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CeRP Centro di Ricerca di Psicoterapia Scuola CeRP di specializzazione in psicoterapia Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] Sabato 8 marzo 2013, Trento Giornata di Studio con Janine Altounian. Traumi collettivi, fami- liari e individuali. Simona Taccani: Benvenuti a tutti, allievi, ex allievi, nuove e antiche partecipa- zioni. Questo convegno vuole essere molto interattivo, Janine Al- tounian ci tiene molto che facciate domande, interventi, durante la presentazione e nei gruppi, alla fine della discussione. Non presento Janine Altounian perché ci tiene a presentarsi da sé, ci tiene a fare delle precisazioni prima di leggere il suo lavoro, lungo e corposo, che vi verrà mostrato nei quattro schermi. Janine Altounian ci dice che la sua prima attività è stata quella di essere un’insegnante di tedesco, si è laureata in germanistica, come ci raccontava ieri sera. Casualmente è entrata a far parte dell’equipe, che si riuniva tutti i mercoledì dagli anni 70 fino al dicembre 2012, e si occupava della traduzione dal tedesco di Freud. Praticamente ha lavorato per quasi tutta la sua vita sulla trascrizione in francese dell’Opera Omnia di Freud, terminata nel dicembre 2012. Janine Altounian ci racconta che la sua famiglia è arrivata nel 1920 a Parigi, ma solo nel 1960 ha letto, per la prima volta, il diario che suo padre aveva scritto sul genocidio armeno, al quale è sopravvissuto. Il diario è stato successivamente pubblicato ne- gli anni ’80 e fa parte dei libri che Janine ha scritto sulla tra- smissione transgenerazionale del trauma nella sua famiglia e della sopravvivenza dei suoi familiari, padre madre e fratelli, fino ad adesso. Janine Altounian ci dice che oggi non è più possibile l’accoglienza che ha contraddistinto la prima parte del suo lavoro e del suo essere in Francia perché le condizioni socio-politiche sono totalmente cambiate. È tassativa nel dire che oggi quelle condizioni sono perdute e lei ha una grande nostalgia di questa epoca passata.

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Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani

via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] Sabato 8 marzo 2013, Trento

Giornata di Studio con Janine Altounian. Traumi collettivi, fami-

liari e individuali.

Simona Taccani:

Benvenuti a tutti, allievi, ex allievi, nuove e antiche partecipa-

zioni. Questo convegno vuole essere molto interattivo, Janine Al-

tounian ci tiene molto che facciate domande, interventi, durante

la presentazione e nei gruppi, alla fine della discussione. Non

presento Janine Altounian perché ci tiene a presentarsi da sé, ci

tiene a fare delle precisazioni prima di leggere il suo lavoro,

lungo e corposo, che vi verrà mostrato nei quattro schermi.

Janine Altounian ci dice che la sua prima attività è stata quella

di essere un’insegnante di tedesco, si è laureata in germanistica,

come ci raccontava ieri sera. Casualmente è entrata a far parte

dell’equipe, che si riuniva tutti i mercoledì dagli anni 70 fino

al dicembre 2012, e si occupava della traduzione dal tedesco di

Freud. Praticamente ha lavorato per quasi tutta la sua vita sulla

trascrizione in francese dell’Opera Omnia di Freud, terminata nel

dicembre 2012.

Janine Altounian ci racconta che la sua famiglia è arrivata nel

1920 a Parigi, ma solo nel 1960 ha letto, per la prima volta, il

diario che suo padre aveva scritto sul genocidio armeno, al quale

è sopravvissuto. Il diario è stato successivamente pubblicato ne-

gli anni ’80 e fa parte dei libri che Janine ha scritto sulla tra-

smissione transgenerazionale del trauma nella sua famiglia e della

sopravvivenza dei suoi familiari, padre madre e fratelli, fino ad

adesso.

Janine Altounian ci dice che oggi non è più possibile

l’accoglienza che ha contraddistinto la prima parte del suo lavoro

e del suo essere in Francia perché le condizioni socio-politiche

sono totalmente cambiate. È tassativa nel dire che oggi quelle

condizioni sono perdute e lei ha una grande nostalgia di questa

epoca passata.

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Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani

via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] Janine Altounian considera il Diario come il libro più importante

per la memoria di suo padre. L’opera, Varham e Janine Altounian,

Ricordare per dimenticare. Il genocidio armeno nel diario di un

padre e nella memoria di una figlia, ed. Donzelli, è stata tradot-

to dal francese ma lei deve alla psicoanalista napoletana Manuela

Fraire, la pubblicazione. Sul modello di Manuela Fraire ha fatto

poi pubblicare questo libro in Francia.

Prima di dare la parola a Janine Altounian vorrei dare la parola a

Pierluigi Ranzato, presidente dell’Ordine degli Psicologi e

dell’Associazione Psicologi per i popoli - Trentino, che vorrebbe

dire qualcosa a proposito della sua esperienza in Ruanda.

Pierluigi Ranzato:

“Porgo un saluto ai colleghi psicologi qui presenti e a tutti i

partecipanti e naturalmente agli organizzatori di questa giornata,

in primis alla dott.ssa Simona Taccani.

La presenza di Janine Altounian, figlia di un sopravissuto al ge-

nocidio degli Armeni, mi commuove e rappresenta per me, e immagino

anche per tutti voi, un dono.

Un dono per la sua storia familiare, per la sua biografia perso-

nale, per la sua testimonianza scritta che ora viene qui presen-

tata1.

Da questo punto di vista l’iniziativa del CeRP recupera anche un

ritardo di noi professionisti della psiche, di noi italiani e

trentini, sui “traumi collettivi familiari individuali e sulla lo-

ro trasmissione intergenerazionale”, cioè il “dolore estremo”2

E’ un tema che si innesta inevitabilmente nella dimensione sto-

rica, giuridica, etica, culturale e quindi psicologica che qui

viene rappresentata e trascinata da un neologismo: GENOCIDIO.3

                                                                                                                         

1    Altounian  Janine  e  Vahram,  Ricordare  per  Dimenticare,  Donzelli  Editore,    2007  2    Mucci  C.,  Il  dolore  estremo,  Borla,  Roma  2008  3  Gellaty  R.  Kiernan  B.  (a  cura)  Il  secolo  del  genocidio,  Longanesi,  Milano,  2006    

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Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani

via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] Una parola nuova cioè costruita per definire razionalmente quanto

è successo e che i sopravissuti all’evento definiscono come

“l’indicibile, l’inenarrabile, l’impresentabile e perciò

l’obliato, il negato, il dimenticato, lo sconosciuto” e

“l’innavicinabile”.4

In una dimensione culturale e religiosa il genocidio degli Armeni

viene detto il “Metz Yeghern” (il grande male), il genocidio degli

Ebrei “Shoah” (la tempesta devastante di cui parla il profeta I-

saia) o “Olocausto” (il sacrificio rituale dove tutto deve essere

completamente bruciato). Anche in questa dimensione culturale dove

il Grande Male si contrappone al Grande Bene non c’è parola che li

possa definire: Dio è l’ineffabile come è ineffabile il Male. Il

genocidio dei Tutsi Rwandesi veniva invece catalogato come “les

événements”, gli avvenimenti: un modo per dire nulla dicendo tut-

to.5

L’afasia psicologica e verbale dei sopravissuti trova anche qui le

sue radici.

Il termine GENOCIDIO, questo neologismo tuttora conteso tra giuri-

sti e semiologi, è stato coniato nel 1944 da Lemkin, un giurista

polacco di origine ebraica, studioso ed esperto del genocidio ar-

meno.6

L’etimologia di questo nuovo vocabolo è nota: genocidio è composto

dal termine greco ghenos (genus in latino) e dal suffisso latino

caedo.

Ghenos/genus come generazione che condivide la sua radice con al-

tre parole, come genitori, gente, gene, genere, genealogia, ge-

nesi, ma anche genitali, e per estensione stirpe, razza.

Caedo significa tagliare, fare a pezzi, far morire.

Le due radici etimologiche esprimono in coppia il concetto di “ta-

gliare il flusso vitale delle generazioni”, “estirpare le radici

dell’albero della vita” “eradicare” perché nulla più rinasca.

                                                                                                                         

4  Kertéz  I.  ,  Il  secolo  infelice,  Bompiani,  Milano  2007    5  Braeckman  C.,  Rwanda.  Histoire  d’un  génocide,  Fayard,  Paris  1994  6  Bruneteau  B.,  Il  secolo  dei  genocidi,  Il  Mulino,  Bologna,  2005  

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via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] “Uccidete le madri e i bambini tutsi” gracchiava da Kigali la ra-

dio ruandese “milles collines” il 6 aprile del 1994, “uccideteli

perché non si riproducano mai più questi inyenzi, questi scara-

faggi”.

Come potete comprendere il termine genocidio ci riporta anche a

significazioni profonde dal punto di vista psicologico che hanno a

che fare con l’identità, prima ancora gruppale che personale.

Non c’è in questa occasione il tempo per farlo, ma invito tuttavia

i colleghi a ripercorrere personalmente l’iter storico di carat-

tere giuridico, legislativo e politico che ha portato:

- nel 1946 e 1947 a due successive convenzioni delle Nazioni Unite

in cui si definisce il genocidio;

- nel 1948 alla convenzione per la prevenzione e repressione del

crimine del genocidio (convenzione che, a proposito di negazione,

viene firmata da molti paesi tra cui anche la Turchia)

- ai successivi passi che i diversi paesi compiono nel dare attua-

zione a queste convenzioni e ai riconoscimenti dei genocidi sto-

rici.7

Conoscere questo iter storico, penso sia importante anche per il

nostro lavoro psicologico e psicoterapeutico nei confronti non so-

lo dei sopravissuti ma anche dei loro discendenti perché ci fa

comprendere meglio:

-­‐ il nucleo profondo del dolore delle vittime che travalica

per qualità ed estensione le consuete categorie diagnostiche

-­‐ ci induce a ripensare le modalità del lavoro psicoterapeu-

tico rispetto al setting, alla alleanza, al transfert, ai tempi

interni e della vita civile dei pazienti che interagisce co-

stantemente con questo lavoro

-­‐ ci fa intravvedere la complessità delle problematiche ester-

ne che possono intersecarsi con il nostro lavoro psicologico

(es. legittime richieste di risarcimenti per i danni subiti da

parte di sopravissuti e di eredi).

                                                                                                                         

7  http://it.wikipedia.org/wiki/Genocidio    

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trice e paziente, ci darà in questo senso importanti stimoli per

riflettere.

Peraltro oggi, sul trattamento del trauma, arrivano a noi anche

altri stimoli, seducenti ma assai problematici. Sono rappresentati

dalle “pillole per dimenticare”, Così le definisce la stampa fa-

cendo eco alle notizie di sperimentazioni in fase avanzata su al-

cuni farmaci come “propranololo, mifepristone, metapirone,

metirapone” e su altre ricerche di tipo molecolare e genetico che

hanno come obiettivo quello di manipolare la memoria e cancellare

o modificare la struttura dei ricordi traumatici. Ne trattano di

recente lo studioso di scienze cognitive e neuroetica Andrea La-

vazza e la psicologa Silvia Inglese nel volume “Manipolare la me-

moria. Scienza ed etica della rimozione”8. All’interno della

comunità psicologica ci si interroga anche sull’ efficacia e

sull’appropriatezza etica di utilizzare, in situazioni di gravi

traumi, alcune tecniche cognitivo-comportamentali che vengono oggi

commercializzate come dotate di risultati miracolistici. Sappiamo

che anche all’interno dell’area psicoanalitica è oggi in atto una

profonda rivisitazione del concetto di trauma e del suo tratta-

mento.9

All’inizio di questo saluto ho usato una parola un po’ inconsueta

in un convegno di studio: “commozione”.

Ne vorrei significare qui il motivo, quasi a saldare un debito di

conoscenza e di solidarietà, che noi cittadini e psicologi nati

nel secolo 1900 abbiamo contratto con i sopravissuti e le loro ge-

nerazioni, (alcuni di noi hanno avuto nonni coevi al genocidio de-

gli armeni e/o padri coevi alla shoah).

