Cervantes

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El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha di Miguel de Cervantes Saavedra. “Il problema della genesi e la confluenza degli stili” Cristaldi Luigi Matricola: 76148 I° Anno Filosofie e Scienze della 1

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“ El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha ”

di Miguel de Cervantes Saavedra.

“Il problema della genesi e la confluenza degli stili”

Cristaldi Luigi

Matricola: 76148

I° Anno Filosofie e Scienze della

Comunicazione e della Conoscenza

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Indice

1. Introduzione pag. 3

2. Formazione culturale di Cervantes pag. 5

3. Impostazione filosofica del romanzo pag. 8

4. Genesi del Personaggio e la confluenza

degli stili nel romanzo pag. 10

5. Prospettivismo nel “Don Quijote” pag. 18

Bibliografia pag. 20

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1. Introduzione

Sullo sfondo della crisi attraversata dalla Spagna negli anni fra il

1598 e il 1620, si colloca la lunga elaborazione del Don Chisciotte,

esattamente nella fase tra tardo Rinascimento e Barocco, in

quell’area culturale che si è soliti chiamare Manierismo. Il Don

Chisciotte è un'opera di una complessità straordinaria, sia a livello

tematico che stilistico, e di conseguenza molte sono state le

interpretazioni datene, anche di segno opposto tra loro. Si riconosce

subito il contrasto fra una visione rinascimentale e una barocca.

Possiamo dedurne che Don Chisciotte è stato un tramite per

giungere al di là delle barriere estetiche innalzate dal gusto del

Rinascimento, gusto condiviso anche dal Cavaliere che nelle sue

performance sviluppa temi che vi rientrano bene: l’età dell’oro, il

buon governo, la concordia delle qualità fisiche, morali e

intellettuali, salvo che poi la follia scinde tutto ciò, spezza le

premesse istituzionali cui esso richiama. Il barocchismo del

romanzo è un prodotto della follia di Don Chisciotte.

Sin dall’inizio e anche all’interno delle due parti abbondano le

prove che la stesura del romanzo coincise con la sua strutturazione.

Si può notare, infatti, che Don Chisciotte non è ancora affiancato

dal suo deuteragonista e doppio, Sancio; infine, egli dà

l’impressione di oscillare tra due stereotipi culturali: i romanzi di

cavalleria (che poi domineranno incontrastati) e i romances

popolari in versi, che adatta alle sue vicende o con i cui personaggi

si identifica.

Resta da verificare, però, che coscienza avesse Cervantes dello

sfasamento tra la sua teoria e la sua pratica letteraria, a vantaggio

della seconda, della sua straordinaria modernità. Più che in

affermazioni esplicite, questa coscienza può essere colta dando uno

sguardo al complesso sistema di mediazioni posto tra l’autore e la

sua opera. Colui che firma le dediche delle due parti, e che si

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pronuncia come autori nei rispettivi prologhi, si presenta come un

compilatore di tradizioni contrastanti, per poi diventare il “secondo

autore” di un racconto che “il primo autore” anonimo pare aver

raccolto a sua volta da scritti precedenti. E questo è il caso

dell’inserimento di Cide Hamete Benengeli, che compare sia nella

prima che nella seconda parte. L’espediente di una fonte fittizia,

ora usata come (falsa) testimonianza di veridicità, ora caricata

scherzosamente dalla responsabilità di affermazioni incredibili, ha

una lunga tradizione nei romanzi cavallereschi (es. il Turpino

dell’Orlando Furioso). Abbiamo dunque uno scrittore (Cervantes)

che inventa un personaggio (Don Chisciotte), il quale a sua volta

inventa l’autore (Cide Hamete) che servirà come fonte dell’opera

dello scrittore (Cervantes). Questo sdoppiamento dello scrittore

adombra la crisi tra Rinascimento e Barocco: in prima persona

Cervantes è portavoce della poetica rinascimentale; travestito da

Cide Hamete, crea personaggi e vicende barocchi nel gusto dei

contrasti, nella voluta disarmonia, nel senso della labilità del reale.

