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CeRP Centro di Ricerca di Psicoterapia Scuola CeRP di specializzazione in psicoterapia
Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani
via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] Sabato 8 marzo 2013, Trento
Giornata di Studio con Janine Altounian. Traumi collettivi, fami-
liari e individuali.
Simona Taccani:
Benvenuti a tutti, allievi, ex allievi, nuove e antiche partecipa-
zioni. Questo convegno vuole essere molto interattivo, Janine Al-
tounian ci tiene molto che facciate domande, interventi, durante
la presentazione e nei gruppi, alla fine della discussione. Non
presento Janine Altounian perché ci tiene a presentarsi da sé, ci
tiene a fare delle precisazioni prima di leggere il suo lavoro,
lungo e corposo, che vi verrà mostrato nei quattro schermi.
Janine Altounian ci dice che la sua prima attività è stata quella
di essere un’insegnante di tedesco, si è laureata in germanistica,
come ci raccontava ieri sera. Casualmente è entrata a far parte
dell’equipe, che si riuniva tutti i mercoledì dagli anni 70 fino
al dicembre 2012, e si occupava della traduzione dal tedesco di
Freud. Praticamente ha lavorato per quasi tutta la sua vita sulla
trascrizione in francese dell’Opera Omnia di Freud, terminata nel
dicembre 2012.
Janine Altounian ci racconta che la sua famiglia è arrivata nel
1920 a Parigi, ma solo nel 1960 ha letto, per la prima volta, il
diario che suo padre aveva scritto sul genocidio armeno, al quale
è sopravvissuto. Il diario è stato successivamente pubblicato ne-
gli anni ’80 e fa parte dei libri che Janine ha scritto sulla tra-
smissione transgenerazionale del trauma nella sua famiglia e della
sopravvivenza dei suoi familiari, padre madre e fratelli, fino ad
adesso.
Janine Altounian ci dice che oggi non è più possibile
l’accoglienza che ha contraddistinto la prima parte del suo lavoro
e del suo essere in Francia perché le condizioni socio-politiche
sono totalmente cambiate. È tassativa nel dire che oggi quelle
condizioni sono perdute e lei ha una grande nostalgia di questa
epoca passata.
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Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani
via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] Janine Altounian considera il Diario come il libro più importante
per la memoria di suo padre. L’opera, Varham e Janine Altounian,
Ricordare per dimenticare. Il genocidio armeno nel diario di un
padre e nella memoria di una figlia, ed. Donzelli, è stata tradot-
to dal francese ma lei deve alla psicoanalista napoletana Manuela
Fraire, la pubblicazione. Sul modello di Manuela Fraire ha fatto
poi pubblicare questo libro in Francia.
Prima di dare la parola a Janine Altounian vorrei dare la parola a
Pierluigi Ranzato, presidente dell’Ordine degli Psicologi e
dell’Associazione Psicologi per i popoli - Trentino, che vorrebbe
dire qualcosa a proposito della sua esperienza in Ruanda.
Pierluigi Ranzato:
“Porgo un saluto ai colleghi psicologi qui presenti e a tutti i
partecipanti e naturalmente agli organizzatori di questa giornata,
in primis alla dott.ssa Simona Taccani.
La presenza di Janine Altounian, figlia di un sopravissuto al ge-
nocidio degli Armeni, mi commuove e rappresenta per me, e immagino
anche per tutti voi, un dono.
Un dono per la sua storia familiare, per la sua biografia perso-
nale, per la sua testimonianza scritta che ora viene qui presen-
tata1.
Da questo punto di vista l’iniziativa del CeRP recupera anche un
ritardo di noi professionisti della psiche, di noi italiani e
trentini, sui “traumi collettivi familiari individuali e sulla lo-
ro trasmissione intergenerazionale”, cioè il “dolore estremo”2
E’ un tema che si innesta inevitabilmente nella dimensione sto-
rica, giuridica, etica, culturale e quindi psicologica che qui
viene rappresentata e trascinata da un neologismo: GENOCIDIO.3
1 Altounian Janine e Vahram, Ricordare per Dimenticare, Donzelli Editore, 2007 2 Mucci C., Il dolore estremo, Borla, Roma 2008 3 Gellaty R. Kiernan B. (a cura) Il secolo del genocidio, Longanesi, Milano, 2006
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via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] Una parola nuova cioè costruita per definire razionalmente quanto
è successo e che i sopravissuti all’evento definiscono come
“l’indicibile, l’inenarrabile, l’impresentabile e perciò
l’obliato, il negato, il dimenticato, lo sconosciuto” e
“l’innavicinabile”.4
In una dimensione culturale e religiosa il genocidio degli Armeni
viene detto il “Metz Yeghern” (il grande male), il genocidio degli
Ebrei “Shoah” (la tempesta devastante di cui parla il profeta I-
saia) o “Olocausto” (il sacrificio rituale dove tutto deve essere
completamente bruciato). Anche in questa dimensione culturale dove
il Grande Male si contrappone al Grande Bene non c’è parola che li
possa definire: Dio è l’ineffabile come è ineffabile il Male. Il
genocidio dei Tutsi Rwandesi veniva invece catalogato come “les
événements”, gli avvenimenti: un modo per dire nulla dicendo tut-
to.5
L’afasia psicologica e verbale dei sopravissuti trova anche qui le
sue radici.
Il termine GENOCIDIO, questo neologismo tuttora conteso tra giuri-
sti e semiologi, è stato coniato nel 1944 da Lemkin, un giurista
polacco di origine ebraica, studioso ed esperto del genocidio ar-
meno.6
L’etimologia di questo nuovo vocabolo è nota: genocidio è composto
dal termine greco ghenos (genus in latino) e dal suffisso latino
caedo.
Ghenos/genus come generazione che condivide la sua radice con al-
tre parole, come genitori, gente, gene, genere, genealogia, ge-
nesi, ma anche genitali, e per estensione stirpe, razza.
Caedo significa tagliare, fare a pezzi, far morire.
Le due radici etimologiche esprimono in coppia il concetto di “ta-
gliare il flusso vitale delle generazioni”, “estirpare le radici
dell’albero della vita” “eradicare” perché nulla più rinasca.
4 Kertéz I. , Il secolo infelice, Bompiani, Milano 2007 5 Braeckman C., Rwanda. Histoire d’un génocide, Fayard, Paris 1994 6 Bruneteau B., Il secolo dei genocidi, Il Mulino, Bologna, 2005
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dio ruandese “milles collines” il 6 aprile del 1994, “uccideteli
perché non si riproducano mai più questi inyenzi, questi scara-
faggi”.
Come potete comprendere il termine genocidio ci riporta anche a
significazioni profonde dal punto di vista psicologico che hanno a
che fare con l’identità, prima ancora gruppale che personale.
Non c’è in questa occasione il tempo per farlo, ma invito tuttavia
i colleghi a ripercorrere personalmente l’iter storico di carat-
tere giuridico, legislativo e politico che ha portato:
- nel 1946 e 1947 a due successive convenzioni delle Nazioni Unite
in cui si definisce il genocidio;
- nel 1948 alla convenzione per la prevenzione e repressione del
crimine del genocidio (convenzione che, a proposito di negazione,
viene firmata da molti paesi tra cui anche la Turchia)
- ai successivi passi che i diversi paesi compiono nel dare attua-
zione a queste convenzioni e ai riconoscimenti dei genocidi sto-
rici.7
Conoscere questo iter storico, penso sia importante anche per il
nostro lavoro psicologico e psicoterapeutico nei confronti non so-
lo dei sopravissuti ma anche dei loro discendenti perché ci fa
comprendere meglio:
-‐ il nucleo profondo del dolore delle vittime che travalica
per qualità ed estensione le consuete categorie diagnostiche
-‐ ci induce a ripensare le modalità del lavoro psicoterapeu-
tico rispetto al setting, alla alleanza, al transfert, ai tempi
interni e della vita civile dei pazienti che interagisce co-
stantemente con questo lavoro
-‐ ci fa intravvedere la complessità delle problematiche ester-
ne che possono intersecarsi con il nostro lavoro psicologico
(es. legittime richieste di risarcimenti per i danni subiti da
parte di sopravissuti e di eredi).
7 http://it.wikipedia.org/wiki/Genocidio
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trice e paziente, ci darà in questo senso importanti stimoli per
riflettere.
