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Citando Enzo Spaltro, ritengo che ciò che permette l’apprendimento siano essenzialmente la partecipazione e la condivisione tra un gruppo di allievi ed una presenza di esperti che determina input e proposte ma che lascia al gruppi di allievi stessi la leadership del progetto di apprendimento. È giunto il momento di superare la tradizionale conduzione di corsi e lezioni di derivazione accademica con presenze di solo docenti, ma è necessario che essi siano anche e soprattutto esperti ed animatori. La condizione di apprendimento è costituita dal gruppo degli allievi, per tale ragione, verranno proposte ed utilizzate metodologie classiche ma al contempo innovative ed alternative, teoriche e pratiche, tutte comunque centrate più sull’apprendimento che sull’insegnamento (secondo il tipo LCT Learning Centered Training = Formazione centrata sull’Apprendimento). La formazione non è un addestramento per cui è rivolta a favorire l’apprendere più che esaltare l’insegnare, una formazione rivolta allo sviluppo personale ed al benessere soggettivo sia dell’allievo che dell’organizzazione che lo utilizza, presupponendo una coincidenza tra lo sviluppo del singolo ed il risultato dell’impresa, nonché, di riflesso, la crescita della realtà sociale di appartenenza.

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Citando Enzo Spaltro, ritengo che ciò che permette l’apprendimento siano essenzialmente

la partecipazione e la condivisione tra un gruppo di allievi ed una presenza di esperti che

determina input e proposte ma che lascia al gruppi di allievi stessi la leadership del

progetto di apprendimento. È giunto il momento di superare la tradizionale conduzione di

corsi e lezioni di derivazione accademica con presenze di solo docenti, ma è necessario

che essi siano anche e soprattutto esperti ed animatori. La condizione di apprendimento

è costituita dal gruppo degli allievi, per tale ragione, verranno proposte ed utilizzate

metodologie classiche ma al contempo innovative ed alternative, teoriche e pratiche,

tutte comunque centrate più sull’apprendimento che sull’insegnamento (secondo il tipo

LCT Learning Centered Training = Formazione centrata sull’Apprendimento). La

formazione non è un addestramento per cui è rivolta a favorire l’apprendere più che

esaltare l’insegnare, una formazione rivolta allo sviluppo personale ed al benessere

soggettivo sia dell’allievo che dell’organizzazione che lo utilizza, presupponendo una

coincidenza tra lo sviluppo del singolo ed il risultato dell’impresa, nonché, di riflesso, la

crescita della realtà sociale di appartenenza.

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Creatività, Autostima, Motivazione

CREATIVITA’: Il discorso sulla creatività è strettamente connesso con quello della qualità e della bellezza, e quindi del benessere. Sembra metaforico ma la società che ha preceduto la nostra è stata quella della scarsità, dell’obiettività e del malessere. Siamo talmente abituati al malessere che, senza stare male, ci sembra non si possa godere di nulla. Il costo del piacere è parte integrante dell’idea stessa del piacere. La creatività ne è un esempio: essere creativi vuol dire essere originali, ma anche un po’ strani, per cui tale idea è in parte anche associata al discorso di anticonformismo e di devianza. Ma essere creativi è anche opportunità, ossia un nuovo modo di vedere e agire le cose: oggi ci affacciamo timidamente allo spazio del benessere, della soggettività, della qualità, tremando per la paura di fare qualcosa che non ci spetta e per cui potremmo essere puniti. Viviamo al di sopra delle nostre possibilità e questo ci viene spesso ricordato come rimprovero. Benestanti si diventa, non si nasce. Nessuno nasce benestante. Ciò significa che è evidente che si può imparare a stare bene e che di conseguenza lo si può insegnare. Prima però il c’è da riflettere sul discorso del benessere: il benessere in natura non esiste e quindi bisogna inventarlo, ed è anche evidente che lo star bene è essenzialmente un sentirsi bene, un vivere di più la dimensione soggettiva della nostra vita. Il benessere obiettivo è sempre più la conseguenza del benessere soggettivo. La soggettività è il vedere ognuno a modo suo, la capacità di attribuire un senso al proprio mondo, di costruirlo e non di subirlo. Tutti i discorsi che si fanno oggi sulla creatività hanno in comune un punto: che ogni produzione creativa deriva da un investimento energetico, da un interesse, da un muoversi, da un cambiare un oggetto d’amore. La creatività è basata sulla costruzione di un circolo virtuoso, fatto cioè di sfumature successive, che aumentino il benessere di chi investe su un oggetto d’amore, un puntare quindi sulla qualità e non sulla quantità dell’investimento. Creatività letteralmente è la creazione di realtà inesistenti e accompagnata perciò da due effetti fondamentali: leggerezza e allegria. La leggerezza è imminenza, ossia sentimento di possibilità, di qualcosa che sta per succedere. L’allegria è investimento, flusso, andamento, passaggio, novità. La creatività è una risorsa psichica � componente delle Risorse Umane. Essa può avere diverse accezioni quali: a) creatività vs EMOTIVITA’ = non logica, non razionale, se troppo pensata viene meno. b) creatività vs ESTETICA = non normativa, senza regole, bella più che buona. c) creatività vs ALLEGRIA = gioia, abbondanza, benessere, euforia. LA CREATIVITA’ VA DIFESA, ESSA SI PROPONE SPONTANEAMENTE COME MODELLO MENTALE ALTERNATIVO. VA OLTRE LA STRUTTURA. Si distingue dagli strumenti mentali classici come le metafore, la logica, la difesa dell’oggettività e si pone tra gli strumenti emotivi. Fondamentale per l’espressione della

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creatività è l’interpretazione. Per la classe dominante la creatività è devianza perché essendo irrazionale ed incontrollabile conduce all’errore, per cui spesso la creatività è nell’immaginario collettivo correlata con il concetto di rischio. Citando Guilford egli ci parla di pensiero divergente � costruire, concretizzare ciò che si produce; e di pensiero convergente � in cui si ha la produzione delle idee e dove la creatività non è legata all’intelligenza. Emisfero destro – sensitivo (mappe mentali) Emisfero sinistro – logico (numeri, dati, parole) La fase di maggior creatività è la fase onirica, quando si sogna, in quanto si abbassano le difese perché ci si distacca dal giudizio. Lo stesso Guilford insieme ad Osborne ha creato un modello che è composto da una serie di fasi che gli autori definiscono “Tappe della Creatività”: • intenzione: ho voglia di sviluppare un’idea • preparazione: raccolgo le informazioni attraverso tutti i sensi e gli stimoli • incubazione: elaborazione delle informazioni a disposizione • illuminazione: si fa la scelta • verifica: composizione ed applicabilità pratica una delle tecniche di creatività più conosciute e più applicata soprattutto dalle aziende di pubblicità e marketing per trovare il nome dei prodotti da lanciare, è quella che viene definita BREINSTORMING (letteralmente tempesta di cervelli): si propone un tema e i partecipanti attraverso associazioni tipo parole, frasi, ecc. assolutamente libere (annotate da un segretario) esternano le idee che poi vengono filtrate. Esistono soltanto quattro regole: 1. c = critica abolita 2. q = quantità 3. e = estrosità 4. m = moltiplicazione sistematica la creatività è bloccata dal giudizio e dai vincoli sociali ed individuali interni come l’influenza dell’autostima e della percezione del sé. In particolare i vincoli sociali (o culturali) inducono ad aver paura nell’esporsi nei confronti di un qualcosa di fittizio, intangibile ed imprevedibile. Una delle maniere migliori per utilizzare la creatività è passare attraverso la consapevolezza, ossia diventare consapevoli di ciò che si è inconsapevoli.

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Un altro autore molto importante a proposito di creatività è certamente De Bono, il quale ci dice che ognuno di noi può essere una persona creativa in quanto possediamo due tipologie di pensiero: - il Pensiero Verticale, quando si pensa ad un problema e si arriva linearmente, per

logica, attraverso degli step alla soluzione, anche per analogia sulla base di esperienze pregresse;

- il Pensiero Laterale, quando si pensa fuori dagli schemi. Si passa da un elemento all’altro senza logica, lasciandosi trasportare.

Per sviluppare il pensiero laterale bisogna identificare le idee dominanti e neutralizzarle, tenere in considerazione gli eventi fortuiti ed il caso, cambiare prospettiva, utilizzare punti di vista differenti trovando nuove chiavi di lettura. Lo stesso autore attraverso una metafora di cappelli e di colori ci dice che ognuno di noi in base al contesto in cui interagisce si veste o meno di un particolare stile di pensiero legati alla passività e/o all’azione. - ROSSO � soggettivo, rifletto gli eventi su di me; - BIANCO � oggettivo; - NERO � critico negativo; - GIALLO � critico positivo; - VERDE � creatività, fertilità; - BLU’ � sintesi, il cielo, tiene tutto e abbraccia tutti i punti di vista; AUTOSTIMA L’identità personale nasce dall’interazione tra: - SE’ REALE, come che siamo - SE’ IDEALE, come vorremmo essere - SE’ NORMATIVO, come dobbiamo essere L’autostima dipende dalla discrepanza tra i vari sé. Se abbiamo un sé normativo fortemente interiorizzato ogni volta che si va contro di esso cala il livello di autostima in quanto sé ideale e sé normativo si scontrano. Inoltre la concordanza tra sé reale e sé normativo provoca lo scontro con il sé ideale. Ogni gap tra i vari sé genera problemi. L’identità nasce dalla reciprocità tra SE’ PRIVATO e SE’ PUBBLICO.

Sistemi di autoalimentazione dell’autostima:

BASSA AUTOSTIMA � aspettative negative � scarso impegno � fallimento � conferma dell’autovalutazione negativa � BASSA AUTOSTIMA

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ALTA AUTOSTIMA � aspettative positive � massimo impegno � successo � conferma dell’autovalutazione positiva � ALTA AUTOSTIMA MOTIVAZIONE La motivazione può essere definita come la spinta a ……… Essa può essere estrinseca (avere), ossia il raggiungimento di un obiettivo fuori dall’individuo, come ad es. un bisogno; o intrinseca (essere) centrata sull’azione. Due delle teorie classiche per la spiegazione delle energie che ci spingono ad agire sono: • la scala dei bisogni di Maslow: egli fa riferimento a specifici bisogni il cui soddisfacimento è fondamentale per il benessere e la sopravvivenza dell’organismo; esse ci spiegano quindi perché una persona deve agire ma non ci dicono che tipo di azione verrà scelta per soddisfare quei bisogni.

bisogni fisiologici bisogni di sicurezza bisogni di affetto bisogni di stima

bisogni di autorealizzazione

• la teoria del valore di Adams e Mc Clelland: prendono in considerazione ciò che l’individuo vuole o desidera, ossia secondo l’idea che le persone agiscono per massimizzare un vantaggio. I valori esprimono una preferenza o avere un carattere morale; essi vengono apprese attraverso l’esperienze e l’interazione con l’ambiente e differiscono da persona a persona. La maggior parte delle teorie sulla motivazione al lavoro sono teorie del valore e si concentrano sull’influenza di uno o più valori sull’azione. Il discorso legato agli aspetti motivazionali in ambito organizzativo è uno dei concetti maggiormente trattati dalla psicologia del lavoro. Una definizione che potrebbe contenerne altre, nello specifico riferito all’ambito lavorativo, potrebbe essere quella coniata da Steers e Porter, i quali parlano di un aspetto dell’individuo che inizia, dirige, sostiene l’azione umana verso una prestazione lavorativa, ciò che induce a mettere in atto un determinato comportamento o prestazione. Oltre al concetto di valore legata al discorso della motivazione in ambito organizzativo c’è quello di obiettivo: per ottenere un certo valore bisogna decidere quali compiti e standard di prestazione scegliere, l’obiettivo è più vicino all’azione dei bisogni o dei valori in quanto consente di predire e spiegare il comportamento anche se l’azione umana è determinata da tutti e tre i costrutti. Ai fini del nostro contributo ci interessa

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evidenziare la causa più prossima del comportamento organizzativo evitando di proporre una teoria onnicomprensiva della motivazione e pertanto ci soffermeremo sulla teoria del goal setting. Un goal = obiettivo è ciò che un individuo sta cercando di raggiungere, è l’oggetto o lo scopo di un’azione. Il goal come altri processi mentali ha due principali attributi: il contenuto e l’intensità. 1. Con contenuto del goal ci si riferisce all’oggetto o risultato che deve essere

raggiunto; in genere si tratta di aspetti del mondo esterno in altri è possibile avere obiettivi di tipo psicologico come la felicità, inoltre il contenuto del goal può differire sia da un punto di vista quantitativo che da un punto di vista qualitativo. È inoltre importante fare una distinzione tra task (compito) e goal (obiettivo) usati spesso ed erroneamente in maniera interscambiabile. Con task si fa riferimento ad una parte del lavoro che deve essere fatta; con goal ci si riferisce all’ottenimento di uno specifico standard di abilità/competenza su un certo compito, normalmente entro un certo limite. Possiamo riassumere che con TASK SI FA RIFERIMENTO AL “FARE” MENTRE CON GOAL SI SOTTINTENDE IL “PENSARE”.

2. La seconda dimensione che definisce l’obiettivo si riferisce all’intensità del goal e attiene al processo di assegnazione del goal o di come si raggiunge. L’intensità viene misurata da fattori quali: a) lo scopo del processo cognitivo, b) il grado di sforzo richiesto, c) l’importanza del goal, d) il contesto nel quale viene assegnato.

Il goal setting si configura come un sistema di gestione che va dall’assegnazione degli obiettivi alla valutazione e piano di sviluppo del collaboratore e poggia su due assunti fondamentali: • Obiettivi difficili: conducono a prestazioni più elevate rispetto a quelli facili. Tali

risultati vengono attribuiti al fatto che le persone normalmente adattano il loro sforzo alle difficoltà del compito intrapreso e perseverano maggiormente nei compiti difficili rispetto a quelli più facili. Crescendo la difficoltà cresce anche il livello di prestazione.

• Obiettivi specifici: conducono a prestazioni più elevate rispetto a obiettivi del tipo “fai del tuo meglio) o alla mancanza di obiettivi. Mentre i goal sono vaghi sono compatibili con parecchi risultati, i goal specifici confrontano la persona con standard di prestazione predefiniti e quindi inequivocabili.

In tale contesto la scelta del goal riflette l’integrazione di due tipi di considerazioni che riguardano da un lato ciò che è possibile e dall’altro ciò che si vuole. Per capire perché il goal setting interessa la prestazione è necessario far riferimento ai mediatori, o meccanismi causali, attraverso i quali i goal regolano l’azione. Tali meccanismi sono: la direzione, lo sforzo, la perseveranza, lo sviluppo di strategie.

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Un goal accettato dirige e canalizza l’attenzione verso quelle attività che sono rilevanti per il goal ed attiva capacità e conoscenze di cui l’individuo dispone e che diversamente non utilizzerebbe. Un goal specifico regola l’investimento di sforzo o di energia; le persone adeguano il loro sforzo in funzione della difficoltà del compito, ed è questo l’effetto cruciale del goal difficile. Un goal interessa la persistenza nelle situazioni dove non vengono imposti limiti di tempo, ovvero la tenacia di fronte ad ostacoli e difficoltà nel mantenersi concentrati nel raggiungimento dell’obiettivo. Di fronte a compiti complessi, dove questi tre meccanismi possono risultare insufficienti il goal stimola a sviluppare strategie e piani d’azione. Anche il tempo che intercorre tra l’assegnazione dell’obiettivo e la sua realizzazione costituisce una variabile rilevante. L’assegnazione di obiettivi ravvicinati (come sotto-obiettivi di quelli distanti) può influenzare positivamente pensieri “autoreferenti”, motivazioni e prestazione. Il goal distante invece da solo può essere tuttavia efficace se le persone hanno un elevato interesse nelle attività e qualora sia richiesta una certa flessibilità e l’uso di strategie che devono essere cambiate nel tempo. Importante moderatore che influenza la prestazione inteso come fattore che può o meno facilitare e/o ostacolare la traduzione del goal in prestazione di successo è l’impegno, ovvero il grado di attaccamento della persona al goal, la convinzione sia circa la possibilità di raggiungere il goal sia circa l’importanza del goal stesso. La maggior parte dei comportamenti è regolata da processi di anticipazione che prendono la forma di obiettivi. L’assegnazione personale di obiettivi è influenzata dalla valutazione delle proprie capacità: più forte è la percezione della propria self-efficacy (percepita e definita come la convinzione delle persone circa le proprie capacità di produrre livelli di prestazione in grado di esercitare influenza sugli eventi che interessano la loro vita), più alto è l’obiettivo che le persone si assegnano e più persistente è l’impegno su di esso. La maggior parte del corso delle azioni è inizialmente organizzato in pensieri. Le credenze delle persone nella loro efficacia prendono la forma di scenari anticipatori che esse costruiscono e ripercorrono mnemonicamente. Quelli che hanno un’elevata self-efficacy visualizzano scenari di successo che forniscono guide e supporto positivi alla prestazione. Le credenze di efficacia personale (legate all’autostima) giocano un ruolo fondamentale nella regolazione della propria motivazione. LE PERSONE MOTIVANO SE STESSE E GUIDANO LE LORO SCELTE ATTRAVERSO UN PROCESSO DI ANTICIPAZIONE. In tale ottica anche il feedback assume un ruolo di primaria importanza: ovvero, il ritorno, la conoscenza dei propri risultante funge da rinforzo e quindi da moderatore.

