Chekov, Racconti Umoristici

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1 Anton P. Čechov RACCONTI UMORISTICI Letteratura russa

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Anton P. Čechov

RACCONTI UMORISTICI

Letteratura russa

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Anton P. Čechov

RACCONTI UMORISTICI

Letteratura russa

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Un cognome cavallino

Al maggior generale a riposo Buldeiev avevan preso a dolere i denti. Egli

sciacquava la bocca con acquavite, con cognac, applicava al dente malato della

gruma di tabacco, dell’oppio, della canfora, del petrolio, spalmava la guancia

con iodio, negli orecchi aveva dell’ovatta imbevuta di spirito, ma tutto ciò o

non giovava, o gli provocava la nausea. Alla proposta di estirpare il dente ma-

lato il generale aveva risposto con un rifiuto. Tutti i familiari – la moglie, i

bambini, la servitù, perfino lo sguattero Pet’ka – proponevano ciascuno un suo

rimedio. Tra l’altro, anche l’intendente di Buldeiev, Ivàn Jevseic’, venne da lui

e gli consigliò di curarsi con gli scongiuri.

«Qui, nel nostro distretto, eccellenza» disse, «un dieci anni fa era in servizio

l’impiegato del dazio Jakov Vassilic’. Nello scongiurare il mal di denti era di

prima qualità. Soleva voltarsi verso la finestra, mormorare qualcosa, sputare,

ed era fatto! Una tal forza gli era stata data...».

«E dov’è adesso?».

«Dopo che l’hanno licenziato dal dazio, abita a Saratov dalla suocera. Ora non

vive che sui denti. Se a qualcuno un dente si mette a far male, si va da lui, e

giova... Quelli del posto, di Saratov, li cura a casa propria, e quelli che sono di

altre città, per telegrafo. Mandategli, eccellenza, un telegramma, dicendo ch’è

così e così... al servo di Dio Aleksèi dolgono i denti, prego guarire. E il denaro

per la cura lo manderete per posta».

«Insulsaggini! Ciarlataneria!».

«Ma voi provate, eccellenza. È molto amante della vodka, non vive con la mo-

glie, ma con una tedesca, bestemmia, ma, si può dire, è un signore miracolo-

so!».

«Mandalo, Alioscia» supplicò la generalessa. «Tu, ecco, non credi negli scon-

giuri, ma io ho provato su me stessa. Anche se non credi, perché non mandare?

Non ti seccheranno mica le braccia per questo».

«Be’, d’accordo» acconsentì Buldeiev. «Qui non solo all’impiegato del dazio,

ma anche al diavolo manderesti un telegramma... Oh! Non ne posso più! Be’,

dove abita il tuo impiegato del dazio? Come scrivergli?».

Il generale sedette davanti alla tavola e prese in mano la penna.

«A Saratov ogni cane lo conosce» disse l’intendente. «Vogliate scrivere, eccel-

lenza: città di Saratov, dunque... A sua nobiltà il signor Jakov Vassilic’... Vas-

silic’...».

«Be’?».

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«Vassilic’... Jakov Vassilic’... e di cognome... Ecco che il cognome l’ho di-

menticato!... Vassilic’... Diavolo... Com’è dunque il suo cognome? Poc’anzi,

quando venivo in qua, me ne ricordavo... Permettete...».

Ivàn Jevseic’ levò gli occhi al soffitto e mosse le labbra. Buldeiev e la genera-

lessa aspettavano impazienti.

«Ebbene? Pensa più svelto!».

«Subito... Vassilic’... A Jakov Vassilic’... Ho dimenticato! È anche un cogno-

me così semplice... cavallino; si direbbe... Giumentin1? No, non Giumentin.

Un momento... Stallonov forse? No, nemmeno Stallonov. Ricordo ch’è un co-

gnome cavallino; ma quale, m’è uscito di capo...».

«Puledrov?».

«Proprio no. Un momento... Giumèntizin... Giumèntikov... Kobeliòv...».

«Questo è già canino2, e non cavallino. Stallòncikov?».

«No, nemmeno Stallòncikov... Cavallinin... Cavalkòv... Puledrin... È sempre

un’altra cosa!».

«Be’, allora come potrò scrivergli? Pensaci!».

«Subito. Cavalkin... Giumentkin...Timonièr3...

«Timonierkov?» domandò la generalessa.

«Proprio no. Bilancinkin4... No, non è questo! Ho dimenticato!».

«Allora perché mai, che il diavolo ti porti, ti fai avanti coi tuoi consigli, se hai

dimenticato? andò in collera il generale. «Vattene fuori di qui!».

Ivàn Jevseic’ uscì lentamente, e il generale si afferrò la guancia e prese a girare

per le stanze.

«Oh, padri miei!» si lamentava. «Oh, mamma mia! Oh, vedo le stelle!».

L’intendente uscì in giardino e, levati gli occhi al cielo, cercò di rammentare il

cognome dell’impiegato daziario:

«Stallòncikov... Stallonkovski... Stallònenko... No, non è questo! Cavallinski...

Cavallevic’... Stallònovic... Giumentianski...».

Dopo un po’ di attesa lo chiamarono dai signori.

«Te ne sei ricordato?» domandò il generale.

«Proprio no, eccellenza».

«Forse Corsierski? Cavalnikov? No?».

E nella casa si misero tutti a gara a inventar dei cognomi. Passarono in rasse-

gna tutte le età, i sessi e le razze dei cavalli, ricordarono la criniera, gli zoccoli,

i finimenti... In casa, in giardino, nella stanza dei servi e in cucina le persone

andavano da un angolo all’altro e, grattandosi la fronte, cercavano il cogno-

me...

L’intendente veniva di continuo chiamato in casa.

«Mandriòv?» gli domandavano. «Zoccolìn? Staillonovski?».

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«Proprio no» rispondeva Ivàn Jevseic’ e, levati in alto gli occhi, continuava a

pensare ad alta voce: «Destrièrenko... Destrièrcenko... Stallonieiev... Giumen-

tieiev...».

«Babbo!» si gridava dalla stanza dei bambini. «Troikin! Briglietkin!».

Tutta la casa di campagna fu sottosopra. Il generale impaziente, sfinito, promi-

se di dare cinque rubli a chi avesse ricordato il vero cognome, e a cercare Ivàn

Jevseic’ cominciarono a venire a intere frotte...

«Baiov!» gli dicevano. «Trottatorski! Cavallitski!».

Ma giunse la sera e il cognome non era ancora stato trovato. E così andarono a

dormire, senza aver mandato il telegramma.

Il generale non dormì tutta notte e andò sempre da un angolo all’altro, gemen-

do... Dopo le due del mattino usci di casa e bussò alla finestra dell’intendente.

«Non è Castronov?» domandò con voce di pianto.

«No, non è Castronov, eccellenza» rispose Ivàn Jevseic’ e sospirò come un

colpevole.

«Ma forse non è un cognome cavallino, ma qualche altro!».

«Parola d’onore, eccellenza, è cavallino... Questo anzi lo ricordo benissimo».

«Come sei smemorato, mio caro... Per me adesso quel cognome è più caro, mi

sembra, d’ogni cosa al mondo. Sono sfinito!».

Al mattino il generale mandò nuovamente per il dottore.

«Lo estragga!» si risolse. «Non ho più la forza di sopportare...».

Arriva il dottore ed estrasse il dente malato. Il dolore si calmò immediatamen-

te, e il generale tornò tranquillo. Fatta l’opera sua e ricevuto quel che spettava

per il lavoro, il dottore salì sul suo calesse e andò a casa. Fuor del portone in

un campo incontra Ivàn Jevseic’... L’intendente stava sul ciglio della strada e,

guardandosi riconcentrato sotto i piedi, pensava a qualcosa. A giudicar dalle

rughe che gli solcavano la fronte e dall’espressione degli occhi, i suoi pensieri

eran tesi, tormentosi.

«Isabellov... Correggionov...» mormorava. «Soggolin... Cavalski...».

«Ivàn Jevseic’!» gli si rivolse il dottore. «Non potrei, colombello, comprar da

voi un cinque stai d’avena? I nostri contadini mi vendono l’avena, ma è cattiva

assai...».

Ivàn Jevseic’ guardò ottusamente il dottore, fece un certo qual bizzarro sorriso

e, senza dir nemmeno una parola in risposta, battendo le mani, corse verso la

casa padronale con tanta rapidità come se lo avesse inseguito un cane arrabbia-

to.

«Ho trovato, eccellenza! si mise a gridare gioiosamente, con voce alterata,

piombando nello studio del generale. «Ho trovato, che Dio conservi in salute il

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dottore! Avenov! Avenov è il cognome dell’impiegato daziario! Avenov, ec-

cellenza! Mandate un telegramma ad Avenov!».

«To’!» disse il generale con disprezzo e gli fece le corna sotto il viso. «Non ho

più bisogno del tuo cognome cavallino! To’!».

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Il Leone e il Sole

In una delle città situate da questa parte della catena degli Urali si diffuse la

voce che giorni prima era giunto in città e si era fermato all’albergo Giappone

il dignitario persiano Rachat-Chelam. Questa voce non produsse sugli abitanti

alcuna impressione: era arrivato un persiano, e fosse pure. Il solo sindaco della

città, Stepàn Ivànovic’ Kutsin, appreso dal segretario della Giunta l’arrivo

dell’orientale, si fece pensoso e domandò:

«Dove si reca?».

«A Parigi, sembra, o a Londra».

«Uhm!... Dunque un pezzo grosso?».

«Ma il diavolo lo conosce».

Venuto dalla Giunta a casa sua, e pranzato, il sindaco tornò a farsi pensoso, e

questa volta ormai meditò fin proprio a sera. L’arrivo dell’illustre persiano lo

aveva fortemente incuriosito. Gli pareva che il destino stesso gli avesse inviato

quel Rachat-Chelam e che, finalmente, fosse venuto il momento propizio per

fare del suo appassionato, intimo sogno una realtà. Il fatto è che Kutsin aveva

due medaglie, la Stanislao di terza classe, l’insegna della Croce Rossa e

l’insegna della «Società di Salvataggio sulle Acque», e inoltre si era fatto an-

cora un ciondolo (fucile e chitarra d’oro, che si incrociavano), e questo ciondo-

lo, infilato all’occhiello della divisa, somigliava da lontano a qualcosa di spe-

ciale e passava benissimo per un segno di onorificenza. È poi risaputo che, più

si han decorazioni e medaglie, più se n’ha voglia; e il sindaco della città da un

pezzo già desiderava ricevere l’ordine del «Leone e Sole», lo desiderava ap-

passionatamente, pazzamente. Egli sapeva a meraviglia che per ricevere

quest’ordine non necessitava né battersi, né fare un’elargizione a un asilo, ma

ci voleva solo un’occasione propizia. E ora gli pareva che quest’occasione fos-

se venuta.

Il giorno dopo, a mezzodì, egli mise tutti i suoi distintivi, la catenella, e si recò

al Giappone. La sorte lo favorì. Quand’egli entrò nella camera dell’illustre per-

siano, quest’ultimo era solo e non faceva nulla. Rachat-Chelam, un asiatico

colossale dal lungo naso di beccaccia, gli occhi a fior di testa, e in fez, era se-

duto sul pavimento e rovistava nella valigia.

«Prego scusare il disturbo» cominciò Kutsin, sorridendo. «Ho l’onore di pre-

sentarmi: cittadino emerito ereditario e cavalier Stepàn Ivànovic’ Kutsin; sin-

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daco del luogo. Stimo dover mio onorare sotto l’aspetto della vostra persona,

per così dire, il rappresentante d’una potenza a noi amica e vicina.

Il persiano si volse e borbottò qualcosa in pessima lingua francese, che risonò

come il batter di una gamba di legno contro un’asse.

«I confini della Persia» continuò Kutsin il saluto anticipatamente mandato a

memoria, «si toccano strettamente con le frontiere della nostra vasta patria, e

per ciò le mutue simpatie mi spingono, per così dire, a esprimervi solidarietà».

L’illustre persiano si alzò e tornò a borbottare alcunché in una lingua legnosa.

Kutsin, che non conosceva le lingue, scosse la testa in segno che non capiva.

«Be’, come farò a discorrer con lui?» pensò. «Sarebbe bene ora mandar per un

interprete, ma è una faccenda delicata, non si può parlare davanti a testimoni.

L’interprete lo strombazzerebbe poi per tutta la città».

E Kutsin prese a richiamarsi in mente delle parole straniere, quali le conosceva

dai giornali.

«Io sono il sindaco della città...» mormorò. «Cioè il lord-mer5... munizipale6...

Vuì? Comprené7?.

Egli voleva esprimere a parole o in mimica la sua posizione sociale e non sa-

peva come farlo. Gli venne in aiuto un quadro con una grossa scritta «La città

di Venezia», appeso al muro. Egli accennò col dito alla città, poi alla propria

testa, e in tal modo, a suo avviso, si ottenne la frase: «Io sono il sindaco della

città». Il persiano non capì nulla, ma sorrise e disse:

«Biene, musié... biene...».

Mezz’ora dopo il sindaco andava battendo al persiano ora un ginocchio, ora

una spalla, e diceva:

«Comprené? Vuì? Come lord-mer e munizipale... vi propongo di fare un pic-

colo promenàz8 Comprené? Un promenàz...».

Kutsin puntò un dito su Venezia e con due dita raffigurò delle gambe in cam-

mino. Rachat-Chelam, senza levar gli occhi dalle sue medaglie e indovinando,

a quanto pareva, ch’era il personaggio più importante della città, capì la parola

promenàz e scoprì i denti cortesemente. Quindi i due indossarono il cappotto e

usciron dalla camera. Giù, accosto all’uscio che metteva nel ristorante Giappo-

ne, Kutsin pensò che non sarebbe stato male fare un trattamento al persiano. Si

fermò e, indicandogli le tavole, disse:

«Secondo l’uso russo, non guasterebbe... piurè, antrecot... sciampagn9, eccete-

ra... Comprené?».

L’insigne ospite capì e, dopo breve attesa, i due sedevano nella miglior saletta

del ristorante, bevevano sciampagna e mangiavano.

«Beviamo alla prosperità della Persia!» diceva Kutsin. «Noi russi amiamo i

persiani. Saremo di fede differente, ma i comuni interessi, le reciproche, per

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così dir, simpatie... il progresso... i mercati asiatici... le conquiste pacifiche, per

così dire...».

L’illustre persiano mangiava e beveva con grande appetito. Egli piantò la for-

chetta in un filetto di storione e, scotendo entusiasticamente la testa, disse:

«Biene! Bien!».

«Vi piace?» si rallegrò il sindaco. «Bien? Ecco, benissimo». E, rivolto al ca-

meriere, disse: «Lukà, fa’ mandare, caro, a Sua Eccellenza in camera due dorsi

di storione, che sian dei migliori!».

Poi il sindaco della città e il dignitario persiano andarono a visitare il giardino

zoologico. Gli abitanti videro come il loro Stepàn Ivànovic’, rosso dallo

sciampagna, allegro, molto soddisfatto, guidava il persiano per le vie principali

e per il bazar, mostrandogli le cose singolari della città, e lo conduceva anche

in torre di vedetta.

Fra l’altro, gli abitanti videro com’egli si fermò presso il cancello di pietra con

leoni e additò al persiano dapprima un leone, poi, in alto, il sole, accennò a sé

in petto, poi di nuovo il leone e il sole, e il persiano prese a scuotere il capo,

come in segno di assenso, e, sorridendo, mise in mostra i suoi denti bianchi. A

sera i due sedevano all’albergo Londra e ascoltavano le arpiste, e dove furon la

notte, non si sa.

Il giorno dopo, di mattina, il sindaco era in Giunta; gl’impiegati, evidentemen-

te, qualcosa già sapevano e indovinavano, poiché il segretario gli si accostò e

disse, sorridendo beffardo:

«I persiani hanno tale uso: se da voi viene un ospite illustre, dovete di propria

mano sgozzar per lui un montone».

E dopo breve attesa, recapitarono un plico, ricevuto per posta. Il sindaco dissi-

gillò e vi scorse una caricatura. Vi era disegnato Rachat-Chelam, e davanti a

lui stava ginocchioni lo stesso sindaco della città che, tendendogli le braccia,

diceva:

Tra due reami d’amistade in segno,

Di Russia, dico, e d’Iran la nazione,

E in vostr’onore, ambasciator preclaro,

Me stesso scannerei come un montone.

Scusatemi però: sono un somaro.

Il sindaco provò un senso spiacevole, simile a risucchio alla bocca dello sto-

maco, ma non per lungo tempo. A mezzogiorno era già di nuovo dall’illustre

persiano, di nuovo gli faceva gli onori e, mostrandogli le cose notevoli della

città, di nuovo lo conduceva al cancello di pietra e di nuovo accennava ora il

leone, ora il sole, ora il proprio petto. Pranzarono al Giappone; dopo pranzo,

coi sigari tra i denti, tutt’e due rossi, beati, risalirono in torre, e il sindaco, evi-

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dentemente desiderando offrire all’ospite uno spettacolo raro, gridò dall’alto

alla sentinella, che passeggiava di sotto:

«Suona l’allarme!».

Ma allarme non ne seguì, giacché i pompieri in quel momento erano al bagno.

Cenarono al Londra, e dopo cena il persiano partì... Accompagnandolo, Stepàn

Ivànovic’ scambiò tre baci con lui, all’uso russo, e versò perfino qualche la-

crima. E quando il treno si mosse, gridò:

«Salutate per noi la Persia. Ditele che noi l’amiamo!».

Passarono un anno e quattro mesi. Vi era un forte gelo, un trentacinque gradi

sotto zero, e spirava un vento tagliente. Stepàn Ivànovic’ camminava per la

via, con la pelliccia aperta sul petto, ed era stizzito che nessuno s’imbattesse in

lui e vedesse sul suo petto il «Leone e Sole». Camminò così fino a sera, con la

pelliccia aperta, intirizzì ben bene, e la notte si girò sempre da un fianco

sull’altro, senza potere in alcun modo prender sonno. Si sentiva l’anima op-

pressa, dentro un bruciore, e il cuore gli batteva inquieto: aveva voglia ora di

ricevere l’ordine serbo del «Takovo». Ne aveva una voglia appassionata, tor-

mentosa.

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Lieto fine

Dal capotreno Stic’kin, in uno dei suoi giorni di franchigia, sedeva Liubòv

Grigòrievna, posata, fine signora sulla quarantina, che si occupava di matri-

moni, e di molti altri affari dei quali è uso parlare solo a bassa voce. Stic’kin,

un po’ turbato, ma serio, positivo e austero, camminava per la stanza, fumando

un sigaro, e diceva:

«Lietissimo di far conoscenza. Semiòn Ivànovic’ vi ha raccomandata sotto

quest’aspetto, che voi potete aiutarmi in una faccenda delicata, importantissi-

ma, riguardante la felicità della mia vita. Io, Liubòv Grigòrievna, ho ormai

cinquantadue anni, cioè un’età in cui moltissimi hanno già figli grandi. Ho un

impiego solido. Sebbene non abbia un gran patrimonio, posso mantenere pres-

so di me la creatura amata e i figli. Vi dirò, fra di noi, che, oltre lo stipendio,

ho altresì denari in banca, che ho risparmiato in conseguenza del mio tenor di

vita. Sono un uomo, io, positivo e sobrio, meno una vita giudiziosa e confor-

me, talché posso pormi d’esempio a molti. Ma una sola cosa mi manca: un mio

proprio focolare domestico, la compagna della vita, e conduco la mia esistenza

come un qualsiasi ungherese nomade, da luogo a luogo, senza soddisfazione

alcuna, e senza nessuno con cui consigliarmi, e, ammalandomi, non ho chi mi

dia nemmeno un po’ d’acqua, eccetera. Inoltre, Liubòv Grigòrievna,

l’ammogliato ha sempre più peso nella società che uno scapolo. Io sono un

uomo della classe istruita, con denari, ma a guardarmi da un certo punto di vi-

sta, chi sono io? Un senzafamiglia, tal quale come un qualsiasi prete cattolico.

E perciò desidererei moltissimo unirmi coi vincoli d’Igumenèo10, cioè con-

trarre legittimo matrimonio con qualche degna persona».

«È una buona cosa!» sospirò la mediatrice.

«Sono un uomo solitario, io, e in questa città non conosco nessuno. Dove an-

drò e a chi mi rivolgerò, se per me tutti sono sconosciuti? Ecco perché Semiòn

Ivànovic’ mi consigliò di rivolgermi a una persona che è specialista in questo

ramo, e nel trattare della felicità della gente ci ha la sua professione. E perciò

vivissimamente pregovi, Liubòv Grigòrievna, di dare con la vostra assistenza

assetto al mio destino. Voi in città conoscete tutte le ragazze da marito e vi è

facile sistemarmi».

