Cislaghi Alessandra - Id Quo Maius Desiderari Nequit (Dialegesthai)

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22/05/13 Al essandra Ci sl aghi , Id quo mai us desi derar i nequi t ( Di al egesthai ) mondodomani.org/di al egesthai/ac01.htm 1/12  Cerca Stampa  | Salva | Invia | Translate  Alessandra Ci slagh i Id quo maius desiderari  nequit 1. L'incantesi mo di Socrate 2. Metafisica come desiderio 3. L'abbandono 4. L'attesa 1. L'inca ntesimo d i Socrate I primi dialoghi platonici hanno l'indubbio merito di cullare il lettore nell'illusione di potersi approssimare alla figura di Socrate, di riuscire, in un fascinoso sortilegio letterario, a riudire l'eco delle sue ammaliatrici parole. Il Carmide è uno di questi: sediamo nel consesso di amici festosi attorno al reduce Socrate. Dai campi di battaglia lontani, egli reca di certo notizie importanti. E il giovane Carmide, dalla testa dolente, gli è avvicinato; il maestro potrà insegnare un rimedio straniero, medicamento efficace nel corpo, se accompagnato da una cura d'anima. Infatti la salute-salvezza appare questione dell'uomo intero e dell'integrità è custode la saggezza. Saggezza non è solo autocontrollo o temperanza, non equivale alla nobiltà d'intenti e non si ri solve nella pudicizia. Essa è un sapere, ma senza oggetti separati, che nitidamente armoniz za le conoscenze acquisite, prima d'ogni giudizio morale. Essa è dunque lucida intelligenza, che si offre nella gratuità, e sebbene da lei non derivi alcun imm ediato e palese v antaggi o, la sua sequela promett e be atitudi ne. L'atte stazione che deriva da questa promessa non è però una sicura giustificazione: nulla garantisce il bene promesso, se non la prova che la saggezza stessa offre di sé. La prova consiste n ell'affidarsi all'incantesimo di cui Socrate è capace: far scaturire dal discepolo le sue doti migliori, attraverso l'assidua frequentazione dialogica col maestro. Questi, il più saggio, il più acuto nella conoscenza di sé e dell'altro, è autentico interlocutore, perché non pretende sapere le cose attorno alle quali solleva domande, ché altrimenti  van terebbe con retorica alterigia un dogmatico possesso del  v er o  e un'arte surrettiziamente pedago gica. Invece, non simulando modestia, Socrate si presenta come  verace indagatore che esamina og ni vol ta ciò c he il discepolo gli propon e nell a com une ricerca di una sempre ulteriore chiarificazione. Un'unica certezza guida il maestro, che coltiva il dono divino della passione per il pensiero, il sapere che l'essere è degno d'amore. 2. Metafisica come desiderio «Saggezza dell'amore», la passione speculativa, follia per chi la ignori, si muove spinta dal desiderio più alto, al di là di ogni bisogno e di ogni appagamento. [1]  Quest o desid erio, questa tensione verso ciò cui tutto tende, ha l'antico nome di metafisica: ricerca misurata solo

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 Alessandra Cislaghi

Id quo maius desiderari nequit

1. L'incantesimo di Socrate2. Metafisica come desiderio3. L'abbandono

4. L'attesa

1. L'incantesimo di Socrate

I primi dialoghi platonici hanno l'indubbio merito di cullare il lettore nell'illusione di potersiapprossimare alla figura di Socrate, di riuscire, in un fascinoso sortilegio letterario, a riudirel'eco delle sue ammaliatrici parole. Il Carmide è uno di questi: sediamo nel consesso di amicifestosi attorno al reduce Socrate. Dai campi di battaglia lontani, egli reca di certo notizieimportanti. E il giovane Carmide, dalla testa dolente, gli è avvicinato; il maestro potrà

insegnare un rimedio straniero, medicamento efficace nel corpo, se accompagnato da unacura d'anima. Infatti la salute-salvezza appare questione dell'uomo intero e dell'integrità ècustode la saggezza. Saggezza non è solo autocontrollo o temperanza, non equivale allanobiltà d'intenti e non si risolve nella pudicizia. Essa è un sapere, ma senza oggetti separati,che nitidamente armonizza le conoscenze acquisite, prima d'ogni giudizio morale. Essa èdunque lucida intelligenza, che si offre nella gratuità, e sebbene da lei non derivi alcunimmediato e palese vantaggio, la sua sequela promette beatitudine. L'attestazione chederiva da questa promessa non è però una sicura giustificazione: nulla garantisce il benepromesso, se non la prova che la saggezza stessa offre di sé.

La prova consiste nell'affidarsi all'incantesimo di cui Socrate è capace: far scaturire daldiscepolo le sue doti migliori, attraverso l'assidua frequentazione dialogica col maestro.Questi, il più saggio, il più acuto nella conoscenza di sé e dell'altro, è autentico interlocutore,perché non pretende sapere le cose attorno alle quali solleva domande, ché altrimenti vanterebbe con retorica alterigia un dogmatico possesso del vero e un'artesurrettiziamente pedagogica. Invece, non simulando modestia, Socrate si presenta come verace indagatore che esamina ogni volta ciò che il discepolo gli propone nella comunericerca di una sempre ulteriore chiarificazione. Un'unica certezza guida il maestro, checoltiva il dono divino della passione per il pensiero, il sapere che l'essere è degno d'amore.

2. Metafisica come desiderio

«Saggezza dell'amore», la passione speculativa, follia per chi la ignori, si muove spinta daldesiderio più alto, al di là di ogni bisogno e di ogni appagamento.[1] Questo desiderio, questatensione verso ciò cui tutto tende, ha l'antico nome di metafisica: ricerca misurata solo

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dall'infinito e perciò inesauribile.

