Citizenship and New Inclusion Project SEMINAR PROCEEDINGS ... · Bene, io cercherò di parlare in...

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Unione Europea Regione Emilia-Romagna Comune di Forlì Citizenship and New Inclusion Project SEMINAR PROCEEDINGS Forlì, June 28 th 2003

Transcript of Citizenship and New Inclusion Project SEMINAR PROCEEDINGS ... · Bene, io cercherò di parlare in...

Unione Europea Regione Emilia-Romagna Comune di Forlì

Citizenship and New Inclusion Project

SEMINAR PROCEEDINGS

Forlì, June 28th 2003

Loretta Bertozzi Assessora alle Politiche di Welfare e Pari Opportunità del Comune di Forlì Vi preghiamo di prendere posto così iniziamo il nostro lavoro, perché è una mattinata molto impegnativa. Bene, allora apriamo la seduta di questa mattina che è dedicata al progetto “Citizenship and New inclusion” e facciamo subito la presentazione dei dati della ricerca, dei risultati della ricerca. Abbiamo, dunque, per questa prima parte Nadje Al Ali dell’Università di Ester e Monia Giovanetti che è una ricercatrice. Abbiamo dei tempi molto contingentati. Queste comunicazioni dovranno avere un tempo di 15 minuti. Quindi chiediamo ai partner del progetto di contribuire con dei brevi interventi a completare il quadro. Quindi, chiediamo alle amiche di Londra, della Grecia, della Germania e della Svezia di intervenire in questa prima parte per completare il quadro conoscitivo anche di questa iniziativa. La parola a Nadie Al Ali. Nadje Al Ali Exeter University (Intervento allegato in cartellina) Monia Giovanetti Ricercatrice (Intervento allegato in cartellina) Claudia Castellucci Responsabile del Centro Donna del Comune di Forlì Come diceva l’Assessore prima, adesso chiederemo per potere completare il quadro alle nostre ospiti straniere, un breve intervento di integrazione nel quale possano illustrare la loro esperienza. Comincerei con Meena, che ci porta informazioni di conoscenza sull’esperienza delle Southall Black Sisters di Londra. Meena Patel Southhall Black Sisters, Londra Good morning, first of all let me introduce Southall Black Sisters, it is a multi-award winning black women’s organisation, founded in 1979, in the UK, it runs a resource centre providing information, advice, advocacy, counselling and support to women and children experiencing domestic violence. We specialise in the need of South Asian women, but also help women from many other minority communities, including African-Caribbean women. We deal with over 2000 cases and enquiries per year from all over the country, we also undertake educational, development, research, policy and campaigning work on violence against black women. In 1992, we led the campaign to free Kiranjit Ahluwalia, who killed her husband after 10 years of domestic violence. She was released from life imprisonment when we successfully overturned her conviction for murder. We are recognised for our expertise on the

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needs of South Asian women experiencing domestic/gender violence, and are often called upon to provide expert reports for legal and welfare cases and specialist information to professionals, researchers, the media and policy makers. Our policy work includes giving evidence to or participating in government and non-government initiatives, and include the Home Affairs Select Committee, Department of Health Advisory Group on Asian Female Suicide, the Home Office Working Group on Forced Marriage, the Crown Prosecution Service Advisory Group, Home Office Ministerial consultation on immigration and domestic violence, the Lord Chancellors Advisory Group, the Victoria Climbie Inquiry and the United Nations Commission on the Status of Women. We are currently working on a national strategy and good practice guidance to tackle domestic/gender violence against black and minority women, on reforms in the criminal justice system to ensure women experiencing domestic violence obtain justice and protection both as victims and offenders. We are currently campaigning to free Zoora Shah, who is serving life for killing a man who subjected her to 12 years of sexual and economic abuse and exploitation. We are also working on reforms in immigration laws (such as the two year probation for newly arrived spouses of British nationals or those with indefinite leave) which can entrap immigrant women in violent marriages, and reforms to asylum laws which ignore women’s claim to full refugee status when in fear of gender persecution. Also to ensure these women have access to public funds, such as housing and social security benefits, to enable them to effectively escape domestic violence, to reduce the incidence of self-harm and suicide amongst Asian women, who are 2-3 times more likely to kill themselves than women in the general population, usually as a result of abusive and oppressive practices within the family, tackle culturally specific forms of harm such as forced marriage, dowry related abuse and honour killing and crimes. Claudia Castellucci Io chiedo scusa a Meena per averle fatto abbreviare il tempo. Purtroppo il tempo è tiranno per tutte. In ogni caso, ritorneremo a discutere di queste questioni che probabilmente potranno essere il centro della discussione nella tavola rotonda. Quindi credo che il tema di multiculturalismo potrà essere, essendo una grande questione generale, la questione sulla quale il confronto dentro la tavola rotonda potrà essere proficuo. Darei la parola a Christiane Canale S.U.S.I. Berlino. Christiane Canale Centro S.U.S.I., Berlino Bene, io cercherò di parlare in italiano. Il mio inglese è ancora peggio. Si dice che S.U.S.I. è Berlino, si deve dare una spiegazione un po’ più profonda ed è quella che S.U.S.I è stata fondata o la idea è nata in una casa a Berlino Est il giorno in cui non è crollato ma è stato aperto il muro. Questo ha già cambiato le premesse che poteva essere S.U.S.I. perché noi eravamo 5 donne della Repubblica Democratica e volevamo fare tutto quello che pensavamo fare su una base di volontariato, con donne che avevano tempo libero e lo potevano impiegare per questo. Dopo 8-10 mesi la situazione era cambiata. Si sapeva già che avremmo fatto parte dell’altra Germania ed è avvenuto un processo molto interessante. Salvando tutte le differenze, noi dell’Est eravamo un po’ come immigrati senza

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muoverci, non abbiamo mai fato la valigia, ma si siamo arrivati in un altro paese, in un'altra cultura, in un'altra forma di fare le cose. La tecnica era diversa, tutto era diverso, anche la lingua era diversa. E noi abbiamo inizialmente cercato di adattarci alla lingua dell’Ovest, per essere capiti e solo dopo molto tempo abbiamo detto: “Un momento, ma la nostra lingua, le parole con le quali siamo cresciuti……” ….culturale, di donne di diverse etnie, è stato un po’, ci siamo sentite molto più vicino alle donne immigrate, che alle donne della Germania dell’Ovest, che fra altre cose avevano una lunga tradizione di parlare di femminismo. Noi il femminismo non si discuteva o si viveva o si faceva, ma non era una discussione teorica. Dopo, quando sono arrivate le donne dell’ex-Unione Sovietica, o della Polonia, o della Bulgaria hanno avuto gli stessi problemi. Un centro donne, un’associazione, non esisteva nel socialismo. Allora, le donne che arrivavano, pensavano che S.U.S.I. fosse una dipendenza del Governo e cercavano di comportarsi bene, per stare bene con il Governo. Una volta, in concomitanza con le elezioni politiche a Berlino, nei centri di immigrati si è svolta un’elezione fittizia. Nel centro S.U.S.I., fra le donne dell’Europa dell’Est, l’80% ha votato a favore della democrazia cristiana e questo dimostra cosa pensassero di noi. Questo è cambiato molto. Ma fin dall’inizio avevamo un’idea. Anche se per noi era difficile adattarci alla nuova società, era più facile rispetto alle donne che per problemi di lingua, ecc., avevano più problemi. Allora abbiamo detto dall’inizio, se possiamo mettere su questo Centro Donne sarà gestito dalle donne immigrate. L’unico posto di lavoro, di quelli che abbiamo ricevuto dal Comune di Berlino, per i primi quattro anni lo ha occupato una tedesca. Si trattava di un posto part-time con mansioni di contabilità e di contatto con le autorità, perché era un problema di lingua. Quindi sono stati assegnati due posti, uno per il lavoro culturale ed uno per il lavoro sociale ad una vietnamita e ad una colombiana. In questo momento a S.U.S.I. stanno lavorando 15 donne di 11 paesi. Quando abbiamo detto che vogliamo fare un centro interculturale, le donne di Berlino Ovest ci hanno detto: “Questo non funziona. Anche noi abbiamo cercato di farlo, ma l’esperienza dice che le donne greche, le donne turche, le donne jugoslave, le donne spagnole vogliono il loro centro”. Abbiamo risposto: “Vediamo, vediamo. Lasciateci fare la nostra esperienza”. Dopo 12 anni funziona benissimo, nonostante i problemi, perché, data la composizione del team, ci sono delle discussioni, ci sono diverse concezioni, ma dopo un tempo, è una cosa che, come per magia, funziona molto bene. E credo che un'altra particolarità molto importante di S.U.S.I., è lo spettro di età rappresentato molto ampio. Quello che da noi gioca un ruolo molto più piccolo è l’immigrazione per lavoro. Le donne che vengono da noi sono, o emigrate politiche da Cile, Argentina ecc., arrivate 30 anni fa, e di cui adesso iniziano a venire le nipoti. Si tratta di donne che sono rimaste in Germania, che non sono più ritornate. Donne tedesche, più vecchie, la più vecchia ha 75 anni, che sono cresciute in esilio nel tempo del fascismo in America Latina, in Inghilterra, in altri paesi, che conoscono l’esperienza del vivere in un’altra cultura. Poi abbiamo le latino-americane, rappresentate per la maggior parte da studentesse, che sono arrivate come studenti e sono rimaste, donne che si sono sposate con tedeschi e devono sopportare i primi 5 anni tutto quello che i mariti vogliono fare con loro perché non possono avere il diritto di permesso di soggiorno prima. Poi abbiamo le donne del Vietnam, che nella Repubblica Democratica c’era un contratto con il

