Cinema e rivoluzione · 2019. 5. 19. · «fruizione estetica» sottraendo temi e forme alle...

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Cinema e rivoluzione

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La spinta culturale all’innovazione e le provocazioni delle

avanguardie, prima della Rivoluzione relegate ai margini di una

società aspramente contestata, trovano ora ospitalità

soprattutto nelle arti figurative e nel teatro, poiché quel cinema

che li respingeva per via della logica di mercato e del controllo

governativo, semplicemente non esiste più.

Scenografia di Liubov Popova per The Magnanimous Cuckold, 1922

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Molti grandi protagonisti del cinema sovietico escono dalla

Rivoluzione in veste di giovani studenti esaltati attratti dall’arte

narrativa e drammaturgica. Tra gli invasati non ancora ventenni

che fondano nel 1921 la FEKS (Fabbrica dell’Attore Eccentrico)

presso l’Accademia di Belle Arti di Petrograd, sotto l’influenza

di Mejerchol’d e Majakovskij, ci sono i futuri registi Gerasimov,

Jutkevič, Kozincev e Trauberg e il compositore Šostakovič.

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La sezione teatrale moscovita del Proletkul’t ospita il giovane

Sergej Ejzenstejn, studente di ingegneria appassionato di

architettura e teatro giapponese che, dopo aver combattuto

con l’Armata rossa, si è trasferito a Mosca alla fine del 1920,

attirando l’attenzione di Mejerchol’d e collaborando con lui.

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Non appena il governo accenna a voler risollevare le sorti della

produzione cinematografica, esplode l’interesse di questi

giovani artisti per la forma espressiva che unisce al sapore

della novità una promettente forza di penetrazione nei quartieri

popolari. I cineasti cercano quindi di usare il cinema per creare

un nuovo rapporto con le grandi massi al di fuori della

mediazione del teatro e della cultura borghese tradizionale.

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Majakovskij

Quest’interesse è ampiamente condiviso e sottolineato da uno

dei maestri di questa generazione, Vladimir Majakovskij, che,

dopo la giovanile avversione per i limiti del mezzo (estraneo

alla centralità dell’autore), si accende d’entusiasmo dopo il

1917 e partecipa anche al film Zakovannaja fil’moj (Incatenata

dal film, 1918), interpretando un pittore che vive una storia di

passione con un’eroina uscita dallo schermo.

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Festa Ma è sul piano teorico che ora Majakovskij

apprezza il cinema, un’arte giovane, versatile,

veloce, che catalizza lo slancio delle

avanguardie; un atleta, un «gigante» che il

capitalismo potrebbe corrompere con una

manciata d’oro, per via della vocazione

commerciale e narrativa del cinema americano.

Gli autori sovietici rifiutano compatti lo

spettacolo tradizionale e condividono un’idea di

cinema come «festa» in cui lo spettatore

partecipa e viene di continuo stimolato dai

cambiamenti e dalle nuove invenzioni.

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MajakovskijSulla rivista Kino-foto, nell’ottobre 1922

Majakovskij scrive:

Per voi il cinema è spettacolo.

Per me è quasi concezione del mondo.

Il cinema è apportatore di movimento.

Il cinema è rinnovatore delle letterature.

Il cinema è distruttore delle estetiche.

Il cinema è audacia.

Il cinema è uno sportivo.

Il cinema è diffusore di idee.

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Majakovskij

«Ma il cinema è infermo. Il

capitalismo ha offuscato i

suoi occhi, riempiendoli d'oro.

Abili imprenditori lo guidano

per la manica lungo le strade.

Ammucchiano denaro,

smuovendo i cuori con

soggetti piagnucolosi.

Ciò deve finire».

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Majakovskij

«Il comunismo deve sottrarre il

cinema ai guardiani che lo sfruttano.

Il futurismo deve farne evaporare

l’acqua stagnante della lentezze e

della morale.

Senza di questo noi avremo o la

cecetka importata dall’America o

nient’altro che gli «occhi con

lacrima» dei Mozuchin.

La prima cosa è venuta a noia.

La seconda ancor più della prima».