La storia del pensiero annovera momenti che hanno introdotto istanze di incompibiledicibilità, portando in luce l'impensabile che sospende l'esistenza e il linguaggio. Bastiricordare l'«epekeina tes ousias» di Platone, l'«analogia entis» di Tommaso, la«coincidentia oppositorum» di Cusano, l'idea d'infinito di Cartesio, le scommesse di Pascalo l'«esistenza» di Kierkegaard, la «libertà» di Schelling, l'« Ereignis» di Heidegger. Ciò chesfugge al già dato funziona da motore immobile della speculazione; è il meta-fisico.

Ma sofisti e scettici nell'antichità, nominalisti e fideisti nel Medioevo già sottoposero adisamina la metafisica circa la sua validità gnoseologica, pertinenza ed onestàintellettuale.[2] Nella modernità è infine invalso l'uso d'affermare, senza tema di smentite,che non è più possibile una metafisica come scienza, come sapere incontrovertibile.[3]

Eppure Kant, nonostante la critica formulata da Hume, ardiva ancora dire che senzametafisica non c'è filosofia, negando una conoscenza metafisica, ma legittimando l'ideadell'incondizionato, quale unica e imprescindibile presupposizione per la riduzione ad unitàe ordine dell'intera esperienza. L'idea di un'intuizione intellettuale non accresce affatto laconoscenza, tuttavia risulta feconda, poiché senza di essa, destinata a restare inaccessibile,

il dogmatismo diverrebbe legge: nessuna interrogazione critica sarebbe formulabile, néalcun giudizio; non sarebbe possibile alcuna libertà o vita del pensiero; senza di lei népensiero, né umanità, ma il sonno della ragione.[4]

 A debita distanza dai pericoli che la storia ha già presentato sul suo proscenio, qualidogmatismo, integralismo, razionalismo, immobilismo o conservatorismo, e sottraendosialle lusinghe della incontrovertibilità invocata dal pensiero classico, la filosofia prima provaora a costituirsi a partire dalla ricusa del pensiero come sede di un'esplicazione definitivadella verità: il pensiero non dice la verità nella sua interezza, perché finito. La filosofiacontinua ad aver di mira l'intero, ma senza l'avida pretesa di esaurirlo; continua aincontrare il vero, ma come ciò che è altro da sé e la interroga. La metafisica si giustificacosì proprio sulla base della non esaustività della certezza positivistica nei confronti delreale, che merita di venir studiato anche sotto l'aspetto non direttamente riconducibile aconcettualizzazioni fisse e a sicure categorizzazioni.

La riconosciuta differenza rispetto all'intenzionalità scientifica non implica affatto la rinunciaalla razionalità, dal momento che è sempre la medesima volontà di conoscenza e diriconduzione del caos all'ordine che guida e i sistemi scientifici e le tensioni metafisiche. Lametafisica non è deputata al campo dell'irrazionale né è abiurata dalla cerchia dei dotti. Ildesiderio metafisico, che sfugge alla presa del senso comune e alla raffinata conquista dellascienza, non è rapimento mistico ma faticosa e inesausta ricerca, cui è affidata l'indagine

estrema della sovrabbondanza dei significati dell'esistenza, sottratti liminarmente e di voltain volta all'ineffabilità.

La metafisica, che assume modi diversi nelle diverse epoche, persiste imperturbata, quantomeno come «tendenza naturale», quand'anche «in quanto scienza» sia in crisi.[5] Fu Dilthey a interrogarsi per primo, nel periodo postidealista, sul destino della metafisica di fronte allosviluppo delle scienze dello spirito. Egli asserì da un lato la non-scientificità della metafisicae dall'altro la persistenza, sotto forma di esperienza personale, ossia di verità morale oreligiosa, di quel che vi è di «metafisico» nella nostra vita.[6] Di poi, Heidegger, conineguagliabile efficacia, dismise l'uso di nomi antichi, logorati, compromessi o comunque resi

equivoci dalla loro storia. Ma ora, dopo essere passati nel crogiolo della critica più acuta,quei nomi, così purificati, possono forse venir recuperati non foss'altro che per motivi diricchezza storica.

Ora, dopo Heidegger, grazie a lui e ai padri della filosofia ermeneutica contemporanea,siamo forse meno vulnerabili agli strali di certa acrimoniosa critica e le categorie

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tradizionalmente filosofiche non ci paiono più irrimediabilmente compromesse.Oltrepassato il varco del sistema dialettico e liberati dall'impegno cogente alla fondazione infilosofia e in teologia, possiamo provare a lasciar-essere la metafisica.Con largo anticiporispetto alle dispute che sarebbero seguite, aveva già preso questa decisione Husserl, nellaconsapevolezza che il pensiero non può rinunciare a farsi carico della funzione propriamentemetafisica:

Se riprendo l'espressione coniata da Aristotele (di filosofia prima) è proprio perché traggoprofitto e vantaggio dal fatto che è caduta in desuetudine e che a noi evoca solamente il suosignificato strettamente letterale e non i numerosi vari sedimenti, deposti dalla tradizionestorica, che mescolano confusamente sotto il concetto vago di metafisica i ricordi dei diversisistemi metafisici del passato.[7 ]

