Christine von Borries - giunti.it · chero. Ha detto che arriva.» ... Un bambino bellissimo!» ......

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Christine von Borries

A noi donne basta uno sguardo

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Prima edizione: marzo 2018

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Alle donne grazie alle quali sono qui oggi

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“La mia ganbaru seito”, così l’aveva soprannominata il suo sen-sei quando aveva frequentato il corso di difesa personale per entrare in polizia. Era la sua allieva più tenace, quella che non mollava mai. Veniva buttata a terra, immobilizzata, lanciata in avanti, stretta in una morsa, ma non rinunciava a lottare. Non sapeva se fosse un pregio o un difetto. All’ufficio stranieri mor­moravano alle sue spalle che era troppo caparbia e poco elastica, lei però non se ne curava.

L’ ispettore Erika Martini entrò nell’edificio della Questura rivolgendo un cenno di saluto al collega di guardia all’ingresso. Passò davanti all’ascensore e salì le scale che portavano al suo ufficio. I riccioli rossi oscillavano ribelli a ogni passo. Una luce fiacca illuminava il lungo corridoio ricoperto di linoleum blu, simile a quello di un ospedale. Qualche stampa sbiadita occu­pava pareti che un tempo erano state bianche. Alle nove di sera gli uffici erano al buio. Di notte lavoravano solo gli uomini delle volanti che perlustravano la città e gli addetti al centralino. Entrò nella stanza che divideva con due colleghi e sedette con un sospiro sulla sua sedia. Mise una mano sulla pancia e ascol­tò i movimenti. Gli allenamenti con i compagni di palestra, quando metteva ko persone che pesavano il doppio di lei, erano ormai lontani. Dopo aver superato il concorso per entrare in

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polizia, aveva seguito il suo sensei che teneva lezioni di wing chun in una palestra non distante dall’ufficio. Ma purtroppo alla fine dell’anno aveva dovuto interrompere gli allenamenti: il judogi le era diventato troppo stretto a causa della pancia cresciuta a dismisura. Un calcio la fece sobbalzare.

Stava indagando su una vicenda che riguardava il numero di carte d’identità rilasciate dal comune di Firenze, esorbitante rispetto ai permessi di soggiorno. Qualche settimana prima un poliziotto delle volanti l’aveva chiamata durante un controllo su strada. Tre cittadini africani avevano esibito regolari carte d’identità rilasciate dall’ufficio anagrafe di Firenze e voleva sa­pere se erano in regola con i permessi di soggiorno. Erika ave­va verificato al terminale e scoperto che nessuno dei tre ne aveva uno. Aveva controllato e ricontrollato. Strano. Era un passaggio necessario per una persona che arrivava in Italia: la carta d’identità del comune di residenza era rilasciata solo do­po aver ottenuto il permesso di soggiorno, concesso se si era in possesso dei requisiti. Il collega a quel punto aveva pensato che le carte fossero state contraffatte, invece, da un ulteriore con­trollo, erano risultate regolarmente emesse. Qualcosa non tor­nava ed Erika aveva voluto vederci chiaro. Aveva richiesto all’ana grafe di Firenze l’autorizzazione ad accedere al database per svolgere dei controlli incrociati e poco prima le era stata inviata la password. Per questa ragione era tornata di nuovo in ufficio, senza avvertire né il capo né i colleghi.

Gli occhi verdi si illuminarono al riflesso dello schermo del computer. Digitò la password ed entrò senza difficoltà nel sito dell’anagrafe. Dopo vari tentativi trovò l’elenco delle carte d’iden­tità rilasciate a extracomunitari nell’ultimo anno e lo stampò. Concentrata, scorreva nomi e dati. Aggrottò la fronte e passò ai permessi di soggiorno rilasciati nell’ultimo anno. Scaricò

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questo secondo elenco e lo confrontò con quello del comune. Fin dalla lettera A trovò delle discrepanze. Una fitta dolorosa la costrinse a piegarsi in avanti e a trattenere il respiro per sva­riati secondi. Non appena fu passata, si raddrizzò e riprese fia­to, con una serie di inspirazioni profonde. Non si era sbagliata: i nomi nella lista del comune superavano quelli dell’ufficio stranieri. Davvero strano. Tra l’altro, la Questura registrava non solo i permessi di soggiorno rilasciati in Toscana, ma anche quelli del resto d’Italia. Questo poteva voler dire due cose: o in municipio c’era un funzionario corrotto che rilasciava le carte d’identità a chi non ne aveva diritto oppure venivano presen­tati permessi falsi. Prese una penna e cominciò a cerchiare i nomi che non tornavano.

«Mi vuoi dire cosa ci fai qui a quest’ora?»Erika sobbalzò, sentendo una voce ironica provenire all’im­

provviso dalla soglia. Si girò e vide il collega Ricciardi che la guardava con la sua solita espressione beffarda. Altezza media, fisico muscoloso grazie a ore di pesi in palestra, baffetti e basette.

«Sto facendo un controllo che mi era rimasto in sospeso.»«Ti pareva! Sei il solito mastino. Non riesci a rilassarti nean­

che ora che stai per partorire?»Un’altra fitta che cercò di dissimulare le ricordò che Ricciar­

di aveva ragione.«E tu cosa ci fai qui a quest’ora?»L’ ispettore capo Ricciardi, che aveva lavorato con lei per un

periodo all’ufficio stranieri, era passato da alcuni mesi alla squa­dra mobile, svolgendo ora indagini su ogni tipo di reato. Gli uffici si trovavano al piano di sotto. Erano quasi le dieci di sera.

«Devo ascoltare e trascrivere le ultime intercettazioni per un’indagine su una banda di ladri d’appartamento e preparare per domani mattina la richiesta di proroga alla Procura.»

