Cipolla e Costellazione

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CIPOLLA E COSTELLAZIONE

Il ruolo dell'interpretazione nella fruizione dell'opera d'arte contemporaneae il relativo approccio curatoriale

Relatore: Agnes Kohlmeyer

Laureanda: Lucrezia Calabrò (mat. 268601)

Sessione: Settembre 2012a.a. 2011/2012a.a. 2011/2012

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Indice

Introduzione………… ............................................................................................... p.4

1. La natura dell’opera d’arte: cipolla, rete, rizoma……………………………........... p.6

1.1 La svolta testuale e oltre……………………………………………………………. p.7

1.2 L’esempio dei concettuali…………………………………………………………… p.17

2. La fruizione dell’opera d’arte.………………………………………………………… p.23

2.1 (Against) Interpretation……………………………….………………………………p.25

2.2 Opera: aperta?…..…………………………………………………………………... p.32

2.3 Il paratesto dell’opera d’arte………………………………………………………… p.39

3. L’esempio di dOCUMENTA(13)…………………………………………………… ... p.46

3.1 Costellazione…………………………………………………………….…………… p.46

3.2 dOCUMENTA(13)……………………………………………………….…………… p.50

3.3 “The Brain”…………………………………………………………………………… . p.57

Conclusioni: But you are still standing on my neck!…………………………………. . p.63

Bibliografia………………………………………………………………………………… p.67

Sitografia………………………………………………………………………………….. p.71

Modulo Abstract………………………………………………………………………….. p.72

Abstract…………………………………………………………………………………… . p.74

Dichiarazione di consultabilità………………………………………………………….. p.77

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Introduzione

Il punto di partenza per questo elaborato è stato il tentativo di analizzare i meccanismi

fondamentali che regolano la fruizione dell’opera d’arte contemporanea, e le

conseguenti scelte curatoriali e museali che tali meccanismi potrebbero stimolare.

Le elaborazioni teoriche sulla natura dell’interpretazione dell’opera d’arte (e dei testi in

generale), si sono infatti, dagli anni Sessanta ad oggi, susseguite in modo dinamico e

fecondo, e il mio scopo principale è stato cercare di approfondire gli spunti di dialogo

tra tale dibattito e la pratica curatoriale.

Inizialmente pensavo di mantenere la mia ricerca a un livello soprattutto teorico e

congetturale, che sarebbe sfociato nell’indagine delle ipotesi speculative che sono

state formulate al riguardo, con l’intenzione di elaborarne dei possibili sviluppi operativi

solo in un secondo momento.

La visita alla tredicesima edizione di documenta ha determinato una leggera

deviazione nel mio percorso, poiché il progetto curatoriale di Carolyn Christov-

Bakargiev si propone come l’esempio autorevole più recente di sperimentazione

pratica su quest’ordine di problemi, e ho pensato fosse interessante affiancare alla

ricerca teorica e speculativa un felice esempio di sperimentazione pratica.

“Cipolla” è una metafora di Roland Barthes, secondo la quale il testo non può più

essere considerato un frutto con il nocciolo (dove la polpa sarebbe la forma, e il

nocciolo il fondo – il significato). L’opera d’arte va vista come una cipolla, una

concatenazione infinita di strati interconnessi, che non avvolgono nient’altro che

l’insieme stesso delle loro superfici. Ho scelto tale immagine come sintesi delle teorie

che dalla svolta testuale fino alla formalizzazione del rizoma hanno comportato un forte

cambiamento di prospettiva sull’opera d’arte, imprescindibile nell’ottica di un’analisi

degli approcci ermeneutici che si sono susseguiti dagli anni Sessanta.

“Costellazione” è invece un’immagine elaborata da Walter Benjamin, ed implica un ben

determinato approccio alla cultura, un principio epistemologico che opera mediante la

coreografia di una molteplicità elementi diversi, riuniti dalla prospettiva privilegiata di un

osservatore specifico. Tale metafora racchiude in sé un approccio metodologico

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condiviso da diversi pensatori e lavoratori della cultura dalla seconda metà del

Novecento in poi; tra questi, ho individuato Carolyn Christov-Bakargiev, e l’approccio

da lei maturato durante la realizzazione di dOCUMENTA(13).

L’interpretazione, cuore tematico di quest’elaborato, è quell’infinitamente discusso

spazio che sta tra queste due metafore, inglobandole a tratti o venendo da esse

inglobato.

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1. La natura dell’opera d’arte: cipolla, rete, rizoma

«Nessun segno particolare di cultura è fuori

da un testo generale storico, e nessun testo

generale storico o interpretazione di mondo è

fuori dall’enigma più generale dell’universo».1

Fabio Mauri

Prima di poter analizzare lo spazio che s’instaura tra il fruitore dell’opera d’arte e

l’opera d’arte stessa, conviene soffermarsi brevemente sulla natura di quest’ultima.

Con ciò non intendo aspirare ad una sistematizzazione esaustiva delle diverse teorie

che si sono susseguite sulla natura dell’opera d’arte, ma esplorare brevemente le

potenzialità degli approcci che dagli anni Sessanta si sono susseguiti al riguardo: le

teorie interpretative che analizzerò nel secondo capitolo presuppongono infatti un ben

determinato substrato culturale, che trova l’esempio più significativo in quella che in

ambito semiotico viene definita svolta testuale, ovvero quel cambiamento di prospettiva

nello studio del segno che va dall’analisi di questo sulla base della sua sola struttura

interna (isolato quindi dal contesto in cui si trova) alla sua analisi sulla base del

contesto di relazioni con altri segni significanti in cui si trova. La natura contestuale e

aperta di tale prospettiva sarà uno dei primi passi verso una concezione di opera d’arte

aperta, molteplice, in continua trasformazione (quel tipo di opera d’arte spesso definita

postmoderna), che cercherò di illustrare in questo capitolo attraverso le teorizzazioni di

alcuni dei pensatori più rilevanti dell’epoca.

Ho scelto poi di presentare l’esempio pratico del lavoro degli artisti concettuali della

prima generazione, per il forte legame che la loro pratica artistica ha avuto con queste

teorie, e per i brillanti esempi di sperimentazione sul campo che alcuni di loro hanno

                                                                                                               1 F. Mauri, Zerbino, 2009 (una delle opere presentate a dOCUMENTA(13))

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realizzato.

1.1 La svolta testuale e oltre

Nel 1964 Susan Sontag termina la stesura del celebre saggio Against Interpretation.

Nel primo paragrafo del testo, Sontag individua nella concezione platonica dell’arte

come mimesis2 la causa scatenante dell’esigenza dell’arte di difendere se stessa (nella

concezione magica e rituale pre-greca, questo non era necessario), e precisa che lo

strumento tramite il quale si è cercato di difendere l’arte dalle accuse d’inutilità, che da

Platone in poi l’hanno accompagnata, è stato la divisione tra qualcosa che abbiamo

imparato a chiamare “forma”(accessoria all’opera d’arte) da qualcosa che abbiamo

imparato a chiamare “contenuto”(essenziale all’opera d’arte).

È a questo punto del testo che Sontag nomina per la prima volta il concetto

d’interpretazione: «What the overemphasis on the idea of content entails is the

perennial, never consummated project of interpretation. And, conversely, it is the habit

of approaching works of art in order to interpret them that sustains the fancy that there

really is such a thing as the content of a work of art».3

Considerate queste poche premesse, emerge abbastanza evidentemente come il

provocatorio titolo scelto dalla Sontag per il suo saggio sia una forte presa di posizione

verso un ben determinato metodo interpretativo, e non verso l’interpretazione in toto.

Ma su questo punto tornerò in seguito, va prima di tutto notato come, nonostante le

argomentazioni della Sontag la conducano a conseguenze del tutto personali, le

                                                                                                               2 Si consideri a tale proposito l’esempio del “letto” proposto da Platone nella Repubblica, secondo cui esistono tre tipi diversi di letto: l’idea del letto, che deve essere considerata come ciò che è più propriamente il letto ed è creata dal Demiurgo; il letto che viene fabbricato da un artigiano sul modello dell’idea; il letto dipinto da un pittore, che si rivolge non all’idea ma al letto sensibile fabbricato dall’artigiano. Il pittore, imitando non la verità delle idee, ma l’apparenza delle cose sensibili, che a loro volta non sono che imitazioni delle idee, realizza la “copia di una copia”, ed è definito pertanto solo “imitatore” (mimetes) e non artefice. 3 («Ciò che l'eccessiva enfasi sul concetto di contenuto comporta è il perenne, mai consumato progetto dell’interpretazione. E, per converso, è l'abitudine di avvicinarsi alle opere d'arte al fine di interpretarle a sostenere la fantasia che ci sia davvero qualcosa come il contenuto di un'opera d'arte». tr.it. mia) S. Sontag, Against Interpretation, in Against Interpretation and Other Essays, Laurel Books, New York 1966 (ed. del 1977) p.15.

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premesse di Against Interpretation siano sorelle di una concezione dell’opera d’arte (e

del segno, in generale) che negli stessi anni si stava rapidamente facendo strada in

diversi ambiti del sapere.

La disciplina che meglio ha sistematizzato tale concezione è probabilmente la

semiotica: verso la fine degli anni Sessanta hanno luogo i primi cambiamenti di

prospettiva rispetto alla concezione saussuriana di segno (fino ad allora paradigma

dominante di una semiotica ancora profondamente strutturalista), che confluiranno

nella svolta testuale, ovvero nella transizione dallo studio del segno nella sua

articolazione autonoma in significato e significante, allo studio del segno considerato

nel contesto di relazione con altri segni significanti in cui si trova. Tale contesto,

inizialmente inteso come i sistemi di interdipendenze interne al testo stesso, arriverà

poi ad essere ampliato oltre i limiti del testo (inteso in senso letterario).

Ad esempio, la concezione di Algirdas Julien Greimas secondo cui il lessema4 è una

condensazione virtuale di tutti i suoi possibili sviluppi narrativi, di cui il testo è

espansione, combinata all’idea che il testo vada considerato nell’ottica del percorso

che l’ha costituito5, possono essere considerate le fondamenta di un’argomentazione

che implica un’interdipendenza tra i sistemi semiotici e la realtà extralinguistica.

Sostiene Greimas: «Si intendono per semiotiche naturali due vasti insiemi significanti:

da una parte le lingue naturali e dall’altra i “contesti extra-linguistici” che noi

consideriamo come semiotiche del mondo naturale […] tuttavia la frontiera fra ciò che è

                                                                                                               4 «…Il lessema, considerato in quanto virtualità - quindi anteriormente all'enunciazione nell'hic et nunc - appare come un insieme di possibili percorsi discorsivi, ce, partendo da un nucleo comune, sfociano ogni volta, grazie all'incontro di semi contestuali differenti, in altrettante realizzazioni sotto forma di sememi. La realizzazione del lessema sotto forma di un unico semema particolare definisce dunque il suo funzionamento linguistico. Ma ogni realizzazione puntuale lascia in sospeso un insieme, spesso vasto, di vitalità seriche inesplicitate, pronte ad attualizzarsi al minimo ostacolo incontrato dalla realizzazione lineare della significazione. È la presenza di queste virtualità soggiacenti che produce come effetto di senso, lo "spessore" o la dispersione" delle parole. […] Di conseguenza il lessema non è né un'unità delimitabile del livello dei segni, né una unità del piano del contenuto propriamente detta. In quanto configurazione che riunisce, in modo più o meno accidentale, differenti sememi, il lessema si presenta come il prodotto della storia o dell'uso, piuttosto che come quello della struttura». In A. J. Greimas - J. Courtés, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, a cura di P. Fabbri, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 175. 5 «Designamo con l’espressione percorso generativo l’economia generale di una teoria semiotica (o soltanto linguistica), cioè la disposizione delle sue componenti le une in rapporto alle altre; e questo nella prospettiva della generazione, cioè postulando che, dato che ogni oggetto semiotico può essere definito secondo i modi della sua produzione, le componenti che intervengono in questo processo si articolino secondo un “percorso” che va dal più semplice al più complesso, dal più astratto al più concreto». Ivi, p. 140.

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“naturalmente” dato e ciò che è costruito è sfocata»6. Questi due insiemi significanti

acquistano inevitabilmente profonde relazioni tra loro, portando Greimas a sostituire

l’opposizione naturale/costruito con quella di semiotiche scientifiche/non scientifiche.

Con Greimas, infatti, «l’intertestualità si sposta ai livelli più profondi del testo e finisce

per coinvolgere non solo il mondo dei testi, non solo l’universo della lingua, ma il

mondo e l’universo tout court - una volta che questi siano intesi già “dentro” il discorso,

essendo annullata in effetti la pertinenza scientifica della linea di confine tra il dentro e

il fuori».7

Tale prospettiva dichiaratamente contestuale era stata teorizzata precedentemente, in

un ambito diverso, ma con conseguenze altrettanto considerevoli, dal filosofo del

linguaggio e comportamentista Willard Van Orman Quine, che ne I due dogmi

dell’empirismo (1953), mutuava una tesi proposta da Pierre Duhem in ambito

scientifico,8 per proporre quello che venne definito olismo semantico, secondo cui «le

nostre asserzioni sul mondo esterno affrontano il tribunale dell’esperienza sensibile

non individualmente, ma solo come un ente collettivo»,9 ovvero, le parole hanno

significato solo nel contesto di enunciati, e gli enunciati hanno significato solo nel

contesto del linguaggio. Non ha senso parlare del significato di un enunciato

considerato singolarmente, perché il significato è da cogliersi solo nei rapporti di

quell’enunciato con il linguaggio nella sua interezza.

La teorizzazione della postmodernità, compiuta, tra gli altri, da Jean-Francois Lyotard

negli anni Ottanta, sarà frutto anche della forte spinta di questi anni ad intendere un

segno non come struttura autonoma ma come rapporto differenziale con ciò che lo

circonda; della ricerca, cioè, di regole valide a livello locale e non universale10.

                                                                                                               6 Ivi, p. 305. 7 R. Eugeni, La semiotica contemporanea. Problemi, metodi, analisi, CUSL, Milano 1996, p. 43. 8 «Un esperimento di fisica non può mai condannare un’ipotesi isolata, ma soltanto un insieme teorico […] Il fisico non può mai sottoporre al controllo dell’esperienza un’ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. Quando l’esperienza è in disaccordo con le sue previsioni, essa gli insegna che almeno una delle ipotesi costituenti l’insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma non gli indica quale dovrà essere cambiata». P. Duhem, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, a cura di S. Petruccioli, Mulino, Bologna 1978, p.207. 9 W. V. O. Quine, I due dogmi dell’empirismo, in Paolo Casalegno et al., Filosofia del linguaggio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 107-135. P.128. 10 Non sto dicendo che Quine debba essere considerato un autore postmoderno, ma che la filosofia analitica abbia di sicuro avuto un ruolo considerevole nel cambiamento di prospettiva che avviene in questi anni, e che Quine abbia avuto un ruolo considerevole nella filosofia analitica. Il ripudio di Quine dell'approccio positivista ed empirista alla conoscenza, e il rifiuto, nello specifico, della divisione linguistica

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E’ interessante notare che anche Lyotard, nella messa a punto della sua

epistemologia, userà come argomento di partenza delle acquisizioni di ambito

scientifico. Impiegherà, ad esempio, il teorema del matematico e logico Kurt Gödel, che

dimostra la “sistematica incompletezza di ogni sistema”, ovvero come un sistema

formale non possa contenere in sé il proprio predicato di verità. Sostanzialmente,

Gödel afferma che, per essere coerente, un sistema formale deve essere

necessariamente incompleto, e viceversa, la quale concezione si trova perfettamente

in linea, ad esempio, con la lettura lyotardiana dell’arte postmoderna come una

rinuncia definitiva alla presentazione di una forma, in virtù della ricerca di nuove

sperimentazioni, che abbandonino il tentavo di conciliare concetto e sensibile in un

tutto unitario11.

Da citare, a questo proposito, è anche la linea del secondo Wittgenstein, sintetizzabile

nella celebre frase «il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio». 12

Comprendere un’espressione linguistica, per il Wittgentein delle Ricerche Filosofiche,

implica la comprensione di molteplici fattori, linguistici ed extra-linguistici, che

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               tra referente e contenuto, è stato considerato (mi riferisco all’acceso dibattito tra Dennis Pattinson e Brian Leiter) infatti il primo passo per la caduta di uno degli assi che sostenevano l'epistemologia moderna: «In Law and Truth, I outlined three axes which, taken together, provide a three-dimensional picture of Modern thought. Those three axes are language, knowledge, and metaphysics. The knowledge axis, where Quine is discussed, has Cartesian Foundationalism at one end and Humean skepticism at the other. Every position in Modernist epistemology can be located along this axis. The repudiation of this axis--the repudiation of the debates that are the province of the philosophical subject "epistemology"--is a repudiation of the Modernist approach to knowledge». («In Law and Truth, ho individuato tre assi che, nel loro insieme, forniscono un ritratto a tre dimensioni del pensiero Moderno. Questi tre assi sono il linguaggio, la conoscenza, e la metafisica. L'asse della conoscenza, dove viene discusso Quine, ha il fondazionalismo cartesiano ad un estremità e lo scetticismo humeano all'altra. Ogni posizione nell’epistemologia modernista può essere disposta lungo questo asse. Il ripudio di questo asse - il ripudio dei dibattiti che sono la provincia del soggetto filosofico "epistemologia" - è il rifiuto di un approccio Modernista alla conoscenza». tr.it. mia) In D. Patterson,Law and truth: replies to critics, Southern Methodist University, 1997; in riposta a Law, Truth, and Interpretation: A Symposium on Dennis Patterson's Law and Truth, Southern Methodist University,1997, p.18. 11 «…Gödel ha stabilito in modo effettivo l'esistenza, nel sistema aritmetico, di una proposizione che non può essere dimostrata né confutata nell'ambito del sistema; ciò comporta che il sistema aritmetico non soddisfa la condizione di completezza […] Bisogna riconoscere l'esistenza di limiti interni ai formalismi. Ciò significa che il metalinguaggio di cui il logico si serve per descrivere un linguaggio artificiale (assiomatica) è il "linguaggio naturale" o "linguaggio quotidiano"; tale linguaggio è universale, dato che tutti gli altri si lasciano tradurre in esso; ma non è consistente riguardo alla negazione: ammette infatti la formazione di paradossi». In J. Lyotard, La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, tr. It. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano 2004, pp.77-78. Lo scopo dell'argomentazione di Lyotard è dimostrare che le regole di qualsiasi linguaggio non possono essere dimostrate in se stesse, costituiscono oggetto di consenso da parte dei parlanti. 12 L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, tr. It. a cura di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967, p.33.

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cooperano alla determinazione del senso di tale espressione, e non più il riferimento di

tale espressione a strutture logiche pre-costituite. Il fenomeno linguistico è reinserito

dal filosofo entro un contesto antropologico e socio-culturale più ampio - si pensi, ad

esempio, alla celebre metafora del gioco degli scacchi.13

Bastino questi esempi per illustrare quanto, nella cultura dell’epoca, fosse diffusa la

convinzione della necessità di considerare l’oggetto analizzato relativamente al suo

rapporto col contesto che lo circonda quando viene analizzato, premessa

fondamentale per un sostanziale ripensamento della divisione significato/significante in

favore di una più complessa forma di molteplicità di significanti.

Il punto di collegamento tra queste prospettive, più strettamente legate al linguaggio, e

l’opera d’arte, può essere individuato nella nozione di Testo di Roland Barthes, il quale,

oltre ad aver influenzato direttamente con i suoi scritti gli artisti concettuali della galleria

di Seth Siegelaub, si rifà, in From work to Text (1971), ad alcune posizioni espresse da

Susan Sontag in Against Interpretation.

Va subito specificato che Barthes intende per “opera” un oggetto definito da limiti

esterni e da una struttura interna statica, «a fragment of substance, occupying a part of

the space of books (in a library for example)»,14 in forte contrapposizione al “Testo”,

inteso come campo metodologico e non solo come oggetto di analisi.

La posizione di Barthes, a partire da The Death of the Author in poi, congiunge inoltre

un punto di vista ancora in parte ancorato allo strutturalismo con le soluzioni molto più

radicali che verranno sviluppate successivamente da Gilles Deleuze e Félix Guattari e

dai decostruzionisti.

