “Come stiamo bene qui insieme a Vallombrosa”. Non è che dobbiamo stare qui a costruire tre tende. Stasera torniamo nelle nostre città, nei luoghi da dove siamo venuti. Allora il valore aggiunto è proprio questa capacità di mettersi insieme per sapersi anche mettere in gioco insieme. Perché magari ognuno di noi si mette in gioco da sé, nella sua associazione, ma mettersi in gioco insieme è un qualcosa di diverso e di ancora più difficile. Noi non abbiamo certezze. Credo che noi agiamo nel sociale, nel civile, perché siamo chiamati ad operare in questi campi, non avendo delle ricette precise o precostituite in tasca. Allora questo nostro laboratorio ci serve anche per annusarci un attimino, per saper crescere insieme. E non vuol dire poi stare insieme e perdersi in un mare indistinto, ma saper essere, proprio nel cammino verso Verona, un momento di testimonianza del nostro essere cristiani. Allora credo che l’importanza sia quella, come torneremo stasera nelle nostre città, di tornarci come Retinopera. Parafrasando un vecchio slogan sessantottino bisogna fare: “10, 20, 100, 1000 Retinopera” nelle nostre città, se vogliamo poi cominciare effettivamente ad agire in maniera più concreta nel tessuto locale, senza aver paura delle diversità. I vangeli non ci parlano molto degli apostoli ma a me piace immaginarli molto diversi gli uni dagli altri e probabilmente lo erano se poi negli Atti degli apostoli si dice: “Non ti è permesso di dire: io sono di Pietro, io sono di Paolo” ecc. Ut unum sint. “Affinché siano una cosa sola” non vuol dire il perdere la distintività di ognuno. Vuol dire saper mettersi insieme per costruire insieme. Carlo Carretto, che oltre ad essere dell’Azione cattolica è anche il fondatore dell’Associazione da cui io provengo, ha scritto un libro che si chiama “Famiglia piccola Chiesa”. Parafrasando io vorrei dire: “Associazione piccola media Chiesa”. E non so se dico una bestialità dicendo che Retinopera può essere “piccola grande Chiesa”. Allora valore aggiunto è uscire dalle attività fine a se stesse, delle attività di ognuno, che rischiano poi di sconfinare nell’attivismo, dalla tentazione dell’autoreferenzialità che non nascondiamo, è sempre presente al nostro interno, per andare sul Tabor e provare una gioia da portare. Dico gioia perché dovremmo avere anche la gioia dello stare insieme. Io sono stufo delle facce tristi dei cristiani. Sono stufo dei cristiani tristi . Chiediamoci anche come stiamo andando verso Verona. Chiaramente con tutte le problematicità che escono dalle tematiche di Verona. Ma non dimentichiamoci la speranza. Speranza che per noi è certezza e che in Cristo divenne la gioia alla fine. Allora credo che un valore aggiunto sia anche la gioia.

Marco Sala Mi ritrovo perfettamente nell’intervento di definizione di Retinopera come

valore aggiunto, luogo di contaminazione culturale e spirituale. Laboratorio. Qualcuno prima diceva: sfida di metodo e di contenuti . Non mi entusiasma assolutamente l’idea di andare a fare “10, 20, 1000 Retinopera” in giro per l’Italia. Mi entusiasma essere capaci di suscitare interesse, idee nuove, sensibilità nuove, di farle uscire. E su queste sensibilità nuove con una fantasia, una sfida di metodo, perché dobbiamo trovare un modo diverso. L’idea di andare a comporre tante piccole associazioncine nuove, magari anche giuridicamente riconosciute, è una cosa che mi lascia veramente perplesso. Non vorrei essere una nota fuori dal coro ma questa cosa proprio non mi entusiasma. E come me non entusiasma una buona

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parte dei nostri capi. Al contrario la contaminazione culturale e spirituale è quello che può essere la molla per il ritrovarsi assieme, partendo dalle specificità locali. Come? Un’idea può essere quella della formazione mettendo in rete tutte quelle capacità di cultura, di personalità, di conoscenze specifiche che ognuno da sé non riesce a fare, lavorando sui livelli di dirigenza delle nostre associazioni per scendere, piano piano, ai l ivelli più vicini al luogo e al territorio. Questo mi sembra un modo di tentare di rispondere in maniera diversa a quella di una riproduzione tout-court del monte Tabor: siccome qua stiamo bene riproduciamo tanti piccoli modellini dove stare bene insieme.