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IL SUCCESSO TRA OTTIMISMO E PESSIMISMO

La psicologia quasi mai si pone come obiettivo complementare quello di far star meglio le persone che stanno già bene. Forse perché, come afferma Spaltro, le società che hanno preceduto la nostra, ed in parte ancora oggi, siamo talmente abituati all’idea del malessere che senza stare male ci sembra non si possa godere di nulla. Il costo del piacere è parte integrante dell’idea stessa del piacere. Oggi ci affacciamo timidamente all’idea ed allo spazio del benessere, della soggettività, della qualità, tremanti per la paura di fare qualcosa che non ci spetta, per cui potremmo essere puniti. Quando agiamo comportamenti e situazioni al di sopra delle nostre possibilità spesso veniamo rimproverati e tendiamo ad entrare in conflitto col nostro sé normativo. Benestanti si diventa, non si nasce: lo stare bene è essenzialmente un sentirsi bene. È da qui che prende sempre più corpo l’idea che il benessere obiettivo, quello di tutti, è sempre più la risultante di un benessere soggettivo, quello proprio. Spostare l’attenzione dal pessimismo verso l’ottimismo, dal malessere verso il benessere, dal fallimento verso il successo, è in sintesi questo; ossia, vivere a 360° la propria soggettività, riuscire ad andare oltre gli stereotipi e le strutture, essere capaci di attribuire un senso al proprio mondo, di costruirlo e non di subirlo. Passare da un’ottica pessimistica ad una prospettiva ottimistica, e quindi anche da un probabile fallimento (non solo in termini di quantità di obiettivi raggiunti, ma anche e soprattutto in termini di soddisfazione e di qualità) ad un possibile successo è possibile non solo per le persone “psichicamente deboli” ma anche per le persone “psichicamente stabili”. Citando nuovamente Spaltro, il passaggio dalla psicologia (intesa come disciplina normativa e nell’uso comune connotata con il malessere e la cura attraverso la terapia) alla psichica (intesa come interesse rivolto verso il soggetto in condizioni di normalità, di benessere e che tende al miglioramento della propria condizione) potrebbe essere il punto di partenza per una virata in tal senso. Contestualizzando questo discorso in ambito organizzativo, ogni qual volta si vivono sentimenti di disagio, stress, alienazione, insoddisfazione (aspetti sintomatologici legati spesso al burnout) si aggiunge un nuovo tassello al mosaico del malessere che porta gradualmente al distacco e quindi alla perdita o abbandono del lavoro. Ogni qual volta un soggetto non ha successo o perde il lavoro vuol dire che soffre. Per molto tempo una pubblicità, a cavallo con l’ingresso dell’Italia nell’Europa monetaria, per lubrificare e favorire il cambiamento a partire dalla percezione di una realtà differente a prescindere dal confronto con la precedente moneta, ci ha invitati a “pensare in euro”: bene, cambia il contenuto ma il processo resta il medesimo, ossia, pensare al benessere innalza le possibilità di successo e quindi di realizzazione, favorisce la qualità della vita e migliora l’adattamento degli individui all’ambiente.

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Azzardo a questo punto una possibile strada da percorrere: abbandonare il pessimismo distruttivo a favore di un ottimismo costruttivo. Ogni grande cambiamento parte dall’interno di ognuno di noi, solo e soltanto se davvero lo vogliamo: adottare uno stile ottimistico non è tanto quello che riusciamo a dire agli altri ma prevalentemente è ciò che riusciamo a dire a noi stessi al momento di un rifiuto, di un insuccesso, di una delusione. Sono molte le teorie che hanno tentato di sintetizzare le variabili soggettive intervenienti in un processo di elaborazione mentale del genere, ma non è questa la sede opportuna per discorrerne, faccio solo un breve cenno a quella che ritengo sia più vicina alle situazioni che quotidianamente un soggetto, in ambito personale e professionale, pubblico e privato, si ritrova più facilmente a vivere. La teoria dello stile esplicativo, infatti, afferma che ciò che favorisce il successo, soprattutto in prossimità di circostanze che presuppongono una sfida e/o una competizione, è la complicità risultante da tre fattori: attitudine, motivazione, ottimismo. Il successo implica la persistenza, l’abilità e la forza di non arrendersi al fallimento. Un calciatore può avere il talento di Maradona o di Pelè ed uno smisurato desiderio di fama e successo; tuttavia se crede di non riuscire ad esibire prestazioni con uno standard calcistico elevato e consono alle sue ambizioni, non otterrà alcun risultato. L’ottimismo è fondamentale nell’agire soggettivo perché produce persistenza, e la persistenza ( intesa come impegno, caparbietà, tenacia, costanza, professionalità, ecc.) è la via maestra da percorrere per il raggiungimento di qualunque obiettivo desiderato. Il pessimista manca a priori di immaginazione e di iniziativa ma soprattutto manca d’azione; l’ottimista non si preclude alcuna strada, anzi, attraverso la creatività si crea nuove ed apparentemente invisibili opportunità. Un pessimista, critico per definizione, non potrà mai essere creativo in quanto la creatività è bloccata dal giudizio e dai vincoli esterni (sociali e culturali) ed interni (bassa autostima e percezione di sé negativa). La creatività come risorsa del soggetto, come energia psichica che spinge all’agire, va difesa. Essa si propone come un modello mentale alternativo. Ma il pessimismo è in ognidove: alcune persone ne sono perennemente afflitte, ma chi più, chi meno, ne risente. Ma che cos’è il pessimismo? È uno di quei meccanismi in cui ci sono tutti i pezzi ma che evidentemente sono stati montati male e non ce ne accorgiamo oppure non riusciamo a coglierne la valenza ma in realtà anch’esso svolge un ruolo importante nell’omeostasi naturale? Istintivamente verrebbe da dire che un sano pessimismo risulta essere necessario in quanto si pone alla base di un pensare realistico di cui spesso abbiamo bisogno. Per usare un’espressione di gergo comune si potrebbe dire che siamo bravi a sognare e a crearci delle illusioni ma bisogna stare con i piedi per terra perché se si cade volando da troppo in alto si rischia di farsi male e non poco. Ma non mi sembra sufficiente ne convincente, infatti, tra i suoi paradigmi di base il pessimismo ritiene che l’ottimismo sia per natura infondato. È il caso di ripetuti fallimenti per cui pur avendo la forza di continuare a

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vedere le cose in maniera positiva non è di per sé sufficiente a cambiarle. Molte volte è più funzionale (e per i pessimisti incalliti, più intelligente) ridurre le perdite ed investire i propri pensieri, il proprio tempo, le proprie energie in altre direzioni piuttosto che individuare sterili ragioni che inducano alla perseveranza. Anche di questo il pessimismo da le sue ragioni. Mantenere il controllo delle situazioni in cui si agisce è prerogativa dei pessimisti. Calcando la mano in maniera provocatoria ed esasperata, in molti tra i fautori del pessimismo sostengono che le persone depresse, la maggior parte delle quali si rivela pessimista, giudicano in maniera accurata e ponderata il loro livello di controllo degli eventi; viceversa, le persone non depresse, quindi ottimisti (?!?!?) per la maggior parte, credono di avere molto più controllo sugli eventi di quanto ne hanno realmente, soprattutto nelle situazioni in cui, di fatto, sono impotenti. È quantomeno inquietante sapere che le persone depresse vedono la realtà correttamente mentre quelle non depresse la distorcono e la “adattano” in maniera illusoria alle proprie necessità! Sarà forse che felicità e verità, ottimismo e benessere, creatività e realtà, siano rispettivamente l’una l’antitesi dell’altra? Certamente è innegabile che l’ottimismo ha un proprio ruolo nell’evoluzione della specie. In OPTIMISM: THE BIOLOGY OF HOPE, Lionel Tiger sostiene che la specie umana è stata selezionata dall’evoluzione in virtù delle sue illusioni ottimistiche della realtà. In quale altro modo una specie avrebbe potuto altrimenti evolvere al punto di fare una semina in primavera e persistere poi alla siccità ed alla carestia sino all’autunno oppure avere la forza di lavorare le materie prime e di costruire imponenti monumenti e cattedrali il cui tempo di realizzazione superava quello di molte vite umane? È la capacità di agire sperando in un futuro migliore che generalmente attiva questo coraggioso e stravagante comportamento. Ma se il pessimismo è il fondamento della depressione e del suicidio, se fa calare il rendimento, se altera sino a distruggere le relazioni, se ha effetti negativi sul sistema immunitario e quindi sullo stato di salute, se elimina il sorriso, perché non è scomparso nel corso del tempo? Per quale buon motivo è necessario alla specie umana da non poterlo eliminare? Esisterà forse nei meandri dei nostri emisferi uno spazio che diventa recettivo esclusivamente se stimolato da input di pensieri negativi? Ma com’è possibile migliorare, crescere, evolvere, svilupparsi, tendere al ad un sempre maggiore benessere se non si pensa e non si sogna qualcosa che non esiste ancora? Incitare alla cautela è opportuno in ogni circostanza in cui per eccessiva euforia si rischierebbe altrimenti di non fare delle scelte del tutto azzeccate, ma dall’essere prudenti e non sventurati, al mettere il carro davanti ai buoi, ne passa! Forse una possibile alternativa sarebbe quella di adottare un pensiero sì ottimistico, ma altrettanto flessibile. È solo una questione di misura, ma ritengo altresì che crearsi delle illusioni e agire dei comportamenti sulla base del nulla siano degli aspetti che non appartengono

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all’ottimismo, mentre il pessimismo prende la forma di una vera e propria profezia che si autodetermina. Anche i più ottimisti fanno esperienze di stati mentali di pessimismo: secondo alcuni studiosi, pare che (ma è ancora tutto da dimostrare) lo stile esplicativo precedentemente citato segna un ritmo biologicamente determinato. I ritmi circadiani in certi momenti fanno emergere una lieve depressione: tipicamente si è più depressi al risveglio mentre col procedere del giorno si è più ottimisti. Questi ritmi sono compresi in un ciclo biologico più generale: il ciclo di attività-riposo (Basic Rest and Activity Cycle o BRAC). Come si è visto, esso declina intorno alle quattro del pomeriggio ed alle quattro di mattina, mentre raggiunge il picco nella tarda mattinata e all’inizio della sera, anche se tale ciclo varia con un margine di oscillazione da individuo a individuo. Quando il BRAC raggiunge i punti più alti si è più ottimisti. Senza tali momenti non si realizzerebbe niente di apparentemente difficile ne tenteremmo mai nulla di rischioso: l’Everest non sarebbe stato scalato, i computer non sarebbero stati inventati, nessuno avrebbe mai volato, nessuno avrebbe mai calcato il suolo di latri pianeti attraversando lo spazio e le galassie. Il genio dell’evoluzione sta dunque tra una tensione dinamica fatta di ottimismo flessibile e sano pessimismo dato dalla reciprocità della loro interazione e dai continui aggiustamenti. Tale fluttuazione che porta talvolta a rischiare talvolta a trincerarsi, genera quella tensione che permette agli esseri umani di realizzare così tante cose. Ma l’ottimismo, in special modo in principio, è soprattutto emozione, è sentire le cose, per cui ognuno di noi vive e sopravvive anche attraverso di esso e attraverso gli stati mentali, le percezioni e le sensazioni che l’ottimismo ci regala. E poi, come poter pensare ad un sano pessimismo (la cui pronuncia rimanda immediatamente a delle accezioni dai connotati poco confortanti e positivi!) senza essere ottimisti?

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I GRUPPI:

Essere membri di un gruppo è qualcosa di più che far parte di un insieme di persone. Kurt Lewin per spiegarci tale fenomeno conia la teoria del campo attraverso cui ci spiega che esiste una caratteristica fondamentale quale l’interdipendenza per cui ogni membro è in una condizione di reciproca relazione, di interazione e di scambio, con gli altri membri, all’interno di uno spazio definito e condiviso, e si adopera per il raggiungimento degli obiettivi comuni. La mancanza eventuale di uno dei membri del gruppo tenderà a creare una sorta di meccanismo compensatorio dovuto al maggiore impegno dei restanti membri. Da ciò si evince che un gruppo è di più della somma delle singole parti che lo compongono, semmai, dovendolo descrivere attraverso una metafora matematica quantitativa, ne è il suo prodotto. Per definire un gruppo è necessario che siano presenti una serie di elementi che lo caratterizzano: 1) appartenenza, come consapevolezza dell’essere insieme. “noi” rispetto a “loro” 2) fini comuni 3) interdipendenza 4) relazione/comunicazione. Strutturazione attraverso i ruoli 5) riconoscimento. Dall’esterno 6) identità. Percezione da parte dei membri legata al riconoscimento distinguiamo inoltre due grandi tipologie di gruppi: - GRUPPI PRIMARI: (informali). piccolo numero di persone che interagiscono in maniera

diretta e immediata con coinvolgimento di personalità; - GRUPPI SECONDARI: (formali). scarsi legami emotivi, minore coinvolgimento e

maggiore importanza a ruoli e funzioni; le persone tendono a costituirsi in piccoli gruppi per poter soddisfare quelle esigenze emotive che i gruppi di grandi dimensioni non permetterebbero di fare. Perché si formano i gruppi? Bisognerebbe fare una premessa sulle basi biologiche e psicologiche dello sviluppo delle relazioni tra individui. Max Weber tra i suoi tanti scritti definì l’uomo come animale sociale. In gruppo gli individui si adattano e sfruttano l’ambiente in modo più efficace di quanto non si possa fare singolarmente. La socializzazione ci rende adatti alla vita sociale e aiuta a conservare il gruppo oltre la vita dei singoli individui stessi. - TEAM/EQIPE’ � si forma per eseguire uno specifico lavoro (gruppi strumentali) non

eseguibile dai singoli (es. gruppi di lavoro, task force, ecc.)

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- GRUPPI ESPRESSIVI � si formano per soddisfare bisogni di accettazione, stima e dipendenza. Formazione spontanea (es. amici)

- GRUPPI DI SUPPORTO � hanno come obiettivo l’unione al fine di ridurre sensazioni negative, di distrarsi, di divulgare informazioni (es. associazioni di volontariato). La partecipazione è di tipo volontario e non hanno alcun legame con istituzioni governative.

- GRUPPI TERAPEUTICI � tipologia simile alla precedente. Perseguono obiettivi specifici e ben definiti (es. fondazioni in memoria)

- ISTITUZIONI TOTALI � mentre le precedenti tipologia di gruppo avevano come fine il raggiungimento degli obiettivi prefissati x il bene dei membri, questi ultimi hanno come obiettivo il bene comune, della società (es. ospedali, caserme, prigioni, monasteri, ecc.)

Struttura e dimensione dei gruppi: bisogna innanzitutto fare una prima distinzione tra: a) diadi: gruppi di due persone estremamente fragili perché possono essere distrutti

dall’allontanamento di uno dei due membri; b) triadi: a rischio coesione e quindi rottura perché evolverà in maniera del tutto

naturale il fatto che prima o poi due stabiliranno rapporti più stretti tra di loro ed escluderanno l’altro;

c) piccoli gruppi: maggiormente produttivi. Avendo potenzialmente maggiori relazioni e maggiori risorse conseguentemente si avranno maggiori opportunità. Al crescere del numero dei membri in maniera inversamente proporzionale avremo una maggiore necessità di organizzazione, quindi di strutturazione e di formalizzazione, per cui il risultato sarà maggiore dispersione e minore consenso, minore soddisfazione e minore coinvolgimento.

La struttura di un gruppo fa riferimento ai ruoli ed alle funzioni svolte dai singoli membri ed alle forze che ne mantengono l’organizzazione. Essa consiste degli elementi che danno forma al gruppo e che ne alimentano il suo funzionamento. • RUOLI: reciproche aspettative di comportamento che i membri sviluppano e si

comunicano in base alla posizione occupata ed alle norme; • FUNZIONI: attività che vengono svolte in funzione degli obiettivi; L’EFFICACIA DI UN GRUPPO DIPENDE DA UNA CORRETTA PROGETTAZIONE ORGANIZZATIVA OSSIA DA UNA CORRETTA INTEGRAZIONE TRA FUNZIONI E RUOLI.