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Stava per chiedergli perché fosse salito al secondo piano, quan­do sentì un rumore sordo, accompagnato subito dopo dalla sen­sazione di perdere dei liquidi. Scostò la seggiola dalla scrivania, scoprendo con sconcerto che i pantaloni erano chiazzati e che le acque si stavano spargendo sulla sedia.

«Che cos’hai? È successo qualcosa?» chiese Ricciardi avvi­cinandosi.

«Temo di aver rotto...» riuscì a dire Erika prima di emettere un gemito per una forte contrazione.

L’ urlo che rimbombò in sala parto non sembrava provenire dalle corde vocali della donna. Il dolore che da ore la travolgeva a ondate era tornato e sembrava strapparle le fibre muscolari a ogni nuova spinta. L’ ispettore Ricciardi l’aveva accompagnata in ospedale con la sua auto ed Erika aveva avuto appena il tempo di avvertire una sua amica. Sentiva voci confuse che le dicevano di continuare a spingere, mentre le contrazioni si susseguivano sempre più ravvicinate senza consentirle di riprendere fiato. Aveva perso la cognizione del tempo e i ricor­di sulle istruzioni ricevute per affrontare in modo controllato il parto. Tutto spazzato via dal dolore. L’ anestesia epidurale non le aveva fatto alcun effetto. Strinse entrambe le mani alla spalliera e inarcò il bacino. Non aveva più la forza di spingere, mentre l’ostetrica la rimproverava e le urlava di farlo. In quel momento entrò in sala parto la sua migliore amica, Valeria Parri. Erika l’aveva svegliata a mezzanotte dopo appena un’ora di sonno, reduce da due giorni di turno d’urgenza come sosti­tuto procuratore.

«Forza, ora ci sono io.»La sua mano le accarezzò i capelli sudati. Erika non ci fece

caso. Voleva scappare da lì, dalle luci bianche che la accecavano,

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dalle fitte che la squarciavano. Dalle dita che le premevano sul­la pancia a ritmo con le contrazioni.

Non si accorse che Valeria si era allontanata dalla sala ma udì un colpo forte. Le ostetriche e le infermiere uscirono di corsa, lasciandola sola. L’ infermiera più bassa rientrò.

«È svenuta.»«Chi?»«La sua amica. Ora sta meglio, le hanno dato acqua e zuc­

chero. Ha detto che arriva.»Se le contrazioni non glielo avessero impedito, avrebbe riso.

Valeria sbucò alle sue spalle. Appena in tempo.«Che ti è successo? Ahiii!»«Su, tesorino, dai che manca poco. Scusa, ma oggi ho lavo­

rato dodici ore e non ho toccato cibo...»Erika non riusciva a parlare, mentre Valeria continuava ad

accarezzarle i capelli e a mormorare parole di incoraggiamento.«Forza, ora spinga più forte che può!» urlò un’ostetrica alta

e grossa.Una nuova ondata di dolore l’assalì e lei, con le ultime forze

rimaste, spinse più che poté, provando un male atroce. Sollevò il busto fino a quando sentì qualcosa che si lacerava, e il figlio veniva tirato fuori dalle mani delle ostetriche.

«Eccolo, ci siamo, prendilo!» esclamarono più voci.Erika rimase immobile con gli occhi chiusi mentre nella sala

le infermiere, il medico e le ostetriche si muovevano indaffarati.«Sei stata bravissima! Un bambino bellissimo!»Valeria la baciò sulla fronte madida di sudore e uscì dalla

sala parto. Qualcuno le posò un fagotto sulla pancia, lei aprì gli occhi e vide un ciuffo di capelli scuri. Non sapeva ancora come chiamarlo. Lo accarezzò con una mano, ma si accorse subito di essere colta da un tremore incontrollabile. Aveva freddo, era

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scossa da brividi e suo figlio rischiava di scivolarle via. Non era ancora finita. L’ ostetrica grande e grossa e un’infermiera tor­narono, glielo tolsero e lo affidarono a mani più sicure. Doveva ancora espellere la placenta e l’ostetrica cominciò a spingere sulla pancia, prima con la mano e poi con il gomito. Non cre­deva di poter sentire lo stesso male di prima e invece si sbaglia­va. Finalmente qualcosa di denso uscì dal suo corpo. Le misero una coperta prima di spostarla in un corridoio di passaggio e di riportarle il bambino.

Stesa su un fianco, lo osservò: era così piccolo che aveva paura di romperlo. Lui aprì la bocca, trovò il seno e, come se non avesse fatto altro nella sua vita, cominciò a succhiare avi­damente.

Quando Erika si svegliò la mattina dopo, sua mamma era lì con lei. Con una smorfia di dolore si mise a sedere e l’abbracciò.

«Perché non mi hai chiamato ieri sera? Sarei venuta subito!» la rimproverò con il suo solito sorriso.

Giuliana era una bella donna. Alta, magra e atletica, grazie ad allenamenti quotidiani di ginnastica posturale. Capelli cor­ti e folti che aveva smesso volutamente di tingere, con il risul­tato paradossale di sembrare più giovane. Purtroppo il marito e padre di Erika era morto di infarto tre anni prima, ma lei, nonostante il dolore, era riuscita a mantenere l’equilibrio e la serenità che l’avevano sempre sostenuta.

«Scusa, mamma, ma le contrazioni sono cominciate verso mezzanotte e ho preferito chiamare Valeria e non tenerti alzata tutta la notte.»

«Sai che non mi sarebbe dispiaciuto affatto, ma non impor­ta. Dov’è Valeria?»

«È andata a casa, stamattina aveva un processo.»