Claudio Gentili

Grazie a voi tutti . Non avete fatto applausi ai singoli interventi, avete fatto bene. Facciamo un applauso collegiale al valore aggiunto. Io ringrazio tutti gli amici responsabili dei movimenti invitandoli a tornare alle loro sedie. Invito Paola Bignardi a venire qui, alla tavola della Presidenza per l’intervento conclusivo. La riflessione che mi veniva di fare a conclusione di questa intensa tre giorni, è che, in fondo, quello che la tavola rotonda ci ha detto stamattina è che la realtà ecclesiale, l’incontro con Gesù Cristo genera persone nuove e un noi di speranza, come diceva Alici. Spesso noi non siamo grati al Signore di questo noi di speranza. Aver ascoltato queste cose ci dice quanto, nella nostra città, i l Vangelo ha creato persone significative che poi cambiano il volto delle nostre città. Volevo soltanto, per dare un tocco finale a questa nostra tavola rotonda, dare due suggerimenti. Il primo suggerimento è: tra i materiali che vi abbiamo dato c’è un testo che fornisce alcuni elementi util i per far nascere Retinopera a livello locale. Penso che sia un testo di grande interesse perché esplicita una serie di elementi che mi sembrano veramente significativi. L’altra sottolineatura riguarda, invece, il fatto che Retinopera può curare due malattie. La prima malattia si chiama isolazionismo associativo. Gli americani l’hanno sperimentata per molto tempo in epoche storiche diverse. Cioè un’associazione che, tutto sommato, chiude il suo orizzonte culturale. Diceva bene Sala: contaminarsi vuol dire uscire dal rischio di avere un linguaggio, un gergo soltanto associativo, mentre c’è una causa cattolica, che è quella che noi cerchiamo di promuovere. Il secondo gran rischio che io vedo è il bipolarismo ecclesiale. Cioè trasportare nelle parrocchie, nei movimenti, nei luoghi ecclesiali i l bipolarismo che è uno strumento elettorale e diventerebbe un elemento di divisione all’interno delle nostre comunità. Questa esperienza ci dice che Retinopera, non fosse altro, questi due grandi rischi riesce a curarli e questo è un alimento che ci può incoraggiare. La parola a Paola Bignardi, coordinatrice di Retinopera per i l suo intervento conclusivo.