A grandi linee, il Don Chisciotte è un romanzo «a schidionata»

(Slovskij), spesso interrotto da inserti narrativi che a volte restano

estranei alla trama, altre volte vi si innestano e presenta la struttura

del racconto alla Decamerone, ripreso da Boccaccio (Vladimir

Nabokov). Ma per comprendere in toto la genesi del romanzo e la

confluenza degli stili non possiamo tralasciare la formazione

culturale e filosofica di Cervantes.

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2. Formazione culturale di Cervantes

Cervantes soggiornò in Italia nel periodo in cui l’intero clima

letterario vagava tra i miti cavallereschi e l’elegia pastorale. Ma il

pensiero filosofico racchiudeva in sé già i tempi moderni attraverso

le meditazioni del calabrese Bernardino Telesio e del napoletano

Giordano Bruno.

A Napoli la cultura spagnola era familiare. Era l’epoca dell’Accademia platonica

di Firenze, nella quale Giorgio Gemisto, prima, e Marsilio Ficino, dopo, avevano

iniziato le anime elette alla conoscenza di Platone (e lo stesso cominciò a fare

Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della follia). L’esistenza di due

mondi, uno terreno e l’altro ideale, doveva essere familiare ad ogni

uomo colto; il mondo terreno è copia di quello celeste, le cose che

riproducono tra noi gli esemplari eterni, gli ideali archetipi,

dovevano essere costantemente il tema delle conversazioni della

Corte di Urbino.

Cervantes, più che un erudito era, per natura, uno spirito

umanistico ed erasmico. Capitato, nel fiore della gioventù, nel

clima del Rinascimento italiano, sopra il quale galleggiava ancora

la lezione dell’Accademia platonica di Ficino e Pico della

Mirandola; di quella Romana di Pomponio Leto e Lorenzo Valla e

dell’Accademia napoletana di Giovanni Pontano e Jacopo

Sannazzaro, venne a trovarsi, inconsapevolmente, al centro del

mondo che aveva sognato. Mondo pastorale, mondo cavalleresco,

mondo platonico, con accenti erasmici, brividi riformistici e

barlumi di nuova filosofia e di nuova storiografia.

Nel Chisciotte stesso ci imbattiamo in innumerevoli ricordi di città

e costumi italiani, come in un permanente profumo di gioventù e di

nostalgia. Soprattutto sono palpabili i ricordi di Napoli dove

trascorse i quattro anni più felici e gloriosi della sua vita. Allusioni

di cui pullulano tutte le opere, per esempio nel Chisciotte, Sancio

dice: «Dio mi aiuti, e la santissima trinità di Gaeta»; e inoltre,

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sempre nella medesima opera, troviamo la leggenda di Nicola

Pesce, che è un’antica leggenda napoletana, come i racconti del

capraio svolti su temi di origine partenopea.

In questo senso innumerevoli studi sono stati condotti in Italia da

Croce, De Lollis, Farinelli, Giannini, Papini, Mele e altri, i quali

tutti hanno segnalato le posizioni dell’opera di Cervantes che

traggono origine da motivi di una cultura e di una maturità

spirituale formatasi attraverso la familiarità con la civiltà italiana

che egli preferì ed amò. Non oseremmo affermare che ad essi

debba farsi risalire la paternità del suo capolavoro, perché la ricerca

delle fonti ha solo un significato estrinseco ed informativo, mentre

il valore di ogni opera d’arte deve cercarsi proprio nella

trasfigurazione dei suoi elementi materiali.

Le innumerevoli tracce, infatti, di riprese da Boiardo, Ariosto,

Folengo, Bandello, Sannazzaro, Boccaccio, e da altri ancora, non

rappresentano in lui solo la decantazione di una cultura umanistica

acquistata in Italia, ma, piuttosto, costituiscono l’indice di una sua

orientazione spirituale che era giunta a tramutarsi in una vocazione.

Questa osservazione non vuol essere una menomazione della

purezza spagnola dell’opera di Cervantes, ma, piuttosto, un

approfondimento della sua universalità. Il nazionalismo non ha

senso nella repubblica della poesia, dove ogni creatore è cittadino

del mondo e dell’eterno.