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Mentre raccontava a sua madre i dettagli del parto, incluso lo svenimento dell’amica, arrivarono le infermiere con le culle. Nella stanza c’erano cinque pazienti per sei letti. Due erano ancora in travaglio e si lamentavano per le doglie, le altre ave­vano partorito quella stessa notte. Mentre sistemavano la culla con il figlio tra il suo letto e quello vicino, Erika incrociò lo sguardo della neomamma che lo occupava. Era una giovane di colore con i capelli ricci cortissimi, zigomi pronunciati e uno sguardo che mescolava gioia a qualcosa che non riuscì a deci­frare. Venne distratta dall’infermiera che, sorridendo, le posò accanto il piccolo.

Indossava una tutina con gli orsetti, aveva gli occhi chiusi, il volto arrossato e buffe orecchie a punta. Si scostò, facendogli spazio, e lui cominciò subito a piangere. Giuliana si sporse e lo accarezzò con gli occhi lucidi.

«Sai, piccolino, che tua nonna stamattina presto è venuta a vederti e non riusciva a trovarti tra tutte quelle culle? Poi, attra­verso il vetro ho visto che dopo le due lunghe file di cullette con i nuovi nati, ce n’era solo una in terza fila. Lo sai che c’eri proprio tu? Ti ho riconosciuto ancora prima di leggere il nome di tua madre sul cartellino.» Giuliana spostò lo sguardo sulla figlia. «A proposito, come lo chiamerai?»

«Non ho ancora deciso.»Erika sbottonò la camicia da notte e i gancetti del reggiseno

e il bambino, proprio come la notte prima, guidato da un istin­to infallibile, avvicinò la bocca al capezzolo e cominciò a suc­chiare, afferrando il seno con le sue manine minuscole. Rima­sero così una ventina di minuti, fino a che il piccolo si staccò e si addormentò.

Il giorno passò in fretta e dopo cena, quando Giuliana era tornata a casa e le infermiere avevano portato via i neonati,

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Erika percepì un’onda che risaliva: la montata lattea. Il seno si indurì, gonfiandosi all’improvviso, e quello che fino a quel mo­mento era stato un liquido semitrasparente si trasformò in lat­te di cui uscirono varie gocce. Rimase sveglia assaporando quel momento di relativa quiete. Aveva scelto quell’ospedale per due qualità che riteneva imprescindibili: praticavano l’anestesia epi­durale e durante le prime notti facevano dormire i bambini nella nursery, per dare un po’ di respiro alle neomamme.

Erika notò che anche la sua vicina di letto era sveglia.«Ciao, come ti chiami?» sussurrò.«Rosaline. You?»«Erika. Parli italiano?»La donna scosse la testa sorridendo e mosse la mano per

indicare che capiva qualche parola.Da quel momento parlarono inglese, ma anche in quella lin­

gua Rosaline George, come disse di chiamarsi, si esprimeva con difficoltà. Era arrivata in Italia al nono mese di gravidanza. Suo marito era rimasto in Siria, loro paese d’origine, lei era scappa­ta dal centro d’accoglienza dove la volevano rinchiudere ed era arrivata a Firenze in tempo per partorire. Erika domandò dove vivesse, ma la donna le rispose in modo confuso. Parlarono ancora qualche minuto dei rispettivi figli. Anche a Rosaline era nato un maschio, Kingsford.

La mattina successiva trascorse identica alla prima. Alle set­te arrivò sua madre e dopo la colazione vennero portati i bam­bini. Nel frattempo anche le altre due pazienti avevano parto­rito e un’altra fu dimessa. Poco prima di cena venne a trovarla il gruppo delle sue più care amiche. Valeria Parri, che le era stata accanto durante il parto, sua ex compagna di università, Giulia Gori, giornalista del quotidiano «L’ Attualità», e Monica Giusti, commercialista in uno studio associato.

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Fecero a gara per tenere in braccio il bimbo e, finalmente, Erika le sorprese con un grande annuncio.

«Ho deciso.»«Cosa?»«Come si chiamerà.»«Finalmente!» esclamò sua madre.Erika prolungò appositamente il momento di suspense.«Tommaso.»La notizia fu accolta da esclamazioni di approvazione e Tom­

maso passò di mano in mano per ricevere ancora una volta il benvenuto in questo mondo. Erika guardava ogni tanto Rosa­line che non aveva avuto una sola visita in due giorni e, quando la stanza si svuotò, cercò di capire qualcosa di più su di lei.

«Dove andrai domani quando ci dimetteranno?» le chiese.Rosaline le spiegò che era ospite di una casa d’accoglienza

situata in una villa sulle colline, vicino alla città. Aveva pre­sentato domanda di asilo, dato che la Siria era un paese in guerra.

Erika la osservò. Dopo la laurea aveva superato il concorso in polizia al primo tentativo. Grazie all’alto punteggio aveva ottenuto presto il trasferimento a Firenze, dopo un breve pe­riodo a Pistoia. L’ unica cosa di cui aveva dovuto accontentarsi era il tipo di incarico ricevuto. Aspirava a entrare nella squadra mobile, ma non era facile. Era un ruolo che bisognava guada­gnarsi sul campo. Per ora si occupava di stranieri, soprattutto extra comunitari, con tutto quello che comportava: richieste di permesso di soggiorno, espulsioni, fotosegnalamenti di clande­stini, controllo dei documenti necessari per regolarizzarsi e domande di asilo. Per ottenere lo status di rifugiato occorreva provenire da un paese in guerra, che non garantiva i diritti uma­ni, dove si rischiava la vita oppure si pativa per altre sofferenze

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fisiche, per motivi politici o razziali. A Erika, Rosaline, con la sua pelle così scura, non sembrava proprio siriana. Avrebbe scommesso che fosse ghanese. Decise di non approfondire per non metterla in imbarazzo. Anche lei, nella stessa situazione, avrebbe fatto di tutto per non essere espulsa e garantire a suo figlio la speranza di una vita migliore.

