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Pubblicità progresso: come renderela comunicazione sociale efficace.Anche contro l’Isis
MEDIA & REGIME
di Edoardo Volpicelli e Giovanni D'Errico | 22 novembre 2015
Già prima del “Venerdì 13” parigino in molti si sono chiesti perchéun giovane nato in Europa (o in uno Stato occidentale, non amaggioranza islamica), mediamente istruito e economicamenteagiato, potesse decidere di lasciare tutto e andare in MedioOriente per unirsi ai combattenti dello Stato Islamico.
Dopo l’evidenza empirica (e lontana e mediata) della violenza e dellapericolosità di tali soggetti, evitando di derubricare il tutto con lamotivazione della follia, la macchina comunicativa dell’Isis èstata portata al centro dell’attenzione come modello da analizzarecon attenzione, non perché nuova, ma perché complessa, benorganizzata e perfettamente funzionante. In poche parole, i CATTIVIhanno imparato a comunicare davvero bene.
Quella del califfato è una comunicazione lucida e mira araggiungere obiettivi interni (descriversi quale Stato vero e proprio)ed esterni (fare proseliti) e, soprattutto, imporre la presenza delloStato Islamico su scala globale e in maniera inevitabile nei raccontiquotidiani, nelle scalette dei Tg e nelle prime pagine dei giornali; ilweb è sfruttato in maniera molto intelligente, usando i suoimolteplici linguaggi e strumenti, combinando una comunicazione“istituzionale” ad una “emozionale”; una regia comunicativa, se nonunica, composta da unità ben coordinate le cui “agenzie” riescono arimbalzare nei maggiori mezzi di diffusione mondiale. Le parolechiave sono diverse: contenuti virali ad alto tasso di eccitamento,
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chiave sono diverse: contenuti virali ad alto tasso di eccitamento,ingiustizia, esclusione, umiliazione, identificazione, vendetta,
terrore, insicurezza e paura. Tra le tecniche usate: l’adbusting, checonsiste nel prendere materiale pubblicitario del nemico emodificarne il messaggio a proprio favore, di vecchia concezione masempre efficace nell’azione di propaganda; la “gamification”,ovvero creare dei giochi di ruolo e di combattimento all’infedele,diffonderli sul web con lo scopo di dare un minimo di training,reclutare e fidelizzare.
Questo davvero in breve,anche perché il web èpieno di tantissimispunti che invitiamo aconsultare, se interessatiall’argomento.
Finito il breve preambolo,è giusto chiedersi cosastiano facendo i BUONI?Si stanno organizzando o
stanno a guardare?
Il 23 novembre aMilano ci sarà l’XIConferenzaInternazionale dellaComunicazioneSociale che mette alcentro dell’attenzione lalotta a tutti gli sprechi, perinciso uno degliappuntamenti annuali piùimportanti di Pubblicità
Progresso. Per chi non avesse mai approfondito, parliamo diun’organizzazione senza fini di lucro che ha come scopo quello di“contribuire alla soluzione di problemi civili, educativi e morali dicarattere sociali grazie all’ideazione, al coordinamento e allarealizzazione di campagne di comunicazione atte a stimolare lacoscienza civile e l’adire per il bene comune”. Nasce, in realtà,agli inizi degli anni Settanta come un progetto di comunicazionedagli obiettivi davvero ambiziosi: “promuovere e rafforzare in Italiauna coscienza civile, un «conformismo civico», attraverso uno
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di Edoardo Volpicelli e Giovanni D'Errico | 22 novembre 2015
una coscienza civile, un «conformismo civico», attraverso unostrumento – quello pubblicitario – per molti aspetti demonizzato e
guardato con grande diffidenza da una parte consistentee composita della popolazione”.
È indubbio che Pubblicità Progresso sia stata il motore di unprocesso di maturazione e rinnovamento del mondo dellacomunicazione sociale italiana, svolgendo, a cavallo tra gli anniSettanta e Ottanta, un ruolo di monopolio della comunicazionepubblicitaria sociale in Italia. Già negli anni Novanta ha dovutoripensare la propria identità al fine di ritagliarsi un nuovo spazio,visto che anche altri attori stavano entrando nella scena dellacomunicazione, in particolare il mondo dell’associazionismo, conobiettivi di fund e people raising.
Pubblicità Progresso ha comunque mantenuto negli anni fedeltà auno stile comunicativo sobrio, misurato, certamente non urlato. IIrisultato è che è riconosciuto in Italia come “lo stile dicomunicazione sociale per antonomasia”, spesso criticatoperché ritenuto poco efficace, troppo moderato, nel quale infatti gliappelli alla paura o le immagini troppo crude hanno trovato pocospazio.
Nell’era dell’“attention economy”, dell’“overload” di informazioni(centinaia di messaggi al giorno – tra mail e social, 2.300 spot algiorno, 70.000 in un mese e poi quotidiani alle riviste), l’attenzioneè diventata la “commodity” più preziosa. Al netto delle espressioniinglesi che abbiamo preso in prestito (e delle quali ci scusiamo),d’accordo sul fatto che tali concetti siano triti e ritriti, ci rimangonocomunque degli enormi dubbi: oggi, novembre 2015, finito ilmonopolio della “comunicazione del bene”, mentre i cattivi sonodiventati molto consapevoli di come si comunica e hanno denaro ecompetenze per farlo, funziona ancora questo stile “misurato esobrio”? Come deve cambiare la comunicazione socialeistituzionale per tornare ad essere davvero efficace come ai tempidel monopolio?
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