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Arte e vita

L’idea che guida l’atteggiamenti dei giovani intellettuali verso lo

spettacolo è quella di liberare l’arte dalle catene della

«fruizione estetica» sottraendo temi e forme alle conventicole

degli specialisti a al giudizio del gusto “soggettivo” per inoltrarsi

nello spazio aperto e pluralistico della polis, non per seguire i

«meravigliosi capricci» della modernità o per “estetizzare” la

vita (come vorrebbe un futurismo di maniera), bensì per

rinnovare tutto e creare “un’arte nuova per una vita nuova”.

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Futurismo E. Lisickij, Con il cuneo rosso colpisci i bianchi, 1919

L’idea che guida l’atteggiamenti dei giovani intellettuali verso lo

spettacolo è quella di liberare l’arte dalle catene della

«fruizione estetica» sottraendo temi e forme alle conventicole

degli specialisti a al giudizio del gusto “soggettivo” per inoltrarsi

nello spazio aperto e pluralistico della polis, non per seguire i

«meravigliosi capricci» della modernità o per “estetizzare” la

vita (come vorrebbe un futurismo di maniera), bensì «per

minare il vecchiume, per andare alla conquista di una nuova

cultura (…) per un’arte che sia costruzione della vita».

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Il nuovo cinema sovietico non ha per il momento all’attivo

niente se non i piccoli documentari propagandistici che hanno

accompagnano la guerra vittoriosa contro le armate «bianche»,

ma si mette al lavoro di buona lena, pur tra mille disagi, nei

centri produttivi che il nuovo regime sta cercando

faticosamente di allestire a Mosca, Kiev, Leningrado, Tbilisi.

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Abram Room, un allievo del VGIK di

Kulešov arrivato trentenne, nel 1924, agli

ex studi Khanzhonkov, ricorda le

ristrettezze (un edificio in legno vecchio

e piccolo, attrezzature a malapena

funzionanti, mezzi di trasporto

inesistenti) ma anche tanti registi senza

incarico e senza stipendio che si

applicavano freneticamente a qualsiasi

occupazione, condividevano le idee e le

critiche, dando vita a un’esperienza che

aveva «il profumo unico della gioventù».

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«Eravamo giovani noi e l’arte del

cinema. (…) La piccola sala di

proiezione era divisa in due parti da

una tenda; nella mia metà ho montato

La baia della morte mentre Ėjzenštejn

lavorava dall’altra parte. Ogni tanto

scansavamo la tenda per osservare il

lavoro l’uno dell’altro e dopo iniziavamo

a discutere in modo inimmaginabile.

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Manca tutto ma non alacrità e impegno, varietà di ispirazioni,

idee «originali» e voglia di confrontarle. Un tratto tipico di questi

giovani intellettuali, diffuso in tutta l’arte sovietica del periodo, è

l’attitudine a unire attività pratica e riflessione teorica. Per la

prima volta al mondo, si riflette sul linguaggio del cinema, sulle

sue «leggi» e sulla sua specificità.

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Ma non basta. I cineasti più importanti sono animati da una

spontanea adesione all’attualità e allo spirito della Rivoluzione,

da un senso di responsabilità e d’impegno morale che non solo

collega fra loro la pratica creativa e la riflessione teorica

sull’autonomia formale del cinema ma le connette entrambe

alla legittimazione e alla difesa di un progetto sociale e politico.

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Nel 1923 sulla rivista Lef (nello stesso numero, il terzo) escono

due brevi testi di carattere teorico destinati a segnare in modo

profondo il dibattito sul cinema e a indirizzarne i futuri sviluppi.

Il primo è di Dziga Vertov e s’intitola Kinoki. Perevorot (I

Kinoki. Un rivolgimento). Il secondo, Montaž attrakcionov (Il

montaggio delle attrazioni), reca la firma di Sergej M.

Ejzenštejn, all’epoca ancora regista teatrale per il Proletkul’t.