La mattina dopo, con l’aiuto di sua madre sistemò Tomma­so in un ovetto, prese sacchetti e borsa e salutò con un abbrac­cio Rosaline che si stava preparando ad andare via con suo fi­glio. Solo quando fu in macchina diretta a casa, pensò che avrebbero potuto scambiarsi i numeri di telefono.

Troppo tardi.

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Rosaline staccò dolcemente il figlio dal seno. Si era addormen­tato. Erano le sette del mattino. Lo guardò con orgoglio. In tre mesi era cresciuto e ingrassato di un chilo e mezzo. Aveva un viso perfetto, ovale, di un bellissimo colore della corteccia del baobab, il nasino camuso e le labbra che sembravano incise su una lastra di rame. Aveva gli occhi chiusi, e il respiro regolare faceva vibrare le ciglia scure. Con un sospiro lo posò nella culla del dormitorio femminile di dieci letti. La struttura che la ospi­tava da quando era arrivata in città si trovava a pochi chilometri da Firenze. Si trattava di un ex albergo che, al pianterreno, aveva gli spazi comuni: vestibolo, hall, cucina, sala da pranzo, bagni, oltre a qualche camera singola. Al primo piano i dormitori e la lavanderia. La villa era circondata da un parco di due ettari tagliato a metà da una strada non asfaltata che portava alla sta­tale. Si alzò dalla branda e porse Kingsford alla vicina di letto, Samirah, anche lei ghanese. Glielo affidava le mattine in cui lavorava come colf. Purtroppo non lo poteva portare con sé. La vecchina da cui faceva le pulizie l’aveva messo bene in chiaro. Quando tornava legava il figlio con un foulard di cotone grezzo alla schiena e lui rimaneva buono nelle ore in cui lei aiutava a pulire l’edificio, cullato dai movimenti e dal calore del suo corpo. In Africa una mamma non si staccava mai dal proprio

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bambino per i primi quattro­cinque mesi di vita. E il risultato era ottimo: i bambini non piangevano e venivano lasciati solo quando erano in grado di fare i primi movimenti.

Salutò l’amica con un cenno e uscì dalla casa d’accoglienza. Affrontò la strada a passo veloce. Raggiunse la fermata del bus e aspettò. Salì e rimase in piedi anche se era semivuoto. Lo sguardo sfiorò il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino: alberi, ville a due piani, auto parcheggiate. Il marito l’aveva ab­bandonata proprio quando stavano salendo sul barcone che li avrebbe portati in Italia. Incinta al nono mese, aveva guardato stupefatta il suo volto diventare sempre più piccolo. Non l’ave­va più sentito. Era riuscita a raggiungere Firenze e aveva trova­to questa casa d’accoglienza, finanziata dal comune, alla vigilia del parto. Appena arrivata, era stata convocata dal direttore John Magnus. Alto un metro e novanta, le mani enormi, una decina di anni più di lei. Indifferente al suo stato, le aveva spie­gato che doveva trovarsi subito un lavoro dato che gli doveva consegnare cinquanta euro a settimana per vitto e alloggio. In­tanto poteva fare richiesta per il permesso di soggiorno in Que­stura, perché erano frequenti i controlli.

Scese dall’autobus e raggiunse la palazzina dove lavorava. Suonò il campanello e salì al primo piano: qui la accolse una donna dai capelli bianchi che le diede le consegne. Lustrò tutto l’appartamento e concluse passando lo straccio sul pavimento. La padrona di casa rimase per tutto il tempo seduta in salotto a guardare la tv. All’una Rosaline salutò e uscì. Doveva tornare per allattare Kingsford e nel pomeriggio andare da una secon­da signora. Scese dall’autobus e si avviò lungo la salita alberata. Il fondo stradale era sconnesso e le radici dei pini gonfiavano l’asfalto. Infilò le mani dentro alla giacca leggera di seconda mano che le era stata regalata nella chiesa dove andava ogni

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domenica. Don Michele, il parroco, era molto attivo nell’aiuto agli extracomunitari, ai senzatetto e ai poveri. Alla fine della salita, girò intorno alla grande palazzina ed entrò nella sala mensa. Era ancora piena. A ogni tavolo sedeva una decina di persone. Rosaline salutò con un cenno del capo qualche amica mentre attraversava la sala, diretta al primo piano. Samirah e Kingsford non c’erano. Probabilmente erano saliti in stanza. Affrettò il passo ed entrò nella camerata. Vuota. Si diresse al bagno lungo il corridoio. Entrò. Le porte dopo l’antibagno dei water erano tutte aperte, fuorché una. Rosaline aspettò. Quan­do si aprì ne uscì Samirah da sola. Le due donne si guardarono. Una interrogativa, l’altra spaventata. Rosaline sentì il sangue defluire velocemente verso il petto, lasciandole la testa vuota, mentre un ronzio le assordava le orecchie.

«Dov’è?»La donna scosse la testa e una lacrima le rigò la guancia.Rosaline si avvicinò, l’afferrò per le spalle e le diede una

scrollata.«Dov’è?»«L’ hanno preso e portato via. Come hanno fatto con mia

figlia sei mesi fa.»Rosaline cadde in ginocchio, soffocando un gemito. Non

aveva più sangue nelle vene, il cuore aveva smesso di pompare, il respiro era corto e affannato come se avesse corso una mara­tona. Samirah, in ginocchio accanto a lei, la abbracciò. Comin­ciò a raccontarle la sua storia, ma Rosaline avrebbe voluto tap­parsi le orecchie e svegliarsi nella sua branda come dopo un incubo. La sua vita aveva senso solo se aveva Kingsford con sé. Il suo piccolo uomo con le manine dal palmo bianco che la afferravano con forza e non la volevano mai lasciar andare. La bocca ben disegnata che sorrideva. L’ odore che emanava il suo