Vale la pena di soffermarsi su alcuni dei punti fondamentali che Barthes espone per

descrivere la natura del Testo in contrapposizione alla natura dell’opera d’arte.

Per prima cosa, in quanto campo metodologico, e non oggetto statico, il Testo può

essere esperito soltanto nella sua attività di produzione costante: non è fermo, è in

continuo movimento di attraversamento. Inoltre, il Testo non ha gerarchie: la sua forza

sta nella portata sovvertiva che attua nei confronti delle vecchie classificazioni.

                                                                                                               13 Secondo Wittgenstein capire la parola in una proposizione corrisponde a capire una mossa nel gioco degli scacchi: essa non significa niente di per sé, significa qualcosa solo se inserita all’interno del contesto della partita e secondo i criteri dettati dalle regole degli scacchi. 14 («Un frammento di sostanza, che occupa una parte dello spazio dei libri (in una libreria per esempio)» tr. it. mia), R.Barthes, From work to text (1971), in Image Music Text, Fontana Press, London 1977, p.155

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Rispetto alla natura dell’opera d’arte tradizionale che, come sostiene Sontag, si chiude

sul rapporto tra una forma e un significato, il Testo si apre, sfuggendo alle due modalità

di significazione proprie invece, secondo Barthes, dell’opera tradizionalmente intesa:

The Text can be approached, experienced, in reaction to the sign. The work closes on a

signified. There are two modes of signification which can be attributed to this signified:

either it is claimed to be evident and the work is then the object of a literal science, of

philology, or else it is considered to be secret, ultimate, something to be sought out, and

the work then falls under the scope of a hermeneutics, of an interpretation (Marxist,

psychoanalytic, thematic, etc.); in short, the work itself functions as a general sign and it is

normal that it should represent an institutional category of the civilization of the Sign. The

Text, on the contrary, practises the infinite deferment of the signified, is dilatory; its field is

that of the signifier and the signifier must not be conceived of as “the first stage of

meaning”, its material vestibule, but, in complete opposition to this, as its deferred action.15

Questo paragrafo del testo di Barthes sembra rispondere direttamente ad Against

Interpretation, condividendo la forte critica di Sontag verso un tipo d’interpretazione che

«excavates, and as it excavates, destroys; it digs “behind” the text, to find a sub-text

which is the true one. The most celebrated and influential modern doctrines, those of

Marx and Freud, actually amount to elaborate systems of hermeneutics, aggressive

and impious theories of interpretation».16

Barthes propone però un passaggio argomentativo ulteriore: mentre Sontag fa una

scelta che potremmo metaforicamente chiamare “reazionaria”, ovvero non accetta il

binomio forma/contenuto ma in qualche modo lo preserva, proponendo di porre

l’attenzione esclusivamente sulla forma e suggerendo un’ “erotica dell’arte”, Barthes

                                                                                                               15 («Il Testo può essere affrontato, esperito, in reazione al segno. L’opera si chiude su un significato. Ci sono due modalità di significazione che possono essere attribuite a tale significato: o si rivendica che sia evidente, e l’opera è allora oggetto di una scienza letteraria, o della filologia; altrimenti è considerato segreto, finale, qualcosa che deve essere cercato, e l’opera rientra in questo caso nell'ambito di applicazione di un’ermeneutica, di un'interpretazione (marxista, psicoanalitica, tematica, ecc.); in breve, l’opera stessa funziona come un segno generale, ed è normale che essa dovrebbe rappresentare una categoria istituzionale della civiltà del Segno. Il Testo, al contrario, pratica il differimento infinito del significato, è “ritardante”, il suo campo è quello del significante e il significante non deve essere concepito come “la prima fase del senso”, il suo vestibolo materiale, ma, totalmente al contrario, come la sua azione ritardante».tr.it. mia) Ibid. 16 («Scava, e come scava, distrugge; scava “dietro” il testo, per trovare un sotto-testo, che è il testo vero. Le dottrine moderne più celebrate e influenti, quelle di Marx e Freud, in realtà puntano ad elaborare sistemi ermeneutici, aggressive ed empie teorie dell’interpretazione». tr.it. mia) S. Sontag, Against Interpretation, p.15.

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prospetta il sovvertimento della stessa sistematizzazione binaria forma/contenuto: una

volta affermato, infatti, che non c’è nessun “dietro” al Testo, si apre la possibilità di una

generazione perpetua di significato, che non proceda secondo un progresso organico,

o secondo un’investigazione in profondità, «but, rather, according to a serial movement

of disconnections, overlappings, variations. The logic regulating the Text is not

comprehensive (define “what the work means”) but metonymic; the activity of

associations, contiguities, carryings-over coincides with a liberation of symbolic

energy».17

Il Testo non funziona secondo l’espressione diretta di un concetto, sfrutta piuttosto un

principio metonimico, ed è quindi sempre plurale, il che non significa solo che è una co-

esistenza di diversi significati, ma anche che è un continuo movimento di

attraversamento di essi: per questo non risponde ad un’interpretazione ma ad

un’esplosione, una disseminazione.

In un altro articolo, Lo stile e la sua immagine, Barthes ribadirà: «Non possiamo più […]

vedere il testo come la concatenazione binaria di un fondo e di una forma; il testo non

è duplice, bensì molteplice; nel testo ci sono soltanto forme, o, più esattamente, il testo

nel suo insieme non è altro che una molteplicità di forme – senza fondo».18

Anche la figura dell’autore, in quanto uno dei “fondi” possibili dell’opera, viene

scardinata da quest’ottica19:

                                                                                                               17 («ma, piuttosto, secondo un movimento seriale di sconnessioni, sovrapposizioni, variazioni. La logica che regola il Testo non è globale (definire “ciò che l'opera significa”), ma metonimica; l'attività di associazioni, contiguità, ritorni, coincide con una liberazione di energia simbolica». tr.it. mia) R.Barthes, From work to text, in Image Music Text, p.157. 18 R. Barthes, Lo stile e la sua immagine, in Il brusio della lingua, Einaudi, Milano 1988, p. 132. 19 È importante, in questa sede, ricordare anche il ruolo di Foucault nel dibattito sulla morte dell'autore: Il suo primo contributo sul tema sarà l'anno successivo al testo di Barthes, nella conferenza dal titolo Che cos’è un autore? pronunciata nel 1969 davanti alla Société Française de Philosophie, durante la quale farà luce sulla sua posizione toccando alcuni elementi chiave che abbiamo trattato in questi paragrafi: «anzitutto possiamo dire che la scrittura oggi si è liberata dal tema dell'espressione: essa si riferisce solo a se stessa senza tuttavia essere presa nella forma dell'interiorità; essa si identifica con la propria esteriorità spiegata […] il linguaggio è un gioco di segni ordinato meno secondo il suo contenuto significato che secondo la natura stessa del significante […] [la scrittura] si trova sempre nell'atto di trasgredire e di invertire tale regolarità, che accetta sfruttandola; la scrittura si dispiega come un gioco che oltrepassa infallibilmente le proprie regole, passando così all'esterno». Foucault si concentra sulla problematicità della nozione unitaria di "opera", problematica quanto la nozione unitaria di "autore", per poi identificarlo nella sua «funzione classificatoria; un tale nome [dell'autore] permette di raggruppare un certo numero di testi, di delimitarli, di escluderne alcuni, di opporli ad altri. […] il fatto che più testi siano stati posti sotto un unico nome indica che fra loro si è stabilito un rapporto di omogeneità o di filiazione o di autenticazione degli uni attraverso gli altri, o di reciproca spiegazione o di utilizzazione concomitante». In M. Foucault, Scritti Letterari, Feltrinelli, Milano 2004, p.3; p.8. L'autore diventa funzione-autore, il principio di una certa unità di scrittura, l'instaurazione di una certa discorsività che comporta sempre nuove determinazioni a livello di testo e di insiemi più vasti di testi.

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To give an Author to a text is to impose upon that text a stop clause, to furnish it with a final

signification, to close the writing. This conception perfectly suits criticism, which can then

take as its major task the discovery of the Author (or his hypostases: society, history, the

psyche, freedom) beneath the work: once the Author is discovered, the text is

"explained”.20

L’impossibilità di determinare l’autore definitivo di un testo è stata molto discussa,

soprattutto per il suo essere intesa come caratteristica fondamentale della

postmodernità. Come descritto da Eco nelle Postille a Il nome della rosa, l’autore

postmoderno mette in moto la rivisitazione di un passato ineludibile per sfuggire al

silenzio cui porterebbe la consapevolezza di non poter dire niente di nuovo.

Penso all’atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e

che sappia che non può dirle "ti amo disperatamente", perché lui sa che lei sa (e che lei sa

che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà dire:

"Come direbbe Liala, ti amo disperatamente". A questo punto, avendo evitata la falsa

innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui

avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un’epoca di

innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d’amore,

ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato

la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno

coscientemente e con piacere al gioco dell’ironia… Ma entrambi saranno riusciti ancora

una volta a parlare d’amore.21

Per quello che interessa a noi, la presa d’atto della natura più o meno volontariamente

citazionista del testo è un passaggio importante per scardinare l’ultima caratteristica

della chiusura dell’opera, che può finalmente essere concepita nella sua

pluridimensionalità dinamica. Afferma infatti Barthes:

«We know that a text does not consist of a line of words, releasing a single                                                                                                                20 («Dare l’autore ad un testo significa imporre al testo una clausola di arresto, per fornirgli un significato finale, per chiudere la scrittura. Questa concezione si adatta perfettamente alla critica, che può quindi prendere come suo compito principale la scoperta dell'autore (o delle sue ipostasi: la società, la storia, la psiche, la libertà), al di sotto dell’opera: una volta che l'autore è scoperto, il testo è "spiegato"». tr.it. mia) R.Barthes, The death of the author, in Image Music Text, pp. 142-148. P.157 21 U. Eco, Postille a Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980, p. 529.

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"theological" meaning (the "message" of the Author-God), but is a space of many

dimensions, in which are wedded and contested various kinds of writing, no one of

which is original: the text is a tissue of citations, resulting from the thousand sources of

culture».22

Questa, e la sovracitata lunga serie di caratteristiche che l’ex-opera d’arte, trasformata

in Testo, può acquisire, lo porteranno a identificare il Testo con la metafora della rete in

From the work to text (e in altri testi)23 e della cipolla in Lo stile e la sua immagine:

Se finora si è visto il testo sotto forma di un frutto con nocciolo (un’albicocca, per esempio),

dove la polpa è la forma e il nocciolo il fondo, ora è opportuno vederlo sotto forma di una

cipolla, ossia come concatenazione e sovrapposizione di strati (di livelli, di sistemi) il cui

                                                                                                               22 «Sappiamo che un testo non consiste in una linea di parole, che rilasciano un singolo senso "teologico"(il "messaggio" dell’Autore-Dio), ma è uno spazio a molte dimensioni, in cui si sposano e contestano vari tipi dei scrittura, nessuna delle quali è originale: il testo è un tessuto di citazioni, risultato dalle mille fonti della cultura». tr.it. mia) R.Barthes, The death of the author, in Image Music Text, pp. 142-148. P. 146. 23 Mi sembra importante citare, in questo senso, anche The Struggle with the Angel, saggio in cui Barthes introduce prudentemente di un tipo di analisi sostanzialmente decostruzionista: «I shall allow myself every so often (and perhaps continuously on the quiet) to direct my investigations towards an analysis with which I am more at home, textual analysis (“textual” is used with reference to the contemporary theory of the text, this being understood as production of signifiance and not as philological object, custodian of the Letter). Such an analysis endeavours to “see” each particular text in its difference – which does not mean in its ineffable individuality, for this difference is “woven” in familiar codes; it conceives the text as taken up in an open network which is the very infinity of language, itself structured without closure; it tries to say no longer from where the text comes (historical criticism), nor even how it is made (structural analysis), but how it is unmade, how it explodes, disseminates – by what coded paths it goes off». («Ogni tanto permetto a me stesso (e forse sempre di nascosto) di indirizzare le mie ricerche verso un analisi con cui sono più a casa, l'analisi testuale ("testuale"è utilizzato con riferimento alla teoria contemporanea del testo, questo essere inteso come produttore di significanza e non come oggetto filologico, custode della Lettera). Tale analisi si sforza di "vedere" ogni singolo testo nella sua differenza – il che non significa nella sua ineffabile individualità, poiché questa differenza è “intessuta” in codici familiari; concepisce il testo come preso in una rete aperta, che è il vero infinito del linguaggio, strutturato in se stesso senza chiusura; esso cerca di dire non più da dove il testo viene (critica storica), e nemmeno come è fatto (analisi strutturale), ma come è disfatto, come esplode, si diffonde – attraverso quali percorsi codificati si dissemina». tr.it. mia) R.Barthes, The Struggle with the Angel, in Image, Music, Text, pp. 125-141. P.127. E S/Z, nel passo in cui Barthes introduce la sua concezione d’interpretazione, su cui tornerò più avanti, per poi ipotizzare: «In this ideal text, the networks are many and interact, without anyone of them being able to surpass the rest; this text is a galaxy of signifiers, not a structure of signifieds; it has no beginning; it is reveaible; we gain access to it by several entrances, none of which can be authoritatively declared to be the main one; the codes it mobilizes extend far as the eye can reach, they are indeterminable (meaning here is never subject to a principle of determination, unless by throwing dice); the systems of meaning can take over this absolutely plural text, but their number is never closed, based as it is on the infinity of language». («In questo testo ideale, le reti sono molte e interagiscono, senza che nessuna di esse sia in grado di superare le altre; questo testo è una galassia di significanti, non una struttura di significati; non ha inizio; è revertibile; abbiamo accesso ad esso da più ingressi, nessuno dei quali può essere autorevolmente dichiarato quello principale; i codici che mobilita si estendono a perdita d'occhio, sono indeterminabili (il senso qui non è mai soggetto ad un principio determinante, a meno che non tirando i dadi); i sistemi di significato possono assumere questo testo assolutamente plurale, ma il loro numero non è mai chiuso, basato com'è sull’infinità del linguaggio». tr.it. mia) R.Barthes, S/Z, pp. 5 6.

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volume non comporta, alla fine, nessun cuore, nessun nucleo, nessun segreto, nessun

principio irriducibile se non l’infinità stessa dei suoi involucri – che non avvolgono nient’altro

che l’insieme stesso delle sue superfici.24

Non ci sono gerarchie, se la metafora dell’opera d’arte si riferisce a un organismo, «which grows by vital expansion, by “development” (a word which is significantly

ambiguous, at once biological and rhetorical)»,25 la metafora del Testo «is that of the

network; if the Text extends itself, it is as a result of a combinatory systematic (an

image, moreover, close to current biological conceptions of the living being)».26

E ancora, in S/Z: «the one text is not an (inductive) access to a Model, but entrance

into a network with a thousand entrances; to take this entrance is to aim, ultimately, not

at a legal structure of norms and departures, a narrative or poetic Law, but at a

perspective (of fragments, of voices from other texts, other codes), whose vanishing

point is nonetheless ceaselessly pushed back, mysteriously opened».27

Non si fatica a scorgere in queste immagini l’antecedente diretto del concetto di

rizoma, che negli anni ottanta verrà teorizzato da Deleuze e Guattari, inteso a sua volta

non solo a livello teorico ma anche a livello metodologico. Se l’albero e la radice hanno

una crescita gerarchica, e corrispondono ad una metafisica verticale, che si sviluppa in

profondità, il tubero rizoma si sviluppa in superficie, secondo configurazioni decentrate

e in cui ogni parte può essere connessa a un’altra senza necessario passaggio per

punti notevoli predefiniti:28 «il rizoma connette un punto qualunque con un altro punto

qualunque e ognuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente a tratti della stessa

                                                                                                               24 R.Barthes, Lo stile e la sua immagine, in Il brusio della lingua, p.133 25 («Che cresce per espansione vitale, per “sviluppo” (una parola che è molto ambigua, al tempo biologica e retorico)». tr.it. mia), R.Barthes, From work to text, p.161. 26 («è quello della rete; se il testo estende se stesso, è come risultato di una sistematica combinatoria (un'immagine, inoltre, vicino alle attuali concezioni biologiche degli esseri viventi)». tr.it. mia), Ibid. 27(«Il testo non è un accesso (induttivo) ad un Modello, ma l'ingresso in una rete con un migliaio di ingressi; entrare in questo ingresso significa mirare, in ultima analisi, non a una struttura giuridica di norme e partenze, una Legge narrativa o poetica, ma ad una prospettiva (di frammenti, di voci da altri testi, altri codici), il cui punto di fuga è comunque incessantemente spinto avanti, misteriosamente aperto». tr.it. mia) R.Barthes, S/Z, p.12 28 Anche se è importante sottolineare come tale diversità non implichi necessariamente opposizione: «Ciò che conta è che l’albero-radice e il rizoma-canale non si oppongano come due modelli[…]. Non si tratta di questo o quel luogo sulla Terra, né di un momento nella Storia, ancora meno di questa o quella categoria dello spirito. Si tratta del modello che continua a erigersi e sprofondare e del processo che non cessa mai di protrarsi, rompersi e ripartire». G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Alberto Castelvecchi editore, Roma 2010, p.65.

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natura, mette in gioco regimi di segni molto differenti e anche stati di non-segni».29 Il

rizoma cresce e deborda, «è molteplicità in trasformazione, procede per variazione,

espansione, conquista, cattura, iniezione. […] Un rizoma non comincia e non finisce, è

sempre nel mezzo, tra le cose, interessere, intermezzo. L’albero è filiazione, ma il

rizoma è alleanza, unicamente alleanza».30

Il concetto di Testo-cipolla in Barthes e quello di rizoma in Deleuze e Guattari hanno in

comune un altro aspetto fondamentale, ovvero la loro duplice natura di descrizione,

applicabile ad un oggetto, ed allo stesso tempo metodologia, tecnica operativa, uso.

Ma su questo torneremo più avanti.

1.2 L’esempio dei concettuali

E’ interessante notare come, negli stessi anni Sessanta e Settanta, gli artisti

concettuali della prima generazione stessero cominciando a lavorare su temi analoghi

a quelli che porteranno poi alla teorizzazione del rizoma, riflettendo sul rapporto tra

informazione primaria e informazione secondaria,31 ed esplorando nuove possibilità

combinatorie di questi due elementi nella galleria di Seth Siegelaub a New York. La

lettura, in particolare, dei testi dello stesso Barthes (avvenuta grazie alla Evergreen

Review32), li portarono a concepire soluzioni originali nell’applicazione delle teorie

                                                                                                               29 Ibidem. 30 Ivi., p.68-69 31 «Secondo l’opinione di Siegelaub, diventava […] possibile dividere l’opera in “informazione primaria” (“l’essenza dell’opera”, la sua parte ideativa) e “informazione secondaria” (l’informazione materiale attraverso la quale si viene a conoscenza dell’opera, la parte realizzativa, la presentazione nei suoi aspetti formali». A. Alberro, Arte concettuale e strategie pubblicitarie, tr. it. di Simone Menegoi e Cristina Travaglini, Johan & Levi Editore, Milano 2011, p.60. 32 L'originale The Evergreen Review venne pubblicata dal 1957 al 1973 (salvo essere poi stata riproposta in versione online nel 1998). Su di essa, oltre ad articoli di Barthes e Sontag, vennero pubblicati testi di Samuel Beckett, Jorge Luis Borges, Charles Bukowski, William Burroughs, Allen Ginsberg, Gunter Grass, Jack Kerouac, Pablo Neruda, Vladimir Nabokov e molti altri. «The Evergreen Review was founded in 1957 by Barney Rosset, publisher of Grove Press. as a quarterly in a trade paperback format, […] Evergreen published writing that was literally counter to the culture, and if it was sexy, so much the better. […] As the fifties turned into the sixties, and the Beat Scene grew into the counterculture, Evergreen grew as well, always one step ahead of the pack. Politics, sex, and art always went together. […] The final issue, number 96, came out in 1973. Evergreen was more than another literary magazine. It was the voice of a movement that helped to change the attitudes and prejudices of the culture at large through the language of art - and succeeded». («La Evergreen Review è stata fondata nel 1957 da Barney Rosset, editore di Grove Press, come una trimestrale in formato libro in brossura commerciale, [...] La Evergreen pubblicò

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sovracitate alla loro pratica artistica:

L’operazione degli artisti concettuali consiste esattamente nel sostituire l’opera, o meglio

l’oggetto, con il testo, o campo, segnando un profondo cambiamento nel modo in cui artisti

e spettatori concepiscono le proprietà e i limiti dei fenomeni che definiscono l’ambito

dell’arte. Il testo, quindi, viene usato come sistema di codici capace di coordinare le varie

posizioni attivate dal gesto artistico.33

Prendiamo per esempio l’operazione concettuale di Joseph Kosuth: nel momento in cui

«l’importanza di tutta l’arte sta nelle idee»,34 e quindi l’opera d’arte autentica è solo

l’idea astratta, che funzione acquistano tutti quegli elementi materiali (la tela, la galleria,

l’artista stesso) che riconnettono tale idea al mondo reale?