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Dziga Vertov, che già nel suo primo saggio dell’agosto 1922

(Noi: Variante del manifesto) aveva proposto il montaggio

come la strada principale per «riorganizzare il mondo visibile»,

si scaglia con veemenza contro il «cinema narrativo», in nome

della visione «oggettiva» della realtà. Ėjzenštejn invece

s’interroga sulla possibilità del cinema di essere momento di

partecipazione e strumento di conoscenza senza mai rinnegare

la fabula e la logica dello spettacolo.

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Si tratta di due posizioni radicali e contrarie che tendono a

dissezionare l’una la cattura della realtà e l’altra il racconto di

determinati eventi per ottenere analisi e letture del mondo

intellettualmente più pregnanti, ispirate in ogni caso da un

comunismo tanto sincero quanto ingenuo, che non sarà mai né

ben compreso né tantomeno condiviso dall’apparato politico,

interessato invece all’aspetto «persuasorio» di cinegiornali e

documentari e a quello «celebrativo» della narrazione.

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Colpito da due ictus nel corso del 1922, Lenin muore il 21

gennaio 1924, ma l’evento non compromette la vitalità del

cinema, che anzi proprio in quel lasso di tempo porta alla luce i

primi risultati degli sforzi profusi dal Goskino per rimettere in

moto la macchina produttiva.

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Nel 1924 i manifesti intellettuali lanciati l’anno prima su Lef da

Vertov ed Ejzenštejn si traducono in due film, entrambi targati

Goskino, che rappresentano, nel loro radicale anticonformismo

i due poli intorno a cui si addensa la politica cinematografica

dell’avanguardia: Kinoglaz (Cineocchio), presentato verso la

fine dell’anno e Stačka (Sciopero), uscito agli inizi del 1925.

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Vertov

David Abelevič Kaufman, nato a Bialystok, oggi in Polonia, nel

1896 da una famiglia ebrea, nonostante gli studi di medicina e

le ambizioni letterarie, ha una formazione musicale e aderisce

alle istanze del dinamismo futurista già dalla scelta dello

pseudonimo: Dizga Vertov, traducibile come “trottola rotante”.

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Si lascia travolgere dalla Rivoluzione e nel 1918 inizia a fare il

montatore per il primo cinegiornale sovietico, la Kinonedelja

(Cinesettimana), con forte timbro propagandistico. Durante la

guerra civile, tra il 1919 e il 1921, dirige la sezione cinema del

treno di propaganda del Comitato esecutivo centrale e realizza

alcuni film di montaggio.

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Nel 1922 fonda il gruppo dei kinoki (cine-occhi) e un nuovo

cinegiornale, autonomo e innovativo, la Kino Pravda (Cine-

verità), una sorta di supplemento filmato del celebre quotidiano

di cui, con cadenza irregolare, tra il 1922 e il 1925, escono 23

numeri.

Kino-Pravda n°9, 25 agosto 1922. dimostrazione

di una macchina da presa americana

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VertovIl Cineocchio del 1924 è il primo

lungometraggio di Vertov che, anziché

usare materiale di repertorio, si serve di

riprese appositamente girate, con un tono

ampiamente sperimentale, a Mosca e

dintorni. Mostrando brevi episodi sulla vita

in Unione Sovietica, il film illustra le basi

della filosofia dell’autore, che organizza il

visibile ignorando le esigenze narrative ed

enumera diversi modi di «scomporre» la

realtà utilizzando proiezioni all’indietro,

ralenti, angoli di ripresa inconsueti.

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Vertov

Nel discorso introduttivo durante la première del 13 ottobre

1924, Vertov è molto chiaro: «Rimarrete delusi se siete venuti

a vedere una coinvolgente storia d’amore. Rimarrete delusi se

vi aspettate un’incalzante storia gialla, ed anche se vi aspettate

di vedere trucchi ed acrobazie straordinari». Ciò che vedranno

gli spettatori, come recita il sottotitolo, è Žizn’ vrasploch, ovvero

«la vita colta sul fatto», ma il progetto di Vertov, ben più ampio,

prevede altre cinque parti, che diano a quei materiali raccolti in

modo volutamente «casuale» e impressionistico una forma

sempre più elaborata, in un movimento potenzialmente

illimitato, che però non vedranno mai la luce.