Metafisica o filosofia prima sono l'indicazione, la titolazione di un certo tipo di sapereconnesso, anche storicamente, allo sviluppo della scienza, ma irriducibile ad un razionalismodi tipo scientifico. La rinuncia alla pretesa di un'elaborazione razionale del desiderio

metafisico, e dunque della ricerca di costruzioni teoretiche capaci di ordinare e di rendereragione dell'umano nella complessità della sua interezza, se attuato, equivarrebbe allacapitolazione della filosofia stessa. I l mancato riconoscimento del momento metafisico,quale irruzione dell'inatteso che interrompe il continuum del sapere acquisito, e acquisitoanche coi mezzi sempre più potenti della scienza, determinerebbe non solo la perdita dellatensione propriamente filosofica alla verità dell'uomo, ma anche la caduta nell'insignificanzadelle conoscenze particolari, perciò il sapere della filosofia merita di venir conservato eripreso, pena il suo eclissarsi nell'immaginario fantastico e mitico. La metafisica vale comecompimento dell'esercizio filosofico, non perché trascenda la ragione nell'irrazionale onell'inesperibile, ma perché si interessa di ciò che è prima o oltre la ragione, di ciò che come

originario costituisce e informa la ragione stessa.Con l'intento di screditare la metafisica, quale vana conoscenza di un mondo ideale,Nietzsche scriveva che del mondo metafisico non si potrebbe predicare null'altro che unessere-altro inaccessibile e incomprensibile.[8] Egli aveva ragione e contro le sue stesseintenzioni: la metafisica resta un'eredità preziosissima per il pensiero, perché è il suoandare oltre l'identico nella consapevolezza che l'alterità merita d'essere salvata e indagata.La metafisica che cerca il fundamentum inconcussum, l'immutabile e l'assoluto, risulta vana, ma la metafisica che dice il tutto nel frammento conosce il tempo e la caducità comeluoghi privilegiati d'indagine speculativa; conosce il mistero nell'ambiguità del quotidiano e

il divino nell'ovvio dell'umano; conosce la verità nello spessore ontologico della metafora; èin quanto vertice d'ogni filosofia, e la filosofia è in quanto metafisica.[9]

Risulta definitivamente impraticabile la metafisica come sistema dottrinale -- ce lo hannoinsegnato Kant e i neopositivisti; appare ormai desueta la metafisica della continuità, chemisconosce le differenze e corona il sapere dell'identità sovrano assoluto -- ce lo hannodimostrato loro malgrado Hegel e i pensatori dei vecchi e nuovi totalitarismi; si mostrainutile la metafisica come promessa di mondi migliori, fondati sulla Causa Ultima e sulSommo Bene -- come affermarono Heidegger e «i maestri del sospetto». Ma l'inquietudinemetafisica permane e chiede di non venir cantata solo dai poeti o proclamata dai profeti,chiede di restare onestamente e degnamente nei domini della ragione.

Di contro ai molti che sostengono l'universale dominio della metodologia scientificamoderna, altri, come gli ermeneuti ad esempio, additano e giustificano una ricerca di veritànon coincidente con l'area conoscitiva delle scienze.[10] Liberano così, come hanno iniziato afare Ricœur ed Henrich, i concetti metafisici dalla prigionia dell'oggettività del sapere

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consolidatosi e dalla fissità dell'ovvio senso comune.[11] La filosofia accoglie la sfida propriadell'essere finito che sapendosi esistente non può che interrogarsi e volersi. Per questo lafilosofia prima è finanche teologia, perché chi si conosce esistente desidera permanere intale autocoscienza vivente e amante. Scriveva Wittgenstein:

Intuire il mondo sub specie aeterni è intuirlo quale tutto-limitato». Ma aggiungeva: «Sentireil mondo quale tutto limitato è il mistico». E come si sa, per il filosofo del linguaggio, il

mistico è l'ineffabile, ciò su cui si deve tacere, sempre, tanto da mostrare ogni qual volta «altri voglia dire qualcosa di metafisico» che costui «a certi segni nelle sue proposizioni non ha datosignificato alcuno».[12] Chi voglia però indagare anche il mistico, chieder conto del mistero edire l'ineffabile, quale provocazione per l'esercizio solerte del pensiero, dovrà tenersi a debitadistanza dall'accanimento terapeutico contro quel malanno tante volte diagnosticato come«horror metaphysicus».[ 13]

3. L'abbandono

Passata attraverso la dura e salutare lezione del disincanto e al vaglio del sospetto, lafilosofia, resistita ai tanti dichiarati superamenti, ridice oggi la sua costitutiva inclinazione aesprimere il tutto nella forma della riduzione razionale, dell'argomentazione critica. Lametafisica resta, come irrefrenabile desiderio conoscitivo, e la filosofia, come inesaustatensione chiarificatrice, non muore; dunque il pensiero speculativo è ancora affar nostro. Loha mostrato Heidegger, dopo aver percorso la strada dell'oltrepassamento della tradizionefilosofica d'Occidente.

Un tempo la metafisica ha indagato nel senso dell'altezza, ora il destino del pensiero indicanella direzione della profondità. Il finito, la terra, l'umano attingono ricchezze di sapienza

nel profondo di sé, mentre l'altezza è di altri regni. Si può allora forse cominciare ainterpretare il meta-fisico non come ciò che è sopra, giacché quae supra nos, nihil ad nos,[14] ma come ciò che è essenziale al finito, seppur irriducibile a uno sguardooggettivante. Scriveva Nietzsche in Aurora:

La realtà più vicina, quel che è intorno e dentro di noi, comincia a poco a poco a mostrarecolori e bellezze ed enigmi e ricchezze di significato -- cose, queste, che l'umanità più anticanon sognava neppure.[15]

Quanto Nietzsche suggestivamente affermava segue un discorso sull'irrilevanza dell'origine,eppure risulta di per sé estremamente significativo proprio se riletto alla luce diun'interpretazione dell'origine. Con l'origine infatti abbiamo imprescindibilmente a che fare,è il dato primo che ci costituisce e che rimane inappropriabile nella sua inesauribilità eseparatezza. Ma poiché l'origine risulta inattingibile in maniera pura dal pensiero, compitodella filosofia non è quello di saltare il fossato verso un'improbabile conquista di mondisuperiori, bensì quello di accorgersi finalmente della realtà più vicina, di ravvisarel'originario nell'epifania del presente, limitato e fugace.