Analizzando il testo, si può vedere questa chiara impronta culturale

italiana. Al principio della seconda parte dirà: «Codesta Angelica,

signor Curato, fu una donzella svagata […] capricciosa […]

disprezzò mille cavalieri […] per contentarsi poi di un paggerello

batuccio, senza altra fortuna […]. Il gran cantore della sua bellezza,

il famoso Ariosto, per non osare, o non voler cantare quel che

capitò a questa signora dopo la sua spregevole resa, che non dovè

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essere di cose troppo oneste, l’abbandono […]». Sono questi i

ricordi che non possono sfuggire a nessuno, perché si riferiscono ad

autori, opere o personaggi dichiarati con nomi ed attributi. Il

personaggio di Angelica fu inventato dal Boiardo, quasi a dispetto

della donna amata che lo aveva tradito, essa quindi portava in sé

tutti i difetti delle donne, aggravati dal rancore dell’orgoglio e

dell’amore offesi del poeta. Ariosto riprese questo personaggio dal

Boiardo e, poiché non le portava rancore, la rese un personaggio di

amore e fedeltà. Di modo che l’Angelica dell’Ariosto è

personaggio più profondo, perché, incurante dell’amore di mille

cavalieri, si dà, per puro amore, al giovinetto Medoro. Ma le parole

di Don Chisciotte non riflettono fedelmente il pensiero di

Cervantes, che ben doveva sapere queste cose, quanto quello della

cavalleria. Egli sta dall’altro lato della saggezza e ragiona secondo

le leggi formali dell’errante cavalleria che si svolgono sopra un

piano diverso da quello dell’umanità e della gentilezza, e quindi ha

ragione a deplorare l’amore di Angelica che, scegliendo il fante, ha

offeso Orlando e quindi tutta la cavalleria.

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3. Impostazione filosofica del romanzo

Cervantes, si trova in Italia nel momento in cui, con la sostituzione

di Platone ad Aristotele, si dava all’Europa una nuova filosofia e un

nuovo senso di civiltà. Egli, col suo genio aveva intuito che il

grande problema dell’epoca era stato suscitato dalla scoperta di

Platone. Egli sente di non potersi gettare nella mischia accanto a

Marsilio Ficino, Lorenzo Valla e Pico della Mirandola, ferrati di

filosofia. Ma avverte che qualche cosa si matura nel suo spirito

poetico, che la filosofia e la erudizione, che forse sfuggono al suo

temperamento fantastico, si sono trasformate in lui in un

sentimento, e allora, in un colpo di genio, gli appare la possibilità

di un poema nel quale il grande problema della Rinascenza sia

trasformato in creature vive, in personaggi vitali, i quali, sia pure in

forma grottesca, per essere più accessibili al volgo e meno esposti

alle persecuzioni politiche ed ecclesiastiche, rappresentino i due

poli della grande polemica italiana.

Da una parte un matto allucinato e frenetico di azione, che

rappresenterà lo spirito del nuovo tempo (cioè Platone e le nuove

idee); e dall’altro la vecchia e cieca genìa dei ciechi, dei barbieri,

dei duchi, che cercheranno di imprigionarlo e dominarlo (cioè

rappresentando la ridicola erudizione, l’Accademia, la Scolastica,

Aristotele). Egli è un poeta, non un filosofo e quindi, per mettersi

in condizione di comprendere i problemi del suo tempo, deve

trasferirli sul piano della poesia. I filosofi però, lo infastidiscono e

per temperamento, riporta tutte le questioni sopra uno schermo di

beffa.

Quando le questioni si pongono nel romanzo, Don Chisciotte parla

sul serio, come un teorico del Cinquecento italiano, ma lo stesso

aspetto del personaggio, la sua stessa serietà in contrasto con la

situazione, in definitiva, inducono al sorriso. Però, dall’analisi del

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testo, si evince facilmente che Don Chisciotte è la personificazione

dell’«eroico furore», del combattente contro i mulini a vento della

scolastica, contro la pedanteria delle regole pseudo-aristoteliche dei

vari baccellieri, curati e canonici che ingombrano il procedere del

suo cammino trionfale bruciando i suoi libri e murando il suo

scrittoio. Questa è la grandezza di Don Chisciotte. Per essa egli

diventa contemporaneo di tutte le generazioni, perché lui stesso

rinnova di generazione in generazione, l’antico conflitto tra

conservazione e rivoluzione, che l’uomo deve di continuo superare

per acquistare la propria libertà.