Per Kosuth, essi fanno senza distinzioni parte del supporto strutturale del lavoro, e se

«i materiali e gli oggetti che si accompagnano all’idea non sono arte più di quanto lo sia

un camion che trasporta un’opera d’arte da uno studio a una galleria»35, l’intero spettro

dell’attività artistica dello stesso Kosuth diventa informazione secondaria rispetto

all’opera-idea-informazione primaria, l’unica cosa che conta veramente. Con questi

presupposti, Kosuth decise di eliminare l’iniziale medium tradizionale della tela, che

aveva utilizzato per la First Investigation come base per la stampa delle definizioni dal

dizionario, poiché ancora troppo legata ad una visione oggettuale dell’opera d’arte;

ideò invece un metodo di distribuzione artistica virale, per cui l’unico modo in cui il suo

lavoro era accessibile al pubblico era quello dell’idea (la Second Investigation era

frammentata in tante diverse “sedi” pubblicitarie, impossibili da fruire interamente se

non come idea complessiva).

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               scritti che erano letteralmente contro alla cultura, e se erano sexy, tanto meglio. [...] Quanto dagli anni Cinquanta si entrò nei Sessanta, e la scena Beat crebbe nella controcultura, la Evergreen crebbe a sua volta, sempre un passo avanti alla massa. Politica, sesso, e arte sono sempre andati a braccetto. [...] L'ultima pubblicazione, il numero 96, è uscito nel 1973. L’Evergreen è stata più di una rivista letteraria qualsiasi. Era la voce di un movimento che ha aiutato a cambiare gli atteggiamenti ei pregiudizi della cultura in generale attraverso il linguaggio dell'arte - e ci è riuscito». tr.it. mia) K. Jordan, introduzione a Evergreen Review Reader, 1957-1996. Blue Moon Books and Arcade Publishing, New York 1994. 33 A. Alberro, Arte concettuale e strategie pubblicitarie, p. 161 (Nota numero 36). 34 Ivi., p. 49. 35 J. Chandler, “The Last Word in Graphic Art”, in Art International, novembre 1968, p. 26.

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Fig.1. Joseph Kosuth, Second Investigation, Installazione: The Renaissance Society, Chicago, 1973. (Photo credit: The Renaissance Society)

Nel catalogo di When attitudes become form (1969), per la quale Kosuth presentava

appunto una serie di definizioni tratte dal dizionario, fruibili solo come inserzioni nelle

pagine di giornali locali di Berna, l’artista affermerà:

My current work, which consists of categories from the thesaurus, deals with the multiple

aspects of an idea of something. And, like the other work, it's an attempt to deal with

abstraction. The largest change has been in its form of presentation - going from the

mounted photostat, to the purchasing of spaces in newspapers and periodicals […] This

way the immateriality of the work is stressed and any possible connections to painting are

severed. The new work is not connected with a precious object - it's accessible to as many

people as are interested; it's nondecorative having nothing to do with architecture; it can be

brought into the home or museum, but wasn't made with either in mind; it can be dealt with

being torn out of its publication and inserted into a notebook or stapled to the wall - or not

torn out at all - but any such decision is unrelated to the art. My role as an artist ends with

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  20

the work's publication.36

Per Lawrence Weiner e Douglas Huebler questo implicava, all’opposto, una

fondamentale predominanza dell’informazione secondaria su quella primaria, in quanto

quest’ultima era per loro inaccessibile e perfino indesiderabile. Anzi, per quanto

riguarda il lavoro di Huebler sarebbe alquanto scorretto porre il problema in questi

termini, poiché l’artista non rivendicava alcuna connessione tra significante e

significato: egli proponeva dei documenti, che definiva “informazione grezza”, come

critica a ciò che lui stesso descriveva come un «uso irresponsabile della

significazione». 37 Il forte rifiuto di Huebler del tradizionale binomio

significato/significante lo portò ad individuare, come scopo ultimo del suo lavoro,

l’eliminazione della necessità di possedere una conoscenza privilegiata per accedere

alla ricezione dell’arte, e la promozione di un accesso egualitario ad essa. «Si tratta

anche di un problema politico, uno sforzo di svuotare l’opera d’arte del contenuto, […]

della mitologia, di svuotarla della letteratura e permettere così che essa parli proprio in

virtù del suo essere vuota».38

Il programma di Huebler era fortemente politico, e allo stesso tempo legato ad uno

sguardo nuovo sui ruoli che articolano la fruizione artistica: nei suoi scritti, egli parla

spesso della necessità di essere il più distante possibile dall’opera, della volontà di

creare un linguaggio il più neutrale possibile, per non influenzare l’attività del fruitore,

indicando un forte cambiamento nei campi di forza tra quest’ultimo e l’artista. «Voglio

aprire l’accesso a chi vede il lavoro. Sento di dover concedere allo spettatore tutto lo

spazio d’azione che può usare. La mia distanza è quindi per me una posizione

necessaria per non essere d’ostacolo».39

                                                                                                               36 («il mio lavoro attuale, che consiste in categorie dell’enciclopedia, si occupa dei molteplici aspetti di un'idea di qualcosa. E, come l’altri lavoro, è un tentativo di lavorare con l'astrazione. Il più grande cambiamento sta nella forma di presentazione – che va dalla copia fotostatica all'acquisto di spazi sui quotidiani e periodici [...] in questo modo viene sottolineata l'immaterialità del lavoro, e vengono eliminate le possibili connessioni alla pittura. il nuovo lavoro non è collegato con un oggetto prezioso – è accessibile a tutte le persone interessate: è non decorativo, avendo nulla a che fare con l'architettura, può essere portato in casa o di un museo, ma non è stato fatto con in mente nessuna di queste due cose; può essere strappato dalla sua pubblicazione e inserito in un taccuino, o spillato al muro - o non venire strappato affatto - ma ognuna di queste decisioni non è correlata con l'arte. Il mio ruolo di artista si conclude con la pubblicazione dell'opera». tr.it. mia ), H. Szeeman (a cura di), catalogo di When attitudes become form – live in your head, Stampfli + Cie Ltd., Berne 1969, p.88. 37 M. Auping, Talking with Douglas Huebler, in «LAICA Journal», luglio-agosto 1977, p. 41. 38 Ibid. 39 Ivi., p. 40.

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  21

La nuova importanza data alla figura del fruitore arriverà ad esiti ancora più estremi nel

1970, quando Huebler affermerà che «il soggetto dell’arte è il fruitore, impegnato in

un’attività autogenerativa che in sé rimpiazza l’apparenza e diventa di fatto l’immagine

dell’opera».40 Per Huebler, se il testo non è più un sistema chiuso, una struttura con un

significato univoco da ricercare, e l’autore smette di essere il portatore di questo

significato, diventa la figura del fruitore ad essere caricata di una nuova importanza. Lo

stesso Bathes, in The death of the author, definisce il fruitore come il luogo dove tutte

le moltiplicità, le linee anche contradditorie del testo si riuniscono:

A text consists of multiple writings, issuing from several cultures and entering into dialogue

with each other, into parody, into contestation; but there is one place where this multiplicity

is collected, united, and this place is not the author, as we have hitherto said it was, but the

reader: the reader is the very space in which are inscribed, without any being lost, all the

citations a writing consists of; the unity of a text is not in its origin, it is in its destination; but

his destination can no longer be personal: the reader is a man without history, without

biography, without psychology; he is only that someone who holds gathered into a single

field all the paths of which the text is constituted.41

Questa tendenza sarà determinante per molte delle teorie ermeneutiche che

compariranno nei decenni successivi dando vita ad un acceso dibattito sull’importanza

del ruolo di interprete del fruitore di fronte ad un testo.

Considerando queste premesse, in che modo si articola quell’interpretazione contro cui

si scaglia Susan Sontag e che Barthes definisce come «an activity which we might call

counter-theological, properly revolutionary, for to refuse to arrest meaning is finally to

                                                                                                               40 D.Huebler, in C.C.Cook (a cura di), Douglas Huebler, catalogo mostra, Addison Gallery of American Art, Andover 1970; cit. in A. Alberro, Arte concettuale e strategie pubblicitarie, p.79. 41 («Un testo è composto da una molteplicità di scritti, provenienti da culture diverse e che entrano in dialogo l’uno con l'altro, in parodia, in contestazione; ma c'è un posto in cui questa molteplicità viene raccolta, riunita, e questo posto non è l'autore, come abbiamo detto finora, ma il lettore: il lettore è lo spazio in cui si inscrivono, senza perdersi, tutte le citazioni di cui è costituita una scrittura, l'unità di un testo non è nella sua origine, è nella sua destinazione; ma la sua destinazione non è più personale: il lettore è un uomo senza storia, senza biografia, senza psicologia, è solo qualcuno che tiene raccolti in un unico campo tutti i percorsi di cui il testo è costituito». tr.it. mia), R.Barthes, The death of the author, in Image Music Text, p.146.

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refuse God and his hypostases, reason, science, the law»?42

                                                                                                               42 («Un'attività che potremmo chiamare contro-teologica, propriamente rivoluzionaria, poiché rifiutare di arrestare il significato è finalmente rifiutare Dio e le sue ipostasi, la ragione, la scienza, la legge». tr.it. mia), R.Barthes, The death of the author, in Image Music Text, p.147.

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2. La fruizione dell’opera d’arte

«L'impressione di un chiaro di luna, ritratta

da un pittore; il contorno di un paese

delineato da un cartografo; un motivo

musicale, tenero o energico; le parole di una

lirica sospirosa [...] possono ben essere tutti

atti intuitivi senza ombra di riferimenti

intellettuali».1

Benedetto Croce

Molte cose sono state dette sull’interpretazione nel corso della seconda metà del

secolo. Nello specifico, alla svolta testuale e alle teorie successive sulla natura

dell’opera d’arte, descritte nel primo capitolo, ha corrisposto un lungo periodo di ri-

teorizzazioni continue del rapporto tra autore, testo e fruitore, che dagli anni Settanta

ha visto il prevalere di un percorso specificamente reader-oriented, interessato al

momento dell’interpretazione dei testi come luogo privilegiato dell’esistenza effettiva

del testo stesso. In questo capitolo presenterò un breve excursus su alcune di queste

tendenze, chiamando in causa soprattutto il caso di Susan Sontag e Umberto Eco,

prima di tutto per il loro interesse specifico verso l’opera d’arte e in secondo luogo per

l’atteggiamento semplicistico con cui spesso vengono considerate le loro posizioni.

Penso che sia importante inserire l’analisi di tali posizioni (le più citate, di solito,

nell’ambito dell’arte contemporanea) nel contesto più ampio del dibattito culturale

sull’interpretazione dei testi anche non estetici, per capire meglio il panorama

teoretico in cui le pratiche curatoriali e museali attuali si devono inevitabilmente

inserire.

                                                                                                               1 B.Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica in generale, Laterza, Bari 1928, p.4.

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  24

2.1 (Against) Interpretation

In primo luogo penso sia importante chiarire la posizione di Susan Sontag

sull’interpretazione: sin dalla data di pubblicazione del suo saggio, a causa della

provocatorietà con cui lo slogan “against interpretation” pone la questione, Susan

Sontag è stata vista come la promotrice del formalismo più puro, dell’anti-

interpretazione intesa come un revival dell’art pour l’art. Ma considerando il contesto

storico in cui la scrittrice si trovava quando ha scritto il saggio in questione, e gli indizi

che questa ci offre nel testo stesso, andrebbe probabilmente ridimensionata la

portata rivoluzionariamente “anti-interpretativa” che è stata attribuita alla Sontag.

Galimberti, in un articolo uscito su La Repubblica nel 2004, dedicato alla memoria

della Sontag in occasione della sua morte, scrive:

Susan Sontag si era annunciata al pubblico negli anni Sessanta con un libro Contro

l'interpretazione. Gli psicanalisti e i filosofi ermeneuti lo considerarono confuso. E li

capisco. Li colpiva nella loro ombra, che è poi quella di ritenere che ogni evento sia

suscettibile di interpretazione, e quindi nasconda un significato recondito da portare alla

luce, perché tutto deve avere una spiegazione. In realtà Susan Sontag voleva solo dire

che non tutte le cose hanno un significato.2

Se probabilmente è vero che psicanalisti e filosofi ermeneuti si trovarono “colpiti nella

loro ombra”, penso anche che il motivo fondamentale per cui ritennero confuso il

saggio della Sontag sia un altro, ovvero il fatto che l’ermeneutica contro cui questa

volge le sue parole è in realtà da intendersi, nel suo scritto, come un ben preciso tipo

di interpretazione, e cioè quella praticata dal gruppo di intellettuali newyorkesi3 di cui

                                                                                                               2 U. Galimberti, Quando la malattia diventa una colpa, «La Repubblica» del 29 dicembre 2004, p.42. 3 «Le opposte inclinazioni marxiste e freudiane degli intellettuali newyorkesi [di cui Sontag è parte] è un fattore su cui, in un famoso saggio del 1969 intitolato Gli intellettuali di New York, ha richiamato l’attenzione Irving Howe, per l’appunto uno dei più noti intellettuali di New York: “L’antico abito puritano dell’interpretazione e del giudizio, così avverso alla sensualità, si abbandona a una programmata

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faceva parte all’epoca in cui scrisse il testo, fortemente influenzati da quelle

inclinazioni marxiste e freudiane che la Sontag (come è stato esemplificato nelle

citazioni precedentemente proposte) aborriva, e non l’interpretazione intesa nel senso

in cui la filosofia ermeneutica la stava teorizzando. Tant’è vero che lei stessa, nel

corso della sua carriera di critica, offrirà necessariamente interpretazioni delle diverse

opere che analizzerà, manifestando paradossalmente l’ineludibilità della tendenza

all’interpretazione delle opere d’arte. Mi sembra pertinente citare a questo proposito il

passo di un testo di Sándor Radnóti,4 Il picnic letterario e la critica, nel quale l’autore

dimostra con un semplice esempio come il rifiuto dell’interpretazione promosso dalla

Sontag sia in realtà il configurarsi della difesa di un tipo di interpretazione privo di

tendenze intellettualizzanti, come quelle che lei tenta di proporre nei suoi stessi testi

critici:

Quando di Beckett [Sontag] dice che “i suoi delicati drammi sulla coscienza introversa –

ridotta alle sue componenti essenziali, isolata, presentata spesso in un’immobilità anche

fisica – vengono letti come dichiarazioni sull’alienazione dell’uomo moderno da Dio o dal

significato, o come allegoria della psicopatologia”, lei ovviamente offre una

interpretazione a preferenza di alcune altre. Ed è quello che in realtà fa per gran parte del

suo lavoro critico. Non sto parlando della particolare direzione, del carattere, del livello di

raffinatezza di queste interpretazioni, ma invece della forza ontologica, cioè del fatto che

l’interpretazione è proiettata dall’opera d’arte come suo correlativo, insomma è costruita

in essa. Per conseguenza, o Sontag sbaglia quando restringe il significato del termine

“interpretazione” alla ricerca separata del contenuto metafisico presente nell’opera d’arte,

oppure lo specifico significato che lei attribuisce a questo termine sarebbe meglio

designarlo come “sovrainterpretazione ideologica”.5

Arthur Danto radicalizza questa lettura della posizione di Sontag, affermando che: «i

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         recettività; e veniamo illuminati da lunghi studi sui Beatles” (Selected Writings 1950-1990, Harcourt Brace Jovanovich , 1990, p. 250). L’intellettualizzazione dell’arte e il calo del suo piacere sensibile – tendenze identificate da Hegel e condannate da Nietzsche – possono venir arrestati solo liberando le energie edonistiche della risposta estetica. Solo in questa maniera è possibile restaurare quello che Sontag (Contro l’interpretazione, Mondadori, 1998, p. 36) ha chiamato “l’erotica dell’arte”». S. Radnóti, Il picnic letterario e la critica, in Augusto Carli, Beatrice Töttössy, Nicoletta Vasta, Amant alterna Camenae, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2000, p.21. 4 Sándor Radnóti è un importante critico e storico della letteratura ungherese. Dal 1993 insegna filosofia dell'arte alla facoltà di Estetica della Eötvös Loránd University di Budapest. 5 S. Radnóti, Il picnic letterario e la critica, p.22.

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  26

suoi disprezzati interpreti [di Sontag] vedono le opere come segni, sintomi,

espressioni di realtà recondite o soggiacenti, il cui stato è ciò a cui “veramente”

l’opera d’arte rimanda. Tutto questo esige che l’interprete sia padrone d’una qualche

specie di codice: psicanalitico, culturografico, semiotico, o qual si voglia».6 Secondo

Danto, in verità, tali codici nascondono una fuoriuscita dai limiti dell’opera d’arte, un

cercare altro da essa, e finiscono quindi nell’ambito di quelle teorie letterarie che,

influenzate dalle scienze positiviste, universalizzano ciò che starebbe dietro alle

opere, dimenticandosi del valore che sta nella contestualità di ognuna di esse «…ciò

che in realtà Susan Sontag contesta è la Literaturwissenschaft, la quale, come ella

forse a giusto titolo afferma, non necessariamente ci rende la letteratura più

accessibile, né rende noi lettori migliori». 7

La concezione di Danto è fomentata dalla convinzione che senza interpretazione non

possa sussistere l’idea stessa di opera d’arte, ed è quindi ancora più estrema di

quella di Radnóti. Ma se pur considerassimo eccessiva la sua definizione della

posizione della Sontag come contestazione della Literaturwissenschaft, è la stessa

Sontag a sottolineare nel testo cosa intende esattamente per interpretazione

“scorretta”, tracciando una linea netta tra due tipi ben distinti di interpretazione: «Of

course, I don’t mean interpretation in the broadest sense, the sense in which

Nietzsche (rightly) says, “There are no facts, only interpretations.” By interpretation, I

mean here a conscious act of the mind which illustrates a certain code, certain “rules”

of interpretation».8

Apro una piccola parentesi sulla posizione di Danto: anche lui, infatti, fa una

distinzione simile, quando parla d’interpretazione profonda o interpretazione di

                                                                                                               6 A. C. Danto, L’apprezzamento e l’interpretazione delle opere d’arte, in La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica Edizioni, Palermo 2008, pp. 62-63. 7 «”Con “ermeneutica letteraria””, scrive Szondi (1975, 25-26), “intendiamo una scienza dell’interpretazione che, se non intende prescindere dalla filologia, vuole però sposare questa all’estetica. Essa deve perciò basarsi sulla concezione dell’arte propria del nostro tempo, e proprio per questo sara` storicamente condizionata e non provvista di validità universale e sovratemporale”. L’attuazione di un simile progetto richiede prima di tutto che l’ermeneutica, almeno in ambito letterario, abbandoni la pretesa di universalita` filosofica che l’ha caratterizzata nel corso del nostro secolo, per ritornare a una meditazione contingente e pratica radicata nell’esegesi dei singoli testi». M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988 (ed. del 2008), p.262. 8 («Certo, ovviamente non intendo l'interpretazione in senso lato, nel senso in cui Nietzsche (giustamente) dice:"Non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Per interpretazione intendo un atto cosciente della mente che illustra un certo codice, certe "regole" di interpretazione». tr.it. mia) S. Sontag, Against Interpretation, p.17.