Peraltro oggi, sul trattamento del trauma, arrivano a noi anche
altri stimoli, seducenti ma assai problematici. Sono rappresentati
dalle “pillole per dimenticare”, Così le definisce la stampa fa-
cendo eco alle notizie di sperimentazioni in fase avanzata su al-
cuni farmaci come “propranololo, mifepristone, metapirone,
metirapone” e su altre ricerche di tipo molecolare e genetico che
hanno come obiettivo quello di manipolare la memoria e cancellare
o modificare la struttura dei ricordi traumatici. Ne trattano di
recente lo studioso di scienze cognitive e neuroetica Andrea La-
vazza e la psicologa Silvia Inglese nel volume “Manipolare la me-
moria. Scienza ed etica della rimozione”8. All’interno della
comunità psicologica ci si interroga anche sull’ efficacia e
sull’appropriatezza etica di utilizzare, in situazioni di gravi
traumi, alcune tecniche cognitivo-comportamentali che vengono oggi
commercializzate come dotate di risultati miracolistici. Sappiamo
che anche all’interno dell’area psicoanalitica è oggi in atto una
profonda rivisitazione del concetto di trauma e del suo tratta-
mento.9
All’inizio di questo saluto ho usato una parola un po’ inconsueta
in un convegno di studio: “commozione”.
Ne vorrei significare qui il motivo, quasi a saldare un debito di
conoscenza e di solidarietà, che noi cittadini e psicologi nati
nel secolo 1900 abbiamo contratto con i sopravissuti e le loro ge-
nerazioni, (alcuni di noi hanno avuto nonni coevi al genocidio de-
gli armeni e/o padri coevi alla shoah).
8 Lavazza A., Inglese S. Manipolare la memoria: scienza ed etica della rimozione dei ricordi, Mondadori Università, Milano, 2013 9 Bobleber W., Identità, Trauma e Ideologia, Astrolabio, Roma 2012; Caretti V., Capraro G., Schimmenti A., Memorie Traumatiche e Mentalizzazione, Astrolabio, Roma 2013
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genocidio degli armeni nel 1996, al ritorno dall’anno passato in
Rwanda per lavorare con i 700 bambini sopravissuti al genocidio
dei Tutsi10, i cosiddetti “bambini non accompagnati”.
Come in una ideale percorso, questo secondo viaggio per conoscere
il genocidio degli Armeni mi ha portato a leggere libri11 e diari
interessantissimi e commoventi12, e mi ha spinto anche alla visita
della nuova Armenia indipendente, in pellegrinaggio al memoriale
del genocidio ad Erevan, la capitale.
Del genocido del Rwanda mi porto ancora appresso oggi alcune do-
mande cruciali:
-‐ Perché mi chiedeva Kabano, un ragazzo quattordicenne, mentre
mi mostrava il taglio sulla testa fatto da un macete, perché
gli amici vicini di casa con cui la sera prima avevo mangiato
la vacca, hanno ucciso i miei genitori e tentato di uccidere
me?
-‐ Perché nella chiesa di Ntarama a distanza di un anno dal ge-
nocidio rimanevano ancora insepolti centinaia di cadaveri tutsi
uccisi? Perché nelle verdi colline quelle morti esibite,
quell’odore insopportabile e quel lutto mai iniziato?
-‐ Che ne sarà di Vestine, una ragazza 14enne che uno zio ri-
trova al nostro centro dei bambini non accompagnati e questo
fatto scatena in lei forti reazioni dissociative con flasback
dei genitori fatti a pezzi e buttati nelle latrine? Un ricordo
che infrange improvvisamente a distanza di un anno la barriera,
forse salutare, dell’oblio?
-‐ Che ne sarà dei figli di Simphorose, una mamma, tutsi, di
tre bambini che piange mestamente in un angolo della sua ca-
panna, perché vuole abbandonare il marito hutu che l’ha pro-
tetta e salvata durante il genocidio, anche se lei non si da
10 Hatzfeld Jean, A colpi di macete, Bompiani, Milano, 2004 11 Miller D. F.-‐Miller T. L., Survivors, Il genocidio degli armeni raccontato da chi allora era bambino, Guerini e Associati, Milano 2007 12 Tachdjian Alice (a cura), Pietre sul cuore, Sperling Kupfer Editori, Milano, 2003
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pace perche è stato versato tutto quel sangue dei suoi conna-
zionali tutsi?
-‐ Che ne sarà dei due bambini orfani adottati da Odette che
nel genocidio ha visto uccidere il marito e due gemelli vagando
per giorni nella foresta e sopravvivendo con la strategia delle
antilopi13?
-‐ E che ne sarà di Damascene che in coincidenza con il ritro-
vamento dei genitori di un suo compagno, abbandona la scuola,
il cibo, gli amici e inizia a vedere le apparizione della
“Vierge Marie” che scende dall’altare?
Sono queste alcune delle domande che sono riecheggiate in me quan-
do ho saputo della presenza di Janine Altounian in questo Con-
vegno.
Non è forse un caso il fatto che nel leggere il testo italiano di
“Ricordare per Dimenticare” di Janine Altounian abbia visto citare
una intervista fatta da Jean Hatzfeld alla sopravissuta del geno-
cidio ruandese Sylvie UMUBYEYI che lavorava proprio a Nyamata, il
villaggio del mio intervento umanitario in Rwanda14.
Janine Altounian15 commenta queste parole della sopravissuta
Sylvie : “Quando penso al genocidio rifletto per capire dove col-
locarlo nell’esistenza, ma non gli trovo nessun posto. Se ci sof-
fermiamo sulla paura del genocidio, perdiamo quel che della vita
siamo riusciti a salvare”
Nathalie Zajde, psicologa francese del centro Georges Devereux a
seguito di 40 interviste a figli di sopravissuti alla Shoah scrive
“anche se i sopravissuti hanno perlopiù evitato di raccontare in
modo strutturato il passato ai loro figli, il passato recente, il
vissuto traumatico della generazione che ci ha preceduto costitui-
sce una specie di ambiente di vita, a partire dal quale i discen-
denti dei sopravissuti sono costretti ad orientarsi, per fondare
13 Hatzfeld Jean, La strategia delle antilopi, Vivere in Rwanda dopo il genocidio, Bompiani, Milano 2011 14 Hatzfeld Jean, Dans le nu de la vie, recit des marais rwandais, Editions de Seuil, Paris 2000 15 Altounian Janine e Vahram, Ricordare per Dimenticare, Donzelli Editore, 2007
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stica del tutto particolare: essa è di natura traumatica ed enig-
matica”16.
Mi piace infine terminare con il ricordo di un piccolo aneddoto
personale che è riemerso anch’esso in questi giorni: per molti an-
ni nella mia famiglia patriarcale, in cui non ho mai avuto nessuna
notizia del genocidio degli armeni, ho sentito invece parlare mol-
to spesso di un famoso medico armeno che a Padova ha curato e gua-
rito mio madre: era il prof. Arslan, nonno della scrittrice An-
tonia17, che i genitori avevano fatto giungere in Italia da ra-
gazzo in anticipo sui tristi eventi poi succeduti. Una diaspora
invisibile nella quale gli armeni convivevano tra noi senza che
noi li vedessimo, ma in certo senso da loro stessi promossa con la
modifica della desinenza patronimica (da Arsalian ad Arslan).
Ho citato questi ricordi, queste coincidenze e aneddoti pensando
al fatto che se i paesi firmatari della convenzione ONU sono ob-
bligati a prevenire genocidi e ad intervenire per fermarli, credo
spetti anche a noi cittadini e professionisti, appartenenti
all’unico genus umano, l’obbligo morale di difendere, guarire se
necessario e coltivare quel genus al quale tutti apparteniamo e
che ogni genocidio, ogni crimine contro l’umanità ferisce, ferendo
tutti noi.
Gli armeni, cara Janine, siamo proprio obbligati a ricordarli in
maniera dolce e solare quando durante l’estate gustiamo le albi-
cocche: dalle mie parti nel dialetto veneto li chiamiamo “i ar-
meini-armellini”18: non è a caso perchè Linneo classifica il nome
all’albero dell’ albicocca come: prunus armeniaca, la prugna
dell’armenia19.
16 Zajde N., I figli dei sopravvissuti, Moretti&Vitali, Bergamo, 2002 17 Arslan A., La masseria delle allodole, Rizzoli, 2004 18 http://www.dialetto-‐veneto.it/vocabolario-‐italian.htm 19 http://it.wikipedia.org/wiki/Prunus_armeniaca
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meniaca, accompagna le nostre generazioni, le disseta e le ad-
dolcisce ancora.”