«Questo si può...».

«Bevete, prego umilissimamente...».

Con gesto abituale la mediatrice portò il bicchierino alla bocca e lo vuotò, sen-

za fare una smorfia.

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«Questo si può» ripeté. «E quale ragazza, Nikolài Nikolaic’, vi garberebbe?».

«A me? Quella che il destino manderà».

«È questa, certo, cosa del destino, ma ognuno ha pure i suoi gusti. Uno ama le

brune, un altro le bionde».

«Vedete, Liubòv Grigòrievna...» disse Stic’kin, sospirando con gravità. «Io

sono un uomo positivo e di carattere. Per me la bellezza e, in generale,

l’apparenza ha una parte secondaria, perché, lo sapete voi stessa, la bellezza

non si beve, e da una moglie bella si hanno moltissimi fastidi. Io suppongo che

in una donna l’importante non sia il di fuori, ma quel che si trova dentro; cioè

che abbia un’anima e tutte le qualità. Bevete, vi prego umilissimamente. È cer-

to quanto mai piacevole se la moglie sarà pienotta della persona, ma questo per

la reciproca fortuna non è cosa essenziale; l’importante è l’intelligenza. Pro-

priamente parlando, nella donna non ci vuol neppure l’intelligenza, poiché a

causa dell’intelligenza ella avrà un gran concetto di sé e vagheggerà svariati

ideali. Senza istruzione oggidì non si può, questo è certo, ma vi è istruzione e

istruzione. Fa piacere se la moglie parla francese e tedesco, e canta diverse a-

rie, fa molto piacere; ma che costrutto se n’ha, se non sa attaccarti, mettiamo,

un bottone? Io sono della classe istruita; col principe Kanitelin, posso dire, so-

no tal quale come ora con voi; ma ho un carattere semplice. A me occorre una

ragazza piuttosto semplice. Più importante di tutto poi è che lei mi rispetti e

senta ch’io l’ho resa felice».

«È cosa nota».

«Be’, ora, circa il sostantivo11... Ricca non mi occorre. Io non mi permetterò

la bassezza di sposare il denaro. Desidero che non sia io a mangiare il pane

della moglie, ma lei il mio, e che lo senta. Ma non mi occorre nemmeno una

povera. Anche se sono un uomo agiato, anche se mi sposo non per interesse,

ma per amore, non posso però prendere una povera, perché, lo sapete voi stes-

sa, ora tutto è rincarato e ci saranno dei figli».

«La si può trovare anche con dote» disse la mediatrice.

«Bevete, prego umilissimamente...».

Tacquero per un cinque minuti. La mediatrice sospirò, guardò in tralice il ca-

potreno e domandò:

«Be’, e così, bàtiuska... come scapolo, non ti ci vuol nulla? C’è della buona

merce. Una francese, e ve ne sarà un’altra greca. Di molto valore».

Il capotreno pensò un poco e disse:

«No, vi ringrazio. Vedendo da parte vostra così buona disposizione, permettete

ora di domandare: quanto prenderete per le vostre premure circa la fidanza-

ta?».

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«Non mi occorre molto. Darete un biglietto da venticinque e la stoffa per un

vestito, come usa, e grazie... E per la dote separatamente, quest’è un altro con-

to».

Stic’kin incrociò le braccia sul petto e si mise a pensare in silenzio. Dopo aver

pensato, sospirò e disse:

«È caro...».

«E non è punto caro, Nikolài Nikolaic’! Prima, quando nozze ce n’eran molte,

si soleva prendere anche meno; ma al tempo d’oggi, quali sono i nostri guada-

gni? Se in un mese grasso buscherai due biglietti da venticinque, sia ringrazia-

to Iddio. E allora, bàtiuska, non è sulle nozze che ci arricchiamo».

Stic’kin guardò dubbioso la mediatrice e alzò le spalle.

«Uhm! Ma forse che due biglietti da venticinque son poca cosa?» domandò.

«Certo, son poca cosa! Nei tempi andati accadeva che più di cento ne guada-

gnassimo».

«Uhm!... Io non mi aspettavo punto che con simili affari si potesse guadagnare

una tal somma. Cinquanta rubli! Non ogni uomo riceve tanto! Bevete, prego

umilissimamente...».

La mediatrice bevve e non fece una smorfia. Stic’kin la sbirciò da capo a piedi

e disse:

«Cinquanta rubli. Sono dunque seicento rubli all’anno... Bevete, prego umilis-

simamente... Con simili dividendi, sapete, Liubòv Grigòrievna, non vi sarà dif-

ficile trovare a voi stessa un buon partito».

«A me?» rise la mediatrice. «Io son vecchia».

«Nient’affatto... E ci avete anche una tal complessione, e un viso pienotto,

bianco, e tutto il resto».

La mediatrice restò confusa. Stic’kin pure si confuse e sedette accanto a lei.

«Voi potete ancora piacere moltissimo» disse. «Se vi capiterà un marito positi-

vo, serio, economo, col suo stipendio e col vostro guadagno potrete perfino

piacergli assai e vivrete a cuore a cuore...».

«Dio sa ciò che andate dicendo, Nikolài Nikolaic’...».

«Che cosa? Io nulla».

Seguì un silenzio. Stic’kin cominciò a soffiarsi il naso rumorosamente, e la

mediatrice si fece tutta rossa e, guardandolo vergognosa, domandò:

«E voi quanto ricevete, Nikolài Nikolaic’?».

«Io? Settantacinque rubli, gratificazioni a parte. Inoltre, abbiamo il reddito del-

le steariche e delle lepri».

«Vi occupate di caccia?».

«No, lepri da noi vengono chiamati i viaggiatori senza biglietto».

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Trascorse ancora un minuto in silenzio. Stic’kin si alzò e in agitazione prese a

camminare per la stanza.

«A me non occorre una consorte giovane» disse. «Io sono un uomo maturo e

mi ci vuole una che sia... d’un genere come sarebbe il vostro... seria e posata...

e d’una complessione del vostro genere».

«Ih, Dio sa ciò che state dicendo...» ridacchiò la mediatrice, coprendosi col

fazzoletto il viso porporino.

«Che c’è qui da pensare a lungo? Voi mi andate a genio e mi convenite con le

vostre qualità. Io sono un uomo positivo, sobrio, e, se vi piaccio, allora... che

c’è di meglio? Permettete di farvi la proposta!».

La mediatrice versò qualche lacrima, rise e, in segno di consenso, toccò il bic-

chiere con Stic’kin.

«Be’» disse il felice capotreno, «ora permettete di spiegarvi quale condotta e

modo di vivere io desidero da voi... Io sono un uomo austero, posato, positivo,

intendo tutto nobilmente, e desidero che mia moglie sia del pari austera e capi-

sca che per lei io sono un benefattore e il primo degli uomini.

Egli sedette e, dato un profondo sospiro, prese ad esporre alla promessa sposa

le sue vedute sulla vita di famiglia e sui doveri della moglie.

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La lota

Mattino estivo. Nell’aria c’è silenzio; solo una cavalletta stride ogni tanto sulla

riva e in qualche posto timidamente brontola un aquilotto. Nel cielo stanno

immobili delle nubi piumose, simili a neve sparpagliata... Vicino al bagno in

costruzione, sotto le verdi fronde di un salcio, si dibatte nell’acqua il carpentie-

re Gherassim, un contadino alto, scarno, dalla testa rossa ricciuta e il viso irto

di peli. Egli sbuffa, riprende fiato e, strizzando fortemente gli occhi, si sforza

di tirar fuori qualcosa di sotto le radici del salcio. La sua faccia è coperta di

sudore. A una tesa da Gherassim, nell’acqua fino alla gola, sta il carpentiere

Liubìm, un giovane contadino gobbo dal viso triangolare e gli occhietti stretti,

da cinese. Entrambi, Gherassim come Liubìm, sono in camicia e mutande. So-

no illividiti dal freddo, perché ormai da più d’un’ora stanno nell’acqua...

«Ma tu perché tasti sempre con la mano?» grida il gobbo Liubìm, tremando

come nella febbre. «Testa di cavolo che sei! Tu tienla, tienla, se no scapperà, la

maledetta! Tienla, dico!».

«Non scapperà... Dove dovrebbe scappare? S’è cacciata sotto le radici...» dice

Gherassim con voce arrochita, sorda di basso, che viene non dalla laringe, ma

dal profondo del ventre. «È viscida, questa diavola, e non si sa per che cosa

acchiapparla».

«Tu chiappala per le branchie, per le branchie!».

«Non si vedon le branchie... Aspetta, l’ho acchiappata per qualche cosa... Per il

labbro l’ho acchiappata. Morde, questa diavola!».

«Non tirarla per il labbro, non tirarla: la lascerai andare! Per le branchie ac-

chiappala, per le branchie acchiappala! Di nuovo s’è messo a tastar con la ma-

no! Ma che contadino senza cervello, perdonami, Regina dei Cieli! Chiappa-

la!».

«Chiappala» lo contraffà Gherassim. «Che comandante s’è trovato!... Dovresti

venire e acchiapparla tu stesso, diavolo gobbo... Perché stai lì?».

«Io l’avrei acchiappata, se fosse stato possibile... O che, con la mia bassa cor-

poratura, si può stare in piedi sotto la riva? Lì è profondo!».

«Non fa nulla che sia profondo... Tu a nuoto...».

Il gobbo agita le braccia, nuota verso Gherassim e si aggrappa ai rami. Ma al

primo tentativo di mettersi in piedi, va con la testa sott’acqua e manda fuori

delle bolle d’aria.

«Lo dicevo ch’è profondo!» egli dice, rotando con ira il bianco degli occhi.

«Monto sul collo a te, eh?».

Page 18: Chekov, Racconti Umoristici

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«E tu sali sopra una radice... Di radici ce n’è molte, come una scala...».

Il gobbo tasta col tallone una radice e, aggrappatosi saldamente ad alcuni rami

ad un tempo, ci sale sopra... Equilibratosi bene e consolidatosi nella nuova po-

sizione, si curva e, cercando di non ingerire acqua, comincia con la mano de-

stra a frugare tra le radici. Imbrogliandosi nelle erbe acquatiche, scivolando sul

musco che riveste le radici, la sua mano incontra le chele pungenti d’un gam-

bero.

«Ci mancavi ancora tu qui, diavolo!» dice Liubìm e con rabbia scaglia il gam-

bero sulla riva.

Infine la sua mano trova a tastoni il braccio di Gherassim e, calando giù lungo

quello, arriva a qualcosa di lubrico, di freddo.

«E-eccola...» sorride Liubìm. «È gro-ossa, la diavola... Allarga un po’ le dita,

io subito... per le branchie... Aspetta, non urtarmi col gomito... io subito la...

subito... lascia solo che l’afferri... S’è cacciata lontano sotto la radice, questa

diavola, non c’è nemmeno dove aggrapparsi... Non si può arrivare alla testa...

Si tocca soltanto la pancia... Ammazzami sul collo una zanzara: mi punge! Io

subito la... subito... lascia solo che l’afferri... S’è cacciata di fianco, spingila,

spingila! Punzecchiala col dito!».

Il gobbo, gonfiate le guance, trattenuto il respiro, sgrana gli occhi e, a quanto

pare, già insinua le dita «sotto le branchie», ma a questo punto i rami a cui si

abbranca la sua mano sinistra si spezzano, ed egli, perduto l’equilibrio, capi-

tombola nell’acqua! Come spaventati, corron via dalla riva dei cerchi ondeg-

gianti e nel punto della caduta vengon su delle bolle. Il gobbo viene a galla a

nuoto e, sbuffando, si afferra ai rami.

«Affogherai ancora, diavolo, toccherà rispondere per te!...» dice rauco Gheras-

sim. «Esci fuori, su, e vattene alla malora! Io stesso la tirerò via!».

Cominciano gl’improperi... E il sole brucia, brucia. Le ombre si fanno più bre-

vi e rientrano in sé stesse, come le corna della lumaca... L’erba alta, scaldata

dal sole, comincia a emanare un odore denso, stucchevolmente dolciastro. Ben

presto è mezzogiorno, ma Gherassim e Liubìm tuttora si dibattono sotto il sal-

cio. La voce rauca di basso e quella tenorile infreddolita, stridula, rompono

senza posa il silenzio della giornata estiva.

«Tirala per le branchie, tirala! Aspetta, io la spingerò fuori! Ma dove ficchi il

tuo pugnaccio? Tu fa’ col dito e non col pugno, grinta! Vieni di fianco! Da si-

nistra, vieni da sinistra, ché a destra c’è una buca! Servirai di cena al lupo

mannaro! Tira per il labbro!».

Si sente lo schioccar d’una frusta... Per la riva in pendio si trascina pigramente

all’abbeveratoio un armento, cacciato avanti dal pastore Jefìm. Il pastore, un

vecchio decrepito con un occhio solo e la bocca storta, cammina a capo chino

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e si guarda sotto i piedi. Per prime s’avvicinano all’acqua le pecore, dopo di

esse i cavalli, dopo i cavalli le vacche.

«Spingila un poco dal basso!» egli ode la voce di Liubìm. «Ficcaci un dito! Ma

sei sordo, dia-vo-lo, o che? Poh!».

«Ma chi è, fratelli?» grida Jefìm.

«Una lota! Non c’è verso di tirarla fuori! Sotto una radice s’è cacciata! Vieni

di fianco! Vieni, vieni!».

Jefìm per un minuto strizza il suo occhio sui pescatori, poi si toglie i lapti12,

getta giù dalle spalle un sacchetto e si leva la camicia. Di togliersi le mutande

non ha pazienza, segnatosi, bilanciando le braccia magre, scure, entra in mu-

tande nell’acqua... Per una cinquantina di passi procede sul fondo melmoso,

ma poi si butta a nuoto.

«Aspettate, ragazzi!» grida. «Aspettate! Non tiratela fuori a casaccio, la lasce-

rete scappare. Bisogna saper fare!...».

Jefìm si unisce ai carpentieri, e tutt’e tre, urtandosi l’un l’altro coi gomiti e coi

ginocchi, sbuffando e imprecando, si pigiano nello stesso punto... Il gobbo

Liubìm inghiotte acqua e l’aria echeggia di una tosse aspra, convulsa.

«Dov’è il pastore?» si sente un grido dalla riva. «Jefi-ìm! Pastore! Dove sei?

L’armento è entrato in giardino! Caccialo, caccialo dal giardino! Caccialo! Ma

dov’è dunque, il vecchio brigante?

Si odono voci maschili, poi una femminile... Di dietro il cancello del giardino

padronale si mostra il padrone Andréi Andreic’ in veste da casa di seta persia-

na e con un giornale in mano... Egli guarda interrogativamente dalla parte delle

grida che giungono dal fiume, e poi trotterella rapido verso il bagno...

«Che c’è qui? Chi bercia?» domanda severamente, avendo scorto attraverso i

rami del salcio le tre teste bagnate dei pescatori. «Perché vi affannate qui?».

«Un pe... un pesce acchiappiamo...» balbetta Jefìm, senz’alzare il capo.

«Te lo darò io il pesce! L’armento è entrato in giardino, e lui: un pesce!... Ma

quando sarà finito il bagno, diavoli? Son due giorni che lavorate, e dov’è il vo-

stro lavoro?».

«Sa... sarà finito...» gracchia Gherassim. «L’estate è lunga, farai ancora in

tempo, signoria, a lavarti... Brrr... In nessun modo qui possiamo venir a capo

d’una lota... S’è cacciata sotto una radice ed è come in una tana: non va né su

né giù...».

«Una lota?» domanda il padrone e i suoi occhi si fanno lustri. «Allora tiratela

fuori alla svelta!».

«Poi ci darai un mezzo rubletto... Ti serviremo da amici se... Una lota enorme,

che la tua mercantessa... Vale, signoria, un mezzo rublo... per le fatiche... Non

brancicarla, Liubìm, non brancicarla, se no la farai morire! Spingi dal basso!

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Tira un po’ la radice all’insù, brav’uomo... come ti chiami? All’insù, e non

all’ingiù, diavolo! Non agitate le gambe!».

Passano cinque minuti, dieci... Il padrone non ne può più dall’impazienza.

«Vassili» grida, voltandosi verso la casa padronale. «Vaska! Chiamatemi Vas-

sili!».

Accorre il cocchiere Vassili. Sta masticando qualcosa e respira pesantemente.

«Scendi in acqua» gli ordina il padrone, «aiutali a tirar fuori la lota... Non pos-

son tirar fuori una lota!».

Vassili si spoglia rapidamente e scende in acqua.

«Io subito...» borbotta. «Dov’è la lota? Io subito... Faremo questo in un batter

d’occhio! E tu dovresti andartene, Jefìm! Qui vecchio, non hai da mischiarti

negli affari altrui! Che lota c’è qui? Io subito... Eccola! Lasciate andar le ma-

ni!».

«E perché: lasciate andare le mani? Lo sappiamo anche noi: lasciate andar le

mani! E tu tirala fuori!».

«Ma è forse così che la tirerai fuori? Bisogna prenderla per la testa!».

«E la testa è sotto la radice! È cosa nota, stupido!».

«Be’, non ingiuriare, se no ne vola una! Marmaglia!».

«In presenza del signor padrone e simili parole...» balbetta Jefìm. «Non la tire-

rete fuori, fratelli! Troppo destramente s’è ficcata lì!».

«Aspettate un momento, io subito...» dice il padrone e comincia frettoloso a

svestirsi. «Siete in quattro imbecilli; e non potete tirar fuori la lota!».

Svestitosi, Andréi Andreic’ si lascia freddare un poco ed entra in acqua. Ma

anche il suo intervento non approda a nulla.

«Bisogna tagliar la radice!» conclude infine Liubìm. «Gherassim, va’ a pren-

der la scure! Date qui una scure!».

«Non tagliatevi le dita!» dice il padrone, quando si odono i colpi sott’acqua

della scure contro la radice. «Jefìm, vattene di qua! Aspettate, io tirerò fuori la

lota... Voi non...».

La radice è stata tagliata dal disotto. La sforzano un poco, e Andréi Andreic’,

con gran piacere sente che le sue dita penetrano sotto le branchie della lota.

«La sto tirando, fratelli! Non affollatevi... state fermi... la sto tirando!».

Alla superficie compare la grossa testa della lota e, dopo di essa, il corpo nero;

lungo un arscìn.

La lota rigira pesantemente la coda e cerca di sfuggire.

«Tu scherzi... Non ce la fai, cara. Ci sei cascata. Ah-ah!».

Su tutte le facce si effonde un sorriso di miele. Un minuto trascorre in silenzio-

sa contemplazione.

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«Una lota coi fiocchi!» balbetta Jefìm, grattandosi sotto le clavicole. «Sarà,

penso, una decina di libbre...».

«E già...» consente il padrone. «Il fegato le palpita addirittura. Come spinto dal

didentro. A... ah!».

La lota a un tratto inaspettatamente fa con la coda un brusco movimento

all’insù e i pescatori sentono un forte tonfo... Tutti allargano le mani, ma è

troppo tardi: la lota, chi l’ha vista l’ha vista.

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Lo specchio curvo

(Racconto di Natale)

Io e mia moglie entrammo in salotto. Vi odorava muffa e d’umidità. Milioni di

ratti e di sorci si precipitarono da tutte le parti quando noi rischiarammo i muri

che non avevan visto la luce durante tutt’un secolo. Quando chiudemmo

l’uscio dietro di noi, soffiò una folata e smosse la carta giacente a mucchi negli

angoli. La luce cadde su questa carta e noi scorgemmo caratteri antichi e figu-

razioni medioevali. Alle pareti inverdite dal tempo pendevano ritratti di ante-

nati. Gli antenati guardavano altezzosi, arcigni, come se volessero dire:

«Frustarti si dovrebbe, fratellino!».

I nostri passi risonavano per tutta la casa. Alla mia tosse rispondeva un’eco, la

stessa eco che un tempo aveva risposto ai miei antenati...

E il vento urlava e gemeva. Nella canna del camino qualcuno piangeva, e in

questo pianto si sentiva la disperazione. Grosse gocce di pioggia picchiavano

sulle scure finestre opache, e il loro picchiare dava angoscia.

«Oh, antenati, antenati!» diss’io, sospirando significativamente. «Se fossi scrit-

tore, mirando i loro ritratti scriverei un lungo romanzo. Ché ciascuno di questi

vegliardi fu giovane un dì, e ciascuno, o ciascuna, ebbe un romanzo...e che

romanzo! Guarda, per esempio, questa vecchina, mia bisavola. Vedi» doman-

dai a mia moglie, «vedi tu lo specchio che pende là nell’angolo?».