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4. Genesi del Personaggio e la confluenza degli

stili nel romanzo

Quel che ci interessa è anche la genesi del personaggio e

soprattutto della sua situazione e su questo ci può aiutare il fatto

che nella prima parte si narra del rapimento di Don Chisciotte che,

chiuso poi in un gabbia, è riportato dal Curato, come in stato di

incantesimo, al suo villaggio. Allo stesso modo, anche Orlando fu

imprigionato e rapito, poi nel poema di Ariosto, ma già prima nel

Morgante di Luigi Pulci. La conoscenza del Morgante, infatti, ci

aiuta a immaginare che l’idea del doppio personaggio sia venuta

lentamente in Cervantes durante la composizione stessa del Don

Chisciotte, che dapprima era nato come un personaggio solo.

Morgante e Margotte rappresentano anche essi due poli della

visone di una vita che era familiare in Italia e che si gloriava di

ascendenze illustri. Anche nel viaggio attraverso i tre regni dell’al

di là, Dante ha avuto bisogno di due personaggi che adunassero in

sé i due poli dell’anima sua, la sua educazione pagana e il suo

fervore cristiano, classicismo e cattolicesimo, pensiero aristotelico

e teologia tomistica, il mondo classico e il mondo moderno, che

entrano nella barca di Caronte per intraprendere il fatale viaggio.

Durante l’Umanesimo e il Rinascimento codesta duplicità di

situazioni s’era arricchita di elementi platonici: il mondo degli

archetipi e il mondo della realtà, le idee e le cose, che già abbiamo

trovate rappresentate nelle pagine estatiche e vibranti del

Cortigiano di Castiglione e nella Scuola d’Atene di Raffaello. Lo

scopo che perseguiva Cervantes era la trascrizione, su un registro

parodistico, dell’ideale cavalleresco.

Il ciclo carolingio e quello di Artù gli servivano di sfondo e

paesaggio per intessere la sua tela più che ironica, critica. Era come

una reazione al suo tempo e una ritorsione ai suoi detrattori. Ma

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finì con l’essere non solo un atto di baldanza, quanto una intuizione

felice di arte e di pensiero. Più che l’Innamorato di Boiardo ed il

Furioso di Ariosto, quindi, gli debbono essere piaciuti due poemi

cavallereschi, dove per la prima volta le sacre leggi della cavalleria

sono umiliate sul piano plebeo della beffa e della irriverenza. E

codesti due poemi che possiamo (vedi autore) considerare come i

diretti antenati di Don Chisciotte, sono il Morgante di Luigi Pulci e

il Baldus di Teofilo Folengo, detto Merlin Cocai.

La materia carolingia passa in un secondo piano nel poema del

Pulci. In quest’opera, più che il grottesco e la parodia, prevale la

simpatia, e i personaggi inventati, insieme al nostro riso, finiscono

col cattivarsi la nostra solidarietà. Pulci ha, inoltre, molte affinità di

vita col Cervantes, soprattutto per quanto riguarda l’influenza che

ricevette dall’ambiente culturale italiano di quel periodo.

Tutti questi accenni non dovettero sfuggire al Cervantes che, con

avido ingegno, assorbiva allora la cultura umanistica d’Italia. Allo

stesso modo dovette avvertire subito il Baldus di Teofilo Folengo

che, con maggiore ironia del Pulci, rappresenta e simbolizza la

grande parodia della cultura umanistica, non solo nella materia

della favola, quanto nella scelta della lingua, che è una collusione

di latino accademico e volgare plebeo. Di modo che la cavalleria si

deforma subito nella coscienza di Baldo in una grossolana giostra

degli istinti e delle fantasie e lo spinge a intraprendere il suo

viaggio di avventure. Anche Baldo parte accompagnato non da uno

scudiero, ma da tre compagni di ribalderie. Sono questi senza

dubbio i progenitori dell’immortale Don Chisciotte, quelli che

hanno suggerito a Cervantes l’idea della beffa dei romanzi

cavallereschi, che poi andò arricchendo di altri elementi.