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Il gruppo può costituire per l’individuo l’occasione sia di un’esperienza positiva che di un’esperienza negativa: il problema fondamentale è sapere quali fattori sono in grado di favorire una buona disposizione tra i suoi componenti e quali fattori determinano invece il prevalere dell’antagonismo. Un ruolo importante in tale senso viene esercitato dalla coesione, termine con cui indichiamo il grado di attrazione reciproca dei membri, presi come singoli, del gruppo nel suo complesso e dal valore attribuito ad essa. Festinger sosteneva che la coesione interna può essere favorita da qualsiasi fattore in grado di innalzare il valore del gruppo agli occhi del singolo componente (es. il raggiungimento degli obiettivi prefissati). Inoltre la coesione aumenta in valore e l’autostima cresce quando si ha la percezione che i guadagni del singolo dipendono dal contributo di tutti. In questo contesto la competizione fa da modulatore: quella esterna favorisce la coesione del gruppo, quella interna sortisce l’effetto contrario. Importante per la vita del gruppo e dei propri membri è la valorizzazione del proprio contributo in termini di riconoscimento: ciò favorisce la soddisfazione, innalza l’autostima ed il senso di appartenenza. Man mano che aumenta il numero di membri di un gruppo diminuisce lo sforzo prestato da ogni singolo individuo: questa reazione viene definita inerzia sociale, per cui l’individuo non mette grande impegno in un dato compito quando il suo contributo resta inglobato nella prestazione complessiva del gruppo. i gruppi di tipo partecipativo sembrano avere maggiore stabilità, durata e coesione, quindi maggior riconoscimento. FASI DI CRESCITA DEI GRUPPI: Ogni gruppo attraversa stadi di sviluppo differenti. Fattori di influenza sono lo spazio ed il tempo in relazione alla percezione degli obiettivi ed alla soggettività dei membri che lo compongono, nonché alle variabili socio-culturali che intervengono; tra tutte: - atteggiamenti: stati mentali organizzati nel corso dell’esperienza che influenzano le

risposte degli individui con oggetti e persone con cui si relazionano; - abitudini: funzioni mentali legate all’esperienza ed in relazione ad obiettivi specifici

ed a situazioni che fungono da rinforzo; - comportamenti: insieme stabile di azioni e reazioni di un organismo a stimoli interni

(motivazione) e/o esterni; in un’organizzazione la pressione temporale genera l’aspettativa che il gruppo funzioni come un meccanismo programmato: ma il gruppo è formato da individui, da soggetti, che vanno al di là delle funzioni cui sono chiamati ad adempiere, per cui si configura più come organismo, del quale è possibile individuare e prevedere alcune grandi tappe di sviluppo senza dare per scontato i modi e i tempi della sua evoluzione:

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1) ORIENTAMENTO (forming - non è ancora un gruppo). si palesano i bisogni di sicurezza e di affiliazione, si definiscono il territorio, gli obiettivi, le attività, le regole, le leadership;

si passa alla fase successiva solo se c’è confronto

2) COFLITTUALITA’ (storming – si tende al pensiero collettivo attraverso la

condivisione delle risorse). Valutazione delle azioni comuni, delle tensioni, delle resistenze e delle ostilità. Creazione di sottogruppi. Sfida alla leadership.

si passa alla fase successiva se si supera il conflitto e vi è stabilità

3) COESIONE (norming – si è formato un gruppo: cominciano le dinamiche ad alto confronto). Consenso sugli obiettivi, fiducia, condivisione delle regole, cooperazione, accettazione reciproca.

si passa alla fase successiva attraverso la percezione della consapevolezza di essere

gruppo

4) STRUTTURAZIONE (performing – si agiscono i comportamenti). Si sviluppa senso di

appartenenza, riconoscimento del gruppo, tolleranza e costruttività, gestione dei conflitti, flessibilità, raggiungimento degli obiettivi.

IL PROCESSO DI FORMAZIONE E DI CRESCITA DAL PRIMO ALL’ULTIMO STADIO PASSA SU UN CONTINUUM CHE PORTA UNO SVILUPPO DA UNA FASE DI IMMATURITA’ AD UNA FASE DI MATURITA’. Secondo Weber la burocrazia nasce dalla necessità di razionalizzare e quindi gestire, controllare e prevedere, i comportamenti e le azioni. Implica il passaggio dal lavoro generico al lavoro specialistico (dal lavoro manuale alla produzione meccanicizzata a partire dalla rivoluzione industriale). La maggiore produttività è una delle ragioni del prevalere della burocrazia. La burocrazia implica delle regole: le regole sono molto simili agli ordini ma meno personali e dirette. Etzoni fa della burocrazia una classificazione che riportiamo di seguito: - COERCITIVA: si esercita il controllo attraverso la forza - NORMATIVA: l’adesione si basa sulla persuasione morale - UTILITARIA: si servono di forme di pagamento (salari, stipendi, condizioni di lavoro,

premi, ecc.) per ottenere l’adesione dei lavoratori � organizzazioni industriali

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Grandoni definisce il gruppo a livello macro-sociale come una modalità di coordinamento dell’azione collettiva. Le organizzazioni come gruppi numerosi tendono ad essere più complesse: la complessità è in funzione del numero di livelli di autorità e del numero di ruoli in cui sono suddivise le attività a ciascun livello. Le regole sono necessarie a soddisfare i “bisogni del sistema”, ossia quei bisogni che mettono il gruppo in condizione di adempiere alle sue funzioni (gruppo = sistema di entità relazionanti). Burocrazia e norme introducono il discorso sul controllo nei gruppi: la maniera più diffusa in ambito organizzativo è il controllo attraverso il consenso sugli obiettivi, attraverso l’accettazione di ruoli e compiti assegnati. Ciò rende i comportamenti strutturati e più o meno prevedibili, si abbassano le possibilità di conflitto e si favoriscono i comportamenti desiderati attraverso le norme (aspettative di comportamento condivise). Le norme riflettono i valori, gli atteggiamenti e le opinioni in quanto sono espressioni di diritti e doveri condivisi che garantiscono l’equità. Influenzano la libertà dei singoli e favoriscono il controllo: quanto più una norma è restrittiva, tanto più è maggiore il controllo esercitato. Le norme servono a creare comunanza e condivisione, facilitano i rapporti sociali. Le norme più importanti si trasformano spesso in prassi, regole e procedure che i membri sono tenuti a seguire. Affinchè avvenga tale passaggio è necessario che una norma sia investita e rivestita di valore e condivisa. Il potere delle norme sta nel fatto che sono così radicate che spesso vengono tacitamente accettate, inoltre generano in noi aspettative: l’influenza ed il controllo esercitati sono in funzione del grado di valutazione attribuito alla conseguenza della violazione. LA CULTURA ORGANIZZATIVA: Tra gli aspetti organizzativi che influenzano maggiormente l’efficacia di un gruppo vi è sicuramente la cultura organizzativa, intesa come il modo di pensare, sentire e agire che esiste e si specifica all’interno di un dato contesto aziendale. Possiamo intendere la cultura di una organizzazione come l’insieme di significati acquisiti che orientano e regolano i comportamenti delle persone e più in generale, gli eventi, ovvero “l’organizzazione ideologica dell’azienda…costituita da quei sistemi di concetti e convinzioni mediante i quali si esprimono i valori usati dall’organizzazione ed i simboli attorno ai quali i valori stessi sono organizzati”. Cultura è in sostanza l’insieme dei modi di soluzione che vengono adottati prevalentemente nell’affrontare problemi di esistenza della società all’interno della quale si agisce, da cui scaturiscono modelli di comportamento e consequenziali percezioni di modelli potenzialmente adatti o potenzialmente devianti. Mancando la cultura viene a mancare il collante che tiene uniti gli individui e i gruppi che fanno parte dello stesso contesto lavorativo, e quanto più questo contesto è differenziato, reticolare e complesso, tanto più è necessario il riferimento ad un sistema di valori condivisi. La cultura è inoltre espressione e

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rappresentazione delle norme e dei valori del sistema formale e della loro traduzione e ricodificazione nel sistema informale e riflette la storia dell’organizzazione: ad essa si fa riferimento per interpretare e valutare le azioni, i comportamenti, e per identificare un criterio di uniformità. Schein definisce la cultura come un insieme di assunti di base, inventati, scoperti o sviluppati dai membri di una organizzazione per affrontare i problemi di adattamento esterno o di integrazione interna che si è dimostrato così funzionale da essere considerato valido e, conseguentemente, da essere indicato ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, di pensare e di sentire in relazione a quei problemi. Egli sostiene che una cultura organizzativa si esprima a tre livelli: 1) il livello più visibile è costituito dagli artefatti: l’ambiente fisico (architettura,

arredamento, oggetti simbolici e non), la tecnologia in uso, il linguaggio scritto e parlato, le procedure ed i comportamenti manifesti delle persone;

2) ad un livello più latente ci sono i valori condivisi dal gruppo e presidiati dal management. I valori sono preferenze accordate, stime di un ipotetico vantaggio, convincimenti circa il miglior modo di fare la cose, valutazione di desiderabilità. Se il valore, alla verifica oggettiva, si rivela funzionale al risultato desiderato si trasforma in convinzione e col passare del tempo si da per scontato che per quel particolare tipo di problemi c’è un modello di comportamento più adeguato degli altri.

3) Se il valore ha funzionato si trasforma in assunto. Gli assunti di base costituiscono il livello più profondo, latente, inaccessibile di una cultura, rappresentano le concezioni fondamentali sulla natura delle cose – natura dell’uomo, natura della relazioni, natura delle attività di lavoro – e tutti insieme costituiscono l’anima di una unità sociale. Sono qualcosa in più dei valori nel senso che quando si consolida un assunto le persone non lo discutono più e scartano automaticamente tutte le alternative di scelta.

LEADERSHIP: influenza: processo attraverso il quale si cerca di ottenere il consenso e/o la modifica di un atteggiamento/comportamento da uno stato iniziale a quello desiderato. All’interno di un gruppo la sola presenza degli altri, anche senza un coinvolgimento attivo, origina un’influenza sui comportamenti. La performance indotta dai comportamenti altrui (facilitazione e inibizione sociale) in caso di compiti facili o conosciuti aumenta, mentre peggiora se i compiti sono difficili e nuovi. Molte persone infatti diventano apprensive quando sono osservate e valutate e vengono distratte dalle opinioni altrui. L’influenza può dar vita a diversi fenomeni tra cui conformismo, inerzia sociale, cittadinanza organizzativa (altruismo e generosità, supporto e aiuto agli altri membri senza secondi fini o ritorni). La ricerca sulla leadership prese avvio negli USA durante l’ascesa del nazismo in Germania.

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La leadership passa attraverso il consenso ed il riconoscimento e costituisce il passo decisivo nella differenziazione dei ruoli: dipende dalle caratteristiche del gruppo e dai suoi obiettivi, nonché dalla tipologia di interazioni presenti al suo interno. Di solito il gruppo riconosce il ruolo del leader o di guida in base a due scale di valori: capacità di coordinamento e capacità di essere ben voluti. Siccome raramente le due capacità sono impersonate da un unico individuo, spesso si verifica un tipo di reggenza a due, uno riscuote benevolezza, l’altro raccoglie in sé efficienza e organizzazione. Lewin fa una distinzione tra varie tipologie di leader: • AUTORITARIO: forte dipendenza dai membri, competizione tra i membri • DEMOCRATICO: scarsa dipendenza dei membri, rendimento quantitativo modesto ma

superiore qualità della vita e soddisfazione • PERMISSIVO: scarsa dipendenza dei membri, rendimento quantitativo modesto,

elevata partecipazione Secondo Freud il leader è colui il quale tutti i membri proiettano il proprio ideale dell’io. INTERAZIONE E COMUNICAZIONE DI GRUPPO: Una rete di comunicazione totale in cui tutti possono comunicare e tutti lo fanno, presuppone un interazione diretta tra i membri, i quali devono possedere parità di condizione, ossia capacità e possibilità di influenza equilibrata e reciproca. Parte di tali interazioni, soprattutto in presenza di conflitti d’interesse, renderebbe necessario il ricorso alla negoziazione. Di fondo resta comunque inamovibile la condivisione degli obiettivi per cui i conflitti possono riguardare i modi migliori per farlo, i giudizi, l’interpretazione delle informazioni, ecc., in sintesi, conflitti di giudizio e d’opinione risolvibili mediante confronto e decisioni di gruppo. c’è da ribadire sempre che, più il gruppo è numeroso, più aumentano i costi e l’impiego di energie, in termini di tempo ed in numero di comunicazioni (connessioni: combinazioni possibili tra le varie parti). La comunicazione come scambio di messaggi significativi e condivisi, costituisce il perno attorno cui ruota e si sviluppa la vita del gruppo: per la sociologia e la psicologia sociale un insieme di individui non è un gruppo se non esiste e si instaura uno scambio di gesti significativi e dotati di un senso, ossia, il gesto dell’uno significa per l’altro ciò che il primo pensa di fare successivamente. Attraverso tali comunicazioni il gruppo si crea una finalità comune, atteggiamenti e comportamenti che, opposti ad altri individui, ne rafforzano la coesione. Le comunicazioni sono causa ed effetto della struttura interna: • Il numero di comunicazioni che un individuo emette e riceve è connesso con lo status

che occupa (strutture); • Gli scambi di comunicazione dipendono dal grado di divergenza tra le opinioni oggetto

di discussione (processi);

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• La comunicazione segue vie formali e vie informali, orizzontali e verticali; Il meccanismo centrale è mettere in comune informazioni e competenze attraverso il confronto. Nel caso di un problema, la possibilità di vedere aspetti prima non considerati e di accedere a nuove informazioni, porta le persone ad accettare di rivedere le proprie percezioni, giudizi e posizioni e a persuadersi a vicenda. Sulla soluzione dei problemi il decidere in gruppo consegue grandi vantaggi a livello cognitivo e quindi decisionale oltre che a livello motivazionale in termini di opportunità di riuscita. COMPORTAMENTI NEI GRUPPI:

Gruppi centrati sul contenuto EFFICACI: iniziare (proporre, suggerire) su obiettivi, compiti, azioni, idee, attività, punti di vista informarsi (chiedere) informazioni, dati, opinioni per comprendere meglio scopi e azioni informare (offrire) informazioni, dati, fatti, opinioni chiarire & elaborare (interpretare e specificare) idee, suggerimenti, termini, piani, ecc. verificare (criticare positivamente) idee, metodi, piani, ecc.

a cui corrispondono rispettivamente

INEFFICACI: dare per scontato (dare per noti, evitare di formulare) su obiettivi, compiti, azioni, idee, attività, punti di vista attendere (attendere passivamente) informazioni, dati, opinioni per comprendere meglio scopi e azioni mantenere (tenere per sé) informazioni, dati, fatti, opinioni dare per compreso (accettare passivamente) idee, suggerimenti, termini, piani, ecc. dare per compreso (evitare qualsiasi critica di) idee, metodi, piani, ecc.

Gruppi centrati sulla relazione EFFICACI: incoraggiare (mostrarsi disponibile verso gli altri) armonizzare (tentare di armonizzare e ridurre diversità, divergenze e tensioni) mantenere aperta la comunicazione (facilitare la partecipazione di tutti) verificare il consenso (chiedere per valutare il grado di condivisione delle decisioni) stimolare (attivarsi per fare riflessioni sul modo di operare del gruppo)

a cui corrispondono rispettivamente

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INEFFICACI: bloccare (mantenere le distanze dagli altri) attaccare (reagire aggressivamente alle diversità, divergenze e tensioni) dominare la comunicazione (impedire la partecipazione di tutti) manipolare (dare per scontato, evitare di far esprimere il grado di condivisione delle decisioni) svalutare (assumere posizioni ciniche verso il modo di operare del gruppo) COPPIE, GRUPPI, ORGANIZZAZIONI: Un tempo si credeva che il comportamento organizzativo fosse essenzialmente una modalità di funzionamento collettivo, oggi si crede che il campo organizzativo comprenda e permetta il massimo dei livelli di funzionamento sociale: il campo sociale è il luogo psicologico dove avvengono relazioni a quattro livelli: coppia, gruppo, collettivo, comunità, che ruotano attorno a tre meccanismi/dinamiche/sentimenti: 1) Sicurezza: quello che io so e quello che gli altri sanno di me è vero? Lo posso

utilizzare? Mi posso e ci possiamo fidare? 2) Colpevolezza: quello che io so e quello che gli altri sanno di me è in accordo o in

contrasto? Chi ha ragione? Che conseguenze può avere la diversità di percezione? 3) Appartenenza: quello che io so e quello che gli altri sanno di me proviene dallo stesso

ambiente e dalle relazioni o è solo similitudine e non c’è relazione, quindi siamo estranei?

La sicurezza influenza il bisogno di obiettività e di autorità e rifiuta il conflitto. Si passa continuamente dalla certezza all’incertezza e si tende a rendere unico il plurale. La colpevolezza pone il problema del passaggio dalla dualità/ambivalenza tipica della colpevolezza stessa, all’unità rassicurante del mito (negazione della realtà). Si oscilla tra realtà – deprimenti e desideri – mitologici. L’appartenenza da origine alle motivazioni, alla conflittualità, ad amicizie ed inimicizie, ed è intesa come produttrice di soggettività. Il gruppo è una presa in considerazione dei comportamenti altrui, è uno stato d’animo, è un linguaggio, è una cultura, è un livello di funzionamento sociale che gestisce l’ansietà in quanto da sicurezza. Mayo lo ha definito teatro del potere, ossia il luogo ed il tempo in cui agire ansie, paure, angosce, colpe, estraneità (potere: capacità di produrre o di impedire un cambiamento). Il gruppo si pone come momento intermedio tra soggetto e organizzazione ed il gruppo stesso attraverso la soggettività crea cultura. In ambito organizzativo oggi si parla di quattro tipologie di cultura come differenti funzionamenti di livello sociale: 1) COPPIA � relazioni interpersonali, livello individuale o di coppia; 2) GRUPPO � relazioni sociali, livello sociale o di gruppo;

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3) COLLETTIVO � relazioni organizzative, livello collettivo, organizzativo o istituzionale;

4) COMUNITA’ � relazioni politiche, livello politico o aperto. Il gruppo svolge la duplice funzione sia adattiva (difese e sicurezza) sia innovativa (cambiamento, crescita, sviluppo). Si pone come interfaccia tra il singolo e l’organizzazione attraverso i processi di socializzazione (interfaccia: processo di passaggio/cambiamento in termini di qualità). Le interfacce svolgono una funzione di collante/lubrificante per cui danno origine a svariati tipi di comportamento: - se il gruppo è dominato dalla paura avremo le difese (sottogruppi, accoppiamenti,

attacchi, fughe, ecc.) - se il gruppo è dominato dalla curiosità avremo i fenomeni (interdipendenza, confronto,

equilibrio, leadership circolare, ecc.) - se il gruppo è dominato dall’indifferenza avremo gli episodi (silenzi, dipendenza,

regressione, leadership fissa, transfert, ecc.) I livelli di funzionamento sociale non sono del tutto abbandonati al casuale sviluppo soggettivo: sono quindi modificabili, apprendibili, progettabili e migliorabili, in base agli obiettivi dell’organizzazione. Alcune tipologie di passaggio “da” - “a” e di funzionamento nei piccoli gruppi: a) comando � innovazione insegnamento � apprendimento aiuto � risposta ai bisogni ascolto � desiderio e motivazione b) discussione � scambio decisione � rischio orientamento � progettazione futura intervento � verso il collettivo c) strutturato � contenuti destrutturato � processi creativo � invenzione climatico � organizzazione

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capire quale tipologia di gruppo sposare e come condurlo dipende da una serie di fattori: - omogeneo o eterogeneo? Dipende dallo scopo - processi o contenuti? Dipende dai comportamenti - fissità o mobilità? Dipende se è possibile ristrutturare gli obiettivi ma quando possiamo dire che un gruppo funziona? Quando è flessibile ed è capace di passare da un livello di funzionamento ad un altro, al fine di, essere efficace nella sua pluralità conservando e valorizzando l’efficienza delle proprie soggettività, e di raggiungere le condizioni di benessere auspicate (qualità).