Janine Altounian:
Da una trasmissione familiare traumatica alla sua i-
scrizione nel mondo
(traduzione a cura della dott.ssa Simonetta Calaon)
In questo intervento cercherò di mostrare, con un esempio perso-
nale, come la cura possa permettere al discendente dei sopravvis-
suti a un crimine di massa di passare dal mutismo condiviso in
famiglia alla scrittura di ciò che gli è stato trasmesso e, dun-
que, all'iscrizione di questa trasmissione nel mondo.
In particolare, vedremo come il lavoro dell'analisi e quello della
scrittura – e la scrittura nasce dal lavoro analitico – abbiano
creato, nell'arco di quarant'anni, a partire da un corpus trauma-
tico di antenati fantasmi, una iscrizione di questa trasmissione
nella lingua e nello spazio socio-politico propri all'erede.
Tre punti saranno sviluppati:
1. Alla nascita di una scrittura è necessario un tempo di latenza
2. L'impatto traumatizzante di un manoscritto dà innanzi tutto
luogo alla sua rielaborazione per spostamento
3. La conversione in scrittura di un'assenza di parola rende pub-
blica la sua trasmissione.
Prima tappa: la chiusura in una umanità in lutto.
Seconda tappa: l'apertura al mondo attraverso la cura, la curio-
sità culturale e l'irruzione del politico
Alla nascita di una scrittura è necessario un tempo di latenza
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Nelle sue Tesi di filosofia della storia, il filosofo Walter Ben-
jamin20 sostiene un'idea assai vicina alla concezione freudiana
dell'après-coup, secondo la quale il tempo di vita e lo sviluppo
dell'essere umano non fanno che evidenziare e mettere in luce al-
cuni punti nodali del passato che già contenevano – in germe -
tutti questi elementi.
Detto in altro modo, e in analogia con Costruzioni dell'analisi in
cui, secondo Freud, "il lavoro terapeutico consisterebbe nel ri-
portare il frammento di verità storica al luogo del passato cui
propriamente appartiene", la costruzione simbolica della scrittura
procede a ritroso fino al tempo dei primi affetti dell'infanzia,
dimenticati o insostenibili.
È attraverso tale spostamento all'indietro nel tempo che questa
costruzione opera un mutamento nello spazio psichico di colui che
scrive, fino a consentirgli un posto di soggetto in seno alla sua
propria storia.
D'altra parte, se la pura fattualità, propria dei resoconti di av-
venimenti traumatici restituiti dalle testimonianze di alcuni so-
pravvissuti, fa pensare che copra potenzialità affettive mute,
essa ha come corollario l'anaffettività con la quale i loro figli
si proteggono innanzi tutto da ciò che è stato loro trasmesso ver-
balmente o silenziosamente: potranno appropriarsene solo dopo un
lungo periodo di latenza.
Occorrono più generazioni di elaborazione psichica affinché un es-
sere umano possa fare propri, soggettivare, i terrori della storia
20 Il genocidio armeno è avvenuto all’ombra della prima guerra mondiale, i turchi erano alle-‐
ati dei tedeschi, per questo cito Benjamin che ha parlato dei sopravvissuti, perché è la stessa
storia.
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fettività di colui che ha vissuto in prima persona l'impatto trau-
matico si prolunga, in taluni casi, in quella del periodo di
latenza di quello dei suoi discendenti che vuole o può farsene e-
rede.
Sono quindi affetti congelati ma non assenti, quelli che il lavoro
analitico e quello della scrittura convocano presso l'erede, nella
sua lingua, nel tempo del suo vissuto, rendendolo capace di riesu-
marli, inespressi, dalla persona dei suoi genitori e di introiet-
tarli.
Tutto avviene come se "la paura del crollo", messa in luce dal ge-
nio clinico di Winnicott, colpisse non solo l'individuo, ma anche
la sua trasmissione transgenerazionale.
Tale appropriazione retroattiva segue a ritroso il movimento di
una trasmissione che non emana dal genitore ma prende avvio dalla
ricerca di colui che è in grado di effettuarla.
In analogia con questo impatto differito delle violenze traumati-
che, gli specialisti della letteratura della testimonianza basata
sulla Shoah ci mostrano che alcuni testimoni – similmente all'au-
tore de La scrittura o la vita (Jorge Semprún) – hanno scritto di
quanto avevano vissuto solo dopo molti anni dall'uscita dai campi:
pensiamo a Jean Améry, Charlotte Delbo, Imre Kertész, Ruth Klüger.
Avevano evidentemente bisogno di distanziarsi da ciò a cui erano
sopravvissuti, di far crescere nel loro mondo interno distanza e
istanze mediatrici.
Affinché nascessero in loro forze di sopravvivenza generatrici di
involucri psichici capaci di accogliere – nella scrittura – ri-
cordi terrificanti, ricordi non condivisibili con quelli rimasti
al di qua, immuni dall'assassinio dell'umano, dall'assassinio di
una parte di sé, doveva trascorrere un lungo tempo.
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da colui che, ben più tardi, giungerà alla capacità di testimo-
niare di lui, corrisponderebbe insomma alla temporalità che per-
mette al sopravvissuto - muto o soffocato dal suo mortifero
rimuginare - di generare la sua discendenza o, più esattamente,
coloro della sua discendenza che sentiranno il bisogno di erigersi
a eredi della sua storia.
Si può dunque pensare che la gestazione intrapsichica del tempo
che, per scissione, opera una frattura nella psiche individuale
del sopravvissuto che scrive, sia paragonabile a quella, transge-
nerazionale, di una filiazione che si costituisce, essa pure, at-
traverso una frattura, poiché ha origine, nel sopravvissuto
divenuto apolide, da un innesto nella nuova terra del suo paese di
accoglienza.
Le due configurazioni temporali danno conto della stessa rinascita
di pulsioni vitali che reclamano con forza di essere reinvestite,
sia per dare necessaria testimonianza dei dispersi abbandonati
senza traccia, sia per generare coloro che a questo compito saran-
no inconsciamente delegati.
L'impatto traumatico di un manoscritto
L'esempio del mio percorso rinvia dunque a questa gestazione tri-
butaria del tempo – tempo psichico, tempo genealogico, tempo sto-
rico degli avvenimenti socio-politici.
Una gestazione, così mi è apparsa durante l'analisi, che ha dato
vita a una scrittura che tentava di accogliere ed elaborare un'e-
redità traumatica al fine di trasmetterne la memoria.
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diano dell'après-coup invocano di essere fissate per e nella
scrittura, che allora effettua una risalita nel tempo.
È per questo che mi sono stati necessari quasi ventisette anni per
accogliere, far tradurre, padroneggiare, rielaborare nella mia
scrittura, lo straripamento di affetti provocata in me dalla let-
tura di un Diario della deportazione di un sopravvissuto al ge-
nocidio armeno del 1915 – mio padre.
Le circostanze che mi costrinsero a trasmettere, facendolo "pub-
blicare" – in tutti i sensi del termine – questo manoscritto pa-
terno intitolato: 10 agosto 1915, mercoledì, tutto ciò che ho
passato negli anni dal 1915 al 1919, saranno richiamate più in là,
ma è chiaro che questo testo, da me ignorato per un lungo periodo
della mia vita, costituisce, per riprendere una espressione di Je-
an François Chiantaretto, la "macchia cieca" di tutti i miei
scritti.
Probabilmente furono quegli avvenimenti che presero avvio un mer-
coledì dell'agosto 1915, diciannove anni prima della mia nascita,
e che furono messi per iscritto nel 1920, a portarmi a elaborare,
a cercare di riassorbire per mezzo del lavoro analitico lo choc di
una lettura che aveva confermato la percezione iniziale, inconscia
ma rimossa, di ciò che aveva silenziosamente abitato il suo au-
tore.
Va da sé che la mia "ignoranza", oggettiva, per circostanze appa-
rentemente congiunturali, riflette, al di là dei fatti, una igno-
ranza soggettiva di emozioni antiche debordanti la capacità di
ricezione dei primi anni di vita.
Ne citerò subito un estratto che illustra proprio quel tipo di re-
soconto in cui il cronista si limita a registrare dei fatti, la-
sciando per così dire al lettore il compito di sentirne l'urto:
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Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani
via Tortona 86 - 20144 Milano - tel. e fax 02-48953800 via L. Marchetti 9 - 38100 Trento - tel. 0461-232053 fax 0461-239290 [email protected] [email protected] Quando siamo arrivati ad Antarin, eravamo tormentati dalla fame e
dalla sporcizia.