                                                                                                                         

8  Lavazza  A.,  Inglese  S.  Manipolare  la  memoria:  scienza  ed  etica  della  rimozione  dei  ricordi,  Mondadori  Università,  Milano,  2013  9  Bobleber  W.,  Identità,  Trauma  e  Ideologia,  Astrolabio,  Roma  2012;  Caretti  V.,  Capraro  G.,  Schimmenti  A.,  Memorie  Traumatiche  e  Mentalizzazione,  Astrolabio,  Roma  2013    

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genocidio degli armeni nel 1996, al ritorno dall’anno passato in

Rwanda per lavorare con i 700 bambini sopravissuti al genocidio

dei Tutsi10, i cosiddetti “bambini non accompagnati”.

Come in una ideale percorso, questo secondo viaggio per conoscere

il genocidio degli Armeni mi ha portato a leggere libri11 e diari

interessantissimi e commoventi12, e mi ha spinto anche alla visita

della nuova Armenia indipendente, in pellegrinaggio al memoriale

del genocidio ad Erevan, la capitale.

Del genocido del Rwanda mi porto ancora appresso oggi alcune do-

mande cruciali:

-­‐ Perché mi chiedeva Kabano, un ragazzo quattordicenne, mentre

mi mostrava il taglio sulla testa fatto da un macete, perché

gli amici vicini di casa con cui la sera prima avevo mangiato

la vacca, hanno ucciso i miei genitori e tentato di uccidere

me?

-­‐ Perché nella chiesa di Ntarama a distanza di un anno dal ge-

nocidio rimanevano ancora insepolti centinaia di cadaveri tutsi

uccisi? Perché nelle verdi colline quelle morti esibite,

quell’odore insopportabile e quel lutto mai iniziato?

-­‐ Che ne sarà di Vestine, una ragazza 14enne che uno zio ri-

trova al nostro centro dei bambini non accompagnati e questo

fatto scatena in lei forti reazioni dissociative con flasback

dei genitori fatti a pezzi e buttati nelle latrine? Un ricordo

che infrange improvvisamente a distanza di un anno la barriera,

forse salutare, dell’oblio?

-­‐ Che ne sarà dei figli di Simphorose, una mamma, tutsi, di

tre bambini che piange mestamente in un angolo della sua ca-

panna, perché vuole abbandonare il marito hutu che l’ha pro-

tetta e salvata durante il genocidio, anche se lei non si da

                                                                                                                         

10  Hatzfeld  Jean,  A  colpi  di  macete,  Bompiani,  Milano,  2004  11  Miller  D.  F.-­‐Miller  T.  L.,  Survivors,  Il  genocidio  degli  armeni  raccontato  da  chi  allora  era  bambino,  Guerini  e  Associati,  Milano  2007  12  Tachdjian  Alice  (a  cura),  Pietre  sul  cuore,  Sperling    Kupfer  Editori,  Milano,  2003  

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pace perche è stato versato tutto quel sangue dei suoi conna-

zionali tutsi?

-­‐ Che ne sarà dei due bambini orfani adottati da Odette che

nel genocidio ha visto uccidere il marito e due gemelli vagando

per giorni nella foresta e sopravvivendo con la strategia delle

antilopi13?

-­‐ E che ne sarà di Damascene che in coincidenza con il ritro-

vamento dei genitori di un suo compagno, abbandona la scuola,

il cibo, gli amici e inizia a vedere le apparizione della

“Vierge Marie” che scende dall’altare?

Sono queste alcune delle domande che sono riecheggiate in me quan-

do ho saputo della presenza di Janine Altounian in questo Con-

vegno.

Non è forse un caso il fatto che nel leggere il testo italiano di

“Ricordare per Dimenticare” di Janine Altounian abbia visto citare

una intervista fatta da Jean Hatzfeld alla sopravissuta del geno-

cidio ruandese Sylvie UMUBYEYI che lavorava proprio a Nyamata, il

villaggio del mio intervento umanitario in Rwanda14.

Janine Altounian15 commenta queste parole della sopravissuta

Sylvie : “Quando penso al genocidio rifletto per capire dove col-

locarlo nell’esistenza, ma non gli trovo nessun posto. Se ci sof-

fermiamo sulla paura del genocidio, perdiamo quel che della vita

siamo riusciti a salvare”

Nathalie Zajde, psicologa francese del centro Georges Devereux a

seguito di 40 interviste a figli di sopravissuti alla Shoah scrive

“anche se i sopravissuti hanno perlopiù evitato di raccontare in

modo strutturato il passato ai loro figli, il passato recente, il

vissuto traumatico della generazione che ci ha preceduto costitui-

sce una specie di ambiente di vita, a partire dal quale i discen-

denti dei sopravissuti sono costretti ad orientarsi, per fondare

                                                                                                                         

13  Hatzfeld  Jean,  La  strategia  delle  antilopi,  Vivere  in  Rwanda  dopo  il  genocidio,  Bompiani,  Milano  2011  14  Hatzfeld  Jean,  Dans  le  nu  de  la  vie,  recit  des  marais  rwandais,  Editions  de  Seuil,  Paris  2000  15  Altounian  Janine  e  Vahram,  Ricordare  per  Dimenticare,  Donzelli  Editore,  2007  

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stica del tutto particolare: essa è di natura traumatica ed enig-

matica”16.

Mi piace infine terminare con il ricordo di un piccolo aneddoto

personale che è riemerso anch’esso in questi giorni: per molti an-

ni nella mia famiglia patriarcale, in cui non ho mai avuto nessuna

notizia del genocidio degli armeni, ho sentito invece parlare mol-

to spesso di un famoso medico armeno che a Padova ha curato e gua-

rito mio madre: era il prof. Arslan, nonno della scrittrice An-

tonia17, che i genitori avevano fatto giungere in Italia da ra-

gazzo in anticipo sui tristi eventi poi succeduti. Una diaspora

invisibile nella quale gli armeni convivevano tra noi senza che

noi li vedessimo, ma in certo senso da loro stessi promossa con la

modifica della desinenza patronimica (da Arsalian ad Arslan).

Ho citato questi ricordi, queste coincidenze e aneddoti pensando

al fatto che se i paesi firmatari della convenzione ONU sono ob-

bligati a prevenire genocidi e ad intervenire per fermarli, credo

spetti anche a noi cittadini e professionisti, appartenenti

all’unico genus umano, l’obbligo morale di difendere, guarire se

necessario e coltivare quel genus al quale tutti apparteniamo e

che ogni genocidio, ogni crimine contro l’umanità ferisce, ferendo

tutti noi.

Gli armeni, cara Janine, siamo proprio obbligati a ricordarli in

maniera dolce e solare quando durante l’estate gustiamo le albi-

cocche: dalle mie parti nel dialetto veneto li chiamiamo “i ar-

meini-armellini”18: non è a caso perchè Linneo classifica il nome

all’albero dell’ albicocca come: prunus armeniaca, la prugna

dell’armenia19.

                                                                                                                         

16  Zajde  N.,  I  figli  dei  sopravvissuti,  Moretti&Vitali,  Bergamo,  2002  17  Arslan  A.,  La  masseria  delle  allodole,  Rizzoli,  2004  18  http://www.dialetto-­‐veneto.it/vocabolario-­‐italian.htm  19  http://it.wikipedia.org/wiki/Prunus_armeniaca    

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meniaca, accompagna le nostre generazioni, le disseta e le ad-

dolcisce ancora.”

Janine Altounian:

Da una trasmissione familiare traumatica alla sua i-

scrizione nel mondo

(traduzione a cura della dott.ssa Simonetta Calaon)

In questo intervento cercherò di mostrare, con un esempio perso-

nale, come la cura possa permettere al discendente dei sopravvis-

suti a un crimine di massa di passare dal mutismo condiviso in

famiglia alla scrittura di ciò che gli è stato trasmesso e, dun-

que, all'iscrizione di questa trasmissione nel mondo.

In particolare, vedremo come il lavoro dell'analisi e quello della

scrittura – e la scrittura nasce dal lavoro analitico – abbiano

creato, nell'arco di quarant'anni, a partire da un corpus trauma-

tico di antenati fantasmi, una iscrizione di questa trasmissione

nella lingua e nello spazio socio-politico propri all'erede.

Tre punti saranno sviluppati:

1. Alla nascita di una scrittura è necessario un tempo di latenza

2. L'impatto traumatizzante di un manoscritto dà innanzi tutto

luogo alla sua rielaborazione per spostamento

3. La conversione in scrittura di un'assenza di parola rende pub-

blica la sua trasmissione.

Prima tappa: la chiusura in una umanità in lutto.

Seconda tappa: l'apertura al mondo attraverso la cura, la curio-

sità culturale e l'irruzione del politico

Alla nascita di una scrittura è necessario un tempo di latenza

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Nelle sue Tesi di filosofia della storia, il filosofo Walter Ben-

jamin20 sostiene un'idea assai vicina alla concezione freudiana

dell'après-coup, secondo la quale il tempo di vita e lo sviluppo

dell'essere umano non fanno che evidenziare e mettere in luce al-

cuni punti nodali del passato che già contenevano – in germe -

tutti questi elementi.

Detto in altro modo, e in analogia con Costruzioni dell'analisi in

cui, secondo Freud, "il lavoro terapeutico consisterebbe nel ri-

portare il frammento di verità storica al luogo del passato cui

propriamente appartiene", la costruzione simbolica della scrittura

procede a ritroso fino al tempo dei primi affetti dell'infanzia,

dimenticati o insostenibili.

È attraverso tale spostamento all'indietro nel tempo che questa

costruzione opera un mutamento nello spazio psichico di colui che

scrive, fino a consentirgli un posto di soggetto in seno alla sua

propria storia.

D'altra parte, se la pura fattualità, propria dei resoconti di av-

venimenti traumatici restituiti dalle testimonianze di alcuni so-

pravvissuti, fa pensare che copra potenzialità affettive mute,

essa ha come corollario l'anaffettività con la quale i loro figli

si proteggono innanzi tutto da ciò che è stato loro trasmesso ver-

balmente o silenziosamente: potranno appropriarsene solo dopo un

lungo periodo di latenza.

Occorrono più generazioni di elaborazione psichica affinché un es-

sere umano possa fare propri, soggettivare, i terrori della storia

                                                                                                                         

20  Il  genocidio  armeno  è  avvenuto  all’ombra  della  prima  guerra  mondiale,  i  turchi  erano  alle-­‐

ati  dei  tedeschi,  per  questo  cito  Benjamin  che  ha  parlato  dei  sopravvissuti,  perché  è  la  stessa  

storia.    

 

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via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] vissuti dai suoi ascendenti. In altre parole: la mancanza di af-

fettività di colui che ha vissuto in prima persona l'impatto trau-

matico si prolunga, in taluni casi, in quella del periodo di

latenza di quello dei suoi discendenti che vuole o può farsene e-

rede.

Sono quindi affetti congelati ma non assenti, quelli che il lavoro

analitico e quello della scrittura convocano presso l'erede, nella

sua lingua, nel tempo del suo vissuto, rendendolo capace di riesu-

marli, inespressi, dalla persona dei suoi genitori e di introiet-

tarli.

Tutto avviene come se "la paura del crollo", messa in luce dal ge-

nio clinico di Winnicott, colpisse non solo l'individuo, ma anche

la sua trasmissione transgenerazionale.

Tale appropriazione retroattiva segue a ritroso il movimento di

una trasmissione che non emana dal genitore ma prende avvio dalla

ricerca di colui che è in grado di effettuarla.

In analogia con questo impatto differito delle violenze traumati-

che, gli specialisti della letteratura della testimonianza basata

sulla Shoah ci mostrano che alcuni testimoni – similmente all'au-

tore de La scrittura o la vita (Jorge Semprún) – hanno scritto di

quanto avevano vissuto solo dopo molti anni dall'uscita dai campi:

pensiamo a Jean Améry, Charlotte Delbo, Imre Kertész, Ruth Klüger.

Avevano evidentemente bisogno di distanziarsi da ciò a cui erano

sopravvissuti, di far crescere nel loro mondo interno distanza e

istanze mediatrici.

Affinché nascessero in loro forze di sopravvivenza generatrici di

involucri psichici capaci di accogliere – nella scrittura – ri-

cordi terrificanti, ricordi non condivisibili con quelli rimasti

al di qua, immuni dall'assassinio dell'umano, dall'assassinio di

una parte di sé, doveva trascorrere un lungo tempo.

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da colui che, ben più tardi, giungerà alla capacità di testimo-

niare di lui, corrisponderebbe insomma alla temporalità che per-

mette al sopravvissuto - muto o soffocato dal suo mortifero

rimuginare - di generare la sua discendenza o, più esattamente,

coloro della sua discendenza che sentiranno il bisogno di erigersi

a eredi della sua storia.