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LA NEGOZIAZIONE:

La realtà sociale è il frutto dei continui conflitti, accordi e negoziati tra i soggetti. Non è oggettiva ma soggettiva. Il potere vigente non accetta la trattativa e la negoziazione, lo subisce solo se ne è costretto, altrimenti impone la sua soggettività e la proclama come oggettiva. La parola negoziazione deriva dal latino negotium e significa letteralmente negazione dell’ozio, il termine spagnolo negocio significa affare, convenienza, guadagno. La parola ha quindi un significato costruttivo. Negare l’ozio vuol dire uscire dalla passività. Il negoziato è infatti lotta (lotta per e non lotta contro), partecipazione e desiderio di cambiamento, oltre che pretesa di sovranità, cittadinanza e benessere. Però in passato negoziare ha significato doppio gioco e menzogna: servire due padroni per millenni non è stato accettato. Spesso il negoziato veniva scambiato per tradimento e molte persone sono state uccise per aver trattato col nemico. La doppia appartenenza è stata per secoli rifiutata in tutte le parti del mondo in quanto l’idea di trattare era strettamente legata all’idea di tradire. Il pensiero duale e poi l’idea di gruppo hanno, a poco a poco, smussato questa rigidità relazionale e hanno, così, costruito un’immagine positiva prima del negoziato (a due) e poi della mediazione (a tre) e poi ancora della conversazione (a molti). L’idea di gruppo è stata l’idea forza di questo sviluppo e di questa conversione sulla via del benessere. La negoziazione (come relazione industriale) in ambito organizzativo compare in Italia nel 1968 a seguito del movimento studentesco e operaio che caratterizzò quegli anni, ed aveva come obiettivo quello di trasformare il conflitto in risorsa, ossia, da distruttivo/negativo in costruttivo/positivo. Le idee innovative furono: - il conflitto è positivo e non va eliminato - il concetto di gruppo � pensiero plurale � risorsa anche perché dalla metà degli anni ottanta comincia la società del benessere e la gestione non riguarda più soltanto conflitti ideologici di lavoro ed economici di capitale ma intervengono altri fattori, su tutti il potere. • gestire il conflitto attraverso la negoziazione significa gestire gli aspetti inconsci

della relazione, ossia il non-detto; • da un punto di vista più materiale l’altro aspetto della negoziazione fa riferimento al

trattare: trattare significa scendere a patti e talvolta concedere, perché non è possibile trattare senza concedere (mai aver paura di negoziare ma mai negoziare per paura J.F.Kennedy);

i comportamenti organizzativi sono dunque concepibili come relazioni utili ed efficienti: a questo punto bisogna fissare tre concetti su tutti

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a) ogni comportamento organizzativo è finalizzato; b) le relazioni attraverso comportamenti organizzativi di tipo progressivo sono

dinamiche e quindi in continua marcia verso l proprio oggetto d’amore; c) le relazioni che compongono un comportamento organizzativo sono una serie continua

di adattamenti relazionali; ogni comportamento organizzativo ha come momento fondamentale la manipolazione: solo imparando ad agirla o a resisterla si può tentare di superarla. Una manipolazione (sia essa di tipo attiva o vittimizzante, passiva o colpevolizzante, competitiva o guerreggiante, indifferente o apatica) non è solo una patologia relazionale: essa è spesso una condizione relazionale fisiologica e di passaggio, una fase naturale del ciclo relazionale, ossia del modo in cui gli uomini entrano in contatto per produrre effetti, cioè per determinare un loro influenza. Il comportamento relazionale è soggetto a continue oscillazioni di avvicinamento e di allontanamento: ciò porta alle oscillazioni del comportamento organizzativo e alle sue declinazioni in chiave impositiva, manipolatoria, negoziale e cooperativa. IL PROCESSO NEGOZIALE: un tipico processo negoziale potrebbe articolarsi nella fasi che di seguito andiamo a citare: - comunicazione/interazione tra parti con interessi e preferenze differenti; - scambio di risorse materiali o immateriali; - ricerca della modalità più consone a tale relazione; - decisione congiunta e accordo tra le parti; non è un meccanismo unilaterale di decisione come il prezzo o il voto ma i diritti vengono esercitati da entrambe le parti. La negoziazione permette di gestire e colmare i margini di incertezza insiti in problemi non strutturati. Ogni negoziazione ha un costo ed un risultato. Il rapporto tra costo e prodotto rappresenta il problema più importante di ogni negoziato. Per fare questo calcolo occorre tenere presente le risorse negoziali ossia i costi della negoziazione. Questa logica si rifà nettamente alla logica conflittuale e permette di individuare due tipi di risorse negoziali, le risorse esplicite, ovvero, quelle che possono essere utilizzate volontariamente, gli obiettivi, la delega, i mezzi economici, il tempo, il clima, ecc., e le risorse implicite, o mentali, ossia, i valori, le percezioni, le aspettative, le decisioni, il sentimento del potere, ecc. Questo perché ogni negoziazione ha una parte di elementi formalmente chiari � contrattazione, e una parte di elementi prevalentemente flessibili � negoziazione vera e propria. La contrattazione riguarda i contenuti, la negoziazione riguarda i processi. La

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negoziazione tratta la parte nascosta del conflitto, la contrattazione la parte esplicita della relazione negoziale. Introducendo il discorso sul conflitto possiamo dire che occorre tenere presenti due grandi tipologie di conflitti e di relazioni esistenti nello scambio organizzativo che determinano spesso le risorse negoziali: il conflitto di tipo progetto/destino, ovvero la negoziazione come progetto con la presenza necessaria dell’avversario (es. compravendita) e la negoziazione come destino in cui l’avversario viene vissuto come immodificabile, per cui da eliminare (es. lotta tra concorrenti per l’acquisizione di un mercato); il conflitto di tipo ripartitivo/generativo, che deriva dalla concezione del potere. Potere a somma zero, tipo braccio di ferro, prevale la ripartizione, al crescere della conquista dell’uno diminuisce la conquista dell’altro, potere a somma variabile, prevale la costituzione delle risorse da ripartire dopo e non prima dello scambio organizzativo. La negoziazione costruisce ciò che viene ripartito, non lo da per preesistente, per scontato. Negoziare significa massimizzare le risorse e minimizzare i costi, tenendo presente che bisogna: - rappresentare la propria parte - tenere una relazione attiva con la controparte - affrontare concretamente problemi e interessi - attendere vantaggi dalla negoziazione per la propria parte - giungere ad accordi che non costino molto - gestire il possibile conflitto tra interessi di parte e interessi personali - investire in creatività inventando soluzioni impreviste sia dalla propria che dalla

contro parte - avere credibilità ed equidistanza per i delegati e la controparte - ottimizzare il tempo proprio e altrui - considerare il conflitto come risorsa, come forza e non come limite - inventare soluzioni nuove e agevolare quella già esistenti Come abbiamo già detto la risorsa negoziale coincide spesso col costo della negoziazione, non coincide quando non viene impiegata, comunque ogni costo è una risorsa negoziale impiegata per cui definiamo risorsa tutti quei fenomeni che permettono una maggiore efficienza negoziale permettendo di massimizzare il rapporto tra costi/benefici. Ma tutto quanto detto in linea con la soggettività dipende molto (come specificheremo meglio nel discorso sul clima) dalla posizione del negoziatore. Un negoziatore è un soggetto che stabilisce una relazione in presenza di: a) soggetti diversi (parte e controparte) b) livelli diversi (coppie, gruppi, organizzazioni, comunità) c) interessi diversi (danaro, prestigio, immagine, utilità) un negoziatore è un soggetto che tenta di trasformare la diversità in comunità. Egli, attraverso varie tipologie di stile (selvaggio – prende quel che può tutto e subito;

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autoritario – massimo vantaggio senza concedere; diplomatico – nascosto, ambiguo e incomprensibile; materno – affettuoso ed empatico; freddo – sorridente, distaccato, che non litiga mai; manageriale – che va al sodo) tratta e concepisce dissenso, realizza contenuti e interessi diversi, inventa relazioni, rapporti e processi, sperimenta e contratta soluzioni, propone e realizza consenso, produce diversità tendendo a renderla comune (e non uguale). Il negoziatore e lo stile che egli applica si relazionano con un altro negoziatore e con il di lui stile. Queste diverse relazioni negoziali compongono un’infinità di condizioni in cui avvengono le negoziazioni e in cui le risorse negoziali vengono più o meno bene impiegate. Si tratta di progettare e realizzare le relazioni negoziali più adeguate agli obiettivi, tenendo conto che non si negozia da soli, ma per lo meno in due. IL CLIMA NEGOZIALE: Prevedere all’interno di una organizzazione momenti di negoziazione significa possedere una cultura negoziale, ossia gli individui hanno dentro di loro la situazione plurale e provvisoria del negoziato. Parando invece di clima negoziale facciamo invece riferimento una percezione di sintesi delle percezioni dei protagonisti del negoziato. Possiamo dire che la negoziazione si riferisce essenzialmente alla dimensione soggettiva, climatica e affettiva, molto spesso sentiamo parlare di un negoziato che si svolge in un clima buono, cattivo, teso, rilassato, di fiducia, di sospetto, ecc. il clima è uno schema generale di riferimento soggettivo necessario all’individuo per reagire globalmente all’ambiente, per valutare il comportamento altrui, per orientare il proprio e per fare previsioni sul futuro e valutazioni sul passato. Il clima è il codice soggettivo relativo all’ambiente relazionale umano in cui il soggetto opera. Il clima negoziale è dinamico e non statico, si può costruire o distruggere, migliorare o peggiorare, arricchire o impoverire, in base alla sua influenza sulle relazioni negoziali. Le variabili oggettive o soggettive forniscono la base per la storia negoziale, ma l’evoluzione dipende dall’interazione. Lo stile negoziale del singolo negoziatore si incontra con lo stile dell’altro negoziatore e si integra con questo che a sua volta si integra con altri e così via. Bisogna fare una distinzione dunque tra clima oggettivo e clima soggettivo, la risultante della quale interazione sarà il clima negoziale: clima oggettivo:

numero delle parti, numero di controparti, grado di coesione interno di entrambi, vincoli di mandato e di delega, obiettivi, numero dei problemi coinvolti, scadenze temporali, risorse disponibili e costi necessari, storia dei precedenti negoziati, luogo in cui si svolge il negoziato, ecc. clima soggettivo:

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percezioni interpersonali, aspettative e previsioni, sentimento del potere di tutti i soggetti coinvolti, credibilità dei protagonisti, modalità comunicative, ecc. LA MEDIAZIONE: Capitolo a parte merita la mediazione nell’ambito della modalità della gestione dei conflitti. Mentre infatti la negoziazione gestisce un numero pari (due, quattro, ecc.) di soggetti, la mediazione gestisce un numero dispari di elementi (tre, cinque, ecc.) perché il dispari è il mediatore, l’arbitro, il terzo. Per poter mediare bisogna sapere cogliere la percezioni altrui, avere capacità di giudizio e avere una sensibilità a sfumature e dettagli molto sviluppata. Il mediatore dovrebbe: - credere nelle possibilità di una soluzione win/win - evitare gli estremi - controllare e mediare i conflitti - considerare le persone che ha intorno - considerare le situazione che si stanno agendo - considerare ciò che sta dietro ai conflitti a differenza del negoziatore egli ha a che fare con due parti di cui nessuna è la sua e tutte e due lo sono. Un mediatore diventa utile se le parti hanno smesso di comunicare tra di loro, se non hanno ne capacità ne desiderio di comunicare, se temono il cambiamento, se credono nella mediazione di un terzo. Non bisogna poi dimenticare, come per la negoziazione, lo scopo del trattamento e della gestione del conflitto è il raggiungimento del benessere collettivo.

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La Risorsa Umana: valorizzazione del competenze soggettive

Il discorso sulle Risorse Umane trova la sua legittimazione nel momento in cui l’organizzazione viene intesa come organismo vivente, fatto di emozioni, relazioni, scambi e interazioni, ma soprattutto fatta di uomini. È da qui che nasce il concetto di uomo/lavoratore come risorsa, intesa come capacità, potenzialità, e da qui, al contempo, nasce da un lato l’esigenza, dall’altro la volontà di valorizzare tale risorsa per raggiungere quegli obiettivi di efficienza e di efficacia che passano attraverso la soddisfazione della soggettività. È in questo momento che trova spazio d’intervento la psicologia: le risorse che ognuno di noi ha ce le portiamo dentro, quindi sono intangibili, ma non per questo meno importanti o influenti. Gestire una risorsa significa cambiare il punto di vista, cambiare prospettiva, per cui allargare il concetto di risorsa stessa: gestire il singolo collettivo fatto di entusiasmo, uguaglianze e differenze, conflitti, aggressività, ecc., creando delle situazioni che promuovano il dialogo, portando ad uno stato di consapevolezza ciò che spesso, per innumerevoli motivi, si cela dietro un interfaccia occulta tra il detto e non detto. Ma non sempre le risorse vanno scoperte, infatti l’idea di scoperta postula l’esistenza di qualcosa che già è, ma possono essere anche inventate o create: in questi casi ciò che è presente di base è la predisposizione, l’attitudine. Questo è il nucleo delle risorse umane. Esso sta nella combinazione relazionale emotiva delle varie persone che insieme inventano un nuovo modo di pensare, di agire, di vivere. Potrebbe sembrare uno dei tanti bei discorsi teorici che non trova poi applicazione nella pratica, quindi anche utopistico. Ma spesso la verità sta nell’errore. L’errore è il rifiuto sociale, la verità è l’accettazione sociale. La società attraverso la conformità delle scelte della maggioranza determina l’errore. Ma è anche vero che maggioranza non equivale a verità, come è vero che esistono molte verità ed altrettante ne cambiano. La cultura della gestione si basa sul concetto di co-responsabilità, ossia di reciproca fiducia tra chi delega e chi opera, attraverso la condivisione di un processo che converge verso il cosa (pratica), il come (qualità vs essere, fare, conoscere), perché (obiettivi). Tanto mutevoli sono le persone quanto mutevole è il mercato del lavoro, inteso come concezione del lavoro e richieste di mercato. Ma soprattutto, l’area critica delle Risorse Umane è dovuta al fatto che si gestiscono persone che non si sono scelte e che spesso non si conoscono. Più ci si avvicina alla conoscenza del mondo altrui, maggiore sarà la qualità di ogni relazione. Un’organizzazione che funziona è un’organizzazione dove tutti con la loro competenza e partecipazione contribuiscono (e non subiscono) agli obiettivi comuni. Lo sviluppo di un’organizzazione passa attraverso delle strategie d’intervento in cui concorrono valori, mission, vision, processi, dinamiche, ecc., insieme all’apparato “hardware” dell’azienda.