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  27

superficie: l’interpretazione profonda è qualcosa che sta al di là dell’opera (e tra gli

esempi che propone Danto al riguardo ritroviamo ancora una volta Freud e Marx),

mentre l’interpretazione di superficie non solo sta all’interno dell’opera, ma non è

nemmeno prescindibile da essa. «Coloro che contestano l’interpretazione, nel

momento in cui ci invitano a lasciare che le opere parlino da sé, in realtà contestano

l’interpretazione profonda. Difficilmente potrebbero contestare l’interpretazione di

superficie, poiché se lo facessero non saremmo nemmeno in grado di riconoscere

l’opera, figuriamoci poi di lasciarla parlare, cercando di difenderla da una

interpretazione compiuta».9

Tornando a Susan Sontag, quando consideriamo le sue affermazioni va ricordato

come il concetto d’interpretazione che andava sviluppandosi negli stessi anni in cui

scriveva, non solo nel contesto della filosofia ermeneutica, ma anche in altri ambiti del

sapere, fosse per lo più scevro del tentativo di sistematizzare un metodo, delle regole

interpretative, per arrivare al “segreto” di un testo; si presentava piuttosto come un

tentativo di mappare l’interpretazione intesa come attività principe del conoscere

stesso, e per questo necessariamente inaggirabile. Detto ciò, tale precisazione non

rende il processo interpretativo teorizzato dai filosofi ermeneutici meno “violento” di

quello contro cui si scaglia la Sontag, ma pone la questione in termini radicalmente

diversi.

Penso che analizzare le diverse posizioni che si sono susseguite nel secolo scorso

su tale problema sia importante nell’ottica di una comprensione migliore di quello che

è il ruolo della curatela oggi, soprattutto in vista delle diverse scelte operative che il

complesso dibattito sull’ermeneutica dell’opera d’arte potrebbe stimolare.

Se tentassimo di fare una breve introduzione su tale dibattito ermeneutico, penso che

il primo nome da citare sarebbe proprio il Nietzsche preso in causa da Susan Sontag.

Infatti, sebbene non sia il primo a parlare d’interpretazione in filosofia, è di sicuro il

primo a porre così lucidamente e radicalmente i termini della questione, tanto da

diventare, come lo definisce Luigi Perissinotto,10 «una sfida costante e ineludibile per

                                                                                                               9 A. C. Danto, Interpretazione Profonda, in La destituzione filosofica dell’arte, p. 96. 10 Luigi Perissinotto è professore ordinario di Filosofia del Linguaggio presso l’Università Ca’Foscari di Venezia. È redattore della rivista "Filosofia e Teologia" e direttore del Master di II livello in Consulenza

Page 27: Cipolla e Costellazione

  28

chiunque, nel XX secolo, abbia tentato di porre filosoficamente la questione

dell’interpretazione».11

Il suo prospettivismo radicale, secondo cui «i fatti non ci sono, bensì solo

interpretazioni»,12 e dunque le cose esistono solo ed esclusivamente in virtù del loro

essere interpretate, introduce una concezione dell’interpretazione “creativa” che

soltanto molti decenni più avanti verrà proposta con la stessa forza: per Nietzsche

interpretare significa «violentare, riassettare, accorciare, sopprimere, riempire,

immaginar finzioni, falsificare radicalmente».13 Colui che interpreta impone alle cose

la propria volontà – anzi, sono i nostri bisogni ad interpretare il mondo, che racchiude

in sé interpretazioni mutevoli e infinite. Non sorprende che in lui sia stato individuato

uno dei precursori dell’ermeneutica filosofica dallo stesso Gadamer, che possiamo

considerare il padre fondatore di tale disciplina.

Ciò che nella posizione di Gadamer penso sia importante sottolineare, è che

l’interpretazione non viene identificata come una scelta possibile, ma come «il

movimento fondamentale dell’esistenza, che la costituisce nella sua finitezza e

storicità, e che abbraccia così tutto l’insieme della sua esperienza del mondo».14

Questo significa che, per Gadamer, ogni comprensione è inevitabilmente e

universalmente interpretazione, in quanto «il comprendere è una parte dell’evento del

senso, in cui si costruisce e si realizza il senso di ogni enunciazione – di quelle

dell’arte e di quelle di ogni altro tipo di comunicazione».15 Il rapporto tra il realizzarsi

del senso e il comprendere è, per Gadamer, lo stesso che vige tra la musica e il suo

essere resa udibile: non c’è divisione tra fruizione dell’opera, comprensione e

interpretazione, ma appartenenza reciproca.

Penso sia interessante a questo punto riprendere per un attimo la posizione di Willard

Van Orman Quine, di cui avevo precedentemente parlato per quanto riguarda la

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         filosofica. Per la casa editrice Mimesis dirige la collana di studi filosofici "La scala e l'album" e la sezione "Linguaggio" della collana "Filosofie analitiche". La sua attività di ricerca si è concentrata su due temi fondamentali, i quali hanno come punto di riferimento comune la questione filosofica del linguaggio e il problema del nesso linguaggio-interpretazione: (a) la filosofia di Ludwig Wittgenstein, nelle sue diverse articolazioni e nella complessità delle relazioni che essa intrattiene con la filosofia contemporanea; (b) i differenti modi in cui nella filosofia contemporanea, sia nel suo versante analitico che nella prospettiva ermeneutica, sono stati affrontati i problemi del significato, del linguaggio, della verità. (http://unive.it) 11 L. Perissinotto, Le vie dell’interpretazione nella filosofia contemporanea, p. 3. 12 F. Nietzsche, Genealogia della morale, p.73 (a cura di: L. Rodoni). 13 Ibid. 14 H.G. Gadamer, Verità e metodo, a cura di G.Vattimo, Bompiani, Milano 1983, p.8. 15 Ibid.

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  29

teorizzazione dell’olismo semantico. Sebbene l’ambito di cui si occupa il

comportamentista Quine sia oltremodo lontano da quello in cui opera il filosofo

ermeneutico Gadamer, troviamo tra di essi dei fondamentali punti metodologici di

accordo.

Una delle metafore più felici che Quine utilizza nella sua opera è quella del “mito del

museo”: ponendosi fortemente contro tutte le teorie semantiche che contemplino una

divisione significato/significante, Quine sostiene che «la semantica acritica è il mito di

un museo in cui i pezzi esposti sono i significati e le parole sono etichette. Passare da

una lingua all’altra equivale a cambiare le etichette». 16 Quine sostiene invece

“l’inscrutabilità del riferimento”, ovvero l’impossibilità di stabilire, sulla base degli

stimoli ricevuti, quale sia il riferimento di un termine – il che non significa che esista

un riferimento oggettivo che non possiamo scrutare, ma che non esiste proprio un

riferimento oggettivo. Questo implica che parlare sia sempre tradurre, e che quindi

traducendo da un linguaggio all’altro, si possano adottare manuali di traduzione

reciprocamente incompatibili eppure egualmente corretti. Sia per Gadamer che per

Quine, abbandonare il “mito del museo” significa «rinunciare ad una garanzia

[illusoria] di determinatezza»,17 infatti, nel momento in cui interpretiamo qualcosa, non

è possibile prescindere dalle nostre categorie e dalla nostra cultura (quello che Quine

chiama “linguaggio di sfondo”), che non saranno mai universali ed oggettive. La

validità di questo principio non si limita al linguaggio o al tentativo di comprendere la

cultura di un’altra popolazione, ma anche alle opere dell’uomo, e nello specifico alle

opere d’arte. Radnóti scrive:

L’atto della ricezione non può aspirare a una validità universale, ma invece deve sempre

essere consapevole dei limiti delle esperienze temporali, delle esperienze cioè che sono

effettive e possibili solo in un dato momento e tra le quali è quindi necessario stabilire un

consenso o almeno instaurare un dialogo. Di qui il carattere di “non finito” delle opere

d’arte nella modernità, il loro essere costantemente in preparazione, un carattere esteso

retroattivamente alle opere d’arte di periodi precedenti. […] Nemmeno in casi banalissimi

è possibile mettersi d’accordo semplicemente indicando qualcosa, a meno che non si

tratti di una ostentazione, di un gesto enfatico, che abbia già in sé implicita una qualche                                                                                                                16 W. V. O. Quine, Relatività Ontologica, in Paolo Casalegno et al., Filosofia del linguaggio, pp. 137-149. P.139. 17 L. Perissinotto, Le vie dell’interpretazione nella filosofia contemporanea, p. VIII.

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  30

interpretazione. Ora, dovrebbe essere altrettanto evidente che quando si descrive, si

mostra, si esegue e persino quando si riproduce (copiando, “falsificando”, citando o

traducendo) un’opera d’arte, se ne dà anche implicitamente una interpretazione.18

Queste considerazioni aprirono, dal punto di vista scientifico, un grande dibattito sul

problema del metodo attraverso il quale le questioni storiche, sociali e culturali

dovrebbero essere trattate, una volta appurato che la natura interpretativa della

conoscenza implica l’utilizzo di un metodo di analisi diverso da quello utilizzato delle

scienze naturali. Per citare uno degli esempi più celebri al proposito, l’antropologo

Clifford Geertz affermerà: «Ritenendo, insieme con Max Weber, che l’uomo è un

animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, credo che la

cultura consista in queste reti e che perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza

sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato».19

Le estreme conseguenze di quest’ordine di discorsi verranno raggiunte dal

decostruzionismo post-derridiano e dal pragmatismo linguistico.

Introducendo la figura di Derrida nel discorso sull’interpretazione, non si può non

aprire una parentesi sul sofferto rapporto che tra questo e Gadamer si è svolto nel

corso degli ultimi decenni: sebbene, infatti, alcuni punti fermi del decostruzionismo di

Derrida appaiano coerenti rispetto al discorso ermeneutico di Gadamer, come per

esempio il riferimento al prospettivismo nietzschiano; l’impossibilità di poter

interpretare in modo definitivo un qualsiasi testo e allo stesso tempo l’impossibilità di

conseguire la totalità delle sue interpretazioni; il respiro extra-linguistico delle due

discipline;20 l’assenza quasi totale di possibilità di dialogo caratterizzerà il rapporto tra

le due prospettive teoretiche, esplicitata pubblicamente in una conferenza tenutasi a

Parigi nel 1981 (e in diverse successive pubblicazioni dei due autori).

Non ripercorrerò l’interezza del dibattito tra i due, ma mi sembra interessante citare

                                                                                                               18 S. Radnóti, Il picnic letterario e la critica, p. 22. 19 C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987 p. 25. 20 «Ciò che chiamavo decostruzione contrariamente a un’opinione eccessivamente diffusa, non si interessava solamente ai testi, nel senso banale di scritti – dei libri- ma, estendendo il concetto di “testo”, a tutto ciò che è. Tutto è traccia nell’esperienza, estendendo il concetto di traccia al di là della grafia sulla carta, al di là del concetto classico di scrittura, ma anche aldilà del discorso, e del discorso umano». J. Derrida, Dialogo con Jacques Derrida (a cura di M. Bonazzi e R. Terzi) in Annuario Astufilo 1999-2000, Cuem, Milano 2002, in P. D’Alessandro – A. Potestio (a cura di), Su Jacques Derrida: scrittura filosofica e pratica di decostruzione, LED, Milano 2008, p.15.

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  31

una delle accuse che, a torto o a ragione, Derrida rivolge a Gadamer e alla teoria

ermeneutica in generale, e cioè quella di attuare una volontà di potenza di

comprensione sull’altro da sé, con conseguente annullamento di ogni diversità:

« There are thus two interpretations of interpretation, of structure, of sign, of play. The

one seeks to decipher, dreams of deciphering a truth or an origin which escapes play

and the order of the sign, and which lives the necessity of interpretation as an exile».21 In

questa prima via Derrida scorge la posizione di Gadamer, e il suo concepire la natura

ineludibile dell’interpretazione in modo negativo come uno dei grandi limiti della sua

teoria. «The other, which is nostructure, sign and play longer turned toward the origin,

affirms play and tries to pass beyond man and humanism, the name of man being the

name of that being who, throughout the history of metaphysics or of ontotheology—in

other words, throughout his entire history—has dreamed of full presence, the reassuring

foundation, the origin and the end of play».22 Questa seconda modalità ermeneutica,

quella propria della decostruzione, non ritiene di poter mai pervenire a un fondamento

rassicurante, riconoscendo lo stato di finitudine e limite del nostro punto di vista. Va

sottolineato come l’operazione di Derrida, sebbene radicale, non giunga mai a

giustificare una produzione illimitata di letture di fronte ad un testo,23 e penso sia a

questo che si riferisce Umberto Eco, quando ne I limiti dell’interpretazione sostiene che

«Derrida è più lucido del derridismo».24

Gli esiti delle teorie di Derrida avranno, infatti, conseguenze estremiste soprattutto su

alcuni pensatori (i cosiddetti “Yale critics”, i cui esponenti fondamentali sono Paul De

Man e J.Hillis Miller), e sarà contro tali posizioni che si scaglierà fortemente Eco.

                                                                                                               21 («Vi sono due interpretazioni dell’interpretazione, della struttura, del segno e del gioco. L’una cerca di decifrare, sogna di decifrare una verità o un’origine che sfugge al gioco e all’ordine del segno e vive come un esilio la necessità dell’interpretazione» tr.it. di G. Pozzi) J. Derrida, L'écriture et la différence, Éditions du Seuil, Paris 1967; tr.ing. di A. Bass, Structure, Sign and Play in the discourse of the Human Sciences, in Id. Writing and Difference, Taylor & Francis e-Library, 2005, p.369. 22 («L’altra [interpretazione], che non è più rivolta verso l’origine, afferma il gioco e tenta di passare al di là dell’uomo e dell’umanesimo, poiché il nome dell’uomo è il nome di quell’essere che, attraverso la storia della metafisica e dell’onto-teologia, cioè attraverso l’intera sua storia, ha sognato la presenza piena, il fondamento rassicurante, l’origine e la fine del gioco» tr.it. di G. Pozzi) Ivi., p.370. 23 In questo senso la lettura che propone Jonathan Culler è quella più pertinente rispetto alla posizione di Derrida: «La decostruzione […] sottolinea il fatto che il significato è delimitato dal contesto – una funzione delle relazioni all’interno di un testo o tra testi – ma che il contesto è in se stesso illimitato». J. Culler, In difesa della sovrinterpretazione, in U. Eco et al., Interpretazione e Sovrinterpretazione, Bompiani, Milano 2004. p. 147. 24 U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990, p. 38.

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  32

Come afferma Maurizio Ferraris nella sua Storia dell’ermeneutica,

[…] sprovvisti della vigilanza teoretica di Derrida, i decostruzionisti americani

congiungono la legittima affermazione secondo cui le metodiche non possono avere

alcuna pretesa di validità assoluta, e secondo cui la distinzione tra filosofia e letteratura è,

alla fine, insostenibile – con l’idea che la letteratura, e non il metodo, costituisca il

momento ultimo di validità di una ermeneutica. Dietro al rifiuto del metodo e alla

equiparazione di letteratura e filosofia non è difficile riconoscere il presupposto di una

singolare pretesa di validità della parola letteraria, sia rispetto al metodo, sia rispetto alla

filosofia.25

Posizioni similmente radicali sono state spesso erroneamente attribuite anche ad

Umberto Eco, il quale ha trascorso gran parte della sua carriera da saggista post-

Opera Aperta a cercare di ridefinire la sua posizione, profondamente lontana dagli

esiti appena citati. Penso che per concludere questo breve excursus sulle teorie

interpretative degli ultimi decenni, la produzione di Eco e il dibattito che ha provocato

(mi riferisco soprattutto alle conferenze tenute negli Stati Uniti nel 1990, poi raccolte

sotto il titolo di Interpretazione e Sovrinterpretazione) possano riassumere

coerentemente il punto a cui attualmente è giunto il dibattito ermeneutico, e gli spunti

che tale dibattito offre alla pratica curatoriale contemporanea.

2.2 Opera: aperta?

Quando si parla della fruizione dell’opera d’arte contemporanea, spesso si cita Opera

Aperta di Umberto Eco, in quanto testo cardine di quella tendenza a considerare il

lettore come la chiave della lettura di un testo, sintetizzabile nel celebre aforisma di

Georg Christoph Lichtenberg secondo cui «il testo è solo un picnic, dove l’autore

porta le parole e il lettore il senso».26

La questione però, per quanto riguarda la posizione di Eco, è in realtà ben più

complessa di così, ed è lo stesso autore ad affermare che quando scrisse Opera

                                                                                                               25 M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, p.269. 26 U. Eco, Interpretazione e storia, in U. Eco et al., Interpretazione e Sovrinterpretazione, p. 34.

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  33

Aperta

I miei lettori si fissarono in particolar modo sull’aspetto aperto dell’intera faccenda,

sottovalutando il fatto che la lettura aperta che stavo promuovendo era un’attività

suscitata da (e mirante all’interpretazione di) un’opera. In altre parole stavo studiando la

dialettica tra i diritti dei testi e i diritti dei loro interpreti. La mia impressione è che negli

ultimi decenni i diritti degli interpreti siano stati enfatizzati.27

La teoria di Eco vorrebbe infatti porsi come una terza via, tra l’intenzione dell’autore e

l’intenzione del lettore, ovvero l’intenzione del testo, per cui, riprendendo la metafora

del pic-nic, «le parole dell’autore costituiscono comunque un insieme di evidenze

piuttosto imbarazzante che il lettore non può passare sotto silenzio».28

Questo significa che, nella dinamica di generazione di un testo e nella sua possibilità

di suscitare infinite interpretazioni, il testo stesso si pone come «oggetto e parametro

delle sue interpretazioni».29

Eco non rinnega la necessità di una cooperazione attiva tra fruitore ed autore al fine

della attuazione effettiva di un testo. Questo è infatti necessariamente

intessuto di spazi bianchi, di interstizi da riempire, e chi lo ha emesso prevedeva che essi

fossero riempiti e li ha lasciati bianchi per due ragioni. Anzitutto perché un testo è un

meccanismo pigro (o economico) che vive sul plusvalore di senso introdottovi dal

destinatario […] E in secondo luogo perché, via via che passa dalla funzione didascalica

a quella estetica, un testo vuole lasciare al lettore l’iniziativa interpretativa, anche se di

solito desidera essere interpretato con un margine sufficiente di univocità. Un testo vuole

che qualcuno lo aiuti a funzionare.30

Tuttavia, la natura di macchina presupposizionale31del testo convive con il suo essere

costituito secondo la strategia dell’autore, che, nel momento in cui scrive, tiene bene

in mente le reazioni cognitive di quello che Eco definisce il “Lettore Modello”, ovvero

                                                                                                               27 Ivi., p. 33. 28 Ivi., p. 34. 29 U. Eco, I limiti dell’interpretazione, p. 11. 30 U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979 (ed. del 1988), p. 52. 31 «il testo è una macchina presupposizionale che stimola il lettore ad attualizzare presupposizioni, ovvero il lettore tramite un’attività inferenziale attualizza uno o più dei percorsi interpretativi possibili del testo stesso». Ivi., p. 51.

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  34

una figura «capace di cooperare all’attualizzazione testuale come egli, l’autore,

pensava, e di muoversi interpretativamente così come egli si è mosso

generativamente». 32 (allo stesso modo il lettore empirico formulerà un’ipotesi

interpretativa di “Autore Modello”, deducendola dai dati offerti dalla strategia testuale).

Sostanzialmente, il testo è «la strategia che costituisce l’universo delle sue

interpretazioni - se non “legittime”- legittimabili»,33 il che significa che «dire che un

testo virtualmente non ha limiti non significa che ogni atto interpretativo possa avere

un esito felice».34

L’argomentazione più convincente che Eco propone la prima volta che teorizza “i

limiti dell’interpretazione”, nell’omonimo saggio del 1979, è la stessa che presenterà

in Interpretaizone e Sovrinterpretazione, insieme di conferenze tenute negli Stati Uniti

nel 1990, nelle quali furono chiamati ad intervenire anche Richard Rorty e Jonathan

Culler, ovvero il fatto che se è vero che non c’è un modo per accertare quali

interpretazioni siano le migliori, c'è almeno il modo di capire quali sono le peggiori.

L’esempio che Eco propone ne I limiti dell’interpretazione è il seguente:

Supponiamo che ci sia una teoria che asserisce che ogni interpretazione di un testo ne è

una misinterpretazione. Supponiamo che ci siano due testi Alfa e Beta, e che Alfa sia

proposto a un lettore affinché lo fraintenda ed esprima questo suo fraintendimento nel

testo Sigma. Somministriamo Alfa, Beta e Sigma a un soggetto X normalmente

alfabetizzato. Istruiamo X dicendogli che ogni interpretazione è una misinterpretazione.

Chiediamogli ora se Sigma è una misinterpretazione di Alfa oppure di Beta.