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Vietnam, che lavoravano nella nostra industria, che sono rimaste, e in molti casi anche senza permesso, senza documenti, anche con nomi falsi ecc. con grandi problemi di alloggio, con grandi problemi di salute. Dopo sono venute le donne dell’America Latina, che sono state utilizzate per trasporto di droga e sono finite nelle carceri di Berlino e, dopo qualche anno di esperienza, abbiamo incominciato un progetto di assistenza a quelle donne immigrate, donne straniere in carcere, ma quel lavoro lo fanno donne della sua loro stessa cultura, della loro stessa etnia. In Germania, siamo fortunati perché esiste un progetto che, nel caso in cui un’associazione senza scopo di lucro crei un posto di lavoro, prevede che tale associazione possa assumere una persona ed il Governo tedesco paga gran parte del dovuto, perché noi i fondi proprio non li abbiamo proprio. E siamo fortunati, perché se normalmente si deve assumere una persona inviata dall’Ufficio del Lavoro, noi possiamo dire la donna deve essere di lingua persiana, deve avere oltre 45 anni perché il suo lavoro sarà con donne più anziane, e possiamo fare domanda per una donna che abbiamo già nella lista. E così hanno lavorato in questi 12 anni forse 50 donne, perché quei posti di lavoro sono per 2-3 anni, ecc. In questo momento, stiamo per affrontare un grosso problema, perché ho saputo 3 giorni fa che il Comune di Berlino ha intenzione di tagliare 1 milione di Euro a tutti i progetti per donne a Berlino, donne immigrate e tedesche. I gruppi di donne immigrate non sanno ancora niente. E quindi credo che adesso comincerà una lotta fra i centri donna per i soldi, perché il Comune ha anche avuto l’idea di proporre la creazione di un organismo nuovo formato dai diversi centro donna e che loro devono decidere dove si taglia, non è il Comune che taglia, siamo noi che tagliamo. Ma pensiamo che possiamo evitare questo. Questo è il trucco che usano sempre. Anche quando si sono creati centri donna ad est di Berlino hanno chiuso i centri ad ovest, e questo ha creato problemi anche a quel tempo. Ma con la comunicazione tra i vari questi problemi possono risolversi. Io penso che sarà una buona esperienza. Possiamo collaborare in questo progetto e vogliamo anche imparare molto da voi, anche se, come detto, la composizione dell’immigrazione è molto diversa. Abbiamo anche tante donne senza documenti, non regolarizzate, o donne che per poter rimanere devono subire torture dai mariti, -una delle nostre utenti è stata uccisa tre mesi fa. Dimenticavo di dire che le donne che lavorano da noi, le operatrici, nella maggioranza dei casi non sono formate come lavoratrici sociali. Loro fanno quello che si chiama ”learning by doing”, ma per le donne che vengono è molto importante che le donne con cui parlano, che vedono, anche la psicologa, che è una psicologa vera, capiscano i loro problemi. Anche le classiche lezioni di tedesco che facciamo, le facciamo dare da una bulgara che è da 30 anni in Germania. Chiaramente parla tedesco con accento, ma lei sa quali sono i problemi per imparare il tedesco, dove sono le trappole di questa lingua un po’ dura, e pensiamo che questa sia una buona cosa. Spyros Iatropuolos DOKPY – Nea Ionia Magnesias, Grecia Good morning, first of all.

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We will try to be very brief. We are two, but we’ve decided that it will better for both of us to present the main situation in Greece, because my colleague Giulia has a great experience in the field of work. What we want to stress is the division of two main groups in Greece that have the major problems with acquired citizenship. One is the immigrants that are divided in almost 4 categories: immigrants from Albania, immigrants from the ex-USSR, immigrants from other Balkan countries and other immigrants in very low number. In total they are about 1,500,000, of which only 600,000 are documented with papers. The other main group in Greece that has problems with citizenship rights is the Rom population. They are Greeks, they have been living in Greece for lots of decades. They are considerate informally to be about 600,000 to 700,000, and in our area, in central Greece, they are settled there from the Sixties. I can explain you the situation for the immigrant populations briefly. In general, there is a huge problem in the citizenship rights for the two groups mentioned. Problems that are different between them and can be found mainly in social, civil and political areas of exercising their rights. In Greece, immigrants’ citizenship rights are limited only to the degree of authorising a resident permit, a permit that is temporary and always linked with their presence in the labour market. The new immigration law in 2001 provides measures only for the documented immigrants and, of course, for those who are working. If you are not working you cannot take a residence permit. But, of course, not all the immigrants in Greece are able to follow such strict requirements and find an employer in order to gathered essential group stamps to get or renew their residence permit. Giulia can now briefly depict you the situation of the Rom population, that is very interesting, because they have been a Greek population for a lot’s of years. Giulia Diadafilou DOKPY – Nea Ionia Magnesias, Grecia Good morning to everybody. My name is Giulia Diadafilou and I am a social worker. My comment has to do with the Rom population. The paradox, in this case, is that all these people are Greek citizens, but they are considered to be foreigners, by the government and by the people. I have been working with the Rom community in Nea Ionia since 1999 and DOKPY has decided to include Rom community into the vulnerable sector of people because we think that Rom people along with immigrants faced similar problems. These problems have to be with their citizenship because if you don’t have papers, -a lot of Rom people do not have papers, do not have identification cards, do not register their children-, so if you don’t have all this papers you are not consider to be a citizen in a country. What I wanted to stress here is that in the Seventies these people had no citizenship. They acquired Greek citizenship in the late Eighties. The major problem that Rom people face have to do with the absence of papers and certificates, -as I told you-, poverty, absence of education and of housing. All these things lead to their exclusion and their marginalisation from political, social and civil life, all aspects of life. Our main job tries to cover all the basic sectors of people life: employment, health, housing and all these things. I strongly believe that all these situations have a very bed impact on people forming an association and trying to demand their rights. I think that my job as a social worker

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should go to that direction, to teach people how to do this, because I don’t have very important things to say, but these people have very important things to say and to contribute. Thank you very much. Spyros Iatropuolos DOKPY – Nea Ionia Magnesias, Grecia Just to conclude, some words on the general situation in Greece. I do believe, as Meena said before, that we have to strengthen the multiculturalism through social inclusion policies. It is really very important. The recent trends in Greece tend to follow the EU social inclusion schemes. Until now Greece has achieved to move forward from social assimilation policies to social integration policies, but it will take a little time to move to social inclusion policies, because, even social integration policies tend to be social assimilation schemes. The Greek state is not ready to give the Greek citizenship to all its residents. More time is needed for this multiculturalism environment to be a reality. Until now, in our organisation, we have worked in deep for the provision of a system for acquiring the Greek citizenship. We are also making efforts to increase the awareness of the collective representations of these groups, for all the new European legislation that concerned them. We worked closely with individuals and with groups of excluded, in an equal manner, and I believe what we gather from our participation in the Citizenship Project will help us turn the meaning of the exclusive Citizenship and return it to its pure meaning that is the exercise of the political rights in a political environment, rights that are exercised by all residents of an area, whether they are new or old residents. Thank you. Sirpa Rydh Comune di Spanga-Tensta, Svezia Thank you and good morning. First of all, I would like to say something about me. I’m not a social worker. I’m a civil servant working in local government of Spanga-Tensta. It’s in the city of Stockholm. Stockholm is divided in 18 local governments and this is one of those. This is a kind of social experiment, called Spanga–Tensta, with Spanga consisting of middle-high classes and Tensta formed mostly by immigrants. So, let’s start with Sweden, about the social inclusion. I don’t know if you know that we have in Stockholm a program for diversity. Every local government and every civil servant must think of diversity with 5 points. They are: age, genre, handicap, -if one’s is handicapped-, sexuality and religion. The last two are under discussion, but in Sweden you have to consider even sexuality. If you are homosexual you are not supposed to be discriminated. And this is also the policy of the state. We have a Minister for Democracy and Integration, Mona Sahlin, who works with these issues. In the last 3 years my community, Tensta, not all communities, has received 100 million crowns from the state to integrate the society. We didn’t succeeded. And 1ooo million crowns it’s 10 million Euro. Spanga-Tensta is 19 minutes far from Stockholm city by metro. It is a very good location. In Tensta lives 17,000 people, and in Spanga lives 17,000 people. If you

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could imagine two villages and between them the railroad, not metro, but local railroad called Chinese wall. In Spanga there are 8% immigrants, in Tensta there are about 16% officially, but 18% effectively, and in Stockholm 20% immigrants. The first immigrants who came to Stockholm in the 40es and 50es were labour immigrants from Italy, from Greece, from Finland, Yugoslavia. From 1970 only refugees are accepted in Sweden, from Greece and from Chile, and today mostly from Iraq and Somali. The medium income in Stockholm is 25,000 Euro, in Spanga, the upper-middle class 29,000, and in Tensta, -can you guess?-, 14,000. And this is the state for social inclusion. And also employed in Stockholm are 75%, in Spanga 88% and in Tensta 49% and those who are not working in Sweden they have social benefits for the living, social benefits for their flats and they get money for every child. So, yesterday I told we have a poverty trap, I called it poverty trap. If you are not working and you have all these social benefits, you can have a flat - if you are a very big family, you have a very big flat, and the community pays for it. But if you start working, you cannot afford that flat, because if you are an immigrant, your salary is not that high. So you have 3 months to get rid of that flat and get a new one. But there are no new flats and you cannot rent any flat in Stockholm. So you are leaving on social benefits all the time. I’m working with all questions concerning this integration and development in Spanga-Tensta, not only for women, but my work is a kind of backup for several NGO’s, not to teach them, but to listen to what they want from me, to have a communication, what kind of help they need. And discussion about multicultural society, we had it before. Now it’s exactly what you tell me now, and all of you. That it is actually listening to the man, what kind of interpretation he has on society. Three years ago there was a Kurdish girl murdered by her father in Sweden, -have you heard about it? She was 25, a very strong girl who had moved from the family and studied. And we had a discussion on how much the society could help her not to be killed. She visited mother and sister, and father came and shot her, 3 years ago. And she was an educated woman in university. And this is again the gap between the words and the reality. But we are discussing it. And we have a very different kind of opinions, we have not one opinion. And the discussion for multiculturalism today is, -Yasmina also was discussing-: the same rights, the same obligations, despite your ethnic origins. You are not supposed to be regarded as an ethnic person. And this is the discussion today. And you are supposed to be regarded as a person with the skills you have, and the person you actually are. And that’s not easy. We have a law in Sweden. You have to be 18 years old and then you are adult; you can marry, you can do what you want; but immigrants girls can be married when they are 16. That’s again how it is in reality. And what about our women in Spanga-Tensta. Actually it’s more about women in Tensta that in Spanga, because those in Spanga they have to work for the house, and the boat, and the car and the house in Italy, and so on, so they do not have any time. But women in Tensta, they do. The biggest immigrant groups are Iraqi and Somali in our Tensta. And I don’t actually recognise the situation you’re talking, Nadia, about their non-participation, because especially Somali women are very strong, and they are very active in political life.