I cani facevano a pezzi i morti che nessuno seppelliva.
C'era puzza dappertutto.
Dopo sei ore di marcia siamo arrivati a Haman.
Lì la gente mangiava le cavallette.
Molti morivano, non si riusciva a contarli.
Mio padre era molto malato.
Presto non ci furono più nemmeno le cavallette, la folla affamata
si è messa a rosicchiare della carne d'asino.
E la deportazione non si fermava (...).
Mia madre ha detto ai gendarmi: "Il nostro malato è molto grave,
lasciateci aspettare il prossimo convoglio."
E loro: "Cosa? Osate parlare?"
Allora uno di loro si è messo a colpire mio padre sulla testa.
Mia madre li supplicava, chiedeva che colpissero lei, che smettes-
sero con mio padre. Allora hanno colpito mia madre.
Ma perché? Cosa diventa un uomo gravemente malato che viene pic-
chiato a colpi di bastone?
Sei giorni dopo, il giorno della morte di mio padre, hanno depor-
tato ancora (...) Di nuovo si sono messi a picchiare mia madre.
Noi due fratelli, noi piangevamo. Non potevamo fare niente, loro
erano tanti, come un branco di cani.
Hanno detto a mia madre: "Il tuo malato è morto."
E mia madre: "Noi partiremo quando avremo sepolto il morto."
Loro hanno risposto: "No, voi farete come gli altri."
Gli altri, infatti, abbandonavano i morti e di notte gli sciacalli
li divoravano.
Ho visto che così non poteva andare e che bisognava fare qualcosa.
Ho preso una boccetta da 75 dirhem (circa 200 gr.), l'ho riempita
di olio di rosa e sono subito andato dal capo del convoglio di de-
portazione.
Gli ho detto: "Lasciaci oggi, partiremo domani con gli altri del
prossimo convoglio."
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Siamo restati ancora un giorno. Abbiamo scavato una fossa di due
archine (1,50 m.) e pagando cinque kourouch al derder (prete) ab-
biamo seppellito mio padre.
Quindici giorni dopo, la deportazione è ricominciata.
Bruciavano tutto (...)
Mi sono nascosto lì, perché avevo saputo che più avanti uccidevano
tutti.
Avevamo fame e sete. Avevamo finito l'olio di rosa.
Che potevamo fare? Continuavamo a pensarci (...)
Non avevamo più niente e abbiamo cominciato a mangiare l'erba.
Abbiamo capito che saremmo morti.
Facevamo appena due passi e cadevamo per terra.
Mia madre ha riflettuto. "Io, morire, morirò, ma voi, voi non do-
vete."
È così che ci ha dato, noi due, agli Arabi.
È dopo i titoli di testa di un tale film dell'orrore - che come
voci fuori campo giungono da contrade sconosciute - che comincia
quello della sopravvivenza e, per coloro che ne sono eredi, quello
degli oblii necessari alla vita (fino alla genesi di una scrittu-
ra).
L'atto fondatore di scrivere che aveva animato questo padre deter-
mina certo, a sua insaputa, l'ulteriore trasmissione della sua me-
moria e della sua scrittura alla figlia, ma dubito che questo
gesto produttore di narrazione sia mai stato in lui consapevole
dei suoi effetti.
Questo inventario delle prove mortali vissute, redatto per non di-
menticarle, probabilmente ha contribuito a rinchiuderle lontano da
lui.
Mi sono semplicemente chiesta se quella sepoltura fortunosa delle
spoglie di suo padre, se l'esecuzione sommaria di quel rituale –
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non abbia costituito, per l'adolescente che mio padre allora era,
un privilegio assai raro che gli ha consentito quello spazio psi-
chico in cui ha potuto poi, diventandone il cronista, aprirsi una
strada per la costruzione della sua filiazione.
Michel de Certeau non definisce "la narratività che seppellisce i
morti come modo per riservare un posto ai vivi" ?
La scrittura mi è certo servita a tradurre i significanti di que-
sto contenuto schiacciante apportando loro l'eco di un contenente,
al tempo stesso uguale e altro, ovvero a tradurre in termini pub-
blicabili il non-detto parentale.
Ho potuto trovare in me spazio di ascolto per quel testo originale
solo dopo aver trovato posto nell'ascolto dell'altro del transfert
analitico - e grazie alle distanziazioni concesse da un'altra lin-
gua, da un'altra cultura, da un altro testo.
Lacerata tra una storia familiare senza echi all'esterno e un e-
sterno che in casa si spogliava di pertinenza, mi sentii allora
costretta a stabilire dei ponti, a "rendere pubblico" un documento
troppo intimo e bruciante del mio patrimonio, a intromettermi per
restituirlo al dominio culturale della Storia.
Volendo testimoniare una distruzione che, oltre a un milione e
mezzo di vittime, ha comportato anche lo sradicamento di una cul-
tura e dei suoi referenti identitari, ho voluto sfidare quel vis-
suto, opporgli una smentita.
Ma poiché quel Diario traumatico e nondimeno fondatore costituiva,
quando ho potuto decifrarlo, un "corpus" intoccabile che esponeva
il "corpo" braccato di un adolescente-padre, ho dovuto prima di
tutto mediatizzarne inconsciamente la lettura attraverso sposta-
menti multipli.
La parte più profonda e storica della mia personale esperienza non
era che un esempio fra tanti altri traumatismi della Storia.
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la stessa ingiunzione a render conto della loro ricezione dolorosa
al fine di ridurre, per ripetizione, l'acutezza di una rime-
morazione troppo viva e il peso del testo primordiale, provviso-
riamente interdetto.
Si costituì così quasi un paradigma di ricezione di altre scanda-
lose eredità della Storia, di altre figure parentali mai giunte a
una parola propria o corrose dalla distruzione della loro lingua.
Le loro testimonianze mi sconvolgevano a tal punto che sentii ne-
cessario espellere tale sconvolgimento con l'analisi, la frammen-
tazione, la rielaborazione dei loro enunciati attraverso la mia
personale scrittura.
Fare il lutto dei morti insepolti richiedeva di inumarli nel suda-
rio di un testo.
Ma il mio lavoro di scrittura, cominciato nel 1975 al termine di
una prima analisi, cercava di "mettere in parole" non soltanto una
sofferenza individuale, cercava parole anche per uno sprofondamen-
to collettivo: per "mettere in terra" i morti, per separarmi, "di-
mettermi" da loro, dar loro una voce e, passando Dall'Armenia per-
duta alla Normandia senza luogo, far parlare anche altri, ap-
partenenti a una Storia diversa dalla mia.
Sentivo il bisogno di raccogliere, da lettrice del manoscritto pa-
terno "depistato", le tracce di esperienza di altri scrittori.
Oltre ai testi armeni di Michael Arlen, Martin Melkonian, Nogoghos
Sarafian, Krikor Beledian, quelli di Racine che evocano il destino
di Andromaca e di suo figlio, di Annie Ernaux, Eva Thomas, Sem-
prun, Améry, Camus, Pachet, Handke, Ruth Klüger, Aharon Appelfeld.
Affrontavo dunque una configurazione particolare di scrittura dif-
ferita di una generazione: il sopravvissuto a una catastrofe col-
lettiva, al quale l'avvenire è interdetto, può tuttavia arrivarci,
a questo destino, scriversi e testimoniare dell'aborto del suo
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di una scrittura trasferita al suo discendente.
Questo delegato diviene allora il portavoce di soggetti privi di
soggettività, effettua un tragitto obbligato che dalle violenze
politiche conduce al dolore delle loro iscrizioni psichiche e te-
stuali.
Divenuto enunciatore di una testimonianza al tempo stesso a ri-
troso e all'inverso, a ritroso nelle generazioni e all'inverso
della cosiddetta "oggettività" dello storico, esprime la sua fe-
deltà a un mondo sommerso.
Nella sua lealtà verso questo mondo, la vita del portavoce trova
senso soltanto nel dare parola a quei sopravvissuti che il terrore
ha spogliati di ogni soggettività.
Ciò facendo condivide il progetto che lo scrittore Kertész, so-
pravvissuto a Auschwitz, attribuisce al suo romanzo, Essere senza
destino: denunciare l'impossibilità per i sopravvissuti di essere
ormai i soggetti della loro vita:
Mi sono interessato all'assenza di destino del mio 'eroe' (...)
Che succede quando si è determinati dall'esterno, quando ci si ve-
de assegnare un destino?