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di Paola Bignardi

Grazie per queste due giornate di lavoro che ci siamo regalati, in cui ci siamo ascoltati e in cui abbiamo cercato di costruire pensiero e soprattutto in cui abbiamo cercato di costruire fraternità, perché credo che Retinopera sia soprattutto e prima di tutto uno spirito, di incontro, di dialogo, di confronto, di messa in gioco nella relazione. Vorrei articolare questa breve conclusione attorno a due nuclei tematici. Il primo riprende il tema che ci siamo dati per questo seminario e il secondo nucleo tematico è relativo a Retinopera a questo punto del suo percorso. Qualcuno ci ha detto, e lo ricordava anche Luca Jahier nella sua introduzione, che quest’anno abbiamo scelto per il nostro Convegno di Vallombrosa, un tema apparentemente debole e che i temi forti sarebbero stati altri e che forse quelli che oggi sono ritenuti temi forti avrebbero riscosso un’attenzione, magari anche da parte dei media, diversa rispetto al nostro pacato ragionare, su un tema che noi ri teniamo invece strategico: i l tema della città. Ci siamo sentiti ripetere nella riflessione di questi giorni “La città è il luogo in cui si gioca il futuro della convivenza civile”. “La città. .” ci ha ricordato Mario Primicerio nell’apertura dei nostri lavori “..è lo spazio in cui si incontrano i problemi concreti delle persone”. E lui lo diceva anche con un esempio: “A chi vuole mettersi in politica raccomanderei di praticare per un po’ l’esercizio dell’amministrazione della città, dove i problemi te li trovi sul tavolo e i problemi hanno il volto concreto delle persone”. Allora la città è il luogo in cui si sperimenta in concreto l’incontro tra le persone, la problematicità, i drammi e la risorsa dello stare insieme. La città è anche il luogo in cui la validità delle scelte, delle scelte ideali che abbiamo compiuto, delle scelte culturali , mostrano i loro effetti e li mostrano nella vita delle persone. Quindi per noi la città, con la sua concretezza, con il suo valore di verifica delle scelte ideali , più belle che abbiamo compiuto, è un tema, non solo in termini culturali , ma soprattutto in termini di impegno e di grande valore. Qui sentiamo che si gioca la nostra capacità di proporre un modello di convivenza, uno stile di cittadinanza in cui si verifica la nostra scelta di mettere al centro i poveri, di partire dai più deboli, in cui si misura il criterio di uguaglianza che vogliamo che sia il criterio del nostro vivere insieme. La città come luogo in cui la diversità si armonizza. Nella prima meditazione biblica, in cui abbiamo riflettuto sull’alternativa tra Babilonie e Gerusalemme, abbiamo visto come Babilonia sia la città della tentazione, del diventare insieme uguali, con lo stesso linguaggio, una sfida a Dio. Gerusalemme è la città in cui si tengono insieme le diversità, in cui esse non sono elemento di divisione e di conflitto ma sono ricchezza per il vivere di tutti . Naturalmente non spontaneamente, ma attraverso un percorso, una scelta e anche attraverso l’accoglienza di un dono che viene dall’alto.

17 Testo non rivisto dall’autore

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Attraverso la riflessione sulla città mi pare che, in diversi momenti del nostro ragionare, abbiamo toccato con mano il valore di pensare al futuro: più volte è tornato questo termine. La città è la sfida a ragionare in termini di futuro. Questo non significa a prescindere dal presente, ma significa saperlo trascendere, in qualche modo, quindi attraversare e andare oltre, e avere uno sguardo lontano, sul futuro, avendo così anche elementi di maggiore libertà e orizzonti più ampi per guardare e per vivere nel presente. Credo che noi continueremo nel corso di questo anno a pensare la città, a suggerire, a individuare, a partire dalla nostra agenda, nei percorsi concreti , per una città che sia a misura delle persone. Ma nel nostro pensare la città penso che metteremo al centro, in maniera più chiara e più determinata, i l rapporto della città con la persona e con le persone, cercando di coniugare visioni di città e questione antropologica come ci ha suggerito di fare, ieri mattina, Mauro Magatti. Perché la città è proprio il luogo in cui la concretezza della vita delle persone, le loro storie, le loro attese, le loro fatiche si incontrano e chiedono di essere prese sul serio. Abbiamo parlato più di città che di cittadinanza, però noi non vogliamo lasciare sullo sfondo lo spirito con cui viviamo nella città e vorremmo che ragionare sulla città, ragionarne in termini formativi e culturali , ci aiutasse a recuperare, se possibile, un’idea forte di cittadinanza. Mi pare che oggi stia venendo avanti, io lo vedo dalla scuola come osservatorio, un’idea di cittadinanza che è la somma di buone pratiche, quasi un galateo sociale, che però rinuncia ad avere dietro una riflessione forte sull’appartenenza alla città, sui vincoli che mettono insieme le persone, che le rendono solidali, che le rendono insieme persone e che le portano a dar vita a quelle istituzioni che danno forma, che danno solidità e che danno futuro al vivere insieme. Allora, se possibile, una riflessione che aiuti a connettere città e questione antropologica, ma anche la ripresa di una riflessione sulla prima parte della nostra carta costituzionale: il recupero di un’idea forte di cit tadinanza. Vengo al secondo nucleo di riflessione, che è quello che riguarda Retinopera. In questi mesi ci sembra di aver percepito nei contatti con le persone, nei contatti con le persone delle nostre associazioni e quindi in questo scambio che sta diventando più naturale, anche in giro per l’Italia, tra persone di associazioni diverse, ci è parso di percepire quella che noi chiamiamo una domanda di Retinopera. Questa non è la domanda dell’Associazione di Retinopera, è la domanda dello spirito di Retinopera, è la domanda di un’esperienza di impegno dei laici cristiani, di un impegno che li aiuti a uscire in quello spazio che talvolta si fa angusto e in cui, preferenzialmente, si sta oggi giocando l’impegno dei laici cristiani, che è quello interno alla comunità cristiana. Oggi mi pare che ci sia un desiderio da parte di molti di non rinchiudere la loro dedizione, la loro responsabilità di cristiani, dentro gli spazi del “pastorale”, per usare una parola un po’ in gergo; ma al tempo stesso di avere, per il loro servizio alla città, uno spazio che non sia quello della politica, che sia quello di un impegno sociale, di un impegno culturale, di un impegno che renda protagonisti nella costruzione della città di tutti . La domanda di Retinopera mi pare che sia sostanzialmente quella di collocarsi oltre il pastorale come laici cristiani e prima del politico. Ma Retinopera è un’esperienza difficile. Credo che saremmo ingenui se nascondessimo questo dato che fa parte del realismo delle cose umane. La fatica di Retinopera è legata alla tentazione di pensare che il nostro realizzarci e il nostro essere forti nella nostra identità, passi attraverso il difendere in maniera forte, la