Si può dunque pensare che la gestazione intrapsichica del tempo

che, per scissione, opera una frattura nella psiche individuale

del sopravvissuto che scrive, sia paragonabile a quella, transge-

nerazionale, di una filiazione che si costituisce, essa pure, at-

traverso una frattura, poiché ha origine, nel sopravvissuto

divenuto apolide, da un innesto nella nuova terra del suo paese di

accoglienza.

Le due configurazioni temporali danno conto della stessa rinascita

di pulsioni vitali che reclamano con forza di essere reinvestite,

sia per dare necessaria testimonianza dei dispersi abbandonati

senza traccia, sia per generare coloro che a questo compito saran-

no inconsciamente delegati.

L'impatto traumatico di un manoscritto

L'esempio del mio percorso rinvia dunque a questa gestazione tri-

butaria del tempo – tempo psichico, tempo genealogico, tempo sto-

rico degli avvenimenti socio-politici.

Una gestazione, così mi è apparsa durante l'analisi, che ha dato

vita a una scrittura che tentava di accogliere ed elaborare un'e-

redità traumatica al fine di trasmetterne la memoria.

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diano dell'après-coup invocano di essere fissate per e nella

scrittura, che allora effettua una risalita nel tempo.

È per questo che mi sono stati necessari quasi ventisette anni per

accogliere, far tradurre, padroneggiare, rielaborare nella mia

scrittura, lo straripamento di affetti provocata in me dalla let-

tura di un Diario della deportazione di un sopravvissuto al ge-

nocidio armeno del 1915 – mio padre.

Le circostanze che mi costrinsero a trasmettere, facendolo "pub-

blicare" – in tutti i sensi del termine – questo manoscritto pa-

terno intitolato: 10 agosto 1915, mercoledì, tutto ciò che ho

passato negli anni dal 1915 al 1919, saranno richiamate più in là,

ma è chiaro che questo testo, da me ignorato per un lungo periodo

della mia vita, costituisce, per riprendere una espressione di Je-

an François Chiantaretto, la "macchia cieca" di tutti i miei

scritti.

Probabilmente furono quegli avvenimenti che presero avvio un mer-

coledì dell'agosto 1915, diciannove anni prima della mia nascita,

e che furono messi per iscritto nel 1920, a portarmi a elaborare,

a cercare di riassorbire per mezzo del lavoro analitico lo choc di

una lettura che aveva confermato la percezione iniziale, inconscia

ma rimossa, di ciò che aveva silenziosamente abitato il suo au-

tore.

Va da sé che la mia "ignoranza", oggettiva, per circostanze appa-

rentemente congiunturali, riflette, al di là dei fatti, una igno-

ranza soggettiva di emozioni antiche debordanti la capacità di

ricezione dei primi anni di vita.

Ne citerò subito un estratto che illustra proprio quel tipo di re-

soconto in cui il cronista si limita a registrare dei fatti, la-

sciando per così dire al lettore il compito di sentirne l'urto:

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dalla sporcizia.

I cani facevano a pezzi i morti che nessuno seppelliva.

C'era puzza dappertutto.

Dopo sei ore di marcia siamo arrivati a Haman.

Lì la gente mangiava le cavallette.

Molti morivano, non si riusciva a contarli.

Mio padre era molto malato.

Presto non ci furono più nemmeno le cavallette, la folla affamata

si è messa a rosicchiare della carne d'asino.

E la deportazione non si fermava (...).

Mia madre ha detto ai gendarmi: "Il nostro malato è molto grave,

lasciateci aspettare il prossimo convoglio."

E loro: "Cosa? Osate parlare?"

Allora uno di loro si è messo a colpire mio padre sulla testa.

Mia madre li supplicava, chiedeva che colpissero lei, che smettes-

sero con mio padre. Allora hanno colpito mia madre.

Ma perché? Cosa diventa un uomo gravemente malato che viene pic-

chiato a colpi di bastone?

Sei giorni dopo, il giorno della morte di mio padre, hanno depor-

tato ancora (...) Di nuovo si sono messi a picchiare mia madre.

Noi due fratelli, noi piangevamo. Non potevamo fare niente, loro

erano tanti, come un branco di cani.

Hanno detto a mia madre: "Il tuo malato è morto."

E mia madre: "Noi partiremo quando avremo sepolto il morto."

Loro hanno risposto: "No, voi farete come gli altri."

Gli altri, infatti, abbandonavano i morti e di notte gli sciacalli

li divoravano.

Ho visto che così non poteva andare e che bisognava fare qualcosa.

Ho preso una boccetta da 75 dirhem (circa 200 gr.), l'ho riempita

di olio di rosa e sono subito andato dal capo del convoglio di de-

portazione.

Gli ho detto: "Lasciaci oggi, partiremo domani con gli altri del

prossimo convoglio."

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Siamo restati ancora un giorno. Abbiamo scavato una fossa di due

archine (1,50 m.) e pagando cinque kourouch al derder (prete) ab-

biamo seppellito mio padre.

Quindici giorni dopo, la deportazione è ricominciata.

Bruciavano tutto (...)

Mi sono nascosto lì, perché avevo saputo che più avanti uccidevano

tutti.

Avevamo fame e sete. Avevamo finito l'olio di rosa.

Che potevamo fare? Continuavamo a pensarci (...)

Non avevamo più niente e abbiamo cominciato a mangiare l'erba.

Abbiamo capito che saremmo morti.

Facevamo appena due passi e cadevamo per terra.

Mia madre ha riflettuto. "Io, morire, morirò, ma voi, voi non do-

vete."

È così che ci ha dato, noi due, agli Arabi.

È dopo i titoli di testa di un tale film dell'orrore - che come

voci fuori campo giungono da contrade sconosciute - che comincia

quello della sopravvivenza e, per coloro che ne sono eredi, quello

degli oblii necessari alla vita (fino alla genesi di una scrittu-

ra).

L'atto fondatore di scrivere che aveva animato questo padre deter-

mina certo, a sua insaputa, l'ulteriore trasmissione della sua me-

moria e della sua scrittura alla figlia, ma dubito che questo

gesto produttore di narrazione sia mai stato in lui consapevole

dei suoi effetti.

Questo inventario delle prove mortali vissute, redatto per non di-

menticarle, probabilmente ha contribuito a rinchiuderle lontano da

lui.

Mi sono semplicemente chiesta se quella sepoltura fortunosa delle

spoglie di suo padre, se l'esecuzione sommaria di quel rituale –

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non abbia costituito, per l'adolescente che mio padre allora era,

un privilegio assai raro che gli ha consentito quello spazio psi-

chico in cui ha potuto poi, diventandone il cronista, aprirsi una

strada per la costruzione della sua filiazione.

Michel de Certeau non definisce "la narratività che seppellisce i

morti come modo per riservare un posto ai vivi" ?

La scrittura mi è certo servita a tradurre i significanti di que-

sto contenuto schiacciante apportando loro l'eco di un contenente,

al tempo stesso uguale e altro, ovvero a tradurre in termini pub-

blicabili il non-detto parentale.

Ho potuto trovare in me spazio di ascolto per quel testo originale

solo dopo aver trovato posto nell'ascolto dell'altro del transfert

analitico - e grazie alle distanziazioni concesse da un'altra lin-

gua, da un'altra cultura, da un altro testo.

Lacerata tra una storia familiare senza echi all'esterno e un e-

sterno che in casa si spogliava di pertinenza, mi sentii allora

costretta a stabilire dei ponti, a "rendere pubblico" un documento

troppo intimo e bruciante del mio patrimonio, a intromettermi per

restituirlo al dominio culturale della Storia.

Volendo testimoniare una distruzione che, oltre a un milione e

mezzo di vittime, ha comportato anche lo sradicamento di una cul-

tura e dei suoi referenti identitari, ho voluto sfidare quel vis-

suto, opporgli una smentita.

Ma poiché quel Diario traumatico e nondimeno fondatore costituiva,

quando ho potuto decifrarlo, un "corpus" intoccabile che esponeva

il "corpo" braccato di un adolescente-padre, ho dovuto prima di

tutto mediatizzarne inconsciamente la lettura attraverso sposta-

menti multipli.

La parte più profonda e storica della mia personale esperienza non

era che un esempio fra tanti altri traumatismi della Storia.

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la stessa ingiunzione a render conto della loro ricezione dolorosa

al fine di ridurre, per ripetizione, l'acutezza di una rime-

morazione troppo viva e il peso del testo primordiale, provviso-

riamente interdetto.

Si costituì così quasi un paradigma di ricezione di altre scanda-

lose eredità della Storia, di altre figure parentali mai giunte a

una parola propria o corrose dalla distruzione della loro lingua.

Le loro testimonianze mi sconvolgevano a tal punto che sentii ne-

cessario espellere tale sconvolgimento con l'analisi, la frammen-

tazione, la rielaborazione dei loro enunciati attraverso la mia

personale scrittura.

Fare il lutto dei morti insepolti richiedeva di inumarli nel suda-

rio di un testo.

Ma il mio lavoro di scrittura, cominciato nel 1975 al termine di

una prima analisi, cercava di "mettere in parole" non soltanto una

sofferenza individuale, cercava parole anche per uno sprofondamen-

to collettivo: per "mettere in terra" i morti, per separarmi, "di-

mettermi" da loro, dar loro una voce e, passando Dall'Armenia per-

duta alla Normandia senza luogo, far parlare anche altri, ap-

partenenti a una Storia diversa dalla mia.

Sentivo il bisogno di raccogliere, da lettrice del manoscritto pa-

terno "depistato", le tracce di esperienza di altri scrittori.

Oltre ai testi armeni di Michael Arlen, Martin Melkonian, Nogoghos

Sarafian, Krikor Beledian, quelli di Racine che evocano il destino

di Andromaca e di suo figlio, di Annie Ernaux, Eva Thomas, Sem-

prun, Améry, Camus, Pachet, Handke, Ruth Klüger, Aharon Appelfeld.

Affrontavo dunque una configurazione particolare di scrittura dif-

ferita di una generazione: il sopravvissuto a una catastrofe col-

lettiva, al quale l'avvenire è interdetto, può tuttavia arrivarci,

a questo destino, scriversi e testimoniare dell'aborto del suo

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di una scrittura trasferita al suo discendente.

Questo delegato diviene allora il portavoce di soggetti privi di

soggettività, effettua un tragitto obbligato che dalle violenze

politiche conduce al dolore delle loro iscrizioni psichiche e te-

stuali.

Divenuto enunciatore di una testimonianza al tempo stesso a ri-

troso e all'inverso, a ritroso nelle generazioni e all'inverso

della cosiddetta "oggettività" dello storico, esprime la sua fe-

deltà a un mondo sommerso.

Nella sua lealtà verso questo mondo, la vita del portavoce trova

senso soltanto nel dare parola a quei sopravvissuti che il terrore

ha spogliati di ogni soggettività.

Ciò facendo condivide il progetto che lo scrittore Kertész, so-

pravvissuto a Auschwitz, attribuisce al suo romanzo, Essere senza

destino: denunciare l'impossibilità per i sopravvissuti di essere

ormai i soggetti della loro vita:

Mi sono interessato all'assenza di destino del mio 'eroe' (...)

Che succede quando si è determinati dall'esterno, quando ci si ve-

de assegnare un destino?

Ho quindi cercato di scrivere una storia dello sviluppo al nega-

tivo, mostrando non come si diventa quello che si è, ma come si

diventa quel che non si è.

E in questo progetto, la questione non era per me quella di un de-

stino individuale, ma quella dell'assenza di destino come condi-

zione di massa.

Una simile condizione - in cui il destino dell'uomo perde ogni

pertinenza, in cui non c'è nessun evento per nessuno poiché lo

schiacciamento dell'individuo gli sottrae ogni differenziazione e

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noscritto di mio padre ma anche nelle parole dello scrittore Hagop

Ochagan che evocano le coorti di deportati armeni nel deserto, ai

tempi del genocidio del 1915:

Una massa che si sposta davanti a noi, senza nome (...), fatta a

pezzi, invecchiata, scacciata dal suo centro, dal suo paese, dalla

sua religione.

La catastrofe è infinita, ma stranamente uniforme.

Chi riesce a sopravvivere a simili traumi che privano l'essere u-

mano di ogni identità particolare è evidentemente ridotto a pro-

teggersi alla meglio nel contenitore che gli è offerto dal

silenzio dei suoi morti.