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In Sweden we have something called 4 puts, Permanent Permission for Residence. And when you come as a refugee, it should take 8 months and then you are allowed to know if you get this put or you had only a permission for some months or whatever. But it can take also 4 years even to get that. And when you have this put, than you have the right to participate in the society, almost like a Swedish citizen. The only thing you can’t do is to participate is in Parliament elections, but local elections, and election for a district, to run for some party it’s OK. So a lot of immigrants are very active in politics in Tensta, and especially women. It is a struggle of everyday to gain and to have that position because the society is still in Sweden. It functions like a multicultural society, listening to those men who, as we say, civil servants we could say, talk to the men because they are prohibiting women to participate. And we have done it for 30 years and it didn’t succeeded either. So now we are going from multiculturalism and it takes time. A last thing about the women working. We have a very strong Somali organisation called Hawo Tako. Do you know Hawo Tako? You should, because we are in Italy. She was killed during a demonstration in 1948, when she demonstrated against Italians in Mogadiscio. And she is a very good model for these Somali women to fight for their rights, because she was a very strong woman. And in other cultures too. We have Iraqi role models. We look at the women who struggled for their rights, for their country, and not only for women, but for the society, for the country, because it’s one step more than female rights. And, of course, the second part of this good role model we are discussing is what is the modern man in Tensta, not what is the immigrant man, but modern man in Tensta, like a boy, like a young man, a father. And this is a very interesting discussion, because it is pointing out that this is a man living in Tensta, this is not the Kurdish man, Somali man, Iraqi man, but the man living in the Swedish society, in Tensta, but in society Spanga–Tensta. OK. I stop there. Claudia Castellucci Allora vorrei un attimo fare il punto della situazione. Come avete visto siamo assolutamente fuori da tutti i tempi, perché c’è ancora prevista una parte di lavoro in cui si dovrà verificare, parlare delle linee di lavoro futuro per i partner nel caso in cui il progetto Citizenship Fase 2 venga approvato, cioè nel caso in cui il percorso che abbiamo fatto sino ad ora possa avere un seguito perché l’UE ci approvi il progetto. Questo è assolutamente necessario dal momento che tutti i partner sono presenti, quindi è un’occasione di lavoro che ci sembra di non potere perdere. Per cui proponiamo 3 minuti di orologio di sospensione, un’ora di discussione sul nuovo progetto, con la presentazione delle nuove linee e la discussione tra i partner intorno al nuovo progetto, e dalle 12 alle 13 la tavola rotonda. Tre minuti di sospensione. Ricominciamo. Siamo ancora nella prima parte, come ci siamo detti, dei lavori. Darei la parola a Maria Grazia Ruggerini e poi a Patrizia Randini per una illustrazione di quelle che sono le linee, che abbiamo ritenuto, anche col lavoro e collaborazione di tutte, di individuare per il nuovo progetto rispetto al quale siamo in attesa, ovviamente, di valutazioni da parte europea. E su questo poi darei la parola ad Alma Terra e a chi poi vorrà eventualmente integrare per finire l’incontro, diciamo la parte di lavoro relativo al progetto Citizenship, appunto anche con una operatività che ci serva nel caso, appunto, auspicato di un’approvazione dello stesso.

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Maria Grazia Ruggerini Società “Le Nove” Buon giorno. Credo sia apprezzabile la pazienza dell’attesa di una tavola rotonda. D’altra parte questo incontro, a mio parere, è stato importante e positivo perché ha permesso, recuperando dei ritardi dovuti ad un problema d’inizio di questo progetto, di incontrarci come partner di questo stesso progetto e di conoscerci, diciamo, in sede conclusiva già della prima fase e di apertura, speriamo, della seconda. Quindi, in questo senso c’è stato, forse, un accavallarsi e un intrecciarsi di interventi che non sono ancora finiti, tant’è vero che la parola ai partner italiani sarà in parte su questa seconda fase del progetto e in parte nella tavola rotonda. Quindi, in qualche modo c’è un rincorrersi e un riassumersi delle tematiche. Io voglio solamente dire un paio di cose di snodo tra quella che potrebbe essere la prima e la seconda fase, lasciando poi a Patrizia Randini, che ha fatto tutto un lavoro molto paziente di redazione della seconda fase raccogliendo, in tempi, purtroppo, molto stretti i risultati della prima, ancora parziali, e le idee per proseguire. Ed è proprio su questo snodo che io mi vorrei permettere di dire due o tre cose, che riguardano, secondo me, la possibilità che ha questo progetto di essere innovativo non solo per le donne straniere, ma per noi, donne di antica cittadinanza europea e italiana. Ecco, io proprio su questo che credo sia anche in gran parte la filosofia della seconda parte del progetto, quello di vedere questione della cittadinanza delle donne e delle cittadinanze migranti come due nodi che si intersecano oggi dentro a quello che è un percorso di crescita, non solo del potere delle donne, ma di crescita e di cambiamento di processi democratici. Ecco perché credo sia importante vedere queste esperienze non come esperienze che noi, autoctone facciamo per le donne straniere, ma come esperienze che permettano a noi di rivedere, di rivisitare la cittadinanza, la democrazia, la partecipazione sociale e politica. Altrimenti sarebbe veramente qualcosa di sbagliato nella filosofia stessa, se noi non pensassimo che questo è un modo per rivedere una democrazia zoppa. Oggi posso parlare dell’Italia, ma mi pare che l’Europa ha ben ragione di denunciare una democrazia zoppa. E la cittadinanza delle donne, come una cittadinanza incompleta. Non è vero che il problema è solo delle donne straniere. Noi siamo cittadine incomplete, noi italiane siamo cittadine in minima parte dentro i luoghi della rappresentanza democratica. E questo vorrà pur dire una nostra incompletezza. Ma, non mi dilungo, avrei da dire cose più importanti, ho detto questa perché è la più clamorosa. Noi abbiamo il 10% di rappresentanza. Ma ci sono cose più consistenti, non vorrei che si prendesse la mia come una forma di adesione ad una democrazia solo formale e rappresentativa. Quella rappresentativa potrebbe avere dei significati molto più completi. Ecco, allora io credo che oggi siamo di fronte ad un problema di completare un processo che non ha linearità però, un processo che deve avere delle rotture e la presenza dei soggetti stranieri, con quello che oggi ci propongono, ci permette, credo, a noi, e io parlo a partire dalla mia condizione di donna italiana, nata in Italia e vissuta sempre in Italia, ci permette di riaffrontare questo nodo. Credo che questa trasversalità oggi riprenda altre categorie della differenza, che è quella differenza che non è contro l’uguaglianza, ma che è contro la disuguaglianza. Categorie che ci riguardano, che sono per esempio il problema del patriarcato, che io credo che vorremo anche affrontare nella seconda fase e quindi di una relazione anche col

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maschile e con gli uomini. Così com’è stato accennato qui, una differenza molto importante tra le varie generazioni e fasce d’età. Quindi non ci sono solo quelle differenze di appartenenze “culturali”. La seconda fase vorrebbe approfondire, credo, questa rivisitazione attraverso fenomeni nuovi, attraverso esperienze, ed anche attraverso riflessioni teoriche, anche se questo aspetto mi sembra molto meno rilevante in un progetto come il nostro, nonostante sia necessario uno sfondo che deve essere chiaro su questo. E la continuità con la prima fase, c’è anche in questo tema della dialettica tra una società civile, plurale e le istituzioni. Questa è l’altra caratteristica del nostro progetto. Relazione conflittuale, mi verrebbe da fare un paragone, quasi come quella col maschile, e con gli uomini che sono un altro pezzo della conflittualità, ma dialettica anche ricca e che permette anche alle stesse associazioni spesso di vivere, sia pur non in assenza di conflitti. Proprio per questi elementi, la seconda parte del progetto è una parte in cui si è vista anche la necessità di studiare e di preparare delle esperienze di sperimentazione, di partecipazione, che tentino di cambiare i termini della partecipazione della democrazia a partire dalle politiche locali. Ed è per questo che si è pensato a dei forum partecipativi, dove appunto ci siano donne straniere, donne italiane, e un confronto tra società civile e istituzioni, dove la partecipazione alle decisioni, politiche e di politiche sociali, di tutte le politiche, vada oltre il tema della rappresentanza, e quindi in questo senso crei nuove forme di partecipazione di democrazia per tutti. E si è pensato poi a dei seminari, in cui invece ci sia la possibilità di vedere e di scambiarsi la soluzione anche di conflitti, di problemi sui temi della salute, dei servizi, sociali, sui temi del lavoro e sui temi più generali delle politiche locali e della cittadinanza. Ecco, quindi in questo senso, io credo che un nuovo progetto sarebbe proprio una sintesi molto importante tra studio e pratiche politiche, com’è, credo, nell’esperienza politica delle donne. E io penso che cercando anche di venire incontro a quelli che sono stati dei limiti pressoché oggettivi, per dei cambi di soggetti, per degli impegni che sono sorti alle persone che dovevano in parte gestire questo progetto, si dovrebbe partire, a mio parere, nelle varie fasi che ora Patrizia illustrerà in maniera molto più articolata, si dovrebbe partire, credo, anche da un discorso anche sulla gestione e sulle relazioni. Se questo vuole essere un progetto di donne, fra donne in un confronto con gli uomini, e anche in una prospettiva di cultura femminile e femminista, io credo che non si possa prescindere da un tema di relazioni e di gestione e di modi di presa di decisioni. Questo, per esempio, potrebbe essere un modo per aprire una nuova fase di progetto cercando anche di chiarire come è possibile, come si può tentare di gestire per due anni insieme un progetto, non negando differenze e conflitti, ma cercando di gestirle anche nella presa di decisioni. Ecco, Patrizia credo che vi potrà illustrare molto meglio quali saranno le fasi e poi su questo ci saranno altri interventi, soprattutto desi partner italiani che non hanno parlato, anche se non si nega la parola neppure a quelli stranieri, per riprendere anche le fila della prima parte e snodarle nella seconda. Patrizia Randini Associazione “Trama di Terre”, Imola Buon giorno a tutti. Io sono Patrizia Randini e sono una socia dell’Associazione “Trama di terre”, tanto per parlare di appartenenze.

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Io prima di entrare nelle fasi, prima di entrare nelle fasi di questo progetto che abbiamo presentato 10 giorni fa e nell’articolazione, visto che si tratta di un progetto biennale, quindi merita di saperne qualcosa di più, v vorrei fare un piccolo preambolo, sul nostro punto di partenza, dico nostro come associazione, perché dietro al progetto di ieri e dietro al progetto di oggi “Citizenship” c’è un idea nostra, dell’associazione e anche la costruzione di progetti, che per noi hanno un unico filo conduttore. Nel progetto di ieri, certo molto più focalizzato sui problemi di accesso alla salute da parte delle donne immigranti, ma con questa accezione ampia, questa analisi ampia dei fenomeni che poi generano esclusione sociale, quindi esclusione economica, esclusione spaziale ecc. Però già nel progetto IWHA, nel progetto di cui abbiamo discusso ieri, c’era una analisi puntuale sul ruolo dell’associazioni di donne. Questo perché? Perché, comunque, l’associazione “Trama di Terre” è un’associazione relativamente giovane, però da quando abbiamo incominciato a lavorare, abbiamo cercato di lavorare sempre in rete; non solo a livello nazionale, ma anche con le amiche di “Alma Terra”, con altre associazioni, ma anche con associazioni europee. Non a caso, le amiche di S.U.S.I. oggi sono qui; ma anche associazioni francesi, spagnole ecc. Perché noi pur lavorando sul campo, quindi con la costrizione di tenere insieme dei livelli di intervento diversi, di riflessione ma di lavoro puntuale, ma di pratiche, ma di messa in discussione politica di quello che facciamo, però coglievamo tutto il potenziale, soprattutto, innovativo di queste associazioni. Devo dire che, infatti, è vero quello che dice Monia, che la letteratura e le ricerche in tema di associazionismo in Italia è piuttosto carente. In altri paesi di più antica immigrazione esiste una letteratura molto più ricca ed anche con spunti molto interessanti. Quindi, già questi confronti, questo lavoro di rete, ci dava un po’ questa misura dell’innovazione di quello che stavamo facendo. Dico anche un'altra cosa, cioè che ci troviamo a lavorare in un paese come l’Italia, come altri paesi poi del Sud-Europa in cui, in effetti, l’associazionismo immigrante è piuttosto debole, per varie ragioni, per come è strutturato il sistema di welfare, per questa presenza forte del volontariato cattolico nella gestione di servizi rivolti all’immigrazione, per varie ragioni. Però, sta di fatto che l’associazionismo immigrante, molto spesso, appunto, rappresentanti di alcune comunità con leader maschi, resta comunque abbastanza debole cioè fa fatica ad accedere direttamente alle risorse, ai luoghi di potere, a luoghi di negoziazione vera di tipo istituzionale. Questo meriterebbe sicuramente un’analisi più approfondita che qui però, ovviamente per ragioni di tempo, non voglio a fare. Voglio solo dire che da IWHA, mentre lavoravamo su IWHA, le conclusioni di IWHA, cioè il progetto di ieri, abbiamo pensato di continuare questo lavoro analizzando in modo più puntuale gli aspetti innovativi dell’associazionismo femminile, cioè le vere opportunità che questo tipo di associazione riesce a creare nel creare degli spazi di relazione, degli spazi di confronto, ma anche di vero rafforzamento, cioè ormai empowerment è una parola parecchio abusata. Se ne parla molto, ma, in pratica, trovare degli indicatori per misurare davvero il rafforzamento, l’opportunità di partecipazione delle donne nei contesti è molto più difficile, diventa sempre di più un concetto proprio astratto. Devo dire che in questi luoghi di donne, è poi concludo, in questi luoghi di donne e da questo lavoro di rete che abbiamo fatto emergeva in modo evidente comunque, che c’erano questi processi di presa in carico della propria vita, di autodeterminazione, di consapevolezza, per cui donne, e succede ancora adesso,