Ora supponiamo che X dica che Sigma è una misinterpretazione di Alfa. Diremo che ha

ragione? Supponiamo invece che X dica che Sigma è una misinterpretazione di Beta.

Diremo che ha torto?35

In entrambi i casi il testo originale verrebbe utilizzato come parametro per definire la

misinterpretazione corretta o errata, ed è lo stesso motivo per cui se Jack lo

Squartatore ci dicesse che ha fatto quello che ha fatto sulla base della sua

interpretazione del Vangelo secondo Luca anche i critici reader-oriented sarebbero

                                                                                                               32 Ibidem. 33 Ivi., p.60 34 U. Eco, Interpretazione e storia, in U. Eco et al., Interpretazione e Sovrinterpretazione, p. 34. 35 U. Eco, I limiti dell’interpretazione, p. 36.

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  35

inclini a pensare che abbia letto San Luca in modo irragionevole (questo è l’esempio

che Eco riporta nella prima conferenza di Interpretazione e Sovrinterpretazione,

Interpretazione e Storia).

Secondo Eco, quando si oltrepassano i limiti delle interpretazioni “giustificabili” dal

testo, ciò che viene realizzato non è l’interpretazione, ma l’uso di quel testo:

«Se la catena delle interpretazioni può essere infinita, come Pierce ci ha dimostrato,

l’universo di discorso interviene a limitare il formato dell’enciclopedia. […] Ogni altra

decisione di usare liberamente un testo corrisponde alla decisione di allargare

l’universo di discorso. La dinamica della semiosi illimitata non lo vieta, anzi lo

incoraggia. Ma bisogna sapere se si vuole tenere in esercizio la semiosi o

interpretare un testo». 36 Nel primo caso abbiamo usato il testo come stimolo

immaginativo, nel secondo abbiamo seguito gli indizi dell’Autore Modello e generato

una lettura legittimata dai limiti del testo stesso.

A contrapporsi alla posizione di Eco stanno diverse teorie, che per semplificare

esemplificherò nelle figure di Richard Rorty e Gilles Deleuze, sebbene i loro pensieri

siano affatto diversi.

Nell’intervento di Rorty nelle conferenze di Interpretazione e Sovrinterpretazione,

intitolato Il progresso del pragmatista, l’autore riesce a riassumere in poche righe la

sua posizione, secondo la quale la teoria interpretativa di Eco non è affatto dissimile

da quella di Freud, Marx, o chi altro proponga schemi interpretativi:

Ognuna di queste letture supplementari fornisce semplicemente un contesto in più in cui

potere collocare il testo, una griglia ulteriore che gli si può applicare o un altro paradigma

a cui giustapporlo. Nessuna conoscenza ci dice qualcosa circa la natura dei testi, o della

lettura, e questo perché non c’è nessuna natura né degli uni né dell’altra.

Leggere testi significa leggerli alla luce di altri testi, persone, ossessioni, informazioni, o

quello che volete, e poi vedere che cosa succede. Ciò che succede può essere qualcosa

                                                                                                               36 Va specificato che se Rorty ed Eco hanno avuto occasioni di dialogo (ad esempio, mi rifaccio in questa sede all’’intervento di Rorty nelle conferenze di Interpretazione e Sovrinterpretazione, intitolato Il progresso del pragmatista), Rorty nomina Deleuze raramente (quasi sempre associandolo agli altri filosofi “postmodernisti” Foucault, Derrida e Lyotard), e di solito per criticarlo, mentre Deleuze addirittura accenna a Rorty solo un paio di volte, e solo in commenti malevolmente ironici. Per non parlare del rapporto Eco-Deleuze, pressoché inesistente. Le relazioni tra i tre che delineerò nel testo sono soprattutto basate, di conseguenza, su studi di altri, e non tratte dai testi degli stessi autori.

Page 35: Cipolla e Costellazione

  36

di troppo strano e idiosincratico per preoccuparsene […] e può essere così eccitante e

convincente da procurare l’illusione che finalmente si veda ciò di cui un testo tratta

realmente. Ma qualcosa stimola e convince in funzione delle esigenze e degli scopi di

coloro che si fanno stimolare e convincere. Così mi sembra più semplice eliminare la

distinzione tra uso e interpretazione e distinguere piuttosto tra gli usi che persone diverse

fanno per scopi diversi.37

Sebbene tale posizione, che si concentra sull’uso dei testi, proponendo di godere

della propria lettura senza preoccuparsi di cosa stia effettivamente succedendo in tale

processo, ricordi la posizione di Deleuze e Guattari in Millepiani, secondo i quali «non

si domanderà mai ciò che un libro vuoi dire, significato o significante, non si cercherà

nulla da capire in un libro, ci si chiederà con che cosa esso funziona, in relazione a

cosa lascia passare o meno delle intensità, entro quali molteplicità introduce e

trasforma la sua, con quali corpi senz'organi esso stesso fa convergere il suo»,38 in

verità c’è una contrapposizione insanabile tra i due.

Deleuze sostiene infatti il suo «Sperimentate! Non interpretate mai!»39 in un’ottica

fondamentalmente diversa dall’ “elogio dell’uso” rortiano: la differenza tra

sperimentazione e interpretazione è, per Deleuze, che la prima ha un carattere

deliberatamente creativo, costruttivo. Non ricerca un significato profondo

trascendente, piuttosto crea concatenamenti significanti (Deleuze parla di processi di

semiotizzazione, non dividendo tra forma e contenuto, ma tra tratti d’espressione e

tratti di contenuto, vedendoli come molecole in un meccanicismo caotico che

comprende sia l’universo fisico che quello intellettuale). Il compito della filosofia è,

secondo Deleuze, quello di creare concetti.40

Per quanto riguarda il rapporto tra Deleuze ed Eco, mi rifarò all’analisi di András

Bálint Kovács, il quale, a partire da una nota di Deleuze su Eco in Differenza e

                                                                                                               37 R. Rorty, Il progresso del pragmatista, in U. Eco et al., Interpretazione e Sovrinterpretazione, pp. 128-129. 38 G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, p.49. 39 G. Deleuze, Sulla superiorità della letteratura anglo-americana (Parte I), originariamente in Id. Conversazioni (con C. Parnet), Ombre Corte Editore, Verona 2007. 40 Per Rorty, al contrario, non esiste nemmeno qualcosa di definibile come “concetto”, esistono solo usi più o meno sistematici delle parole. Per approfondire i punti di contatto e di lontananza tra Deleuze e Rorty rimando a P. Patton, Redescriptive Philosophy: Deleuze and Rorty, in Deleuzian Concepts: Philosphy, Colonization, Politics, Stanford University Press, Stanford 2010.

Page 36: Cipolla e Costellazione

  37

Ripetizione 41 (uno dei pochi riferimenti ad Eco nell’opera di Deleuze), cerca di

ricorstruire il rapporto tra le diverse concezioni di “apertura” dell’opera d’arte ritrovabili

nei due pensatori.

Per Kovács la differenza fondamentale è quella tra l’idea di un’apertura strutturale e

un’apertura seriale: se la prima, attribuibile alle teorie di Eco, corrisponde con l’ultimo

tentativo di salvare la concezione classica della natura organica dell’opera d’arte,

riconciliandola soltanto con le spinte indeterministe crescenti nel ventesimo secolo

(l’opera d’arte, seppur aperta, viene completata dall’attività del fruitore); la seconda

coincide con il tentativo di liberare la nozione stessa di qualità estetica dalla

tradizionale necessità di organicità. «Eco claims that the modern work of art si

organic and open at the same time; Deleuze claims that modern work of art is not

organic, and therefore is open. Eco’s goal is to construct the id of an organic open

system in the arts; Deleuze’s goal is to construct the idea of a system that contains no

unity, only multiplicity».42

Detto ciò, va sottolineato come in Millepiani Deleuze e Guattari si scaglino contro ad

un’apertura totale dell’opera al caos: riferendosi agli interventi sonori di John Cage,

sostengono infatti che «si ha la pretesa di aprire la musica a tutti gli eventi, a tutte le

irruzioni, ma si finisce così per riprodurre l’intrico che impedisce ogni nuovo evento. Si

ha ormai una cassa di risonanza che sta facendo un buco nero. Un materiale troppo

ricco è un materiale che resta troppo “territorializzato”, sulle fonti di rumore, sulla

                                                                                                               41 La nota recita: «Eco shows that the “classical” work of art can be considered from different perspectives and can be judged according to different interpretations, but to not every interpretation or point of view corresponds an autonomous work contained in the chaos of a great work. The characteristic of the “modern” work of art appears to be the absence of a center of convergence». («Eco dimostra che l’opera d’arte "classica" può essere considerata da diversi punti di vista e può essere valutata in base a diverse interpretazioni, ma ad ogni interpretazione o punto di vista non corrisponde un’opera autonoma contenuta nel caos di una grande opera. La caratteristica dell’opera d’arte "moderna” sembra essere l'assenza di un centro di convergenza». tr.it. mia). G. Deleuze, Difference and Repetition, Columbia University Press, Columbia 1994, p. 69. E’ importante che Deleuze citi Eco soprattutto perché sostiene conclusioni a cui Eco in realtà non è mai arrivato (Eco non ha mai sostenuto l’assenza di un centro di convergenza, che anzi è il lettore – per Deleuze il lettore si dissolve nelle diverse possibili interpretazioni dell’opera d’arte). Kovács propone la lettura secondo cui Deleuze supererebbe, in senso postmoderno, la concezione modernista dell’opera d’arte che trova in Eco, facendone il suo “predecessore”. 42 («Eco afferma che l'opera d'arte “moderna” è organica e aperta al tempo stesso, Deleuze sostiene che l'opera d'arte “moderna” non è organico, e per questo è aperta. L’obiettivo di Eco è quello di costruire l'identità di un sistema organico e aperto nelle arti; L’obiettivo di Deleuze è quello di costruire l'idea di un sistema che non comprende unità, ma solo molteplicità». tr.it. mia) A. B. Kovács, Notes to a Footnote: The Open Work according to Eco and Deleuze in D. N. Rodowick, Afterimages of Gilles Deleuze’s Film Philosphy, University of Minnesota Press, Minneapolis 2012, pp. 31-32.

Page 37: Cipolla e Costellazione

  38

natura degli oggetti».43

Nella prefazione a Millepiani, Massimo Carboni specifica che «la dispersione del

senso per eccessiva “apertura” e per accumulo in un certo modo

“deresponsabilizzante” di materiali plastici o sonori, semplicemente, felicemente

“nomadica”, che crede di non incontrare alcuna resistenza, viene del tutto ricusata dai

suoi stessi supposti mentori».44

Comune a tutti è, insomma, l’idea che non tutto possa essere legittimamente fatto

con un testo (ma, mi verrebbe spontaneo aggiungere, quasi). Come si configura il

dialogo tra questa prospettiva e il mondo dell’arte contemporanea? E, nello specifico,

che ruolo ha il curatore, in quanto custode di uno spazio che spesso coincide con

quello dell’interpretazione che il fruitore fa dell’opera d’arte che si trova davanti?

2.3 Il paratesto dell’opera d’arte

L'importanza che quest'ordine di discorsi possiede in un’ottica curatoriale è indubbia.

In primo luogo il dispositivo curatoriale e l'istituzione museale coincidono con gli

apparati che controllano gli unici elementi in buona parte sorvegliabili di quello che,

mutuando una definizione coniata da Gérard Genette in letteratura, possiamo definire

il paratesto dell'opera d'arte, ovvero quel «certo numero di produzioni, esse stesse

verbali o non verbali […] delle quali non è sempre chiaro se debbano essere

considerate o meno come appartenenti ad esso [al testo], ma che comunque lo

contornano e lo prolungano, per presentarlo, appunto, nel senso corrente del termine,

ma anche nel suo senso più forte: per renderlo presente, per assicurare la sua

presenza nel mondo, la sua “ricezione” e il suo consumo».45

                                                                                                               43 G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, pp. 410-411. 44 M. Carboni, Lo stile è il libro, prefazione di G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, p.10. 45 G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Einaudi, Torino 1989, p. 3. E teniamo conto che nell’ambito di una qualsiasi mostra di museo tale paratesto non si limita a pannelli informativi e didascalie, ma anche ad una serie di altri fattori: «Il pubblico non valuta positivamente la visita al museo soltanto in base alla qualità dell’allestimento o al pregio di particolari mostre, poiché sono parimenti importanti, per rendere la visita piacevole, fattori quali le proposte del ristorante, la pulizia dei

Page 38: Cipolla e Costellazione

  39

Questo significa che il curatore detiene il potere e il dovere di verificare che l’ampio

contesto che accoglie l’opera d’arte sia il più possibile favorevole alla ricezione

“corretta” di questa, o almeno, come direbbe Eco, “meno sbagliata possibile”. A tale

proposito mi sembra illuminante una metafora di Giovanni Klaus Koenig

sull’architettura, che trovo coerentemente applicabile alla vigente situazione dell’arte

contemporanea, nonostante risalga ad un testo del 1970:

Se oggi sembra - e lo è - così difficile realizzare della buona architettura, può darsi che il

fatto non dipenda solo dall'ambiguità o dallo scarso valore dei messaggi archivi, ma

anche dipenda in qualche misura da un intoppo nella comunicazione. Può essere il

direttore che dirige male l'orchestra, come può essere che la sala del concerto sia sorda

o troppo rimbombante; ma una cosa è certa: che per sapere se il direttore e gli orchestrali

siano bravi oppure no, si debbono realizzare le migliori condizioni di ascolto. Solo così

facendo si può esser sicuri della possibile esattezza del nostro giudizio. Anche se nello

studio del processo comunicativo non si esaurisce il discorso critico, ciònondimeno esso

è condizione necessaria al corretto riconoscimento dell'opera d'arte, e dunque anche

dell'opera di architettura.46

“Realizzare le migliori condizioni di ascolto” significa riuscire a gestire con

competenza la zona di transazione47 tra l’opera e il fruitore, considerando che con

“fruitore” si intende un pubblico alquanto composito di persone, con conoscenze

pregresse, necessità culturali, esigenze estetiche e, di conseguenza, modalità

fruitive, diverse se non opposte tra loro.

Molte ipotesi in base alle quali i curatori avevano impostato per tanto tempo il loro lavoro

non trovavano alcun fondamento nella realtà: essi hanno scoperto, così, che non vi è un

pubblico unico e stabile, bensì miriardi di tipologie diverse di pubblico e che tale diversità

rispecchia l’insieme della società moderna. Come accogliere al meglio questi visitatori e

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         servizi igenici, la gamma di prodotti in vendita nel negozio» K. Schubert, Museo. Storia di un’idea, il Saggiatore, Milano 2010, p.92. 46 G. K. Koenig, Architettura e comunicazione, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1970, p.105. 47 «Questa frangia, in effetti, […] costituisce, tra il testo e ciò che ne è al di fuori, una zona non solo di transizione, ma di transazione: luogo privilegiato di una pragmatica e di una strategia, di un’azione sul pubblico, con il compito, più o meno ben compreso e realizzato, di far meglio accogliere il testo e di sviluppare una lettura più pertinente, agli oggi, si intende, dell’autore e dei suoi alleati». G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, p. 4.

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  40

conquistarne l’attenzione e la fedeltà: questa è oggi la scommessa più ardua per i

musei.48

In secondo luogo il curatore ha a sua volta il ruolo d’interprete, nel complesso gioco

dell’allestimento di una mostra, il che presuppone una serie di questioni non eludibili

per chi decide di praticare tale professione: Ivan Karp e Steven D. Levine, al

congresso Exhibiting Cultures. The Poetics and Politics of Museum Display,

affermano come premessa, con semplicità disarmante, che «ogni mostra promossa

da un museo, indipendentemente dal tema dichiarato, fa inevitabilmente riferimento a

presupposti e strumenti culturali propri dei singoli allestitori, che decidono quali

elementi sottolineare a scapito di altri, quali verità considerare e quali ignorare».49

Tale posizione viene ripresa nell’introduzione a Il Nuovo Museo. Origini e Percorsi, in

una serie di scomodi interrogativi, che potremmo considerare come l’applicazione alla

curatela di quei problemi che da molti anni vengono studiati in ambito ermeneutico:

Ma se gli allestimenti scelti per essere posti al servizio della rappresentazione

discendono sempre da un’interpretazione, e ogni interpretazione è necessariamente di

parte, dove si colloca il discrimine tra parzialità e arbitrarietà? Chi assume su di sé

l’autorità di definire i criteri e di interpretare? Ovvero: chi decide che cosa esporre e in

che modo farlo?50

Massimiliano Gioni, in un recente articolo comparso sulla rivista The Exhibitionist,

tenta di rispondere a queste domande applicando alla curatela la posizione di Eco (il

titolo stesso dell’articolo è The limits of interpretation), secondo cui «i limiti

dell’interpretazione corrispondono ai diritti del testo»51, concentrandosi anche sulla

spinosa questione del rapporto tra il ruolo dell’artista e quello del curatore:

I like to think of the curator as being an interpreter; a model reader, at most an editor, but

not an author. […] By this I don’t mean to devalue my profession or put a leash on my

                                                                                                               48 K. Schubert, Museo. Storia di un’idea, pp.96-97. 49 I. Karp, S. D. Levine, Exhibiting Cultures. The Poetics and Politics of Museum Display, Smithsonian Institute Press, Washington DC 1990, p.8. 50 C. Ribaldi, introduzione a Il Nuovo Museo. Origini e Percorsi (volume 1), a cura di Cecilia Ribaldi, prefazione di Daniele Jalla, il Saggiatore 2005, p.38. 51 U. Eco, I limiti dell’interpretazione, p.14.

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  41

ego. Acknowledging that curators are interpreters does not detract from their skill or

creativity, it just means acknowledging that unlike authors, who have total freedom,

curators must reckon with the artwork; their freedom must be defined and limited by the

work or works they are dealing with in their practice.52

In un’opera d’arte, secondo le parole di Gioni, c’è una certa quantità di spazio, che

può contenere letture molteplici e diverse tra loro, anche inaspettate. Il lavoro del

curatore deve fermarsi quando la sua voce rischia di strozzare quella dell’opera

d’arte.

Ma secondo quali modalità è possibile applicare tale principio se anche nel momento

della semplice scelta delle opere sta un tipo di interpretazione forte?

Secondo Carol Duncan «Ciò che vediamo e non vediamo nei nostri più prestigiosi

musei d’arte – in quali termini e in base a quale autorità lo vediamo o non lo vediamo

– pone in definitiva il problema più ampio di chi costituisca la comunità e di chi debba

esercitare il potere di definirne l’identità».53

La questione dell’approccio che la pratica curatoriale dovrebbe tenere, in tale

contesto, mi sembra dialogare profondamente con una domanda che era stata posta

anche da Susan Sontag, anche se rivolta alla critica: «What kind of criticism, of

commentary on the arts, is desirable today? For I am not saying that works of art are

ineffable, that they cannot be described or paraphrased. They can be. The question is

how. What would criticism look like that would serve the work of art, not usurp its

place»?54 Il ruolo del curatore è quello di un prudente traduttore, o quello di un

interprete che “aggiunge” qualcosa all’opera che propone? E c’è veramente

differenza tra l’una o l’altra posizione?

                                                                                                               52 («Mi piace pensare al curatore come ad un interprete, un lettore modello, al massimo un editore, ma non un autore. [...] Con questo non intendo sminuire la mia professione o mettere un guinzaglio al mio ego. Riconoscere che i curatori sono interpreti non toglie loro abilità e creatività, significa solo riconoscere che a differenza degli autori, che hanno totale libertà, i curatori devono fare i conti con l'opera d'arte; la loro libertà deve essere definita e limitata dall’opera o le opere con cui hanno a che fare nella loro pratica». tr.it. mia) M. Gioni, The Limits of Interpretation, in «The Exhibitionist» n. 4, Achive Books, June 2011, pp. 18-19. 53 C. Duncan, I musei d’arte e i riti di cittadinanza, in Il Nuovo Museo. Origini e Percorsi (volume 1), a cura di Cecilia Ribaldi, prefazione di Daniele Jalla, il Saggiatore, Milano 2005, p. 170. 54 «Che tipo di critica, di commento sulle arti, è auspicabile oggi? Perché non sto dicendo che le opere d'arte sono ineffabili, che non possono essere descritte o parafrasate. Possono esserlo. Il problema è come. Come dovrebbe essere una critica che serva all'opera d'arte, che non ne usurpi il posto?» tr.it. mia) ) S. Sontag, Against Interpretation, p.17.