Ho quindi cercato di scrivere una storia dello sviluppo al nega-
tivo, mostrando non come si diventa quello che si è, ma come si
diventa quel che non si è.
E in questo progetto, la questione non era per me quella di un de-
stino individuale, ma quella dell'assenza di destino come condi-
zione di massa.
Una simile condizione - in cui il destino dell'uomo perde ogni
pertinenza, in cui non c'è nessun evento per nessuno poiché lo
schiacciamento dell'individuo gli sottrae ogni differenziazione e
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noscritto di mio padre ma anche nelle parole dello scrittore Hagop
Ochagan che evocano le coorti di deportati armeni nel deserto, ai
tempi del genocidio del 1915:
Una massa che si sposta davanti a noi, senza nome (...), fatta a
pezzi, invecchiata, scacciata dal suo centro, dal suo paese, dalla
sua religione.
La catastrofe è infinita, ma stranamente uniforme.
Chi riesce a sopravvivere a simili traumi che privano l'essere u-
mano di ogni identità particolare è evidentemente ridotto a pro-
teggersi alla meglio nel contenitore che gli è offerto dal
silenzio dei suoi morti.
I suoi discendenti, invece, si vedranno costretti a esserne i por-
tavoce: traduttori di "vibrazioni" ancestrali, come ci ricorda Mi-
chelet:
Le anime dei nostri padri vibrano ancora in noi a causa di dolori
dimenticati, un po' come il ferito soffre alla mano che non ha
più.
In questa scrittura per delega, si offre alle "anime" del passato
qualche cosa che metta al riparo i loro "dolori" da non "dimenti-
care".
Ai sopravvissuti schiacciati da esperienze non soggettivabili,
soltanto questo altro-familiare che è il loro erede, può, mediante
l'involucro della sua scrittura, immettere un contenuto psichico
agli eventi terrorizzanti che essi hanno vissuto.
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ma, offre l'accoglimento delle loro emozioni, "ri-transiziona" la
parola di questi esseri che hanno perduto se stessi e sono stati
spogliati di ogni diritto, e li storicizza inscrivendoli nell'or-
dine metaforico del discorso.
L'affettività e la scrittura del discendente rappresentano così un
processo, prima impossibile, di legame e di conversione dei "fat-
ti" in "eventi" storici capitati a qualcuno, cioè a lui e agli al-
tri.
La distinzione tra realtà interna e realtà esterna (teorizzata da
Ferenczi) si trova così annullata.
Mentre i racconti dei sopravvissuti, spesso "anaffettivi", inca-
paci di assumere la realtà psichica di ciò che descrivono, resti-
tuiscono la sola realtà materiale dei fatti, l'erede che li
traduce, sfidando una concezione positivista della Storia, opera
la segreta violenza di inscriverli in una soggettività, la sua -
e, di conseguenza, in quella dei suoi lettori.
Si dedica al compito, non soltanto restitutivo ma prima di tutto
creativo, che Michelet assegnava agli storici:
Sentire le parole che non sono mai state dette, che sono rimaste
nel fondo dei cuori (cercate nel vostro, ci sono).
È proprio la paura che il passato di terrore vissuto dai suoi ge-
nitori assassinati possa cadere nell'oblio, che spinge lo scrit-
tore Appelfeld a esserne il cronista, a trascrivere, in realtà, la
memoria del suo corpo:
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e la storia delle vite dei nostri genitori e dei genitori dei no-
stri genitori, fossero sotterrate senza che ne restasse ricordo,
questa paura mi faceva tremare la notte.
Non inventavo, facevo affiorare dalle profondità del mio corpo
sensazioni e pensieri assorbiti ciecamente.
La conversione in scrittura di una assenza di parola rende pub-
blica la sua trasmissione
Ecco ora i passaggi della storicizzazione di questo documento pa-
terno che, in interazione con alcuni avvenimenti storico-politici,
si svincolava dall'involucro emozionale e dal silenzio pesante che
lo imprigionavano.
Le inattese trasformazioni di questo Diario della deportazione fi-
no alla sua pubblicazione furono: il suo ingresso nella mia vita
cosciente, la nascita in me del desiderio di decifrarlo, e dunque
di farlo tradurre, e poi di espellerlo al di fuori dello spazio
del segreto familiare e delle sue emozioni paralizzanti.
Queste tappe tracciano insomma il destino di tale eredità che tro-
vò la sua tardiva iscrizione grazie allo scandalo suscitato da un
avvenimento politico del settembre 1981 (un gruppo di 4 combat-
tenti armeni fa irruzione nella sede del Consolato turco di Pa-
rigi, sequestra 56 ostaggi, uno di questi è ucciso, il Console
turco è ferito; gli armeni si arrendono dopo 15 ore).
Una tale impresa di soggettivazione di lungo corso non è, infatti,
da attribuire al solo lavoro intrapsichico.
È favorita oppure ostacolata dalle condizioni socio-politiche che
il luogo di vita degli eredi è in grado o meno di offrire ai suoi
cittadini.
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metta queste funzioni di setting e garanzia che il campo socio-
culturale dei paesi di accoglienza dovrebbe assicurare, campo nel
quale si situa necessariamente, come ci spiega René Kaës, ogni
trasmissione.
Prima tappa: la chiusura in una umanità luttuosa
Per costruirmi un avvenire provvisoriamente al riparo da questi
eventi impossibili da situare in un qualsiasi spazio/tempo, avevo
dunque come dimenticato quei racconti terrorizzanti, ingenuamente
relegati in un cassetto della mia eredità da aprire più tardi.
Prima che questo manoscritto entrasse nella mia vita cosciente, la
sua modalità di essere inconsciamente presente in seno a una fami-
glia armena (presenza rivisitata in seguito alle percezioni resu-
scitate durante la cura), fu la seguente: ciò che emanava da
questo documento, chiaramente ignorato dalla bambina che ero, "si-
gillava" per così dire lo spazio della nostra vita familiare, lo
inchiodava nel ricordo di eventi incredibili eppure reali che si
profilavano, a nostra insaputa, nella cornice o sullo sfondo del
nostro quotidiano.
Quel che i nostri sopravvissuti avevano vissuto abitava clandesti-
namente la loro memoria, serviva loro da punto di riferimento i-
dentificativo per guidarli lucidamente nella terra straniera; e
come un ferreo equipaggiamento li "assicurava", anche, dai rischi
di una illusoria spensieratezza, dalle tentazioni di un riposo
senza futuro.
Vivevo in un'atmosfera pesante, greve e sovrappopolata in cui si
avvertiva la prossimità di una grande disgrazia alla quale "noi"
certo eravamo scampati, ma che arrivava fino a me e mi teneva di-
stante dal tempo e dall'ambiente che incontravo "fuori", a scuola.
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sui genitori, laggiù da dove venivano, era sempre presente.
Solo negli scritti di Racamier sono riuscita davvero a trovare la
suggestione del clima che regnava in quello spazio familiare.
Ad esempio, in Incesto e incestuale:
L'incestuale è un clima (...) È un mondo in cui tutto è immerso in
un'atmosfera incerta in cui si mischiano e si confondono in modo
straniante ascendenti e discendenti, vivi e morti.
Eppure questa situazione, di una densità senza equivalenti "all'e-
sterno", mi pareva naturale, come lo era per quelli del nostro am-
biente.
Una ansietà sorda, soffocata da un accanimento per il lavoro – la-
vorare senza tregua per uscire di lì, combattere quella sensazione
di insicurezza sempre presente, invisibile e che affiorava in al-
lusioni a un tempo e a luoghi che dovevano certo essere esistiti
per "loro" ma che, a me, sembravano inattuali, mitici, de-realiz-
zanti.
Era quella, per me, la famiglia.
A differenza di alcuni figli di "immigrati" non ho mai provato
vergogna ad avere quella famiglia lì; provavo, al contrario, una
segreta fierezza.
In un lontano "ricordo-schermo", probabilmente, mio padre rac-
conta, la sera, agli amici in visita al suo laboratorio di sarto,
le ecatombi di quell'altro mondo che mi è sconosciuto e che sco-
prirò più tardi nel suo Diario.
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presume io ignori, visto che mi si parla solo in armeno, questi
momenti non giungono alla mia memoria come dolorosi: ci sento una
parola di dignità, una parola viva, e non quel silenzio anonimo,
acquattato intorno a me.
Quella parola incarnata suscita anche un certo piacere: quello
d'immaginare un altrove del padre.