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corpo e che lei aspirava appena poteva nella speranza che il suo cervello registrasse il ricordo per sempre. Rimasero così: capo contro capo, braccia intrecciate, lacrime che si mescolavano, voci che sussurravano e si fondevano in parole, sospiri, grida rauche, sussulti, mentre il tempo si fermava. Ogni tanto si apri­va la porta del bagno, qualcuno si affacciava e si ritraeva subito, richiudendola piano. L’ unica che fosse all’oscuro di quanto ac­cadeva ai figli delle ospiti era lei. Non a caso. Sarebbe scappata se l’avesse saputo. Si stupì della complicità di tutti gli altri, e soprattutto delle donne. Delle madri che avevano subito la stes­sa violenza. I cui figli erano stati rubati e portati via a pochi mesi dalla nascita, a volte anche molto più tardi, come la figlia di Samirah. Decidevano tutto i capi dell’associazione Arcoba­leno che gestiva l’accoglienza degli extracomunitari nella villa Il sorriso. A capo c’era un bianco anziano che passava due o tre volte alla settimana, dava un’occhiata in giro e si chiudeva nell’ufficio dietro alla reception, insieme al suo vice, John Ma­gnus, residente in Italia da molti anni.

Rosaline si sciolse dall’abbraccio, si sciacquò il viso con dell’acqua gelida e alzò lo sguardo in modo automatico verso lo specchio appeso sopra ai lavabi. Non si riconobbe. Occhi vuoti, come se la vita ne fosse stata risucchiata. Si girò verso la porta e uscì mentre Samirah continuava a parlare. Non voleva più ascoltarla. Doveva pensare a suo figlio. Le gambe comin­ciarono a muoversi con più energia mentre percorreva il corri­doio delle camerate. Il respiro si calmò mentre apriva e chiude­va le mani a pugno per recuperare sensibilità. Scese la scalina­ta fino al pianterreno ed entrò nella hall. Sentiva gli sguardi delle persone a cui passava accanto puntati su di sé. Tutti sape­vano cosa era accaduto. Superò il bancone della reception in­curante delle due donne sedute che le urlarono di fermarsi. Aprì

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la porta dell’ufficio del direttore. John Magnus era seduto dietro alla scrivania e sembrava che la stesse aspettando. Si alzò in tutto il suo metro e novanta e gli occhi sotto le palpebre pesan­ti la fissarono senza espressione. Le venne incontro. Quando furono uno di fronte all’altra, rimasero entrambi immobili, co­me due pugili che si studiano prima dell’inizio del combatti­mento.

«Ridammi mio figlio.»«Scordatelo. Devi essere grata che ti abbiamo preso. Senza

permesso, con una richiesta di asilo falsa. Non penserai che ci siamo bevuti che vieni dalla Siria?! Potresti essere espulsa e il tuo bambino, dove andrà, starà meglio che con te. Sarà adotta­to da due genitori ricchi che gli daranno...»

Rosaline si scagliò contro di lui e gli graffiò la faccia. Sor­preso, Magnus alzò le mani troppo tardi e sentì le unghie della donna che gli artigliavano le guance. L’ afferrò per i polsi e riu­scì a fatica ad allontanarla. Lottarono avvinghiati, Rosaline in preda a una rabbia che le dava una forza inaspettata che spiaz­zò l’uomo facendolo barcollare. Lui si liberò con uno spintone e, mentre lei gli si scagliava nuovamente addosso, le tirò un primo pugno in faccia, e con un secondo colpo la gettò a terra. Le sferrò calci alla schiena, sui fianchi, sulle gambe, con una furia cieca e senza controllo, finché non si fermò ansimante. Rosaline era raggomitolata ai suoi piedi immobile. Magnus aprì la porta. Due donne accorsero, lui biascicò delle istruzioni e loro trascinarono Rosaline fino al dormitorio.

Si stava tamponando con un fazzoletto la ferita al sopracci­glio, dalla quale usciva molto sangue, quando Magnus entrò e si sedette sul letto accanto. I presenti se ne andarono in silenzio.

«Se fai parola di tutto questo ti uccido.»Rosaline scrutò il viso lucido di sudore con i segni dei suoi

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graffi, lo sguardo privo di umanità, e non dubitò che l’avrebbe fatto. Abbassò le palpebre perché un liquido viscoso le stava scorrendo dentro l’occhio destro. Insieme al sangue caddero lacrime impotenti.

«Prendi me. Ridammi mio figlio e fai di me quello che vuoi.»Magnus la guardò per un istante soppesando la sua offerta,

infine scosse la testa. Non era male, ma non era abbastanza bella per farla entrare nel mondo della prostituzione. Avrebbe guadagnato molto di più dalla vendita del bambino. Doveva solo ridurla definitivamente all’obbedienza. Le posò una mano sulla spalla e la strinse fino a farle fare una smorfia. La ferita sul sopracciglio era brutta, sarebbero stati necessari dei punti, ma non l’avrebbe mandata in ospedale. Troppe domande.

«Niente può essere cambiato. Non so neppure dove si trovi adesso. Vedrai che starà meglio. Non essere egoista e pensa a lui, questo vuol dire essere una buona madre. Domani devi riprendere la solita vita, se vuoi rimanere qui. E ricordati che sabato mi devi dare cinquanta euro.»

Rosaline abbassò la testa e sentì i suoi passi pesanti che usci­vano dalla stanza. Le gocce di sangue avevano formato una piccola pozza sul pavimento quando venne raggiunta da Sami­rah che la fece sdraiare. Aveva con sé la cassetta del pronto soccorso, presa alla reception. La disinfettò con acqua ossige­nata e tamponò la ferita con una garza, invitandola a metterci una mano sopra e a premere forte.