Page 41: Cipolla e Costellazione

  42

Oggi anche la pratica curatoriale si pone necessariamente tali quesiti, trasferiti sul

rapporto tra l’interpretazione del curatore e l’interpretazione del fruitore; e da alcune

teorizzazioni più o meno recenti sembra che la risposta sia da ricercarsi proprio nella

figura del fruitore. Questo però, non inteso in modo radicalmente reader-oriented,

come il completamento libero e interpretivamente illimitato dell’opera, quanto più

come una figura emancipata, critica, in grado di determinare da sé quello che serve

all’opera per essere completata, sulla base di una consapevolezza teoretica delle

possibilità ermeneutiche che l’opera comprende: «autoanalisi e autocritica sono oggi

parte integrante della pratica museale ed è presumibile che condizionino in pari

misura l’atteggiamento del visitatore. Sarebbe ingenuo aspettarsi passivamente una

rappresentazione senza macchia e imparziale, e oggi il visitatore attivo, critico, non è

più un’eccezione occasionale bensì la norma».55

Spesso il supporto di tecnologie all’avanguardia è considerato la chiave di volta per

risolvere quest’ordine di problemi, ma anche quello solo nell’ottica di una precedente

responsabilizzazione del fruitore. Cito dallo stesso passo:

Per quanto riguarda le differenze che esistono tra i visitatori, nuove tecnologie avanzate

consentiranno ai musei di soddisfare più facilmente le numerose richieste, mettendoli in

grado di valutare precisamente le informazioni a seconda delle specifiche necessità. Il

museo non dovrà più accontentarsi di un pannello appeso alla parete, correndo il rischio

di usare un tono troppo paternalistico e semplificatorio oppure di stordire i visitatori: ora è

possibile mettere a loro disposizione una serie di strumenti su più livelli diversi. Sarà il

visitatore a selezionare il livello che gli sembra più adeguato, dall’informazione più

semplice a un’analisi approfondita dell’oggetto che gli interessa.56

Quale che sia la soluzione prospettata e le modalità per raggiungerla, l’attività

curatoriale si trova di fronte ad un momento storico in cui «è diventato virtualmente

impossibile trattare l’autore e il testo con ingenuità ermeneutica, ignorando decenni di

studi teorici. Non è più possibile ritornare all’utopia dell’oggettività testuale».57

E, se è vero che la comunicazione del testo implica necessariamente l’interazione

con il lettore, «fa grande differenza se il lettore che partecipa a tale interazione – e,                                                                                                                55 K. Schubert, Museo. Storia di un’idea, p.177 56 Ivi., p.184 57 S. Radnóti, Il picnic letterario e la critica, p. 13.

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  43

ovviamente, l’autore che anticipa un certo tipo di lettore – è interessato a espandere

la multivalenza referenziale fino al totale arbitrio oppure a ottimizzare (magari

diminuendola) la produttività della lettura».58

Già Pierre Gaudibert, negli anni Sessanta, affermava, in uno dei paragrafi conclusivi

di Azione Culturale, che andasse fatta una scelta del pubblico, bersaglio “potenziale”

dell’azione culturale, e che l’obiettivo del dispositivo culturale dovesse essere «non

più l’integrazione dell’individuo al sistema, ma l’intensificazione della sua capacità di

trasformarlo».59 Fornire al fruitore i mezzi necessari per diventare ermeneuticamente

indipendente sembra la strategia curatoriale da seguire per fronteggiare l’impossibilità

di una lettura univoca e “corretta” dell’opera d’arte. Questo in un’ottica che presta

nuova attenzione anche all’autore, cercando di raggiungere un nuovo equilibrio tra le

diverse figure coinvolte nella fruizione dell’opera d’arte:

…Il rinnovato interesse per l’intenzione dell’autore e/o dell’opera, lo sforzo di riprodurre la

domanda nascosta all’interno dell’opera e i relativi cambiamenti nel campo di forza creato

dal dialogo fra il libro e il suo lettore sono funzioni dell’autolimitarsi del lettore nell’atto

della ricezione, autolimitarsi che è oggetto di una sua libera scelta, motivata dai bisogni

culturali del lettore e dagli abiti di lettura che informano la cultura di quel periodo storico.

Per metterla nei termini di Lichtenberg: pur potendo portare noi una o due cose (vino,

fiori, cioè a dire: autorizzazione e atteggiamento estetico), ci troviamo ad andare a un

banchetto e non a un picnic.60

Concludo il capitolo anticipando la posizione di Carolyn Christov-Bakargiev

sull’argomento:

Yet, to make an exhibition into a meaningful experience for the audience is complicated.

There is never one, homogeneous audience in a given place at a given time. There are

many: the more cultured and aware of so-called “high art,” the people who by chance

enter into the exhibition as flâneurs, those who think art is the only space left for activism,

the local art world, the international or global or transnational art “tribe,” the many art

                                                                                                               58 Ibid. 59 P. Gaudibert, Azione culturale: integrazione e/o sovversione, Feltrinelli, Milano 1973, p.137. 60 S. Radnóti, Il picnic letterario e la critica, p. 13.

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  44

worlds who will become aware of the exhibition only indirectly, the people who are

suspicious of art, people from different communities and cultural backgrounds, people

with widely different notions of quality. Therefore, an exhibition may be conceived as a

network of many exhibitions, each shifting continuously between forefront and

background, some visible, some invisible, some only visible many years after the event.61

                                                                                                               61 C. Christov-Bakargiev, Letter to a friend, (notebook n. 003) in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Buch der Bücher / The Book of Books, catalogo 1/3 di dOCUMENTA(13), Hatje Cantz, Ostfildern 2012, p.75.

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3. L’esempio di dOCUMENTA(13)

In questo capitolo prenderò in considerazione la recente tredicesima edizione di

documenta, approfondendo, nell’ultimo sottocapitolo, la sezione chiamata “The

Brain”. Il caso di dOCUMENTA(13), è interessante per il suo proporre un esempio

pratico di soluzione sperimentale ai problemi ermeneutici affrontati fino ad ora. Tale

soluzione viene applicata, inoltre, non solo alla mostra in generale, ma anche alla

“presentazione” delle stesse scelte curatoriali di Carolyn Kristov-Bakargiev, l’attività

della quale viene provvisoriamente “raccolta” nella rotonda del Fridericianum e

sintetizzata in una serie di “elementi notevoli” (oggetti, opere, fotografie, documenti)

della mostra e del suo concepimento. dOCUMENTA(13) non si presenta con un titolo,

una nozione riassuntiva, ma piuttosto con l’aggregazione di una serie di elementi che

creano uno spazio dinamico al posto di un concetto statico (simboleggiato anche da

“The Brain”). La posizione della Bakargiev dialoga strettamente con una modalità

operativa e un approccio epistemologico alla cultura ben precisi, riconducibili al

pensiero di diversi filosofi del secolo scorso, e sintetizzabili nella metafora della

costellazione di Walter Benjamin, su cui mi concentrerò nel primo sottocapitolo.

3.1 Costellazione

Riprendiamo per un attimo il pensiero del primo “teorico dell’interpretazione” che

abbiamo considerato nel capitolo precedente: sebbene per Nietzsche non esista una

vera e propria via d’uscita dal prospettivismo1, il filosofo, in Genealogia della morale,

propone una via debole2 per affrontare “propositivamente” l’impossibilità di sfuggire

                                                                                                               1 «Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un “conoscere” prospettico» F. Nietzsche, Genealogia della morale, p. 56. 2 Il termine debole, anche se storicamente inappropriato, mi sembra coerente da utilizzare in questa sede per l’atteggiamento che Nietzsche mette in atto. Anticipa inoltre una prospettiva che, nei pensatori di cui parlerò più avanti, entrerà più di diritto in stretto dialogo con il Pensiero Debole di Vattimo e Rovatti.

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  46

dalle infinite interpretazioni racchiuse necessariamente dal mondo, e questa via

coincide la comprensione che «quanti più affetti lasciamo parlare sopra una

determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per

questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra

“oggettività”».3

Sia il termine “concetto” che il termine “oggettività” sono da considerare con cautela,

ricordando la radicalità della posizione nietzschiana, ma questa piccola apertura ad

una completezza, impossibile da raggiungere realmente, ma legittima da ricercare,

introduce una modalità di approccio alla cultura che dialoga con diversi pensatori

nella filosofia del resto del secolo.

La sistematizzazione più completa e coerente di tale metodologia operativa è stata

senza dubbio stata fatta da Walter Benjamin, con la teorizzazione della metafora

della costellazione: per Benjamin, infatti, l’«oggetto della filosofia sono le idee», ma

esse non sono rappresentabili direttamente, «le idee non si rappresentano in se

stesse, ma solo e unicamente in una coordinazione di elementi reali nel concetto. E

cioè come “configurazione” o costellazione di questi elementi».4

Tale concezione verrà applicata da Benjamin alla filosofia della storia, come modello

alternativo a quello del progresso: la nozione di progresso, per Benjamin, appare

insoddisfacente per il suo proporre un’evoluzione lineare verso uno scopo inevitabile.

L’immagine del progresso è una linea retta, presuppone gli eventi storici in sequenza

e non in interrelazione tra loro. Essa va sostituita con un’immagine che invece

rappresenti quello che accade quando lo storico pone una serie di apparentemente

lontani eventi storici secondo una congiunzione significante, e tale immagine è la

costellazione, che unisce eventi passati tra loro, o unisce eventi passati con eventi

presenti, e «its formation [della costellazione] stimulates a flash of recognition, a

quantum leap in historical understanding».5 Il concetto di progresso corrisponde alla

storiografia storicistica, il cui «procedimento è quello dell’addizione; essa fornisce una

                                                                                                               3 F. Nietzsche, Genealogia della morale, p. 56. 4 W. Benjamin, Introduzione metodologica a Il dramma barocco tedesco, Einaudi, 1980, p. 4. 5 («La sua formazione [della costellazione] stimola un lampo di riconoscimento, un salto di qualità nella comprensione storica». tr.it. mia) C. Rollason, The Passageways of Paris: Walter Benjamin's Arcades Project and Contemporary Cultural Debate in the West.

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massa di fatti per riempire il tempo omogeneo e vuoto»,6mentre il concetto di

costellazione è il principio operativo della storiografia materialistica:

Alla base della storiografia materialistica è […] un principio costruttivo. Al pensiero non

appartiene solo il movimento delle idee, ma anche il loro arresto. Quando il pensiero si

arresta di colpo in una costellazione carica di tensioni, le impartisce un urto per cui esso

si cristallizza in una monade. Il materialista storico affronta un oggetto storico unicamente

e solo dove esso gli si presenta come monade.7

La creazione di una costellazione è un “principio costruttivo”, in quanto operazione

interpretativa. Sebbene la posizione di Benjamin sul concetto di traduzione sia

piuttosto complessa, e faccia uso di termini fondamentalmente lontani da quelli che

abbiamo definito in precedenza,8 mi sembra importante sottolineare come Benjamin

consideri la traduzione «un genere particolare, quasi intermedio tra la creazione

letteraria e la speculazione filosofica […] la traduzione sta, nell’originale, come il

mosaico al quadro (o allo schizzo) che riproduce».9

Uno dei filosofi che riprenderanno il concetto di costellazione è Theodor Adorno.

Un paragrafo centrale della Dialettica Negativa è infatti dedicato alla definizione di

tale immagine, che si contrappone alla conoscenza concettuale delle cose per il suo

mostrare l’oggetto attraverso una pluralità di significati: «Come costellazione il

pensiero teorico accerchia il concetto, che desidera aprire, sperando che scatti come

le serrature di cassaforti ben custodite: non per mezzo di una sola chiave o di un solo

numero, ma di una combinazione di numeri».10

Un tratto fondamentale dell’operazione adorniana è il mettere in luce una

caratteristica molto specifica di questa modalità di approccio ai concetti, ovvero il fatto

                                                                                                               6 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Angelus Novus a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1995, p.85 7 Ibid. 8 Benjamin segue un filone di pensiero secondo il quale la Verità si nasconde nella lingua. In quest’ottica la traduzione è per lui quella forma intermedia tra l’arte e la filosofia che non essendo rivolta ad un contenuto determinato è libera di rivolgersi alla pura lingua invece che al significato. In tale concezione affiorano elementi mistici e teologici che esulano dall’approccio metodologico che mi interessa trattare, ma per un approfondimento rimando a R. Solmi, introduzione a W.Benjamin, Angelus Novus, saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1995. 9 R. Solmi, introduzione a W.Benjamin, Angelus Novus, saggi e frammenti, p. XIII. 10 T. Adorno, Dialettica Negativa, Einaudi, Torino 2004, p.148.

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che essi possano mostrare l’oggetto come esso veramente è solo in virtù del loro

lasciarlo nella sua alterità, un’alterità mai completamente arrivabile, per l’impossibilità

di eludere le nostre personali categorie di pensiero.

Tale caratteristica, oltre a richiamare subito l’impossibilità del superamento completo

del prospettivismo nietzschiano (presente, da Quine in poi, nella gran parte dei

pensatori presentati nel secondo capitolo), inserisce di diritto la prospettiva di

costellazione entro quel «senso di percorrenza»11 che è il pensiero debole, di cui

proprio la concezione della storia di Benjamin viene considerata uno dei precedenti

teoretici.

Per arrivare ad un ambito più contemporaneo, e più vicino alla prospettiva curatoriale

che vorrei trattare nel prossimo sottocapitolo, penso sia pertinente citare la posizione

teorica di Nicholas Bourriaud, che in Radicant propone di cercare un’alternativa

all’immagine del rizoma (come il titolo suggerisce), e allo stesso tempo (in

Altermodern) un’alternativa al radicale relativismo postmoderno, che mettendo

sempre tutto nella condizione di “post-qualcosa” blocca in partenza qualsiasi nuova

arma intellettuale. La proposta di Bourriaud è di contrapporre al concetto di

postmodernità quello di altermodernità:

Altermodernism can be defined as that moment when it became possible for us to

produce something that made sense starting from an assumed heterochrony, that is, from

a vision of human history as constituted of multiple temporalities, disdaining the nostalgia

for the avant-garde and indeed for any era – a positive vision of chaos and complexity. It

is neither a petrified kind of time advancing in loops (postmodernism) nor a linear vision of

history (modernism), but a positive experience of disorientation through an art-form

exploring all dimensions of the present, tracing lines in all directions of time and space.12

                                                                                                               11 G.Vattimo – P.A. Rovatti (a cura di), Premessa a Il Pensiero Debole, Feltrinelli, Milano 1983 (ed. del 20120), p.10. 12 («L’altermodernità può essere definita come il momento in cui è stato possibile produrre qualcosa che avesse senso a partire da un’assunta eterocronia, vale a dire, da una visione della storia umana come composta di temporalità multiple, disdegnando la nostalgia per l'avanguardia e, in effetti, per ogni epoca – una visione positiva del caos e della complessità. Non è né una sorta di tempo pietrificato che scorre in loop (postmodernismo), né una visione lineare della storia (modernismo), ma una positiva esperienza di disorientamento attraverso una forma d'arte che esplori tutte le dimensioni del presente, tracciando linee in tutte le direzioni del tempo e spazio». tr.it. mia). F.Bourriaud, Altermodern, Tate, London 2009, p.3.

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Questa versione “positiva” della complessità e del caos trova la sua

sistematizzazione in una figura vicina alla costellazione intesa in senso benjaminiano,

e cioè l’arcipelago13:

An archipelago is an example of the relationship between the one and the many. It is an

abstract entity; its unity proceeds from a decision without which nothing would be signified

save a scattering of islands united by no common name. Our civilisation, which bears the

imprints of a multicultural explosion and the proliferation of cultural strata, resembles a

structurless constellation, awaiting transformation into an archipelago.14

3.2 dOCUMENTA (13)

Il concetto di costellazione, raggruppamento significante di un insieme di frammenti

diversi, è stato, secondo molti, applicato da Benjamin all’interezza della sua

produzione teorica, tant’è che il suo obiettivo, prima di morire, era quello di “costruire”

un testo composto solo ed esclusivamente di citazioni. Ne resta a testimonianza

l’opera incompleta, pubblicata postuma, Passagenarbeit, meglio conosciuta come

The Arcades Project (in italiano: I “passages” di Parigi), in cui Benjamin «practiced

the “shock montage” of the wealth of quotations he assembled until the early 1930s.

                                                                                                               13 Il termine è ripreso dagli studi di Éduard Glissant, il cui pensiero parte dalla storia e geografia delle Antille. Glissant parla del mescolamento di culture e linguaggi come tratto fondamentale dell’identità degli abitanti delle Antille, da cui la sistematizzazione del concetto di “creolizzazione” (il creolo è una lingua che si è formata dalla combinazione del francese dei colonizzatori e dall’africano degli schiavi), ovvero quella fusione culturale e linguistica presente ormai a livello globale. L’esempio più felice di tale processo è, per Glissant, quello dell’arcipelago delle Antille, formato da gruppi di isole senza un centro, che convivono con culture differenti. «Archipelic thought makes it possible to say that neither each person’s identity nor the collective identity are fixed and established once and for all. I can change through exchange with the other, withouth losing or diluiting my sense of self. And it is archipelic thought that teaches us this». («Il pensiero “ad arcipelago” permette di dire che né l'identità di ogni persona né l'identità collettiva sono fisse e stabilite una volta per tutte. Io posso cambiare attraverso lo scambio con l’altro, senza perdere o diluire il “senso” di me stesso. Ed è il pensiero “ad arcipelago” che ci insegna a fare questo». tr.it. mia). Questa citazione di Glissant viene presentata nel notebook N°038, in cui Hans Urlich Obrist parla dell’influenza che il pensiero di Glissant ha avuto sulla sua pratica curatoriale. in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Buch der Bücher / The Book of Books, p. 275. 14 («Un arcipelago è un esempio del rapporto tra l'uno e il molteplice. Si tratta di un'entità astratta, la sua unità procede da una decisione senza la quale nulla avrebbe un significato, eccetto una manciata di isole unite da nessun nome comune. La nostra civiltà, che porta le impronte di un’esplosione multiculturale e la proliferazione degli strati culturali, assomiglia a una costellazione structurless, in attesa di trasformazione in un arcipelago ») F.Bourriaud, Altermodern, p.2.

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Taking inspiration from Surrealism’s intuitive aesthetic methods of appropriating the

world of dead things, he undertook to integrate the principle of the montage as an

epistemological technique. […] Problems are constellated in groups by means of

pictograms, thus reducing complexity and pictorially configuring temporal and causal

interrelationships».15

Non a caso questa descrizione di Nikola Doll, di cui penso vada sottolineata la

definizione di montaggio come tecnica epistemologica, precede il contenuto di uno

dei notebooks pubblicati a partire dal 2011 da dOCUMENTA(13) (tale notebook è

dedicato specificamente a Passagenarbeit di Benjamin), e non è l’unica occasione in

cui i notebooks prendono in esame il pensiero del filosofo, la cui influenza sulla

pratica curatoriale di Carolyn Christov-Bakargiev penso sia determinante.

Forse sarebbe interessante partire proprio da questo singolare progetto

editoriale,16che ha accompagnato il completamento della mostra negli ultimi due anni,

per descrivere in che modo dOCUMENTA(13) si pone rispetto agli impasse

ermeneutici e curatoriali descritti fino ad ora, e alle soluzioni ritrovabili nella

prospettiva metodologica del filone benjaminiano.

                                                                                                               15 («praticò il “montaggio shock" del tesoro di citazioni che aveva assemblato fino ai primi anni Trenta. Prendendo ispirazione dai metodi estetici intuitivi dei Surrealisti, attraverso i quali si appropriavano del mondo delle cose morte, Benjamin cominciò ad utilizzare il principio del montaggio come tecnica epistemologica. [...] I problemi vengono raggruppati in costellazioni (constellati in gruppi) attraverso l’utilizzo di pittogrammi, in modo da ridurre la complessità e pittoricamente configurare interrelazioni temporali e causali». tr.it. mia), N. Doll, Walter Benjamin Paris Arcades (notebook n. 0045) in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Buch der Bücher / The Book of Books, p.316. 16 In questo testo mi concentrerò soprattutto sugli elementi di tale progetto editoriale che si richiamano alle posizioni di Benjamin e degli altri pensatori della costellazione. Per approfondire le linee generali che presenterò in questo capitolo rimando a M. Taussig, Fieldwork Notebooks, (notebook n. 001), Ivi., p. 60-65.