S’è discusso sugli eventuali rapporti del Don Chisciotte con i

romanzi picareschi; la risposta, assai dubbia se si cercano riprese

contenutistiche, deve essere affermativa se si fa riferimento alla

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struttura. Il Don Chisciotte rassomiglia al romanzo picaresco: per la

serialità virtualmente aperta all’infinito degli episodi data dalla

struttura a schidionata; per il suo atteggiarsi a itinerario attraverso

la società contemporanea, specie negli strati più bassi; per il tema

«ricerca di impiego», che nel Don Chisciotte si trasforma in

«ricerca di imprese eroiche».

Quello che ci interessa è, inoltre, stabilire perché Cervantes si

indusse a comporre il suo romanzo pastorale, quando in Italia erano

apparsi l’Arcadia, il Pastor fido e l’Aminta e, in Spagna, il Pastor

Filida di Gàlvez di Montalvo e la Diana di Montemayor. La

sensazione è che lui lo abbia fatto per dare una prova di bravura,

per reagire a contro l’accusa di Tamayo de Vargas e, quindi, abbia

composto un libro di cultura. Egli vuol dimostrare che, tornato

dall’Italia, è ormai un uomo di alta cultura e può comporre opere

classiche come il Sannazzaro, il Guarino e come il Tasso. La

novella pastorale è una derivazione dei poemi cavallereschi. Questi,

infatti, pullulano di elementi pastorali, in cui l’amore prevale su

l’avventura e la missione del cavaliere distogliendolo dal suo

compito. Queste cose sapeva perfettamente Cervantes, al punto che

i contemporanei lo chiamarono «il Boccaccio spagnolo» per la

forma del suo periodo, derivante dal vasto dettato del narratore

toscano.

Superata la prima esperienza pastorale, egli intraprende la seconda

più vasta, in cui tutte le leggi della cavalleria, e non già solo quelle

dell’amore, sono messe alla prova. Partendo da questa premessa, la

seconda parte della nostra analisi ci porta a dire che la folla delle

imitazioni fu mietuta a piene mani dal poema dell’Ariosto.

Nella seconda parte, Don Chisciotte racconta l’avventura della

grotta di Montesino. E la descrizione del palazzo in cui entrò

Montesino ne corrisponde ad un’altra fatta nel Furioso a proposito

della tomba di Merlino, mostrata a Bradamante dalla maga Melissa.

Inoltre, ripresa dal Furioso è la novella del “Curioso impertinente”

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che è interamente tratta dall’Ariosto. E fece la stessa cosa dal

Bembo, del quale un madrigale del primo libro degli Asolani è stato

letteralmente tradotto e fatto cantare a Don Chisciotte come

proprio; come il Domenichi di cui è la Novella del bracco e del

matto del prologo della seconda parte del Chisciotte; ed una delle

poesie della seconda parte è tradotta da Serafino Aquilano, mentre

la storia de La sfida del grasso e del magro, è tratta da Andrea

Alciato.

Nella trama di avventure, Cervantes inserisce anche riprese dal

romanzo La morte di Artù di Malory e dal Roman de la Charrete di

Chrètien de Troyes; e un racconto bucolico, la storia di Marcela e

Grisòstomo, genere da lui coltivato nella sua prima opera, La

Galatea. Le storie raccontate da altri personaggi, spesso

s’incrociano grazie alla tecnica dell’entrelacement, di cui è fatta

buon uso.

Viceversa questo procedimento degli inserti è di origine

cavalleresca (es. il racconto dell’Indagatore indiscreto, preso dal

Furioso). I racconti inseriti sono funzionali per la tematica.

Elemento comune è l’amore (in cui però si esclude con rigore quasi

monastico qualsiasi cedimento alla galanteria per tendere solo alla

gloria) e appartengono quasi elusivamente al genere pastorale o

sentimentale. E questo uso del genere pastorale ci mostra come

esso rispondesse agli ideali letterari della Rinascenza. Era la

proposta di una felice utopia di vita agreste, di affetti, di poesia

vissuta; ed era la proposta più organica di attualizzazione delle

concezioni cortesi elaborate dai trovatori, dal Petrarca, dai

cinquecentisti.