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donne che arrivano, che vengono presentate ai servizi come problemi, divengono rapidamente parte della soluzione. Quindi, abbiamo presentato il progetto Citizenship Fase 1 che, appunto, fortunatamente è stato approvato, -abbiamo fatto questo lavoro insieme. E la Fase 1 era una fase preparatoria. Siccome la Commissione Europea ha avviato un programma pluriennale di lotta all’esclusione sociale, quindi finanzia progetti per combattere l’esclusione sociale, ha deciso di finanziare una fase preparatoria, che era appunto, la Fase 1, dando quindi la possibilità di fare una sorta di studio di fattibilità, per presentare poi un progetto più articolato per la Fase 2. Quindi, questo noi abbiamo fatto. Il lavoro che è stato illustrato stamattina e il progetto Fase 2, che abbiamo, appunto, presentato una decina di giorni fa. Il progetto Fase 2 è un progetto biennale e devo dire che abbiamo mantenuto, ovviamente, l’impianto teorico in gran parte della Fase 1, cioè siamo partiti da questo concetto di cittadinanza, di cui questa mattina avete già sentito parlare molto, cogliendo delle contraddizioni, degli scarti giganteschi, non solo in Italia, ma anche in Europa. Per cui da una parte c’è questo dibattito molto teorico su, appunto, concetto di cittadinanza sopranazionale o transnazionale, poi nei fatti, nei singoli paesi, nei singoli territori quello che vediamo è che c’è uno scarto immenso e crescente, tra chi entra con un lavoro regolare, documenti in regola, quindi riesce a godere di un minimo di diritti sociali ed economici e chi invece è irregolare, non ha documenti, e viene escluso in modo sempre più radicale. Anche le ultime leggi sull’immigrazione, soprattutto nei paesi del Sud-Europa, come ricordava, anche stamattina, prima, l’amico Spyros, tendono a sancire, a codificare l’immigrante, sempre più come lavoratore ospite. La Bossi-Fini credo che è un esempio eclatante, cioè abbiamo una legge nazionale che crea irregolarità, quindi meglio di così. Quindi, a partire da questo aspetto della cittadinanza, con la consapevolezza ovviamente che per coniugare pratiche che riteniamo innovative, misurare, come ricordava Maria Grazia, misurare l’intreccio tra queste pratiche dei luoghi di donne, dell’associazionismo sulle politiche locali (e anche questo è una cosa veramente poco studiata, e non solo in Italia), quindi, questo è l’altro nodo che ci interessa analizzare, e tutto questo come macro-obiettivo per acquisire più elementi, approfondire di più il concetto di cittadinanza sociale, che è quello che ci sembra più utile in questo fase. Ci piacerebbe molto fare dei discorsi di cittadinanza politica, ma diciamo, che per il momento, per gli strumenti che abbiamo, per le possibilità che abbiamo, anche di andare ad esperimentare sul campo e di approfondire il concetto non solo a livello locale, territoriale o nazionale, ma a livello europeo, il concetto di cittadinanza sociale, ci pareva un obiettivo piuttosto ambizioso. Quindi siamo partiti diciamo, dal presupposto teorico della Fase 1, il tema della cittadinanza e abbiamo cercato di identificare meglio cosa sono questi luoghi di donne rispetto a, come vi dicevo prima, all’associazionismo più tradizionale, le associazioni di comunità. In che cosa si distinguono? Perché? Per esempio, un dato che emerge da tutta la letteratura europea è che appunto questi luoghi di donne sono spesso interetnici, che è una caratteristica tutta femminile. Non esiste l’equivalente maschile di associazione interetniche che funzionano in questo modo, con ovviamente, questa capacità di mantenere uno spazio di autonomia e una qualità politica nel lavoro che si fa. Quindi, questo è l’altro presupposto, diciamo teorico della nostra analisi e ovviamente un’analisi più puntuale sull’impatto delle politiche immigratorie rispetto

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ad aspetti anche meno studiati, come, appunto, la possibilità di associarsi, di creare associazioni riconosciute, visibili, che possano accedere ai luoghi di potere, alla distribuzione delle risorse, o alla possibilità di cautelarsi rispetto ai meccanismi di esclusione o di impoverimento sui luoghi di lavoro, per esempio. Come ricordava Maria Grazia, le attività che abbiamo previsto in questa seconda fase, -pure questa abbastanza ambiziosa, secondo me, perché c’è una fase di analisi, di approfondimento, che non è proprio ricerca pura, ma comunque è un approfondimento teorico su questi temi che abbiamo appena illustrato-, con l’ambizione di collegare questa analisi, i risultati di questa analisi, e quindi di questo lavoro, comprendere meglio le pratiche di cittadinanza di uomini e donne, comprendere meglio il loro impatto sulle politiche sociali, bene, connettere tutto questo con dei territori, con dei luoghi di partecipazione, quindi farli uscire dal luogo di genere e connetterlo con i territori, cercando di far emergere il più possibile anche i processi nascosti, le competenze nascoste dei territori, attraverso la creazione di questi strumenti che sono appunto questi forum di partecipazione, forum partecipativi, rivolti quindi non solo alle associazioni, ma ai cittadini tutti, alle persone, ovviamente con lavori strutturati, con studi di fattibilità ecc. È tutto un lavoro che richiede una grossa preparazione però l’obiettivo, insomma, intermedio è quello per il primo anno. Nel secondo anno l’obiettivo che ci siamo dati è di ripetere questi forum in alcuni territori selezionati a livello europeo e di fare tre seminari di approfondimento transnazionali, sempre a livello europeo, su alcuni macro-temi. Di nuovo il tema della salute, quindi l’impatto delle politiche locali, pratiche politiche - impatto sulla salute e pratiche politiche – impatto sul lavoro. Il terzo seminario, conclusivo, di approfondimento sul tema della cittadinanza sociale rispetto, appunto, a quello che abbiamo capito nei due anni di lavoro. Quindi, insomma, abbastanza, come vedete, articolato e ambizioso. Io chiuderei qui. Se avete delle domande, c’è anche la tavola rotonda. Claudia Castellucci Io darei subito la parola a Rosanna Rabezzana di Alma Terra di Torino, e poi a chi la chiede, sempre sullo sviluppo dei progetti. Se poi riusciamo a rimanere, appunto, nei tempi, dopo facciamo la tavola rotonda. Rosanna Rabezzana Associazione Almaterra, Torino Mi presento. Sono Rosanna Rabezzana. Faccio parte dell’associazione “Alma Terra” che gestisce, che coordina tutte le attività del Centro interculturale delle donne Alma Mater di Torino. È uno dei primi centri nato in Italia. E’ nato nel 1993, quindi ha 10 anni di vita. E mi ritrovo tantissimo con le cose che ha detto Maria Grazia Ruggerini. Perché avevo un certo disagio, non sapevo tanto come collocarmi, nel senso che quello che ha detto Maria Grazia è la filosofia che sta alla base del nostro centro. Cioè, perché esiste questo centro? Il centro è nato proprio perché un gruppo di donne italiane con una storia femminista, insieme ad un piccolo gruppo di donne immigrate volevano “cambiare il mondo”. Grossa pretesa, no? Insieme. Cioè volevano aprire degli spazi di partecipazione, di cittadinanza reale e volevano soprattutto farlo insieme, ovvero, non le donne italiane che fanno qualcosa per le

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donne straniere, ma le donne italiane che provano una forte alleanza con le donne immigranti per cambiare. Allora come si fa a cambiare? Intanto, le donne immigranti immediatamente ci hanno messo di fronte a degli enormi buchi che avevano, ad esempio, i nostri servizi rispetto a come ci accoglievano, a partire dal fatto che eravamo donne. Allora, a partire da tutta una serie d’analisi che abbiamo fatto sulla nostra salute, sui servizi, su come funzionava la scuola, su come funzionava la società, cioè tutto ciò che fa si che noi stiamo nel mondo, abbiamo individuato buchi, nodi ed insieme abbiamo tentato di costruire progetti che andassero a lavorare su questi nodi. Io devo dire un’altra cosa. Quando mi interrogo sul perché io sto in questo centro, mi viene fuori una risposta sola. Io, in realtà, come professione sono regista e per tanti anni ho fatto teatro. Allora, perché sono andata a finire in un centro e ho voluto fare del teatro, sperimentare del teatro con delle donne di altri paesi? Perché sicuramente mi stava stretto il modo di fare teatro che avevamo qui in Italia, perché sicuramente quel modo lì di fare teatro non rispecchiava i cambiamenti che stavano avvenendo nel nostro modo, perché ero stufa di stare in una nicchia chiusa a fare una ricerca ripiegata sul mio ombelico, ma avevo voglia di capire cosa succedeva intorno a me. Allora, il teatro, come qualsiasi altro linguaggio espressivo, se non si connette con una realtà che cambia, non ha senso, è una masturbazione, che vale per poche e per pochi. Allora a partire da questo, ho trovato quello spazio, quella casa, il luogo giusto per sperimentare qualcosa di diverso, ma che non facesse bene solo a me, o alla signora peruviana che fa teatro con me, ma che andasse a toccare il sistema teatro, che lo mettesse in discussione. Tant’è vero che finalmente (ci abbiamo messo 10 anni), ma dopo 10 anni, finalmente, quest’anno a Torino il sistema ufficiale del teatro, quindi il Teatro Stabile, il Teatro con la T maiuscola, quello vero, quel teatro lì ci ha riconosciuto, ci ha dato degli spazi, ci ha dato dei finanziamenti, perché, er riuscire a creare all’interno del quartiere di San Salvario, che è un quartiere famoso in Italia, di Torino, per creare uno spazio di teatro interculturale, perché quel quartiere diventi un quartiere “di sperimentazione” di modi diversi di fare, di fare teatro, ma anche di fare scuola perché……… (Nastro 2) …non è più pensabile continuare a dire che si hanno dei problemi di relazione con le famiglie. Allora, in che modo si sperimenta? Ad esempio, di nuovo attraverso il teatro. Abbiamo messo in piedi un gruppo di madri, nel quartiere, che raccoglie donne di tanti paesi, che facendo teatro insieme, insieme donne e insieme con i loro figli (abbiamo invitato anche i papà, ma non vengono, però li abbiamo invitati). Da questo fare insieme i fili della relazione si riconnettono, non so come dire. L’insegnante insieme alla mamma araba che non sa l’italiano, ma che se ci esprimiamo con il corpo o con altri strumenti, riescono a fare amico, riescono a vedersi fuori dai propri ruoli di insegnante e di madre, forse il giorno dopo si parleranno in un altro modo. Cioè noi questo lo sperimentiamo da anni, abbiamo capito che funziona e continuiamo a farlo. Allora, questo è per dire che dobbiamo tenere ben presente quando andremo a fare la seconda fase del progetto, sempre che passi, che a noi interessa, a Torino, all’Alma Mater di Torino, intanto ragionare sempre di più sul nostro fare, capirne le