E additai a mia moglie un grande specchio in bronzea guarnitura nera, appeso

in un angolo accanto al ritratto della mia bisavola.

«Questo specchio possiede proprietà magiche: esso causò la rovina della mia

bisavola. Lo aveva pagato una somma enorme e non se ne separò fin proprio

alla morte. Vi si guardava i giorni e le notti, senza posa, vi si guardava perfin

quando beveva e mangiava. Nel coricarsi, ogni volta lo metteva con sé in letto

e, morendo, pregò di deporlo con lei nella bara. Non soddisfecero il suo desi-

derio solo perché lo specchio non capiva nel feretro».

«Era civetta?» domandò mia moglie.

«Supponiamo. Ma non aveva forse altri specchi? Perché amò talmente proprio

questo specchio, e non un altro qualsiasi? E forse non aveva specchi migliori?

No, lì, cara mia, si cela un qualche tremendo mistero. Non può essere altrimen-

ti. La tradizione dice che nello specchio risiede il diavolo e che la bisavola a-

veva un debole per i diavoli. Certo, è un’assurdità, ma è indubbio che lo spec-

chio in guarnitura di bronzo possiede una forza misteriosa».

Page 23: Chekov, Racconti Umoristici

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Io scossi dallo specchio la polvere, vi guardai e diedi in una risata. Al mio riso

rispose sordamente l’eco. Lo specchio era curvo e contorceva la mia fisiono-

mia da tutte le parti: il naso venne a trovarsi sulla guancia sinistra, e il mento si

sdoppiò e si cacciò da un lato.

«Strano gusto quello della mia bisavola!» dissi.

La moglie si accostò irresoluta allo specchio, vi guardò dentro ella pure, e su-

bito accadde qualcosa di terribile. Ella impallidì, tremò in tutte le membra è

mandò un grido. Il candeliere le cadde di mano, rotolò sul pavimento e la can-

dela si spense. Ci avvolsero le tenebre. Subito dopo intesi la caduta

sull’impiantito d’alcunché di pesante: mia moglie si era abbattuta priva di sen-

si.

Il vento prese a gemere ancor più lamentosamente, presero a correre i ratti,

nelle carte frusciarono i sorci. I miei capelli si rizzarono e si mossero, quando

da una finestra si staccò l’imposta e volò da basso. Nel vano della finestra si

mostrò la luna...

Io afferrai mia moglie, la cinsi e la portai fuori dalla dimora degli avi. Ella rin-

venne solo la sera dei giorno dopo.

«Lo specchio! Datemi lo specchio!» disse, riavendosi. «Dov’è lo specchio?».

Tutt’una settimana dipoi ella non bevve, non mangiò, non dormì, e pregava di

continuo che le portassero lo specchio. Singhiozzava, si strappava i capelli in

capo, si agitava, e infine, quando il dottore ebbe dichiarato ch’ella poteva mo-

rire di esaurimento e che il suo stato era in sommo grado pericoloso, io, vin-

cendo il mio terrore, ridiscesi giù e recai di là lo specchio della bisavola. Ve-

dendolo, ella rise forte dalla felicità, poi lo afferrò, lo baciò e vi fissò gli occhi.

Ed ecco, son trascorsi ormai più di dieci anni, e lei tuttora si guarda nello spec-

chio e non se ne stacca un solo istante.

«Possibile che questa sia io?» bisbiglia, e sul suo viso, insieme coi rossore, si

accende un’espressione di beatitudine e d’estasi. «Sì, son io! Tutto mentisce,

fuorché questo specchio! Mentiscono gli uomini, mentisce il marito! Oh, se mi

fossi vista prima, se avessi saputo quale sono realmente, non avrei sposato

quest’uomo! Egli non è degno di me! Ai miei piedi devon giacere i cavalieri

più belli, più nobili!...».

Un giorno, stando dietro a mia moglie, guardai inavvertitamente nello spec-

chio, e scoprii il terribile segreto. Nello specchio scorsi una donna di accecante

bellezza, quale mai ho incontrato nella vita. Era un prodigio della natura,

un’armonia di beltà, di eleganza e d’amore. Ma di che si trattava? Che cos’era

accaduto? Perché mia moglie, brutta, sgraziata, nello specchio pareva così bel-

la? Perché?

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Ma perché lo specchio curvo aveva storto il brutto viso di mia moglie in tutti i

sensi, e per tale spostamento dei suoi tratti esso era diventato casualmente bel-

lissimo. Meno per meno dava più.

E ora noi due, io e mia moglie, stiamo davanti allo specchio e, senza staccar-

cene un sol minuto, vi guardiamo dentro: il mio naso monta sulla guancia sini-

stra, il mento s’è sdoppiato e spostato da una parte, ma il volto di mia moglie è

incantevole, e una passione furiosa, insensata s’impadronisce di me.

«Ah-ah-ah!» sghignazzo io selvaggiamente.

E mia moglie bisbiglia, in modo appena percettibile: «Come son bella!».

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Gli stivali

L’accordatore di pianoforti Murkin, un uomo dal viso giallo, il naso tabaccoso

e l’ovatta negli orecchi, uscì dalla sua stanza nel corridoio e con voce tintin-

nante gridò:

«Semiòn! Cameriere!».

E guardando la sua faccia spaventata, si poteva pensare che gli fosse cascato

addosso l’intonaco, o che in camera sua avesse visto allora allora uno spettro.

«Di grazia, Semiòn!» prese a gridare, scorgendo il cameriere che accorreva da

lui. «Che è ciò? Io sono un uomo reumatico, infermiccio, e tu mi costringi a

uscire scalzo! Perché non mi dai ancora gli stivali? Dove sono?».

Semiòn entrò nella camera di Murkin, guardò nel posto dov’egli aveva

l’abitudine di porre gli stivali ripuliti, e si grattò la nuca: gli stivali non

c’erano.

«Dove potrebbero essere, i maledetti?» disse Semiòn. «In serata, mi sembra, li

pulii e li misi qui... Uhm!... Ieri, confesso, avevo bevuto un po’... È da suppor-

re che li abbia messi in un’altra camera. È proprio così, Afanassi Jegoric’, in

un’altra camera! Stivali ce n’è molti, e, in cimberli, li distinguerà il diavolo, se

tu non hai la testa a segno. Devo averli messi dalla signora che alloggia qui

accanto... dall’attrice...».

«E ora per causa tua ho da andar dalla signora a disturbare! Eccomi per

un’inezia a dover svegliare una brava donna!».

Sospirando e tossendo, Murkin si accostò all’uscio della camera attigua e bus-

sò cautamente.

«Chi è?» si sentì di lì a un minuto una voce femminile.

«Sono io!» cominciò con voce querula Murkin, mettendosi nella positura d’un

cavaliere che parla con una signora del gran mondo. «Scusate il disturbo, si-

gnora, ma io sono un uomo malaticcio, reumatico... A me, signora, i dottori

hanno ordinato di tenere i piedi al caldo, tanto più che ora devo andar ad ac-

cordare un pianoforte dalla generalessa Scevelitsin. Non posso mica andarci

scalzo».

«Ma voi che volete? Che pianoforte?».

«Non un pianoforte, signora, ma riguardo agli stivali! Quell’ignorante di Se-

miòn ha pulito i miei stivali e per sbaglio li ha messi nella vostra stanza. Siate

così gentile, signora, datemi i miei stivali!».

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Si udì un fruscio, un salto dal letto e un ciabattare, dopo di che l’uscio si aprì

un poco, e una paffuta manina di donna gettò ai piedi di Murkin un paio di sti-

vali. L’accordatore ringraziò e si diresse in camera sua.

«È strano...» mormorò, calzando uno stivale. «Si direbbe che non è lo stivale

destro. Ma qui ci son due stivali di sinistra! Son tutt’e due sinistri! Ascolta,

Semiòn, ma questi non sono i miei stivali! I miei stivali sono con tiranti rossi e

senza toppe, e questi son certi cosi rotti, senza tiranti!».

Semiòn sollevò gli stivali, li rigirò più volte davanti ai propri occhi e corrugò

la fronte.

«Questi son gli stivali di Pavel Aleksandric’...» borbottò, guardando di sbieco.

Egli era strabico dall’occhio sinistro.

«Che Pavel Aleksandric’?».

«Un attore... viene qua ogni martedì... Dunque è lui che, invece dei suoi, ha

calzato i vostri... Vuol dire che in camera da lei ho messo le due paia: i suoi e i

vostri. Un bell’impiccio!».

«Allora va’ e cambiali!».

«Salute!» sorrise Semiòn. «Va’ e cambiali... E dove ho da prenderlo adesso? È

ormai un’ora ch’è uscito... Va’ a cercare il vento nei campi!».

«Ma dove abita?».

«E chi lo sa? Viene qua ogni martedì, ma dove abiti, noi non si sa. Viene, per-

notta, e aspettalo fino a un altro martedì...».

«Ecco, vedi, porco, quel che hai combinato! Ebbene, che devo fare adesso? È

ora ch’io vada dalla generalessa Scevelitsin, maledetto che sei! I piedi mi si

sono intirizziti!».

«Cambiar di stivali non è cosa lunga. Calzate questi stivali, camminateci fino a

sera, e stasera a teatro... Là domandate dell’attore Blistanov... Se a teatro non

volete andare, toccherà aspettare quell’altro martedì. Solo i martedì viene

qua...».

«Ma perché mai ci son qui due stivali sinistri?» domandò l’accordatore, pren-

dendo con schifiltà gli stivali.

«Come Dio li mandò, così li porta. Per povertà... Dove potrebbe prenderli,

l’attore?... “Ma gli stivali che avete” dico, “Pavel Aleksandric’! È pura vergo-

gna!”. E lui dice: “Taci” dice, “e impallidisci! In questi stessi stivali” dice, “ho

fatto le parti di conti e principi!”. Gente bizzarra! Artista, in una parola. S’io

fossi governatore, o una qualche autorità, prenderei tutti questi attori, e via in

prigione!».

Gemendo e facendo smorfie senza fine, Murkin calzò a forza sulle proprie

gambe i due stivali sinistri e, zoppicando, si avviò dalla generalessa Sceveli-

tsin. L’intera giornata andò per la città, accordò pianoforti, e l’intera giornata

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gli parve che tutto il mondo guardasse i suoi piedi e ci vedesse su degli stivali

con le toppe e i tacchi storti! Oltre alle torture morali, gli toccò sperimentare

anche quelle fisiche: si buscò un callo.

A sera era in teatro. Davano Barbablù13 Solo prima dell’ultimo atto, e anche

ciò grazie alla protezione d’un conoscente flautista, lo lasciarono passare die-

tro le quinte. Entrato nel camerino degli uomini, vi trovò tutto il personale ma-

schile. Gli uni si travestivano, altri si truccavano, i terzi fumavano. Barbablù

stava con re Bobêche14 e gli mostrava una rivoltella.

«Comprala!» diceva Barbablù. «L’acquistai io stesso a Kursk d’occasione per

otto, ebbene te la lascerò per sei... Un tiro notevole!».

«Attenzione... È carica!».

«Potrei vedere il signor Blistanov?» domandò l’accordatore, ch’era entrato.

«Son proprio io!» si girò verso di lui Barbablù. «Che cosa desiderate?».

«Scusate, signore, il disturbo» cominciò l’accordatore con voce implorante,

«ma, credete... io sono un uomo malaticcio, reumatico... I dottori mi hanno or-

dinato di tenere i piedi caldi...».

«Ma voi, propriamente parlando, che desiderate?».

«Vedete...» continuò l’accordatore, rivolgendosi a Barbablù. «Già... questa

notte voi siete stato nelle camere mobiliate del mercante Buchteiev... al nume-

ro 64...».

«Via, che ciance sono?» sogghignò re Bobêche. «Al numero 64 ci abita mia

moglie».

«Moglie? Molto piacere...» Murkin sorrise. «Lei proprio, la vostra consorte, mi

ha consegnato personalmente gli stivali del signore... Quando lui»

l’accordatore indicò Blistanov, «fu uscito dalla stanza di lei, io mi accorsi dei

miei stivali... do una voce, sapete, al cameriere, e il cameriere dice: “Ma io,

signore, i vostri stivali li ho messi al numero attiguo!”. Per sbaglio, essendo in

stato di ubriachezza, aveva messo al numero 64 i miei stivali e i vostri» si girò

Murkin verso Blistanov, «e voi, lasciando, ecco, la consorte del signore, avete

calzato i miei...».

«Ma voi che cosa andate dicendo?» proferì Blistanov, e si accigliò. «O che sie-

te venuto qui a far pettegolezzi?».

«Nient’affatto! Dio mi guardi! Non mi avete capito... Di che sto parlando io?

Degli stivali! Avete pernottato, non è vero, al numero 64?».

«Quando?».

«Questa notte».

«E voi mi ci avete visto?».

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«No, non vi ho visto» rispose Murkin, in preda a vivo turbamento, sedendo e

cavandosi rapidamente gli stivali. «Io non vi ho visto, ma, ecco, la consorte di

lui m’ha gettato fuori i vostri stivali... Ciò invece dei miei».

«Ma che diritto avete, egregio signore, di affermare simili cose? Non parlo già

di me, ma voi offendete una donna, e per di più in presenza di suo marito!».

Dietro le quinte si levò un tremendo baccano. Re Bobêche, il marito offeso,

d’un tratto s’imporporò e a tutta forza picchiò un pugno sulla tavola, talché nel

camerino attiguo due attrici si sentirono male.

«E tu credi?» gli gridava Barbablù «Tu credi a questo mascalzone? Oh! Lo

ammazzo come un cane, vuoi? Lo vuoi? Ne farò una bistecca! Lo frantume-

rò!».

E tutti coloro che passeggiavan quella sera nel giardino comunale presso il tea-

tro estivo narrano ora d’aver visto come prima del quart’atto si precipitò dal

teatro per il viale principale un uomo scalzo dal viso giallo e gli occhi pieni di

sgomento. Lo rincorreva un individuo vestito da Barbablù e con una rivoltella

in mano. Quel che accadde ulteriormente, nessuno vide. Si sa soltanto che

Murkin dipoi, dopo aver fatto conoscenza con Blistanov, per due settimane

giacque malato e alle parole: «Io sono un uomo malaticcio, reumatico», prese

ad aggiungere ancora: «Sono un uomo ferito...»

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Dalla padella nella brace

Dal maestro di cappella della chiesa cattedrale Griàdussov era seduto

l’avvocato Kaliakin e, rigirando fra le mani un avviso del conciliatore intestato

a Griàdussov, diceva:

«Qualunque cosa diciate, Dossiféi Petrovic’, siete in colpa. Io vi stimo, ap-

prezzo la vostra buona disposizione, ma con tutto ciò debbo con rammarico

farvi osservare che avete torto. Sissignore, torto. Voi avete insultato il mio cli-

ente Dereviaskin... Be’, per che cosa l’avete insultato?».

«Ma chi diavolo l’ha insultato?» si scaldava Griàdussov, un vecchio alto dalla

fronte stretta, poco promettente, e le sopracciglia folte, con una medaglietta di

bronzo all’occhiello. «Gli ho soltanto fatto una predica morale, soltanto!

Agl’imbecilli bisogna insegnare! Se agl’imbecilli non s’insegna, non ti lascian

più vivere».

«Ma, Dossiféi Petrovic’, voi non gli avete fatto un predicozzo. Voi, com’egli

dichiara nella sua istanza, l’avete pubblicamente segnato a dito, gli avete dato

dell’asino, del farabutto e simile... e una volta avete perfino alzato la mano,

come se voleste recargli offesa con atti».

«Ma come non picchiarlo, se lo merita? Non capisco!».

«Ma capite dunque che non avete alcun diritto di far ciò!».

«Io non ho diritto? Be’, questo poi, scusate... Andate a raccontarlo a qualcun

altro, ma non infinocchiate me, di grazia. Lui da me, dopo che dal coro vesco-

vile lo invitarono a spintoni ad andarsene, dieci anni ha servito nel mio coro. Io

sono il suo benefattore, se volete saperlo. Se si arrabbia perché l’ho scacciato

dal coro, lui stesso ne ha colpa. Io l’ho scacciato per via della filosofia. Filoso-

feggiare può solo una persona istruita, che ha terminato i corsi, ma se tu sei un

imbecille, se sei di poca intelligenza, stattene in un cantuccio e taci... Taci e

ascolta come parlano le persone intelligenti; lui invece, tanghero, spiava sol-

tanto il destro di metter fuori qualcosa del genere. Qui c’è prova di canto, o si

dice una messa, e lui a parlare di Bismarck e di non so quali Gladstone. Lo

credete, un giornale, la canaglia, faceva venire! E quante volte l’ho picchiato

sui denti a motivo della guerra russo-turca, non potete figurarvelo! Qui bisogna

cantare, e lui s’è chinato verso i tenori, e avanti a raccontar loro come i nostri

han fatto saltare con la dinamite la corazzata turca Liufti-Dzelil... O che questo

è ordine? Certo, fa piacere che i nostri abbian vinto, ma da ciò non segue che

non si debba cantare... Anche dopo la messa puoi discorrere. Un porco, in una

parola».

Page 30: Chekov, Racconti Umoristici

30

«Dunque voi lo insultavate anche prima?».

«Prima lui nemmeno s’offendeva. Sentiva ch’io facevo ciò per il suo stesso

bene, lo capiva!... Sapeva che i più anziani e i benefattori è peccato contraddir-

li, ma quando andò nella polizia come scrivano, be’, là fu finita, montò in su-

perbia, smise di capire. “Io” dice, “non sono più un cantore adesso, ma un fun-

zionario. Farò l’esame» dice, “da registratore di collegio”16. “Be’, sei un im-

becille” dico. “Dovresti” dico, “sciorinare un po’ meno filosofia e soffiarti un

po’ più spesso il naso, sarebbe meglio che pensare ai gradi. A te, non i gradi

s’addicono, ma la povertà». Non vuol neppure ascoltare! Ma ecco, prendiamo

anche solo questo caso: perché mi ha querelato davanti al conciliatore? Be’,

non è razza di beceri? Son seduto nella trattoria di Samopliuiev e sto bevendo

il tè col nostro fabbriciere. Di pubblico un buscherio, non un sol posto libero...

Guardo, e lui è seduto pure lì, tracanna birra coi suoi scrivani. È così elegante,

ha alzato il muso, bercia... agita le mani... Tendo l’orecchio: parla del colera...

Be’, con lui che ci volete fare? Filosofeggia! Io, sapete, sto zitto, paziento...

«Chiacchiera» penso, “chiacchiera...”. La lingua non ha osso... A un tratto, per

disgrazia, la macchina si mise a sonare... Lui s’intenerì, il becero, s’alzò e dis-

se ai suoi amici: “Beviamo” dice, “alla prosperità! Io” dice, “sono un figlio

della mia patria e uno slavofilo del mio paese! Espongo il mio unico petto!

Venite fuori, nemici, a tu per tu! Chi non è d’accordo con me, desidero veder-

lo!”. E come picchia il pugno sulla tavola! Qui non ressi più... M’avvicino a lui

e dico delicatamente: “Ascolta, Ossip... Se tu, porco, non capisci nulla, è me-

glio che taccia e non discuta. Una persona istruita può filosofare, ma tu calma-

ti. Tu sei un verme, sei cenere”... Io una parola a lui, lui dieci a me... E via e

via... Io, naturalmente, parlo per il suo bene, e lui per stupidità... Si offese, ed

ecco che reclamò al conciliatore».

«Sì» sospirò Kaliakin. «Male... Per qualche bazzecola il diavolo sa quel ch’è

successo. Voi siete un uomo di famiglia, stimato, e ora questo processo, di-

scussioni, chiacchiere, la detenzione... È necessario metter termine a questa

faccenda, Dossiféi Petrovic’. Avete una via d’uscita, alla quale consente anche

Dereviaskin. Voi verrete oggi con me alla trattoria di Samopliuiev alle sei,

quando si riuniscon là scrivani, attori e l’altro pubblico davanti a cui l’avete

insultato, e vi scuserete con lui. Allora egli ritirerà la sua istanza. Avete capito?

Suppongo che acconsentirete, Dossiféi Petrovic’... Vi parlo come ad amico...

Voi avete insultato Dereviaskin, l’avete infamato, e soprattutto avete gettato un

sospetto sui suoi lodevoli sentimenti e avete perfino... profanato quei senti-

menti. Al nostro tempo, sapete, non si può far così. Bisogna essere un po’ più

cauti. Alle vostre parole è stata attribuita una tale sfumatura – come dirvi? –

Page 31: Chekov, Racconti Umoristici

31

che al nostro tempo, insomma, non va... Ora son le sei meno un quarto... Vi fa

comodo venir con me?».