«Sai che in Ghana facevo l’infermiera?»«No.»«Se a questa ferita non viene dato qualche punto non smet­

terà di sanguinare per un pezzo e ti rimarrà una brutta cicatrice.»«Non penso che mi permetterà di andare in ospedale.»«Hai ragione, credo di no. Vuoi che vada a chiederglielo?»

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«Meglio di no. Mi dai tu qualche punto?»«Non l’ho mai fatto...»«Per favore. Non sarà così diverso da un rammendo!»

Samirah frugò ancora nella cassetta e trovò un ago da sutura e del filo sottile e trasparente.

«Vieni con me.»La aiutò ad alzarsi. Ora che lo shock del pestaggio stava pas­

sando, Rosaline sentiva dolori lancinanti in tutto il corpo. Zop­picava in modo vistoso dalla gamba destra, le faceva male la schiena e non riusciva ad aprire l’occhio destro, sempre più gonfio. Si resse al braccio dell’amica che l’accompagnò in bagno. Le persone che incrociavano bisbigliavano e si voltavano dall’al­tra parte. Nessuno voleva problemi con Magnus, ognuno pen­sava alla propria sopravvivenza.

In bagno Samirah la fece sporgere in avanti sul lavandino, aprì l’acqua del rubinetto e la regolò in modo che fosse tiepida. Con una garza imbevuta d’acqua le deterse con delicatezza il volto e il taglio profondo procurato dall’anello che Magnus por­tava alla mano destra. La ferita sanguinava ancora, ma meno copiosamente. Quando finì di pulirla, accostò con le dita i due lembi e ci applicò sopra una garza asciutta. Tornarono nella stanza, Rosaline si stese a letto e Samirah disinfettò con l’alcol un ago estratto da una busta e infilò nella cruna un filo traspa­rente.

«Purtroppo non c’è nessun tipo di anestetico. Ti farà male. Pensi di farcela?»

Al cenno positivo dell’amica, si sporse su di lei, le tolse con attenzione la garza e, tenendo unita la pelle con le dita della mano sinistra, inserì l’ago nel bordo esterno. La donna sussultò, ma rimase ferma e non emise un solo gemito, mentre Samirah

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continuava a cucire. Dopo aver dato sei punti, fece un nodo finale e tirò un lungo sospiro.

«Come va?»«Te lo puoi immaginare.»Samirah sistemò la cassetta del pronto soccorso e la chiuse.«Già.»A Rosaline erano spuntate di nuovo le lacrime.«Mi vuoi raccontare cosa ti è successo? Che ne è stato della

tua bambina?» domandò.«Quando siamo arrivate in Italia, mia figlia aveva due anni.

Sei mesi fa me l’hanno presa.»«E tu cosa hai fatto?»«Nulla. Magnus aveva trovato lavoro a mio marito al Nord

e io ero sola. Ci disse che eravamo giovani, che potevamo far­ne tanti altri. Invece in Italia c’erano molte coppie che non ci riuscivano e che non potevano adottare un figlio in tempi ra­gionevoli, oppure che per l’età non avrebbero ottenuto bambi­ni piccoli. Così mio marito mi convinse a stare zitta. Appena avrà trovato una casa abbastanza grande per entrambi lo rag­giungerò.»

«E tu come stai?»Samirah chinò la testa.«Non ne voglio parlare e non ci voglio pensare. E anche tu

non farlo. Tuo marito è lontano, come credevi di cavartela con un figlio? Rassegnati, lotta per ottenere un permesso e rimane­re in Italia. Vedrai che ti rifarai una vita.»

Rosaline passò la notte tra il sonno e la veglia, entrambi popolati da incubi. Era come se le avessero strappato metà del corpo. Appena chiudeva gli occhi, vedeva Kingsford che la chia­mava disperato. La mattina dopo si trascinò al lavoro. La vec­china le aprì e le fece una domanda distratta sulla ferita alla

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fronte coperta da una garza vistosa, prima di uscire a fare la spesa. Sedette al tavolo della cucina troppo dolorante e affran­ta per lavorare. Rimase immobile per un tempo che le parve interminabile. Quando si alzò, prese da un cassetto nel mobile all’ingresso il bloc­notes dove la signora annotava la lista delle cose da comprare una volta alla settimana, tornò in cucina e scrisse in inglese una lettera. Scese, comprò una busta in carto­leria, ci scrisse l’indirizzo della Questura e la spedì dall’ufficio postale vicino alla fermata dell’autobus che doveva prendere per arrivare alla villa.

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Valeria Parri sfilò le scarpe con il tacco sotto la scrivania e si sgranchì le dita dei piedi doloranti. Indossava un tailleur grigio chiaro. I capelli biondi e lisci le ricadevano morbidi sulle spalle. Sospirò. Mezzogiorno. Chissà se l’esame della donna maltrattata sarebbe finito in tempo da permetterle di andare a prendere suo figlio a scuola. Era in prima elementare e per fortuna, all’occor­renza, poteva mandare la baby­sitter che curava la figlia più pic­cola, di quattro anni. Suo marito Mario, professore universitario a ingegneria, era per tre giorni in Germania a un convegno.

La donna seduta davanti al microfono aveva accusato il con­vivente di maltrattamenti subiti per molti anni. Ogni tanto si lasciavano e lui tornava al Nord nella sua città natale. Spesso era stata lei a richiamarlo, ma ogni volta la convivenza sfociava nuovamente in abusi fisici e morali. Alla fine delle indagini Valeria aveva chiesto al giudice di allontanarlo dall’abitazione della donna, e l’ordine era stato ormai emesso.