I suoi discendenti, invece, si vedranno costretti a esserne i por-

tavoce: traduttori di "vibrazioni" ancestrali, come ci ricorda Mi-

chelet:

Le anime dei nostri padri vibrano ancora in noi a causa di dolori

dimenticati, un po' come il ferito soffre alla mano che non ha

più.

In questa scrittura per delega, si offre alle "anime" del passato

qualche cosa che metta al riparo i loro "dolori" da non "dimenti-

care".

Ai sopravvissuti schiacciati da esperienze non soggettivabili,

soltanto questo altro-familiare che è il loro erede, può, mediante

l'involucro della sua scrittura, immettere un contenuto psichico

agli eventi terrorizzanti che essi hanno vissuto.

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ma, offre l'accoglimento delle loro emozioni, "ri-transiziona" la

parola di questi esseri che hanno perduto se stessi e sono stati

spogliati di ogni diritto, e li storicizza inscrivendoli nell'or-

dine metaforico del discorso.

L'affettività e la scrittura del discendente rappresentano così un

processo, prima impossibile, di legame e di conversione dei "fat-

ti" in "eventi" storici capitati a qualcuno, cioè a lui e agli al-

tri.

La distinzione tra realtà interna e realtà esterna (teorizzata da

Ferenczi) si trova così annullata.

Mentre i racconti dei sopravvissuti, spesso "anaffettivi", inca-

paci di assumere la realtà psichica di ciò che descrivono, resti-

tuiscono la sola realtà materiale dei fatti, l'erede che li

traduce, sfidando una concezione positivista della Storia, opera

la segreta violenza di inscriverli in una soggettività, la sua -

e, di conseguenza, in quella dei suoi lettori.

Si dedica al compito, non soltanto restitutivo ma prima di tutto

creativo, che Michelet assegnava agli storici:

Sentire le parole che non sono mai state dette, che sono rimaste

nel fondo dei cuori (cercate nel vostro, ci sono).

È proprio la paura che il passato di terrore vissuto dai suoi ge-

nitori assassinati possa cadere nell'oblio, che spinge lo scrit-

tore Appelfeld a esserne il cronista, a trascrivere, in realtà, la

memoria del suo corpo:

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e la storia delle vite dei nostri genitori e dei genitori dei no-

stri genitori, fossero sotterrate senza che ne restasse ricordo,

questa paura mi faceva tremare la notte.

Non inventavo, facevo affiorare dalle profondità del mio corpo

sensazioni e pensieri assorbiti ciecamente.

La conversione in scrittura di una assenza di parola rende pub-

blica la sua trasmissione

Ecco ora i passaggi della storicizzazione di questo documento pa-

terno che, in interazione con alcuni avvenimenti storico-politici,

si svincolava dall'involucro emozionale e dal silenzio pesante che

lo imprigionavano.

Le inattese trasformazioni di questo Diario della deportazione fi-

no alla sua pubblicazione furono: il suo ingresso nella mia vita

cosciente, la nascita in me del desiderio di decifrarlo, e dunque

di farlo tradurre, e poi di espellerlo al di fuori dello spazio

del segreto familiare e delle sue emozioni paralizzanti.

Queste tappe tracciano insomma il destino di tale eredità che tro-

vò la sua tardiva iscrizione grazie allo scandalo suscitato da un

avvenimento politico del settembre 1981 (un gruppo di 4 combat-

tenti armeni fa irruzione nella sede del Consolato turco di Pa-

rigi, sequestra 56 ostaggi, uno di questi è ucciso, il Console

turco è ferito; gli armeni si arrendono dopo 15 ore).

Una tale impresa di soggettivazione di lungo corso non è, infatti,

da attribuire al solo lavoro intrapsichico.

È favorita oppure ostacolata dalle condizioni socio-politiche che

il luogo di vita degli eredi è in grado o meno di offrire ai suoi

cittadini.

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metta queste funzioni di setting e garanzia che il campo socio-

culturale dei paesi di accoglienza dovrebbe assicurare, campo nel

quale si situa necessariamente, come ci spiega René Kaës, ogni

trasmissione.

Prima tappa: la chiusura in una umanità luttuosa

Per costruirmi un avvenire provvisoriamente al riparo da questi

eventi impossibili da situare in un qualsiasi spazio/tempo, avevo

dunque come dimenticato quei racconti terrorizzanti, ingenuamente

relegati in un cassetto della mia eredità da aprire più tardi.

Prima che questo manoscritto entrasse nella mia vita cosciente, la

sua modalità di essere inconsciamente presente in seno a una fami-

glia armena (presenza rivisitata in seguito alle percezioni resu-

scitate durante la cura), fu la seguente: ciò che emanava da

questo documento, chiaramente ignorato dalla bambina che ero, "si-

gillava" per così dire lo spazio della nostra vita familiare, lo

inchiodava nel ricordo di eventi incredibili eppure reali che si

profilavano, a nostra insaputa, nella cornice o sullo sfondo del

nostro quotidiano.

Quel che i nostri sopravvissuti avevano vissuto abitava clandesti-

namente la loro memoria, serviva loro da punto di riferimento i-

dentificativo per guidarli lucidamente nella terra straniera; e

come un ferreo equipaggiamento li "assicurava", anche, dai rischi

di una illusoria spensieratezza, dalle tentazioni di un riposo

senza futuro.

Vivevo in un'atmosfera pesante, greve e sovrappopolata in cui si

avvertiva la prossimità di una grande disgrazia alla quale "noi"

certo eravamo scampati, ma che arrivava fino a me e mi teneva di-

stante dal tempo e dall'ambiente che incontravo "fuori", a scuola.

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via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] Una minaccia sconosciuta che in passato incombeva pericolosamente

sui genitori, laggiù da dove venivano, era sempre presente.

Solo negli scritti di Racamier sono riuscita davvero a trovare la

suggestione del clima che regnava in quello spazio familiare.

Ad esempio, in Incesto e incestuale:

L'incestuale è un clima (...) È un mondo in cui tutto è immerso in

un'atmosfera incerta in cui si mischiano e si confondono in modo

straniante ascendenti e discendenti, vivi e morti.

Eppure questa situazione, di una densità senza equivalenti "all'e-

sterno", mi pareva naturale, come lo era per quelli del nostro am-

biente.

Una ansietà sorda, soffocata da un accanimento per il lavoro – la-

vorare senza tregua per uscire di lì, combattere quella sensazione

di insicurezza sempre presente, invisibile e che affiorava in al-

lusioni a un tempo e a luoghi che dovevano certo essere esistiti

per "loro" ma che, a me, sembravano inattuali, mitici, de-realiz-

zanti.

Era quella, per me, la famiglia.

A differenza di alcuni figli di "immigrati" non ho mai provato

vergogna ad avere quella famiglia lì; provavo, al contrario, una

segreta fierezza.

In un lontano "ricordo-schermo", probabilmente, mio padre rac-

conta, la sera, agli amici in visita al suo laboratorio di sarto,

le ecatombi di quell'altro mondo che mi è sconosciuto e che sco-

prirò più tardi nel suo Diario.

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presume io ignori, visto che mi si parla solo in armeno, questi

momenti non giungono alla mia memoria come dolorosi: ci sento una

parola di dignità, una parola viva, e non quel silenzio anonimo,

acquattato intorno a me.

Quella parola incarnata suscita anche un certo piacere: quello

d'immaginare un altrove del padre.

Nel guscio rassicurante di una veglia conviviale tra quelli della

stessa "famiglia" di sopravvissuti, la bambina edipica ascolta il

narratore, restato ben vivo seppure inaccessibile per lei.

Lo ascolta con fiducia, come se raccontasse le peripezie di un'e-

popea da cui sarebbe uscito vincitore.

Senza dubbio è all'ascolto di un bravo narratore (da cui, imma-

gino, il suo futuro investimento nelle parole e nella lingua).

Di questi momenti in cui si commemoravano il paese, i parenti,

l'avvenire perduto, mi sono rimaste solo delle sensazioni di inti-

mità condivisa.

Non c'era, in quei racconti, nessun compiacimento per le scene di

orrore, ma la sobrietà di un resoconto delle tappe mortali di

un'avventura umana: continuare a vivere in un mondo inumano.

Quel che mi è rimasto – il resto è stato, ovvio, rimosso – ri-

chiama paradossalmente delle immagini che continuano a farmi so-

gnare: gli spostamenti in cammello, i ritrovamenti mitici con

alcuni abitanti del Paese in cerca di parenti o di pane, la de-

strezza da beduini nel saper tenere lontano il fuoco che minaccia

l'accampamento.

Mi ricordo anche, vagamente, della sensazione di felicità con la

quale mio padre accennava al gesto di sua madre che faceva il pane

quando, alla fine in salvo ad Aleppo, poterono per la prima volta

procurarsi della farina.

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a quel che quest'uomo diceva talvolta alla fine dei nostri pranzi:

"Anche oggi abbiamo potuto mangiare!"

Parlando di coloro che sono tornati dalla Grande Guerra, ridotti

al silenzio, Walter Benjamin ricorda che nulla che riguardi la

ricchezza e il senso della vita si può più trasmettere agli eredi

di un assassinio di massa:

Il valore dell'esperienza è crollato, e in una generazione che ha

fatto nel 1914-1918 una delle esperienze più spaventose della sto-

ria universale (...)

Non abbiamo allora constatato che la gente tornava muta dal campo

di battaglia?

Non più ricchi, ma più poveri di esperienza comunicabile.

Queste parole del filosofo si applicano effettivamente alla man-

canza di parola tra mio padre e me su ciò che poté essere la sua

esperienza di un genocidio perpetrato proprio sul versante orien-

tale della guerra del 1914 e la cui testimonianza ha per incipit:

"10 agosto 1915, mercoledì... ".

Potrei dire che immergendomi nel limbo di una vita senza esistenza

venivo inglobata dal contenuto di questo manoscritto paterno, ci

ero immersa e non vivevo affatto coscientemente, da "soggetto",

questi episodi delle origini della mia famiglia.

Essere in famiglia, era per me avere quella famiglia lì, che por-

tava il peso di tutta la paura retrospettiva delle vedove in lutto

in visita alla mia nonna materna.

Ho diviso la mia infanzia tra la ferita di questo rapporto con il

mondo e la scuola francese che amavo perché mi liberava dalla

chiusura familiare, mi insegnava a pensare da e per me, ad amare

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dove la gioia di vivere non era proprio all'ordine del giorno.

Seconda tappa. L'apertura al mondo con la cura, la curiosità cul-

turale e l'irruzione della politica

È a poco a poco, a partire da una prima analisi cominciata nel

1968, che questi personaggi invadenti, funestati dalle molteplici

rotture dei legami, questi scenari drammatici e disparati, il mio

rapporto ambivalente a questi attaccamenti, hanno potuto distri-

carsi dall'agglomerato di sensazioni in cui erano sepolti, davvero

sepolti vivi.

Le persone e le idee ben disegnate, con i loro contorni netti, la

percezione dei miei interessi personali, la prospettiva di scelte

promettenti, le ho scoperte a scuola.

Ma quello che io ora evoco di quella vita in casa, all'epoca non

avrei potuto esprimerlo in alcun modo.

Soltanto il lavoro analitico ha saputo sfruttare quei raggi di lu-

ce di cui avevo conservato il calore.

Durante la cura ho cominciato a distinguere, a poter pensare alla

condizione della mia famiglia e a quella che era stata la mia fino

ad allora.

Mi sono messa a leggere dei libri sui fatti storici che ci avevano

portati lì e poiché i miei genitori avevano studiato molto poco –

diversi in questo dai bambini raccolti negli orfanotrofi – ho vo-

luto conoscere gli armeni colti e politicizzati di Parigi.

Nel 1978, esplorando l'ambiente intellettuale armeno, "mi venne in

mente" – forse a causa dell'angoscia che questo sapere inoperante

emanava – che mia madre un giorno aveva menzionato con indiffe-

renza o paura un manoscritto lasciato da mio padre, morto otto an-

ni prima.

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Ma allora: che si poteva farci con quell'oggetto temibile, sacro?

Avevo il diritto di mettere le mani su quel testo reliquia?

Per chi era stato scritto?

A che scopo?

In quali circostanze, in che stato d'animo?

Per quale caso si era conservato per così tanti anni?

A chi fare quelle domande?

La sua semplice esistenza mi faceva paura.

Era inaccettabile, non riuscivo ad avvicinarlo, come se quella

bomba avesse potuto scoppiarmi tra le mani.