Griàdussov crollò il capo, ma quando Kaliakin gli ebbe dipinto a vive tinte la

“sfumatura” ch’era stata attribuita alle sue parole, e le conseguenze che da

quella sfumatura potevan derivare, Griàdussov si prese paura e acconsentì.

«Voi, badate dunque, scusatevi come fa d’uopo, in piena regola» gl’insegnava

l’avvocato cammin facendo verso la trattoria. «Avvicinatevi a lui, dando del

“voi”... “Scusate... ritiro le mie parole” e altrettali cose».

Giunti in trattoria, Griàdussov e Kaliakin vi trovarono tutt’un’accolta di gente.

Lì eran seduti mercanti, attori, pubblici impiegati, scrivani della polizia: in ge-

nere, tutta la “schiuma” che aveva costume di riunirsi nella trattoria la sera a

bere il tè e la birra. Fra gli scrivani era seduto lo stesso Dereviaskin, un giova-

ne d’età indefinita, sbarbato, con grandi occhi che non battevan ciglio, naso

schiacciato e capelli così ispidi che, a guardarli, veniva voglia di pulirsi gli sti-

vali... Il suo viso era così felicemente conformato che, una volta datagli

un’occhiata, si poteva riconoscer tutto: ch’era un ubriacone, e cantava da bas-

so, ed era sciocco, ma non tanto da non considerarsi una persona molto intelli-

gente. Veduto il maestro di cappella che entrava, egli si sollevò e mosse i baffi

come un gatto. L’assemblea, evidentemente preavvisata che ci sarebbe stata

pubblica ammenda, aguzzò gli orecchi.

«Ecco... Il signor Griàdussov è d’accordo!» disse Kaliakin, entrando.

Il maestro di cappella salutò qualcuno, si soffiò il naso rumorosamente, arrossì

e s’accostò a Dereviaskin.

«Scusate...» borbottò, senza guardarlo e ficcando in tasca il fazzoletto. «Da-

vanti a tutta la compagnia ritiro le mie parole».

«Vi scuso!» disse con voce di basso Dereviaskin e, gettato uno sguardo vitto-

rioso a tutto il pubblico, sedette. «Io sono soddisfatto! Signor avvocato, vi pre-

go di chiudere la faccenda!».

«Mi scuso» continuò Griàdussov. «Scusate... Non mi piacciono i dissapori...

Vuoi che ti dia del “voi”, e sia, lo farò... Vuoi che ti stimi una persona intelli-

gente, e sia... Ci sputo su... Io, fratello, non serbo rancore. Che il diavolo

t’assista...».

«Ma voi... permettete! Scusatevi, e non ingiuriate, invece!».

«Come? debbo ancora scusarmi? Io mi scuso! Soltanto ecco, se non vi ho dato

del “voi”, è stato per dimenticanza. Non devo già mettermi in ginocchio... Mi

scuso, e ringrazio perfino Dio che hai avuto abbastanza senno per troncare

questa faccenda. Io non ho tempo di bighellonare per i tribunali... Non ho mai

fatto cause, non ne farò, e a te non consiglio... a voi cioè...».

«Certo! Non volete bere alla pace di Santo Stefano17?».

Page 32: Chekov, Racconti Umoristici

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«Anche bere si può... Solo che tu, fratello, Ossip, sei un porco... Non già che io

t’insulti, ma così... per esempio... Un porco, fratello! Ricordi come ti buttavi ai

miei piedi, quando dal coro vescovile ti cacciarono a spintoni? Eh? E tu osi

sporger querela contro il tuo benefattore? Una grinta sei tu, una grinta! E non

hai vergogna? Signori avventori, non ha vergogna?».

«Permettete! Queste son di nuovo ingiurie!».

«Che ingiurie? Io ti parlo soltanto, ti faccio la morale... Ho fatto pace e lo dico

per l’ultima volta, non penso a ingiuriare... Starò io ad aver rapporti con te, lu-

po mannaro, dopo che hai sporto querela contro il tuo benefattore? Ma vattene

al diavolo! Non desidero nemmeno parlare con te! E se or ora impensatamente

t’ho dato del porco, un porco sei... Invece di pregar Dio in eterno per il tuo be-

nefattore, perché durante dieci anni t’ha nutrito e t’ha insegnato la musica, tu

sporgi una stupida querela e mandi da me vari diavoli di avvocati».

«Permettete, Dossiféi Petrovic’» s’offese Kaliakin. «Non dei diavoli sono stati

da voi, ma ci son stato io!... Un po’ più cauto, vi prego!».

«Ma che io parlo di voi? Venite magari ogni giorno, siate il benvenuto. Mi fa

meraviglia soltanto che voi abbiate terminato i corsi, ricevuto un’istruzione, e

invece di far la morale a questo tacchino, gli tenete mano. Ma io, al vostro po-

sto, in carcere lo farei marcire! E poi perché vi arrabbiate? Mi sono pure scusa-

to! Che dunque v’occorre ancora da me? Non capisco! Signori avventori, siate

testimoni, io mi sono scusato, ma di scusarmi un’altra volta con un imbecille

qualunque non ho intenzione!».

«Siete voi un imbecille!» chiocciò Ossip e, nell’indignazione, si batté il petto.

«Io un imbecille? Io? E tu puoi dirmi questo?...». Griàdussov s’imporporò e fu

preso dal tremito... «E tu hai osato? Prenditi questo!... E oltre all’averti adesso,

farabutto, dato un ceffone, presenterò anche querela contro di te al conciliato-

re! Ti insegnerò io a insultare! Signori, siate testimoni! Signor delegato, perché

state lì a guardare? M’insultano, e voi guardate? Pigliate uno stipendio, e

quando s’ha da badare all’ordine, allora non è affar vostro? Eh? Credete che

anche per voi non ci sian giudici?».

A Griàdussov s’avvicinò il delegato, e cominciò una storia.

Di lì a una settimana Griàdussov stava davanti al giudice conciliatore ed era

processato per ingiurie a Dereviaskin, all’avvocato e al delegato di sezione, a

quest’ultimo nell’esercizio delle sue funzioni. Sul principio non capiva se fos-

se querelante o imputato, ma poi, quando il conciliatore lo condannò “cumula-

tivamente” a due mesi di detenzione, sorrise con amarezza e borbottò:

«M’hanno insultato, e son io che debbo anche star dentro... Fa meraviglia...

Bisogna, signor giudice conciliatore, giudicar secondo la legge, e non sofisti-

cando. La vostra mammina buon’anima, Varvara Serghéievna, che Dio le ac-

Page 33: Chekov, Racconti Umoristici

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cordi il regno dei cieli, quelli come Ossip ordinava di fustigarli, e voi li pro-

teggete... Che mai ne verrà? Voi li assolvete, i furfanti, un altro li assolve...

Dove andare in tal caso a reclamare?».

«Dalla sentenza si può appellare nel termine di due settimane... e prego di non

discutere! Potete andare!».

«Certo... Oggidì col solo stipendio non si vive» proferì Griàdussov e ammiccò

significativamente. «Per forza, se si vuoi mangiare, si schiaffa l’innocente in

gattabuia.. È così... E non si può far colpa...».

«Che cosa?!».

«Nulla... Dicevo così... a proposito di chapen zi ghevesen18... Voi credete,

perché portate una catena d’oro, che per voi non ci sian giudici? Non datevi

pensiero... Scoprirò gli altarini!».

Si avviò un processo “per oltraggio al giudice”; ma intervenne l’arciprete del-

la cattedrale, e la faccenda in qualche modo fu soffocata.

Portando la sua causa davanti al collegio dei conciliatori19, Griàdussov era

convinto che non solo lo avrebbero assolto, ma avrebbero perfin messo in car-

cere Ossip. Così pensava anche durante la stessa discussione della causa. Stan-

do in piedi davanti ai giudici, egli tenne un contegno pacifico, riservato, senza

dir parole superflue. Una volta soltanto, quando il presidente lo invitò a sedere,

si offese e disse:

«Forse che nelle leggi è scritto che il maestro di cappella debba sedere a fianco

del suo cantore?».

E quando il collegio confermò la sentenza del conciliatore, strizzò gli occhi...

«Come? Che cosa?» domandò. «Come volete che l’intenda? Voi a che propo-

sito?...».

«Il collegio ha confermato la sentenza del giudice conciliatore. Se non siete

soddisfatto, potete ricorrere in cassazione».

«Sissignore. Vi ringraziamo sentitamente, eccellenza, per il pronto e giusto

giudizio. Certo, col solo stipendio non si può vivere, questo lo capisco benis-

simo, ma scusate, troveremo anche un tribunale incorruttibile».

Non starò a riferire tutto ciò che Griàdussov spiattellò al collegio... Presente-

mente è sotto processo per “oltraggio al collegio” e non vuol ascoltare, quando

i conoscenti cercano di spiegargli che è colpevole... È convinto della sua inno-

cenza e ha fede che presto o tardi gli diranno grazie per gli abusi da lui scoper-

ti!

«Con quest’imbecille non ci puoi far nulla!» dice il priore della cattedrale, agi-

tando sfiduciato la mano. «Non capisce!».

Page 34: Chekov, Racconti Umoristici

34

Una natura enigmatica

Uno scompartimento di prima classe.

Sul divano, coperto di velluto cremisi, è semisdraiata una graziosa signora. Un

costoso ventaglio a frangia crepita nella sua mano convulsamente serrata; il

pince-nez di continuo cade dal suo bel nasino, la spilla in petto ora sale, ora

scende, come una navicella fra le onde. Ella è agitata... Di fronte a lei sul diva-

netto siede un funzionario di governatorato addetto agl’incarichi speciali, un

giovane scrittore principiante, che pubblica nella gazzetta provinciale piccoli

racconti o, com’egli stesso le chiama, novelle di vita mondana... Egli la guarda

in viso, la guarda fisso, con aria d’intenditore. Osserva, studia, afferra quella

bizzarra, enigmatica natura, la comprende, la penetra... L’anima di lei, tutta la

sua psicologia, egli l’ha come sul palmo della mano.

«Oh, io vi comprendo!» dice il funzionario con incarichi speciali, baciandole

la mano presso il braccialetto. «La vostra anima delicata, sensibile, cerca

un’uscita dal labirinto... Sì! È una lotta terribile, mostruosa, ma... non scorag-

giatevi! Voi sarete vincitrice! Sì!».

«Descrivetemi, Voldemàr!» dice la damina, sorridendo mestamente. «La vita

mia è così piena, così varia, così screziata... Ma soprattutto... io sono infelice!

Sono una martire stile Dostoevskij... Mostrate al mondo la mia anima, Volde-

màr, mostrate questa povera anima! Voi siete uno psicologo. Non è trascorsa

un’ora dacché sediamo nello scompartimento a discorrere, e voi m’avete bell’e

capita, tutta, tutta!».

«Parlate! Vi scongiuro, parlate!».

«Ascoltate. Nacqui in una povera famiglia d’impiegati. Mio padre, un

brav’uomo, intelligente, ma... lo spirito del tempo e dell’ambiente... vous com-

prenez, io non accuso il mio povero padre. Egli beveva, giocava a carte...

prendeva sbruffi... La mamma, poi... Ma che dire! Il bisogno, la lotta per il

pezzo di pane, la consapevolezza della nullità... Ah, non costringetemi a ram-

mentare! Dovetti io stessa aprirmi una via... La mostruosa educazione di colle-

gio, la lettura di sciocchi romanzi, errori di gioventù, primo timido amore... E

la lotta con l’ambiente? Una cosa tremenda! E i dubbi? E i tormenti della inci-

piente mancanza di fede nella vita, in sé?... Ah! Voi siete uno scrittore e ci co-

noscete, noi donne. Voi capirete. Purtroppo, io fui dotata d’un carattere aper-

to... Aspettavo la felicità, e quale! Bramavo essere una persona umana! Sì! Es-

sere una persona umana: in ciò scorgevo la mia felicità!».

Page 35: Chekov, Racconti Umoristici

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«Meravigliosa!» balbetta lo scrittore, baciando la mano presso il braccialetto.

«Non voi bacio, mirabile creatura, ma l’umana sofferenza! Ricordate Raskòl-

nikov20? Egli baciava così».

Oh, Voldemàr! Mi occorreva la fama... il rumore, lo splendore, come ad ogni

(perché atteggiarsi a modesta?) natura non dozzinale. Io anelavo a qualcosa di

non comune... di non femminile! Ed ecco... Ed ecco... capitò sul mio cammino

un vecchio generale ricco... Capitemi, Voldemàr! Era il sacrificio di sé, la ri-

nuncia a sé stessa, capite! Io non potevo agire altrimenti. Feci ricca la famiglia,

presi a viaggiare, a far del bene... E quanto soffersi, come intollerabili, bassa-

mente triviali furono per me gli amplessi di quel generale, sebbene, bisogna

rendergli giustizia, a suo tempo avesse valorosamente combattuto! Vi furono

momenti... momenti terribili! Ma mi rafforzava il pensiero che il vecchio

dall’oggi al domani sarebbe morto, che avrei preso a vivere come volevo, mi

sarei abbandonata all’uomo amato, sarei stata felice... E io ce l’ho un tal uomo,

Voldemàr! Dio vede, ce l’ho!».

La damina agita più intensamente il ventaglio. Il suo viso assume

un’espressione di pianto.

«Ma ecco, il vecchio è morto... Egli mi ha lasciato qualcosa, io sono libera

come un uccello. Adesso potrei anche viver felice... Non è vero, Voldemàr? La

felicità batte alla mia finestra. Non c’è che da lasciarla entrare, ma... no! Vol-

demàr, ascoltate, vi scongiuro! Adesso potrei anche abbandonarmi all’uomo

amato, diventare l’amica, l’aiuto, la banditrice dei suoi ideali, esser felice...

riposare... Ma come tutto è volgare, nauseante e sciocco a questo mondo! Co-

me tutto è ignobile, Voldemàr! Io sono infelice, infelice, infelice! Sul mio

cammino di nuovo si trova un ostacolo! Di nuovo sento che la felicità mia è

lontana, lontana! Ah, quanti tormenti, se sapeste! Quanti tormenti!».

«Ma che è? Che cosa s’è messo sul vostro cammino? Vi supplico, parlate! Eb-

bene?».

«Un altro vecchio ricco...».

Il ventaglio spezzato ricopre il bel visetto. Lo scrittore puntella col pugno la

sua testa gravida di pensiero, sospira e, con aria d’intenditore psicologo, si fa

meditabondo. La locomotiva fischia e ansima, si arrossano dal sole al tramonto

le tendine dei finestrini.

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Dal diario d’un aiuto contabile

11 maggio 1863. Il nostro sessantenne contabile Glotkin ha bevuto latte con

cognac a cagion della tosse e si è ammalato in quest’occasione di delirium

tremens. I dottori, con la sicumera loro propria, assicurano che domani sarà

morto. E così sarò finalmente contabile! Questo posto mi è stato promesso or-

mai da un pezzo.

Il segretario Kles’ciòv andrà sotto giudizio per percosse inferte a un postulante

che l’aveva chiamato burocrate. A quanto sembra, è cosa decisa.

Ho preso un decotto contro il catarro di stomaco.

3 agosto 1865. Il contabile Glotkin si è nuovamente ammalato di petto. Ha

preso a tossire e beve latte con cognac. Se morirà, il posto resterà a me. Nutro

una speranza, ma debole, poiché, a quel che pare, il delirium tremens non

sempre è mortale!

Kles’ciòv ha strappato via ad un armeno una cambiale e l’ha stracciata. La co-

sa andrà magari a finire in tribunale.

Una vecchietta (la Gùrievna) diceva ieri ch’io non ho il catarro, ma

un’emorroide interna. Può esser benissimo!

30 giugno 1867. In Arabia, scrivono, c’è il colera. Può darsi che venga in Rus-

sia, e allora si faranno molti posti vacanti. Forse il vecchio Glotkin morirà, e io

avrò il posto di contabile. È ben vitale costui! Vivere così a lungo, secondo

me, è perfin riprovevole.

Che cosa prendere contro il catarro? Non dovrei prendere della santonina?

2 gennaio 1870. Nella corte di Glotkin tutta la notte ha ululato un cane. La mia

cuoca Pelagheia dice che questo è un segno sicuro, e io e lei fino alle due di

notte abbiamo parlato di come, diventato contabile, mi comprerò la pelliccia di

procione e la veste da camera. E magari prenderò moglie. Certo non una ra-

gazza – ciò non si confà ai miei anni – ma una vedova.

Ieri Kles’ciòv è stato scacciato dal circolo per aver narrato ad alta voce un a-

neddoto indecente e aver riso del patriottismo di un membro della Deputazione

Commerciale, Poniuchòv. Quest’ultimo, come si sente dire, sporgerà querela.

Voglio, per il catarro, andare dal dottore Botkin. Dicono che cura bene...

4 giugno 1878. A Vetlianka, scrivono, c’è la peste. La gente cade a mucchi,

scrivono. Glotkin beve in quest’occasione acquavite al pepe. Be’, a un vecchio

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così, difficilmente l’acquavite al pepe gioverà. Se verrà la peste, sarò contabile

di sicuro.

4 giugno 1883. Glotkin è moribondo. Sono stato da lui e in lacrime ho doman-

dato perdono d’aver atteso con impazienza la sua morte. Ha perdonato fra le

lacrime generosamente e mi ha consigliato di far uso contro il catarro del caffè

di ghiande.

E Kles’ciòv di nuovo per poco non è capitato sotto giudizio: aveva impegnato

da un ebreo un pianoforte preso a nolo. E, nonostante tutto ciò, ha già la croce

di Stanislao e il grado di Assessore di Collegio. È sorprendente ciò che si fa in

questo mondo!

Zenzero, 2 dramme; galanga, dr.1/2; vodka forte, dr. 1; sangue dei sette frati,

dr. 5; mischiato il tutto, fare un infuso in una bottiglietta di vodka e prendere

contro il catarro un bicchierino a digiuno.

Lo stesso anno, 7 giugno. Ieri hanno seppellito Glotkin. Ahimè!

Non m’ha giovato la morte di questo vegliardo! Mi appare in sogno le notti in

clamide bianca e mi fa segno col dito. E, oh sventura, sventura a me, maledet-

to, il contabile non sono io, ma Ciàlikov. Non io ho avuto questo posto, ma un

giovanotto che ha la protezione di una zia generalessa. Son perdute tutte le mie

speranze!

10 giugno 1886. A Ciàlikov è scappata la moglie. Si accora, il poveretto. Forse

dal dispiacere attenterà ai suoi giorni. Se lo farà, io sarò contabile. Già se ne

parla. Dunque la speranza non è ancora perduta, si può vivere e magari non si

è più lontani dalla pelliccia di procione. In quanto poi al matrimonio, non ne

sono alieno.

Perché non sposarsi, se si presenta una buona occasione? Bisogna solo consi-

gliarsi con qualcuno; è un passo serio.

Kles’ciòv ha scambiato le soprascarpe col Consigliere Segreto Lirmans. Uno

scandalo!

Il guardaportone Paissi ha consigliato contro il catarro di usare il sublimato.

Proverò.

Matrimonio di calcolo

(Romanzo in due parti)

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Parte prima

In casa della vedova Mimrin, sita nel vicolo Piatisobaci, v’è cena di nozze. A

cenare son ventitré, di cui otto non mangiano nulla, bezzicano col naso e si la-

gnano di sentirsi “disturbati”. Candele, lampade e un lampadario zoppo, preso

a nolo alla trattoria, ardono così vivamente che uno degli ospiti seduti a tavola,

un telegrafista, strizza gli occhi civettuolo e non fa altro che parlare

d’illuminazione elettrica, per dritto e per traverso. A quest’illuminazione e in

generale all’elettricità egli predice un brillante avvenire, ma nondimeno i

commensali lo ascoltano con un certo disdegno.

«L’elettricità...» borbotta il padrino di nozze, guardando ottusamente nel suo

piatto. «Ma, a mio modo di vedere, la luce elettrica non è che una birbonata.

Ficcano là un carboncino e credono di sviare gli occhi! No, fratello, una volta

che mi dai la luce, dammi non un carboncino, ma qualcosa di sostanziale, un

qualcosa da accendere, che ci sia da appigliarcisi! Dammi del fuoco, capisci?,

del fuoco, ch’è naturale e non astratto».

«Se vedeste una batteria elettrica di che è composta» dice il telegrafista dando-

si delle arie, «ragionereste altrimenti».

«Né manco voglio vederla. Una birbonata... Gabbano la gente semplice...

Spremono l’ultimo succo. Li conosciamo, costoro... E voi, signor giovanotto

(non ho l’onore di sapere il vostro patronimico), invece di parteggiare per una

birberia, fareste meglio a bere e a versarne agli altri».