Nel guscio rassicurante di una veglia conviviale tra quelli della
stessa "famiglia" di sopravvissuti, la bambina edipica ascolta il
narratore, restato ben vivo seppure inaccessibile per lei.
Lo ascolta con fiducia, come se raccontasse le peripezie di un'e-
popea da cui sarebbe uscito vincitore.
Senza dubbio è all'ascolto di un bravo narratore (da cui, imma-
gino, il suo futuro investimento nelle parole e nella lingua).
Di questi momenti in cui si commemoravano il paese, i parenti,
l'avvenire perduto, mi sono rimaste solo delle sensazioni di inti-
mità condivisa.
Non c'era, in quei racconti, nessun compiacimento per le scene di
orrore, ma la sobrietà di un resoconto delle tappe mortali di
un'avventura umana: continuare a vivere in un mondo inumano.
Quel che mi è rimasto – il resto è stato, ovvio, rimosso – ri-
chiama paradossalmente delle immagini che continuano a farmi so-
gnare: gli spostamenti in cammello, i ritrovamenti mitici con
alcuni abitanti del Paese in cerca di parenti o di pane, la de-
strezza da beduini nel saper tenere lontano il fuoco che minaccia
l'accampamento.
Mi ricordo anche, vagamente, della sensazione di felicità con la
quale mio padre accennava al gesto di sua madre che faceva il pane
quando, alla fine in salvo ad Aleppo, poterono per la prima volta
procurarsi della farina.
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a quel che quest'uomo diceva talvolta alla fine dei nostri pranzi:
"Anche oggi abbiamo potuto mangiare!"
Parlando di coloro che sono tornati dalla Grande Guerra, ridotti
al silenzio, Walter Benjamin ricorda che nulla che riguardi la
ricchezza e il senso della vita si può più trasmettere agli eredi
di un assassinio di massa:
Il valore dell'esperienza è crollato, e in una generazione che ha
fatto nel 1914-1918 una delle esperienze più spaventose della sto-
ria universale (...)
Non abbiamo allora constatato che la gente tornava muta dal campo
di battaglia?
Non più ricchi, ma più poveri di esperienza comunicabile.
Queste parole del filosofo si applicano effettivamente alla man-
canza di parola tra mio padre e me su ciò che poté essere la sua
esperienza di un genocidio perpetrato proprio sul versante orien-
tale della guerra del 1914 e la cui testimonianza ha per incipit:
"10 agosto 1915, mercoledì... ".
Potrei dire che immergendomi nel limbo di una vita senza esistenza
venivo inglobata dal contenuto di questo manoscritto paterno, ci
ero immersa e non vivevo affatto coscientemente, da "soggetto",
questi episodi delle origini della mia famiglia.
Essere in famiglia, era per me avere quella famiglia lì, che por-
tava il peso di tutta la paura retrospettiva delle vedove in lutto
in visita alla mia nonna materna.
Ho diviso la mia infanzia tra la ferita di questo rapporto con il
mondo e la scuola francese che amavo perché mi liberava dalla
chiusura familiare, mi insegnava a pensare da e per me, ad amare
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dove la gioia di vivere non era proprio all'ordine del giorno.
Seconda tappa. L'apertura al mondo con la cura, la curiosità cul-
turale e l'irruzione della politica
È a poco a poco, a partire da una prima analisi cominciata nel
1968, che questi personaggi invadenti, funestati dalle molteplici
rotture dei legami, questi scenari drammatici e disparati, il mio
rapporto ambivalente a questi attaccamenti, hanno potuto distri-
carsi dall'agglomerato di sensazioni in cui erano sepolti, davvero
sepolti vivi.
Le persone e le idee ben disegnate, con i loro contorni netti, la
percezione dei miei interessi personali, la prospettiva di scelte
promettenti, le ho scoperte a scuola.
Ma quello che io ora evoco di quella vita in casa, all'epoca non
avrei potuto esprimerlo in alcun modo.
Soltanto il lavoro analitico ha saputo sfruttare quei raggi di lu-
ce di cui avevo conservato il calore.
Durante la cura ho cominciato a distinguere, a poter pensare alla
condizione della mia famiglia e a quella che era stata la mia fino
ad allora.
Mi sono messa a leggere dei libri sui fatti storici che ci avevano
portati lì e poiché i miei genitori avevano studiato molto poco –
diversi in questo dai bambini raccolti negli orfanotrofi – ho vo-
luto conoscere gli armeni colti e politicizzati di Parigi.
Nel 1978, esplorando l'ambiente intellettuale armeno, "mi venne in
mente" – forse a causa dell'angoscia che questo sapere inoperante
emanava – che mia madre un giorno aveva menzionato con indiffe-
renza o paura un manoscritto lasciato da mio padre, morto otto an-
ni prima.
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Ma allora: che si poteva farci con quell'oggetto temibile, sacro?
Avevo il diritto di mettere le mani su quel testo reliquia?
Per chi era stato scritto?
A che scopo?
In quali circostanze, in che stato d'animo?
Per quale caso si era conservato per così tanti anni?
A chi fare quelle domande?
La sua semplice esistenza mi faceva paura.
Era inaccettabile, non riuscivo ad avvicinarlo, come se quella
bomba avesse potuto scoppiarmi tra le mani.
L'assenza di ogni mediazione per accompagnare, introdurre nel mon-
do dei vivi quei fogli angoscianti, non riproduceva l'assenza di
ogni protezione tra gli orfani che, nel deserto, erano soprav-
vissuti allo sterminio dei loro genitori?
Quel fragile quaderno, esso stesso orfano, mi interrogava, mi
chiedeva di farmene carico.
Mi spaventava come un meteorite caduto da un altro pianeta, ma ne
avevo anche pietà, non dovevo lasciarlo così, inerte, solo in un
tale vuoto sonoro, muto.
Mi sono messa a cercare un traduttore.
Non è stato facile: era redatto in turco con alfabeto armeno.
Quando ho ricevuto la traduzione, ho scoperto brutalmente quel che
rivelavano quelle pagine enigmatiche, ho potuto leggere in fran-
cese quel che aveva scritto quell'uomo che poco avevo conosciuto
ma che riconoscevo in tutto nelle sue frasi: barcollavo in uno
stato di sospensione senza ancoraggi, una specie di de-realtà che
mi ha precipitata in una seconda analisi.
Se il passato terrificante del genitore sopravvissuto, presentito
in casa, vissuto in una sorta di irrealtà prudentemente separata
da sé per scissione, si presenta a distanza nella lettura, scritto
nero su bianco nella lingua che ti ha insegnato la poesia e il
pensiero, la sua realtà ti salta agli occhi.
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violentemente quel che collega il tuo tempo presente a colui che
ha conosciuto quel versante al di fuori dell'umanità del mondo,
pochi anni prima della tua nascita, infinitamente vicino a te.
L'evitamento, che era stato il mio primo rapporto con questo là-
scito esplosivo, prudentemente accantonato dal mio quotidiano, si
apparenta al "non-evento" evocato da Claude Janin, che ha scritto:
L'evento traumatico è un non-evento, qualcosa che non si produce.
Questo primo tempo del trauma (...) è il nucleo freddo del trauma
non assimilato dall'Io.
In occasione di una trasmissione traumatica, che per di più subi-
sce l'oltraggio di un diniego politico dello Stato criminale e de-
gli Stati che l'hanno tollerato, alcuni avvenimenti possono
proprio scatenare una rimessa in memoria, una introiezione all'in-
terno del soggetto di un ricordo che in apparenza non lo implicava
e restato fino a quel momento sequestrato in una sorta di memoria
bianca21.
21 “Una persona mi ha chiesto come mai le condizioni politiche oggi non sono favorevoli per
questa memoria. Tutti i miei libri parlano del mio amore per la scuola, per la scuola pubblica
in particolare, io stessa sono insegnante, ma questa scuola non esiste più. E lo stesso penso in
Italia, la scuola del pensiero ha perso il suo potere. Il potere per cui i figli dei migranti non
possono integrare le culture della loro appartenenza e soggettivizzarvi la loro storia nella
nostra storia. Considero il lavoro analitico, la cura, come proseguimento del lavoro della
scuola. La seconda ragione secondo cui oggi queste condizioni non sono più favorevoli, è che
all’epoca dei miei genitori c’era il lavoro per le persone immigrate, gli stranieri lavoravano e
potevano arrivare ad educare i figli in condizioni culturali favorevoli. Prima ho detto che ci
sono delle eccezioni, ma in generale quello che ho detto è vero. L’ultima motivazione è che la
Turchia negazionista sta diventando più potente e gli stati per compiacere la Turchia, della
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rede di una tale trasmissione c'è quel che René Kaës qualifica co-
me:
dramma catastrofico che resta (...) privo d'enunciato e soprat-
tutto di rappresentazione, perché gli spazi e le funzioni psichi-
che e transoggettive dove potrebbe costituirsi e significarsi sono
stati aboliti.