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In conclusione, possiamo affermare che gestire con successo le Risorse Umane equivale a creare armonia, un punto d’incontro tra le aspettative dell’organizzazione e le aspettative dei singoli. INTRODUZIONE AL DISCORSO SULLE COMPETENZE: Nell’ultimo decennio si è sempre più frequentemente parlato di competenze ma non sempre si è riusciti a superare il dominio degli addetti ai lavori. Il confine del lavoro tra domanda e offerta è sempre più sfocato e poco chiaro sia in ottica mega nel mercato del lavoro, sia in ottica macro nelle situazioni organizzative, e sempre meno chiare appaiono le richieste di quali competenze vi sia la necessità, di quali competenze poter mettere in campo, da parte di chi, a fronte di quali e per che tipo di soluzioni. L’attuale realtà sociale, economica e organizzativa ed il repentino modificarsi delle prospettive e dei significati attribuiti alle attività, alle azioni, alle interazioni richiede un diverso modo di <<essere>> agli individui, il loro saper essere ed il loro poter essere. Le nuove forma di lavoro che si vengono a configurare mettono poi in discussione il tradizionale rapporto tra persone e tempo-attività, imponendo alla prima di conoscere e di far riconoscere determinate competenze, di sviluppare nuove capacità di comunicazione circa le proprie esperienze e le proprie esigenze. I concetti di <<posizione>>, <<prestazione>> e <<potenziale>> pur essendo di riferimento per la tradizionale gestione delle risorse umane nelle organizzazioni di dimensioni medio-grandi hanno stentato ad affermarsi nella cultura organizzativa di molte realtà, e sono poste oggi in forte discussione rispetto al segmentarsi delle attività e delle competenze. Nello stesso tempo si afferma il <<dejobbing>> ovvero la progressiva perdita di significato nelle organizzazioni del job inteso come attività che si “ha”, che si può descrivere attraverso una serie di atti, di informazioni trattate in modo <<oggettivo>>, di classificazioni contrattuali. La logica d’approccio oggi è diversa nell’ambito della gestione r.u. in quanto quest’ultima è condizionata dalla revisione e riorganizzazione per processi prima che per contenuti, e dal più marcato orientamento delle organizzazioni al cliente interno oltre che all’utente finale. Drucker afferma che quando avviene un cambiamento nel modo di sentire, i fatti non cambiano, ma i loro significati si. E non sempre le persone sono capaci di <<dare significato>> o hanno l’opportunità di operare in tal senso, soprattutto quando viene loro richiesto di attivare abilità e competenze di tipo frammentato, il “Discontinuous thinking” di Spencer, e di predisporre forme differenti di organizzazione dei tempi di lavoro e delle attività. Diviene sempre più importante <<cosa>> identificare e <<come>> osservare e descrivere le capacità e le competenze, non per teorie o in astratto, ma contestualizzando, in quella data organizzazione. Si rende sempre più necessario superare la falsa credenza per cui bisogna avere come competenza collettiva un linguaggio condiviso, omogeneo, unico: è a partire dalle differenze che si ha valore

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aggiunto, è a partire dalla gestione del conflitto che si giunge al successo, è a partire dal caos che si crea l’ordine. NON È PIU’ IL PASSATO MA IL FUTURO CHE DIVENTA IMPORTANTE PER COSTRUIRE AZIONI NEL PRESENTE, PER ORIENTARE I COMPORTAMENTI DELLE PERSONE. Per far ciò occorre tenere presente la soggettività abbandonando il sistema per cui si cercano risposte a domande univoche e collettive: solo così si favorisce lo sviluppo di una capacità di acquisire nuove capacità che a loro volta divengono competenze spendibili passando per un processo di metabolizzazione interiore filtrato dall’intelligenza emotiva (soft skill). Le forma di interazione richiedono agli attori coinvolti processi di apprendimento e di adattamento anche molto lunghi, mentre le richieste sono solitamente a breve tempo. Tale sviluppo e tale valorizzazione non può prescindere (ahimè!) dallo scontro con il potere delle organizzazioni spesso dalle sfumature negative piuttosto che positive, potere che eccelle più nell’impedire che nel promuovere; che raramente spinge ad agire ma che spesso si oppone a chi agisce; che non distrugge ma impedisce di nascere. Come logica conseguenza tale agire ha sempre più prodotto danni evidenti in termini di comportamenti ed ha sempre più favorito la produzione di quelle diffuse <<incapacità acquisite>> che fanno da anticamera a professionalità precarie, approssimative, ridotte. LAVORARE CON LE COMPETENZE: Prima di imbatterci nello specifico di tale discorso è necessario fare una premessa: non esiste un unico modo per affrontare il problema delle competenze dentro e fuori dalle organizzazioni. Diviene inevitabile il passaggio da “competenza al lavoro” a “lavorare con le competenze” il che non significa avere le competenze per lavorare bensì saper lavorare con le competenze. Questo è possibile se le persone sono in grado di riconoscere le competenze, capirle, valutarle, sperimentarle, allenarsi ad utilizzarle, imparare a comunicarle, applicarle al lavoro e, più in generale, nella vita di tutti i giorni. Gli approcci e le metodiche legati alle competenze non si collocano, quindi, solo all’interno delle attività delle organizzazioni, ma aprono interessanti prospettive ad ogni persona in vista di diventare <<gestore>> della propria attività o, come enfatizza qualcuno, imprenditori di se stessi nella propria carriera personale e non solo nella carriera lavorativa. Si va al di là del rapporto di riferimento classico tra domanda e offerta di lavoro, ma si è consapevoli che si ha come sfondo un rapporto mercato-società con connotazioni ben più ampie ed articolate. Tutti sappiamo però come in un modo o nell’altro non sia poi così semplice individuare le proprie caratteristiche distintive, apprezzarle e trasmetterle efficacemente agli altri. Occorre non solo la capacità di riconoscersi e di identificarsi, ma anche quella di confrontarsi con <<sfondi>> e con contesti che richiedono a loro volta la capacità di decifrare gli aspetti sociali ed emotivi, in una parola la capacità di esprimere tra le varie forme di intelligenza forse proprio la più ardua: l’intelligenza

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sociale. L’intelligenza sociale è connessa alla capacità di una persona di decodificare il sistema sociale con cui si trova ad interagire, stabilendo e mettendo in atto le strategie comportamentali adeguate. Si pensi come molte volte nelle aziende i neo-inseriti, pur in possesso di ottime credenziali e potenzialità, alla <<prova dei fatti>> non riescano ad entrare in modo accettabile nell’organizzazione, venendo così marginalizzati o in qualche caso espulsi per l’incapacità di afferrare la realtà di riferimento. Per le organizzazioni apprendere le metodiche delle competenze significa imparare a definire modelli da applicare nella gestione e sviluppo delle risorse umane, in rapporto alle strategie e agli scenari in cui esse si muovono, cioè favorire negli attori interessati l’acquisizione di abilità nuove in un terreno di confronto assai arduo, con variabili psicologiche e sociali con cui da sempre, in genere, esse hanno avuto una limitata dimestichezza ed elevata diffidenza. DEFINIZIONI DI COMPETENZA: Appare difficile una definizione univoca di competenza, anche perchè nel linguaggio comune questo termine viene usato frequentemente in modo intercambiabile con capacità manageriale, conoscenza, attitudine, ecc. Tra gli addetti ai lavori, viceversa, le definizioni sono numerose e si prestano a confronti e discussioni infiniti: una osservazione preliminare è comunque certa, ossia che qualunque cosa significhi <<essere competenti>> si può essere sicuri che il significato sarà cambiato già domani. COMPETENZA, CAPACITA’, CAPABILITY, COMPETENCY. In italiano si intende con COMPETENZA la <<piena capacità di orientarsi in determinati campi, legittima autorità di esprimere un mandato>>. Il verbo competere si associa ad aspetti connessi alla sfida, competizione; inoltre, secondo la logica corrente, la mancanza di competenze o la loro assenza si associa ad un concetto che ha per i più una connotazione negativa: l’essere <<incompetente>>. Ciò vale in particolare nell’ambito organizzativo dove una persona è chiamata a dare prova di competenza intesa in genere come saper fare o essere capaci di fare, per cui si instaura una corrispondenza tra compito atteso e capacità della persona di assolverlo. Trattare di competenze significa tener conto della possibilità di riconoscimento, di apprezzamento, di espressione, di autostima, di interazione tra persone, tra situazioni differenti. Riferendoci al linguaggio e citando Chomsky egli afferma che <<la competenza di un parlante consiste nella conoscenza di una grammatica di regole generali per produrre o riconoscere proposizioni ben formate>>, inoltre opera una distinzione importante tra competenza e prestazione, nel senso che <<quest’ultima è l’esecuzione o l’applicazione delle regole della grammatica in un concreto comportamento linguistico>>. Argyris definisce competente <<colui il quale è capace di progettare e realizzare corrispondenze tra intenzioni e risultati dell’azione e di scoprire e correggere gli errori o le eventuali mancate corrispondenze>>. Un famoso studio condotto da Mc

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Clelland (capo-scuola di riferimento per le competenze nel nord America) ha portato alla conclusione che tra le persone che forniscono prestazioni di livello superiore e quelle che danno luogo a prestazioni medie all’interno di una determinata organizzazione esistono differenze significative, non è sufficiente sostenere che coloro che realizzano prestazioni eccellenti siano in possesso di maggiori conoscenze. Essi posseggono caratteristiche quali “persistenza” e “motivazione” che contribuiscono in modo determinante al loro successo. Queste caratteristiche vengono appunto definite competenze. Per competenza si intende perciò, per questi autori, <<una caratteristica intrinseca di una persona casualmente collegata ad una prestazione superiore in un determinato ruolo>>. Essendo caratteristica intrinseca la competenza costituisce parte integrante e duratura del <<corredo>> personale. Il nesso di causa-effetto indicherebbe che la competenza origina e predica comportamenti che vengono posti in essere e risultati di prestazione che vengono realizzati e sono quindi riconoscibili da un osservatore esterno. A definire una competenza contribuiscono in differente misura: • motivazioni • tratti della personalità • atteggiamenti • valori • interessi • abilità • conoscenze A) GLI STUDI PSICOLOGICI DELLA PERSONALITA’ TENTANO DI DEFINIRNE E

MISURARNE IN MODO ATTENDIBILE CERTE CARATTERISTICHE PER VALUTARNE L’EVENTUALE CONTRIBUTO AL SUCCESSO NEI DIVERSI CAMPI DI ATTIVITA’.

B) IL METODO DELLE COMPETENZE, AL CONTRARIO, PRENDE COME CRITERIO INIZIALE IL SUCCESSO NELLA PRESTAZIONE E RISALE ALLE CARATTERISTICHE CHE LO DETERMINANO: CHI POSSIEDE QUESTE CARATTERISTICHE SVILUPPEREBBE COSI’ UNA PRESTAZIONE DI LIVELLO SUPERIORE AD UNA PRESTAZIONE MEDIA.

Le competenze contengono sempre un’intenzione, la quale è la forza della motivazione o del tratto che da origine ad un’azione finalizzata al conseguimento di un risultato. È comunque necessario che la persona abbia la volontà e l’intenzione di porre in essere l’azione e che la compia effettivamente. Secondo alcuni studi basati sulle verifiche incrociate relative alla correlazione tra motivazione e competenze, si è giunti a

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concludere che se il 30% delle persone di un’organizzazione usasse con motivazione il 75% delle proprie competenze, il successo sarebbe assicurato. Anche per questo le nuove tendenze di intervento si focalizzano più sulla persona che sul job, alle capacità di sviluppo potenziali, senza limitarsi alle sole prestazioni. L’elemento fondamentale per un’azienda è assicurarsi di avere al proprio interno persone che sappiano fare determinate cose, non già di descrivere o prescrivere che cosa le persone debbano fare in una data posizione. LA METAFORA DELLA CIAMBELLA DI HANDY: Charles Handy ricorre ad un’interessante metafora per spiegare l’evoluzione in corso nelle organizzazioni: egli sostiene che la classica descrizione dei compiti sia paragonabile ad una ciambella. Come sappiamo la ciambella ha un buco in mezzo ed un contorno definito. I compiti definiti sono il contorno, la parte indefinita dei compiti è il buco al centro. Questa era la visione tradizionale nell’ambito degli strumenti di gestione del personale; oggi possiamo invece dire che la parte centrale della ciambella è definita mentre l’anello costituisce la parte indefinita. Come possiamo infatti determinare la job-description di un ricercatore in un’azienda farmaceutica o di un designer per l’industria automobilistica? O quali competenze devono essere attivate da un gruppo di professionisti a fronte di un’attività consulenziale <<a progetto>>, determinato nel tempo me indefinibile esattamente a priori? Nelle organizzazioni siamo in presenza di job sempre meno definiti per persone sempre più competenti. Il cambiamento in atto riguarda sempre più da vicino “chi sono” gli attori aziendali piuttosto che “cosa fanno”, non solo il senso della loro mission ma il senso di loro stessi, non solo il modo di vedere il mondo ma il loro modo di vivere nel mondo. Il millennio appena iniziato richiede alle organizzazioni adeguate modalità per confrontarsi con il <<nuovo che avanza>> ossia sempre più importanza alle competenze organizzative oltre che a quelle individuali; inoltre focalizzare o rifocalizzare competenze distintive. L’elevata competizione invita le aziende a conseguire elevati salti nelle prestazioni: il cosiddetto mercato del consumatore è un mercato nel quale questo si mostra sempre più esigente e in grado di scegliere attraverso la propria disponibilità economica. Diventa necessario realizzare prodotti e servizi di elevata qualità, a basso costo, conseguendo simultaneamente obiettivi di: • Qualità: trasferire le esigenze dei clienti all’interno dell’azienda e trasformarli in

prodotti/servizi • Innovatività: favorire la creatività attraverso l’interscambio tra le varie unità e un

rapporto immediato con il mercato al fine di cogliere le opportunità di innovazione • Flessibilità: efficace coordinamento del flusso logistico/produttivo/distributivo per

garantire l’adattamento alle variazioni di mercato

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• Competitività dei costi: eliminare le attività inutili, le ripetizioni e gli errori a monte che si ingigantiscono a valle, garantendo qualità e flessibilità senza investire maggiori risorse

PROCESSO CLASSICO DI APPROCCIO/INTERVENTO BASATO SULLE COMPETENZE: Ribadendo che non esiste un modo unico o giusto per intervenire in un organizzazione con un approccio basato sulle competenze, le domande da cui può partire una tale attivazione possono essere tra loro molto diverse, come ad esempio: a) Non sono chiari i contenuti di un determinato job, che fare? b) Che cosa e chi premiare nella mia organizzazione? Perché non funzionano più i sistemi

utilizzati sino a ieri? c) Quali criteri adottare per scegliere le persone adatte a sostenere con efficacia le

strategie aziendali? d) Quali sono le core competencies della nostra organizzazione e come riconoscerle nelle

persone recentemente assunte? e) Come gestire le motivazioni dei giovani scolarizzati, in una struttura sempre più

<<piatta>>? f) Come rinunciare a risorse che fino a ieri erano <<preziose>> per l’azienda senza

<<sbatterle fuori>>? g) Come assicurare <<sviluppo>> dei dipendenti oltre la formazione in aula? In generale un processo basato sull’approccio per competenze viene avviato se risulta strategico per l’azienda e per la sua mission e non solo per dare risposta ad uno specifico problema. Le domande sono dunque un aspetto indiziario per poter avviare un percorso. Per avere probabilità di successo è determinante la capacità del sistema e delle persone di comunicare e scambiare competenze. La costruzione di collaborazione e fiducia assume un ruolo cruciale nella qualificazione, comunicazione e scambio di competenze. La fiducia infatti è un meccanismo che può facilitare lo scambio di comunicazioni nel processo interattivo al fine di ridurre la complessità interna del sistema di scambio con maggiori possibilità di conferma delle reciproche aspettative. 1. Inizialmente il processo di costruzione di competenze vede tradizionalmente

coinvolto il management aziendale in rapporto alle strategie dell’azienda e alla mission che la caratterizza;

2. si passa attraverso un panel dove si raccolgono le informazioni necessarie per identificare le core competencies, anche se altrettanto spesso le applicazioni più diffuse sono strettamente legate con la valutazione delle prestazioni;

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3. Segue la costruzione di un “dizionario delle competenze” dove si definiscono le competenze che caratterizzano specifiche famiglie professionali e il livello di presenza auspicabile di una determinata competenza;

4. Successivamente si costituiscono comitati di valutazione per ricondurre le competenze a una realtà organizzativa definita e per assicurare il monitoraggio del processo;

5. Si passa alla valutazione dei risultati ed all’analisi dei dati raccolti. COMPETENZE INTERNE ED ESTERNE ALL’ORGANIZZAZIONE: Esistono indubbiamente differenti competenze se riferite a qualcosa di <<generale>>, siano esse collegate a uno specifico compito o a uno specifico set di famiglie professionali di una determinata organizzazione aziendale. Quello che determina il livello ed il tipo di competenze è il focus di osservazione: la presenza e la rilevanza di determinate competenze vanno collocate in relazione alle finalità per le quali si vanno a ricercare e a definire, con quali obiettivi, con quali metodi, con quale rilevanza rispetto alla dimensione interna organizzativa o esterna e alla variabile personale, interpersonale e intrapersonale. Esiste un rapporto stretto tra possibilità effettiva di mobilità, di flessibilità da parte delle risorse umane a fronte di cambiamenti di organizzazione, di tecnologia di poter <<apprendere>> nuove modalità di comportamento, in che tempi, a quale costo. È in qualche misura quello che nel campo delle potenzialità si intende come <<attualizzazione>> ovvero la possibilità di traduzione in comportamenti effettivi, di capacità mai precedentemente espresse o riconosciute. È altresì evidente la necessità di considerare con estrema attenzione le competenze come possibile unità metodologica di lettura <<universale>> delle risorse umane se non dell’organizzazione e delle persone. Ci sono abilità che si possono apprendere facilmente ma ciò può avvenire solo se siamo in presenza di determinate capacità. In altri termini, una cosa è considerare le abilità che possono essere acquisite tramite formazione e addestramento, un’altra è modificare alcuni <<tratti>> della persona, là dove i tempi e le possibilità di successo sarebbero alquanto esigui, un’altra ancora è costruire la <<stima di sé>> che contribuisce al dispiegarsi di alcune competenze. Parlare di competenze significa osservarle, riconoscerle, condividerle, valorizzarle, utilizzarle. Può essere utile prendere in considerazione due differenti livelli di <<tratti di personalità>>: le categorie di comportamento che possiamo vedere e descrivere (label) sono quelle che vengono definite surface traits. Attraverso una rilevazione affidabile gli osservatori possono raggiungere elevati livelli di accordo su quello che determinati tratti sono e sulla misura in cui sono presenti. Quello che vale è la capacità delle persone di una data organizzazione di operare in maniera <<intersoggettiva>>, di riconoscere, possibilmente attraverso un linguaggio condiviso creato e non imposto, un rapporto tra sistema semantico e fatti o atti rilevati. I tratti di superficie descrivono il comportamento. Le

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caratteristiche più profonde, che presumibilmente orientano i comportamenti, sono chiamate source traits; questi ultimi possono essere solo inferiti dal comportamento, osservato o registrato: spiegano il comportamento. In generale si può supporre che mentre i tratti di superficie possono in qualche misura modificarsi al mutare dei ruoli, dei contesti, delle interdipendenze con altri o con nuove situazioni, i source traits tendano a modificarsi più lentamente.