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Vertov

Vertov percepisce con chiarezza che il Kinoglaz organizza il

mondo fenomenico solo in quanto ne fa parte, gli è interno, e

dunque è al tempo stesso un occhio che vede e un occhio che

è visto, soggetto e oggetto di una visione strutturalmente

duplice. Prima ancora di dar luogo a una specifica poetica, il

dato riguarda la natura stessa dell’immagine cinematografica,

di cui denuncia la «riflessività» coniugandola con l’idea di una

ricezione distanziata e critica, entro un progetto politico che

prevede uno spettatore consapevole e attivo, tanto da farsi egli

stesso, a sua volta, produttore.

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VertovLa «critica» apprezza la «meravigliosa

capacità» del cine-occhio «di vedere e

catturare ciò che vede, per poi riprodurlo

così come lo ha visto», la sincerità che

raffigura la «vita vera» senza pettinarla o

metterla in posa». Piace meno il progetto

totale, soprattutto ai burocrati di partito,

la «cinematizzazione delle masse» che

forse suona in modo troppo democratico.

Il taglio dei fondi costringerà infatti Vertov

a trasferirsi in Ucraina per continuare a

lavorare secondo le sue idee.

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Il film di Ėjzenštejn proviene invece dall’appoggio del Goskino

a un grande progetto tematico del Prolet’kult, che prevede otto

opere sui momenti emblematici del movimento rivoluzionario,

di cui l’unico esito è proprio Sciopero!, che esce il 1º febbraio

1925, proponendo una sfida semplice e geniale: ricavare una

rappresentazione drammaturgica non da una storia ma da un

fenomeno appartenente alla dinamica della lotta di classe.

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Ejzenštejn

È dunque lo sciopero il mythos intorno a cui il film organizza un

eterogeneo montaggio di attrazioni sensoriali, offrendolo allo

spettatore coinvolto dalla macchina emozionale i modi per

“sentirlo” e “pensarlo” in modo originale. L’intelligenza politica

del progetto cinematografico, e la sua distanza dal Kinoglaz di

Vertov, lo costituiscono come un secondo polo di riferimento.

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Sia Stačka che Kinoglaz rifiutano ogni compromesso con

l’istanza teatrale e letteraria del cinema di finzione; entrambi

scuotono con forza le fondamenta del cinema corrente e

rivendicano al nuovo mezzo totale autonomia espressiva. Ma

mentre l’orientamento vertoviano, coerentemente sviluppato,

mira a una specie di «rete multimediale interattiva», quello di

Ejzenštejn punta, sia pure in modo ancora oscuro, ad aprire

nuove frontiere all’esperienza narrativa.

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Terzo polo

Sempre nel 1924 il Goskino produce anche Le straordinarie

avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi (Neobyčajnye

priključenija Mistera Vesta v strane bol’ševikov) di Kulešov, un

film ironico e vivace che utilizza invece la ricchezza di soluzioni

offerte dal montaggio su un piano narrativo più convenzionale.

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Il film di Kulešov si confronta con i principali generi del cinema

americano (dal western al grand guignol, dal comico al

poliziesco) con grande leggerezza, in una concatenazione di

peripezie che riesce a prendersi gioco al tempo stesso

dell’ingenuo Mr. West (americano in missione a Mosca che

immagina i bolscevichi come selvaggi sanguinari) e degli stessi

bolscevichi, tutti riti collettivi e parate ufficiali.

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Kulešov non sottovaluta affatto le potenzialità del montaggio. È

stato lui per primo a mostrare che lo spazio e il tempo del film

si possono costituire indipendentemente da quelli reali e che il

montaggio cinematografico inclina spontaneamente all’ordine

discorsivo, differenziandosi da ogni figuratività di tipo pittorico e

da ogni naturalismo riproduttivo o psicologico.

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Schiacciato tra Vertoviano e Ejzenstejn, al massimo il buon

Lev viene menzionato per l’esperimento denominato

“Effetto Kulesov”.

L’idea di montaggio di Kulešov è centrata sulla funzionalità

narrativa, ma riflette anche l'idea costruttivista di realizzare

un film secondo gli stessi principi tecnico-scientifici con cui

un ingegnere compie il suo lavoro. Kulesov unisce poi un

cinema artigianale con uno più industriale, avvalendosi di

strutture narrative diverse (che vanno dall'uso del burlesque

e del grottesco, al falso spionistico-poliziesco).