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nostra stessa identità, cioè il radicarci fortemente in quello che siamo, nelle nostre cose, che porta, talvolta, ad atteggiamenti difensivi e ad atteggiamenti di chiusura su noi stessi e che questo possa essere minacciato da una realtà che, invece, ci chiede di mettersi in relazione. Ma noi sappiamo che c’è un modo adulto di mettersi in relazione, che non nega l’identità, anzi, la spende. E un’identità che si spende nella relazione è un’identità che non ci viene restituita in forma più debole, ma ci viene restituita in forma più matura e più adulta. Del resto questa è la dinamica della vita di ogni persona. La dinamica della maturità umana è quella dello spendersi e quindi dell’avere una forte identità, ma del giocare questa identità nella relazione e non nella conservazione della propria identità. Però come mondo aggregativi veniamo da una storia in cui è difficile maturare questa consapevolezza, che è una delle forme della maturità del laicato nella Chiesa del dopo Concilio. Che cosa ci può aiutare a superare le tentazioni dell’autoreferenzialità associativa o aggregativa? Sono tentazioni che uccidono le nostre stesse aggregazioni. Io credo che non sia una scelta volontaristica del dire che bisogna mettersi in relazione. Certo, ad un certo punto c’è anche questa decisione, ma credo che sia la decisione del guardare in faccia, con grande responsabili tà umana prima che cristiana, i grandi problemi del mondo nel quale viviamo. A volte ognuno di noi ha una vita professionale, una vita sociale che lo pone a contatto con le questioni più varie. Talvolta il passaggio da questo mondo, in cui ci incontriamo con la povertà, con i drammi delle persone, con le situazioni difficili delle famiglie, con i problemi del lavoro, a molti dei dialoghi delle nostre aggregazioni o delle nostre comunità, non so se anche a voi qualche volta fa questo effetto, ma fa l’effetto di passare dall’intensità, talvolta drammatica della vita, a questioni piccole, troppo piccole rispetto alla vastità dei problemi con cui ci dobbiamo misurare, che sono i problemi del mondo in cui viviamo e su cui, come cristiani, non dico che non possiamo chiudere gli occhi, per una questione direi ontologica. Guardare in faccia i grandi problemi del mondo, i grandi problemi del nostro Paese, ma i grandi problemi della Chiesa italiana: questa è la forza che ci fa dire che dobbiamo superare quelli che potrebbero essere i recinti delle nostre esperienze, perché queste grandi sfide hanno bisogno di dialogo, hanno bisogno di comunione, hanno bisogno di solidarietà. Sono così grandi che debbono orientare il nostro sguardo fino a che uno quasi non vede quello che potrebbe apparire il disagio di superare il confine dalla propria appartenenza, perché è proiettato oltre. Questo naturalmente non significa che le nostre specifiche esperienze debbano essere mortificate, ma piuttosto che debbano essere arricchite, come sempre, dalla relazione. Ogni relazione vera ha bisogno di identità, ma ha bisogno di apertura, ha bisogno di comunicazione. Quindi, nel dire “la fatica di Retinopera” ho detto anche quale mi sembra la prospettiva, la chiave per superare questa naturale fatica di uscire da anni, da decenni di una storia nella quale, in un contesto anche sociale e umano diverso, forse poteva andar bene una realtà aggregativa e laicale diversa. Qual è oggi la scommessa di Retinopera? Io vorrei provare a raccoglierla intorno a tre aspetti , che non sono distinti , ma sono tre elementi che stanno in maniera circolare, che si tengono tra loro.