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LA SELEZIONE DEL PERSONALE COME MOMENTO ALL’INTERNO DEL PROCESSO

DI GESTIONE DELLE RISORSE UMANE

La selezione del personale è un momento all’interno di un processo ben più ampio. Per comprenderne meglio il funzionamento, le dinamiche e le finalità, è conveniente “esplodere” le varie fasi di cui si compone al fine di riuscirla ad agire nella maniera più idonea. 1. ANALISI DEL BISOGNO AZIENDALE:

L’elemento che sta alla base di ogni selezione è comunque un’esigenza, un bisogno aziendale dovuto alla mancanza di personale, in uno o più ruoli, generalmente per due motivi: o per necessità causate dall’abbandono di una persona che precedentemente ha ricoperto quel determinato ruolo o per motivi di ampliamento di organico. In qualunque caso è necessario avere quante più informazioni possibili sull’azienda che sul ruolo al fine di contestualizzare sempre ogni tipo di azione (goal setting action�azione mirata ad uno specifico scopo).

2. SELEZIONE/SCELTA DEL CANDIDATO: In questo momento l’azienda si relaziona col mondo esterno, quindi a lei sconosciuto, cosi facendo si apre a molteplici potenziali opportunità che potrebbero andare a soddisfare quel suo bisogno: affinché ciò accada è necessario fare un’attenta analisi (che vedremo in dettaglio successivamente) con l’obiettivo di introdurre al proprio interno, non la persona in assoluto migliore a priori o in maniera generica migliore per caratteristiche su scala universale, ma la persona maggiormente idonea per caratteristiche di capacità (saper fare), conoscenze (sapere) e attitudini (saper essere) in riferimento al ruolo che si intende colmare.

3. CONTROLLO QUALITA’: La prima esigenza di una selezione è la garanzia del controllo della in ingresso attraverso la tendenza all’integrazione. Selezionare, valorizzare, formare, motivare, creare cultura, gestire processi e cambiamenti, pianificare, ottimizzare ruoli e organizzazione, progettare, non devono essere intesi come dei fini, ma come dei mezzi per equilibrare caratteristiche ed esigenze dei singoli in relazione all’organizzazione e viceversa, in termini di integrazione di processi. La gestione dell’individuo è una gestione circolare per cui non c’è una maniera migliore di un'altra, ma necessita di un osservatorio a 360°.

4. PIANO DI INSERIMENTO: una volta effettuata in maniera ponderata una scelta si passa al piano di inserimento. Questa è una fase altrettanto difficile e delicata: dalla prospettiva

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aziendale, in quanto si corre sempre il rischio di alterare un equilibrio interno costruito nel tempo con conseguenze imprevedibili a priori; dalla prospettiva del nuovo assunto, in quanto bisogna evitare il più possibile di sentirsi estraneo ad una realtà consolidata anche se c’è la necessità di farlo integrare al più presto e nel modo più adatto alle caratteristiche di entrambi.

GLI OBIETTIVI DELLA SELEZIONE DEL PERSONALE:IL RUOLO: Alla selezione come agli altri processi organizzativi viene in sostanza chiesto di operare con efficienza ed efficacia. È necessario integrare al meglio le persone ed i processi: la finalità è quella di raggiungere la massima corrispondenza tra il sistema degli obiettivi da raggiungere, da una parte, ed il sistema dei comportamenti dall’altra. Ma affinché quanto sopra detto venga tramutato in pratica non si può prescindere dall’individuare del personale di qualità rispetto agli obiettivi aziendali. Come, dunque, attirare personale qualitativamente idoneo? Il primo passo da fare (centrato sulla persona) è l’individuazione di un campione di popolazione che comprenda degli individui con le caratteristiche per l’azienda necessarie a ricoprire un determinato ruolo. Ciò avviene attraverso un’analisi di più fattori, quali: a) tendenze demografiche dell’offerta di forza lavoro; b) tendenze di formazione della forza lavoro; c) tendenze di domanda della forza lavoro; d) tendenze dominanti di incontro tra offerta e domanda; e) mercato interno aziendale. Tutto questo porta ad una prima selezione “naturale” delle persone potenzialmente appetibili per quel ruolo da ricoprire. Il secondo passo da fare, (centrato sul ruolo) è l’analisi delle competenze richieste. Le competenze sono suddivise in verticali, ossia skills e conoscenze tecniche necessarie per l’ottimale svolgimento delle attività relative ad uno specifico ruolo aziendale, inserito in un altrettanto chiaro processo o insieme di processi aziendali; e orizzontali, ossia capacità personali e attitudini, propensioni comportamentali ad operare e a reagire alle situazioni e alle necessità in maniera conforme allo stile e alla visione aziendale. Ogni ruolo è formato da più componenti di tipo tecnico: il cosa fare, quindi l’attività vera e propria da svolgere; come farlo, ossia con quali metodologie, con quali strumenti, attraverso quali procedure, e con quali tecnologie; con chi interagire, legato alle varie interfacce funzionali ed alle varie risorse a disposizione; e infine perché fare il tutto, legato agli obiettivi prefissati. Accanto alle componenti di tipo tecnico vi sono quelle di tipo sociale, per cui ogni ruolo presuppone delle attese di tipo comportamentale, sia dal punto di vista dell’organizzazione, sia dal punto di vista della persona incaricata, sia dal punto di vista della società circostante, sia per quanto riguarda i comportamenti attivati.

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L’insieme di questi elementi concorre a determinare la definizione di ruolo, inteso come un sistema di norme e di aspettative che convergono su una persona in quanto occupa una determinata posizione all’interno di una rete di relazioni sociali. Mentre, nello specifico, definiamo un ruolo organizzativo come lo spazio di attività affidato ad una persona che occupa una determinata posizione all’interno di un sistema organizzato e definito da un obiettivo prioritario. Il ruolo, si muove inoltre all’interno di tre aree: 1) area prescritta (legata all’obiettivo prioritario) 2) area discrezionale (legata alle circostanze ed ai margini di movimento delegato alla

persona, da non confondere con il concetto di indipendenza ne con quello di potere decisionale)

3) area innovativa (legata all’imprevedibilità ed all’iniziativa della persona in riferimento al come. Non può essere prescritta bensì incoraggiata)

LE FASI DEL PROCESSO DI SELEZIONE: a) IL BISOGNO DELL’AZIENDA:

bisogna innanzitutto cercare di capire qual è il bisogno o il desiderio che l’azienda vuole soddisfare sia dal punto di vista umano che dal punto di vista professionale: in primis, è un bisogno per scelta o è un bisogno causato? O meglio, l’azienda decide di effettuare una selezione per ampliamento di organico, perché qualcuno ha raggiunto l’età della pensione, perché c’è da sostituire una maternità o una lunga malattia, o perché deve tappare un buco dovuto all’abbandono o al licenziamento della persona che ricopriva tale ruolo? E, inoltre, la ricerca va effettuata su persona con esperienza per dare continuità oppure anche su persone da formare?. Non a caso gli strumenti che si scelgono di utilizzare in fase di selezione del personale oltre allo scorrimento del curriculum vitae riguardano in egual misura l’indagine sulle caratteristiche intrinseche del candidato, ciò che in gergo vengono definite caratteristiche psico-attitudinali. In questa fase si stabiliscono i tempi, si raccolgono tutte le informazioni necessarie al fine di poter gestire quegli elementi che dovrebbero caratterizzare il ruolo in questione e si procede con quella che viene definita tecnicamente analisi della posizione (o job description): ossia cosa vogliamo dalla persona che dovrà ricoprire quel ruolo e come vogliamo che le mansioni vengano svolte. Una job description classica è in genere composta dalle seguenti voci:

- funzione/ruolo - descrizione analitica dei compiti operativi della funzione - grado di rilevanza della funzione all’interno dell’azienda (basso, medio, alto) - caratteristiche personali rilevanti per la posizione

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- quali obiettivi dovrà raggiungere il candidato - età (in genere si da un range di età) - sesso - retribuzione mensile (numero di mensilità) - livello di inquadramento e tipologia di contratto - ambiti e luoghi all’interno dei quali il candidato dovrà agire le sue funzioni - il candidato avrà il compito di dirigere altre persone? - in caso positivo fornire maggiori dettagli sul numero, sulla quantità e sul tipo di

affiancamenti, ecc. - persona che supervisiona il suo operato - con quante e quali altre persone dovrà collaborare il candidato ed in che modo

si prendono inoltre informazioni (che in fase di colloquio vanno poi esplicitate al candidato) specifiche sull’azienda come, il numero di dipendenti, il settore di attività, il livello di concorrenza, la posizione dell’azienda sul mercato, ecc.

b) RICERCA/RECLUTAMENTO:

per il reclutamento dei candidati le possibili fonti sono diverse e la loro scelta varia a seconda della criticità del ruolo ed alla situazione di quella fetta di possibile mercato di risorse che ci interessa, ossia la ricerca è tanto più mirata e specifica quanto più la tipologia e le caratteristiche del ruolo lo richiedono. Ad esempio, per dei profili di livello medio basso si possono tranquillamente utilizzare fonti quali riviste e quotidiani a livello locale, giornalini a distribuzione gratuita, inserzioni di vario genere su tv locali e quant’altro (come il passaparola) a livello semi-informale. Se il tutto invece ricade su posizioni di livello medio alto, come ruoli di responsabilità, quadri, dirigenti, area manager, ecc. la scelta della fonte diventa di fondamentale importanza così è necessario che tutti i potenziali candidati “appetibili” possano essere raggiunti. Tutto questo è influenzato e condizionato da altre due variabili di non poco conto come i costi e la velocità di raggiungimento degli obiettivi prefissati ossia il tempo a disposizione. L’affidabilità dei canali costituisce il prerequisito per orientare al meglio sia le aziende che i candidati in cerca di lavoro. Nell’ambito delle fonti tradizionali rimane essenziale la funzione esercitata dalla stampa (quotidiani e periodici specializzati) e della radio/televisione. Ormai quasi tutti i quotidiani e le principali emittenti radiotelevisive nazionali dedicano un inserto e/o una rubrica settimanale alle inserzioni di ricerca di personale. I principali inserti, spesso disponibili anche su banche dati on-line, sono:

• Il Sole 24 Ore – “Professioni e Carriere” • La Repubblica – “Affari e Finanza”

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• Corriere della Sera – “Corriere Lavoro” • La Stampa – “Tutto Scuola Lavoro” • Il Messaggero – “Ricerca Personale Qualificato” • Il Mattino - “Ricerca Personale Qualificato” • Il Giornale – “Job Center”

Inoltre, sia la Rai (radio e televisione) sia le televisioni commerciali hanno inserito nei palinsesti spazi di approfondimento sulle tematiche occupazionali su cui sono anche pubblicizzate opportunità di impiego, come ad esempio Articolo 1 su rai tre o lo spazio finale in coda alle notizie di Verissimo su canale 5. Ci sono inoltre diverse pubblicazioni periodiche che informano sulle opportunità lavorative, tra le più diffuse abbiamo <<Il Posto>>, <<Lavorare>>, <<Tuttoconcorsi>>, <<Campus>>, <<Università e Lavoro>>, ecc. Non vanno poi dimenticati i bollettini di diverse associazioni come la Camera di Commercio e la Confindustria e naturalmente la Gazzetta Ufficiale. Accanto a queste sono a disposizione diverse guide, pubblicazioni editoriali, periodiche e non, che hanno la finalità di far dialogare il mondo del lavoro con i giovani in cerca di un impiego o di esperienze di incontro con le aziende. Tra queste ricordiamo:

- Placement Book (Università e Corsi Master) - Career Book (La Repubblica – Somedia) - Azienda Informa (Mercurius) - Lavoro e Carriera: Idee e Consigli (Il Sole 24 Ore) - Manuali e guide informative per diplomati e laureati

c) SCREENING DEI CURRICULA:

anche questa fase è influenzata dal tipo di ricerca che si sta svolgendo, inoltre gioca un ruolo importante inizialmente anche la quantità di cv a disposizione sulla quale poter lavorare. Infatti, inizialmente se le risposte sono tante si procede allo screening dei cv utilizzando una buona dose di elasticità e senza essere troppo censori, per requisiti minimi di base, ossia attraverso la considerazione di caratteristiche come l’età, il luogo di residenza, il titolo di studio e l’esperienza che in genere sono quegli indici che compongono un annuncio. Successivamente si passa d una seconda fase in cui vengono chiamati a test i candidati che presentino tali caratteristiche: la somministrazione di prove psico-attitudinali ha in genere il compito (come accennavamo in precedenza) di indagare su quegli aspetti intangibili delle persone che altrimenti non verrebbero fuori ne in fase di colloquio/intervista ne tantomeno deducibili dalla lettura del cv. Si tratta solitamente, anche in questo caso, essendoci la possibilità di utilizzarne molteplici, di sapere quali caratteristiche dovrebbe avere la persona che si sta ricercando, in funzione di ciò

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si sceglie questo o quello strumento più idoneo per la selezione in corso. La fase della somministrazione del test appartiene alla comprensione di quanto in precedenza abbiamo definito il come dovrebbe essere svolto quel tipo di lavoro, cioè quello spazio in cui maggiormente c’è l’influenza della persona sul professionista.

d) IL COLLOQUIO DI SELEZIONE:

l’intervista di selezione è prevista dunque in una fase avanzata del processo di scelta del candidato, infatti vengono chiamati a colloquio solo quei candidati che oltre ai requisiti tecnici da curriculum (il sapere ed il saper fare) ed i requisiti minimi di base, possiedono, in termini di potenziale, le caratteristiche personali o meglio le attitudini, le predisposizioni caratteriali, di cui il ruolo necessita. Il colloquio verte sull’esplicitazione delle esperienze passate siano a quella attuale, oltre che sugli studi, le motivazioni che hanno spinto per determinate scelte, ecc. nonché sull’approfondimento di quelle eventuali “aree critiche” emerse dal test. Le dinamiche che caratterizzano un colloquio di selezione verranno approfondite in dettaglio più avanti. In questa fase il selezionatore da informazioni più dettagliate sull’azienda, sul ruolo e sullo stato della selezione in corso.

e) COMPARAZIONE PESI – SCELTA DEL CANDIDATO

da una rosa di più candidati, dopo aver effettuato i primi colloqui, se ne individueranno successivamente una minima parte in un numero che generalmente è variabile in un range compreso tra le tre e le cinque persone al massimo. Nel caso di uno o più candidati a parità di indice di gradimento si passa a fare quella che in gergo tecnico viene definita griglia di comparazione pesi, ossia una griglia all’interno della quale vi sono le caratteristiche/variabili strutturali di ruolo e quelle comportamentali che deve possedere il potenziale candidato, e quanto gli viene attribuito su una scala di valori (da uno a cinque in termini percentuali) a secondo del giudizio del selezionatore e del responsabile aziendale. Tale strumento permette di razionalizzare e di oggettivare impressioni altrimenti difficilmente comparabili e distinguibili. Questi candidati verranno successivamente convocati per un ulteriore colloquio in presenza di un responsabile aziendale con capacità decisionale o con uno dei titolari dell’azienda e verranno in questa fase approfonditi ambiti quali la retribuzione, l’inquadramento, la responsabilità del ruolo, il posizionamento all’interno dell’organigramma aziendale, eventuali bonus e/o benefits, ecc., la disponibilità eventuale ad intraprendere il nuovo incarico sia da parte dell’azienda sia da parte del lavoratore (vincoli contrattuali).

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f) COLLOQUIO DI ASSUNZIONE E FIRMA CONTRATTO: una volta effettuata la scelta definitiva si definiscono in dettaglio le ultime condizioni e si procede con la firma del contratto. In questa fase verranno ulteriormente esplicite e dunque formalmente sancite tutte quelle condizioni che sottostanno all’azienda ed al ruolo.

g) VALUTAZIONE DEL PERIODO DI PROVA – ASSUNZIONE DEFINITIVA:

in genere si definiscono in questa fase degli step con degli affiancamenti e dei relativi compiti direttamente proporzionali alla competenza del neo-assunto ed alla necessità del ruolo. Coloro i quali sono responsabili dell’affiancamento, della formazione sul campo e della valutazione del neo-assunto stileranno una griglia o delle relazioni di valutazione sull’apprendimento e sui progressi effettuati nonché sui tempi. Raggiunta la totale autonomia di gestione e di intervento e trascorsi i sei mesi burocraticamente necessari, si passa automaticamente all’assunzione definitiva.