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Ma la sua «politica dell’immagine» preferisce

spendere la concezione antinaturalista dentro

uno stile convenzionale, dentro i generi «bassi»

che hanno reso il cinema una forma autonoma

di spettacolo, cui aggiunge un’intertestualità

parodistica, allusiva e autoriflessiva dotata di

grande duttilità semantica; egli infatti coltiva

anche un’incontenibile attitudine a

incrementare l’inventario aperto delle figure del

discorso filmico, proponendosi come il «padre»

di tutti quei cineasti che concepiscono il film

come una struttura discorsiva complessa.

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Se dunque la posizione più radicale è quella di

Vertov, che avversa con ferocia la «cine-

nicotina» narcotica della fiction, e quella di

Ejzenstejn individua il compito del montaggio

nella creazione di nuove realtà concettuali

attraverso lo scontro di elementi antitetici,

Kulešov invece è a favore di un montaggio che

privilegi la chiarezza e l’impatto emozionale,

simile a quello che si va affermando a

Hollywood, configurando un terzo «polo» che

sarà poi perfezionato da Pudovkin.

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Nella sua scia si posizionano infatti due dei suoi allievi più

solerti del GVIK; uno è Abram Room, l’altro Vsevolod

Illarionovič Pudovkin, che esordiscono nella regia più o meno

contemporaneamente.

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Vsevolod Pudovkin, nato nel 1893, ha studiato chimica e fisica

all’Università di Mosca, ha fatto l’operaio in una fabbrica di armi

e a ventisette anni è andato a fare l’operatore di cinegiornale

per l’Armata Rossa. Si è quindi iscritto alla scuola di Kulešov,

recitando nei suoi film e facendo l’assistente. Il suo primo

lungometraggio, Mat’ (La madre) esce nel 1926.

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La Madre

La vicenda del film si svolge nel 1905 e racconta la storia di

una donna, Nilova, che per sbaglio provoca l’arresto del figlio

Pavel, un operaio rivoluzionario. Il giovane, proprio mentre la

madre inizia ad apprezzarne le idee, evade ma resta ucciso

durante uno sciopero, mentre marcia con una bandiera rossa.

Nilova, sconvolta dal dolore ma orgogliosa del figlio, raccoglie

la bandiera e si mette alla testa al corteo.

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La Madre

La trama, tratta da un romanzo di Gor’kij, è sostenuta da forti

metafore visive (un fiume in piena simboleggia la collera dei

rivoluzionari) e dal ritorno sulla scena dell’«eroe», sebbene

proletario anziché borghese. Pudovkin usa quindi il montaggio

in senso «narrativo», cercando si assorbire, come nei suoi film

successivi, il messaggio ideologico in una struttura descrittiva.

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Pudovkin

Anche Pudovkin è un fan del montaggio e in

esso individua lo «specifico filmico», ma,

rispetto a Ejzenstejn, i suoi principi di

«trascrizione» sono inversi. All’eroe

collettivo, incarnato da «masse» anonime,

operaie o contadine, preferisce l’attore che

simboleggia l’arroganza dell’ufficiale,

l’indifferenza del giudice, la sofferenza dei

poveri, in un percorso epico di solito

organizzato intorno al modello della «presa di

coscienza» da parte dei personaggi popolari.

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«Se prendiamo in considerazione il lavoro del regista, appare

chiaro che il materiale grezzo è rappresentato solo da spezzoni

di celluloide sui quali sono state fissate le singole parti

dell’azione, riprese da vari punti di vista. Solo da questi

spezzoni sullo schermo si crea l’immagine che forma la

rappresentazione filmica dell’azione ripresa. Di conseguenza, il

materiale del regista non è costituito da cose reali che

avvengono in uno spazio reale, ma da spezzoni di celluloide

sui quali questi processi sono stati registrati».