Da tre anni Valeria faceva parte del gruppo specializzato in reati di violenza sessuale e stalking, e aveva constatato come spesso le donne maltrattate, dopo la prima denuncia, cambia­vano idea e ritrattavano. Tornavano insieme al compagno e regolarmente le violenze riprendevano. Le subivano per molte­plici motivi. Debolezza psicologica ed economica, la presenza

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di figli, la mancanza di sostegno da parte di familiari o amici. C’erano anche la speranza vana che l’uomo potesse cambiare e l’illusione di riuscire a salvarlo. Lo spirito da crocerossina che purtroppo ogni donna cova dentro di sé anche a scapito della propria salute e talvolta della vita.

Valeria aveva chiesto al giudice delle indagini preliminari di raccogliere la testimonianza della donna.

«Vuole che interrompiamo per qualche minuto?» chiese il giudice Susanna Calì alla donna che, dopo un’ora di domande, si era messa a piangere, mentre ricordava i dettagli più crudi della sua storia con il convivente disoccupato e alcolizzato.

In aula erano presenti solo donne, compreso l’avvocato di­fensore dell’indagato, che non era comparso. Alle spalle del giudice, seduto dietro il bancone sopraelevato, si leggeva la scritta LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI.

«No grazie, vorrei solo un po’ d’acqua.»La cancelliera incaricata di scrivere il verbale le porse un

bicchiere e una bottiglietta che aveva portato per sé. La testi­mone bevve avidamente qualche sorso. Quando si dichiarò pronta, continuò a rispondere alle domande del giudice con molte esitazioni e digressioni.

Valeria faticava a mantenere la calma, benché di solito fosse paziente. Avrebbe voluto scuotere la donna e dirle che doveva solo ripetere le cose che aveva già detto nella denuncia. Quan­te volte era stata picchiata, minacciata, ingiuriata e derisa. È una regola matematica di questo tipo di uomini. Meno valgono, più cercano di distruggere l’immagine della loro compagna, in mo­do da potersi sentire superiori. Era incredibile constatare quan­te donne in gamba, belle, con un lavoro appagante, piene di amici e di interessi, si facessero coinvolgere in questo gioco al massacro.

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Alla fine la donna, incalzata dal giudice e dal pubblico mi­nistero, riuscì a elencare in modo chiaro i dettagli delle violen­ze subite in più di otto anni. Anche l’avvocato difensore parve crederle e le rivolse poche domande.

«Bene, se non ha altro da aggiungere, direi di chiudere l’esa­me. Dispongo la restituzione degli atti al pubblico ministero per la prosecuzione delle indagini» concluse il giudice.

La pm cominciò a raccogliere le carte che aveva sparpaglia­to sulla scrivania, quando vide vibrare il cellulare del turno di urgenza. Il numero della Questura. Rispose a bassa voce chie­dendo se la potevano richiamare dopo qualche minuto. Salutò e uscì dall’aula. In una Procura come quella, composta da una trentina di pubblici ministeri, il turno durava un giorno al me­se, durante il quale si doveva rispondere alle telefonate delle forze dell’ordine che informavano degli arresti o di fatti gravi che potevano richiedere l’intervento del magistrato sul posto.

Entrò nel suo ufficio, lasciando la porta spalancata, e guardò il mucchio di fascicoli davanti alla tastiera. La sua assistente si affacciò e le chiese se aveva tempo per sbrigare la posta. Per mezz’ora la pm firmò decine di carte, tra cui varie istanze di detenuti disponibili a farsi applicare il braccialetto elettronico pur di uscire dal carcere. Ma i dispositivi, affittati dal ministero, erano solo duemila ed erano destinati a tutta l’Italia, quindi si erano esauriti da tempo e le liste di attesa erano lunghe. Passò a esaminare i verbali di sequestro effettuati dalla polizia e li con­validò. Motorini rubati, un camion carico di rifiuti trasportato illecitamente, tre assegni con la firma falsificata depositati in banca, un apparecchio sofisticato installato su un bancomat per carpire i codici delle carte inserite dagli ignari clienti.

«Vuole un panino, dottoressa?»

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Valeria alzò lo sguardo e vide il poliziotto che occupava l’uf­ficio adiacente al suo. Erano quasi le tre.

«Grazie, Andrea, ma solo se scendi già per te.»Chiese un sandwich e una bottiglietta d’acqua. In quel mo­

mento si ricordò del cellulare del turno. Aveva lasciato inserita la vibrazione. Lo pescò dalla borsa, scansando salviettine umi­dificate, il portafoglio pieno di scontrini, foglietti e vari altri oggetti. Tre chiamate senza risposta. Tutte della Questura. Af­ferrò il telefono fisso e compose a memoria il numero. Dopo qualche anno passato a lavorare in Procura si era dettata una regola che serviva a risparmiare tempo prezioso: imparare a me­moria i numeri dei centralini delle principali forze dell’ordine.

Il centralinista disse che, appena avesse scoperto chi la cer­cava, l’avrebbe fatta ricontattare. Valeria mangiò il panino e finì di scrivere al computer l’ultima convalida di perquisizio­ne. Rispose a un paio di telefonate della polizia: la informava­no dell’arresto di un uomo sorpreso a rubare dalle auto par­cheggiate e di uno spacciatore davanti a una scuola media. Prese la terza telefonata guardando il display sul computer: le 15.45. Faceva ancora in tempo a prendere suo figlio all’uscita da scuola.

«Dottoressa Parri?»«Sì.»«Sono il dottor Giani.»«L’ avevo riconosciuta, mi dica pure.»Giani era il capo della sezione della squadra mobile, respon­

sabile di delitti gravi contro la persona. Omicidi, rapine, seque­stri. Doveva trattarsi di qualcosa di serio.

«Sono contento che ci sia lei di turno perché francamente non so bene cosa pensare di quel che è accaduto e ho bisogno di un consiglio.»

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Si conoscevano da quando lei era arrivata alla Procura tre anni prima e insieme avevano svolto varie indagini. C’erano stima e fiducia reciproche.