L’INTERVISTA/COLLOQUIO DI SELEZIONE: L’intervista può essere definita come uno scambio sociale in cui, tramite domande e osservazioni, si acquisiscono notizie e informazioni, ci si forma un’impressione sul candidato e si prende una decisione. Sebbene la sua principale funzione consista nell’ottenere indicazioni rilevanti in merito al soggetto, essa ha delle funzioni collaterali, come la presentazione dell’azienda e dei compiti legati alla posizione, nonché di trasmettere all’esterno un’immagine positiva dell’azienda stessa. Inoltre si configura come lo strumento principe ed irrinunciabile in fase di selezione del personale in quanto permette la raccolta di dati e di aspetti trasversali difficilmente acquisibile con altri strumenti. È proprio attraverso il confronto dialettico che ciò è possibile: tale interazione diretta offre la possibilità di toccare con mano le abilità del soggetto in esame e la capacità di linguaggio. L’intervista può assumere modalità diverse a seconda del numero di candidati e di intervistatori in interazione. La forma più diffusa di intervista è quella one to one, che però presenta un limite oggettivo, ossia l’ampio numero di cui l’intervistatore deve tenere conto può indurlo a compiere errori di giudizio e a perdere o sottovalutare elementi importanti. Ciò può essere evitato ricorrendo all’intervista panel in cui lo stesso individuo risponde ad una serie di domande sottopostegli a turno da parte di più intervistatori. Ma è una pratica usata di rado e per posizioni particolarmente rilevanti, in quanto richiede un eccessivo dispendio di energie, di tempo e di danaro. Una forma ideale di intervista è quella che si pone nel mezzo tra l’intervista strutturata e l’intervista non strutturata, permettendo di cogliere aspetti che in maniera diretta interessano l’intervistatore senza però precludere la possibilità di informazioni spontanee su cui il soggetto non ha avuto modo di riflettere a lungo. Il

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vantaggio di tale strumento da inoltre un valore aggiunto in termini di qualità delle informazioni raccolte e permette anche di stabilire il grado di congruenza tra il contenuto delle risposte ed il comportamento non verbale

• il colloquio è il processo di comunicazione che si svolge tra due persone, una delle

quali, a causa della sua posizione, lo utilizza in maniera determinata allo scopo di giudicare o influenzare l’altra (brugental)

• il colloquio è per definizione uno di quei metodi che offrono dati soggettivi, cioè

descrizioni dirette del mondo dell’esperienza del soggetto intervistato (hyman) • le interviste sono forme speciali di interazione sociale che dipendono molto dalla

reciproca fiducia e dalla buona volontà dei rispondenti. Se essi devono dare informazioni utili, la fiducia e la buona volontà devono essere mantenute, coltivate e convalidate dall’intervistatore (stebbins)

un “bravo selezionatore dovrebbe innanzitutto essere una persona preparata e competente e non un giudice improvvisato, dovrebbe inoltre adottare un atteggiamento emotivo capace di facilitare l’apertura progressiva del soggetto. Bisogna innanzitutto liberarsi da atteggiamenti moralistici e preconcetti al fine di dar modo al soggetto di giungere all’espressione di tutti i suoi sentimenti che lo pervadono, quelli aggressivi come quelli generatori di vergogna e di colpevolezza per poterli così riconoscere. Il colloquio di selezione è il linea di massima strutturato attraverso delle fasi che vanno a definire quella che viene chiamata check-list: a) la prima fase prevede la presentazione della persona che sta svolgendo la selezione:

per cui il ruolo e le mansioni che si ricoprono, le modalità ed i tempi, ossia tutti quei parametri che a priori caratterizzano la selezione. Questa fase ha la finalità di approfondire la conoscenza reciproca ai fini della ricerca in atto.

b) La seconda fase concerne l’esplicitazione del patto relazionale di co-responsabilità e di reciproca fiducia. Esplicitare dunque i momenti in cui si svolge il colloquio (in genere due) ossia la presentazione del candidato e la presentazione dell’azienda e della posizione che si sta ricercando e la sua collocazione all’interno dell’azienda.

c) La terza fase concerne l’analisi delle conoscenze teoriche (sapere): dunque il percorso formativo del candidato legato all’analisi delle scelte ad es. rispetto ad un percorso scolastico piuttosto che ad un altro, ed eventuali corsi di formazione, specializzazioni, master, aggiornamento. In questa fase è previsto il bilancio delle esperienze formative effettuate, in genere si indaga su quanto di ciò che ha appreso ha poi successivamente utilizzato nel corso delle esperienze professionali e cosa invece si ritiene sia stato superfluo.

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d) La quarta fase riguarda l’analisi delle esperienze professionali (saper fare): viene chiesta una descrizione dettagliata delle esperienze lavorative pregresse in maniera tale da focalizzare l’attenzione sia sulle mansioni che il candidato prediligeva svolgere e quali gradiva meno, sia sul motivo di termine dell’esperienza lavorativa in questione.

e) La quinta fase sposta la sua attenzione sulle caratteristiche personali del candidato (saper essere): si cerca di raccogliere maggiori informazioni possibili tra il detto ed il lasciato intendere sul comportamentale. Dal punto di vista metodologico è opportuno agevolare tale processo chiedendo al candidato di tramutare in concreto ciò che dice con degli esempi pratici di situazioni realmente vissute.

f) Tra la quinta e la sesta fase è previsto l’approfondimento degli interessi extra-scolastici, a scelta dell’intervistatore.

g) La sesta ed ultima fase riguarda la chiusura del colloquio: questa è una fase che tecnicamente viene definita di marketing, ossia bisogna incuriosire ma soprattutto interessare. Si stabiliscono i tempi entro cui si darà comunicazione dell’esito della valutazione e, a prescindere dalla scelta o meno per il secondo colloquio, sarebbe eticamente corretto avvisare il candidato.

Lo scopo di un’intervista di selezione è dunque quello di ottenere quanti più dati oggettivi possibili e soprattutto confrontabili tra di loro: il motivo principale per cui la maggior parte dei colloqui sono strutturati è proprio questo, cioè la possibilità di avere dei parametri di riferimento più o meno standard e confrontarli tra di loro secondo un processo condiviso e paritario, per cui la possibilità di variabili intervenienti, a prescindere dalla singola soggettività che influenza e rende unica ogni singola relazione, non viene ridotta ma resa uguale potenzialmente per tutti. Il patto di fiducia e di co-responsabilità di cui parlavamo precedentemente è fondamentale per il successivo andamento del colloquio e per questo motivo diviene doveroso instaurarlo in una fase preliminare, ossia nel momento della presentazione, mettendo il candidato a proprio agio, presentandosi, essere chiaro sulle modalità con cui si svolgerà il colloquio e la selezione. È importante dal punto di vista motivazionale chiedere perché il candidato (se ha già un lavoro) si sta guardando intorno, cosa cerca che attualmente non ha e cosa pensa che l’azienda ed il ruolo in questione possano dargli. Gli steps della selezione possono essere così riassunti: 1) RECLUTARE (analisi dei bisogni, dei desideri e degli obiettivi) 2) VALUTARE (secondo criteri il più possibile obiettivi) 3) SCEGLIERE (la persona maggiormente idonea in relazione alla domanda) 4) INSERIRE

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LA RELAZIONE SELEZIONATORE-CANDIDATO: Il punto di partenza che sancisce l’inizio di un colloquio di selezione in quanto efficiente (ossia condotto in maniera più possibile oggettiva) ed efficace (che permetta di raccogliere una quantità di informazioni che permettano di poter effettuare una scelta accurata) è indiscutibilmente la “sospensione del giudizio”: bisogna stare sulla relazione piuttosto che tentare di capire o scoprire, infatti siamo influenzati dal candidato così come noi lo influenziamo. La caratteristiche personali, le affinità, le impressioni “a pelle”, interferiscono nelle nostre percezioni attraverso le aspettative inquinando la nostra obiettività. Spesso la prima impressione sceglie l’indirizzo e funge da cornice per il resto del colloquio, porta istintivamente ed inconsciamente a generare delle situazioni che confermino l’infallibilità del selezionatore abbozzando giudizi di segno positivo o negativo. L’obiettività si raggiunge attraverso la predisposizione all’apertura, alla disponibilità, all’ascolto, alla relazione, alla curiosità, in sintesi, alla voglia di conoscenza. Durante un processo di selezione è importante monitorare la relazione tenendo in considerazione gli obiettivi di entrambi. In questo contesto la comunicazione più che un processo è un mezzo di gestione che funge da collante per l'insieme di comportamenti che caratterizzano una relazione. L’oggettività dei dati è un fattore tanto importante qualitativamente quanto quantitativamente: sembrerà un gioco di parola ma proviamo ad immaginare come uno stesso colloquio con uno stesso candidato ma con due approcci differenti possa generare risultati differenti e quanto questi, come un effetto boomerang, possano ritorcersi contro la nostra scelta, contro quella del candidato stesso, e contro l’azienda. Uno dei primi errori da evitare è l’innalzamento delle aspettative: tante volte capita di sentire affermazioni del tipo <<lei per le notevoli esperienze maturate, per il bel curriculum presentato, ecc. si sente in grado di………>> in questo caso si sta canalizzando la comunicazione, nonché la relazione, attraverso l’espressione di un giudizio di valore che predispone in maniera sicuramente positiva, ma altrettanto sicuramente poco oggettiva, il candidato nell’atto di elaborare una risposta. Dal punto di vista metodologico è importante: • non uscire mai da un colloquio con la sensazione di non avere avuto informazioni a

sufficienza: se un candidato risulta restio a fornirci informazioni sul suo curriculum e/o sulla sua persona bisogna sempre fare in modo di costruire la domanda adatta a reperire le informazioni che ci servono.

• Mai fare domande chiuse a cui la persona possa rispondere con un semplice si o no, ma farle sempre aperte in modo da dare al candidato la possibilità di raccontarsi, scegliendo autonomamente la quantità e la qualità di informazioni da darci; anche questo è un buon indice di percezione di tratti di personalità, infatti è molto importante verificare costantemente il significato nascosto delle parole (stile non direttivo, meno parla il selezionatore maggiore saranno la qualità, la quantità e la veridicità delle informazioni raccolte).

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• Come già accennato in precedenza, nonostante sia importante non dirigere in maniera rigida l’intervista di selezione, è comunque opportuno avere sempre una griglia pre-definita di domande da formulare, questo permette di essere sempre ricettivi ed in ascolto attivo verso il candidato e di evidenziare eventuali aree particolarmente interessanti che risultano essere “devianti da uno standard”.

• Non sottovalutare o giustificare il non verbale ma porre l’importanza dovuta in quanto uno scambio, e nel nostro caso un colloquio basato sulla comunicazione bi-direzionale, ha sempre due vie di espressione: il contenuto e la relazione. Attraverso cosa ci dicono analizziamo il contenuto, attraverso il come ce lo dicono analizziamo la dimensione maggiormente relazionale e propria del candidato in questione.

Esistono delle particolari situazioni in cui a seconda degli atteggiamenti assunti dal selezionatore e dal candidato ci si può ritrovare, e che sono state classificate come vedremo di seguito. Bisogna porre attenzione alla qualità della relazione che si struttura tra i due attori, infatti essa contiene le motivazioni, i meccanismi di difesa, gli atteggiamenti che caratterizzano ogni persona in relazione al contesto. È evidente che un contesto di selezione porta con se significati di successo e di attese molto forti da parte del candidato che tende a sentirsi “sotto esame”. Attraverso l’atteggiamento ed il comportamento verbale e non verbale (soprattutto attraverso le espressioni facciali) del selezionatore, gli atteggiamenti del candidato possono essere rinforzati, mantenuti, neutralizzati e trasformati. È comunque fondamentale non colludere con ciò che l’interlocutore propone. Quindi non è solo importante riconoscere tali meccanismi nell’altro, ma anche in se stessi, essendo consapevoli che siamo determinanti rispetto al risultato qualitativo della relazione. Esistono tre principali categorie in cui è possibile ricondurre alcuni atteggiamenti e modalità relazionali disfunzionali (misure di sicurezza) di un colloquio chiamate collusioni. 1. Evasione – Evasione: la prima misura di sicurezza che un candidato può attivare nasce da tutte quelle naturali forme di dipendenza interiore che la relazione con una figura percepita come avente maggiore potere, ribellione, ammirazione, può generare. La risultante è un atteggiamento caratterizzato dal bisogno di difendersi da tale autorità senza urtarla, e se è possibile, facendosene perdonare la resistenza che le si fa. I soggetti che adottano tale misura di sicurezza parlano di svariati argomenti, apparendo collaborativi e disponibili, ma tentando di mantenere una posizione neutra. Essi cercano di dare qualcosa al selezionatore ma nella misura in cui il colloquio resti sempre e comunque sulla conversazione, preferendo non esporsi mai, in modo che i contenuti che veramente interessano ai fini del colloquio vengano elusi. Questa tecnica potrebbe definirsi come evasione. Se il selezionatore collude con tale misura di sicurezza del candidato, alla fine del colloquio avverte la

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sensazione di non sapere come qualificare il soggetto intervistato e di non poter trarre alcun giudizio sul materiale raccolto, né di idoneità né di non idoneità. Una maniera per aggirare tale minaccia da parte del selezionatore prevede la presenza di due componenti: l’assertività e l’orientamento all’obiettivo, in modo da garantire il reperimento delle informazioni necessarie a livello di contenuto (verbale), riuscendo a sfidare la richiesta inespressa di “protezione” che proviene dal candidato (relazione). Pertanto possedere una griglia di analisi delle variabili da individuare e definire prima di entrare in colloquio le domande di indagine da porre, fa evitare le collusioni. 2. Seduzione – Compiacimento: un ulteriore misura di sicurezza consiste nell’attivare atteggiamenti, da parte del candidato, orientati alla “conquista dell’approvazione” del selezionatore. I soggetti caratterizzati da questa tecnica parlano liberamente di sé dicendo molte cose, quasi incuranti del contenuto verbale, ma con un inequivocabile atteggiamento seduttivo. La tendenza è quella di rendere l’esaminatore un alleato relativamente al proprio punto di vista, inducendo nel selezionatore un’opinione positiva della propria persona. Questa seduzione però si svolge in modo in modo molto sottile, più nel tono della verbalizzazione che nei contenuti, accompagnata da dichiarazioni di adesioni o fedeltà a qualche standard. Tale atteggiamento gioca sul bisogno di conferme e di riconoscimenti di importanza insito nel selezionatore. L’impressione che ha il selezionatore dopo il colloquio è quella di essersi lasciato giocare dal soggetto che si è esaminato, rimanendo con l’esperienza che l’altro abbia condotto la situazione a proprio vantaggio. Tale misura di sicurezza può essere aggirata avendo ben chiari gli obiettivi da raggiungere rispetto alle variabili che vanno individuate, e successivamente, valutate (dimensione verbale), e consapevolezza di sé relativamente al proprio bisogno di conferme e riconoscimenti (dimensione relazionale). 3. Ribellione: forma aperta di ribellione nei riguardi dell’autorità. In questo caso il candidato esprime il proprio bisogno di contro-dipendenza contrastando “apparentemente” dei fatti che altro non sono che concetti presi a prestito dal pensare comune (es. non so come abbiate fatto a valutarmi con un test). Anche in questo caso affinché tale possibile “minaccia” possa essere aggirata è necessario essere sempre orientati all’obiettivo e non perderlo mai di vista, ciò aiuta il selezionatore a non abboccare agli stimoli facendo uscire inopportunamente la propria soggettività fuori ruolo. Inoltre le tecniche di assertività permettono di tenere il potere centrato di fronte a qualsiasi provocazione sia esplicita sia percepita come tale. Vi sono anche alcuni meccanismi di difesa messi in atto dal selezionatore. In breve:

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1. Introiezione: è un processo psichico che è molto spesso collegato con l’identificazione. In questi casi il soggetto introietta a tal punto da porre se stesso nella posizione dell’altro. Il rischio è di provare affetto per l’immagine evocativa di una persona piuttosto che per la persona reale (conseguenze sulla valutazione). 2. Proiezione: accade quando il selezionatore proietta una propria caratteristica o un proprio stato d’animo sopra il candidato, quando lo rivive come appartenente all’altra persona anziché a se stesso. Proiezione assimilativa: il bugiardo crede che gli altri mentano. Proiezione di ripudiamento: si attribuiscono ad altri desideri, paure inconsce, colpe, sensazioni inaccettabili per il proprio io (es. dare agli altri la colpa dei propri insuccessi, vedere negli altri i difetti che non ammettiamo in noi, attribuire ad altri istinti o atteggiamenti in noi disconosciuti). GLI STRUMENTI UTILIZZATI NELLA SELEZIONE DEL PERSONALE: in questo modulo approfondiremo le tecniche obiettive di valutazione di alcune caratteristiche individuali: abilità, competenze e personalità, tecniche che possono essere ricondotte nel loro insieme ad una forma di indagine piuttosto nota nella sua forma esteriore ma molto meno nota nei presupposti e nel modo con cui persegue i propri obiettivi conoscitivi: i test. Con questo termine, ormai entrato a far parte del linguaggio comune si etichettano le più diverse modalità attraverso le quali si perviene ad un dato di sintesi partendo da informazioni parziali, da segnali che rappresentano o dovrebbero rappresentare dei predittori dell’esistenza o meno in un certo soggetto di determinate caratteristiche. L’abuso che spesso si è fatto ne presupporre più o meno fondatamente questo legame è probabilmente all’origine dell’idea secondo cui il credere oppure no nei risultati di un test rappresenta più una sorta di atto di fede che una serena valutazione dei risultati alla luce dell’affidabilità dello strumento utilizzato per ottenerli. La capacità del test di misurare, più o meno efficacemente, talune caratteristiche è del tutto comparabile a quella di altri strumenti di misura o a quella dei test non strettamente finalizzati alla valutazione di variabili psicologiche o comunque legate alla sfera intellettuale: il punto critico è la conoscenza degli elementi costitutivi del reattivo (termine tecnico utilizzato dagli addetti ai lavori per definire un test) e la consapevolezza dei suoi limiti.