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Il primo elemento è quello di realizzare tra di noi una convergenza del nostro mondo associativo. Convergenza è un processo, è un dinamismo, un percorso, che ci orienta ad andare progressivamente verso un punto che attrae tutti noi. Attraverso questo processo di convergenza, di avvicinamento progressivo, noi vorremmo riuscire a testimoniare, che mi pare significhi mostrare (testimoniare significa far vedere, mostrare con la vita), che c’è una realtà di comunione che è un dono che noi vorremmo mostrare attraverso il nostro cercare di camminare insieme. In questo senso, quindi, Retinopera non è un’Associazione, è un processo. Anzi, è un’utopia, è una spiritualità. È una spiritualità non spiritualista, perché non è un riferimento generico ad una comunione predicata, ma è riferimento ad una comunione creduta come dono, ma anche trasformata in piccole pratiche, in piccoli passi che vorrebbero realizzare questa esperienza come stile e come tutte le cose che siamo andati dicendoci fino a qui in una forma anche di maggiore concretezza. Questa convergenza, se non avesse altre ragioni ideali se non quella che la comunione per noi è un’assoluto e quindi tutto quello che ci orienta ad essa è un elemento di grande valore, sarebbe già di per sé imprescindibile. Ma se non ci fosse questa ragione – ed è il secondo elemento - ce ne sarebbe un’altra e questa sarebbe più bassa, strategica, però non meno importante. Ed è che questo processo è necessario perché, il laicato, uscendo dalla frammentazione nella quale si trova di fatto oggi - e la frammentazione non è la ricchezza delle nostre esperienze, ma è l’autoreferenzialità e la chiusura delle nostre esperienze - torni ad essere un soggetto di Chiesa e di vocazione. Noi crediamo che nella molteplicità dei nostri carismi associativi, si manifesta, comunque, una vocazione che è quella dell’essere laici, un dono della Chiesa per il mondo. Un laicato che non sia solo l’offerta di energie disponibili per realizzare delle cose, ma che sia un soggetto di Chiesa, un soggetto che renda visibile una vocazione nella Chiesa. Certamente non lo si può realizzare nella dispersione che rende le differenze non un dono le une per le altre. Quindi per un laicato che sia soggetto di Chiesa. Ne sentiamo veramente bisogno quarant’anni dopo il Concilio, in cui abbiamo visto delle crescite del laicato, ma in cui abbiamo visto anche, progressivamente, chiusure e passi indietro, verso delle forme di neo-clericalismo che non ci pare siano quelle di cui una Chiesa in missione ha bisogno, per essere come noi la immaginiamo e la sogniamo, cioè una casa aperta per tutti , la Chiesa che sia un luogo in dialogo con la città, un luogo aperto al mondo, una Chiesa che si sente veramente “non in pace”, (non so se si può dire così), finché ci sia qualcuno che non sia attratto verso l’ideale di un’umanità piena. Il terzo elemento di questa scommessa di Retinopera è la sfida della secolarità, cioè quella di un laicato che viva quella descrizione che il Concilio ha fatto dei laici cristiani, come di cristiani che in maniera specifica, particolarmente sono chiamati ad amare il mondo, a lasciarsi inquietare dai drammi del mondo, a compiere delle scelte storiche, quindi concrete, perché si realizzi la trasformazione del mondo secondo quel disegno di armonia con cui il mondo è uscito dalle mani di Dio, avendo il coraggio tutto laico della parzialità, della scelta storica, della scelta piccola, della scelta concreta, ma della scelta in una direzione con un senso. Convergenza come forma della comunione in terra associativa, soggettività del laicato e secolarità come cifra di un laicato conciliare, mi pare che siano i tre