La metafisica non è finalizzata all'alto ma al profondo e così all'in-finito; non abbiamo infatti

che il finito da indagare e l'unica misura che gli rende ragione è la dimensione metafisica. Lafilosofia degli antichi si spingeva lontano, la filosofia della tarda modernità indugia nellaprossimità e ne scopre il fascinosum e il tremendum. L'ultimità non-detta rimanda allafinitezza come all'unicum dicibile e pensabile. Scriveva Heidegger nella Letterasull'umanismo:

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Il pensiero non supera la metafisica col sorpassarla e sollevarla in una qualche direzione,salendo ancora più in alto, bensì scendendo vicino al prossimo. La discesa, tanto più dovel'uomo si è smarrito nella soggettività, è più difficile e più pericolosa della salita: la discesaconduce nella povertà dell'esistenza dell'homo humanus.[16]

In Heidegger la questione importante non è più il proseguimento del progetto di metafisica

nella sua plurimillenaria compromissione con l'ontoteologia, ma l'inaugurazione diun'ermeneutica dell'impensato della filosofia e ciò è parso realizzabile attraverso unadiscesa verso la prossimità: l'homo humanus è l'homo hermeneuticus che unisce l'uso dellaragione alla passione per il finito.[17]

La metafisica, ripresa nell'età ermeneutica, si costituisce nell'andare oltre ogni pretesachiusura gnoseologica per delineare spazi d'ordine e di nitore. Ciò che la qualifica non è losfondamento verso scenari nascosti, ma l'avvicinamento a ciò che ci è più prossimo.Heidegger aveva intuito che la metafora del pensare contemporaneo non è l'ascesa ma ladiscesa nella direzione dell'umanità, fosse anche l'umanità di Dio.[18] La filosofia, nel suo

essere essenzialmente prima, si dispiega nel movimento dell'approssimarsi. Tale lungopercorso verso quanto si mostra essere più intimo di me a me stesso, verso il proprio dellaumana finitezza segnata da un'inquietudine infinita, è un continuo trascendere. Anche isaperi scientifici progrediscono perché guidati dalla logica dell'inarrestabileoltrepassamento. Eppure l'essenza pensante che qualifica l'uomo non si riduce allamatematizzazione dell'esistente.

Heidegger distinse tra «pensiero calcolante» (rechnende), proprio dei progetti scientifici,dal «pensiero meditante» (besinnende), che inerisce al senso di tutto ciò che è.Quest'ultimo è accomunato al primo dalla fatica della ricerca, giacché né l'uno né l'altrosorgono velleitariamente, senza sforzo e attesa. Ma è il pensiero meditante quello che

caratterizza l'essere dell'uomo e che gli attiene propriamente.

Pensiero meditante è la filosofia, la quale, per essere adeguata allo spirito del tempo, deveriuscire ad elaborare il dato della pervasività della ragione tecnico-scientififica, che hasuperato ogni illuministica previsione di gloria. Ma la filosofia rischia di non trovarsiall'altezza dello sfarzoso e raffinatissimo imperio della avanzata cultura tecnologica e diporsi in fuga, impoverendosi, invece di corrispondere e anticipare.

Il tempo del disincanto rende arduo e turbato il riconoscimento pieno nella nostratradizione religiosa e filosofica, mentre il meraviglioso mondo della razionalità scientifica edella consumata secolarizzazione richiede una comprensione teoretica nuova, capace diaffrontare anche le possibili derive di un sapere mal applicato: la modificazione dellasostanza vivente, ancor più insidiosamente del terrore atomico, vale oggi come esempio,dell'urgente problema della protezione della vita.[19] Inquietante non è il successo dellascienza, ma l'inadeguatezza della filosofia a divenire nel presente ragione critica eprospettiva etica.

Un pensiero meditante ha l'alto e urgente ufficio di farsi carico delle trasformazioni epocali,più celeri dei tempi lunghi cui è avvezzo il filosofo. La nottola che arriva sul far delcrepuscolo rischia questa volta di attardarsi imperdonabilmente. Con la baldanza di uncanto diurno la filosofia, come meditazione metafisica, dovrebbe invece andare in cerca di

nuovi radicamenti per la nostra cultura.L'ambiguità del mondo, del qui e ora, carico di speranze e di incertezze, lancia la sfida;raccoglierla non significa produrre sogni antimoderni, misconoscendo la situazione perdestituirne la potenza, tutt'altrimenti significa accogliere la seduzione e la minaccia del

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mondo tardo moderno per vagliare il senso che da esso deriva. Proponeva Heidegger in unsuggestivo discorso:

Si tratterà di lasciar entrare nel nostro mondo di tutti i giorni i prodotti della tecnica e allostesso tempo di lasciarli fuori, di abbandonarli a se stessi come qualcosa che non è nulla diassoluto, ma che dipende esso stesso da qualcosa di più alto. Vorrei chiamare questo contegnoche dice al tempo stesso sì e no al mondo della tecnica con un'antica parola: l'abbandono di

fronte alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen = l'abbandono delle cose e alle cose).[20]

La parola è antica e di pertinenza spirituale, indicando l'atteggiamento di presa di distanzadalle cose per trarvi, in posizione di liberante distacco, il loro mistero o, addirittura, secondoil linguaggio mistico-teologico, la voce, la volontà di Dio. Il rimando heideggeriano è aMeister Eckhart, che nel XIV secolo insegnava il distacco come la più alta e migliore virtù.[21] Essa non è frutto di un pauperismo ascetico, non equivale alla rinuncia, definisceinvece una posizione verso l'esistente, ivi compreso il soggetto proprio.