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«Durante il montaggio la celluloide è sottoposta interamente

alla volontà del regista. Nel comporre la realtà filmica questi

può eliminare tutti gli intervalli e così concentrare nella misura

richiesta l’azione del tempo». A differenza di Griffith e in

consonanza con i suoi compagni, il regista russo afferma che si

può ottenere un continuum filmico più efficace mostrando una

sequenza costruita solo da dettagli significativi. Dunque non

bisogna tanto concentrarsi nel dare continuità alla storia,

quanto nel comunicare nuovi significati.

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Pudovkin

Ma la considerazione del montaggio come un semplice

procedimento linguistico, ossia come il modo più efficace per

organizzare il discorso del film, consente a Pudovkin di

avvicinarsi di più al cinema commerciale e di incontrare meno

difficoltà nel ricondurre i temi affrontati dentro gli schemi lineari

dell’ortodossia politica.

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Room

Reduce da brevi film pubblicitari e a soggetto,

in cui il montaggio concitato e le inquadrature

oblique tradiscono influenze moderne, il 5

febbraio 1926 esordisce anche Abram

Matveevič Room, con il suo primo film targato

Goskino: Buchta smerti (La baia della morte),

in cui dimostra di saper miscelare in modo

credibile istanze politiche e gusto popolare

ricorrendo ai moduli narrativi tipici dei film

statunitensi di genere, filtrati in salsa russa.

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Room

Se La baia della morte, con

didascalie dello scrittore formalista

Viktor B. Šklovskij, è incentrato sulla

lotta fra i Rossi e i Bianchi durante

la guerra civile, il successivo

Predatel’ (Il traditore, 1926), ancora

sceneggiato da Šklovskij con Lev V.

Nikulin, è invece ambientato

durante il periodo zarista e tratta

della caccia a un infiltrato tra i

marinai rivoluzionari.

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Room

Anche Room è allievo di Kulešov,

ma non ha il sussiego di Pudovkin

e quindi nei suoi film appare più

evidente il carattere artigianale,

l’attenzione del maestro per i

«generi» popolari e il tentativo di

svolgere temi con risvolti politici

entro un cinema d’intrattenimento

di buona qualità.

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Trauberg & Kozincev

Il 9 dicembre 1924 esce a Pietrogrado anche Le avventure di

Ottobrina (Pochoždenija Oktobriny), di Leonid Trauberg e

Grigorij Kozincev, che firmeranno insieme molti dei loro film. È

un’«agit-commedia, caricatura eccentrica» la cui protagonista,

amministratrice di un edificio residenziale, grazie ai superpoteri

dell’elettricità sventa i piani dell’imperialismo internazionale che

vorrebbe lasciare al buio Pietrogrado e separarla dall’URSS.

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Trauberg & Kozincev

I due registi, ispirati al futurismo marinettiano, sono tra i padri

della FEKS (Fabrika Ekscentričeskogo Aktëra, Fabbrica

dell’attore eccentrico), punta di diamante dell’avanguardia

teatrale, che dal 1921 predica l’esagerazione degli artifici, degli

espedienti scenici e l’esasperazione drammaturgica tramite il

comico e il grottesco, la caricatura astratta.

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Trauberg & KozincevLa loro Ottobrina, (realizzato dalla

FEKS Film presso la fabbrica

Goskino di Leningrado) mira a

trasferire nel cinema i temi del loro

teatro, la «rinascita»,

l’elettrificazione e i suoi rapporti

con la società umana nonché

alcuni stilemi attoriali della

commedia dell’arte, del music-hall

e del circo, che assumono forme

estreme ma sono anche destinate

a sparire con rapidità.

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Il fatidico 1924 è testimone anche dell’avvio in grande stile

della produzione Mežrabpom, che ai grandi capolavori vuole

anche affiancare film di genere (polizieschi, sentimentali,

comici) ambiziosamente protesi verso il mercato estero e

piuttosto elastici nei confronto delle istanze propagandistiche.

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Si parte subito in quarta con un film di Protazanov, Aelita, una

storia fantascientifica post-moderna, uscita il 25 settembre

1924, che appare concepita per il mercato internazionale e

flirta con diversi generi, dal dramma psicologico borghese al

realismo proletario, con scenografie di stampo espressionista

che lasciano il segno nell’immaginario collettivo.