Un sapere esterno al soggetto, da sempre immobilizzato in cono-
scenza inoperante, in occasione di un avvenimento politico-cultu-
rale in campo pubblico (cioè un cambiamento brutale nell'ambiente
del soggetto-cittadino – nel "setting" della sua presenza al mondo
degli altri) si mette immediatamente a parlare all'interno di lui
finendo per investirne la sua vita psichica.
Questa brusca risoluzione della scissione può d'altronde portare
con sé un caos emozionale, uno scompenso che lo fa correre da uno
psicoanalista.
L'irruzione nello spazio collettivo di una violenza congelata che
si ignorava in lui, l'inquietante familiarità di questa violenza
esterna con quella del suo mondo interno gli rendono possibile,
grazie a questa duplicazione distanziatrice, di appropriarsi della
sua violenza, di ricordarsene provandola.
quale ormai hanno bisogno colludono con il silenzio politico sul genocidio armeno. In parti-‐
colare in Francia, nel dicembre 2010, il senato ha votata una legge per sanzionare il negazio-‐
nismo armeno ma tale legge è stata invalidata nel febbraio 2011. Da quella data considero il
mio lavoro completamente inutile: il mio paese di accoglienza non è più quello che era una
volta.
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protagonisti terzi e non imprigionata nei suoi propri agìti privi
di rimemorazione, gli permette, grazie a questo aggiornamento pro-
tettivo, di interrogarsi alla fine sulla sua metabolizzazione.
Questo tipo di rimemorazione viene a sostituire la ripetizione,
non sopprimendola – come Freud augura al suo paziente (in Ricor-
dare, ripetere, rielaborare - 1914) – ma prendendone slancio, pro-
cedendo da essa in qualche modo per identificazione proiettiva.
Tale ripetizione rimemorante si produsse dunque in me all'epoca
dell'irruzione, nello spazio collettivo del luogo dell'esilio pa-
terno, di una violenza fino a quel momento paralizzata e, grazie
al differimento di questo aprés-coup, mi fu possibile pensare che
conoscevo bene, io, un documento bruciante a questo proposito.
Senza la brutale introduzione di tale questione nell'attualità -
cioè nella storia del paese di accoglienza dove io vivevo – non ci
avrei senza dubbio pensato, né mi sarei immaginata una posizione
attiva di fronte a quel documento che mi interrogava e mi incitava
a farne qualcosa.
Freud ha detto bene:
Quando il paziente parla di questo "dimenticato" raramente manca
di aggiungere: a dire il vero l'ho sempre saputo, semplicemente
non ci ho pensato.
René Kaës, quando scrive che la catastrofe non può rappresentarsi
né significarsi perché sono stati distrutti gli spazi e le fun-
zioni psichiche e transoggettive necessari alla costituzione del
suo enunciato, aggiunge: "la loro sparizione è in sé un surplus
traumatico."
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sostituto di quei luoghi e funzioni psichiche fece la sua comparsa
in me.
E lo fece nella fattispecie di un atto "terroristico" nello spazio
politico parigino – presa di ostaggi al consolato turco nel set-
tembre 1981.
Un atto di resistenza che ha dato inizio a quel che è stato defi-
nito "terrorismo di propaganda", ma che ha rotto, in quel che era
diventato il mio paese, un silenzio di quasi mezzo secolo sul ge-
nocidio armeno, interrogando quindi un silenzio acquattato dentro
di me.
L'enorme influenza di quegli avvenimenti attuali sulla mia rela-
zione col passato dei miei familiari, si confermò allora total-
mente e io mi sentii in diritto, nel 1982, di trasgredire il tabù
che circondava quella reliquia di cui ormai avevo la traduzione
francese.
La rivista Tempi moderni, che aveva già accettato tre miei arti-
coli, accettò anche questo, accompagnato da una postfazione espli-
cativa e dalle note indispensabili che il suo traduttore aveva
voluto aggiungere22.
In realtà sentivo che mio padre, se fosse stato ancora vivo, a-
vrebbe approvato.
Ritrovai anche, nella mia memoria "diffusa", il ricordo molto lon-
tano del piacere di resistente con il quale quest'uomo raccontava
22 Ho considerato cinque circostanze vissute nella mia vita di accoglienza, circostanze favo-‐
revoli. Il primo è l’entrata a scuola, il secondo, è il fatto che il primo testo, quello del 1965 è
stato accettato da Simon de Beauvoir , perché io non un’universitaria, ero una figlia di immi-‐
grati.
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nopoli.
Identificandomi spontaneamente alla soddisfazione con la quale lui
evocava un atto di cui era fiero, sentivo l'obbligo di far uscire
dalla sua clandestinità protettiva questa reliquia che avevo sco-
perto23.
Una simile sovrapposizione temporale di un evento del 1981 che de-
stava il ricordo di un racconto paterno che commemorava un fatto
del 1896, conferma "l'appuntamento tacito" di cui Benjamin ammette
l'esistenza tra "le generazioni passate e la nostra".
Le voci a cui noi prestiamo orecchio non portano un'eco di voci
ormai estinte? Se così è, allora esiste un tacito appuntamento tra
le generazioni passate e la nostra (...).
A noi, come a ciascuna generazione precedente, è stata accordata
una fragile forza messianica sulla quale il passato fa valere una
pretesa.
Il fattore propriamente giornalistico che favorì la nascita di
questo manoscritto tenuto sotto chiave fu dunque secondario.
Senza la forte emozione che quello scandalo destò nel paese che
aveva accolto mio padre, non avrei certo trovato ascolto edito-
riale a Tempi moderni per quella prima pubblicazione del 1982, ma,
soprattutto, senza il suo paravento protettivo, mi sarebbe stato
23 Il genocidio del 1915 era stato preceduto da un pogrom di 300.000 armeni nel 1885. Questa è la ragione per cui certi militanti hanno preso d’assalto l’ambasciata turca nel 1886, per allertare gli occidentali. Praticamente i Turchi hanno interessi oc-‐cidentali in questo caso.
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passo.
Non si può misconoscere che un simile tipo di rimemorazione strut-
turante, generata dall'effrazione, nel soggetto, di una violenza
in seno al campo collettivo, costituisca di fatto una trasgres-
sione.
Questa rimessa in memoria mi obbligava a prendere da sola e in una
spaventevole angoscia la decisione di una doppia trasgressione.
Per una figlia, allevata per di più col peso di tradizioni orien-
tali, una trasgressione del rispetto filiale dovuto al corpo degli
antenati assassinati nel silenzio del mondo, ma una trasgressione
anche di fronte all'ordine pubblico del paese di accoglienza, poi-
ché lei mostrava di approvare un atto terroristico che, mi pareva,
avrebbe segretamente rallegrato il padre se fosse stato ancora in
vita.
Certo, dovevo vincere la selvaggia resistenza a bucare una bolla
di silenzio che rende incapaci di parlare agli altri, quando si è
ascoltato o si è evitato di ascoltare tali racconti dalla bocca
dei propri genitori, dei sopravvissuti ai quali quanto meno si de-
ve la vita.
Ma, in più, dovevo assumermi paradossalmente la paternità di uno
scritto che non aveva alcuno spazio nel mondo anche se era ben in-
trufolato dentro di me: dovendo decidere un titolo, così come ri-
chiestomi dall'editore, fui io che dovetti intitolarlo "Terrorismo
di un genocidio".
Operai così un'inversione semantica, mettendo in rapporto la vio-
lenza cancellata dalla memoria del mondo con quella, attuale, che
ne era una rimemorazione.
In un lavoro precedente, Scrivere la rottura ristabilisce l'ere-
dità, sviluppavo l'idea che su tutti i figli di sopravvissuti in-
combe il compito di iscrivere l'après-coup del traumatismo
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le tracce trasmesse dai famigliari, impotenti a rispondere alle
loro domande di figli, li costringe a rispondere della dignità
della filiazione stessa.