L'assenza di ogni mediazione per accompagnare, introdurre nel mon-

do dei vivi quei fogli angoscianti, non riproduceva l'assenza di

ogni protezione tra gli orfani che, nel deserto, erano soprav-

vissuti allo sterminio dei loro genitori?

Quel fragile quaderno, esso stesso orfano, mi interrogava, mi

chiedeva di farmene carico.

Mi spaventava come un meteorite caduto da un altro pianeta, ma ne

avevo anche pietà, non dovevo lasciarlo così, inerte, solo in un

tale vuoto sonoro, muto.

Mi sono messa a cercare un traduttore.

Non è stato facile: era redatto in turco con alfabeto armeno.

Quando ho ricevuto la traduzione, ho scoperto brutalmente quel che

rivelavano quelle pagine enigmatiche, ho potuto leggere in fran-

cese quel che aveva scritto quell'uomo che poco avevo conosciuto

ma che riconoscevo in tutto nelle sue frasi: barcollavo in uno

stato di sospensione senza ancoraggi, una specie di de-realtà che

mi ha precipitata in una seconda analisi.

Se il passato terrificante del genitore sopravvissuto, presentito

in casa, vissuto in una sorta di irrealtà prudentemente separata

da sé per scissione, si presenta a distanza nella lettura, scritto

nero su bianco nella lingua che ti ha insegnato la poesia e il

pensiero, la sua realtà ti salta agli occhi.

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violentemente quel che collega il tuo tempo presente a colui che

ha conosciuto quel versante al di fuori dell'umanità del mondo,

pochi anni prima della tua nascita, infinitamente vicino a te.

L'evitamento, che era stato il mio primo rapporto con questo là-

scito esplosivo, prudentemente accantonato dal mio quotidiano, si

apparenta al "non-evento" evocato da Claude Janin, che ha scritto:

L'evento traumatico è un non-evento, qualcosa che non si produce.

Questo primo tempo del trauma (...) è il nucleo freddo del trauma

non assimilato dall'Io.

In occasione di una trasmissione traumatica, che per di più subi-

sce l'oltraggio di un diniego politico dello Stato criminale e de-

gli Stati che l'hanno tollerato, alcuni avvenimenti possono

proprio scatenare una rimessa in memoria, una introiezione all'in-

terno del soggetto di un ricordo che in apparenza non lo implicava

e restato fino a quel momento sequestrato in una sorta di memoria

bianca21.

                                                                                                                         

21  “Una  persona  mi  ha  chiesto  come  mai  le  condizioni  politiche  oggi  non  sono  favorevoli  per  

questa  memoria.  Tutti  i  miei  libri  parlano  del  mio  amore  per  la  scuola,  per  la  scuola  pubblica  

in  particolare,  io  stessa  sono  insegnante,  ma  questa  scuola  non  esiste  più.  E  lo  stesso  penso  in  

Italia,   la  scuola  del  pensiero  ha  perso  il  suo  potere.   Il  potere  per  cui   i   figli  dei  migranti  non  

possono   integrare   le   culture   della   loro   appartenenza   e   soggettivizzarvi   la   loro   storia   nella  

nostra   storia.   Considero   il   lavoro   analitico,   la   cura,   come   proseguimento   del   lavoro   della  

scuola.  La  seconda  ragione  secondo  cui  oggi  queste  condizioni  non  sono  più  favorevoli,  è  che  

all’epoca  dei  miei  genitori  c’era  il  lavoro  per  le  persone  immigrate,  gli  stranieri  lavoravano  e  

potevano  arrivare  ad  educare  i   figli   in  condizioni  culturali   favorevoli.  Prima  ho  detto  che  ci  

sono  delle  eccezioni,  ma  in  generale  quello  che  ho  detto  è  vero.  L’ultima  motivazione  è  che  la  

Turchia  negazionista  sta  diventando  più  potente  e  gli  stati  per  compiacere   la  Turchia,  della  

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rede di una tale trasmissione c'è quel che René Kaës qualifica co-

me:

dramma catastrofico che resta (...) privo d'enunciato e soprat-

tutto di rappresentazione, perché gli spazi e le funzioni psichi-

che e transoggettive dove potrebbe costituirsi e significarsi sono

stati aboliti.

Un sapere esterno al soggetto, da sempre immobilizzato in cono-

scenza inoperante, in occasione di un avvenimento politico-cultu-

rale in campo pubblico (cioè un cambiamento brutale nell'ambiente

del soggetto-cittadino – nel "setting" della sua presenza al mondo

degli altri) si mette immediatamente a parlare all'interno di lui

finendo per investirne la sua vita psichica.

Questa brusca risoluzione della scissione può d'altronde portare

con sé un caos emozionale, uno scompenso che lo fa correre da uno

psicoanalista.

L'irruzione nello spazio collettivo di una violenza congelata che

si ignorava in lui, l'inquietante familiarità di questa violenza

esterna con quella del suo mondo interno gli rendono possibile,

grazie a questa duplicazione distanziatrice, di appropriarsi della

sua violenza, di ricordarsene provandola.

                                                                                                                         

quale  ormai  hanno  bisogno  colludono  con  il  silenzio  politico  sul  genocidio  armeno.  In  parti-­‐

colare  in  Francia,  nel  dicembre  2010,  il  senato  ha  votata  una  legge  per  sanzionare  il  negazio-­‐

nismo  armeno  ma  tale  legge  è  stata  invalidata  nel  febbraio  2011.  Da  quella  data  considero  il  

mio  lavoro  completamente  inutile:   il  mio  paese  di  accoglienza  non  è  più  quello  che  era  una  

volta.    

 

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protagonisti terzi e non imprigionata nei suoi propri agìti privi

di rimemorazione, gli permette, grazie a questo aggiornamento pro-

tettivo, di interrogarsi alla fine sulla sua metabolizzazione.

Questo tipo di rimemorazione viene a sostituire la ripetizione,

non sopprimendola – come Freud augura al suo paziente (in Ricor-

dare, ripetere, rielaborare - 1914) – ma prendendone slancio, pro-

cedendo da essa in qualche modo per identificazione proiettiva.

Tale ripetizione rimemorante si produsse dunque in me all'epoca

dell'irruzione, nello spazio collettivo del luogo dell'esilio pa-

terno, di una violenza fino a quel momento paralizzata e, grazie

al differimento di questo aprés-coup, mi fu possibile pensare che

conoscevo bene, io, un documento bruciante a questo proposito.

Senza la brutale introduzione di tale questione nell'attualità -

cioè nella storia del paese di accoglienza dove io vivevo – non ci

avrei senza dubbio pensato, né mi sarei immaginata una posizione

attiva di fronte a quel documento che mi interrogava e mi incitava

a farne qualcosa.

Freud ha detto bene:

Quando il paziente parla di questo "dimenticato" raramente manca

di aggiungere: a dire il vero l'ho sempre saputo, semplicemente

non ci ho pensato.

René Kaës, quando scrive che la catastrofe non può rappresentarsi

né significarsi perché sono stati distrutti gli spazi e le fun-

zioni psichiche e transoggettive necessari alla costituzione del

suo enunciato, aggiunge: "la loro sparizione è in sé un surplus

traumatico."

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sostituto di quei luoghi e funzioni psichiche fece la sua comparsa

in me.

E lo fece nella fattispecie di un atto "terroristico" nello spazio

politico parigino – presa di ostaggi al consolato turco nel set-

tembre 1981.

Un atto di resistenza che ha dato inizio a quel che è stato defi-

nito "terrorismo di propaganda", ma che ha rotto, in quel che era

diventato il mio paese, un silenzio di quasi mezzo secolo sul ge-

nocidio armeno, interrogando quindi un silenzio acquattato dentro

di me.

L'enorme influenza di quegli avvenimenti attuali sulla mia rela-

zione col passato dei miei familiari, si confermò allora total-

mente e io mi sentii in diritto, nel 1982, di trasgredire il tabù

che circondava quella reliquia di cui ormai avevo la traduzione

francese.

La rivista Tempi moderni, che aveva già accettato tre miei arti-

coli, accettò anche questo, accompagnato da una postfazione espli-

cativa e dalle note indispensabili che il suo traduttore aveva

voluto aggiungere22.

In realtà sentivo che mio padre, se fosse stato ancora vivo, a-

vrebbe approvato.

Ritrovai anche, nella mia memoria "diffusa", il ricordo molto lon-

tano del piacere di resistente con il quale quest'uomo raccontava

                                                                                                                         

22  Ho  considerato  cinque  circostanze  vissute  nella  mia  vita  di  accoglienza,  circostanze  favo-­‐

revoli.  Il  primo  è  l’entrata  a  scuola,  il  secondo,  è  il  fatto  che  il  primo  testo,  quello  del  1965  è  

stato  accettato  da  Simon  de  Beauvoir  ,  perché  io  non  un’universitaria,  ero  una  figlia  di  immi-­‐

grati.    

 

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nopoli.

Identificandomi spontaneamente alla soddisfazione con la quale lui

evocava un atto di cui era fiero, sentivo l'obbligo di far uscire

dalla sua clandestinità protettiva questa reliquia che avevo sco-

perto23.

Una simile sovrapposizione temporale di un evento del 1981 che de-

stava il ricordo di un racconto paterno che commemorava un fatto

del 1896, conferma "l'appuntamento tacito" di cui Benjamin ammette

l'esistenza tra "le generazioni passate e la nostra".

Le voci a cui noi prestiamo orecchio non portano un'eco di voci

ormai estinte? Se così è, allora esiste un tacito appuntamento tra

le generazioni passate e la nostra (...).

A noi, come a ciascuna generazione precedente, è stata accordata

una fragile forza messianica sulla quale il passato fa valere una

pretesa.

Il fattore propriamente giornalistico che favorì la nascita di

questo manoscritto tenuto sotto chiave fu dunque secondario.

Senza la forte emozione che quello scandalo destò nel paese che

aveva accolto mio padre, non avrei certo trovato ascolto edito-

riale a Tempi moderni per quella prima pubblicazione del 1982, ma,

soprattutto, senza il suo paravento protettivo, mi sarebbe stato

                                                                                                                         

23  Il  genocidio  del  1915  era  stato  preceduto  da  un  pogrom  di  300.000  armeni  nel  1885.  Questa  è  la  ragione  per  cui  certi  militanti  hanno  preso  d’assalto  l’ambasciata  turca  nel  1886,  per  allertare  gli  occidentali.  Praticamente  i  Turchi  hanno  interessi  oc-­‐cidentali  in  questo  caso.  

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passo.

Non si può misconoscere che un simile tipo di rimemorazione strut-

turante, generata dall'effrazione, nel soggetto, di una violenza

in seno al campo collettivo, costituisca di fatto una trasgres-

sione.

Questa rimessa in memoria mi obbligava a prendere da sola e in una

spaventevole angoscia la decisione di una doppia trasgressione.

Per una figlia, allevata per di più col peso di tradizioni orien-

tali, una trasgressione del rispetto filiale dovuto al corpo degli

antenati assassinati nel silenzio del mondo, ma una trasgressione

anche di fronte all'ordine pubblico del paese di accoglienza, poi-

ché lei mostrava di approvare un atto terroristico che, mi pareva,

avrebbe segretamente rallegrato il padre se fosse stato ancora in

vita.

Certo, dovevo vincere la selvaggia resistenza a bucare una bolla

di silenzio che rende incapaci di parlare agli altri, quando si è

ascoltato o si è evitato di ascoltare tali racconti dalla bocca

dei propri genitori, dei sopravvissuti ai quali quanto meno si de-

ve la vita.

Ma, in più, dovevo assumermi paradossalmente la paternità di uno

scritto che non aveva alcuno spazio nel mondo anche se era ben in-

trufolato dentro di me: dovendo decidere un titolo, così come ri-

chiestomi dall'editore, fui io che dovetti intitolarlo "Terrorismo

di un genocidio".

Operai così un'inversione semantica, mettendo in rapporto la vio-

lenza cancellata dalla memoria del mondo con quella, attuale, che

ne era una rimemorazione.

In un lavoro precedente, Scrivere la rottura ristabilisce l'ere-

dità, sviluppavo l'idea che su tutti i figli di sopravvissuti in-

combe il compito di iscrivere l'après-coup del traumatismo

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Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani

via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] parentale al fine di potersi inscrivere in una genealogia, giacché

le tracce trasmesse dai famigliari, impotenti a rispondere alle

loro domande di figli, li costringe a rispondere della dignità

della filiazione stessa.