Ma la realtà degli inserti ha ancora un’altra funzione. Il Don

Chisciotte è una specie di galleria dei generi letterari del suoi

tempo: il romanzo cavalleresco, anche se in accezione parodistica,

consistente in parte nel ricorso agli schemi del romanzo picaresco;

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e poi il genere pastorale, il romanzo di avventura, la novella, il

dialogo letterario; e non va dimenticata la poesia d’amore,

elemento comune agli inserti e alle avventure del Don Chisciotte

(mentre quest’ultime documentano il genere popolare dei

romances). Romanzo può essere visto come una serie di tentativi di

mescolare i vari tipi di romanzi: prima il ciclo arturiano con quello

carolingio, poi il romanzo cavalleresco e il romanzo bizantino con

quello sentimentale o quello arcadico.

Nel Don Chisciotte questa mescolanza è, invece, una soluzione,

una sospensione che lascia le sue componenti immutate; Cervantes

ha distribuito accortamente le sequenze appartenenti ai vari generi,

senza che i tratti che li caratterizzano fossero contaminati o

conciliati. «È la definizione di Don Chisciotte che esigeva la

combinazione, invece che la fusione dei generi letterari» (C.

Segre).

Questa moda dei romanzi di cavalleria in Spagna è stata descritta

come una specie di piaga sociale, che andava combattuta e che

Cervantes combatté e distrusse una volta per tutte. Però, secondo

quanto afferma Vladimir Nabokov in “Lezioni sul Don Chisciotte”,

tutto questo è stato spaventosamente esagerato e che Cervantes non

distrusse un bel nulla; di fatto, ancora oggi fanciulle in pericolo

vengono salvate e mostri uccisi, nella letteratura di consumo e al

cinema, col medesimo gusto di secoli fa. E naturalmente i grandi

romanzi dell’Ottocento, traboccanti di adulteri e duelli, discendono

da quei libri.

L’atteggiamento critico di Cervantes verso i romanzi fantastici,

deriva da ciò che egli riteneva la loro mancanza di verità storica.

Purtroppo egli smentisce l’assunto nel suo romanzo stesso

commettendo almeno tre errori. Il primo: s’inventa il cronista (lo

storico arabo), trucco a cui erano già ricorsi gli autori dei romances

per fornire credibilità; secondo: lascia che il curato salvi dalla

distruzione alcuni libri di cavalleria tra cui il famoso Amadigi de

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Gaula che ricorre spesso nelle avventure del Don Chisciotte tanto

da essere ritenuto la causa fondamentale della sua follia; infine,

terzo punto: egli si smentisce commettendo l’errore più clamoroso,

proprio l’errore di cui Cervantes critico era solito farsi beffe

discutendo di libri cavallereschi, poiché proprio come i personaggi

di quei libri, i suoi stessi personaggi perdono il senno nella Sierra

Morena e cominciano a comporre poemi nello stile più artificiale e

ornato del mondo, che «stomaca il lettore».

E da ciò Nabokov deduce che Cervantes scelse questo soggetto

perché in quei tempi moralmente utilitaristici (periodo di

Riforma/Controriforma) l’occhio severo della Chiesa richiedeva

una qualsiasi morale, e soprattutto perché la satira dei romanzi

incentrati sui cavalieri erranti rappresentava un gadget comodo e

innocente per mandare avanti il suo romanzo picaresco.

I motivi della disapprovazione di Cervantes per i romanzi

cavallereschi si possono riportare al fatto che essi offendessero la

realtà dei fatti e dei discorsi. E la colpa di Don Chisciotte non è

quella di leggere i romanzi cavallereschi, bensì di crederci e di

credere che le avventure narrate siano possibili. Si è anche detto

che il Don Chisciotte, parodia dei romanzi cavallereschi, finisce per

essere un romanzo cavalleresco.