«Con voi, babbo, io son pienamente d’accordo» dice con voce rauca di tenore

lo sposo Aplombov, un giovane dal collo lungo e dai capelli ispidi. «A che pro

attaccar discorsi sapienti? Non rifuggo io stesso dal parlare di ogni possibile

scoperta in senso scientifico, ma per queste cose vi son altri momenti! Tu di

che avviso sei, mascèr21?» si rivolge lo sposo alla sposina che gli siede accan-

to.

La sposa Dàscenka, a cui son scritte in viso tutte le virtù, tranne una: la facoltà

di pensare, si fa di fuoco e risponde:

«Voglion mostrare la loro istruzione e parlan sempre di cose incomprensibili».

«Lodando Dio, abbiam vissuto la nostra vita senza istruzione, ed ecco che,

grazie a Dio, sposiamo la terza figliuola a un brav’uomo» disse dall’altro capo

della tavola la madre di Dàscenka, sospirando e rivolgendosi al telegrafista. «E

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39

se noi, a parer vostro, facciam figura d’ignoranti, perché venite da noi? Dovre-

ste andarvene dalle vostre persone istruite».

Segue un silenzio. Il telegrafista è confuso. Egli non si aspettava punto che la

conversazione sulla elettricità avrebbe preso una così strana piega. Il silenzio

sopraggiunto ha un carattere ostile, gli sembra sintomo d’uno scontento gene-

rale, ed egli stima necessario giustificarsi.

«Io, Tatiana Petrovna, ho sempre stimato la vostra famiglia» dice, «e se ho

parlato della luce elettrica, ciò non vuole ancora dire che l’abbia fatto per su-

perbia. Ecco, posso perfino bere... Ho sempre con ogni sentimento augurato a

Daria Ivànovna un buon partito. Ai nostri tempi, Tatiana Petrovna, è difficile

sposare un brav’uomo. Oggi ognuno spia l’occasione di contrarre un matrimo-

nio d’interesse, per il denaro...».

«Questa è un’allusione!» dice lo sposo, facendosi di porpora e sbattendo gli

occhi.

«Non c’è alcun’allusione» afferma il telegrafista, alquanto intimorito... «Io non

parlo dei presenti. L’ho detto così... in generale... Per carità!... Tutti sanno che

voi è per amore... Una dote da nulla...».

«No, non da nulla!» si risente la madre di Dàscenka. «Tu parla, signor mio, ma

non divagare! Oltre che mille rubli, diamo tre mantelli, il letto, ed ecco, tutta

questa mobilia! Vammi a trovare in un altro posto una dote così!».

«Io nulla... Sono effettivamente dei mobili... ma io dico nel senso che, ecco, si

offendono come se avessi alluso...».

«E voi non fate allusioni» dice la madre della sposa. «Noi vi usiamo riguardo

per i vostri genitori e vi abbiamo invitato alle nozze, e voi dite e questo e quel-

lo. E se sapevate che Jegòr Fiòdoric’ si sposava per interesse, perché prima

siete stato zitto? Avreste dovuto venire a dirlo da parente: è così e così, s’è

strusciato per interesse... E tu, bàtiuska, fai peccato!» si rivolge d’un tratto la

madre della sposina allo sposo, battendo lacrimosa gli occhi. «Io, forse, l’ho

allattata e allevata... l’ho custodita più di un diamante smeraldino, la figlietta

mia, e tu... tu per interesse...».

«E voi avete prestato fede a una calunnia?» chiede Aplombov, levandosi da

tavola e tirandosi nervosamente gli ispidi capelli. «Vi ringrazio umilissima-

mente! Mersì22 di tale opinione! E voi, signor Blìncikov» si rivolge al telegra-

fista, «sebbene mi siate conoscente, non vi permetterò di combinare simili in-

famie in casa altrui! Favorite uscirvene!».

«Come sarebbe a dire?».

«Favorite uscirvene! Vi auguro di essere anche voi un galantuomo come me!

In una parola, favorite uscirvene!».

Page 40: Chekov, Racconti Umoristici

40

«Ma smettila! Basta!» gli amici dello sposo lo fanno sedere. «Be’, ne mette

conto? Siedi! Smettila!».

«No, desidero mostrare ch’egli non ha alcun diritto! Io per amore ho contratto

legittimo matrimonio. Perché mai restiate a sedere non capisco! Favorite uscir

fuori!».

«Io, nulla... Io, già...» balbetta lo sbalordito telegrafista, levandosi da tavola.

«Non capisco nemmeno... Va bene, me n’andrò. Solo restituitemi prima i tre

rubli che mi chiedeste in prestito per il panciotto di piccato. Vuoterò, ecco, an-

cora il bicchiere e... me ne andrò; soltanto, voi prima pagate il debito».

Lo sposo bisbiglia a lungo coi suoi amici. Quelli gli danno tre rubli in spiccio-

li, egli li getta con indignazione al telegrafista, e quest’ultimo, dopo lunghe ri-

cerche del suo berretto di servizio, saluta e se ne va.

Così a volte può finire un’innocente conversazione sull’elettricità! Ma ecco,

termina la cena... Viene la notte. L’autore ben educato mette alla propria fanta-

sia una solida briglia e getta sugli avvenimenti in corso il cupo velo del miste-

ro.

L’Aurora dalle rosee dita trova ancora Imeneo al vicolo Piatisobaci, ma ecco

che giunge il grigio mattino e fornisce all’autore ricca materia per la

Parte seconda e ultima

Una grigia mattina d’autunno. Neanche son le otto e al vicolo Piatisobaci v’è

un movimento insolito. Per i marciapiedi corrono agitati guardie e portinai; al

portone fan ressa cuoche intirizzite con un’espressione di estrema perplessità

sui visi... Da tutte le finestre guardano gli abitanti. Dalla finestra aperta della

lavanderia, premendosi tempia a tempia, mento a mento, occhieggiano teste di

donne.

«Non è neve, non è... neppur ti ci raccapezzi che sia» si odono voci.

Nell’aria da terra fino ai tetti volteggia un che di bianco, molto simile a neve.

Il selciato è bianco, i lampioni della via, i tetti, le panchine dei portieri presso i

portoni, le spalle e i berretti dei passanti... tutto è bianco.

«Che è successo?» domandano le lavandaie ai portinai che corrono.

Quelli in risposta agitano le mani e corrono oltre... Essi stessi non sanno di che

si tratti. Ma ecco, giunge infine lentamente. un portiere e, discorrendo tra sé,

gesticola con le braccia. Evidentemente è stato sul luogo dell’accaduto e sa tut-

to.

«Che è successo, caro?» gli domandano le lavandaie dalla finestra.

Page 41: Chekov, Racconti Umoristici

41

«Uno screzio» risponde lui. «In casa della Mimrin, che ieri ci furon le nozze,

hanno ingannato lo sposo nei conti. Invece di mille, glien’han dati novecento».

«Be’, e lui che ha fatto?».

«È andato in furia. Io, dice, già, dice... Ha scucito nella collera il materasso di

piume e ha buttato il piumino dalla finestra... Ve’, quanto piumino! Come ne-

ve!».

«Lo conducono! Lo conducono!» si senton delle voci. «Lo conducono!».

Dalla casa della vedova Mimrin avanza un corteo. Dinanzi vengono due guar-

die con facce impensierite... Dietro a loro cammina Aplombov in cappotto di

tricot e cilindro. In viso gli sta scritto: «Sono un galantuomo, ma non permetto

che mi si gabbi!».

«Ora la giustizia vi farà vedere che uomo son io!» borbotta, voltandosi di con-

tinuo. Lo seguono piangenti Tatiana Petrovna e Dàscenka. La processione è

chiusa dal portiere con un libro e da una torma di ragazzini.

«Di che piangi, sposina?» si rivolgono le lavandaie a Dàscenka.

«Rincresce dello strapunto!» risponde per lei la madre. «Tre pudì23, colombel-

le! E il piumino, poi, che era! Peluria schietta; non una pennuccia! Dio ci ha

castigati sul declinar degli anni!».

Il corteo svolta dietro l’angolo, e il vicolo Piatisobaci si placa. Il piumino svo-

lazza fino a sera.

Il romanzo del contrabbasso

Page 42: Chekov, Racconti Umoristici

42

Il musicante Smic’kòv si recava dalla città alla villa del principe Bibulov dove,

in occasione d’un fidanzamento, «aveva luogo» una serata con musica e danze.

Sul suo dorso posava un enorme contrabbasso in custodia di pelle. Andava

Smic’kòv per la riva del fiume, rotolante le sue fredde acque, anche se non

maestosamente, in guisa però assai poetica.

«Non converrebbe far un bagno?» pensò.

Senza riflettere a lungo, egli si svestì e immerse il corpo nei freschi flutti. Era

una sera splendida. La poetica anima di Smic’kòv prese ad accordarsi in con-

formità dell’armonia di ciò ch’era intorno. Ma qual dolce sentimento gli avvol-

se l’anima, quando, nuotato un centinaio di passi da un lato, scorse una bella

fanciulla seduta sull’erta ripida a pescar con la lenza. Egli trattenne il fiato e si

sentì mancare per un fiotto di sentimenti di varia natura: ricordi dell’infanzia,

nostalgia del passato, amore che si destava... Dio; e lui che pensava di non es-

ser più in grado d’amare! Dopo che aveva perduto la fede nell’umanità (sua

moglie, ardentemente amata, era fuggita con un amico di lui, il sonatore di fa-

gotto Sobakin), il suo petto si era colmato d’un senso di vuoto, ed egli s’era

fatto misantropo.

«Che è la vita?», più di una volta s’era fatta la domanda. «Per che cosa vivia-

mo? La vita è un mito, un sogno... un ventriloquio...».

Ma stando davanti alla bella addormentata (non era difficile osservare ch’ella

dormiva), egli d’un tratto, contro la sua volontà, sentì in petto alcunché di si-

mile all’amore. A lungo ristette dinanzi a lei, divorandola con gli occhi...

«Ma basta...» pensò, mandando un profondo sospiro. «Addio, miracolosa vi-

sione! È ormai l’ora per me d’andare al ballo di sua eccellenza...».

E, dato ancora uno sguardo alla bella, stava già per nuotare indietro, quando

nella sua testa balenò un’idea.

«Bisogna che le lasci un mio ricordo!» pensò. «Le aggancerò qualcosa

all’amo. Sarà una sorpresa da parte d’un ignoto».

Smic’kòv nuotò piano verso la sponda, colse un grosso mazzo di fiori di cam-

po e acquatici e, legatolo con uno stelo di atrepice, lo attaccò all’amo.

Il mazzo andò a fondo e si tirò dietro il grazioso galleggiante.

La saggezza, le leggi di natura e la condizione sociale del mio eroe esigono

che il romanzo finisca in questo punto, ma – ahimè! – il fato di un autore è ine-

sorabile: per circostanze indipendenti dall’autore, il romanzo non finì col maz-

zo di fiori. A dispetto del buon senso e della natura delle cose, il povero e o-

scuro sonatore di contrabbasso doveva rappresentare nella vita d’una illustre e

ricca beltà una parte importante.

Page 43: Chekov, Racconti Umoristici

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Giunto a nuoto alla riva, Smic’kòv fu sbalordito: egli non scorse i suoi panni.

Li avevan rubati... Ignoti malfattori, mentr’egli contemplava la bella, avevan

portato via tutto, tranne il contrabbasso e il cilindro.

«Maledetti!» esclamò Smic’kòv. «Oh, progenie di arpie! Non tanto mi contur-

ba la perdita del vestito (ché un vestito è perituro), quanto il pensiero che mi

toccherà andarmene tutto nudo e con ciò mancare contro la pubblica moralità».

Egli sedette sulla custodia del contrabbasso e si diede a cercare una via

d’uscita dalla sua orribile situazione.

«Non posso mica andar nudo dal principe Bibulov!» pensava. «Vi saran delle

dame! E per di più i ladri han rubato coi calzoni anche la colofonia che vi si

trovava dentro!».

Egli pensò a lungo, tormentosamente, fino ad averne dolor di tempie.

«Ah!» si rammentò infine. «Non lungi dalla riva fra i cespugli v’è un ponticel-

lo... Mentre si farà scuro, potrò starmene sotto quel ponticello, e a sera, al buio,

raggiungerò la prima isba...».

Fermatosi a questo pensiero, Smic’kòv mise il cilindro, si gettò sul dorso il

contrabbasso e si trascinò fino ai cespugli. Nudo, con lo strumento musicale

sul dorso, egli rammentava qualche mitico semidio dell’antichità.

Adesso, lettore, mentre il mio eroe se ne sta sotto il ponte e si abbandona al

suo cruccio, lasciamolo per qualche tempo e volgiamoci alla fanciulla in atto

di pescare. Che n’è di lei? La bella, svegliatasi e non avendo scorto sull’acqua

il galleggiante, si affrettò a tirare la lenza. La lenza si tese, ma l’uncino e il gal-

leggiante non apparvero fuori dell’acqua. Il mazzo di Smic’kòv, è evidente, si

era ammollito nell’acqua, gonfiandosi, e s’era appesantito.

«O s’è acchiappato un grosso pesce» pensò la fanciulla, «oppure s’è impigliato

l’amo».

Dopo aver tirato ancora un po’ la lenza, la fanciulla concluse che l’uncino

s’era impigliato.

«Che peccato!» pensò. «La sera abboccano così bene! Che fare?».

E senza pensarci a lungo, la bizzarra fanciulla gettò da sé le eteree vesti e im-

merse il bellissimo corpo nei flutti fino alle marmoree spalle. Non fu facile li-

berare l’uncino dal mazzo, nel quale si era aggrovigliata la lenza, ma pazienza

e fatica ebbero il sopravvento. Di lì a circa un quarto d’ora la bella, raggiante e

felice, usciva dall’acque, tenendo in mano l’uncino.

Ma la sorte maligna la guatava. I malviventi che avevano rubato il vestito di

Smic’kòv, avevano trafugato anche le sue vesti, non lasciandole se non il ba-

rattolo coi vermi.

«Che posso fare?» si mise a piangere. «Forse andare in tal guisa? No, mai!

Meglio la morte! Aspetterò che imbrunisca; allora, al buio, arriverò da zia A-

Page 44: Chekov, Racconti Umoristici

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gafia e la manderò a casa a prendere una veste... E intanto andrò a nasconder-

mi sotto il ponticello».

La mia eroina, scegliendo i tratti dove l’erba era più alta e chinandosi, corse

verso il ponticello. Nell’infilarsi sotto il ponte, scorse là un uomo nudo con

una criniera da musicista e il petto villoso, mandò un grido e perdette i sensi.

Smic’kòv pure s’era spaventato. Dapprima scambiò la fanciulla per una naia-

de.

«Non sarà una sirena fluviale, venuta a sedurmi?» pensò, e questa supposizio-

ne lo lusingò, giacché aveva sempre avuto un alto concetto del suo esteriore.

«Se poi non è una sirena, ma un essere umano, come spiegare questa strana

metamorfosi? Perché è qui, sotto il ponte? E che ha?».

Mentr’egli risolveva questi quesiti, la bella tornava in sé.

«Non uccidetemi!» mormorò. «Sono la principessina Bibulov. Vi scongiuro!

Vi si darà molto denaro! Or ora stavo sganciando nell’acqua l’uncino, e dei

ladri mi hanno rubato il mio vestito nuovo, gli stivaletti e tutto!».

«Signorina!» rispose Smic’kòv con voce supplice. «Anche a me han del pari

rubato il mio vestito. Inoltre coi calzoni hanno portato via anche la colofonia

che v’era dentro!».

Tutti coloro che suonano contrabbassi e tromboni per lo più son di poca inven-

tiva; Smic’kòv invece era una piacevole eccezione.

«Signorina!» diss’egli, dopo aver atteso un poco. «Vi turba, lo vedo, il mio a-

spetto. Ma, convenitene, a me non è possibile uscir di qui per le stesse ragioni

che a voi. Ecco che cosa ho ideato: non vi andrebbe di adagiarvi nella custodia

del mio contrabbasso e coprirvi col coperchio? Ciò mi nasconderà alla vostra

vista...».

Ciò detto, Smic’kòv cavò fuori dall’astuccio il contrabbasso. Per un minuto gli

parve, cedendo la custodia, di profanar la sacra arte, ma l’esitazione fu di breve

durata. La bella si adagiò nella custodia e si acciambellò, e lui strinse le cin-

ghie e prese ad allietarsi che la natura lo avesse dotato di tanto ingegno.

«Ora, signorina, voi non mi vedete» disse. «Riposate qui e state tranquilla.

Quando farà buio, vi porterò a casa dei vostri genitori. A prendere il contrab-

basso posso venirci anche dopo».

Al sopraggiungere dell’oscurità Smic’kòv si caricò sulle spalle la custodia con

la bella e si trascinò verso la villa di Bibulov. Il suo piano era questo: da prin-

cipio avrebbe raggiunto la prima isba e si sarebbe rifornito di vestiario, poi a-

vrebbe proseguito...

«Non v’è male senza bene» pensava, sollevando la polvere coi piedi nudi e

chinandosi sotto il carico. «Del caloroso interesse che io ho preso alla sorte

della principessina, Bibulov mi compenserà certo generosamente».

Page 45: Chekov, Racconti Umoristici

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«Signorina, state comoda?» domandava poi col tono del cavalier galant che

invita a una quadriglia. «Di grazia, non fate complimenti e disponete della mia

custodia come se foste in casa vostra!».

D’un tratto al galante Smic’kòv parve che davanti a lui, avvolte nell’oscurità,

camminassero due figure d’uomo. Scrutando più attentamente, si convinse che

non era un’illusione ottica: le figure effettivamente camminavano, anzi reca-

vano in mano certi fagotti...

«Non saranno i ladri?» gli balenò in testa. «Portano qualche cosa! Sono proba-

bilmente i nostri vestiti!».

Smic’kòv posò la custodia al margine della strada e rincorse le figure.

«Alto là!» gridò. «Alt! Fermi!».

Le figure si volsero e, accortesi dell’inseguimento, se la diedero a gambe... La

principessina ancora a lungo intese rapidi passi e grida di «alto là!». Infine tut-

to tacque.

Smic’kòv si era lasciato trascinare dall’inseguimento e, probabilmente, alla

bella sarebbe toccato giacere ancora a lungo nel campo accosto alla strada, se

non era un fortunato gioco del caso. Accadde che in quel mentre percorressero

la stessa strada per la villa di Bibulov i colleghi di Smic’kòv, il flautista

Zuc’kòv e il clarinetto Razmachaikin. Inciampati nella custodia, i due si guar-

darono meravigliati e spalancarono le braccia.

«Il contrabbasso!» disse Zuc’kòv. «Ah, ma questo è il contrabbasso del nostro

Smic’kòv! Ma com’è capitato qui?».

«Probabilmente, qualcosa è accaduto a Smic’kòv» concluse Razmachaikin. «O

ha preso la sbornia, oppure l’hanno derubato... In ogni caso, lasciar qui il con-

trabbasso non va. Prendiamolo con noi».

Zuc’kòv si gettò sul dorso la custodia, e i musicanti proseguirono.

«Lo sa il diavolo, che peso è!» brontolò per tutta la strada il flautista. «Per nul-

la al mondo acconsentirei a sonare una tal cariatide... Uff!».

Giunti alla villa del conte Bibulov, i sonatori deposero la custodia nel posto

riservato all’orchestra e si diressero al ristoro.

In quel mentre nella villa già accendevano i lampadari e i bracci. Il fidanzato,

consigliere di Corte Lakeic’ funzionario bello e simpatico del dicastero delle

vie di comunicazione, stava in mezzo alla sala e, con le mani in tasca, discor-

reva col conte Skàlikov. Parlavano di musica.

«Io, conte» diceva Lakeic’, «a Napoli conoscevo di persona un violinista che

operava letteralmente prodigi. Voi non crederete! Sul contrabbasso... su un

comune contrabbasso egli cavava trilli così indiavolati da far paura, semplice-

mente! Sonava i valzer di Strauss!».

«Finitela, codesto non è possibile...» mise in dubbio il conte.

Page 46: Chekov, Racconti Umoristici

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«Vi assicuro! Perfin la rapsodia di Liszt eseguiva! Io abitavo con lui nella stes-

sa camera, anzi, non avendo da fare, appresi da lui a sonare sul contrabbasso la

rapsodia di Liszt».

«La rapsodia di Liszt... Uhm!... voi scherzate...».

«Non credete?» fece Lakeic’. «Allora ve lo proverò subito! Andiamo in orche-

stra!».

Il fidanzato e il conte si diressero all’orchestra. Accostatisi al contrabbasso,

presero lesti a scioglier le cinghie... e – oh, spavento!