Avevo scritto tre lavori sulla trasmissione traumatica e dopo 27

anni dalla sua prima lettura avevo potuto avvicinarmi, con L'in-

traducibile, a fare un commento a questo racconto di sopravvissuto

senza destino; una sorta di bottiglia gettata in mare da un padre,

làscito percepito, raccolto, tradotto e pubblicato una sessantina

d'anni più tardi grazie a un evento politico24.

Pensavo di avere portato a termine il mio compito!

Eppure, al momento della recente traduzione italiana di questo Di-

ario, un incidente inatteso ha fatto sì che io dovessi ancora una

volta risalire dolorosamente il tempo e constatare che l'eredità

di quel Diario non aveva ancora trovato la sua vera ricezione.

La penultima tappa del suo periplo fu la sua strana mutazione ita-

liana del 2007 che portò a compimento il destino di questo testo

reliquia generatore di altre scritture.

In occasione di una settimana di lavoro con degli psicoanalisti

romani, Manuela Fraire decise di pubblicare un piccolo estratto

dove comparivano, integralmente, il racconto di mio padre, e uno

dei miei articoli che lo avevano fatto conoscere.

Quando lo ebbi in mano, scoprii subito con stupore e irritazione

che il nome dell'autore (che non si era ritenuto utile menzionare

nel contratto) era: "Janine e Vahram Altounian".

                                                                                                                         

24  I  tre  testi  sono  “Cammino  d’Armenia”,  “Il  sopravvissuto”,  “L’intraducibile”  dove  commento  il  

testo    di  mio  padre,  di  Camus,  di  Amerì,  e  di  altri  autori.    

 

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nominazione si giustificava in toto con il sottotitolo della rac-

colta: Il genocidio armeno nel diario di un padre e la memoria di

una figlia, ma che una sorta di avvenimento psichico mi arrivava

da lì, dall'altro e straniero.

L'apparizione di questo autore, per così dire ibrido, incestuale,

creò in me una specie di mutazione identitaria che chiedeva di e-

sprimersi anche in Francia tramite un'analoga pubblicazione.

Questa innovazione italiana proseguì quindi con l'opera collettiva

apparsa in Francia con il titolo: Memorie del genocidio armeno.

Eredità traumatica e lavoro analitico, in cui la prima pagina pre-

cisa:

Quest'opera ha potuto farsi solo attraverso un lavoro di scrittura

che ha richiesto due generazioni e più voci per elaborarsi e scri-

versi in queste pagine. Abbiamo voluto dare senso a questa scrit-

tura in due tempi attribuendola a "Varham e Janine Altounian". 25

                                                                                                                         

25  Questo  è  il  terzo  miracolo  dell’accoglienza  della  Francia  nei  miei  confronti.  Quando  ho  pre-­‐

sentato   all’editore,   alla   PUF   il  mio   lavoro,   volevo   che   desse   una   retribuzione   aggiuntiva   in  

nome  delle  numerose  note  dei  traduttori.  Per  convincerlo  a  dare  una  retribuzione  maggiore,  

perché  le  note  rendono  il  racconto  un  racconto  antropologico,  ho  mostrato  il  manoscritto  e  

ho   detto   “E’   un   traduttore   di   qualità,   sa   tradurre   dal   turcoscritto   in   caratteri   armeni”.   E  

quando  ha  visto  il  manoscritto  ha  deciso  di  pubblicare  l’originale.  Praticamente  mio  padre  è  

pubblicato  in  una  edizione  universitaria  in  cui  compaiono  tutte  le  traduzioni  di  Freud  che  io  

ho   fatto.  Appaiono   in  questo   libro   il   testo  di  mio  padre,   un   articolo  molto   interessante  del  

traduttore  che  mette  questa  testimonianza  all’interno  di  altre  testimonianze.  L’articolo  auto-­‐

biografico  e  solo  propriamente  autobiografico  di  cui  dò  qualche  frammento  nell’esposizione.  

E  il  commento  di  cinque  psicoanalisti  sul  testo  che  hanno  familiarità  al  trauma  e  con  i  quali  

ho   lavorato.  E  quello  di  Manuela  Fraire  che  è   il   testo   francese  corrispondente  di  quello  che  

appare  qui  in  italiano.    

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L'itinerario di questa strana trasmissione termina così il suo

percorso, a quasi 90 anni dalla sua redazione, inserendosi in seno

a un'opera collettiva che riunisce alcuni psicoanalisti all'a-

scolto dei traumi della Storia.

L'espressione "in seno a" è qui da prendere alla lettera, perché

non soltanto l'opera collettiva di questi sei ricercatori e amici

porta il peso, accompagna e sostiene questa testimonianza davanti

al mondo, ma anche perché la sua traduzione, sola versione dispo-

nibile al momento, duplica la sua presenza corporea.

Fu del resto lo stesso editore, direttore delle edizioni PUF, che

incoraggiò la traduzione integrale di questo manoscritto alla qua-

le non avrei, io, evidentemente osato pensare, e tanto meno avrei

osato chiedere un'edizione "universitaria" in cui l'autore di

quelle terribili pagine sta vicino ai testi freudiani di cui dal

1970 io sono co-traduttrice.

Questa testimonianza si presenta dunque al lettore circondata dal-

la studiosa attenzione di sei numi tutelari - oltre alla figlia,

il suo traduttore e cinque psicoanalisti - e accede a un'autonomia

sia perché oggetto della loro elaborazione, sia per il nome

dell'autore, attribuito dall'editore al suo cronista, liberandolo

definitivamente da me e liberando me da lui.

Considero tale assolvimento del debito nei suoi confronti come un

dono che mi è stato fatto 15 anni prima della mia nascita dall'au-

tore di questo testo e dall'autore della mia vita, un dono che ha

reso possibile una soggettivazione sia della mia storia che della

sua, après-coup.

Per concludere vorrei tornare al saggio prima citato di Benjamin:

Esperienza e povertà, in cui il filosofo denuncia la rottura, come

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dell'esperienza.

Per mostrare come sarebbe, al contrario, il suo passaggio da una

generazione all'altra, ricorda una favola del nostro amato La Fon-

taine:

Nel nostro libro di lettura c'era la favola dell'uomo che sul let-

to di morte fa credere ai figli che un tesoro è nascosto nella sua

vigna.

Devono solo cercarlo.

I figli scavano, nessuna traccia del tesoro.

Quando viene l'autunno, però, la vigna produce come nessun'altra

lì intorno.

Capiscono allora che il padre ha voluto lasciare a loro il frutto

della sua esperienza, la vera ricchezza non sta nell'oro ma nel

lavoro.

Dove? dove i morenti pronunciano ancora parole imperiture che si

trasmettono di generazione in generazione come un anello ance-

strale?

Se occorre mettere in collegamento il tema del lavoro con quello

della trasmissione – di cui Benjamin qui sottolinea le implica-

zioni di trasmissione del valore del lavoro – va detto che, al di

là dello sterminio degli uomini, i regimi totalitari mirano

all'annientamento di quel che produce la creatività del lavoro e

alla distruzione dell'attaccamento degli uomini tra loro e alla

loro storia.

I nazisti non scrivevano sulle porte dei loro campi questa anti-

frasi profanatrice: "Arbeit macht frei"?

Ma è utile avvicinare questi due temi anche perché ereditare per

voler testimoniare, richiede la presa in carico di un lavoro.

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voro di appropriazione.

Questi versi di Goethe, e i primi due sono citati da Freud come

modalità di trasmissione psichica, lo dicono in maniera ammira-

bile:

Quel che hai ereditato dai padri,

fallo tuo per averlo davvero.

Quel che non si usa è pesante fardello.26

                                                                                                                         

26  Avevo  annunciato  cinque  miracoli,  ne  ho  detti  quattro,  il  quinto  l’ho  annunciato  ieri  sera  in  

una  serata  amichevole.  Nel  1970  ero  insegnante  di  tedesco,  amavo  leggere  Freud  in  tedesco  e  

ho  incontrato  un  professore  che  diceva  che  traduceva  Freud,  ho  chiesto  se  potevo  tradurlo  io  

perché  mi  piaceva  molto  tradurre  Freud.  Alla  fine  ha  detto  “a  mercoledì  prossimo”.  Poi  ho  i-­‐

niziato   come   traduttrice,   poi   ho   incontrato   Laplanche   nel   1983   e   sono   stata   cooptata   nel  

gruppo  editoriale.    

Volevo   dire   che   l’elaborazione   successiva,   nel   libro   “dalla   cura   alla   cultura”   porta   un’idea  

nuova:  lo  stretto  rapporto  tra  l’elaborazione  psichica  e  gli  avvenimenti  culturali-­‐politici.  

La  seconda  idea  è  che  quando  l’elaborazione  psichica  giunge  al  suo  compimento  c’è  la  capaci-­‐

tà  di  amare  l’eredità.  Si  ritrova  nel  proprio  inconscio  l’amore  che  da  bambini  non  si  è  potuto  

sentire  a  tu  per  tu  nei  confronti  del  sopravvissuto.  L’amore  che  il  sopravvissuto  non  ha  potu-­‐

to  esprimere  ai  suoi  figli  perché  era  costretto  in  una  vita  di  lavoro.    

 

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Roberta Bommassar:

La relazione di Janine Altounian ha sollecitato alcuni pensieri

che accennerò molto brevemente, avendo ognuno di questi necessità

di approfondimento.

Lo sguardo appassionato che Janine Altounian ci ha offerto della

diaspora armena come esperienza traumatica testimonia il legame di

questa esperienza con le parti più profonde, primitive e primarie

del Sé.

Oggigiorno il concetto di trauma trova un uso sempre più ampio che

a volte fa pensare ad un abuso concettuale, per spiegare fenomeni

che poco hanno a che fare con l'impatto devastante che un trauma

ha sulla struttura psicologica dell'individuo e soprattutto l'ef-

fetto colonizzante sulla sua esperienza soggettiva.

Nelle riflessioni e lo studio che ha accompagnato l’avvicinamento

a questo convegno ho trovato utile per me fissare alcuni punti che

considero trasversali a tutte le esperienza traumatiche che sap-

piamo possono differire per diverse variabili:

1) il tempo (è un evento unico o ripetuto per lungo tempo?)

2) i soggetti (ciò che è attaccato è il singolo individuo, il nu-

cleo familiare o una collettività? È un bambino o un adulto? Il

trauma è causato da un evento naturale come ad esempio un terre-

moto o uno o più uomini?)

3) le azioni (è un attacco al corpo o alla mente?).

Se queste sono le variabili che rendono conto delle differenze dei

traumi sulla persona, è bene ricordare in questo contesto le co-

stanti che legano tra loro esperienze traumatiche anche molto di-

verse.

In tutte le situazioni che possiamo definire autenticamente trau-

matiche possiamo trovare:

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affetto intollerabile. Ciò che rende tollerabile e quindi ela-

borabile un trauma è stato oggetto di studio che ha tenuto im-

pegnato per tanto tempo i clinici e i teorici della

psicoanalisi. È ormai conoscenza condivisa sapere che esperien-

ze identiche possono avere impatti emotivi diversi. In ogni ca-

so l'intollerabilità rimanda invariabilmente sul piano

economico ad un “sentimento di dolore evocato troppo forte, in-

sopportabile per la mente/corpo del soggetto. Ma lo è anche

(soprattutto quando si parla di bambini) perché l’ambiente cir-

costante è assente nella sua funzione winnicottiana di holding

(ricordo che J. Altounian definisce la scrittura un holding as-

sente al momento del trauma) o quella di reverìe di Bion. At-

torno a questa mancanza si organizza il difetto fondamentale di

Balint, quel buco nero che si cercherà di compensare - spesso

inutilmente - con una vita intera all'insegna della riparazio-

ne.

L’intollerabilità starebbe quindi in una sommatoria tra un vis-

suto troppo forte che supera le capacità mentali di trasforma-

zione e contenimento e - come la chiama Ferenczi - una

omissione di soccorso. Chi vive il trauma sperimenta la solitu-

dine, la distanza dell'esperienza soggettiva dell'altro, con il

corteo di vissuti di abbandono ma anche di rabbia e rivendica-

zione.

2. Ma non basta. Questo convegno é stato occasione di letture

sul processo di formazione della diaspora e ciò che ho trovato

di grandissimo interesse è che dei modelli interpretativi uti-

lizzati per spiegare alcuni fenomeni sociali e culturali della

diaspora, possono sollecitare utili associazioni anche riguardo

alla dimensione intra-psichica e intersoggettiva.