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Il test scientifico si caratterizza per alcuni importanti fattori, trasversalmente presenti in tutta la letteratura sull’argomento: 1. Validità ���� il grado in cui misura ciò che dichiara di misurare 2. Attendibilità ���� stabilità e ripetitività dei risultati. Eventuali cambiamenti devono

essere attribuiti e/o riferiti a modificazioni intervenute in un certo tratto e non alla mutabilità/flessibilità dello strumento

3. Oggettività ���� capacità di riferire i medesimi risultati a prescindere da chi lo applica 4. Standardizzazione ���� presenza di materiale uguale per tutti, tempi, istruzioni, regole

comportamentali, ecc. 5. Esistenza delle norme � possibilità di contestualizzare la prestazione di un certo

soggetto rapportandola a quella di altri soggetti assimilabili al primo per determinate caratteristiche.

Un test che non presenti le suddette caratteristiche non è un test, o meglio non è un test scientifico. Esiste una molteplicità di test suddivisibili per aree di interesse ed in funzione di altrettante aree psicologiche che si propongono di misurare. Una distinzione per macro aree che può essere fatta aprioristicamente è quella tra test cognitivi e test non cognitivi: ai primi appartengono i test d’intelligenza, attitudine e profitto; ai secondi i test di personalità e le scale di atteggiamento. a) I test d’intelligenza sono costituiti da un insieme di compiti la cui soluzione richiede al

soggetto una capacità di ragionamento primaria o un’abilità cognitiva generale che viene appunto misurata dal numero di compiti eseguiti correttamente. I test attitudinali consentono di valutare il livello intellettuale dei soggetti relativamente ad abilità o capacità specifiche. I test di conoscenza o di profitto hanno lo scopo di misurare il livello di nozioni possedute dal soggetto in merito ad uno specifico dominio di conoscenze;

b) I test di personalità hanno la finalità di valutare le componenti motivazionali, emotive ed interpersonali che caratterizzano il comportamento dell’individuo, essi misurano fattori interni relativamente stabili, che determinano la condotta dell’individuo a livello sociale. Le scale di atteggiamento infine di solito hanno lo scopo di rilevare l’atteggiamento nelle sue tre componenti: affettiva, che riguarda la gradevolezza dell’oggetto di atteggiamento; cognitiva, che è relativa alle conoscenze possedute sull’oggetto; conativa, che evidenzia la predisposizione all’azione nei confronti dell’oggetto.

È difficile, se non impossibile, riuscire a cogliere l’intelligenza di un individuo in termini assoluti: essa può essere definita più proficuamente in riferimento ai comportamenti messi in atto dai vari individui per risolvere un’ampia gamma di compiti cognitivi. In relazione a ciò, il concetto generale di abilità mentale si riferisce all’esistenza di

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sistematiche differenze relative alle prestazioni dei soggetti in compiti che richiedono valutazione, manipolazione, elaborazione e recupero delle informazioni. Tra i test che misurano l’intelligenza più annoverati abbiamo la scala Stanford-Binet messa a punto da Terman nel 1916: essa permette di calcolare per ciascun individuo un punteggio unitario, il cosiddetto Quoziente di Intelligenza (QI) derivante dal rapporto tra età mentale ed età cronologica del soggetto secondo la relazione QI = età mentale / età cronologica X 100. L’età mentale viene definita come l’insieme di attività, esercizi e compiti che la maggior parte dei soggetti con la stessa età cronologica è in grado di risolvere. Nello stesso ambito uno strumento molto utilizzato (maggiormente per gli adulti) è la Wechsler Adult Intelligence Scale il cui autore è Wechsler (1939) meglio conosciuta come WAIS. Essa è costituita da 11 subtest ciascuno relativo a specifiche operazioni mentali: ne vengono raggruppati 6 in una scala verbale (cultura generale, comprensione, ragionamento aritmetico, analogie, vocabolario, memoria di cifre) e 5 in una scala di performance (cifrario, completamento di figure, disegno con cubi, riordinamento di figure, ricostruzione di figure). La somministrazione è alternata e gli item presentano una difficoltà crescente. Questo strumento presenta la caratteristica della contestualizzazione, ossia da dei valori in termini di posizione o di collocamento di un soggetto rispetto ad altri di pari età. Un ultimo reattivo che presentiamo è relativo all’analisi fattoriale, e più precisamente all’individuazione del fattore G di Spearman, secondo cui nelle funzioni cognitive sono rilevabili un fattore di intelligenza generale <<G>> ed una serie di fattori specifici <<S>>, relativi ognuno ad una singola dimensione. Tale misurazione non è standardizzata ma costruita ad hoc sulla base delle necessità e delle caratteristiche che ci interessano. Per quanto riguarda i test di personalità essa è riconducibile all’insieme dei fattori interni agli individui che permettono di spiegare il loro comportamento a livello sociale. Più in particolare i test di personalità impiegati in fase di selezione del personale (ma anche in contesti di tipo clinico) focalizzano quindi la loro attenzione sulla rilevazione delle caratteristiche emotive, motivazionali, interpersonali e di atteggiamento di un individuo, distinte, cioè, dalle abilità intellettive. Questi reattivi nascono a partire dalla prima guerra mondiale quando si applicavano in ambito militare per valutare aspetti circoscritti della personalità degli individui reclutati, quali ad esempio, il grado di sottomissione all’autorità o i livelli di affiliazione. Tra gli strumenti più diffusi ed utilizzati c’è sicuramente il Big Five Questionnaire derivante dal modello teorico dei big five che prevede una strutturazione della personalità in cinque grandi dimensioni di base emerse mediante tecniche di analisi fattoriale. Tali cinque fattori sono:

- ENERGIA, come atteggiamento verso le situazioni quotidiane in ambito relazionale. È costituito da due sottodimensioni quali Dinamismo (Di) caratterizzata da positività ed entusiasmo, e Dominanza (Do) che fa riferimento a spirito di iniziativa, risolutezza e determinazione

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- AMICALITA’, contempla atteggiamenti sia di apertura verso il prossimo, sia di assenza di disponibilità. È costituito da due sottodimensioni quali Cooperatività (Cp) in termini di empatia e condivisione, e Cordialità (Co) intesa come socievolezza, amabilità e cortesia.

- COSCIENZIOSITA’, relativa al senso del dovere e l’assunzione di responsabilità. È costituito da due sottodimensioni quali Scrupolosità (Sc), quindi accuratezza, diligenza e precisione, e Perseveranza (Pe) ossia la determinazione nel raggiungimento degli obiettivi.

- STABILITA’ EMOTIVA, relativa alla gestione di situazioni cariche emotivamente. È costituito da due sottodimensioni quali Controllo delle emozioni (Ce) come la gestione di stati ansiogeni, e Controllo degli impulsi (Ci) ossia contegno di moti d’ira, controllo dell’umore e gestione di eventi frustranti o imprevedibili.

- APERTURA MENTALE, capacità di tener conto del punto di vista altrui e disponibilità al confronto. È costituito da due sottodimensioni quali Apertura alla cultura (Ac) come volontà di tenersi aggiornati su molteplici argomenti, e Apertura all’esperienza (Ae) come voglia di scoprire e di misurarsi con nuove realtà e valori diversi.

Oltre alle dimensioni descritte il BFQ prevede una scala di menzogna tesa a stabilire se le risposte fornite dal soggetto sono sincere oppure se egli mette in atto delle distorsioni per dare un’immagine di se falsificata in senso positivo o negativo. Lo strumento è composto da 132 item ai quali i soggetti devono rispondere utilizzando una scala a 5 punti i cui estremi corrispondono ad affermazioni quali <<assolutamente vero per me>> e <<assolutamente falso per me>>. Proponiamo infine un ultimo reattivo molto conosciuto anch’esso ma meno utilizzato in ambito di selezione se non per specifici ruoli (più utilizzato in ambito clinico). Esso appartiene alla classe dei test proiettivi, ossia in cui l’individuo in questione proietta se stesso nel compito, sia attraverso il significato che attribuiscono agli stimoli sia mediante ciò che provano nella visione delle immagini. Tra i test proiettivi il più diffuso è certamente la prova a macchia d’inchiostro messa a punto da Rorschach nel 1942: essa consiste in 10 macchie simmetriche di cui 5 in bianco e nero e 5 a colori. Al soggetto viene chiesto di indicare ciò che ogni singola macchia potrebbe rappresentare, domandandogli inoltre in una successiva inchiesta di motivare le sue affermazioni. La codifica delle risposte viene effettuata facendo riferimento a tre aspetti: la localizzazione ossia la zona della macchia che il soggetto ha preso in considerazione; gli elementi determinanti relativi alle caratteristiche delle macchie che hanno contribuito a fornire una certa risposta, come ad esempio la forma o la disposizione cromatica; il contenuto che è variabile a seconda che il soggetto percepisca una figura umana, animale o parti di essa. Esiste un sistema di siglatura

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oggettivo delle risposte in quanto la codifica delle risposte stesse e l’interpretazione dei risultati risentono della soggettività del valutatore.

LE TECNICHE DI VALUTAZIONE: Affinché un processo di selezione porti a risultati validi è necessario innanzitutto che i responsabili di tale attività abbiano chiaramente presente che cosa intendono valutare: ciò è possibile conducendo un’attenta job analisys finalizzata all’individuazione delle abilità e degli aspetti critici. Ciascuna delle dimensioni rilevanti deve successivamente essere ponderata in funzione dell’attività lavorativa in esame (vedi pesi). A questo punto avendo stabilito il peso di ognuna di esse, compito di chi conduce la selezione è scegliere quali strumenti tra quelli a disposizione risultino più idonei per ottenere le informazioni desiderate, creando le considerazioni più appropriate al raggiungimento di una valutazione completa e precisa. Secondo Smith e Robertson (Porteous, 1997) il processo di selezione deve tener conto di sette dimensioni fondamentali: 1. job analisys – permette di evidenziare gli elementi costitutivi del lavoro in termini di

compiti, abilità e conoscenze; 2. descrizione del personale – consiste in una descrizione del candidato ideale dal punto

di vista delle abilità, conoscenze e altri attributi personali quali l’esperienza, la compatibilità con l’organizzazione e la personalità;

3. sviluppo di un criterio – è relativo alla determinazione di come il candidato ideale dovrebbe essere identificato in termini di attributi sia personali che collegati al lavoro;

4. richiamo dei candidati – rappresenta il centro della fase di reclutamento e si riferisce alla possibilità di avere a disposizione un ampio numero di candidati da sottoporre a valutazione;

5. scelta del metodo di selezione – consiste nel decidere come procedere nella fase di selezione in termini di test, interviste, esercizi situazionali, ecc.;

6. evitamento di distorsioni nel processo di valutazione – consiste nell’assicurarsi che il processo non dia adito ad ingiuste discriminazioni tra persone o gruppi;

7. presa di decisione – è il passo finale in cui, dopo aver reclutato e valutato, si scelgono tra i vari candidati quello o quelli che risultano più idonei.

In molte situazioni non è saggio basare le decisioni di selezione sull’uso di un unico predittore (come ad es. il risultato di un test) o anche su un solo tipo di predittori. Quando vengono impiegati più predittori lo scopo principale dovrebbe essere quello di riuscire a garantire che essi svolgano un ruolo complementare e non che si duplichino a vicenda, fornendo informazioni ridondanti. Gli strumenti che possono essere impiegati in fase di selezione su cui si effettua una valutazione in genere sono:

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a) modulo di domanda, viene utilizzato praticamente ovunque ma non è redatto sempre allo stesso modo; gli unici elementi fissi sono il nome, l’indirizzo, la data di nascita, i precedenti datori di lavoro e le ragioni per cui si cerca un nuovo impiego.

b) Curriculum vitae, rappresenta un breve riassunto delle conoscenze e delle esperienze scolastiche e lavorative.

c) Referenze, consistono nelle informazioni in merito al candidato ottenute dai suoi precedenti datori di lavoro o da persone che hanno potuto vederlo in azione e che quindi sono in grado di valutare il suo comportamento lavorativo. Le referenze possono essere richieste per iscritto o per telefono prima dell’intervista, o, molto più spesso, nella fase finale del processo di selezione per ottenere un riscontro sui candidati che abbiano già superato positivamente le fasi precedenti.

d) Informazioni biografiche, rappresentano degli approfondimenti sulla vita del candidato che possono essere raccolti sia attraverso il modulo di domanda sia mediante strumenti più complessi come i biodata, che assegnando un punteggio alle risposte fornite dal soggetto ai vari item, consentono un confronto finale tra i candidati.

e) Test relativi a campioni di lavoro, questo tipo di prove prende in considerazione campioni significativi del lavoro in questione, che i soggetti devono eseguire osservando specifiche istruzioni ed entro limiti di tempo prefissati; tali prove sono impiegate spesso nella selezione del personale amministrativo.

La frequenza d’impiego dei vari metodi varia in funzione della posizione per cui si seleziona. Gli ASSESSMENT CENTER: Citazione a parte meritano gli ASSESSMENT CENTER (AC), i quali si configurano come un processo di valutazione particolarmente orientato all’analisi del potenziale, che ha come scopo la rilevazione delle caratteristiche comportamentali e delle qualità individuali dei soggetti. Per Gatewood e Field (1987) un AC consiste in una valutazione standardizzata del comportamento basata su molteplici input. Utilizza numerose tecniche e più osservatori opportunamente addestrati. I giudizi sono fondati soprattutto sulle osservazioni dei comportamenti in situazione si simulazione. Questi giudizi sono sintetizzati dai valutatori (assessor) nel corso di un incontro durante il quale vengono discusse ed omogeneizzate le informazioni riguardanti le singole dimensioni e prodotta una valutazione unitaria e complessiva. Questa definizione racchiude gli elementi essenziali del processo di assessment:

- più tecniche di valutazione - più valutatori - un metodo di valutazione basato sull’integrazione delle osservazioni

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tale tecnica di valutazione diffusasi a partire dagli anni ’70 è specificatamente indicata per stimare le probabilità di riuscita dell’individuo in posizioni di tipo manageriali. Il principio su cui si costruisce l’AC è di tipo multi-tratto multi-metodo, ovvero basato sull’analisi di più dimensioni considerate rilevanti in ambito manageriale, mediante tecniche di valutazione differenziate. Le prove non sono rigidamente precostituite, ma scelte e a volte progettate ad hoc sulla base delle dimensioni individuali che si intendono rilevare: ciò riflette l’essenza dell’AC, ovvero la sua versatilità, la sua capacità di adeguarsi alle esigenze dei diversi contesti aziendali nei quali viene impiegato. L’AC è inoltre caratterizzato da una pluralità di valutatori (in media uno ogni 2-3 candidati), il che rappresenta un vantaggio rispetto ad altre tecniche, in quanto riduce il rischio di giudizi soggettivi: gli assessor infatti si confrontano fra loro per arrivare alla formulazione di una valutazione globale del candidato, raggiunta possibilmente con l’accordo di tutti. Le fasi del processo di Assessment Center sono: 1. PROGETTAZIONE: studio ad hoc in base alle esigenze aziendali. Analisi dettagliata

delle ragioni che hanno spinto a tale intervento, quadro generale dell’azienda e struttura interna, riconoscimento, scelta e approvazione degli obiettivi da parte del vertice aziendale. Dopo di che si traccia un profilo professionale di riferimento (nome, collocazione nell’organigramma, rapporti gerarchici, obiettivi principali, compiti, responsabilità e livello di autonomia, eventuali cambiamenti futuri, caratteristiche materiali e relazionali dell’ambiente relativa alla posizione, conoscenze e competenze richieste) che verrà poi confrontato con i dati raccolti attraverso interviste, questionari e/o osservazioni dirette.

2. GESTIONE: individuazione dei candidati. In genere ogni sessione (poi ripetuta di AC prevede un range di candidati che varia da 6 ad 8 unità) va definita cercando di cerare un gruppo omogeneo in merito a variabili quali l’età, il sesso, livello aziendale, livello culturale e intellettuale. Gli assessor possono essere interni (manager) o esterni (consulenti) o come spesso accade misti. La formazione dei valutatori è importante e può avvenire sottoponendo gli stessi alle medesime prove che successivamente dovranno svolgere gli esaminandi con l’aggiunta della telecamera per poi favorire un auto osservazione ed un auto critica.

3. OSSERVAZIONE e VALUTAZIONE: registrare un numero più possibile elevato di informazioni limitando il più possibile l’introduzione di elementi distorsivi. La rilevazione avviene sui comportamenti sia verbali che non verbali messi in atto dai partecipanti e riconducibili alle dimensioni rilevanti individuate in fase di progettazione (in genere si è supportati da una accurata griglia preparata in precedenza). Una volta compilata tale griglia gli assessor elaborano singolarmente un giudizio valutativo basato sui fatti registrati e sui comportamenti motivazionali percepiti. A questo segue la discussione incrociata tra i vari assessor da cui viene

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fuori un giudizio complessivo e articolato che presenta anche i margini di crescita e progresso.

4. FEEDBACK dei RISULTATI: la fase conclusiva di un programma di AC prevede di fornire ai candidati un feedback sui risultati ottenuti in sede di colloquio individuale. È importante la gestione di tale momento perché potrebbe mettere in luce alcuni aspetti di cui il candidato non è consapevole e ciò, soprattutto se riguarda aspetti negativi, potrebbe generare sentimenti frustranti, mentre se riguarda aspetti positivi potrebbe determinare l’insorgere di aspettative che se non soddisfatte condurrebbero a demotivazione e delusione.