Ma a questo punto, mentre il lettore, dando libero corso alla sua immaginazio-

ne, delinea l’esito della disputa musicale, torniamo a Smic’kòv... Il povero so-

natore, non avendo raggiunto i ladri ed essendo tornato al luogo dove aveva

lasciato la custodia, più non vide il prezioso carico. Perdendosi in congetture,

egli fece più volte la strada su e giù e, non avendo trovato l’astuccio, concluse

che egli non aveva imbroccato la strada giusta...

«È orribile!» pensava, afferrandosi per i capelli e rabbrividendo. «Lei soffo-

cherà nell’astuccio! Sono un assassino!».

Fino a mezzanotte in punto Smic’kòv vagò per le strade e cercò l’astuccio, ma

alla fine, stremato di forze, se n’andò sotto il ponticello.

«Cercherò all’alba» stabilì.

Le ricerche all’alba diedero lo stesso risultato, e Smic’kòv risolse di aspettar

sotto il ponte la notte...

«La troverò!» mormorava, togliendosi il cilindro e afferrandosi i capelli. «Do-

vessi cercare un anno, la troverò!».

E tuttora i contadini che abitano i luoghi descritti narrano che le notti presso il

ponticello si può vedere un uomo nudo, coperto dai capelli e in cilindro. Ogni

tanto da sotto il ponticello si sente il rantolo d’un contrabbasso.

L’oratore

Page 47: Chekov, Racconti Umoristici

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Un bel mattino seppellivano l’assessore di collegio Kirill Ivànovic’ Vavilonov,

morto per due malanni tanto diffusi nella nostra patria: una cattiva moglie e

l’alcolismo. Quando il corteo funebre si mosse dalla chiesa verso il cimitero,

un collega del defunto, certo Poplavski, salì in una carrozzella e galoppò dal

suo amico Grigori Petrovic’ Zapoikin, uomo giovane, ma già abbastanza popo-

lare. Zapoikin, com’è noto a molti lettori, possiede la rara capacità

d’improvvisare discorsi matrimoniali, di giubileo e funebri. Egli può parlare

quando gli garba: tra veglia e sonno, a digiuno, ubriaco fradicio, con la febbre

ardente. Il suo discorso scorre liscio, eguale, come acqua da gronda, e copioso;

parole di rimpianto nel suo dizionario oratorio ve n’è assai più che di scarafag-

gi in qualsivoglia trattoria. Parla sempre con eloquenza e a lungo, cosicché a

volte, specie a nozze di mercanti, per fermarlo tocca ricorrere all’aiuto della

polizia.

«E io, fratellino, son venuto da te!» cominciò Poplavski, avendolo trovato in

casa. «Vèstiti sull’istante, e andiamo. È morto uno dei nostri, lo spediamo su-

bito all’altro mondo, così bisogna, fratellino, dire a commiato qualche frotto-

la... In te ogni speranza. Se fosse morto qualcuno dei piccoli, non staremmo a

disturbarti, ma sai, è un segretario... una colonna della cancelleria, in certo qual

modo. Non sta bene un tal pezzo grosso seppellirlo senza discorso».

«Ah il segretario!» sbadigliò Zapoikin. «È quell’ubriacone?».

«Sì, l’ubriacone. Ci saranno i blinì24, gli antipasti... riceverai i soldi della car-

rozzella. Andiamo, anima mia! Metti fuori là, sulla tomba, una qualche con-

cione più ciceroniana che puoi, e che grazie riceverai!».

Zapoikin acconsentì volentieri. Egli si scarruffò i capelli, atteggiò il volto a

malinconia e uscì con Poplavski sulla strada.

«Conosco il vostro segretario» disse, salendo in carrozzella. «Scroccone e bir-

ba, si abbia il regno dei cieli, come ce n’è pochi».

«Via, non sta bene, Griscia, insultare i morti».

«Quest’è certo, aut mortuis nihil bene25, ma tuttavia era un mariuolo».

Gli amici raggiunsero il corteo funebre e vi si unirono. Il defunto lo portavan

lentamente, talché fino al cimitero ebbero tempo di dare un tre capatine in trat-

toria e di mandar giù per il riposo dell’anima un bicchierino ogni volta.

Al cimitero fu detto il requiem. Suocera, moglie e cognata, lige alla consuetu-

dine, piansero molto. Quando calarono la bara nella fossa, la moglie gridò:

«Lasciatemi andar da lui!», ma nella fossa dietro al marito non andò, proba-

bilmente essendosi rammentata della pensione. Dopo aver atteso che tutto si

fosse calmato, Zapoikin si fece avanti, girò gli occhi su tutti è cominciò:

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«Si ha da credere agli occhi e agli orecchi? Non sono un sogno pauroso questa

bara, questi visi di pianto, gemiti e lamenti? Ahimè, non è un sogno, e la vista

non c’inganna! Colui che, ancor non è molto, noi vedevamo così baldo, così

giovanilmente fresco e puro, che, ancor non è molto, sotto i nostri occhi, a so-

miglianza d’infaticabile ape, recava il suo miele alla comune arnia del buon

ordine statale, colui che... quello stesso è ora volto in cenere, in material par-

venza. La morte inesorabile ha posto su di lui la mano irrigidita, mentr’egli,

nonostante la sua avanzata età, era ancor pieno di forze in sboccio e di radiose

speranze. Incolmabile perdita! Chi ce lo sostituirà? Di buoni funzionari ne ab-

biam molti, ma Prokofi Osipyc’ era unico. Egli sino in fondo all’anima era de-

dito al suo onesto dovere, non risparmiava forze, non dormiva le notti, era di-

sinteressato, incorruttibile... Come disprezzava coloro che cercavano, a danno

dei comuni interessi, di corromperlo, che con gli allettevoli beni della vita ten-

tavano di farlo venir meno al suo dovere! Sì, sotto i nostri occhi Prokofi O-

sipyc’ distribuiva il suo modesto stipendio ai colleghi più poveri, e voi stessi

avete udito or ora i lamenti delle vedove e degli orfani che vivevano delle sue

donazioni. Dedito al dovere d’ufficio e alle buone opere, egli non conobbe

gioie nella vita e si negò perfino la felicità dell’esistenza familiare; vi è noto

che fino al termine dei giorni suoi egli fu celibe! E chi ce lo sostituirà come

camerata? Come fosse ora, vedo il suo volto raso, intenerito, a noi rivolto con

un buon sorriso; come fosse ora, sento la sua voce dolce, teneramente amiche-

vole. Pace alle ceneri tue, Prokofi Osipyc’! Riposa, onesto, nobile lavorato-

re!».

Zapoikin continuò, e gli ascoltatori presero a bisbigliarsi a vicenda. Il discorso

piacque a tutti, spremé alquante lacrime, ma molto in esso parve strano. In

primo luogo rimase incomprensibile perché l’oratore chiamasse il defunto

Prokofi Osipyc’, mentre si chiamava Kirill Ivànovic’. Secondariamente, era a

tutti noto che il defunto tutta la vita aveva guerreggiato con la sua legittima

moglie, e quindi non poteva dirsi scapolo; terzo, aveva una folta barba rossic-

cia, dalla nascita non si era sbarbato, e perciò riusciva incomprensibile per qual

ragione l’oratore avesse detto raso il suo volto. Gli uditori erano perplessi, si

scambiavano occhiate e alzavan le spalle.

«Prokofi Osipyc’!» continuò l’oratore, guardando ispirato nella fossa: «Il tuo

viso era brutto, persin deforme, tu eri arcigno e rude, ma noi tutti sapevamo

che sotto codesto apparente involucro batteva un cuore onesto, amico!».

Ben presto gli ascoltatori presero ad osservare un che di strano anche

nell’oratore medesimo. Egli fissò gli occhi in un punto, si mosse inquieto e

prese egli stesso a stringersi nelle spalle. D’un tratto ammutolì, spalancò stupi-

to la bocca e si girò verso Poplavski.

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«Senti un po’, ma è vivo!» disse, guardando con sgomento.

«Chi è vivo?».

«Ma Prokofi Osipyc’! Eccolo in piedi accanto al monumento!».

«Lui non era mica morto! È morto Kirill Ivànovic’!».

«Ma se tu stesso mi hai detto che vi era mancato il segretario!».

«E Kirill Ivànovic’ era il segretario. Tu, stravagante, hai fatto confusione! Pro-

kofi Osipyc’, è esatto, era prima segretario da noi; ma due anni fa lo passarono

capufficio al secondo reparto».

«Ah, vi capisce il diavolo!».

«Perché ti sei fermato? Continua, ché si è a disagio».

Zapoikin si voltò verso la fossa e con la primitiva eloquenza riprese il discorso

interrotto. Presso un monumento stava effettivamente Prokofi Osipyc’, un vec-

chio funzionario dalla faccia sbarbata. Egli guardava l’oratore e si accigliava,

iroso.

«E come t’è saltato in capo?» ridevano i funzionari, quando con Zapoikin tor-

navano dalle esequie. «Hai sotterrato un vivo».

«Male, giovanotto!» brontolava Prokofi Osipyc’. «Il vostro discorso va forse

per un morto, ma riguardo a un vivo, è una canzonatura sola! Per carità, che

avete detto? Disinteressato, incorruttibile, non prende sbruffi! Ma d’un vivo

codesto si può dire solo per canzonatura. E nessuno vi ha pregato, signor mio,

di diffondervi sul mio viso. Brutto, deforme, sia pure, ma perché mettere in

piazza la mia fisionomia? È offensivo!».

La sirena

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50

Dopo una seduta del collegio dei giudici conciliatori26 di N., i giudici si riuni-

rono in camera di consiglio, per togliersi le divise, riposarsi un momentino e

recarsi a casa a pranzare. Il presidente del collegio, un gran bell’uomo dalle

fedine lanuginose, rimasto, in una delle cause dianzi esaminate, di «opinione

particolare», stava seduto davanti alla tavola e si affrettava ad annotare la sua

opinione. Il conciliatore mandamentale Milkin, un giovane dal languido viso

malinconico, che passava per un filosofo, insoddisfatto dell’ambiente, che an-

dasse cercando lo scopo della vita, stava a una finestra e guardava tristemente

nel cortile. Un altro mandamentale e uno degli onorari se n’eran già andati. Il

giudice onorario rimasto, un grassone floscio che respirava con stento, e il so-

stituto procuratore, un giovane tedesco dal viso catarrale, sedevano su un diva-

netto e aspettavano che il presidente finisse di scrivere, per andarsene insieme

a pranzare. Davanti a loro stava il segretario del collegio Zilin, un ometto pic-

cino dalle fedine attorno agli orecchi e con un’espressione di dolcezza in viso.

Sorridendo mellifluo e guardando il grassone, egli diceva sottovoce:

«Noi tutti ora vogliamo mangiare, perché ci siamo stancati e son le tre passate;

ma questo, anima mia, Grigori Savvic’, non è vero appetito. La vera fame, la

fame da lupo, quando sembra che ti mangeresti il tuo proprio padre, si ha solo

dopo il moto fisico, per esempio dopo una caccia coi cani da corsa, o quando ti

fai con cavalli presi a nolo da privati un centinaio di verste27 senza riprender

fiato. Molto pure vuol dire l’immaginazione. Se, mettiamo, tornate a casa dalla

caccia e desiderate pranzare con appetito, non bisogna mai pensare a cose in-

tellettuali; le cose intellettuali e dotte scacciano sempre l’appetito. Lo saprete

voi stesso, filosofi e dotti in fatto di mangiare son gli ultimi degli uomini, e

peggio di loro, scusate, non mangiano nemmeno i porci. Rincasando, bisogna

sforzarsi a che la testa pensi solo al caraffino e allo spuntino. Io una volta,

strada facendo, chiusi gli occhi e m’immaginai un porcellino col rafano, tanto

che, dall’appetito, mi venne una crisi di nervi. Be’, e quando entrate nel cortile

di casa vostra, bisogna che intanto la cucina odori di un certo che, sapete...».

«Le oche arrosto son maestre in odori» disse il conciliatore onorario, respiran-

do a fatica.

«Non parlate, anima mia, Grigori Savvic’; l’anatra o la beccaccia possono dare

dieci punti all’oca Nel profumo dell’oca non c’è soavità e delicatezza. La fra-

granza più inebriante è quella della cipollina giovane, quando, sapete, comin-

cia a rosolare e, capite, sfriggola, la canaglia, per tutta la casa. Be’, quando en-

trate in casa, la tavola già deve essere apparecchiata, e quando vi mettete a se-

dere, subito il tovagliolo al collo, e senza fretta stendete la mano al caraffino

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della vodka. Ma lei, la piccola nutrice nostra, la versate non in un bicchierino,

ma in qualche antidiluviano boccalino di argento del nonno, o in uno panciu-

tello così, con la scritta: “Lo bevon pure i monaci”, e bevete non tutto d’un fia-

to, ma prima farete un sospiro, vi stropiccerete le mani, darete un’occhiata in-

differente al soffitto, poi, così, senz’affrettarvi, la porterete, la vodkuccia dico,

alle labbra e... subito in voi, dallo stomaco per tutto il corpo, faville...».

Il segretario espresse sul suo dolce viso la beatitudine.

«Faville...» ripeté, strizzando gli occhi. «Appena bevuto, subito bisogna far lo

spuntino».

«Sentite» disse il presidente alzando gli occhi sul segretario, «parlate più pia-

no! È il secondo foglio che sciupo per causa vostra».

«Ah, domando scusa, Piotr Nikolaic’! Parlerò piano» disse il segretario e con-

tinuò in un bisbiglio. «Già, e lo spuntino, anima mia, Grigori Savvic’, bisogna

pure saperlo fare. Occorre sapere che cosa mangiare. Il miglior antipasto, se

volete saperlo, è l’aringa. Quando ne avete mangiato un pezzetto con cipollina

e mostarda, là per là, benefattore mio, mentre ancora sentite nel ventre le scin-

tille, mangiate del caviale a solo, oppure, se volete, col limoncino, poi semplici

ravanelli con sale, poi di nuovo aringa, ma meglio di tutto, benefattore mio,

agarici salati, se sminuzzati, come il caviale, e, capite, con cipolla e olio

d’oliva... una ghiottoneria! Ma i fegatini di lasca, quelli, sono un poema!».

«M... sì...» convenne il conciliatore onorario, socchiudendo gli occhi. «Per an-

tipasto son buoni parimente... i funghi bianchi marinati».

«Sì, sì, sì, con la cipolla, sapete, con una foglia di lauro e ogni sorta di spezie.

Scoperchi la casseruola, e ne vien fuori un vapore, un odor di funghi... perfino

una lacrima ci scappa, qualche volta! Ebbene, appena dalla cucina han portato

il pasticcio di pesce, subito, senza indugio, s’ha da bere il secondo».

«Ivàn Guric’!» disse con voce di pianto il presidente. «Per causa vostra ho

sciupato il terzo foglio».

«Lo sa il diavolo, non pensa che al mangiare!» borbottò il filosofo Milkin, fa-

cendo una smorfia sprezzante. «Possibile che, fuori dei funghi e del pasticcio

di pesce, non vi siano altri interessi nella vita?».

«Già, bere prima del pasticcio di pesce» continuò il segretario piano piano; e-

gli era ormai così trascinato che, come l’usignolo che canta, non udiva nulla,

tranne la propria voce. «Il pasticcio di pesce dev’essere appetitoso, lo svergo-

gnato, in tutta la sua nudità, perché sia una tentazione. Ci strizzerai su un oc-

chio, ne taglierai un pezzettone così, e ci moverai sopra le dita, ecco, a questo

modo, per la piena dei sentimenti. Ti metterai a mangiarlo, e ne colerà burro,

come lacrime, il ripieno grosso, succolento, con uova, con frattaglie, con cipol-

la...».

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Il segretario stralunò gli occhi e storse la bocca fin proprio all’orecchio. Il con-

ciliatore onorario fece un raschio e, figurandosi probabilmente il pasticcio di

pesce, mosse le dita.

«Lo sa il diavolo quel ch’è...» brontolò il conciliatore mandamentale, scostan-

dosi verso un’altra finestra.

«Due bocconi li hai mangiati, e il terzo l’hai serbato per le s’ci28» continuò il

segretario con ispirazione. «Appena avrete finito col pasticcio di pesce, là per

là, per non spezzare l’appetito, fate portare le s’ci... Le s’ci devono esser calde,

bollenti. Ma meglio di tutto, benefattore mio, un bel borsc’29 di barbabietole

alla maniera dei ciuffi30, con prosciutto e salsicce. In aggiunta si servono pan-

na acida e prezzemolino fresco con finocchio. Magnifica parimente la minestra

di cetrioli salati, trippa e rognoni teneri; ma se vi piace la zuppa, delle zuppe la

meglio è quella di radici e verdura: carotine, asparagi, cavolfiore e ogni consi-

mile giurisprudenza».

«Sì, è una cosa magnifica...» sospirò il presidente, staccando gli occhi dalla

carta; ma subito si riprese e gemé: «Abbiate timor di Dio! In tal modo prima di

sera non avrò scritto l’opinione particolare! È il quarto foglio che sciupo!».

«Non lo farò più, non lo farò! Ho torto!» si scusò il segretario, e proseguì in un

bisbiglio: «Appena avrete mangiato il borsc’ o la zuppa, subito fate servire il

pesce, benefattore mio. Dei pesci mutoli31 il migliore è il coracino arrosto in

panna acida; soltanto, perché non sappia di limo e abbia finezza, bisogna tener-

lo vivo nel latte ventiquattr’ore sane».

«Buono pure lo storioncino acciambellato» disse il conciliatore onorario chiu-

dendo gli occhi; ma subito dopo, in modo inatteso per tutti, balzò via dal posto,

fece un viso feroce e ruggì dalla parte del presidente: «Piotr Nikolaic’, finirete

presto? Non posso aspettare oltre! Non posso!».

«Lasciatemi finire!».

«Be’, allora me ne vado io! Che il diavolo vi porti!».

Il grassone agitò la mano, afferrò il cappello e, senza salutare, corse fuori della

stanza. Il segretario sospirò e, chinatosi all’orecchio del sostituto procuratore,

continuò a bassa voce:

«Buona anche la lucioperca o la carpa con sugo di pomodori e funghetti. Ma

col pesce non ci si sazia, Stepan Frantsic’, non è un mangiare sostanziale;

l’importante in un pranzo non è il pesce, non le salse, ma l’arrosto. Voi che

volatile amate maggiormente?».

Il sostituto procuratore fece un viso agro e disse con un sospiro:

«Purtroppo non posso simpatizzare con voi: ho il catarro di stomaco».

«Via, via, signore! Il catarro di stomaco l’hanno inventato i dottori! Questa

malattia proviene soprattutto dal libero pensiero e dall’orgoglio. Voi non bada-

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teci. Non avete voglia di mangiare, poniamo, o avete nausea, e voi non fateci

caso e mangiate lo stesso. Se, mettiamo, serviranno coll’arrosto un palo di

beccaccini, e se vi si aggiungerà un perniciotto, o una coppia di quagliette

grassottelle, allora dimenticherete qualsiasi catarro, parola d’onore di galan-

tuomo. E il tacchino arrosto? Bianco, grasso, così sugoso, sapete, qualcosa

come una ninfa...».

«Sì, probabilmente è una cosa saporita» ammise il procuratore, sorridendo tri-

stemente. «Il tacchino, magari, lo mangerei».

«Signore Iddio, e l’anatra? Se si piglia un’anatra giovane, che giusto giusto al

primi geli abbia beccato un po’ di ghiaccio, e la si arrostisce in una leccarda

con patate, ma che le patate sian tagliate fino, e abbian preso colore, e che si

siano imbevute del grasso d’anatra, e che...».

Il filosofo Milkin fece un viso feroce e parve voler dire qualcosa, ma d’un trat-

to schioccò le labbra, probabilmente raffigurandosi l’anatra arrosto, e, senza

dir neanche una parola, attratto da una forza ignota, afferrò il cappello e corse

via.

«Sì, mangerei magari anche dell’anatra» sospirò il sostituto procuratore.

Il presidente si alzò, fece alcuni passi e tornò a sedere.

«Dopo l’arrosto l’uomo è sazio e cade in un dolce offuscamento» continuò il

segretario. «In questo mentre, e il corpo si sente bene, e l’anima s’intenerisce.

Per addolcimento potete bere un tre bicchierini di acquavite aromatica».

Il presidente raschiò in gola e cancellò con un sol tratto il foglio.

«È il sesto foglio che sciupo» esclamò stizzito. «È mancanza di coscienza,

questa!».

«Scrivete, scrivete, benefattore!» bisbigliò il segretario. «Non lo farò più! Par-

lerò piano. Ve lo dico in coscienza, Stepan Frantsic’» continuò con un sussurro

appena percettibile; «l’acquavite aromatica fatta in casa è meglio di ogni

sciampagna. Già dopo il primo bicchierino l’olfatto si prende tutta l’anima vo-

stra; è un miraggio siffatto, e vi sembra di essere non già in poltrona a casa vo-

stra, ma da qualche parte in Australia, su qualche morbidissimo struzzo...».