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Fig.2. Frammenti dai taccuini di Walter Benjamin, dal notebook n. 0045.(Photo credit: dOCUMENTA(13))

In primo luogo, la scelta di pubblicare 100 piccoli libretti, che presentano il pensiero di

altrettante figure tra filosofi, artisti, scienziati, antropologi (e altri), coincide con la

proposta di affidarsi ad una polifonia 17 di voci diverse per “presentare” questa

edizione di documenta, posizione che corrisponde alla struttura immaginata per la

mostra stessa, secondo le parole di Carolyn Christov-Bakargiev, in una lettera

pubblicata nell’ottobre del 2010 e poi diventata il notebook n. 003:

In counterpoint to the apparent heterogeneity of the space of congregation that we will set

up together, the platform of enunciations that might take place in dOCUMENTA(13)

constitutes a locus of experimentation of a collective and anonymous murmur—a

celebration and a place of enactment of subjectivity that is both singular and plural, that

resists disembodiment and uses fragmentation of the self against that same

                                                                                                               17 Tornerà in mente a questo proposito l’affermazione nietzschiana «quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra “oggettività”» (cfr. nota n.3 di questo capitolo)

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fragmentation, through the potentiality of provisional aggregations.18

Esiste una profonda vicinanza tra tale concezione, legata ad uno scarto continuo tra

la frammentarietà e la lotta alla frammentarietà, mediante la possibilità potenziale di

aggregazioni provvisorie, e quel pensiero “ad arcipelago” che preserva l’individualità

degli elementi pur consentendone il raggruppamento.

Tali elementi, nella prospettiva “archeologica” adottata dalla Bakargiev, possono

provenire dalle epoche e contesti più disparati, in virtù del loro essere riuniti dallo

sguardo di un interprete, uno storyteller.19 Le parole di Benjamin sull’attività del

materialista storico 20 riecheggiano nella spiegazione che la Bakargiev fa di tale

prospettiva:

Unique events, echoed through time by similar events, can […] be connected by a

storyteller – they become related. As in a dream, they occur synchronically and thus enter

into a form of kairological time, where meaning condenses and the instant expands and

thickens into consciousness. Authoritarian language is onedirectional, it imposes itself.

We try to create more equal forms of exchange and conversation, but even those are

fraught today, in our times of social networks.21

Il vantaggio del “narratore”,22rispetto agli altri tipi d’interpreti, è che la parzialità della

                                                                                                               18 («In contrappunto all’apparente eterogeneità dello spazio di aggregazione che configureremo insieme, la piattaforma enunciativa che potrebbe avere luogo a dOCUMENTA(13) costituisce il luogo di sperimentazione di mormorio un collettivo e anonimo, una celebrazione e un luogo di promulgazione della soggettività che è sia singolare e plurale, che resiste disincarnazione e utilizza la frammentazione del sé contro quella stessa frammentazione, attraverso la potenzialità di aggregazioni provvisorie». tr.it. mia), C. Christov-Bakargiev, Letter to a friend, (notebook n. 003) in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Buch der Bücher / The Book of Books, p.79. 19 In questo caso specifico, con “elementi” mi riferisco ai pensatori chiamati a presentare un notebook a testa, ma la posizione appena descritta è applicabile all’intera costruzione di dOCUMENTA(13). 20 (cfr. nota n. 7 di questo capitolo) 21 («Eventi unici, che fanno eco nel tempo con eventi simili, possono [...] venire collegati da un narratore – diventano legati. Come in un sogno, accadono nello stesso momento e perciò entrano in una forma di tempo “kairologico” [momentaneo] dove il significato si condensa e l'istante si espande e si addensa nella coscienza. Il linguaggio autoritario è ad una direzione, impone se stesso. Cerchiamo di creare forme più eque di scambio e di conversazione, ma anche quelli sono pieni oggi, nel nostro tempo di social network». tr.it. mia), C. Christov-Bakargiev, Letter to a friend, (notebook n. 003), in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Buch der Bücher / The Book of Books, p. 79. 22 L’importanza che per la Bakargiev ha la figura del “narratore” si ricollega anche all’omonimo testo di Walter Benjamin, e alla grande cesura tra l’epoca della narrazione e del racconto e l’epoca dell’informazione standardizzata. In diversi passi la curatrice fa riferimento al fatto che siamo nell’epoca dell’informazione, che non fa altro che comunicare se stessa e che va aggirata. Anche in questo senso dOCUMENTA(13) è priva di un concetto dichiarato, così come è privo di un titolo definito il saggio della Bakargiev in Das Buch der

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sua prospettiva interpretativa è consapevole e dichiarata. Continua la Bakargiev:

«Storytelling is also one-directional, but it openly declares itself to be an

interpretation, a negotiation of history, a possibility amongst many. It denies its own

factual authority by the very nature of its stated fiction».23

Per superare il dilemma sollevato da Quine, secondo il quale non esiste

un’interpretazione vera, poiché tutte le interpretazioni sono ugualmente valide, la

prospettiva risolutiva proposta dalla Bakargiev è acquisirne prima di tutto

consapevolezza, per poi lasciare aperta la propria interpretazione, necessariamente

parziale, ad aggiustamenti successivi (suoi e/o altrui). Afferma la curatrice:«Due to

the fact that there are many truths that are valid, one is constantly confronted with

unsolvable questions: thus it has become a choice between not making a choice, on

the one hand, not producing a concept, acting from a position of withdrawal; or, on

the other hand, making a choice that one knows will also be partially and inevitably

“wrong”».24

La modalità operativa attraverso la quale questo diventa attuabile coincide con la

ricerca di una forma alternativa a quella del “concetto”, posizione che approfondirò

passando di nuovo per i notebooks: la scelta di affidarsi alla forma editoriale del

taccuino è una presa di posizione specifica almeno quanto quella di lasciare la parola

a tanti contributi diversi: la natura dei taccuini è infatti, secondo quanto afferma Chus

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         Bücher / The Book of Books: The dance was very frenetic, lively, rattling, clanging, rolling, contorted, and lasted for a long time è una frase che la curatrice ha trovato sul web come descrizione ad un ballo slavo, il  Bamboule, su cui stava facendo delle ricerche dopo aver scoperto dell’esistenza di una sala da ballo nel riformatorio di Breitenau, negli anni Cinquanta. «the German sentence inspired by descriptions of the Bamboule on the web, was my attempt to create a phrase that was both narrative and imaginative (through which one can imagine a sequence of choreographed gestures and movements), a phrase that would indicate a number of procedures, as opposed to any theory or a concept. It was intended as a phrase that indeed might escape memorizing and the reduction to those common places that characterize language today». («La frase tedesca ispirata dalle descrizioni del Bamboule sul web, è stata il mio tentativo di creare una frase che fosse sia narrativa che immaginativa (attraverso il quale si possa immaginare una sequenza di gesti e movimenti coreografati), una frase che possa indicare un certo numero di procedure, al contrario di una teoria o di un concetto. Essa era intesa come una frase che in effetti potesse sfuggire alla memorizzazione e alla riduzione a quei luoghi comuni che caratterizzano il linguaggio di oggi». tr.it. mia) C. Christov-Bakargiev, Letter to a friend, (notebook n. 003), in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Buch der Bücher / The Book of Books, p. 77. 23 («Anche raccontare storie è ad una direzione, ma dichiara apertamente di essere una interpretazione, una trattativa della storia, una possibilità tra le tante. Esso nega la propria autorità di fatto per la natura stessa della sua dichiarata finzione». tr.it. mia), Ivi., p. 79. 24 («A causa del fatto che ci sono più verità valide, ci trova costantemente a confrontarsi con domande insolubili: così è diventata una scelta tra non fare una scelta, da un lato, non produrre un concettol agendo da una posizione di ritiro; oppure, al contrario, fare una scelta che si sa sarà anche parzialmente e inevitabilmente "sbagliata"». tr.it. mia) Ivi., p.10

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Martinez, curatrice e scrittrice a capo del gruppo di agenti di dOCUMENTA(13),

«unmannerly – or post-disciplinary […] they do not stand in a relation of weakness to

any discipline; they are just not yet at the service of illustrating an argument or

philosophical conclusion known in advance».25

Le “annotazioni” sono fatte sempre in una prospettiva di ricerca, non-conclusa, sono

comprese in uno spazio che non è ancora quello della critica, è piuttosto quello della

ricerca: «This choreography of publications is driven by the logic of the mind-at-work,

presenting and drawing scenarios that point outside the normative bounds of

academic text productions».26

La scelta di utilizzare una forma dichiaratamente frammentaria e inusualmente

aperta, tipica di una ricerca in-progress, in quello che è il catalogo ufficiale di

dOCUMENTA(13), si inserisce nella specifica concezione dei metodi di divulgazione

di questa edizione, che come accennavo si può sintetizzare nel rifiuto dell’utilizzo di

un “concetto”, di un titolo-tema, il quale viene sostituito da una costellazione di

pratiche e contributi diversi.27

In una conversazione con Nicola Setari, Chus Martinez spiega:

An exhibition without a concept is an exhibition without an overarching concept that

summarize or acts as an umbrella-notion for the whole. The absence of a concept names

the necessity of conceiving an exhibition with concepts (in plural), with notions and

                                                                                                               25 In Conversation with Chus Martinez, in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Logbuch / The Logbook, catalogo 2/3 di dOCUMENTA(13), Hatje Cantz, Ostfildern 2012, p.295. 26 Preface, in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Buch der Bücher / The Book of Books, p.14. 27 C’è un altro importante motivo, dietro alla scelta di trovare un’alternativa al “concetto”, spiega la Bakargiev: «La mia è un’intenzionale assenza di tema […] Perché viviamo in una fase in cui i concetti, i temi e i contenuti sono prodotti che vengono trasferiti ovunque nel mondo. Mi spiego: come c’è stata la rivoluzione industriale, così oggi stiamo vivendo la rivoluzione digitale. Gli operai del XIX secolo sono ora i lavoratori cognitivi, coloro che operano nel settore del cognitivismo capitalista, ovvero in tutti quei settori che fanno parte del sistema dell’informazione, sia essa un’informazione di tipo genetico, sia essa un’informazione nel sistema finanziario, che so, una transazione o un’acquisizione di valuta o di azioni. In tutti questi casi si verifica un trasferimento di contenuti. Non si trasferisce realmente valuta, ma delle informazioni matematiche, dei bit, e questo avviene nella sfera dei software, del wireless, del digitale, insomma, in tutti gli ambiti il motore della nostra economia oggi è la conoscenza, l’informazione». F.Fanelli, Carolyn Christov-Bakargiev: così è la mia documenta, in «Il Giornale dell’Arte» n. 321, giugno 2012.

Page 54: Cipolla e Costellazione

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system capable of embodying different logics in simultaneity with the objects and the

partecipants.28

Continua il suo intervento spiegando come il fatto che la maggior parte delle

esposizioni che consideriamo “intelligenti” ruoti intorno ad una tesi principale, ad un

tema, si inserisca totalmente all’interno della “cultura dell’affermazione (statement)” in

cui ci troviamo, nella quale siamo abituati a preannunciare ogni passo che facciamo,

a darne delle spiegazioni (rese adatte ad essere comunicate attraverso i media

tradizionali), forzando la separazione tra senso e comprensione. Questo significa

rendere il fruitore niente di più che un “buon lettore”, nel senso che dovrebbe

riconoscere la tesi presentata, capirla e ripeterla, condividerla.

Abbiamo già appurato l’anacronisticità di una convinzione di questo genere nei

capitoli precedenti, ciò che m’interessa sottolineare in questa sede è il fatto che la

provocatoria proposta dell’assenza di un tema principale, di un titolo, non risolve

l’aporìa ermeneutica con un’assenza di contenuto o con una risposta

nichilisticamente estetizzante, propone invece un atteggiamento polifonico,

propositivo e di ricerca, caratterizzato dal principio operativo della costellazione e

dello scetticismo (in contrapposizione al relativismo).

When Carolyn said today that this exhibition does not work with a thesis, she did not

mean that we are not taking positions, but that the viewers will discover a variety of

positions through a cacophony of propositions that take the form of what I call “a cognitive

surprise”. […] This is something very different from having a set of a priori assumptions

for the works to illustrate or the viewer to read.29

L’importanza del “prendere posizione” è sottolineato anche dalla stessa Bakargiev: in

conversazione con Tobias Haberl, che le chiede precisazioni sulla provocatoria scelta

del non-concetto, la curatrice si concentra sulla distinzione tra “relativismo” e

                                                                                                               28 In Conversation with Chus Martinez, in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Logbuch / The Logbook, p.293 29 («Quando Carolyn ha detto oggi che questa mostra non funziona con una tesi, non intendeva che non prendiamo posizioni, ma che gli spettatori scopriranno una varietà di posizioni attraverso una cacofonia di proposizioni, che assumono la forma di quello che io chiamo "una sorpresa cognitiva". [...] Si tratta di qualcosa di molto diverso da avere una serie di assunzioni a priori che le opere dovrebbero illustrare o lo spettatore leggere». tr.it. mia) Ibid.

Page 55: Cipolla e Costellazione

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“scetticismo”: parlare di “relativismo” oggi, sostiene Bakargiev, è irresponsabile,

perché «the passage from “philosophical relativism” to “moral relativism” is very short,

which means that with relativism you can make argouments that are absolutely

unethical. I am very careful, because I have quite strong principles and I don’t think

that skepticism is about not taking a position. In greek, sképsis means “research” ».30

Lo scettico è qualcuno in costante ricerca della verità, è l’opposto del relativista

perché la sua prospettiva è ottimista e costruttiva. Essere scettici implica una forte

presa di posizione, posizione che coincide, secondo Chus Martinez, con quella del

“forse”. In How a Tadpole Becomes a Frog, il saggio che presenta nel Book of Books,

Martinez spiega la relazione dello scetticismo moderno con l’interesse per la non-

trasparenza del linguaggio, la sua incapacità di compiere pienamente il ruolo di

espressione e comunicazione che da sempre le è stato assegnato. C’è sempre

ambiguità nel linguaggio, e

the exercise of accepting the riddle of ambiguity, the constant alteration of the relations

between matter and words, time and meaning, defines a research manner that calls for a

radical reconsideretion of the role of language, of straightforward conceptions of how

things interact, as well as the inventory of monologues produced by serious forms of

meaning. And this is how the “maybe” comes into play.31

Il “forse” viene considerato a sua volta un “non-concetto”, l’espressione linguistica di

un movimento, la modalità operativa sintomatica di una forma positiva di privazione

(la privazione della certezza). In questo senso, anche le annotazioni dei notebooks

non sono altro che «“maybe” texts».32

                                                                                                               30 In conversation with Carolyn Christov-Bakargiev, in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Logbuch / The Logbook, catalogo 2/3 di dOCUMENTA(13), Hatje Cantz, Ostfildern 2012, p.266. 31 («l'esercizio di accettare l'enigma dell’ambiguità, l'alterazione costante dei rapporti tra senso e parole, tempo e significato, definisce una modalità di ricerca che richiede una riconsiderazione radicale del ruolo del linguaggio, di concezioni lineari di come le cose interagiscono tra loro, nonché dell'inventario dei monologhi prodotti da forme serie di significato. E questo è come il "forse" entra in gioco». tr.it. mia) C. Martinez, How a Tardpole Becomes a Frog, in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Buch der Bücher / The Book of Books, p. 46. 32 F.Fanelli, Carolyn Christov-Bakargiev: Così è la mia documenta, in «Il Giornale dell’Arte».

Page 56: Cipolla e Costellazione

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3.2 “The Brain”

I principi operativi che attraversano l’intera costituzione di dOCUMENTA(13) sono

cristallizzati in modo esemplare in una sezione specifica della mostra, ovvero il

“cervello” di dOCUMENTA(13), attenta coreografia di oggetti ed opere delle epoche e

culture più svariate, che stanno proprio a sostituzione della proposizione di un

“concetto”.

Come spiega Carolyn Christov-Bakargiev in un’intervista del Giornale dell’Arte:

«Invece di un concetto che non ho e che non avrò (tutto il mio saggio nel catalogo è

articolato in tal senso), in mostra c’è una sezione che s’intitola “The Brain” (Il

cervello), ubicata nella rotonda del Fridericianum e che raccoglie una serie di

elementi i quali non si possono trasmettere come informazioni o concetti, né

esprimono un tema preciso». Tali elementi sono legati, infatti, prima di tutto

dall’intensità che ha motivato il loro venire costruiti, scoperti o conservati. Continua la

Bakargiev: «Tuttavia, essi si aggregano come una costellazione attorno ad alcune

problematiche che certo toccano anche l’idea di “commitment”, un’espressione che in

lingua italiana può essere tradotta come coinvolgimento o impegno totale. Questi

elementi parlano della distruzione dell’arte o sono degli artefatti culturali; altri parlano

di che cosa succede dopo la distruzione».33

Un esempio che spesso fa la curatrice è quello del rapporto tra il lavoro del giovane

artista cambogiano Vandy Rattana, del quale sono esposte in “The Brain” fotografie

molto suggestive di laghi artificiali, e le Bactrian Princesses, antiche sculture afgane

in pietra.

                                                                                                               33 Ibid.

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Fig.3. “The Brain” di dOCUMENTA(13), 2012. (Photo credit: Roman März)

I laghi di Rattana sono in realtà crateri creati dalle bombe lanciate sulla Cambogia

durante la guerra del Vietnam, ed è interessante, sostiene Bakargiev, pensare al tipo

d’intensità che sta dietro alla scelta di fare un viaggio in cerca di quei crateri, lo stato

mentale in cui doveva essere l’artista mentre lo faceva. Le Bactrian Princesses sono

invece sculture delicatissime, composte di tanti piccoli pezzi, tenuti precariamente

insieme da persone che sono state attente a non perderne nemmeno un pezzo nel

corso degli ultimi quattromila anni. Tali sculture fanno pensare sia all’incredibile

distruzione che hanno subito nel corso dei millenni (oggi che ne sono solo ottanta

esemplari in tutto il mondo, quando probabilmente un tempo erano migliaia), sia, per

converso, al fatto che i loro frammenti siano potuti rimanere connessi in modo così

precario per così tanto tempo. «There is, then, a relationship between those two

things, one of them very ancient, the other very contemporary. And that relationship

has to do with a form of intensity. Of commitment, let’s say: commitment to keeping

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the fragments together».34 È interessante che nella guida alla mostra vengano usate

quasi le stesse parole per descrivere lo spazio di “The Brain”: «The many threads of

dOCUMENTA(13) inside and outside Kassel are held together precariously in this

“Brain”, a miniature puzzle of an exhibition that condenses and centres the thought

lines of dOCUMENTA(13) as a whole». 35 Anche nel “cervello” gli elementi

fondamentali che attraversano la mostra sono tenuti insieme in modo precario,

consapevolmente contradditorio, perché la speranza che dOCUMENTA(13) porta con

sé, che «by allowing more layers of meaning to be added, a form of closure can be

avoided», 36 coincide inevitabilmente con la creazione di uno spazio molteplice,

concettualmente fragile, ipotetico e caotico. In questo sta la scelta di dare a tale

spazio il nome “The Brain”: «I myself use the word “brain” almost ironically, in a way,

because I think the brain is very chaotic and full of contradictions. And so it’s like a

very full, chaotic brain».37

Per comprendere meglio lo statuto di questa costellazione di oggetti mi sembra

determinante soffermarsi su uno di questi nello specifico, ovvero l’opera di Judith

Barry For all that was read was…so as not to be unknown. dOCUMENTA(13) ha

infatti incaricato l’artista di creare una Guida in miniatura per “The Brain”, e il risultato

finale è stata una singolare architettura concettuale e visiva, la cui struttura è stata

derivata dagli “origami modulari”, e la cui natura è per statuto interattiva (per essere

letta, il suo piano bidimensionale deve venire piegato dal fruitore).