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potenzialità e capire dove possiamo andare a parare, e poi ragionare su che tipo di rapporti possiamo avere, che tipo di influenza possiamo avere sulle istituzioni e sulle politiche del pubblico. Ci sono dei segnali terribili, non per cattiva volontà dei gestori delle istituzioni, ma per questioni finanziarie, di tagli vari ecc. Per cui giungono voci che taglieranno sulla presenza delle mediatrici e dei mediatori culturali nei vari servizi, taglieranno i laboratori nelle scuole, taglieranno da tutte le parti. Allora c’è questo grosso nodo da affrontare, capire dove si vanno a recuperare le risorse per andare avanti. L’altra cosa di cui mi piacerebbe parlare un po’ è il discorso del modello cosiddetto multiculturale di cui si parlava stamattina. Io credo che la situazione italiana sia estremamente diversa dalla situazione inglese. Noi non abbiamo, almeno a Torino, una presenza di comunità forti strutturate. Tant’è vero che noi possiamo permetterci di dire all’Alma Mater, che l’Alma Mater, questo centro, non è un luogo di difesa delle culture. Assolutamente no! Noi diciamo che è un luogo di incontro tra donne, tra soggetti, ciascuna portatrici delle proprie diversità, al di là dei paesi da cui arrivano (ma le stesse donne italiane - ciascuna di noi è diversa), che si riunisce, si aggrega, lavora, si conosce, litiga, si confronta su tutta una serie di progetti. E possiamo dirlo, perché questo è quello che vogliamo e forse perché non c’è una presenza di comunità così strutturate che interviene pesantemente e ci condiziona. Noi non c’è l’abbiamo nella città di Torino. Non abbiamo dei leader di comunità così forti e riconosciuti che intervengono pesantemente nella situazione delle persone immigranti. Anzi, abbiamo una comunità marocchina assolutamente divisa, che fa riferimento a degli imam molto diversi tra loro, che la pensano in modo molto diverso, tant’è vero che quando succedono fatti importanti e tremendi come l’11 settembre o altro, noi abbiamo aperto dei momenti di discussione grossi all’interno dell’associazione con le donne musulmane, e dove è venuta fuori una posizione, ad esempio, assolutamente diversissima da quella che è stata poi la posizione ufficiale dell’imam di Porta Palazzo di Torino. Quindi, grosse contraddizioni all’interno. Questo per dire che, quindi, quando si parla di mediazione culturale, non siamo nel caso di dire che la mediazione culturale la praticano i leader di comunità, ma la mediazione culturale da noi, che poi oggi siamo quasi orientati a chiamare non più tanto mediazione, quanto uomini e donne che facilitano la comunicazione tra servizi e le persone che si rivolgono ai servizi, tra scuola e allievi ecc., o nei ospedali tra medici e pazienti, è fatta da donne e uomini che hanno fatto un percorso di formazione di un certo tipo, di 900 ore, non so quante, e che si pongono in quella logica lì, di facilitare la relazione, di facilitare la comunicazione, ma non certo di essere degli dei che decidono o che prendono le parti o che difendano. Noi ci stiamo limitando molto e stiamo continuando a riflettere su quello che deve fare il mediatore o la mediatrice culturale, perché sicuramente è una figura in divenire, sicuramente i bisogni degli immigranti cambiano ecc. e quindi il mediatore e la mediatrice si devono adeguare. L’altra cosa che ci tenevo a puntualizzare e mi collego, quindi, a quello che diceva ieri Tiziana, quando Tiziana diceva l’accesso, la salute dipende da quello che sono le condizioni socio-economiche delle persone e non da condizioni culturali, io sono pienamente d’accordo. Cioè, voglio dire, certo che poi c’è anche l’aspetto culturale, tant’è vero che all’interno del centro facciamo tutta una ricerca su tutto quello che sono le medicine tradizionali, per capire se ancora persistono nelle persone che migrano, la voglia di curarsi con metodi tradizionali. Ma questo interessa anche me, donna italiana, che magari sono stufa di mangiare sempre la

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chimica e voglio capire se ci sono modi diversi per curarmi. Ma a parte questo, noi vogliamo intervenire nel nodo del lavoro. Allora, la questione lavoro è la questione primaria. Se noi non facciamo una battaglia grossa insieme alle istituzioni creando le alleanze più larghe su quelli che sono i riconoscimenti dei titoli di studio delle persone che migrano e su quella che è lottare contro la segregazione lavorativa, perché non se ne può più di pensare che gli immigranti, le immigranti debbano fare solo certi lavori, almeno noi non ne possiamo più, - credo che qui siamo tutti d’accordo, se no, forse non saremmo qui. Allora, in questo senso, abbiamo fatto un progetto, stiamo facendo dei progetti sperimentali, uno è quello che chiamiamo “delle banche”. Abbiamo fatto una grossa alleanza con le centrali sindacali, con il Comune di Torino, Assessorato al Lavoro e abbiamo fatto assumere a tempo indeterminato 12 donne migranti nelle banche di Torino. Allora, questo ha creato un caos incredibile, ovviamente, - immaginatevi un po’ tutte le lettere degli italiani che dicevano: “Ci rubate il lavoro. Abbiamo i figli disoccupati e voi mettete le donne in banca”. Ma noi vorremo che questo caos si ripetesse ogni 15 giorni, non so come dire, fino a che tutto diventerà normale. Perché sta diventando normale essere curati da donne straniere negli ospedali, il vecchietto è normale che sia curato dalla donna straniera, ma non è normale trovare una donna straniera in banca. Allora noi invece vorremmo normalizzare tutto ciò. Ovviamente, sono progetti sperimentali. Sono molto faticosi. Però, se siamo riusciti a Torino, io credo che bisognerebbe queste esperienze socializzarle e mettere in moto dei meccanismi da poterle riproporre in altre situazioni del territorio nazionale. Così come pensiamo di far partire tra pochissimo, una società di mutuo soccorso. Esistono ancora in Italia le società di mutuo soccorso. Siamo andati a rivederci gli statuti ed abbiamo capito che una società di mutuo soccorso ci può, ad esempio, servire per far partire un’attività di microcredito a donne che sono, magari, o perché vogliono far partire delle piccole attività, ma non solo, perché magari a volte ti muore un parente, devi riportarlo al paese, il bambino deve andare dal dentista, non lo so, hai degli accidenti nella vita, per cui hai bisogno rapidamente di un po’ di soldi. Allora se non puoi andare in banca perché non puoi garantire, conosciamo bene tutte le storie, allora vai a finire dagli usurai, vai a finire dagli usurai della tua comunità - perché questo succede. Per evitare tutto ciò, vogliamo far partire una società di mutuo soccorso che dia la possibilità a queste donne, italiane, emigranti, perché sempre anche le italiane, di accedere a queste forme di microcredito, proprio per sperimentare dei momenti di economia solidale vera e differente. Io mi fermo qui e poi vediamo nella tavola rotonda. Claudia Castellucci Ecco, se ci sono altri interventi sullo sviluppo del progetto abbiamo 5 minuti e poi cominciamo la tavola rotonda. Ti do la parola Nadje. L’unica cosa che volevo dire, che la tavola rotonda, a questo punto anche per come è andata la discussione sicuramente credo che sarà l’occasione di discutere tra i protagonisti di questi temi che sono ritornati molte volte, più di carattere anche generale, sul multiculturalismo, sul rapporto tra associazioni e le istituzioni ecc. Quindi, adesso concluderei la parte proprio relativa al futuro del progetto. La parola a Nadje.

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Nadje Al Ali In my morning contribution I was wearing my academic hat, and now I am… well, I don’t believe in this division of roles, but now I’m talking more as someone of ethnic minority status, of someone who is involved in feminist movement. I have to say, when I was sitting here this morning and I was giving my talk, and I was looking around, I mean, one thing that really struck me, was the fact there are hardly any women of ethnic minority background actually present here. And, so thinking about phase two, I think, for me, it is not really clear what the project is about. In another words, I think one element I feel is a very sensitive suspicious, but I need to be addressed, is actually the relationship between the local women movements, local feminists… I mean, local, everyone is local, but those who are Italian and Greek, British and so forth, you know, and then women organisations of women of ethnic minorities status. Because there is, of course, a danger and I mean, -don’t get me wrong, I am not accusing anyone here, but, of course, there's a danger of being patronising, I mean, there's a danger of speaking for, right? And so, thinking about events like this in Britain I couldn’t imagine an event like this in Britain taking place and only sort of white English women speaking about, you know black women. It’s kind of strange idea, I don’t know… So that was one observation. And I have to say that, of course, for many of us who are part of the feminist movement it’s often a big dilemma, because I don’t want to speak for Meena, but I know for myself I’ve been very much involved in debates of muslim women and I was involved in the women’s movement in Egypt, and there some of my friends were very much involved in the campaign against female genital mutilation in Egypt. They told me, if they would go to international conference, like one friend of mine, she went to New York and an American feminist was telling her ”These barbaric Muslims, they practice female genital mutilation”, this woman who endangers her life, who all her time is campaigning against female genital mutilation in Egypt, found herself in the position that she was defending the practice, when she was in New York. And she hated herself afterwards. That’s an extreme example, but I mean, of course, there is extension. And I’m sure that Southhall Black Sisters who are dealing with domestic violence, at the same time have to deal with racism with the British saying "These Asian men beat their wives." So how do we deal whit that? So I think that in the future we need to be addressed. Also I think, of course this is a first encounter here, so we need to get to know each other, we need to listen what other people are doing, but this can really only be a first step, because I noticed in the morning’s discussion about multiculturalism, I mentioned it, Meena mentioned it, it was taking up later, and I mean, you spoke about it and there was actually almost the opposite of what we meant. So I think, it’s important there is more time to, actually, speak to each other instead of just providing information, but I understand that this is just the first step, but I feel that, you know, in order to really get something out of it, we can’t… it needs to get further, I mean, there needs to be a real dialogue and the possibility to be engaged in a discussion rather than just… Patrizia Randini Io volevo solo commentare un attimo quello che ha detto Nadje, perché mi sembra molto pertinente questo discorso del maternalismo. Insomma, omunque all’interno di queste associazioni di donne, appunto italiane e immigranti è vero che molto spesso