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elementi della scommessa di Retinopera, che stanno tutti e tre insieme, si chiamano l’uno con l’altro, perché se fosse solo la convergenza dei mondi aggregativi sarebbe una cosa buona, però per che cosa? Verso dove? Se fosse solo un’aggregazione per realizzare dei progetti di formazione sociale diventeremmo un altro movimento tra i movimenti che ci sono. Credo che tutti questi tre aspetti insieme si chiamano e insieme fanno l’utopia e la spiritualità che è Retinopera. Questo mi pare che sia, oggi, più alla portata di mano che in altre stagioni della vita delle aggregazioni e della vita del laicato. Perché oggi mi pare che si possa percepire che c’è un laicato che, attraverso tutti i disagi di una partecipazione alla vita della Chiesa in forme troppo collaborative e troppo poco corresponsabili , c’è un laicato che oggi, più che in altri tempi, non si rassegna a posizioni di sagrestia, non vuole degli atteggiamenti infantilizzanti della dipendenza, ma vuole giocare tutta la sua responsabilità di un laicato che sente che la missione della Chiesa di amare il mondo per far vedere l’amore di Dio è una cosa che la riguarda e che è costitutiva. Questo è anche il nostro contributo, come Retinopera, al Convegno di Verona. Io immagino che questo sia il contributo più sostanzioso, che poi è l’offerta della nostra disponibilità a fare in questo modo la nostra parte. Non dico le forme, perché le cose concrete sono poche, essendo, Retinopera, soprattutto uno spirito, non è che passa attraverso grandi programmi, se non delle scelte che sottolineano questo dinamismo che vorremmo immettere nella vita delle nostre aggregazioni, la passione della comunione e nella vita della Chiesa, la passione per il mondo. La passione per un mondo che ha bisogno di gesti concreti , di amore e di solidarietà della Chiesa per trovare anch’esso la propria speranza. Chiudo con due pensieri che ho trovato in una preghiera di don Tonino Bello, che mi è stata regalata ieri dagli amici del Salento, che sono partit i questa mattina e che ci hanno raccontato l’altra sera la loro esperienza di Retinopera. Tra le altre cose in questa preghiera si legge: “Spirito Santo donaci il gusto di sentirci estroversi, rivolti , cioè, verso il mondo, che non è una specie di Chiesa mancata, ma l’oggetto ultimo di quell’incontenibile amore per il quale la Chiesa stessa è stata costituita. Se dobbiamo camminare sull’asciutto mettici le ali ai piedi, perché come Maria raggiungiamo in fretta la città. La città terrena, che tu ami appassionatamente, che non è il ripostiglio dei rifiuti , ma il partner con cui agonizzare, perché giunga a compimento l’opera della redenzione”. Mi pare che ci possiamo lasciare con questi pensieri, che accompagnino il nostro cammino di questo anno, che ci porterà l’anno prossimo qui a Vallombrosa, ma che farà incontrare molti di noi a Verona al Convegno ecclesiale.

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