Questo secondo Cesare Segre, invece, non è una contraddizione,

ma una conseguenza dell’assunto: don Chisciotte ha in mente tutti i

principali stereotipi dell’azione cavalleresca : gli basta che la realtà

gliene offra un tratto, per dichiarare intero il presente stereotipo, e

comportarsi di conseguenza. Di qui l’atteggiamento bivalente di

Cervantes verso il suo eroe: egli non può non condividere il sogno

eroico e generoso di Don Chisciotte; considera però follia il

demandare la pura realtà a modelli letterari fantastici rendendoli, a

loro volta, reali. Questa follia, caratteristica di Don Chisciotte,

sembra derivi dall’Entremès de los romances, dove un povero

contadino a forza di leggere romances si metta in testa di essere

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cavaliere, e abbandonando la propria sposa, parte per avventure

fantasiose da cui esce sempre ridicolizzato e umiliato.

Ma questa follia del protagonista da dove nasce? Oltre l’esempio di

Baldo, portato alle avventure della smoderata lettura dei romanzi di

cavalleria, non troviamo ancora tracce specifiche di questa felice

situazione. Inequivoci segni appaiono negli scrittori italiani, che

Cervantes aveva familiari: in una novella di Franco Sacchetti si

parla, infatti, di un Coppo Domenichi che, leggendo un sabato sera

nel Tito Livio, venne talmente preso dalla lettura che lo fa uscire di

senno (lo stesso avviene a Don Chisciotte).

Abbiamo quindi tutti gli elementi che concorrono a formare il

capolavoro: la beffa contro i romanzi cavallereschi già anticipata

dal Pulci e dal Folengo, la reazione contro la cultura dominante, la

pazzia derivante da una lettura cavalleresca, la intuizione del

doppio personaggio, il contrasto fra l’ideale e l’utile, fra il mondo

della fantasia e quello plebeo.

Se a ciò aggiungiamo i numerosi riferimenti a episodi di origine

italiana, potremo affermare che Cervantes nella formazione del

Chisciotte ha tratto dall’Italia e dalla cultura del Rinascimento, non

tanto le forme accessorie ed ornamentali, quanto lo stesso cuore e

la stessa anima. Pulci era vissuto nella corte di Lorenzo il

Magnifico, a fianco a Marsilio Ficino e a Pico della Mirandola, ed

aveva udito il favellare di Platone e dei due mondi, quello delle

idee e quello delle cose. Folengo era stato discepolo di

Pomponazzi, il filosofo della doppia verità, anche Don Chisciotte e

Sancio sono i simboli contrastanti di due verità. Infatti Sancio è il

secondo termine di paragone di quella segreta dialettica degli

opposti che Giordano Bruno ha scoperta come necessaria per

raggiungere la suprema libertà dell’essere: la radice stessa della

vita e della creazione.

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Non bisogna dimenticare che Giordano Bruno è napoletano e

Tommaso Campanella visse a Napoli per molto tempo. Questi

grandi filosofi coi quali Cervantes poté avere perfino contatto negli

anni della sua vita napoletana dovettero colpire l’accesa fantasia

del giovane Cervantes che poi riversò la loro influenza e i loro

insegnamenti nella «costruzione» di Sancio.

Cervantes, con più genio di Folengo e Pulci, ha preso tutta questa

storia di poesia e di pensiero e l’ ha saldata in un’inscindibile unità,

trasfigurandola nei cieli dell’illusione e della fede. Tuttavia se

Cervantes avesse solo le poetiche rinascimentali e ai dettami della

sua speculazione critica non avrebbe scritto il Don Chisciotte.

Ciò che caratterizza il modo di procedere di Cervantes è la

dialettica di intuizioni geniali e di calcoli attenti, di libera

invenzione e di controllo critico. Calcoli e controlli appartengono

all’ambito del Rinascimento al tramonto; intuizioni e invenzioni

puntano con sicurezza verso l’incombente Barocco.