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c’è un ruolo predominante delle donne italiane. Adesso mi dispiace che Rosanna si sia allontanata dal tavolo perché con lei, appunto, pochi anni fa, abbiamo fatto questa interessante ricerca proprio sul modello di Alma Mater, che era un modello sicuramente innovativo per la realtà italiana. Devo dire che con tutte le contraddizioni, con tutte le differenze e le difficoltà di tenere insieme, perché è vero che ci sono le lotte di potere, è vero che comunque la negoziazione non è semplice, ed è vero che le donne italiane conoscono meglio il contesto, hanno accesso, cioè, vivono nel loro territorio, conoscono benissimo il territorio, le istituzioni, i contatti, hanno risorse in più, familiari, relazionali ecc. Posso, però dire questo, perché sono poi anche problemi che ci siamo poste dall’inizio, da quando siamo nate. Posso dire che proprio perché in Italia c’è questa presenza piuttosto debole, come ho detto prima, dell’associazionismo immigrato, cioè le associazioni di immigrati fanno fatica a conquistarsi uno spazio di visibilità, ad accedere a risorse ecc.. Molto più spesso, come ha ricordato anche Monia, accennato Monia stamattina, abbiamo delle agenzie intermedie, che mediano tra il mondo dell’immigrazione e le istituzioni. Quindi, abbiamo NG, abbiamo associazioni di volontariato, abbiamo agenzie intermedie. Ecco, devo dire che uno dei temi ricorrenti sia nella ricerca che facemmo, non so più, di 1 anno e mezzo fa con Alma Mater, sia nei dibattiti che facciamo quasi quotidianamente posso dire a "Trama di Terre", c’e un’attenzione piuttosto vigile su questo punto, nel senso che non vorremmo comunque, e lo dico come una considerazione in libertà, non sono ragionamenti strutturati, però, non vorremo entrare nella logica di auto-conservazione. Abbiamo questo spazio, forniamo anche servizi, però siamo anche uno spazio di relazioni, abbiamo questo centro… Però non vorremo entrare in questa trappola, dove poi prevale la logica di autoconservazione della propria organizzazione. E per fare questo non credo che abbiamo trovato delle risposte universali, però sicuramente, a parte l’onestà intellettuale, comunque lo sforzo di mantenersi aperte all’innovazione e di contrattare veramente degli spazi di potere e di decentrare dei pezzi di potere vero, economico e politico. Questo ci sembra che finora ha funzionato abbastanza, nel senso che comunque abbiamo mantenuto questo focus su questo problema. Però, certo è un rischio reale, questo del maternage delle donne italiane. Sì, anch’io desideravo dire che è stata utile la precisazione che ha fatto Nadje, perché questa è una contraddizione palese all’interno dell’Italia in particolare. Ma credo anche, che nel momento in cui noi accettassimo davvero l’ipotesi che un discorso a partire o che ha al centro come fuoco i soggetti femminili immigranti, è in realtà un momento di messa in discussione di un equilibrio nostro rispetto alla società, rispetto alla politica, rispetto alle forme di democrazia e di partecipazione e rappresentanza. Ecco, nel momento in cui noi entriamo in gioco, anche il rischio dell’auto-conservazione sarebbe minore. E io non penso solamente dentro le associazioni, penso anche nel gioco della società civile, nell’apporto della società civile alla politica. Quindi, io credo che lo sforzo dovrebbe essere non solo quello di non parlare al nome degli altri, che mi sembra evidente e giustissimo, ma di pensare che anche quando parliamo a nome di noi stessi, soggetti autoctoni, in questo contesto di trasformazione che ci viene imposto in qualche modo dalla presenza dei soggetti immigranti, - ci basti pensare a quello che accade in Italia in questi giorni, che stanno sconvolgendo forse persino gli equilibri di governo - immigranti che arrivano sulle coste italiane, allora mi chiedo se allora questo non deve diventare

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un’occasione per rivisitare, lo diceva anche Rosanna nel suo intervento, per rivisitare il nostro modo di essere oggi cittadini e il nostro percorso femminista dentro a questo. Ecco, in questo senso credo che rischieremmo un po’ meno anche quella rappresentanza di altri o quella dicotomia tra soggetti. Prego, brevissimi perché chiudiamo questa parte. Prego. Io vi ringrazio per l’invito che ho ricevuto e partecipo come Presidente del Movimento Federalista Europeo dell’Emilia–Romagna. Ecco, tutto il confronto e il dialogo che ho seguito questa mattina avviene fra le vostre esperienze, dei vari paesi, ma soprattutto legato alle istituzioni locali, alle leggi locali. Ecco, non ho colto invece nessun riferimento all'Unione Europea. Che cosa da tutte queste esperienze, da tutti questi confronti ci si aspetta o ci manca dall’Europa, dalla Comunità Europea, proprio in questo momento in cui si sta approvando a Salonicco e in seguito il testo della nuova Costituzione europea e anche in riferimento alle prossime elezioni europee del 2004. Grazie. Milad Basir C.G.I.L. di Forlì Due, tre suggerimenti anche in base alla continuità del progetto che dovrebbe essere nei prossimi due anni. Quando si parlava della società patriarcale o altro, io invito anche nella fase progettuale di realizzazione di studiare bene questo aspetto della società patriarcale, perché questo ha degli aspetti molti negativi, ma ha anche altri aspetti positivi. Bisogna che riusciamo a far crescere gli aspetti positivi, gli aspetti da valorizzare, bisogna che riprendiamo in considerazione, riusciamo a farli emergere in questo contesto di appartenenza. Perché si parlava di donne immigrate e altro… e penso che qui bisogna ragionare in termini di due appartenenze. Appartenenza ad un gruppo culturale, quello del paese d’origine che porta con sé comunque la donna immigrata e la capacità nostra e loro di far crescere qui o anche di formare un gruppo d’appartenenza culturale nuovo, in base al contesto locale. Allora il problema sta proprio qua in mezzo, perché c’è il rischio anche di far partire o far crescere una cultura dominante e una cultura dominata. Oppure l’aspetto della convivenza familiare di molte persone, -faccio riferimento alle comunità fatta di immigrati-, che questo ragionamento, un percorso non parallelo della crescita complessiva di tutti i componenti della famiglia può far sì che si spacchi la famiglia, perché i vari componenti della stessa famiglia crescono con un dislivello e c’è il rischio di spaccatura. Perché una persona che magari riesce ragionare, in base a un gruppo di appartenenza locale o di una nuova realtà dove si trova il contesto locale o nazionale, anche le persone che portano i ragionamenti e la cultura del paese d’origine. Le associazioni di immigrati, è vero che debbono strutturarsi, ma non solo femminili, ma anche in senso lato, perché qui c’è una mancanza di protagonismo degli immigrati, che è colpa anche nostra da un lato, dall’altro, di non avere la possibilità di emergere o di partecipare. Allora, qui bisogna che noi riusciamo a far sì che, se vogliamo veramente partecipare attivamente non solo alle decisioni politiche, ma anche sociali, a livello

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di rappresentanza, che riusciamo a far crescere dentro la cultura degli immigrati, qua ed altrove, una capacità di autocritica. Ovvero, di poter criticare tutto ciò che è negativo e che lo porto con me nel mio repertorio culturale o altro, e portare anche l’aspetto positivo. Però dovrei avere la possibilità di farlo emergere, di farlo conoscere ad altri. Perché questo aspetto qui, nel paese dove siamo, qua in Italia, dove si parla di diritto di cittadinanza, in quanto con la legge Bossi–Fini, quando si parla di legge sulla cittadinanza o di diritto di cittadinanza si presuppone già una certa stabilità nel territorio, purtroppo, con la legge che abbiamo attualmente in vigore questa stabilità qui, non c’è più. Noi abbiamo in Italia oltre 36 tipi di permesso di soggiorno. Ciascuno ha la sua caratteristica, la sua tipologia e l’immigrato non ha più una stabilità per poter partecipare o progettare la sua vita nel contesto locale e territoriale. Non abbiamo noi l’esperienza degli anni scorsi o degli altri paesi europei, tipo la Germania, la Francia, la Svizzera o altro. E non abbiamo ancora un modello da applicare. Siamo già alla ricerca, a mio avviso, di trovare un modello in base al nuovo contesto, alla nuova realtà nostra. E l’invito che vi faccio, questo aspetto qui, della crescita del femminismo, della donna e tutto quanto, deve essere presa in considerazione con la crescita collettiva; non è contro gli uomini, contro le istituzioni o contro altro, perché nasce proprio da una crescita familiare, perché se una famiglia cresce con un dislivello, c’è il rischio, -e che questo problema qui lo abbiamo già in diversi contesti-, di diversi problemi di natura varia. Suggerisco anche un altro aspetto, quello che viene chiamato spesse volte sui giornali "famiglie miste" o "matrimoni misti", "figli di genitori di diversi", che sono persone che comunque compongono una realtà completamente diversa rispetto al contesto del territorio e dell’appartenenza al territorio. Grazie. Claudia Castellucci Chiudiamo qui perché no c’è veramente più tempo. Apriamo la tavola rotonda. Naturalmente, la parola Lucio Boattini. Lucio Boattini Rai Tre TV Allora, buon giorno a tutti. Mi presento, sono Lucio Boattini, giornalista del TGR regionale dell’Emilia-Romagna e sono anche uno dei conduttori di questa anomala tavola rotonda. Questo forum finale è il momento, appunto, finale di una due giorni di convegno dedicata al tema dei percorsi di immigrazione delle cosiddette “donne con la valigia“, come è stato sintetizzato nel titolo, delle donne immigranti. Un tema, questo dell’immigrazione che, anche per noi giornalisti, è un tema come sapete tutti e come è stato detto anche qui poco fa, di grandissima attualità, perché basterebbe pensare solamente ai risvolti pratici che sta avendo la legge Bossi-Fini sulla vita di molti immigrati che vivono in Italia e, se non bastasse questo, c’è anche la cosiddetta “emergenza clandestini”, che è sotto gli occhi di tutti e che, tutto sommato, è una emergenza ricorrente. Noi qui, però, ci poniamo da una prospettiva, naturalmente, diversa, e cioè una prospettiva di una regione, di città, di amministrazioni locali, di associazioni di questa regione, appunto, ma abbiamo sentito anche, per esempio, l’esperienza di Torino,