In questo quadro lo sguardo di chi contempla e medita è teso a cogliere e a decifrare lacomunicazione che viene dalle cose stesse. Dunque la lezione fenomenologica si riconfermapreziosa per Heidegger e per noi come proposta di metodo speculativo: l'atteggiamento diabbandono di un pensiero incessante e appassionato implica la curiosità teoretica,l'apertura della domanda metafisica, il rispetto dell'alterità e l'assunzione di responsabilità.Infatti

l'abbandono di fronte alle cose e l'apertura al mistero (die Offenheit für das Geheimnis) siappartengono l'uno all'altra.[22]

Il compito filosofico qui annunciato chiede di abbandonarsi, ovvero di allontanarsi, didistanziarsi dagli sguardi dell'ovvio senso comune o dell'irenico fideismo come da quelliacutissimi del pensiero calcolante e della violenta totalizzazione, per assumere un'otticacontemplante, che cerchi pazientemente e umilmente il disvelamento del vero senzasovraccarichi ideologici precostituiti, e che sappia suscitare creazioni inedite.

La suprema disponibilità del soggetto contemplante, che ha davanti a sé tutte le cose, eradescritta da Meister Eckhart come conoscenza intellettiva che intuisce le verità essenziali eche equivale alla beatitudine suprema. Lo sguardo contemplante, che ambisce farsipensiero rivelativo, ricalca lo sguardo divino di apprezzamento della creazione. E gli artistiesemplarmente spiegano la genesi delle loro opere come un togliere, un levare per farrisplendere la bellezza di forme e materie: Kronos disvela Aletheia.

4. L'attesa

Il termine eracliteo Anchibasíe è stato spiegato nella traduzione heideggeriana come«andare-nella-prossimità» ( In-die-Nähe-hinein-sich-einlassen). Questo nome pare il piùadeguato a indicare un cammino notturno, quale è quello della cultura e della spiritualitàcontemporanee, che brancicano e tuttavia attendono nuove forme. Affinché la meraviglia,

racchiusa nella notte, possa di nuovo suscitare echi creativi, chi pensa riceve in affidamentol'attesa. Essa è preziosa perché segnala un movimento di resistenza. L'attesa di vedersorgere forme inedite di pensiero e di vita, lungi dal porsi come disposizione passiva, èoccupata dall'abbandono alle cose che consente di approssimarsi ad esse tanto da vederle apartire da un'ottica nuova. Attesa, abbandono, avvicinamento tracciano la costellazione in

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 virtù della quale il pensiero tardo moderno si orienta, nelle sue espressioni teoretiche,morali e teologiche.

Per Heidegger nessuna filosofia e nessuna impresa umana hanno il potere di modificazionedel presente, nondimeno esse possono preparare una disponibilità ad un possibile trapasso,stante il nesso tra autenticità dell'essere e del pensare.[23] Non sarà una decisione sovranaa inaugurare un'epoca nuova, ma una meditazione preparatoria può disporne la nascita.

Levinas magistralmente ha mostrato nell'abbandono alla prossimità una strada percorribiledalla filosofia che si sa originariamente etica, perché il soggetto pensante è istituito nellarelazione con l'alterità, che esso ha già in sé medesimo:[24] «Io sono uno e insostituibile --uno in quanto insostituibile nella responsabilità». La relazione con altri è definita comeprossimità e questa si spiega nella responsabilità[25] per altri assunta fino alla sostituzione,all'abbandono del sé.

Com'è bella questa parola «abbandonarsi» -- osservava il teologo Bonhoeffer -- «lasciare sestessi per appoggiarsi a Dio».[26] Nell'attesa di poter pronunciare in modo nuovo l'annunciodivino, l'essere cristiani nel tempo presente consiste nell'abbandono di parole e gesti ormaiinattuali. Nel frattempo resta l'adorazione fiduciosa e la scelta di vita buona.

I termini presi in esame per tentare di definire l'orizzonte del nostro pensare conservanotutti una duplicità nella loro pregnanza di significato: abbandono designa il lasciare, ilperdere ma anche l'affidarsi, il consentire di essere; l'attesa esprime un vuoto d'eventi mapure la preparazione; l'approssimarsi indica la vicinanza del conoscibile e la direzione etica.Così è della passione del pensiero, sofferta trepidazione e amoroso intendimento.

L'atmosfera in cui è calato il nostro pensare è quella del desiderio, non avendo più certezzeantiche e aspettando strumenti nuovi di comprensione. Attendiamo, abbandonati almistero del nostro esistere, coscienti di una mancanza. Molto è stato detto intorno allapovertà del nostro tempo, che si percepisce come intervallo tra tempi e come povertà.[27]

Mancano oggi categorie esplicative adeguate all'oggetto complessissimo del nostro pensaremeditante e interpretante, manca l'Assoluto che pure giunge all'intuizione nella vitacosciente.[28] Si attende ciò che è assente. E l'Assente per antonomasia, il Dio che non sia sadove se ne sia andato, è l'Atteso. Ora conosciamo l'Assente nel modo del desiderio. È unmodo estremo, il solo di cui disponiamo e che riconosciamo corrispondente allo spirito deltempo, al nostro essere proprio, al nostro ragionare critico. Altri tempi hanno conosciutoaltre modalità conoscitive; oggi, mentre il pensiero calcolante scopre oggetti piùsorprendenti di quelli che ipotizzava, il pensiero meditante presume esistente l'esseremassimamente desiderato.