«Ah, ma andiamocene, Piotr Nikolaic’!» disse il procuratore, movendo impa-

ziente un piede.

«Sissignore» proseguì il segretario. «Al momento dell’acquavite aromatica è

buona cosa fumare un sigaruccio e mandare in aria dei cerchietti, e nel frat-

tempo vi vengono in testa certi pensieri fantastici, come di essere generalissi-

mo, o sposato con la primissima beltà del mondo, e che questa beltà nuoti tutto

il giorno davanti alle vostre finestre in una di quelle vasche coi pesciolini dora-

ti. Ella nuota, e voi a lei: “Cuoricino, vieni a darmi un bacio!”».

«Piotr Nikolaic’!» gemette il sostituto procuratore.

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«Sissignore» continuò il segretario. «Dopo aver fumato, raccogliete le falde

della veste da camera, e via verso il lettuccio! E così vi mettete a giacere sul

dorso, con la pancetta in su, e prendete il giornaluccio in mano. Quando gli oc-

chi si chiudono e tutto il corpo è pieno di sopore, fa piacere legger di politica:

là, guardi, l’Austria ha fatto un passo falso, laggiù la Francia non è andata a

genio a qualcuno, là il papa di Roma è corso ai ripari: leggi, e fa piacere».

Il presidente si alzò di scatto, sbatté la penna da una parte e con tutt’e due le

mani agguantò il cappello. Il sostituto procuratore, scordato il suo catarro e

struggendosi d’impazienza, balzò su egli pure.

«Andiamo!» gridò.

«Piotr Nikolaic,’ e l’opinione particolare?» si sgomentò il segretario. «Quando

poi, benefattore, la scriverete? Alle sei dovete pur recarvi in città!».

Il presidente scosse la mano e si precipitò alla porta. Il sostituto procuratore

agitò la mano anche lui e, afferrata la sua busta, scomparve col presidente. Il

segretario sospirò, guardò loro dietro con aria di riprovazione e si mise a ordi-

nare le carte.

Una calunnia

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L’insegnante di calligrafia Serghéi Kapitonic’ Achineiev dava in sposa la sua

figliuola Natalia all’insegnante di storia e geografia Ivàn Petrovic’ Losciadi-

nich. Il trattenimento nuziale filava liscio come un olio. In sala si cantava, si

sonava, si danzava. Per le stanze, come invasati, correvano avanti e indietro i

domestici presi a nolo al circolo, in marsine nere e cravatte bianche sudice.

C’era chiasso e vocìo. L’insegnante di matematica Taràntulov, il francese Pa-

dekuà e il più giovane revisore della corte dei conti Jegòr Venediktic’ Mzda,

seduti in fila sul divano, affrettandosi e interrompendosi a vicenda, racconta-

vano agli ospiti dei casi di seppellimento di vivi ed esprimevano la loro opi-

nione sullo spiritismo. Tutti e tre non credevano nello spiritismo, ma ammette-

vano che in questo mondo ci son molte cose che la mente umana non penetrerà

mai. In un’altra stanza l’insegnante di letteratura Dodonski spiegava agli ospiti

i casi in cui la sentinella ha il diritto di sparare su chi passa. Le conversazioni

erano, come vedete, paurose, ma assai piacevoli. Dal cortile curiosavano alle

finestre delle persone che, per la loro condizione sociale, non avevano il diritto

di entrar dentro.

A mezzanotte in punto il padron di casa Achineiev andò in cucina a vedere se

tutto fosse pronto per la cena. In cucina dal pavimento al soffitto era sospeso

un fumo costituito dagli effluvi d’oca, d’anatra e numerosi altri. Su due tavole

eran distribuiti e disposti in artistico disordine gli attributi del servizio

d’antipasti e aperitivi. Intorno alle tavole si affaccendava la cuoca Marfa, una

donna rossa con doppio ventre serrato alla cintola.

«Fammi un po’ vedere lo storione, màtuska!» disse Achineiev, fregandosi le

mani e leccandosi le labbra. «Ma che odore, che zaffata! Mi mangerei addirit-

tura tutta la cucina! Su dunque, fa’ vedere lo storione!».

Marfa s’avvicinò a un panchetto e cautamente sollevò un foglio di giornale un-

to. Sotto questo foglio, in un piatto enorme, riposava un grosso storione in ge-

latina, screziato di capperi, olive e carotine. Achineiev guardò lo storione e fe-

ce un «ah!». Il viso gli raggiò, gli occhi si strabuzzarono. Egli si chinò ed emi-

se con le labbra il suono d’una ruota non lubrificata. Dopo un po’ di sosta,

schioccò le dita dal piacere e fece un altro schiocco con le labbra.

«Oibò! Il suono di un ardente bacio... Con chi ti stai qui baciando, Marfuscia?»

s’udì una voce dalla stanza attigua, e sull’uscio comparve la testa rapata

dell’aiuto dei sorveglianti di classe, Vankin. «Con chi facevi questo? A-a-ah...

molto piacere! Con Serghéi Kapitonic’! Bel nonno, non c’è che dire! Un tête-

à-tête con una «polacca32» da donna!».

Page 56: Chekov, Racconti Umoristici

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«Io non ho baciato nessuno» si confuse Achineiev, «chi te l’ha detto, stupido?

Son io che... ho schioccato le labbra riguardo... a proposito del piacere... Alla

vista del pesce...».

«Raccontalo ad altri!».

La faccia di Vankin fece un largo sorriso e scomparve dietro l’uscio. Achi-

neiev arrossì.

«Il diavolo sa quel che è!» pensò. «Ora andrà, il mascalzone, a far pettegolez-

zi. M’infamerà per tutta la città, l’animale...».

Achineiev entrò timidamente in sala e guardò in tralice da un lato: dov’era

Vankin? Vankin era accanto al pianoforte e, piegatosi con bravura, bisbigliava

qualcosa alla cognata dell’ispettore che rideva.

«Di me sta parlando!» pensò Achineiev. «Di me, che possa scoppiare! E quella

ci crede... ci crede! Ride! O Dio mio! No, così non si può lasciar la cosa... no...

Bisogna fare in modo che non gli credano... Parlerò con tutti loro e gli farò far

la figura dell’imbecille pettegolo».

Achineiev si grattò e, senza cessar di confondersi, si avvicinò a Padekuà.

«Dianzi ero in cucina e davo disposizioni riguardo alla cena» diss’egli al fran-

cese. «A voi, lo so, piace il pesce, e io ci ho, bàtenka, un certo storione! Lungo

due arscini! Eh-eh-eh!... Sì, a proposito... già me ne dimenticavo... In cucina

poco fa, con quello storione... un vero aneddoto! Entro poco fa in cucina e vo-

glio osservar le vivande... Guardo lo storione e dal piacere... per l’odore pic-

cante faccio uno schiocco con le labbra! Ma in quel momento entra a un tratto

quest’imbecille di Vankin e dice... ah-ah-ah!... e dice: “O-o-oh... vi baciate

qui?”. Con Marfa, con la cuoca! Che cosa è andato a pensare, lo sciocco!

Quella donna non ha grazia né garbo, somiglia a ogni sorta d’animali, e lui...

baciarla! Stravagante!».

«Chi stravagante?» domandò Taràntulov che s’era avvicinato.

«Ma eccolo lì, Vankin! Entro in cucina...».

E raccontò di Vankin.

«M’ha fatto ridere lo stravagante! Ma secondo me è più piacevole baciare un

can barbone che Marfa» soggiunse Achineiev, che si voltò a guardare e vide

dietro a sé Mzda.

«Stiamo parlando di Vankin» gli disse. «Uno strambo! Entra in cucina, mi ve-

de al fianco di Marfa, e avanti a immaginare varie facezie. “Che cosa?” dice,

“vi baciate?”. Ubriaco com’è, gli era parso. E io, dico, bacerò piuttosto un tac-

chino che Marfa. E poi ho anche moglie, dico, imbecille che sei. M’ha fatto

ridere!».

«Chi vi ha fatto ridere?» domandò il prete insegnante di religione, avvicinatosi

ad Achineiev.

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«Vankin. Me ne sto, sapete, in cucina e guardo lo storione...».

E così via. Di lì a forse mezz’ora tutti gli ospiti già sapevano della storia di

Vankin e dello storione.

«Adesso glielo racconti pure!» pensava Achineiev, fregandosi le mani. «Rac-

conti pure! Lui comincerà a raccontare, e io subito: “Smettila, imbecille, di dir

scempiaggini! Sappiamo già tutto!”».

E Achineiev si tranquillizzò al punto che, dalla gioia, vuotò quattro bicchierini

di troppo. Accompagnati dopo cena i giovani sposi nella loro camera, egli si

ritirò e s’addormentò, come un bimbo di nulla colpevole, e il giorno dopo più

non ricordava la faccenda dello storione. Ma, ahimè! L’uomo propone e Dio

dispone. La mala lingua aveva fatto la mala opera sua, e nulla giovò ad Achi-

neiev la sua astuzia! Dopo una settimana giusta, e precisamente il mercoledì

dopo la terza lezione, mentre Achineiev stava in mezzo alla sala degli inse-

gnanti e parlava delle viziose tendenze dell’allievo Vissekin, gli si avvicinò il

direttore e lo chiamò in disparte.

«Ecco che c’è, Serghéi Kapitonic’» disse il direttore. «Scusate... Non è affar

mio, ma tuttavia devo farvi capire... È mio dovere... Vedete, corrono voci che

voi vivete con quella... con la cuoca... Non è affar mio, ma... Vivete con lei,

baciatevela... fate quel che volete, soltanto, per favore, non così, pubblicamen-

te! Vi prego! Non dimenticate che siete un educatore!».

Achineiev si sentì gelare e restò di stucco. Come punto da tutto uno sciame

d’api ad un tempo e come annaffiato con acqua bollente, andò a casa. Andava

a casa e gli pareva che l’intera città lo guardasse, come se fosse spalmato di

catrame... A casa lo attendeva un nuovo guaio.

«Come va che non ingozzi niente?» gli domandò a pranzo la moglie. «A che

cosa ti sei messo a pensare? Pensi agli amoretti? Senti la mancanza di Marfu-

ska? Tutto mi è noto, maometto33! Della brava gente mi ha aperto gli occhi!

U-u-uh... bbbarbaro!».

E giù un ceffone sulla sua guancia!... Egli s’alzò da tavola e, senza sentirsi la

terra sotto i piedi, senza berretto né pastrano, si trascinò da Vankin. Lo trovò in

casa.

«Sei un farabutto tu!» si rivolse Achineiev a Vankin. «Per che cosa m’hai in-

fangato davanti a tutto il mondo? Per che cosa m’hai lanciato una calunnia?».

«Che calunnia? Che andate a inventare?».

«E chi ha spettegolato dicendo che ho baciato Marfa? Non sei tu, mi dirai?

Non sei tu, brigante?».

Vankin prese a batter gli occhi e ad ammiccare con tutte le fibre del suo viso

frusto, alzò gli occhi all’immagine e proferì:

Page 58: Chekov, Racconti Umoristici

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«Che Dio mi castighi! Che i miei occhi possano scoppiare e io restare stecchi-

to, se ho detto anche solo una parola di voi! Che io non abbia più né letto né

tetto! Sarebbe poco il colera!...».

La sincerità di Vankin era fuori di dubbio. Evidentemente, non era stato lui a

spettegolare.

«Ma chi è dunque? Chi?» si diede a pensare Achineiev, passando in rassegna

nella sua memoria tutti i propri conoscenti e battendosi in petto. «Chi dun-

que?».

«Chi dunque?» domanderemo anche noi al lettore.

Il punto esclamativo

(Racconto di Natale)

Page 59: Chekov, Racconti Umoristici

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La notte prima di Natale Jefim Fomìc’ Perekladin, segretario di collegio, si co-

ricò impermalito e persino offeso.

«Spicciati, demonio!» ruggì con ira contro la moglie, allorché questa domandò

perché fosse così accigliato.

Il fatto è ch’egli era appena tornato da una serata dov’erano state dette molte

cose sgradevoli ed offensive per lui. Dapprima s’eran messi a parlare dei van-

taggi dell’istruzione in genere, poi inavvertitamente eran passati al grado cul-

turale dei signori impiegati, al qual proposito erano state formulate molte la-

mentele, rimproveri e perfin derisioni circa il suo basso livello. E qui, come

usa in tutte le brigate russe, dagli argomenti generali eran passati ai casi perso-

nali.

«Prendiamo, per esempio, non fosse che voi, Jefim Fomìc’» si era rivolto a Pe-

rekladin un giovinetto. «Voi occupate un posto decoroso... ma che istruzione

avete ricevuto?».

«Nessuna. Né da noi si esige istruzione» aveva risposto con dolcezza Perekla-

din. «Scrivi correttamente, ed ecco tutto...».

«Ma dove mai imparaste a scrivere correttamente?».

«Mi ci abituai... In quarant’anni di servizio ci si può far la mano... Certo sul

principio era difficile, facevo degli sbagli, ma poi mi abituai... e non c’è ma-

le...».

«E i segni d’interpunzione?».

«Anche per i segni d’interpunzione non c’è male... Li colloco correttamente».

«Uhm...» si confuse il giovinetto. «Ma l’abitudine è tutt’altra cosa

dall’istruzione. Non basta che i segni d’interpunzione li poniate correttamen-

te... non basta! Bisogna porli consapevolmente! Voi mettete una virgola e do-

vete aver coscienza del perché la mettete... sissignore! E questa vostra ortogra-

fia incosciente... di carattere riflesso non val nemmeno un centesimo. È produ-

zione meccanica e nulla più».

Perekladin aveva taciuto e perfin sorriso mansuetamente (il giovinetto era fi-

glio d’un consigliere di Stato e aveva diritto lui stesso al grado della decima

classe34), ma adesso, coricandosi, egli s’era fatto tutto sdegno e rabbia.

«Ho servito per quarant’anni» pensava, «e nessuno mai mi ha dato

dell’imbecille, e lì guarda un po’ che critici si son trovati! Incoscientemente!...

In modo riflesso! Produzione meccanica... Ah, che il diavolo ti porti! Ma io

forse ci capisco anche più di te, per quanto non sia stato nelle tue università!».

Page 60: Chekov, Racconti Umoristici

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Dopo avere mentalmente riversato sul critico tutte le contumelie a lui note ed

essersi scaldato sotto la coperta, Perekladin cominciò a calmarsi.

«Io so... capisco...» pensava, addormentandosi. «Non metterò i due punti là

dove ci vuole la virgola, dunque son consapevole, capisco. Sì... Proprio così,

giovanotto... Prima bisogna vivere un poco, far servizio un poco, e solo poi

giudicare i vecchi...».

Negli occhi chiusi di Perekladin che si stava addormentando, attraverso una

massa di scure nuvole sorridenti, passò a volo come una meteora una virgola

infocata. Dopo di essa un’altra, una terza, e ben presto tutto lo sfondo buio,

illimitato, che si stendeva davanti alla sua immaginazione si coprì di fitte

schiere di virgole volanti...

«Prendiamo magari queste virgole...» pensava Perekladin, sentendo le sue

membra dolcemente intorpidirsi a causa del sonno sopravveniente. «Io le capi-

sco benissimo... Per ciascuna posso trovare il posto, se vuoi... e... e consape-

volmente, e non a casaccio... Esaminami, e vedrai... Le virgole si mettono in

vari posti, dove occorre, e anche dove non occorre. Quanto più imbrogliata rie-

sce la carta, tante più virgole ci vogliono. Si mettono davanti a “il quale” e da-

vanti al “che”. Se nella carta si devono enumerare degli impiegati, ciascuno di

essi va separato con virgola... Lo so!».

Le virgole dorate presero a girare e fuggirono in disparte. Al posto loro giunse-

ro a volo dei punti infocati...

«E il punto si colloca alla fine della carta... Dove è necessario fare una grande

pausa e gettare un’occhiata all’ascoltatore, là pure ci vuole il punto, affinché il

segretario, quando leggerà, non resti senza saliva. In nessun altro posto si met-

te il punto...».

Tornano a piombar le virgole... Si mescolano coi punti, turbinano, e Perekladin

vede tutta una schiera di punti e virgole e di due punti...

«Conosco anche questi...» egli pensa. «Dove la virgola non basta e il punto è

troppo; là ci vuole il punto e virgola. Davanti al “ma” e al “conseguentemente”

metto sempre il punto e virgola... Ebbene, e i due punti? I due punti si mettono

dopo le parole: “abbiamo stabilito”, “abbiamo deciso”...».

I punti e virgola e i due punti si spensero. Venne la volta dei punti interrogati-

vi. Questi balzarono fuori dalle nuvole e si misero a ballare il cancan...

«Che rarità: il punto interrogativo! Ma fossero anche mille per tutti troverei il

posto. Si collocan sempre quando c’è da fare una richiesta o, poniamo, infor-

marsi di un documento... “Dove è stato riportato il residuo delle somme per il

tale anno?”, oppure: “Non riterrebbe possibile la direzione di polizia che la

detta Ivànova eccetera?”...».

Page 61: Chekov, Racconti Umoristici

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I punti interrogativi presero ad accennare in segno di approvazione coi loro

uncini e istantaneamente, come a un comando, si allungarono in punti escla-

mativi...

«Uhm!... Questo segno d’interpunzione nelle lettere si colloca spesso. “Mio

egregio signore!”; oppure: “Eccellenza, padre e benefattore!»... Ma nelle carte,

quando?».

I punti interrogativi si allungarono anche più e si fermarono in attesa...

«Nelle carte si mettono, quando... cioè... questo... come sarebbe? Uhm!... In

realtà, quando mai si mettono nelle carte? Un momento... Dio, fammi ricorda-

re. Uhm!».

Perekladin apri gli occhi e si girò sull’altro fianco. Ma non fece in tempo a ri-

chiuder gli occhi, che sul fondo scuro comparvero nuovamente i punti escla-

mativi.

«Il diavolo li porti... Quando mai bisogna metterli?» pensò, cercando di scac-

ciare dalla sua immaginazione i non richiesti ospiti. «Possibile che l’abbia di-

menticato? O l’ho dimenticato, oppure... non ne ho mai messi...».

Perekladin prese a rammentarsi il contenuto di tutte le carte ch’egli aveva scrit-

to durante i quarant’anni del suo servizio; ma per quanto pensasse, per quanto

corrugasse la fronte, non trovò nel suo passato nemmeno un punto esclamati-

vo.

«Che disdetta! Ho scritto per quarant’anni e neppure una volta ho collocato un

punto esclamativo... Uhm!... Ma quando dunque si colloca, quel diavolo lun-

go?».

Di dietro la fila degl’infocati punti esclamativi si mostrò il grugno perfidamen-

te ridente del giovane critico. Gli stessi punti sorrisero e si fusero in un solo

grande punto esclamativo.

Perekladin scosse il capo e aprì gli occhi.

«Il diavolo sa quel che è...» pensò. «Domani, bisogna alzarsi per il mattutino, e

a me non esce di capo questa diavoleria... Poh! Ma... quando mai si mette? Ec-

coti l’abitudine! Ecco come ti sei fatto la mano! In quarant’anni nemmeno un

punto esclamativo! Eh?».

Perekladin si fece il segno di croce e chiuse gli occhi, ma subito li riaprì; sul

fondo scuro stava tuttora il grosso punto esclamativo...

«Poh! A questo modo non ti addormenterai in tutta la notte. Marfuscia!» si ri-

volse a sua moglie, che spesso si vantava con lui d’aver terminato i corsi in

collegio. «Non sai tu, anima mia, quando si colloca nelle carte il punto escla-

mativo?

«E come non saperlo! Non per nulla studiai sette anni in collegio. So a memo-

ria tutta la grammatica. Questo segno si colloca nelle apostrofi, nelle esclama-

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zioni e nelle espressioni di entusiasmo, di sdegno, di gioia, di collera e di altri

sentimenti».

«Ah, così...» pensò Perekladin. «Entusiasmo, sdegno, gioia, collera e altri sen-

timenti...».

Il segretario di collegio si fece pensoso... Per quarant’anni aveva scritto carte,

ne aveva scritto delle migliaia, decine di migliaia, ma non ricordava nemmeno

un rigo che esprimesse entusiasmo, sdegno o qualcosa del genere.

«E altri sentimenti...» pensava. «Ma forse che nelle carte son necessari i senti-

menti? Può scriverle anche una persona insensibile...».