«Mi dica.»«Una collega dell’ufficio stranieri mi ha chiamato stamatti­

na e mi ha detto che voleva mostrarmi una lettera che denun­ciava un grave reato. Effettivamente, se fosse vera, ci sarebbe in corso il sequestro di un minore.»

«Vada avanti» disse Valeria.Dalla vetrata che si apriva su una delle pareti della stanza,

vedeva le colline che si inseguivano ai lati della città.«È scritta in un inglese stentato. Una donna dice che suo

figlio di appena tre mesi è stato rapito ieri. Ha lasciato il suo numero di cellulare.»

«Dove abita?»«Non l’ha scritto. Suppongo che abbia paura. Ci chiede di

aiutarla a ritrovare suo figlio.»«Ha provato a chiamarla?»«No, aspettavo di sentire cosa ne pensa.»Valeria sospirò. Le 15.55.«L’ aspetto con la lettera.»«Bene, arrivo entro mezz’ora.»Valeria chiamò Camilla, la baby­sitter, per dirle di andare a

prendere Saul. Si accarezzò distrattamente la pancia, mentre attendeva l’arrivo del poliziotto. Aveva un ritardo di qualche giorno e non osava immaginare le conseguenze se fosse rimasta incinta per la terza volta in così poco tempo. Corrugò la fronte dalla pelle liscia e diafana. Dopo un istante, un sorriso cancellò la ruga di preoccupazione. Pensò all’emozione di tenere fra le braccia un figlio appena nato, al piacere dell’allattamento e an­che alle notti insonni, ai pianti, al lavoro che avrebbe dovuto

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sospendere per qualche mese, ai mugugni dei colleghi, all’alle­gria degli altri due figli e alle inevitabili gelosie tra fratelli.

Quando bussarono alla porta, si riscosse con un sussulto e tolse la mano dalla pancia. Forse era solo un banale ritardo.

«Avanti, dottore.»Si presentarono nell’ufficio il commissario Marco Giani,

l’ispet tore Laringella, suo vice, e l’ispettore Ricciardi, arrivato da poco alla squadra mobile. Dopo un breve saluto il commissario le consegnò la lettera. La lesse con attenzione. Il timbro postale era di Firenze. Il quartiere del Salviatino, case belle e molti giar­dini. La scrittura era incerta, in stampatello. C’erano errori, ma il contenuto era chiaro. Valeria dimenticò tutto quello che l’ave­va preoccupata fino a quel momento per concentrarsi su questa invocazione d’aiuto. Non era uno scherzo né un’esagerazione. Un bambino di tre mesi. Come il suo figlioccio Tommaso, il bimbo della sua amica Erika. Inspirò profondamente e decise.

«La chiamo io.»Nessuno pronunciò una parola. Valeria afferrò la cornetta

del telefono fisso dell’ufficio. Compose il numero scritto sulla lettera. Libero. Venti squilli. Stava per riattaccare, quando una voce di donna rispose in inglese. Valeria le comunicò che la polizia aveva ricevuto la sua lettera. Silenzio. Si presentò come il magistrato incaricato delle indagini. La voleva incontrare per poterla aiutare. Silenzio. Non sapeva più cosa dire e se fosse meglio insistere, oppure no. Forse era solo uno scherzo. Final­mente la donna sussurrò che si potevano vedere la mattina do­po alle dieci in viale dei Mille, alla gelateria Badiani. Attaccò.

«Dottore, credo che all’appuntamento sia meglio che ci vada soltanto io.»

«È escluso, non posso assumermi la responsabilità che le accada qualcosa.»

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«Potreste appostarvi lì vicino e tenere d’occhio la situazione. Se la donna si presenta da sola e non c’è alcun pericolo, voglio avere il tempo di parlarle per verificare se la storia è vera e convincerla a collaborare.»

«Questo si potrebbe fare. Voglio però che ci sia con lei al­meno qualcuno armato che possa difenderla nel caso in cui si trattasse di una persona pericolosa.»

«Dottore, se è d’accordo, posso accompagnarla io. Dopo tut­to ho molta esperienza con gli stranieri» intervenne l’ispettore Ricciardi.

Valeria strinse le labbra, non era d’accordo, pur sapendo che Giani aveva ragione. Decise di non tirare troppo la corda.

«Va bene, ma deve essere una donna.»Giani annuì e Ricciardi rimase in silenzio. Se i fatti erano

veri, la donna doveva essere terrorizzata e trovare all’appunta­mento degli uomini poteva farle cambiare idea.

«Chi potrebbe venire con me?» proseguì la pm.Il commissario rifletté. L’ unica donna del suo gruppo era in

maternità. Stava pensando a qualche ispettore delle altre sezio­ni, quando i suoi pensieri vennero interrotti.

«Posso suggerire la poliziotta che l’ha informata della lette­ra? È grazie a lei che ha avuto inizio questa indagine» propose Valeria.

Giani annuì. Conosceva di vista Erika Martini, in servizio all’ufficio stranieri, e ne aveva sentito parlare bene. Precisa, se­ria, di poche parole, non si tirava indietro quando c’era da la­vorare. Sapeva che svolgeva il suo lavoro con scrupolo e che era considerata caparbia e determinata. Era al corrente della sua aspirazione a entrare nella squadra mobile. Poteva essere l’oc­casione giusta per metterla alla prova.

«È una buona idea.»

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«Chi è?» chiese il magistrato.«Si chiama Erika Martini.»Valeria nascose un sorriso e non accennò alla sua amicizia

con la poliziotta. Precisarono i dettagli dell’incontro dell’indo­mani e si diedero appuntamento nel suo ufficio, alle nove. Ri­masta sola, Valeria si alzò e andò a informare il procuratore.