Serbando la categoria del desiderio, possiamo tentare di mettere in relazione intelligibilità etrascendenza. Le meditazioni filosofiche di Cartesio hanno mostrato all'inizio dellamodernità l'intreccio di razionalità umana e infinità divina: la prima scopre in sé la capacitàdi concepire la seconda e sancisce così il suo valore. Le riflessioni etiche di Levinas, cheaccompagnano il fiorire di una nuova età, segnalano il trascorrere del trascendens nellopsichismo umano, che non si esaurisce nei limiti del cogito autoassicurato. La trascendenzadice la differenza autenticamente metafisica, insinuandosi nella compattezza dell'essere ecorrispondendo così all'io umano, che, autocosciente, sospende l'opacità del reale.L'immanenza ontologica non basta a esprimere la trascendenza, che interrompe l'unitàdell'appercezione trascendentale; ne può derivare un modello antropologico nuovo,

costruito alla luce dell'idea di Rivelazione, sulla base della quale pensare l'uomo comeprecipuo luogo di svelamento, coscienza aperta sul mondo e su Dio.

L'approssimarsi di Dio è scorto nella prossimità; la sua manifestazione nella rivelazionedell'uomo a se stesso.[29] La meditazione vira anche in questo caso verso il più

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profondamente vicino, cercando, mediante la continuazione e la prosecuzione della lezionefenomenologica, di pervenire a una höhere Aufklärung, a un più aperto e complessoesercizio speculativo che non escluda aprioristicamente la trascendenza, già troppe volteconfinata in un misticismo muto o risolta in un positivismo della Rivelazione. «Lafenomenologia -- sostiene Levinas -- non cessa di ricercare, dietro la lucidità del soggetto el'evidenza di cui essa si appaga, come un sovrappiù di razionalità».[30]

Un'apertura della ragione alla trascendenza non si contenta di un soggetto pensante pago di

sé e senza desiderio e a distanza dalla vita, ancora non del tutto ridestato dai sonnidogmatici. Per essere tanto desta da osare di nuovo un discorso della trascendenza, comeriflessione sull'inesauribilità dell'essere, la ragione, anziché assopirsi in un'esaltazioneiniziatica, è chiamata a cimentarsi con più audacia intorno a plessi più profondi rispettoall'intenzionalità dell'intelligenza critica; è chiamata a una vigilanza che superi la luciditàdell'evidenza.

L'idea dell'infinito, la meraviglia che alimenta il desiderio metafisico, dischiude nellacoscienza un varco all'alterità assoluta. Nella rottura dell'immanenza i segni dellatrascendenza divengono pensabili. Levinas nomina la trascendenza nell'altrimenti che

essere, appellandosi ad un Bene più originario; Heidegger nel differire inarrestabile di enteed essere; Bonhoeffer nell'«esserci-per-altri» cristologico. La sfida al pensiero meditante,ovvero alla filosofia che non disdegna ma anzi aspira al titolo di metafisica, consiste nelcompito altissimo d'indicare la cooriginarietà e la coappartenenza di intelligibilità etrascendenza, di coscienza di sé e mistero del tutto, senza fermarsi all'annuncio di un Beneultimamente salvifico ma detto una sola volta e poi consegnato al vissuto.

La notte, come metafora della presente situazione spirituale, per quanto profonda, restatuttavia magnifica e splendente: fa «traboccare la sua meraviglia sopra le stelle» e«approssima le loro lontananze» tanto all'osservatore ingenuo quanto allo scienziato esperto.La notte che tiene assieme le stelle «lavora soltanto con la prossimità...riempiendo dimeraviglia le profondità dell'immenso.[31] Questa notte incredibile seduce ed inebria. Si trattadell'ebbrezza dell'attesa, che rende più disponibili e abbandonati, dunque più sobri.

E lucido e sobrio era il maestro Socrate, quando giudicava preferibile al senno dei più ildelirio che viene da un dio. Ma sta al filosofo -- egli diceva -- dimostrare la forza di questateoria, giacché appare maggiormente convincente l'argomento contrario, che fa prediligerechi è in senno a chi è appassionato.[32]L'ebbrezza socratica deriva dalla contemplazionedelle essenze degne d'amore, per le quali la percezione non è sufficientemente profonda. Ma

nulla vi è di più nobile e desiderabile di ciò cui quella smania, quell'estatico patimentoconduce.

Copyright © 1999 Alessandra Cislaghi

Cislaghi, Alessandra. «Id quo maius desiderari nequit», Dialegesthai. Rivista telematica di  filosofia [in linea], anno 1 (1999) [inserito il 6 ottobre 1999], disponibile su World Wide Web:<http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [57 KB], ISSN 1128-5478.

Note

1. L'espressione è levinassiana e della saggezza del desiderio dice ampiamente Levinas in

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 Autrement qu'être ou au-delà de l'essence, Nijhoff, La Haye 1974, trad. it. a cura di S.Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere, Jaca Book, Milano 1983, v. in particolare lepp. 191, 201-203. Nel Filebo e Convivio platonici il desiderio metafisico è descritto comedesiderio dell'invisibile. In particolare il Filebo presenta sul piano etico una precisazionedelle dottrine ontologiche.

2. Secondo Kolakowski, che si associa in ciò a Hume, a Kant e ai neopositivisti, il sapere siferma al limite della conoscenza empirica, poiché al di là si apre il dominio del mito, di cui

farebbe appunto parte la metafisica. Nel suo insieme il mito è un elemento ineliminabiledella cultura, prova ne è il fatto per Kolakowski (un tempo giudicato eretico dai marxisti-leninisti), che esso è presente in ogni tipo di società, ivi compreso quello marxista.Kolakowski ha esposto la sua teoria circa la metafisica in un libro, a lungo censurato inPolonia e poi pubblicato in Francia, intitolato Die Gegenwärtigkeit des Mythos, P. Piperund Co. Verlag, München 1977, trad. di Obecnosc mitu, Instytut Literacki, Paris 1972.