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Sembra quasi che Protazanov voglia sondare più stili per

trovare quello più adatto al nuovo mondo sovietico, sfociando,

alla fine del film, nella descrizione di una realtà un po’ grigia in

cui bisogna comportarsi bene, contribuire alla crescita

economica del Paese e rinunciare a tutti i vizi.

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Qua e là sembra di cogliere anche qualche zampata critica,

come la sequenza del «ballo segreto», cui si va nascondendo

abiti da sera sgargianti sotto vestiti da straccioni, che mette

sotto accusa il lassismo e l’ipocrisia borghesi, ma descrive

anche un paese dittatoriale dove le autorità vietano il ballo di

gala. In un altro momento, un personaggio che esalta in modo

grottesco l’obbligo di far recitare la gente comune sembra la

parodia dell’ossessione bolscevica per il teatro «popolare».

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Il film attira l’attenzione delle autorità sulla casa produttrice e il

15 ottobre 1924 si apre una querelle chiusa il 3 dicembre da

una riunione del Comitato centrale del Partito comunista che

ne vieta l’uscita di Aelita all’estero. Per non sbagliare, in

novembre la GPU ha intanto chiesto di intensificare la vigilanza

sulle attività della ditta, di mettere sotto controllo il personale e

di inserire membri del Partito all’interno dell’organizzazione.

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Alla fine del 1924 esce di scena anche il Goskino, ormai

esautorato; il 1° gennaio del 1925 il monopolio della

distribuzione viene assunto dal Sovkino (Sovetskoe kino), un

nuovo ente statale organizzato come una società per azioni

che riunisce i Commissariati per l’Istruzione e per il

Commercio, i Soviet di Mosca e Leningrado, il Consiglio

supremo dell’economia. Al nuovo organismo vengono perfino

assegnati un po’ di fondi per dare un impulso alla promozione

della salute produttiva e all’«allineamento» politico del cinema.

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Cinema e NEP

Siamo tuttavia ancora dentro la cornice

«emergenziale» che ha consigliato a

Lunačarskij la sua terapia ricostituente

che, del resto, sembra funzionare.

L’«apertura» commerciale, alzando i

fatturati, ha consentito di rimettere in

piedi gli studi, di iniziare a produrre

nuovi film, peraltro di buon livello, di

continuare a girare cinegiornali e opere

di propaganda utili a mobilitare le masse

nelle attività del nuovo Stato sovietico.

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In questo passaggio epocale sono presenti perciò molti

segnali positivi per la ripresa dell’industria cinematografica

sovietica: la presenza di energie intellettuali vivaci e

moderne non ancora mortificate dalla burocrazia, la vitalità

della macchina produttiva molto promettente per quanto

ancora gracile, il persistere di spazi di libertà che

consentono interessanti sperimentazioni stilistiche e uno

stimolante confronto con la cinematografia internazionale.

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Ma il 1924 è anche l’anno della morte di Lenin. La sua fiducia

nel ruolo del cinema nell’educazione del popolo resta nell’aria,

ma s’insinuano qua e là spifferi preoccupanti. Si infittiscono un

po’ le maglie del controllo burocratico, aumenta la diffidenza

degli apparatčiki verso le forme espressive troppo elaborate e

l’insofferenza per la produzione straniera, ideologicamente

pericolosa. Critiche e lamentele iniziano a serpeggiare.

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Le Izvestija, ad esempio, prende di mira l’Aelita di Protazanov:

«La montagna ha partorito un topolino, ossia molto rumore per

nulla. Un anno di lavoro, notevoli spese per la messa in scena

e la pubblicità, la migliore organizzazione tecnica, un noto

regista, attori interessanti, un celebre romanzo, un volo in un

altro mondo, la rivoluzione su Marte, la Russia sovietica nel

1921... e il risultato: uno sciocco sogno di borghesuccio. Il fiero

volo è finito con una bolla di sapone». Il film, privo «d’uno

scopo ideologico e artistico», è solo un compromesso che imita

un genere in voga nell’Europa occidentale.