La diaspora intesa come la dispersione di una etnia é stata de-

finita nel seguente modo: “un evento catastrofico diventa dia-

spora quando intacca i simboli costitutivi, le rappresentazioni

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collettive unificanti, quando sono disgregate non le condizioni

materiali ma le rappresentazioni di Sé stesso, in sostanza la

sua identità”. E sono i simboli costitutivi di un popolo (o di

una persona, aggiungo) che poi producono senso. Attaccare i

simboli costitutivi significa esporre le persone al vissuto di

insensatezza, all’impossibilità di accedere ad un significato e

che fa dire: Perché è potuto accadere? Perché a me?

Hinde afferma: “quanto la fisica ha orrore del vuoto, la psico-

logia ha orrore del non-senso”. Per questo siamo spinti a cer-

care, trovare, produrre senso unica pacificazione che ci

acquieta e che resiste nel tempo.

3) un terzo aspetto rimanda al profondo senso di estraniamento

e solitudine della persona traumatizzata. Chi ha vissuto un

trauma è accompagnato dal sentimento di essere diverso dagli al-

tri, di sentire un abisso invalicabile che lo separa dagli altri

che gli fa dire "non possono capire" e che spesso rende il trau-

matizzato una figura mitica, appartenente ad un altro mondo.

Gadamer ci ha insegnato che ogni comprensione implica una inter-

pretazione e che ogni interpretazione è possibile solo da una pre-

cisa prospettiva storica e/o psicologica. La prospettiva

psicologica di chi ha vissuto un trauma é essenzialmente e radi-

calmente incommensurabile.

Da un punto di vista clinico questa incomunicabilità - che si tra-

duce nel profondo senso di unicità e solitudine - si riflette in

una difficoltà ad accogliere gli interventi di sostegno psicolo-

gico. A volte l'ambiente è presente, ma è la persona traumatizzata

ad essere inaccessibile.

Qui la riflessione si apre all'importanza del ruolo del gruppo co-

me luogo di appartenenza in cui trovare un proprio "simile". La

clinica dei gruppi terapeutici omogenei conferma la forze propul-

siva della condivisione del trauma.

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Stolorow ci ha aiutato a capire la natura di questa frattura. Nel-

la prospettiva inter-soggettiva la stabilità e la prevedibilità

del mondo in cui viviamo si basa su delle illusioni che noi non

mettiamo in discussione, acquisiscono una caratteristica di "asso-

lutismo" che se applicato alla vita quotidiana diventa quella qua-

lità della realtà che la rende prevedibile e stabile. Quel "ci

vediamo a pranzo" nel saluto del genitore al figlio che esce per

recarsi a scuola è detto con serenità e certezza, nessuno mette in

dubbio che possa essere diversamente.

Un trauma invece decostruisce in maniera massiccia questo assolu-

tismo della vita quotidiana esponendo il soggetto traumatizzato a

quello che Stolorow e Atwood definiscono "l'insostenibile conte-

stualità dell'essere". Da quel momento si vive con la sensazione

di essere in balia degli eventi che minacciano pericolosamente

l'indispensabile ottimismo per affrontare la vita.

Per concludere vogliamo dire che Danny Boodman Lemon Novecento, Il

pianista sull'Oceano, quando dice all'amico: "non sei fregato ve-

ramente se hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccon-

tarla" sta dicendo una cosa vera. Perché una buona (non, bella)

storia la si può raccontare se si hanno le parole per dirlo e la

certezza che qualcuno l'accolga incuriosito... sì, questo fa sen-

tire che non si é fregati veramente!

Maria Rita Colucci:

Vorrei mettere la mia attenzione sulla famiglia.

Janine Altounian ha parlato dello sfondo della sua vita quotidiana

in famiglia durante l’infanzia: ella, dice, viveva in un’atmosfera

pesante, vicina a un gran dolore, a una minaccia sconosciuta. Un

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all’“incestuale” descritto da Racamier.

“Il proposito di It - dice Stephen King nel suo romanzo - era di

spezzare la loro comunicazione mentale: cessata quella, ne sareb-

bero stati polverizzati”.

Quelli che hanno attraversato l’inferno e sono riusciti a ritor-

nare hanno un “segreto” che non possono condividere, c’è un non-

sapere che resta in sofferenza, una falla, un corpo psichico non

integrato.

Il lavoro psichico che il genitore non può fare, per la propria

ineluttabile morte emotiva, per il suo distacco dal dolore, prima

o poi reclama il suo debito, con interessi da usura.

Gli stati mentali dissociati del genitore vengono messi in memoria

in modalità implicita e sottocorticale, e diventano stati spaven-

tati-spaventanti (come dicono Main e Hesse), sorgenti nei figli di

attaccamenti disorganizzati e disorientati, di deficienza emotiva,

di zone cieche della comunicazione (anche della comunicazione in-

trapsichica). Le neuroscienze avrebbero molto da dirci su quello

che succede nel sistema nervoso dopo esperienze estreme.

La ricaduta intergenerazionale e trans-generazionale sarà più gra-

ve del danno individuale, e sarà localizzata in uno spazio trans-

personale, familiare. L’evento perdura intatto, non è un ricordo,

ma uno stato, non è nel tempo, non è nella storia.

Quando è il bambino a subire il trauma, sarà compito dei suoi a-

dulti significativi aiutarlo a tradurre in parole e a ritrovare il

contatto con le parti “perdute” di sè.

Nel caso del trauma trasmesso dal genitore al figlio, l’erede è

solo, in un role-reversal pesantissimo, e ha un mandato: è condan-

nato, come dice Janine Altounian, a ripetere, nella modalità della

coazione e dell’agito, oppure a tradurre.

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alfa, come direbbe Bion, nel rispetto dei tempi necessari perché

le persone possano accettare il potere risanatore della parola al

posto di un vuoto protettivo ma letale.

Il terapeuta stesso si sente abitato da qualcosa di estraneo e in-

comprensibile.

Ricordo il caso di un’adolescente, figlia di serbi fuggiti dalla

guerra dei Balcani, che di fronte a banalissime delusioni ha fatto

ben tre tentativi di suicidio, l’ultimo con gli antidepressivi

della mamma, come per dire: “mi sento annientata, la tua depres-

sione è anche mia”. Solo dopo il terzo tentativo la proposta di

sedute familiari ha permesso di legare e districare i fili della

memoria, e di ricondurre i sentimenti di annientamento alla loro

matrice originaria.

Aiutare i figli a dare nome all’angoscia, a dare senso

all’insensato, a trasformare un’esperienza nuda e cruda in ricordo

narrato, a ricostruire il sentimento di appartenenza all’umano, a

differenziarsi dal magma familiare, è un compito di noi psicotera-

peuti, ma anche della società tutta, particolarmente delicato, so-

prattutto con popolazioni cliniche che sempre più frequentemente

ci troviamo ad affrontare.

Il trauma collettivo inferto dall’uomo non è paragonabile né alle

catastrofi naturali, né ai traumi di una singola famiglia: porta a

uno sterminio della coscienza di tutto un popolo, alla perdita di

tutti i riferimenti, e perfino della “bussola umana”, e non è ge-

stibile col singolo individuo; assume un valore politico, cultu-

rale e gruppale carico di immense fragilità e immense forze

creative.

Risvegliare dunque il potenziale creativo, trovare mezzi espres-

sivi, ricostruire legami con le proprie radici affettive e cultu-

rali, è un lavoro che mi ricorda quello di Iside, che col suo

canto resuscita il corpo smembrato di Osiride, restituisce vita-

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phanos.

Le nuove generazioni sono strumenti della memoria di questo scorso

tormentato secolo. Sono straordinari “conduttori della corrente

del dolore”. C’è un appuntamento tacito fra le generazioni, a cui

non possiamo mancare.

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Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani

via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected]

DISCUSSIONE

Janine Altounian: non ho potuto comprendere tutto quello che è

stato detto perché avevo solo la traduzione scritta ma vorrei ap-

profondire tre punti di quello che è stato detto del mio inter-

vento. La dott.ssa Bommassar ha spiegato che si tratta di traumi

collettivi ed è sul punto proprio di “collettivi” che vorrei dire

qualcosa. Il secondo punto è il tema della colpa e poi vorrei dire

qualcosa riguardo al lavoro analitico. Sul piano del trauma col-

lettivo a mano a mano che procede l’elaborazione, certe cose si

capiscono. Ho letto molte testimonianze, adesso ve ne racconterò

una recente, appena pubblicata in Francia. Si tratta della tradu-

zione del libro che si chiama “L’agonia di un popolo”. Questa let-

tura mi ha profondamente distrutta ma mi sono obbligata a leggerla

fino in fondo: qui si vede come le persone non siano state sempli-

cemente uccise ma suppliziate e torturate. Quando dicevo che ho

letto molti testi intendevo che ho letto con una curiosità più in-

tellettuale, solo dopo ho preso coscienza che è tutta una popola-

zione è stata sradicata dal suo paese. Tutta la zona dell’Europa

centrale che era popolata dagli Yiddish, non esiste più, e questo

non è ammissibile. È stata la prima volta che ho preso coscienza

che appartenevo a quel popolo lì.

Vengo ora al secondo punto, quello della colpa. Spesso mi hanno

domandato se ho sentito la colpa, e io ho detto, dico “no”. Ho ca-

pito che la colpa, in me come in mia madre, si traduce in un la-

voro permanente. Sono viva perché lavoro. Il lavoro porta delle

soddisfazioni, come quello dell’incontro di oggi con voi. E’ un

sintomo da cui penso non guarirò. Ho cominciato la mia terza ana-

lisi per cercare di guarire da questo sintomo. Non si può vivere

senza lavorare per coloro che sono morti. Dunque è una forma di

colpa. Adesso parlerò del lavoro analitico stesso e del mondo del

transfert. Ho sempre scelto analisti, con i loro fantasmi, che non

assomigliavano ai miei. Analisti che non capivano nulla di tutto

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straneo a questa storia per creare il terzo. E quindi l’analista

non è fantasmato come comprendente ma come ascoltante. Questa re-

lazione tra parlare e ascoltare non è mai esistita nella mia fami-

glia. Ed è questa posizione di ascolto, senza la preoccupazione di

capire che crea quella distanza che garantisce l’alterità. E sono

sempre stata soddisfatta dei miei analisti. Avevo l’impressione di

essere io ad insegnare qualcosa all’analista e questa cooperazione

era una comprensione attorno all’incomprensibile. Penso che i so-

pravvissuti trasmettano dei valori ma non trasmettano gli stessi

valori. La chance che ho avuto, così rispondo anche alla domanda

di prima, è che non mi ha trasmesso una visione paranoica. E quin-

di mi ha trasmesso che bisogna lavorare e che bisogna essere cu-

riosi dell’altro. È necessario negoziare con l’altro sottomet-

tendosi al principio di realtà. Il lavoro psicoanalitico non si

può fare se non con qualche cosa che c’è nella famiglia. Ho ritro-

vato questo nel manoscritto di mio padre. E’ un diverso valore.

Maria Rita Colucci: Ci siamo domandate, Roberta e io, se la pre-

senza oggi di nuovi media come internet cambia qualche cosa ri-

guardo a questa situazione. Il fatto ad esempio che la ragazza

stuprata e massacrata in India sia divenuto oggetto del mondo in

24 ore, uscendo da spazio e tempo, se questo apporta un cambia-

mento che ha un valore dal punto di vista proprio della sopravvi-

venza, della memoria.

Janine Altounian: La tv, la radio non è confrontabile. Resta ino-

perante, non è confrontabile al lavoro della memoria. Siamo una

società che recupera il trauma e lo fa diventare qualcosa di ba-

nale. Non ci sono solo i traumi, ci sono delle scene orribili di

guerra che appaiono tutti i giorni.

Roberta Bommassar: io credo che il lavoro non possa che essere in-

dividuale, lo fa la singola persona. Poi credo che la rete metta

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essere paradossali o ambivalenti.

Janine Altounian: La primavera araba è un evento politico, quindi

è diverso dall’elaborazione.