3. Kant ha liberato la metafisica dal modello, matematico ed empirico, delle scienze positive.L'idea di un fondamento sovrasensibile è sviluppata nella Critica del Giudizio cometeleologia che compie la metafisica. Al superamento kantiano della metafisica comescienza va aggiunto, nella serie delle più serrate critiche, il superamento empiristico. Sulla

 base del principio neopositivistico della verificabilità empirica delle proposizioni tutti gliasserti metafisici risultano inevitabilmente privi di senso. Tale critica, benché rimangasignificativa come configurazione archetipica di un superamento ispirato da motivignoseologici, si è però dissolta, persino all'interno della stesso alveo positivista, perdendod'interesse per la ricerca. Infatti è ormai considerata impropria la valutazioneneoempirista basata su di un riduttivo presupposto verificazionista tratto dalle scienze econforme ad esse ma inapplicabile in ambito metafisico. La critica neoempirista giudicavale proposizioni metafisiche insensate in quanto empiricamente non-verificabili, ma ilprincipio di verificabilità si è dimostrato autocontraddittorio in quanto a sua voltaempiricamente inverificabile. Dopo Wittgenstein e Popper nella filosofia analitica lametafisica è accettata nella sua pretesa di senso come uno delle possibili visioni del mondo.In tal modo alle costruzioni metafisiche è attribuito il merito di anticipare talora la scienzae di valere come importante stimolo intellettuale, mentre rimane loro negato il valore diconoscenza argomentata e razionale.

4. Nella parola latina intuitio non c'è l'idea mistica di una comprensione estatica, bensì quelladel lavoro dello sguardo, della cura.

5. V.I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, in Werke, III, Akad. Ausg. IV, W. de Gruyter, Berlin 1968; trad. it. di P.Carabellese, riveduta da R. Assunto, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si 

 presenterà come scienza, Laterza, Bari 1988.

6. «L'elemento metafisico del nostro vivere come esperienza personale, vale a dire come verità religioso-morale, resta», in W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, LaNuova Italia, Firenze 1974, p. 492 (trad. it. a cura di G.A. De Toni condotta sul I vol. deiGesammelte Schriften, Teubner, Stuttgart e Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1966).Secondo l'opera di Dilthey è solo questo il residuo metafisico (das Metaphysische) checontinua a sussistere anche dopo i programmi di superamento e di dissoluzione.

7. E. Husserl, Erste Philosophie, Husserliana vol. VII, p. 3. Con la dichiarazionedell'intenzione di liberarsi dei sistemi del passato, attraverso la fenomenologiatrascendentale, senza per questo separarsi dalla traiettoria metafisica, Husserl inaugurò lesue lezioni di filosofia prima all'Università di Friburgo nel 1923-24.

8. V. in particolare le riflessioni di F. Nietzsche, Umano, troppo umano, in Opere, a cura diG. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 e sgg.

9. Esibendo l'esaurimento della filosofia prima, c'è anche chi accetta la sopravvivenza e lalegittimità di una filosofia seconda, equivalente non più alla fisica come in antico ma alla

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dimensione pratica (V.M. Riedel, Für eine Zweite Philosophie. Vorträge und Aufsätze,Frankfurt, Suhrkamp 1988. La filosofia seconda ha per Riedel la forma di unaermeneutica a finalità pratica). Qualsivoglia filosofia seconda però si nomina come taleperché attiene alla filosofia in quanto tale, che non può che essere data innanzitutto, unaprima volta. Se filosofia c'è, essa è prima.

10. Tra i primi ricordiamo ad esempio Hans Albert e Richard Rorty, tra i secondi Gadamer,Ricœur e Pareyson.

11. Nella fedeltà a Kant, Pareyson era dell'opinione che si debba dimostrare d'avere buonsenso pensando e dicendo cose ragionevoli e meditate e non appellandosi al senso comunecome ad un oracolo quando non si dispone di nulla d'intelligente per giustificare le proprieasserzioni. V. in il capitolo Filosofia e senso comune in L. Pareyson, Verità e

interpretazione, Mursia, Milano 1971 (19823), pp. 211-233.

12. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino1964, 6.45 6.53. Preoccupato di delimitare i confini della filosofia dinanzi alla soglia delmistico, Wittgenstein avvertiva: «Soprattutto niente chiacchiere trascendentali, quandotutto è così chiaro come un ceffone!» (Ibidem, 6.54) -- consapevole che solo in forza diuna previa elucidazione critica è giustificato il ricorso al termine più alto: «Credere in Dio

 vuol dire comprendere la questione del senso della vita, vuol dire vedere che i fatti delmondo non risolvono tutto, vuol dire che la vita ha un senso» (ID., Tractatus logico-

 philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1983); v.anche Diari segreti , a cura di F. Funtò, introd. di A.G. Gargani, Laterza, Roma-Bari 1987).Ne L'âge herméneutique de la raison, Cerf, Paris 1985, p. 264, J. Greisch ha biasimato ilricorso in teologia all'argomento del senso, proprio perché «il senso è una merce che si

 vende piuttosto bene alla fiera delle illusioni». Ma il Dio della ragione ermeneutica,pensato nella sua assoluta gratuità, non si riduce al Dio del senso costruito secondo loschema della correlazione che confina Dio nel ruolo di rispondente e mortifica l'uomo inquella di richiedente. Occorre stare in guardia contro gli equivoci categoriali e i

conseguenti abusi speculativi.13. Il concetto della filosofia come «malattia», dalla quale rimettersi attraverso il filosofare

inteso e legittimato unicamente come terapia che sopprime il male, quindi comeautonegazione, è ricorrente nella storia del pensiero contemporaneo: tematizzato inparticolare da Wittgenstein e dalla scuola neopositivista e, seppur in altro modo, giàenunciato da Nietzsche. Cfr. inoltre L. Kolakowski, Horror metaphysicus: das Sein und das Nichts, aus d. Engl. von F. Griese, Piper, München 1989.