Il grugno del giovane critico tornò ad affacciarsi di dietro al punto infocato e

sorrise perfidamente. Perekladin si sollevò a sedere sul letto. La testa gli dole-

va, sulla fronte gli era spuntato un sudore freddo... In un canto ardeva tenue,

carezzevole, il lumino dell’icona, i mobili avevano un’aria festiva, linda, da

ogni cosa addirittura spirava calore e presenza d’una mano femminile, ma il

povero impiegatuccio sentiva freddo, sconforto, come se si fosse ammalato di

tifo. Il punto esclamativo non si drizzava più nei suoi occhi chiusi, ma davanti

a lui, nella camera, presso la specchiera della moglie, egli ammiccava beffar-

damente...

«Macchina scrivente! Macchina!» sussurrava il fantasma, soffiando

sull’impiegato un freddo secco. «Pezzo di legno insensibile!».

L’impiegato si coprì con la coperta, ma anche sotto la coperta vide il fantasma;

appoggiò il viso alla spalla della moglie, e anche di dietro quella spalla spunta-

va la stessa cosa... Tutta la notte si tormentò il povero Perekladin, ma anche di

giorno il fantasma non lo lasciò. Egli lo vedeva dappertutto: negli stivali che

infilava, nel piattino del tè, nella croce di Stanislao...

«E altri sentimenti...» pensava. «È vero che non ci fu mai alcun sentimento...

Ora andrò dai superiori a metter la firma... forse che ciò si fa con sentimento?

Così, a casaccio... Macchina da far gli auguri...».

Quando Perekladin uscì in strada e chiamò una vettura, gli parve che, in luogo

della vettura, gli rotolasse incontro il punto esclamativo.

Giunto nell’anticamera del superiore, invece dello svizzero vide quello stesso

segno... E tutto ciò gli parlava di entusiasmo, di sdegno, di collera... Il porta-

penne col pennino aveva pure l’aspetto di un punto esclamativo. Perekladin lo

prese, intinse il pennino nell’inchiostro e firmò:

«Segretario di collegio Jefim Perekladin!!!».

E, collocando questi tre segni, egli provava entusiasmo, indignazione, gioia e

ribolliva di collera.

«To’ questo! To’ questo!» mormorava, premendo sul pennino.

Il segno infocato fu pago e scomparve.

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Il camaleonte

Page 64: Chekov, Racconti Umoristici

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Attraverso la piazza del mercato va il commissario rionale di polizia Ociumie-

lov in cappotto nuovo e con un fagottino in mano. Dietro a lui cammina una

guardia dai capelli rossicci con un setaccio colmo fino all’orlo di uva spina se-

questrata. All’ingiro silenzio... Sulla piazza non un’anima... Le porte aperte

delle botteghe e delle bettole guardano tristemente il mondo creato, come fauci

affamate; accanto ad esse non ci sono neppur mendicanti.

«E così tu mordi, maledetto!» ode a un tratto Ociumielov. «Ragazzi, non la-

sciatelo scappare! Oggidì è proibito mordere! Tienlo! A... ah!».

Si sente uno strillo canino. Ociumielov guarda da un lato e vede che dal depo-

sito di legna del mercante Piciughin, saltando su tre zampe e voltandosi indie-

tro, corre via un cane. Lo rincorre un uomo in camicia di percalle inamidata e

panciotto sbottonato. Gli corre dietro e, sporgendosi col corpo in avanti, cade a

terra e afferra il cane per le zampe posteriori. Si sente un secondo guaito e il

grido: «Non lasciarlo andare!». Dalle botteghe si affacciano fisionomie asson-

nate e ben presto vicino al deposito di legna, come spuntata di sotterra, si ra-

duna una folla.

«Qualche disordine, pare, signoria!...» dice la guardia.

Ociumielov fa un mezzo giro a sinistra e va verso l’assembramento. Proprio

vicino al portone del deposito vede che sta l’uomo sopra descritto e, levando in

alto la mano destra, mostra alla folla un dito insanguinato. Sulla sua faccia se-

miebbra par che sia scritto: «Ora ti stronco furfante!» e anche il dito stesso ha

l’aspetto d’un segno di vittoria. In quest’uomo Ociumielov riconosce l’orefice

Chriukin. Al centro della folla, con le zampe anteriori divaricate e tremante in

tutto il corpo, è accovacciato al suolo l’autore dello scandalo in persona: un

cucciolo bianco di levriero dal muso aguzzo e con una macchia gialla sul dor-

so. Nei suoi occhi lacrimosi è un’espressione d’angoscia e di sgomento.

«Che cosa succede qui?» domanda Ociumielov, fendendo la folla. «Perché

questo? Perché mostri il dito?... Chi ha gridato?».

«Io vado, signoria, e non tocco nessuno...» comincia Chriukin, tossendo nella

mano, «sto parlando della legna con Mitri Mitric’, e tutt’a un tratto questo vi-

gliacco, che è che non è, mi morde il dito... Voi mi scuserete, io sono un uomo

che lavora... Il mio è un lavoro minuto. Bisogna che mi indennizzino, perché io

con questo dito forse per una settimana non farò un movimento... Anche nella

legge, signoria, non sta scritto che da una bestia si debba tollerare... Se ognuno

potrà mordere, sarà meglio neppur vivere al mondo...».

«Uhm!... Bene...» dice Ociumielov severamente, tossendo e movendo i so-

praccigli. «Bene... Di chi è il cane? Io non la lascerò così.. V’insegnerò a la-

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sciar liberi i cani! È ora di rivolger l’attenzione a simili signori che non vo-

gliono sottostare alle disposizioni! Quando gli daranno una multa, al mascal-

zone, imparerà da me che cosa voglion dire i cani e le altre bestie randagie! Gli

farò veder io!... Eldirin» si rivolge il commissario alla guardia, «cerca di sape-

re di chi è il cane e stendi verbale! E il cane va soppresso. Senza indugio! Di

sicuro è arrabbiato. Di chi è il cane, domando?».

«A quanto pare è del generale Zigalov!» dice qualcuno della folla.

«Del generale Zigalov? Uhm!... toglimi un po’ il cappotto, Eldirin... Fa un cal-

do terribile! S’ha da supporre che stia per piovere... Una sola cosa non capisco:

come ha potuto morderti?» si rivolge Ociumielov a Chriukin. «Forse che può

arrivarti al dito? È piccolo, e tu guarda lì che uomo grande e grosso sei! Tu

probabilmente ti sei graffiato il dito con un chiodino, e poi t’è venuta in testa

l’idea di spillar quattrini. Tu, già... che gente siete si sa! Vi conosco, diavoli!».

«Lui, signoria, gli ha premuto il sigaro sul naso per divertirsi, e lui, non essen-

do stupido, zaff... Un attaccabrighe, signoria!».

«Mentisci, guercio! Non hai visto, e quindi perché mentire? Sua signoria è un

signore intelligente e capisce chi dice bugia e chi parla in coscienza, come da-

vanti a Dio... E se io mentisco, ne giudichi il conciliatore. Da lui, nella legge è

detto... Oggidì tutti sono uguali... Io stesso ho un fratello nei gendarmi... se vo-

lete sapere...».

«Non discutete!».

«No, non è del generale...» osserva significativamente la guardia. «Il generale

di così non ne ha. Lui ha soprattutto dei cani da fermo...».

«Lo sai di sicuro?».

«Di sicuro, signoria...».

«Lo so anch’io. Il generale ha dei cani di prezzo, di razza, e questo lo sa il dia-

volo che cos’è! Né pelo né figura... una cosa ignobile, nient’altro... E tenere un

simile cane?!... Ma dove ce l’avete l’intelligenza? Se s’incontrasse un cane si-

mile a Pietroburgo o a Mosca, sapete che avverrebbe? Là non guarderebbero

nella legge, ma sul momento: muori! Tu, Chriukin, hai patito un danno e non

lasciar questa faccenda così... È necessario, dare una lezione! È ora...».

«Ma fors’anche è del generale...» pensa ad alta voce la guardia. «Sul muso non

ce l’ha scritto... Giorni fa nel suo cortile ne vidi uno, così».

«Si sa, è del generale!» dice una voce dalla folla.

«Uhm!... Mettimi addosso, caro Eldirin, il cappotto... Tira un po’ di vento...

Ho dei brividi... Tu lo porterai dal generale e là domanderai. Dirai che l’ho

trovato e mandato io... E di’ che non lo lascino andar sulla strada... Forse è di

prezzo, e se ogni porco gli premerà il sigaro sul naso, ci vorrà molto a rovinar-

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lo? Il cane è una bestia delicata... E tu, tanghero, abbassa la mano! Non hai da

mettere in mostra il tuo stupido dito! Tu stesso ci hai colpa!...».

«Viene il cuoco del generale, gli domanderemo... Ehi, Prochor! Vieni un po’

qua, caro! Da’ un’occhiata al cane... È vostro?».

«Che idea! Di simili da noi non ce ne sono stati mai».

«E qui non c’è da far tante domande» dice Ociumielov. «È un cane randagio!

Non c’è da far lunghi discorsi... Se ho detto ch’è randagio, vuol dire ch’è ran-

dagio... Sopprimerlo, ecco tutto».

«Non è nostro» continua Prochor. «È del fratello del generale, ch’è arrivato

l’altro giorno. Il nostro non è amante dei levrieri. Suo fratello ci ha passio-

ne...».

«Ma che è arrivato suo fratello? Vladimir Ivanic’?» domanda Ociumielov, e

tutta la sua faccia s’inonda d’un sorriso d’intenerimento. «Guarda un po’, Si-

gnore! E io che non lo sapevo! È venuto in visita per un po’ di tempo?».

«In visita...».

«Guarda un po’, Signore!... Sentiva la mancanza del fratello... E io nemmeno

lo sapevo! Così questo è il suo cagnolino? Molto piacere... Prendilo... Il ca-

gnuzzo non è male... È così vispo... Ha dato un morso a costui nel dito! Ah-ah-

ah!... Su via, perché tremi? Rrr... Rr... Si arrabbia il briccone... è un tal cagnet-

to...».

Prochor chiama il cane e s’allontana con esso dal deposito di legna... La folla

ride forte di Chriukin.

«Arriverò ancora fino a te!» lo minaccia Ociumielov e, chiudendosi nel cap-

potto, continua il suo cammino per la piazza del mercato.

Non c’è fuoco senza fumo35

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Con una troica privata, per strade vicinali, osservando il più rigoroso incogni-

to, Piotr Pàvlovic’ Possudin s’affrettava verso la cittaduzza distrettuale di N.,

dove lo chiamava una lettera anonima da lui ricevuta.

«Sorprenderli... Come tegola sul capo» pensava egli, nascondendo il suo viso

nel bavero. «Han fatto un mucchio d’infamie, gli sporcaccioni, e trionfano,

scommetto, si immaginano d’aver fatto sparire ogni traccia... Ah-ah!... Imma-

gino il loro sgomento e la loro meraviglia quando, sul più bello del trionfo, si

udrà: “Si faccia venir qui Tiapkin-Liapkin!”. Sì che succederà uno scompiglio!

Ah-ah!...».

Dopo aver fantasticato a sazietà, Possudin entrò in discorso col suo guidatore.

Da uomo bramoso di popolarità, innanzi tutto gli domandò di sé:

«E Possudin lo conosci?».

«Come non conoscerlo!» fece un sorrisetto il guidatore. «Lo conosciamo!».

«Ma perché ridi?».

«Che bizzarria! Conosco fin l’ultimo scrivano, e non dovrei conoscere Possu-

din! Appunto è stato messo qui perché tutti lo conoscano».

«È così... Ebbene? Com’è, secondo te? Bravo?».

«Non c’è male...» sbadigliò il guidatore. «Un bravo signore, sa il fatto suo...

Non sono ancora due anni che lo mandarono qua, e già ha fatto un mucchio di

cose».

«E che ha fatto di tanto speciale?».

«Molto di bene ha fatto, che Dio lo conservi in salute. La ferrovia ci ha procu-

rato, nel nostro distretto ha mandato via Chochriukòv... Non c’eran limiti per

questo Chochriukòv... Era un briccone, uno scroccone, tutti quelli di prima gli

tenevan mano, ma arrivò Possudin, e Chochriukòv se n’andò al diavolo, come

se mai ci fosse stato... Ecco, fratello! Possudin, fratello, non lo comprerai, no-

o! Dagliene magari cento, magari mille, ma lui non si prenderà un peccato sul-

la coscienza... No-o!».

«Sia lode a Dio, almeno da questo lato m’hanno capito» pensò Possudin, esul-

tando. «Ciò è bene».

«Un signore istruito...» continuò il guidatore, «non superbo... I nostri andarono

da lui, a lagnarsi, li trattò come i signori: la mano a tutti: “Voi, sedete”... Così

impetuoso, pronto... Una parola sensata non te la dirà, ma sempre: uff! uff!

Che ti vada al passo, o altrimenti, Dio mio, non c’è verso, ma tira a far tutto di

corsa, tutto di corsa! I nostri non fecero in tempo a dirgli una parola, che lui: “I

cavalli!”, e difilato qua... Arrivò e regolò tutto... nemmeno una copeca prese.

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Quanto meglio del precedente! Certo, anche il precedente era bravo. Di così

bella apparenza, grave, nessuno gridava più sonoramente di lui in tutta la pro-

vincia... Quando veniva, lo si poteva sentire da dieci verste lontano; ma, se si

tratta di rapporti esteriori, o di faccende interne, quello di adesso quanto è più

abile! Quello di adesso di cervello in testa ne ha cento volte di più... Un sol

guaio... È in tutto un brav’uomo, ma c’è una disgrazia: è beone!».

«Eccoti il contentino!» pensò Possudin.

«Come sai» domandò, «che io... ch’è un beone?».

«Certo, signoria, io personalmente non l’ho mai visto ubriaco, non starò a

mentire, ma la gente lo diceva. Anche la gente ubriaco non l’ha visto, ma sul

conto suo corre tale voce... In pubblico, o dove va in visita, al ballo o in socie-

tà, non beve mai. A casa alza il gomito... Si leva al mattino, si frega gli occhi e

per prima cosa: della vodka! Il cameriere gliene porta un bicchiere, e lui ne

chiede già un altro... E così tracanna tutto il giorno. E dimmi di grazia: beve, e

non un occhio lo vede! Dunque sa dominarsi. Quando si metteva a bere il no-

stro Chochriukòv, non soltanto gli uomini, ma perfino i cani urlavano. Possu-

din invece... almeno gli si arrossasse il naso! Si chiude nel suo studio e lappa...

Perché la gente non se n’accorgesse, s’è fatto adattare nella scrivania un certo

cassetto, con una cannuccia. In quel cassetto c’è sempre della vodka... Si china

sulla cannuccia, succhia un poco, ed è ubriaco... In carrozza pure, nella borsa

delle carte...».

«Come lo sanno?» si sbigottì Possudin. «Dio mio, perfin questo è noto! Che

schifezza...».

«E anche per quanto riguarda il sesso femminile, ecco... Un briccone!» il gui-

datore si mise a ridere e crollò il capo. «Uno sconcio, e basta! Ne ha una deci-

na di quelle... girandole... Due gli abitano in casa... Una, quella Nastassia Ivà-

novna, è da lui come a dire in luogo di amministratrice, l’altra, come si chia-

ma, diavolo?, Liudmila Semiònovna, a mo’ di scritturale... Più importante di

tutte è Nastassia. Ciò che questa vuole, lui lo fa sempre... Lo fa girare come la

volpe la coda. Grandi poteri le furon dati. E non hanno tanta paura di lui come

di lei... Ah-ah!... E una terza girandola abita in via Kaciàlnaia... Uno scanda-

lo!».

«Perfin di nome le conosce» pensò Possudin, arrossendo. «E chi poi le cono-

sce? Un contadino, un vetturale... che non è neanche mai stato in città!... Che

infamia... è una schifezza... una trivialità!».

«Ma tu come sai tutto questo?» domandò con voce irritata.

«La gente lo diceva... Io stesso non ho visto, ma ho sentito dalla gente. Ma che

è difficile saperlo? A un cameriere o a un cocchiere non taglierai la lingua... E

poi, penso, la stessa Nastassia se ne va per tutti i chiassuoli e si vanta della sua

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fortuna di donna. Agli occhi della gente non ci si nasconde... Ecco, ha preso

anche il vezzo questo Possudin di andare in ispezione alla chetichella... Quello

di prima, quando voleva andare in qualche posto, lo faceva sapere un mese a-

vanti, e quando viaggiava, tanto di quel chiasso, fracasso e scampanio... ce ne

preservi il Creatore! Davanti a lui si galoppava, dietro a lui si galoppava, ai

fianchi si galoppava. Giunto sul posto, faceva una buona dormita, mangiava e

beveva a sazietà, e avanti a sbraitare per le cose di servizio. Sbraitava un poco,

pestava un po’ i piedi, faceva un’altra dormita e con lo stesso sistema tornava

indietro... Quello di adesso invece, come sente dire qualcosa, cerca di partire di

soppiatto, in fretta, perché nessuno veda né sappia... È uno spa-as-so! Esce i-

nosservato di casa, in maniera che gl’impiegati non lo vedano, e via in treno...

Arriva alla stazione che gli occorre, e non già dei cavalli di posta, o qualcosa

di meglio, ma un contadino cerca di noleggiare. S’avviluppa tutto, come una

donna, e per tutta la strada borbotta rauco, come un vecchio cane, perché non

riconoscano la sua voce. C’è semplicemente da strapparsi le budella dal ridere,

quando la gente racconta. Viaggia il babbeo e crede che sia impossibile rico-

noscerlo. E riconoscerlo, per uno che se n’intende, poh!, è come sputare una

volta!...».

«Ma come fanno a riconoscerlo?».

«È semplice assai. Prima, quando viaggiava alla chetichella il nostro Cho-

chriukòv, noi lo riconoscevamo dalle sue mani pesanti. Se il passeggero ti pic-

chia sui denti, vuol dire che quello è Chochriukòv. Ma Possudin lo si può sco-

prir subito... Un semplice passeggero si comporta anche semplicemente, ma

Possudin non è fatto per osservare la semplicità. Arriva, mettiamo, a una sta-

zione di posta, e comincia!... Per lui c’è puzzo, e si soffoca, ed è freddo... A lui

servi pure pollastrini, e frutta, e conserve d’ogni sorta... Così alle stazioni lo

sanno: se qualcuno d’inverno chiede pollastrini e frutta, quello è Possudin. Se

qualcuno dice al mastro di posta: “Carissimo”, e fa correr la gente per varie

bazzecole, si può giurare ch’è Possudin. E non manda l’odore dell’altra gente,

e si corica alla sua maniera... Si stende alla stazione su un divano, intorno a sé

spruzza profumi e ordina di porre accanto al guanciale tre candele. Sta coricato

e legge delle carte... Qui poi non solo il mastro di posta, ma anche un gatto

raccapezzerà che uomo è quello».

«È vero, è vero...» pensò Possudin. «E come mai prima non lo sapevo?».

«Ma quello a cui occorre lo riconoscerà anche senza frutta e senza pollastrini.

Per telegrafo tutto è noto... Comunque t’imbacucchi il grugno, comunque ti

nasconda, qui tutti già sanno che vieni. Aspettano... Possudin non è ancora u-

scito di casa sua, e qui ormai: favorisci, tutto è pronto! Lui arriva per coglierli

sul fatto, mandarli sotto processo, o sostituire qualcuno, e son loro a farsi beffe

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di lui. Anche se tu, eccellenza, dicono, sei arrivato alla chetichella, guarda pu-

re: da noi tutto è pulito!... Lui si rigira, si rigira, poi se ne va come è venuto... E

li loda anche, stringe le mani a tutti, chiede scusa per il disturbo... Ecco com’è!

E tu che cosa credevi? Oh-oh, signoria! La gente qui è furba, uno più furbo

dell’altro!... Fa piacere veder che razza di diavoli! Sì, ecco, prendiamo anche

solo il caso odierno... Me ne vado stamane senza carico, e dalla stazione mi

vola incontro un giudeo, il credenziere. “Dove, va” domando, “vossignoria

giudaica?”. E lui dice: “Porto vino e antipasti nella città di N. Là oggi aspetta-

no Possudin”. Furbi, eh? Possudin forse si prepara ancor soltanto a partire, o

s’avviluppa la faccia perché non lo riconoscano. Forse già è in viaggio e pensa

che nessuno sa ch’egli viene, e già per lui, dimmi di grazia, son pronti e vino, e

salmone, e formaggio, e antipasti svariati... Eh? Lui viaggia e pensa: “Va male

per voi, ragazzi!”, e i ragazzi se n’infischiano. Venga, pure! Da un pezzo or-

mai hanno nascosto tutto!

«Indietro!» gridò rauco Possudin. «Torna indietro, bbbestione!».

E il guidatore meravigliato voltò indietro.