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che sicuramente anche quelle dell’estero, molto diverse. Cioè, possiamo permetterci di guardare a questo tema in maniera molto diversa rispetto alla logica dell’emergenza, privilegiando invece il tema dell’inclusione sociale, facendo quindi un bilancio di queste politiche di integrazione o inclusione sociale, che sono state portate avanti in questi ultimi anni. Anche se, diciamo, io mi ero preparato a parlare di questo tema, ho capito che ci sono dei nodi però, da sciogliere e quindi ne dovremo parlare in questa tavola rotonda con chi vorrà intervenire, come, per esempio, il concetto di cittadinanza, che diciamo, per un esterno alle problematiche di immigranti è un tema, è un concetto, che si riferisce alla cittadinanza politica, diritti e doveri, mentre qui invece si parla anche di cittadinanza sociale. Ecco, noi possiamo fare un bilancio, quindi, sulle politiche di integrazione, inclusione sociale che sono state portate avanti in questi ultimi 10 anni. Ricordiamo che all’inizio si è pensato di fornire servizi ad hoc per gli immigrati, penso, per esempio all’esperienza dell’ISI di Bologna che noi conosciamo bene, un’esperienza che ha corso invece il rischio della ghettizzazione, quindi che ha forse, portato anche più problemi rispetto a quelli che invece tentava di risolvere, però, ricordiamoci che per l’Italia rispetto a paesi stranieri, il tema dell’immigrazione è un tema recente. Noi solamente da una decina di anni o poco più lo stiamo affrontando e non abbiamo una tradizione come, per esempio, la Gran Bretagna può avere. Quindi, abbiamo questo primo tipo di approccio al problema e invece, in una seconda fase si è sviluppato un approccio diverso, cioè mi pare di capire, quello di aver offerto e di offrire attualmente servizi a tutta la collettività, a donne immigrate e non immigrate e cercando però di offrire i servizi da parte del pubblico e avvalendosi della mediazione delle associazioni interetniche, -soprattutto qui in Italia-, dicevo, a fornire dei servizi capaci di valorizzare le competenze e le esperienze delle donne immigranti. Prima ho sentito un bell'intervento della rappresentante di "Trama di Terre", che è proprio un esempio da questo punto di vista. In questo tentativo di approfondimento c’è con me Claudia Castellucci, che è la Responsabile del Centro Donna di Forlì ed è la capofila, diciamo, del progetto, per cui le lascio la parola per presentare i partecipanti a questa tavola rotonda. Claudia Castellucci I partecipanti in realtà si sono già presentati questa mattina, quindi diciamo che sappiamo già chi siamo, perché c’è stata occasione, quasi per tutti, di illustrare brevemente la propria esperienza. Comunque, ricordo che sarebbero previsti come partecipanti: Cristiane Canale di S.U.S.I., Berlino, Spyros Iatropoulos - DOKPY Grecia, Rosanna Rabezzana – Alma Terra, Meena Patel – Southall Black Sisters di Londra, Syrpa Rydh del Comune di Spanga-Tensta per quello che riguarda la Svezia, come ospiti stranieri, "Trama di Terre" ed esattamente la presidente, Tiziana dal Prà, ed infine un’esperienza locale forlivese, la Cooperativa Sesamo, per la quale è previsto l’intervento di una mediatrice culturale. Queste sono, diciamo, le persone che dovrebbero intervenire nella tavola rotonda. Lucio Boattini

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Benissimo, allora cominciamo da uno dei concetti, da uno dei temi, che mi sembra che non si sia sciolto del tutto, e cioè quello di cittadinanza. Che cosa si intende con questa parola? Perché per uno che arriva da fuori, da questa discussione che è incominciata ieri, cittadinanza è, soprattutto, come dicevo prima, cittadinanza politica, quindi avere dei diritti, sapere di avere dei diritti e dei doveri, come per esempio votare, pagare le tasse, ecc. Ma mi pare di aver capito che per l’immigrante c’è un problema pre-politico, di cittadinanza sociale, perché bisogna essere consapevoli e consci di possedere questi diritti, e quindi bisogna in qualche modo essere aiutati a poterne usufruire. Da questo punto di vista voi, ad esempio "Trama di Terre", avete parlato del ruolo delle associazioni culturali. Che cosa possono fare? ed è venuta fuori una polemica, o comunque un nodo da sciogliere sul ruolo del mediatore culturale. Perché Rabezzana, se non vado errato, di "Alma Terra" di Torino, ha lanciato un sasso in uno stagno, cioè, ha detto, da noi in Italia la mediazione culturale è un'esigenza, è un'esigenza anche molto richiesta nei rapporti con il potere pubblico, è una figura che si sta sviluppando anche da un punto di vista professionale. Noi non abbiamo il rischio, non subiamo almeno il rischio, del fatto che il mediatore culturale sia il rappresentante di una comunità particolarmente forte, e quindi non subiamo questo rischio di egemonia. Però, nessuno è intervenuto su questo, mentre invece mi pare di capire, che in Gran Bretagna ci sono stati degli interventi e delle situazioni diverse. Quindi, vorrei sapere qualcosa su questo punto di vista. Claudia Castellucci Sì, in effetti ieri sera abbiamo parlato di questo ad esempio con Meena. E Meena faceva un ragionamento che poi rimandava ad un tema, che credo dopo potremmo approfondire. Meena diceva la figura del mediatore culturale in realtà presuppone una logica di assimilazione, cioè che ci debba essere una figura che fa da intermediario rispetto ad un'assimilazione ad una cultura dominante. E seconda cosa, la mediazione, anche laddove non sia svolta da figure, diciamo, religiose o comunque da capi di comunità, anche laddove non sia svolta da figure di questo tipo, è sempre comunque un'attività che restituisce un potere di controllo all’interno idi una comunità. Ho capito bene? E’ così? Vuoi precisare la tua opinione su questo punto? Meena Patel What I was trying to say is you’ve got this culture of mediators, and in England what we have is interpreters. You’ve got culture mediators, we have interpreters. Interpreters are used in hospitals, GP’s, so forth, to be sure the woman understands what kind of service she can get. But what happens is that where women who have certain problems in relation to, I’m gonna speak of my experience of domestic violence, what happens is that the state will look towards community leaders and religious leaders to say how women should be treated. Now, the problem here is, because the state looks towards them for the answer, they're not speaking for women themselves, because women themselves want something completely different. OK. And what's happening is that the community leaders and the religious leaders are men, and what they want to do is to keep the problem within their homes, oppress women and these women actually

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want to come out and say: “Oh no, this is not what we want. They don’t speak for us.” But the fear is, if you start using culture mediators, you may find that you don’t have a community that is so structured here right now, but what I see possibly is a problem that as you go along, those cultural mediators will become your religious leaders and community leaders, as the community begins to establish itself in this country. And there's a danger, because the state will then look towards them for the answers on how these minority people should be treated and the danger here is that women won’t be heard as a result. And that’s why I’m saying there must be a very careful manoeuvration of how you use cultural mediators. I mean, -correct me if I’m wrong-, but you want to use cultural mediators to discuss housing issues or problems in the hospitals, etc. In some cases is fine, but where women are concerned and you talk about FGM, and yesterday the gynaecologist talked about FGM and he said he lacked knowledge and there's a lack of knowledge around this issue, he wanted to know what they should do in terms of FGM. Now, the thing is what will happen is that you will get your experts telling you what FGM is, and they won’t react in terms of what the issue should be. The issue is “You stop FGM!” There should be a campaign to stop female genital mutilation, not: “How do we deal with these poor women who have been mutilated?”. It’s a hard campaign making wider changes and asking the state to make those changes and not to tolerate such abuses. So that's why I'm saying, there’s a worry that you may start, you know, using experts who are very conservative to tell you how to do those things. Lucio Boattini Ecco, volevo dare la parola a una mediatrice culturale italiana, da quello che ho capito, per sapere se in Italia possiamo correre questo pericolo, cioè di condizionamento piuttosto pesante, come abbiamo sentito. Ermelinda Zaimi Mediatrice culturale di lingua albanese - Cooperativa Sesamo No, io credo che in Italia, almeno qua a Forlì, la situazione del mediatore culturale sia diversa. Io credo che in Italia il mediatore culturale non abbia lo stesso ruolo che ha in Inghilterra, e non deve affrontare questo pericolo, perché qui il mediatore culturale fa mediazione tra l’operatore e l’utente, immigrati che spesso si trovano in difficoltà nell’accedere ai servizi e anche una diffidenza verso gli operatori, perché la loro cultura, il loro modo di pensare sono diversi, anche perché l’operatore in sé ha un suo modo di pensare, una sua cultura. Quindi credo che, in Italia, questo rischio di un mediatore culturale può diventare, se non ho capito male, un leader di una comunità, non esiste, perché il mediatore culturale, anche come una funzione, è un semplice operatore, se lo vogliamo mettere in altri termini, che cerca di facilitare la convivenza pacifica tra i vari servizi. Lucio Boattini Una domanda. La comunità albanese in Italia è un fenomeno insomma relativamente giovane, molto recente, quindi non ha avuto nemmeno modo