                                                                                                               34 («Vi è, quindi, una relazione tra queste due cose, una molto antica, l'altra molto contemporaneo. E tale relazione ha a che fare con una forma di intensità. Di impegno, diciamo: l'impegno di mantenere i frammenti insieme») In conversation with Carolyn Christov-Bakargiev, in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Logbuch / The Logbook, p.288. 35 («I molti fili di dOCUMENTA(13) all'interno e all'esterno Kassel sono tenuti insieme precariamente in questo "Brain", un puzzle in miniatura di una mostra che condensa e centra le linee di pensiero elll’intera dOCUMENTA(13)». tr.it. mia) C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Begleitbuch / The Guidebook, Hatje Cantz, Ostfildern 2012, p.24. 36 («Rendendo possibile aggiungere più livelli di significato, si riuscisse ad evitare una forma di chiusura». tr.it. mia) C. Christov-Bakargiev, Letter to a friend, (notebook n. 003), in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Buch der Bücher / The Book of Books, p. 79. 37 In conversation with Carolyn Christov-Bakargiev, in C. Christov-Bakargiev et.al. (a cura di), Das Logbuch / The Logbook, p. 288.

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Fig.4. Judith Barry, For all that was read was…so as not to be unknown, 2012. (Photo credit: The Art Institute of Boston at Lesley University)

In un articolo per il trentaquattresimo numero di Mousse, specificamente dedicato a

dOCUMENTA(13), Judith Barry racconta:

Quando Carolyn Christov Bakargiev mi ha parlato dell’idea per “Brain”38 […] questa ha

immediatamente risvegliato in me un’intensa immagine visiva. È stato come se fossi

                                                                                                               38 Nell’articolo, Judith Barry si riferisce ad un paragrafo specifico, poi pubblicato dalla curatrice nel comunicato stampa ufficiale della mostra: «On the ground floor in the Fridericianum, beyond a breeze created by artist Ryan Gander and the strains of Ceal Floyer’s voice, the Rotunda is sealed off by glass. It contains a number of artworks, objects, photographs, and documents, brought together as a programmatic and oneiric space, in lieu of a concept. They are held provisionally together in this “Brain” of dOCUMENTA(13) to indicate not a history, not an archive, but a set of elements that mark contradictory conditions and committed positions of being in and with the world — pitting ethics, desire, fear, love, hope, anger, outrage, and sadness against the conditions of hope, retreat, siege, and stage». («Al piano terra del Fridericianum, al di là di una brezza creata dall'artista Ryan Gander e delle distorsioni della voce Ceal Floyer, la Rotonda è sigillata da un vetro. Esso contiene una serie di opere d'arte, oggetti, fotografie e documenti, riuniti insieme in uno spazio onirico e programmatico, al posto di un concetto. Essi sono tenuti provvisoriamente insieme in questo "cervello" di dOCUMENTA(13) per indicare non una storia, non un archivio, ma un insieme di elementi che sottolineano le condizioni contraddittorie e le posizioni impegnate di essere “nel” e “con il” mondo — contrapponendo etica, desiderio, paura, amore, speranza, rabbia, indignazione e tristezza contro le condizioni di speranza, di ritiro, assedio, e di stare sul palcoscenico». tr.it. mia) C. Christov-Bakargiev, Introduction to dOCUMENTA(13), Artistic Director’s Statement (comunicato stampa, 2012).

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caduta in uno spazio infinito, dove tutti gli elementi che lei descriveva in “Brain” fossero

sospesi e ordinatamente disposti. […] Da parte mia, avevo la sensazione di trovarmi in un

luogo dove anche il tempo era sospeso, e, nonostante ciò, visibile nello spazio intorno a

ciascun oggetto. Quando mi avvicinavo a un oggetto era improvvisamente risucchiata

nella sua orbita e la sua storia mi si manifestava lungo una grande varietà di traiettorie

diverse, ciascuna delle quali resa visibile man mano che si dipanava.39

Gli elementi di “Brain” dovevano, secondo Judith Barry, apparire nel loro stare

sospesi in uno spazio senza tempo, o meglio, uno spazio totalmente “dentro” al

tempo, «dentro un momento dove il tempo è sospeso, come congelato, e la storia

che circonda ciascun oggetto è ancora presente».40 Gli oggetti dovevano venire

bloccati in un equilibrio dinamico e non gerarchico, sintomatico di una visione non-

progressiva del tempo. Le pagine di un libro sarebbero state una forma lineare, con

un inizio e una fine, mentre la Guida, con la sua forma ad origami, crea volutamente

uno spazio potenzialmente infinito, in cui gli oggetti vengono esperiti come tanti

momenti simultanei, contemporaneamente a nostra disposizione.

Un altro elemento fondamentale da tenere presente nella costruzione della guida è

stato, per Judith Barry, la questione ermeneutica.

L’artista parla infatti, nell’articolo sopracitato, delle diverse teorie sulla modalità di

analisi di una tassonomia di oggetti, che si sono susseguite da Propp in poi: «Queste

tassonomie parziali/incomplete/fittizie sono tracce che sopravvivono sotto forma di

indizi da vagliare e assorbire dentro la nostra comprensione. Questa incompletezza

[…] si basa sul modo in cui l’oggetto è visto come rappresentazione delle sue storie

specifiche e concorrenti in un momento in cui si sforza di raggiungere

l’omogeneità».41 Qualsiasi analisi di un oggetto non può prescindere dal momento

storico in cui quell’oggetto si trova e dalle storie che ad esso

appartengono,42comprese le storie che ad esso si aggiungono nel momento in cui

viene in contatto con lo spettatore.

                                                                                                               39 J. Barry, About brain: for when all that was read was… So as not to be unknown, in «Mousse Magazine» n.34, maggio 2012, p.4 (inserto in italiano). 40 Ibid. 41 Ibid. 42 Più volte, nell’articolo, viene citata la frase di Latour secondo cui «il modo in cui conosciamo (gli oggetti) è stato confuso con ciò che conosciamo degli oggetti)». Il rapporto tra questi due diversi e inseparabili approcci all’oggetto è fondamentale nella costruzione della Guida.

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…lo spettatore stesso altera in modo irrevocabile la sua comprensione dell’oggetto nel

momento in cui avviene quest’incontro. […] Ma ogni volta che un oggetto incontra uno

spettatore che porta con sé una diversa comprensione dell’oggetto stesso, fondata sulla

propria comprensione del mondo, questa nuova comprensione dell’oggetto

potenzialmente ne accresce l’autenticità implicita e, in definitiva, l’aura.43

L’ultimo elemento da rilevare è che se è vero che la guida deve venire assemblata

dal fruitore per poter essere letta correttamente, è anche vero che, una volta piegata

secondo la sua struttura ad origami, essa presenterà delle sezioni visibili ma buona

parte del testo non leggibile, nascosto tra le pieghe della sua stessa struttura, o

leggibile soltanto da alcune posizioni “privilegiate”. L’importanza di questa specifica

caratteristica sta prima di tutto nel richiamare ancora una volta la metaforica (ma in

questo caso anche fisica) struttura a costellazione, in quanto «A constellation is made

up of some stars that are nearer, others further away. It is only from our perspective,

that of the here (and now), that they appear to take on a significant configuration».44

In secondo luogo, la prospettiva in cui Judith Barry fa la scelta di lasciare “illeggibili”

delle sezioni della sua guida, è la stessa del “maybe” di cui parla Chus Martinez, e

della struttura epistemologica ad arcipelago: una prospettiva debole, ma allo stesso

tempo positiva e costruttiva.

                                                                                                               43 Ivi., p.5. 44 («Una costellazione è costituita da alcune stelle che sono più vicine, altre più lontane. solo dal nostro punto di vista, quello del qui (e ora), che sembrano assumere una configurazione significativa». tr.it. mia) L. Spencer, On Certain Difficulties with the Translation of “On The Concept Of History”, 2000, cit. in C. Rollason, The Passageways of Paris: Walter Benjamin's Arcades Project and Contemporary Cultural Debate in the West.

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Conclusioni: But you’re still standing on my neck!

Fig. 5. Clay Butler, Sidewalk Bubblegum, 1997. (Photo credit: http://imgur.com/)

I problemi sollevati dal complesso ruolo del fruitore dell’arte contemporanea sono

oggi di indubbia importanza, e ne stanno a dimostrazione, ad esempio, le sempre più

sofisticate tecniche utilizzate dai musei per determinare i gusti e le preferenze del

pubblico. In The Curator’s Egg, pubblicato per la prima volta dieci anni orsono,

Karsten Schubert osserva che «i visitatori nemmeno si accorgono del fatto che le loro

reazioni sono attentamente tenute sotto osservazione. Per valutarne comportamenti e

movimenti, per esempio, ci si avvale di videoregistratori, mentre il controllo elettronico

delle scorte presenti nei negozi interni al museo consente l’analisi immediata dei

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modelli di spesa».1 Il Museum of Modern Art organizza indagini settimanali, ad opera

di focus groups specifici, per controllare la risposta dei visitatori agli allestimenti

permanenti, alle mostre e agli altri servizi offerti dal museo, compreso il servizio di

ristorazione.

Considerando tale prospettiva d’azione, quali scelte dovrebbe fare un curatore per

venire incontro alle esigenze del pubblico? Dovrebbe venire incontro alle esigenze

del pubblico? In che dialogo si deve porre il “curatore-interprete” con l’opera di un

“artista-interprete”, lavorando nell’ottica del futuro “fruitore-interprete” di tale opera?

Un ampio dibattito si sta creando su questo tema: nei primi giorni di ottobre di

quest’anno si terrà a Stoccolma un seminario dal titolo Imagining the

Audience. Viewing positions in curatorial and artistic practice, le cui questioni

fondamentali riguarderanno proprio il rapporto tra la pratica curatoriale o artistica e il

ruolo dell’interpretazione del fruitore nell’incontro con l’opera d’arte. Recita il

comunicato stampa: «How does an artist or curator imagine the experience,

movement and mental process of the individual viewer? And how does this

perspective influence the actual work and the way the viewer experiences the

work?»2

La proposta attuata da Carolyn Christov-Bakargiev non è che una delle possibili

risposte a queste domande: non è la prima né l’ultima, né tantomeno quella definitiva;

Ciò che ne fa un buon esempio da trattare è prima di tutto la consapevolezza che la

curatrice ha di questo, e la conseguente attitudine aperta e “di ricerca” con cui si pone

verso la pratica curatoriale. Semplificando al massimo direi che la forza della sua

risposta sta nel modo in cui si pone la domanda.

Apro una parentesi sul fumetto di Clay Butler che ho scelto per concludere questo

elaborato. Esso solleva alcune questioni fondamentali sui temi che ho presentato nel

corso della trattazione, primo fra tutti l’impasse provocato dal radicale relativismo

postmodernista: considerate attraverso quest’ottica, le posizioni sull’interpretazione

                                                                                                               1 K. Schubert, Museo. Storia di un’idea, p.91. 2 («Un artista o curatore come si immagina l’ esperienza, il movimento e processo mentale del singolo spettatore? E in che modo questa prospettiva influenza l’opera d’arte effettiva e il modo in cui lo spettatore vive il lavoro?». tr.it. mia) Mobile Art Production et. al. (a cura di) Imagining the Audience. Viewing positions in curatorial and artistic practice (comunicato stampa del seminario, 2012).

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che ho considerato, provenienti dai pensatori più svariati (da semiotici a filosofi del

linguaggio, a curatori, critici dell’arte, antropologi), sono quasi sempre caratterizzate

da una prospettiva comune, applicata ai diversi campi d’azione in cui essi operano.

Tale prospettiva potrebbe essere sintetizzata nel rifiuto del relativismo “ermeneutico”

su cui ironizza Clay Butler: se, ad esempio, Eco sostiene che non tutte le

interpretazioni sono ugualmente valide, proponendo di attuare un principio di

esclusione di quelle “non-valide”, anche Sontag non rifiuta l’interpretazione in tutte le

sue forme, proponendo piuttosto di fare dei distinguo. Danto e Gioni sono

analogamente scettici nei confronti di un’interpretazione “illimitata”, e Deleuze e

Guattari, pur essendo i pensatori più radicali che ho trattato, sottolineano la natura

deresponsabilizzante di un’eccessiva apertura dell’opera d’arte “a tutti gli eventi”.

Non c’è bisogno poi di soffermarsi su Carolyn Christov Bakargiev e sulla sua scelta di

affidarsi allo scetticismo, inteso come tendenza fortemente opposta

all’irresponsabilità del relativismo.

Si manifesta fortemente, nelle prospettive trattate, il tentativo di fuoriuscire dagli

impasse a cui il postmodernismo ha portato, e di farlo secondo un principio che tenga

conto dell’impossibilità di tornare ai dettami del modernismo come della necessità di

evitare la possibile ricaduta in un anarchismo interpretativo o addirittura di un rifiuto

dell’interpretazione in nome di una prospetiva anacronisticamente estetizzante.

È come se la Verwindung3 di cui parla Vattimo nel Pensiero Debole fosse stata ormai

attuata sul pensiero debole stesso, in vista di una prospettiva epistemologica che

invece di portare le tracce delle categorie forti della modernità, porta già le tracce

della debolezza del pensiero, e cerca di sfuggirne sperimentando una debolezza

creativa del pensiero (di cui sono un esempio la prospettiva della costellazione e

dell’arcipelago).

La vignetta di Clay Butler introduce inoltre una prospettiva fondamentale da tenere in

mente ogni volta che si considerano quest’ordine di discorsi, ovvero la prospettiva del

«But you are still standing on my neck»: essa ci ricorda che le posizioni presentate

                                                                                                               3 Verwindung, che in senso letterale significa “torsione”, viene utilizzato da Vattimo per riferirsi allo specifico rapporto che l’uomo postmoderno conserva con il passato e con la metafisica: il termine allude al rimettersi da una malattia, ma con la consapevolezza del fatto che di essa siamo comunque destinati a portare le tracce, ovvero con la consapevolezza che le categorie a cui mentalmente facciamo riferimento continueranno necessariamente ad essere quelle categorie forti e metafisiche da cui tentiamo di sfuggire, sebbene distorte in senso debole.

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fino ad ora, le teorizzazioni sulle modalità in cui funziona o meno l’interpretazione di

un’opera d’arte, vanno inserite in un contesto reale, composto da precise realtà

sociali e dalla complessità di un pubblico variegato, che dialoga con un altrettanto

variegato panorama di “addetti ai lavori”.

Se penso alla metafora che propone Eco in Trattato di Semiotica Generale sul

funzionamento del processo interpretativo, secondo la quale

Potremmo immaginare le singole unità culturali come un numero altissimo di palline contenute

in una scatola: agitando la scatola si verificano diverse configurazioni, vicinanze e connessioni

tra palline. Questa scatola costituirebbe una fonte infromazionale dotata di alta entropia, e

costituirebbe il modello astratto delle associazioni semantiche allo stato libero. A seconda

dell’umore, della conoscenza precedente, delle proprie idiosincrasie, ciascuno potrebbe

essere in grado di arrivare, partendo dal lessema |centauro| all’unità “bomba atomica”, oppure

a “Mikey Mouse”,4

e cerco di applicarla alla pratica curatoriale, penso che quello che conta, di fronte agli

interrogativi che pone 5 , sia prima di tutto evitare di cercare di fornire risposte

preconfezionate ad un pubblico che prima di tutto dovrebbe essere messo nelle

condizioni di potersi porre, a sua volta, le domande.

La cosa più interessante del ruolo del curatore, oggi, mi sembra il fatto che la sua

posizione privilegiata gli consenta di indicare al pubblico che esiste una scatola,

prima ancora di agitarla, e che il tempo sia ormai pronto perché, una volta fatto

questo, si possa riuscire ad esplorarla insieme.

 

 

                                                                                                               4 U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975 (ed. del 1987), p.176. 5 Nella metafora di Eco è abbastanza chiaro ciò di cui si parla: la scatola è il testo e l’interprete è colui che la agita. Ma quali sono i termini della questione, se tentiamo di applicare tale metafora alla fruizione dell’arte contemporanea? Il curatore è un agitatore di scatole o è una pallina che si connette alle altre? E in tal caso la scatola è l’opera d’arte, lo spazio espositivo o l’intero universo semantico-culturale, che contiene in sé tutto il resto? E cosa c’è, in verità, al di fuori di questa scatola?

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Lucrezia CalabròArti Visive e dello SpettacoloSettembre 2012

Cipolla e Costellazione Agnes Kohlmeyer

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Abstract in italiano L’intenzione principale di questo elaborato è analizzare i meccanismi fondamentali che

regolano la fruizione dell’opera d’arte contemporanea, e approfondire le conseguenti

scelte curatoriali e museali che tali meccanismi potrebbero stimolare.

La seconda metà del Novecento è stata un momento molto fertile per il dibattito

ermeneutico, e ha accolto un lungo periodo di ri-teorizzazioni continue del rapporto tra

autore, testo (opera d’arte) e fruitore (che dagli anni Settanta ha visto il prevalere di un

percorso specificamente reader-oriented). Viene spontaneo, in un’ottica interessata

specificamente all’arte contemporanea, domandarsi che ruolo trovi oggi in tale dibattito

la figura del curatore. Questa tesi cerca di approfondire gli spunti di dialogo tra le

teorizzazioni sull’interpretazione dell’opera d’arte contemporanea e il dispositivo

curatoriale e museale, non al fine di compilare una storia esaustiva dei punti di contatto

che ci sono stati tra le due sfere, quanto più con la speranza di costruire una rete di

connessioni notevoli tra gli approcci metodologici che esse hanno in comune. Il

trattamento si svilupperà in tre capitoli:

I primi due, più rigorosamente teorici, verteranno sul dibattito che dagli anni Sessanta

ad oggi si è susseguito sulla natura dell’opera d’arte contemporanea (che ho

sintetizzato nel concetto di “cipolla” di Roland Barthes) e sulla sua fruizione, con

un’attenzione particolare alle teorie dell’interpretazione. Mi concentrerò soprattutto

sulle posizioni di Susan Sontag ed Umberto Eco, poiché sono le più conosciute

nell’ambito dell’arte contemporanea, eppure quelle che più spesso rischiano di venire

banalizzate o misinterpretate.

Il terzo capitolo sarà dedicato invece al progetto curatoriale di dOCUMENTA(13) (con

un approfondimento specifico sulla sezione “The Brain”), e al modo in cui la pratica di

Carolyn Christov-Bakargiev si configuri come il felice esempio di una possibile

risposta pratica alle questioni sollevate dalle teorie introdotte nei due capitoli

precedenti. Tale risposta dialoga strettamente con un approccio operativo

sintetizzabile nella metafora della “costellazione” di Walter Benjamin (e comune a

molti pensatori della seconda metà del Novecento), un principio epistemologico che

opera mediante la coreografia di una molteplicità elementi diversi, riuniti dalla

prospettiva privilegiata di un osservatore specifico.

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Abstract in inglese

The main purpose of this paper is to analyze the basical mechanisms through which the

fruition of the contemporary work of art works, and deepen the consequent curatorial

choices that such mechanisms could stimulate.

The second half of the Twentieth Century was a very fertile moment to hermeneutic

debate, and it was greeted by a long period of continuous re-theorizations of the

relationship between author, text (work of art) and spectator (that from the Seventies

saw the prevalence of a specifically reader-oriented perspective). It comes spontaneous

to ask, from a point of view specifically interested in contemporary art, what role the

figure of the curator can find today in this debate.

This thesis aim is to deepen the dialogue between the theories on interpretation of

contemporary art works and the curatorial and museographic device, not in order to

compile a comprehensive history of the contact points that there were between these

two spheres, but hoping to build a network of significant connections between the

methodological approaches that they do have in common.

The writing will be developed into three main chapters:

The first two chapters, more strictly theoretical, will focus on the debate that has been

taking place since the Sixties on the nature of the work of contemporary art (which I have

summarized in the concept of “onion” by Roland Barthes) and on its fruition, with a in-

depth examination of the theories of interpretation. I will focus mainly on the theories by

Susan Sontag and Umberto Eco, as they are the best known in contemporary art, but

also the ones whose ideas often risk of being trivialized or misinterpreted.

The third chapter will be dedicated, instead, to the dOCUMENTA(13) curatorial project

(with a specific focus on the "The Brain"), and to the way Carolyn Christov-Bakargiev’s

pwork is configured as a successful example of a possible practical response to the

issues raised by the theories introduced in the previous two chapters. This response

closely interacts with an operative perspective that can be summarized in the metaphor

of the “constellation” by Walter Benjamin (common to many thinkers of the second half of

the Twentieth Century), an epistemological principle that operates through a

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choreography of multiple different elements, gathered together from the favored point of

view of a specific observer.