Simona Taccani: è un tema che meriterebbe lunghe riflessioni, sem-

plificando all’osso, credo che quello che cambia è il tempo, la

dimensione della temporalità. Credo che oggi il reale, è reale la

primavera araba, il conclave è reale, il reale è tutto e questo

cambia l’equilibrio della nostra possibilità di interiorizzare e

di decantare e anche dei nostri stessi meccanismi difensivi. Io

penso che ci siano dei cambiamenti, che non possano non esserci

anche nell’elaborazione dello psichico. Ma comunque la memoria

stessa era una memoria, detto in questo senso, non voglio entrare

nell’argomento stesso di cosa sia la memoria o il ricordo o il non

ricordo ma credo che questa stessa dimensione sia una dimensione

che sicuramente ha prodotto dei notevoli cambiamenti.

Maria Rita Colucci: Io penso che ciò che qui abbiamo sentito è

l’unire l’accadimento con il fattore affettivo.

Janine Altounian: quello invece che è importante è che questi ac-

cadimenti, come quello che ho raccontato, al consolato turco, pos-

sano risvegliare elaborazioni personali.

Simona Taccani: voglio semplicemente dire che sono un po’ più per-

plessa e pessimista che induca un lavoro di riflessione. Penso che

possa circuitare il pensiero, al contrario.

Janine Altounian: sono anch’io pessimista ma credo che gli avveni-

menti politici possano risvegliare un lavoro psichico.

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DISCUSSIONE SUL LAVORO DEI GRUPPI

Altounian risponde alle domande dei gruppi

Domanda: Sono tante le parole e pensieri di fronte a questi tragi-

ci avvenimenti dove la violenza portata a sistema fa uccidere ami-

ci e vicini di casa, com’è possibile? Tanti possono essere i

livelli di intervento intrapsichico. Lei, Janine Altounian ci ha

mostrato il lavoro di una vita, di elaborazione personale, di de-

nuncia sociale. Come sia possibile fare un lavoro di prevenzione

per formare una coscienza sociale più vigile e capace di condanna-

re ogni forma di abuso e annientamento dell’altro, persona o popo-

lo che sia.

Domanda: Che rapporto c’è tra il livello individuale e collettivo

nell’elaborazione del trauma? Quanto il trauma individuale può a-

iutare l’elaborazione del trauma collettivo e viceversa.

Quali tipi di intervento è possibile mettere in atto nei diversi

contesti di lavoro privato/sociale/pubblico?

Janine Altounian: Faccio un breve accenno alla storia. La guerra

del 1914: tedeschi e austriaci da una parte, dall’altra Francia,

Inghilterra e Russia. La Turchia, l’Impero Ottomano era molto va-

sto, ci sono delle parti come la Grecia e il Maghreb, che si sono

sviluppate di più per cui si è rimpicciolito. Gli Armeni erano lì

da tempo, da prima dell’arrivo dei Turchi. Erano all’interno

dell’impero Ottomano e non potevano emanciparsi come hanno fatto

per gli altri territori.

L’impero Ottomano ha usato il disordine, cioè la guerra per elimi-

nare i soggetti cristiani, gli Armeni. Creare un’eliminazione as-

soluta, e il mezzo che hanno messo in atto in modo efficace è

stato la deportazione.

Il 24 aprile 1915, che è una data di commemorazione, gli uomini

sono stati tutti quanti raccolti in una retata, tutti gli intel-

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stati caricati su un treno diretto in Anatolia e massacrati lungo

il tragitto.

Coloro che hanno memoria di questo episodio raccontano che un

quarto della popolazione armena è stata deportata da ogni villag-

gio lungo delle assi di deportazione. Gli uomini sono stati sepa-

rati dalle donne, uccisi decapitati, e le donne e i bambini sono

stati fatti camminare fino a morire di fame e di sete. Le giovani

donne sono state o violentate o vendute: l’uomo non era merce,

mentre la giovane donna e i bambini possono essere venduti come

una merce.

Sono sopravvissuti molto pochi. Gli orfani sono stati raccolti ne-

gli orfanotrofi, ci sono testimonianze dagli stranieri. Qualche

ambasciatore, come quello degli Stati Uniti, ha cercato di inter-

venire con i loro governi ma questi non hanno fatto nulla, in

quanto si occupavano della guerra.

Gli Armeni erano ricchi, dei grandi artigiani, hanno lasciato ca-

se, gioielli, tappeti, sono stati presi e gli economisti dicono

che la Turchia sia diventata molto ricca proprio grazie ai beni

degli Armeni.

Tutto è stato saccheggiato, sono stati utilizzati i predatori per

prendere proprio tutto il possibile. È stato un genocidio diverso

dalla Shoah perché l’organizzatore di questo genocidio non è mai

stato riconosciuto e contrastato dalla comunità internazionale,

come nel caso della Germania, e questo dimostra proprio come una

strage di popolo possa rimanere impunita.

Alcune donne sposate a forza, comprate a caro prezzo, perché le

donne armene erano di educazione fine e allora certi Turchi ama-

vano avere come terza o quarta moglie una donna raffinata. Perché

lo dico? Nel 2004 un avvocato turco ha pubblicato un libro, “Mia

nonna”, tradotto in Francia e forse anche in Italia dove racconta

che un giorno sua nonna, prima di morire, ha rivelato di essere

armena. E oggi molti Turchi discendono da donne islamizzate a for-

za, di origine armena.

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ritti dell’uomo, non dicevano nulla per paura di essere persegui-

tate, quindi era un segreto. Questo libro ha creato un gran

movimento in Turchia, molte persone hanno ritrovato nella loro fa-

miglia una nonna armena.

E poi in un altro libro, “Il libro dei misteri”, questo avvocato,

con una giovane antropologa, ha intervistato molte persone a pro-

posito della presenza di parenti armeni. Queste persone tengono

l’anonimato per non essere discriminate nel loro lavoro.

È vero che c’è un movimento, un qualcosa che si muove anche se la

maggioranza è negazionista.

E quindi torno alla domanda, “come impedire questo..?” beh io non

lo so, se non lo sapete voi…

Seconda risposta:

Prima si diceva bisognerebbe che lo psicoanalista non conoscesse

la storia della Shoah eccetera per capire il paziente ma in realtà

sul divano il lavoro concerne l’individuo. Per dirla in poche pa-

role ciò che importa allo psicoanalista è il genocidio a casa, le

relazioni nella famiglia dei sopravvissuti non sono relazioni di

tenerezza.

P.-C. Racamier ha parlato proprio di questo clima,

nell’incestuale, dei legami, della fusionalità.

Man mano che l’elaborazione individuale avviene e il paziente si

apre alla vita politica acquista una coscienza sociale e può di-

ventare qualcuno che opera per questo. C’è una relazione tra

l’individuale e il collettivo: il mio lavoro oggi con voi è stato

proprio un’illustrazione di questo.

Domanda: La cura psicoterapica significa elaborazione di uno spa-

zio mentale di un terzo. Per una persona traumatizzata ha senso

una terapia individuale e/o di gruppo? In quale fase e quali indi-

cazioni, valutando che nel trauma esiste un significato relaziona-

le?

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Janine Altounian: non bisogna dimenticare che sono cresciuta a Pa-

rigi, nella protezione, nella sicurezza, mi sono sentita sicura,

non eravamo ricchi ma avevamo tutto quello che occorreva. Tra la

casa e la scuola, dove c’erano i compagni, la letteratura, il pia-

cere, vivevo tra i due spazi. Io non ero personalmente traumatiz-

zata. I sopravissuti non possono fare una psicoterapia, solo i

loro figli possono portare in psicoterapia questa esperienza. Que-

sto è molto importante: chi ha vissuto questa esperienza in prima

persona per proteggersi tace, per non rivivere questa esperienza.

Lo tace ai figli ed è il figlio che a partire da questo silenzio

può portare all’elaborazione.

Maria Rita Colucci: Questo è molto innovativo, anche per chi lavo-

ra nel gruppo dell’emergenza.

Janine Altounian: non tutti gli eredi, non sono tutti capaci di

questo.

Domanda: qual è il tempo per l’elaborazione di un lutto così gran-

de? Che cosa può facilitarlo, insomma come si fa a passare

dall’eccezionalità alla normalità?

Janine Altounian: penso che i nodi traumatici restino sempre, ma

che si possa sviluppare a partire da una capacità relazionale, uno

spazio psichico, uno spazio normale, è normale che oggi sia qui

con voi. La persona normale si informa di ciò che accade ma nella

persona anormale, traumatizzata che conosce il trauma, il trauma

rimane. Ed è la persona vivente che sviluppa questa capacità di

vita. Come si chiama questo piacere di vita? Piacere della vita,

delle relazioni, di innamorarsi, di avere figli, di avere un pen-

siero, ma ciò non toglie niente allo stato traumatico, rimane, ri-

mane sempre.

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le generazioni il nostro pensiero si è più spostato al futuro.

Quali sono i segnali di elaborazione del trauma di aver saldato il

debito con il passato? Le generazioni future potranno essere più

libere se i traumi sono stati elaborati individualmente?

Janine Altounian: penso che non si possa liquidare il debito di

fronte alle persone che hanno subito uno sterminio, resta sempre,

penso che sia una ricchezza interiore sentirsi eredi di questa

storia. I bambini che lasciano cadere questa eredità si impoveri-

scono. Bisogna tenere a questa eredità e trasporla perché è una

grande ricchezza, essere sensibili a ciò che succede nel mondo,

questa eredità è un bene che si ama.

Roberta Bommassar: una cosa a cui non avevo pensato, che ha detto

Janine, riguarda la differenza tra la Shoah, l’esperienza degli

Ebrei, e il genocidio degli Armeni. Che riguarda il riconoscimen-

to. L’associazione che ho fatto è questa: nella mia piccola espe-

rienza con il tribunale per i minorenni un momento importante era

quello della mediazione giuridica che è un momento in cui il col-

pevole, cioè il ragazzo che ha commesso il reato incontra la co-

siddetta vittima. In questo incontro c’è la possibilità, per chi

ha commesso il reato, la possibilità di riparare, di riconoscere

ciò che ha fatto e riparare il danno. Credo che l’esperienza degli

Ebrei abbia almeno in parte consentito questo. Cioè noi abbiamo

una generazione di sopravvissuti figli di sopravvissuti ma abbiamo

anche una generazione di nazisti e di figli di nazisti che hanno

dovuto lottare contro il silenzio e contro questa cosa molto gros-

sa che è l’elaborazione della responsabilità dei propri genitori.

Credo che per quanto riguarda l’esperienza della Shoah sia stato

possibile in qualche modo, parlare di riparazione.

Janine Altounian: Cambia che c’è un riconoscimento giuridico, mi

hanno chiesto “che cosa cambia nella vostra vita se la Turchia ri-

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sposto di getto “Beh andrei là e andrei in una delle case di mio

padre”. E la Turchia non riconosce perché se riconoscesse dovrebbe

restituire dei beni.

Domanda: l’umanità si è sviluppata attraverso distruzioni, genoci-

di, traumi e allora la domanda è che cosa permette all’essere uma-

no di sopravvivere a tutti i traumi che da 70.000 anni, dall’homo

sapiens ad oggi ci perseguitano? Ci deve essere qualcosa nella na-

tura umana, qualche forza che permette all’uomo di sopravvivere a

queste cose. Questa è la mia domanda.

Janine Altounian: Nel giornale di mio padre c’è un passaggio in

cui lui racconta di essere stato al mercato e dice “che bello, che

bei colori” ed è conservata la capacità di gioire. C’è questo nel-

la natura umana, che bisogna sviluppare: le buone cose che abbiamo

ricevuto.

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•Janine Altounian, L’Intraduisible, Dunod, Paris 2005;

•Janine e Vahram Altounian, Ricordare per dimenticare, Donzelli

Editore, Roma 2007;

•Janine Altounian, “Erede di un’infanzia sacrificata”, in Rivista

di Psicoanalisi, 2007, LIII, 3;

•Janine Altounian, “Di cosa sono testimonianza le mani dei soprav-

vissuti? Dell’annientamento dei viventi dell’affermazione della

vita”, in La psicoanalisi e i suoi confini, a cura di Giuseppe Le-

o, Astrolabio, Roma, 2009;

•Janine Altounian, “Un’emozione indelebile insiste nel volersi

scrivere”, in ID-ENTITA’MEDITERRANEE, Psicoanalisi e luoghi della

memoria, a cura di Giuseppe Leo, Edizioni Frenis Zero, 2010;

•Janine Altounian, “Un’eredità traumatica non si mette a parlare

se non con uno spostamento nel tempo e nello spazio culturale”, in

Scrittura e Memoria, vol.2, Edizioni Frenis Zero, 2012