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rispetto a quello che può essere successo in un paese come la Gran Bretagna di sviluppare queo tipo, cioè la nascita di un leader. Però gli albanesi che abitano le nostre città hanno delle figure di riferimento oppure cercano semplicemente di integrarsi nella nostra cultura senza poi portare molto di quello che avevano? Ermelinda Zaimi Io dico che in questa città gli albanesi non hanno un leader ben preciso, perché prima esisteva l’associazione degli albanesi a Forlì e adesso non c’è più. Cercano di integrarsi, però dobbiamo di capire che ci sono sempre i limiti, perché anche gli albanesi, come gli altri immigrati trovano delle difficoltà nell’accedere ai servizi. Così, è vero sì che ci sono dei casi di mutuo soccorso, di solidarietà tra immigrati albanesi, come è stato il caso della famiglia albanese che ha perso accidentalmente il marito, allora la comunità albanese è riuscita insieme ad aiutare questa famiglia che si è trovata in difficoltà. Però, qua a Forlì non c’è un vero e proprio leader. Allora, io volevo dire due cose, sollecitata da Meena anche. Questa questione dei mediatori, non tanto entrare nel loro ruolo. È chiaro che sui problemi delle donne nello specifico, visto che noi lavoriamo come "Trama di terre", e tutto il nostro lavoro come mediatrici, le nostre sono tutte donne. Sono state formate all’interno di un gruppo di donne e aderiscano ad un progetto ben preciso che è il progetto dell’associazione "Trama di terre". Cosa ha garantito questo? Garantisce che all’interno tipo dei servizi, faccio un esempio, del consultorio, dell’ospedale, in altri ambulatori, per parlare della sanità, perché è uno degli argomenti, ovviamente, più incisivi sulla vita delle donne, il problema della riproduttività, per cui fa sì che la donna abbia molto potere, abbia molta parola. Se si lavora bene coi sevizi, se si entra in sintonia, è chiaro che l’ultima parola aspetta alla donna immigrante, ed è chiaro che all’interno dei servizi si possono, come si è discusso ieri, modificare anche degli interventi, per cui il ruolo della mediatrice, in questo caso, ovviamente della mediatrice, visto che è richiesto anche alle donne immigranti che ci siano ginecologhe femmine, chei medici siano di sesso femminile, ma ci sono stati, posso fare solo un esempio, un uomo all’interno, una coppia che richiedeva l’interruzione della gravidanza, dove parlava solo il maschio, dopodiché, il maschio è stato allontanato dalla mediatrice, dalla ginecologa, dal colloquio, perché l’ultima parola spetta alla donna. E per cui anche se c’era un problema di potere di questo uomo su questa donna che traduceva tutto, voleva che la donna, ovviamente, non parlasse, la mediatrice è riuscita a fare esprimere la vera volontà della donna. E cosa voglio dire? Voglio dire che bisogna, come si è detto ieri e si è ribadito anche oggi, potenziare i luoghi delle donne, potenziare la parte decisionale di queste donne, ma di un’assunzione reale di responsabilità, e di assunzione che i diritti di cittadinanza vanno agiti, non vanno solo compresi. Per cui queste donne riescono ad averle solo se vivono in luoghi anche misti, dove acquisiscono più forza, più comprensione non solo della realtà, ma anche per modificare la propria vita. Un'altra cosa che volevo dire brevemente è che per mia idea, io sono convintissima, in questo momento in Italia non esistono le comunità di immigrati. Esistono dei gruppi etnici, dei gruppi di persone, perché vorrei vedere, se adesso, -non esistono neanche in Italia più, esistiamo come comunità, tutti siamo italiani, cioè, io sono veneta, rinnego ormai di essere veneta, sono stata in Sardegna, vivo in Emilia-

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Romagna, sto con un romano ecc., quindi basta cambiare paese. Vorrei proprio vedere che uno si prende la briga di dire che è il capo di quella comunità in qualsiasi paese che viviamo solo in Emilia-Romagna, per dire, cosa accade per gli altri? Lucio Boattini Su questo volevo dire solo una cosa che il fatto che in molte amministrazioni locali sia stata eletta una Consulta per immigrati, e il fatto che, però, le liste, almeno per la mia esperienza personale, sono sempre in base alle comunità, ci sono degli esperimenti intercomunitari, se così possiamo chiamarli, però sono minoritari, questo forse vuole far capire che il quadro, forse, non è così roseo e poi mi chiedo se, purtroppo, la situazione internazionale e il fattore religioso, parlo soprattutto delle comunità musulmane, possa in futuro invece portare ad un maggiore radicamento di queste comunità nel nostro territorio. Claudia Castellucci E quindi hai aggiunto un’altra questione per cui chi aveva alzato la mano Djamila e poi Syrpa. Djamila Benrekia. Djamila Benrekia Mediatrice culturale Niente, io volevo intervenire appunto, sul discorso della mediazione culturale qui in Italia. Mi presento. Sono Djamila Benrekia, sono mediatrice culturale e provengo dall’Algeria. Sono tanti anni che sono qui in Italia e faccio anch’io la mediatrice culturale. Ecco, volevo solo aprire una parentesi. Il ruolo del mediatore culturale qui in Italia o almeno qui in zona è principalmente quello di un facilitatore linguistico. Io per fortuna… generalmente è così, è un facilitatore linguistico, o almeno quello che ci chiedono gli enti è soprattutto facilitare e tradurre. Io, per fortuna, ho avuto l’occasione di fare dei progetti di vera mediazione culturale, cioè di far entrare la mia cultura araba nelle scuole. E questo in che cosa consiste? Consiste in, - faccio degli esempi-, raccontare una favola in lingua araba ai bambini, cantare una canzone araba e farla imparare ai bambini, ecco. Il mediatore culturale, bisogna distinguere, penso io, tra quello che ci chiedono le istituzioni in generale, perché poi se andiamo in fondo, poi le istituzioni vogliono anche loro capire le veri culture, però, quello che ci chiedono principalmente è di fungere da facilitatore linguistico. Però, forse, sta a noi impegnarci a far capire le varie culture. Io non credo che con il fatto delle elezioni delle Consulte degli Immigrati. Per esempio, qui da noi ci sono tanti immigrati che si incontrano ed eleggono un presidente. E il presidente non è mica detto che sia il rappresentante della comunità. Può essere una persona che localmente è ben visto o da una etnia. Per cui, per esempio, quello di Forlì adesso è un senegalese. Non mi rappresenta a me come se io dovessi essere araba, musulmana, cioè, è un rappresentante degli immigrati, di tanti immigrati. Per cui, non credo che qui ci possa essere quello che succede, per esempio, in Inghilterra o penso anche molto probabilmente in Francia o in Germania, che c’è l’imam che è proprio il portavoce di tutta la comunità musulmana.

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Io ho avuto anche esperienze, di quello che diceva per esempio, la Tiziana del Prà, in un consultorio femminile e mi è capitato di chiedere, per favore, al marito di non accompagnare più la donna al consultorio visto che c’era una mediatrice culturale. Ma c’è anche questo problema, che le donne hanno anche il problema dei mezzi di comunicazione, cioè non riescono arrivare fino al consultorio senza essere accompagnate dal marito, visto che è l’unico che ha la macchina, tra parentesi, ecco, bisogna vedere. È capitato anche che ho dovuto andarci alla casa della donna per parlare nel suo ambiente tranquillo, con le sue problematiche di tutti in giorni. Ecco, forse è anche il caso di darci da fare anche noi, oltre che continuare a chiedere a queste donne di avvicinarci alle istituzioni. Grazie. Syrpa Rydh I’m interested in how do you become a cultural mediator. Is it an education or is it because you have some ethnic background? We have a European cooperation with the school Linkworking. In Madrid University you can study to be "mediatores culturales", you can study in Stockholm and it’s not based on one's ethnic background, it’s based on your experiences of work with these issues, then you study. So I just want to know it. Could you be an interpreter for me? And we need female mediators. In Sweden, for instance, when they research female diseases they use men because it’s more convenient. Lucio Boattini Per continuare il dibattito in fila dovremmo far parlare di nuovo una mediatrice culturale. Claudia Castellucci E infatti la mediatrice culturale greca aveva già chiesto prima di parlare. Giulia Diadafilou I would like to say that in Greece things are quite different. We have 3 or 4 mediators all over Greece, 2 of them belong to DOKPY, our organisation. And one is for the Rom people, the other one is for immigrants. These people in the organisation do everything. I mean, they are women. Both of them are women. They accompany people to the services because they don’t know, they don’t speak the language or they don’t to read or to write. They do truly everything. What we always discuss about that is that when people will be ready enough to go on their own to services and to demand things on their own. I mean, when the mediator will stop helping people. I thing this is a truly crucial meter. Spyros Iatropoulos Just to add something to the same concept. Many times, especially the Rom’s cultural mediator is always a model, a professional model for the rest of the people in the community, the Rom’s community. For the first years 1990 the role of the cultural mediator was almost treated with scepticism from the rest people of the population, but now they respect the woman, they want to be like her. It’s quite different.

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And I want to add something to the training of this mediators. They have been trained three years ago by an official state training course but through a European project, nor through a university or a state course. It’s was something informal. Claudia Castellucci Si, alla domanda precisa di Syrpa potrà rispondere, tra l’altro toccava a lei, Fulvia. Poi abbiamo Marisa, Anna, insomma. Si, poi abbiamo anche, lei voleva fare una piccola precisazione. Meena ha chiesto di ritornare a parlare. Quindi, incominciamo. Fulvia Fabbri Cooperativa Sesamo Si, mi presento. Quindi, io mi chiamo Fulvia Fabbri e faccio parte della Cooperativa Sesamo di cui si è parlato fino adesso, cioè si è accennato. Innanzitutto dico che sono molto contenta di avere partecipato stamattina ai lavori, perché abbiamo avuto la fortuna di incontrare delle donne che vengono, appunto, da Londra, da Berlino, dalla Grecia e che, lo dico subito, ci hanno descritto una realtà in cui noi come cooperativa e tutte le mediatrici che fanno parte di questa cooperativa, una realtà che toccano con mano anche loro, giorno per giorno, quotidianamente. La nostra cooperativa è una cooperativa giovane, con due-tre anni di attività. Lavoriamo in convenzione con il Comune di Forlì in un progetto per i servizi sociali, sanitari ed educativi. Le mediatrici sono tutte donne, abbiamo qualche uomo, perché, appunto, è necessario, in alcuni casi parlare con i leader delle comunità, parlare con persone delle comunità che sono uomini, però, per il resto sono tutte donne, donne immigrate e questo non è una cosa casuale. E in più sono donne, in questo senso forse do qualche elemento, non per rispondere io, è una responsabilità troppo grossa, però sono tutte donne immigrate, hanno fatto un percorso loro di coscientizzazione rispetto a quello che era la loro storia di donne immigrate ed hanno fatto anche una formazione specifica sulla mediazione culturale. E in quanto donne non sono leader delle comunità. Dico in quanto donne, perché il problema del ”potere” che noi donne italiane, immigrate abbiamo sempre avuto, e queste donne anche appartengono, conoscono le loro comunità, hanno relazioni molto importanti all’interno della comunità, ma sono donne. Tutti i problemi che sono stati descritti da chi è intervenuto, dalle amiche straniere che sono intervenute oggi, descrivono veramente la realtà delle donne immigrate anche nei nostri territori. E per questo che dico che è importante, anche sottolineo che le mediatrici culturali o i mediatori culturali abbiano una formazione specifica. Può essere importante che non siano necessariamente i rappresentanti della comunità, nel nostro caso non lo sono, e io conosco anche la situazioni di Cesena, di Bologna, non c'è, almeno da quello che so in Italia, questa coincidenza leader di comunità-mediatore o mediatrice culturale, ma i mediatori e le mediatrici culturali si formano attraverso corsi regionali ecc., però è importante, almeno nella nostra esperienza, che queste due figure non coincidano sempre, perché chi è, chi si dice leader di comunità, insomma, poi lo deve anche dimostrare, poi le comunità dove sono, come si sono formate, chi sono queste persone. Qualcuno rappresenteranno, non vogliamo dire che sono dei “dittatori”, però, chiaramente c’è una dinamica interna ai gruppi etnici, alle comunità che loro non rappresentano completamente. Non

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rappresentano completamente le comunità. Invece è importante che l’azione della mediazione dia l’opportunità e lo spazio di parola a tutti, a tutti quelli che sono immigrati.