14. È questo il Dictum Socraticum, v. M. Lutero, De servo arbitrio (1525), WA 18, 605, 20s.(=BoA 3, 100, 17).

15. F. Nietzsche, Aurora, in Opere, ed. cit., vol. V, t. 1, p. 44.16. M. Heidegger, Brief über den Humanismus (1946), pubblicato con lo scritto su Platone

 Platons Lehre von der Wahrheit , Bern 1947, trad. it. La dottrina di Platone sulla verità, Lettera sull'umanismo, di A. Bixio e G. Vattimo, Sei, Torino 1975, p. 37.

17. A questo proposito v. U. Perone, Le passioni del finito, Edizioni Dehoniane Bologna,collana Serie Ricerche n. 2, 1994.

18. Le ultime riflessioni barthiane (ad es. L'umanità di Dio, Claudiana, Torino 1975 -- testo del1956) sono riprese da E. Jüngel che ragiona intorno alla umanità di Dio ( Menschlichkeit Gottes) in Gott als Geheimnis der Welt , Mohr, Tübingen 1977, trad. it. di F. Camera, Dio,

mistero del mondo, Queriniana, Brescia 1982.19. Richiama la filosofia all'obbligo della responsabilità e alla sua vocazione etica H. Jonas,

Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung, Insel, Frankfurt amMain 1985, trad. it. di P. Becchi e A. Benussi, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del 

 principio responsabilità, Einaudi, Torino 1997; Id., Philosophie. Rückschau und Vorschau

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am Ende des Jahrhunderts, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1993, trad. it. di C. Angelino, La filosofia alle soglie del Duemila. Una diagnosi e una prognosi , Il Melangolo, Genova1994.

20. M. Heidegger, Gelassenheit,, Günther Neske, Pfullingen 1959, trad. it. di A. Fabris, L'abbandono, Il Melangolo, Genova 1989, p. 38.

21. V. il sermone Qui audit me in Deutsche Werke, I B., Predigten, Kohlhammer, Stuttgart1958, trad. it. di G. Faggin in Maestro Eckhart, Trattati e prediche, Rusconi, Milano 1982 o

di M. Vannini, in Meister Eckhart, Opere tedesche, La Nuova Italia, Firenze 1982. Cfr.anche il trattato Die Rede der Unterscheidunge, in Deutsche Werke, V.B. Traktate,Kohlhammer, Stuttgart 1963.

22. M. Heidegger, L'abbandono, cit., p. 39.

23. Id., L'epoca dell'immagine del mondo, in Sentieri interrotti , trad. it. a cura di A.P. Chiodi,La Nuova Italia, Firenze (19681 ) 1984, (ed. or. Holzwege, V. Klostermann, Frankfurt a. M.1950, 19806); Id., Ormai solo un Dio ci può salvare, trad. it. a cura di A. Marini, Guanda,Parma 1976.

24. Sull'alterità costitutiva dell'identità personale cfr. P. Ricœur, Soi-même comme un autre,

Seuil, Paris 1990, trad. it. di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993; A.Rigobello, Autenticità nella differenza, La Scuola, Roma 1989; U. Perone, Nonostante il soggetto, Rosenberg & Sellier, Torino 1995.

25. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. p. 129.

26. D. Bonhoeffer, Brautbriefe Zelle 92. Dietrich Bonhoeffer, Maria von Wedemeyer, 1943-1945 , C.H. Beck, München 1992, trad. it. di M.C. Murara,  Lettere alla fidanzata. Cella 92,Queriniana, Brescia 1994, p. 169. V. anche ID., Widerstand und Ergebung. Briefe und 

 Aufzeichnungen aus der Haft , Kaiser, München 1970, 19853 , trad. it. di A. Gallas, Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988,

p. 370.27. Così Hölderlin e Heidegger. Cfr. K. Löwith, Heidegger Denker in dürftiger Zeit ,

 Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1960, trad. it. di C. Cases e A. Mazzone, Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino 1966.

28. V.D. Henrich, Selbstbewußtsein. Kritische Einleitung in eine Theorie, in Hermeneutik und  Dialektik. Festschrift für H.G. Gadamer, a cura di R. Bubner, K. Cramer, R. Wiehl,Tübingen 1970, pp. 257-284. Il tema della ripresa della nozione di autocoscienza è centralenei lavori di Henrich: v. anche Selbsteverhältnisse, Reclam, Stuttgart 1982, 1993, nonché, idue saggi teoreticamente più significativi, Selbstbewußtsein und spekulatives Denken, in

 Fluchtlinien. Philosophische Essays, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1982 e Was ist 

 Metaphysik -- was Moderne? Zwölf Thesen gegen Jürgen Habermas, in Konzepte. Essays zur Philosophie in der Zeit , Suhrkamp, Frankfurt am Main 1987, pp. 11-43.

29. Su questo anche il documento conciliare Gaudium et Spes, n. 41.

30. E. Levinas, De Dieu qui vient à l'idée, Vrin, Pari 1982, trad. it. di G. Zennaro, cura di S.Petrosino, Jaca Book, Milano 1986, p. 33s. ( Dalla coscienza alla veglia a partire da

 Husserl ).

31. M. Heidegger, L'abbandono, cit., pp. 76-77.

32. V. Platone, Fedro, in Opere Complete, 3, trad. it. di P. Pucci, Laterza, 1985, pp. 235ss.

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