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5. Prospettivismo nel “Don Quijote”

Il lettore del Quijote viene anche colpito dalla instabilità dei nomi

attribuiti ai personaggi principali del romanzo: lo stesso

protagonista, come si afferma nel primo capitolo è stato chiamato

tanto Quixada quanto Quesada o Quixana e fra questi nomi

«l’ingegnoso hidalgo» sceglie di chiamarsi Quijote. E poi si auto-

attribuirà l’appellativo di «Don», così come verrà attribuito a tutte

le persone che avranno rapporti con il cavaliere Don Quijote,

poiché, evidentemente, la dignità cavalleresca esige che ogni

persona che ha a che fare con il cavaliere debba anche cambiare il

nome (es. la contadina Aldonza Lorenza diventa Dulcinea del

Toboso e l’anonimo ronzino riceve il nome di Rocinante).

Alcuni commentatori, intendono generalmente sottolineare lo

scopo satirico di Cervantes, dimostrano che la varietà dei nomi,

attribuita da Cervantes al protagonista, è semplicemente

un’imitazione delle tendenze pseudostoriche degli autori di

romanzi cavallereschi, che, per poter manifestare la propria

scrupolosità di storiografi, pretendono di aver attinto a fonti

diverse. Nel caso dei nomi della moglie di Sancio, certi

commentatori sostengono di aver considerata la polinomasia come

dovuta a consuetudini onomastiche dell’epoca. Ma di fatto deve

esistere una base comune di pensiero su cui s’impostano tutti questi

casi, il che spiegherebbe: 1°, l’importanza data al nome o al

cambiamento di nome (es. Quijote); 2°, il riferimento etimologico

coi nomi (es. Rocinante, secondo Spitzer, il cavallo era cioè, «un

rocin antes, il che può significare che fin da prima era un ronzino,

oppure era più ronzino di tutti i ronzini»; invece secondo Moro

Pini, Rocinante deriva da Rocìn «ronzino» con l’aggiunta del

suffisso «nobile e letterario –ante che ricorreva in nomi epici come

Balingant e Tarvagant»); 3°, la polinomasia in se stessa. Con ciò

vogliamo mettere in risalto il fatto che egli si valeva pure di alcuni

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modelli medioevali correnti. E analizzando altri piccoli

accorgimenti possiamo concludere affermando che Cervantes usa i

procedimenti di polinomasia (ripresa anche da Dostojevski, in

“Delitto e Castigo” in particolare nei personaggi di Raskolnikov e

Razumichin) e polietimologia per poter rivelare la plurivalenza

assoluta delle parole nelle diverse menti: egli, che ha coniato i

nomi, annette ad essi significati diversi da quelli intesi dai

personaggi stessi (es. un Trifaldin, che, per Cervantes è un

truffatore, viene considerato da Quijote e Sancio come il servo di

una Contessa Trifaldi, dalla sottana con tre strascichi). Questo

procedimento rivela qualcosa di fondamentale per spiegare la

struttura del romanzo, in altre parole, sulla base di questa

polinomasia e del “prospettivismo”, le cose vengono rappresentate

nel romanzo non come sono, ma come ne parlano i personaggi che

entrano in contatto con esse; le parole non sono più ciò che erano

state nel Medioevo, cioè depositarie di verità, né, come nel

Rinascimento, una manifestazione di vita: esse rappresentano,

come i libri nei quali sono contenute, motivi di esitazione, errori,

inganni e sogni. Grazie a questo procedimento, Cervantes ci ha

rappresentato la variegata fantasmagoria dei contatti umani con la

realtà. Dietro, il narratore – regista, che tiene in pugno ogni

personaggio, controlla ogni mossa e pensiero, e celebra così la

propria onnipotenza di creatore. E questo prospettivismo esiste

anche a livello dello scrittore, che sdoppiandosi con la sua pretesa

fonte trasferisce a un livello ulteriore (quello del lettore) i dilemmi

fiducia/sfiducia, verità/fantasia e li correda di dubbi.

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Bibliografia

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Enciclopedico), Tomo II, 1995, Roma, Marchesi Grafiche

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"Cervantes Saavedra, Miguel de," Enciclopedia® Microsoft®

Encarta 2000. © 1993-1999 Microsoft Corporation. Tutti i diritti

riservati.

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Milano, classici BUR (Biblioteca Universale Rizzoli).

Appunti delle lezioni di Letteratura Spagnola della prof.ssa Eleonor

Londero, Unical 2002 – 2003.

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