Avevo scritto tre lavori sulla trasmissione traumatica e dopo 27
anni dalla sua prima lettura avevo potuto avvicinarmi, con L'in-
traducibile, a fare un commento a questo racconto di sopravvissuto
senza destino; una sorta di bottiglia gettata in mare da un padre,
làscito percepito, raccolto, tradotto e pubblicato una sessantina
d'anni più tardi grazie a un evento politico24.
Pensavo di avere portato a termine il mio compito!
Eppure, al momento della recente traduzione italiana di questo Di-
ario, un incidente inatteso ha fatto sì che io dovessi ancora una
volta risalire dolorosamente il tempo e constatare che l'eredità
di quel Diario non aveva ancora trovato la sua vera ricezione.
La penultima tappa del suo periplo fu la sua strana mutazione ita-
liana del 2007 che portò a compimento il destino di questo testo
reliquia generatore di altre scritture.
In occasione di una settimana di lavoro con degli psicoanalisti
romani, Manuela Fraire decise di pubblicare un piccolo estratto
dove comparivano, integralmente, il racconto di mio padre, e uno
dei miei articoli che lo avevano fatto conoscere.
Quando lo ebbi in mano, scoprii subito con stupore e irritazione
che il nome dell'autore (che non si era ritenuto utile menzionare
nel contratto) era: "Janine e Vahram Altounian".
24 I tre testi sono “Cammino d’Armenia”, “Il sopravvissuto”, “L’intraducibile” dove commento il
testo di mio padre, di Camus, di Amerì, e di altri autori.
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nominazione si giustificava in toto con il sottotitolo della rac-
colta: Il genocidio armeno nel diario di un padre e la memoria di
una figlia, ma che una sorta di avvenimento psichico mi arrivava
da lì, dall'altro e straniero.
L'apparizione di questo autore, per così dire ibrido, incestuale,
creò in me una specie di mutazione identitaria che chiedeva di e-
sprimersi anche in Francia tramite un'analoga pubblicazione.
Questa innovazione italiana proseguì quindi con l'opera collettiva
apparsa in Francia con il titolo: Memorie del genocidio armeno.
Eredità traumatica e lavoro analitico, in cui la prima pagina pre-
cisa:
Quest'opera ha potuto farsi solo attraverso un lavoro di scrittura
che ha richiesto due generazioni e più voci per elaborarsi e scri-
versi in queste pagine. Abbiamo voluto dare senso a questa scrit-
tura in due tempi attribuendola a "Varham e Janine Altounian". 25
25 Questo è il terzo miracolo dell’accoglienza della Francia nei miei confronti. Quando ho pre-‐
sentato all’editore, alla PUF il mio lavoro, volevo che desse una retribuzione aggiuntiva in
nome delle numerose note dei traduttori. Per convincerlo a dare una retribuzione maggiore,
perché le note rendono il racconto un racconto antropologico, ho mostrato il manoscritto e
ho detto “E’ un traduttore di qualità, sa tradurre dal turcoscritto in caratteri armeni”. E
quando ha visto il manoscritto ha deciso di pubblicare l’originale. Praticamente mio padre è
pubblicato in una edizione universitaria in cui compaiono tutte le traduzioni di Freud che io
ho fatto. Appaiono in questo libro il testo di mio padre, un articolo molto interessante del
traduttore che mette questa testimonianza all’interno di altre testimonianze. L’articolo auto-‐
biografico e solo propriamente autobiografico di cui dò qualche frammento nell’esposizione.
E il commento di cinque psicoanalisti sul testo che hanno familiarità al trauma e con i quali
ho lavorato. E quello di Manuela Fraire che è il testo francese corrispondente di quello che
appare qui in italiano.
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L'itinerario di questa strana trasmissione termina così il suo
percorso, a quasi 90 anni dalla sua redazione, inserendosi in seno
a un'opera collettiva che riunisce alcuni psicoanalisti all'a-
scolto dei traumi della Storia.
L'espressione "in seno a" è qui da prendere alla lettera, perché
non soltanto l'opera collettiva di questi sei ricercatori e amici
porta il peso, accompagna e sostiene questa testimonianza davanti
al mondo, ma anche perché la sua traduzione, sola versione dispo-
nibile al momento, duplica la sua presenza corporea.
Fu del resto lo stesso editore, direttore delle edizioni PUF, che
incoraggiò la traduzione integrale di questo manoscritto alla qua-
le non avrei, io, evidentemente osato pensare, e tanto meno avrei
osato chiedere un'edizione "universitaria" in cui l'autore di
quelle terribili pagine sta vicino ai testi freudiani di cui dal
1970 io sono co-traduttrice.
Questa testimonianza si presenta dunque al lettore circondata dal-
la studiosa attenzione di sei numi tutelari - oltre alla figlia,
il suo traduttore e cinque psicoanalisti - e accede a un'autonomia
sia perché oggetto della loro elaborazione, sia per il nome
dell'autore, attribuito dall'editore al suo cronista, liberandolo
definitivamente da me e liberando me da lui.
Considero tale assolvimento del debito nei suoi confronti come un
dono che mi è stato fatto 15 anni prima della mia nascita dall'au-
tore di questo testo e dall'autore della mia vita, un dono che ha
reso possibile una soggettivazione sia della mia storia che della
sua, après-coup.
Per concludere vorrei tornare al saggio prima citato di Benjamin:
Esperienza e povertà, in cui il filosofo denuncia la rottura, come
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dell'esperienza.
Per mostrare come sarebbe, al contrario, il suo passaggio da una
generazione all'altra, ricorda una favola del nostro amato La Fon-
taine:
Nel nostro libro di lettura c'era la favola dell'uomo che sul let-
to di morte fa credere ai figli che un tesoro è nascosto nella sua
vigna.
Devono solo cercarlo.
I figli scavano, nessuna traccia del tesoro.
Quando viene l'autunno, però, la vigna produce come nessun'altra
lì intorno.
Capiscono allora che il padre ha voluto lasciare a loro il frutto
della sua esperienza, la vera ricchezza non sta nell'oro ma nel
lavoro.
Dove? dove i morenti pronunciano ancora parole imperiture che si
trasmettono di generazione in generazione come un anello ance-
strale?
Se occorre mettere in collegamento il tema del lavoro con quello
della trasmissione – di cui Benjamin qui sottolinea le implica-
zioni di trasmissione del valore del lavoro – va detto che, al di
là dello sterminio degli uomini, i regimi totalitari mirano
all'annientamento di quel che produce la creatività del lavoro e
alla distruzione dell'attaccamento degli uomini tra loro e alla
loro storia.
I nazisti non scrivevano sulle porte dei loro campi questa anti-
frasi profanatrice: "Arbeit macht frei"?
Ma è utile avvicinare questi due temi anche perché ereditare per
voler testimoniare, richiede la presa in carico di un lavoro.
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voro di appropriazione.
Questi versi di Goethe, e i primi due sono citati da Freud come
modalità di trasmissione psichica, lo dicono in maniera ammira-
bile:
Quel che hai ereditato dai padri,
fallo tuo per averlo davvero.
Quel che non si usa è pesante fardello.26
26 Avevo annunciato cinque miracoli, ne ho detti quattro, il quinto l’ho annunciato ieri sera in
una serata amichevole. Nel 1970 ero insegnante di tedesco, amavo leggere Freud in tedesco e
ho incontrato un professore che diceva che traduceva Freud, ho chiesto se potevo tradurlo io
perché mi piaceva molto tradurre Freud. Alla fine ha detto “a mercoledì prossimo”. Poi ho i-‐
niziato come traduttrice, poi ho incontrato Laplanche nel 1983 e sono stata cooptata nel
gruppo editoriale.
Volevo dire che l’elaborazione successiva, nel libro “dalla cura alla cultura” porta un’idea
nuova: lo stretto rapporto tra l’elaborazione psichica e gli avvenimenti culturali-‐politici.
La seconda idea è che quando l’elaborazione psichica giunge al suo compimento c’è la capaci-‐
tà di amare l’eredità. Si ritrova nel proprio inconscio l’amore che da bambini non si è potuto
sentire a tu per tu nei confronti del sopravvissuto. L’amore che il sopravvissuto non ha potu-‐
to esprimere ai suoi figli perché era costretto in una vita di lavoro.
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Roberta Bommassar:
La relazione di Janine Altounian ha sollecitato alcuni pensieri
che accennerò molto brevemente, avendo ognuno di questi necessità
di approfondimento.
Lo sguardo appassionato che Janine Altounian ci ha offerto della
diaspora armena come esperienza traumatica testimonia il legame di
questa esperienza con le parti più profonde, primitive e primarie
del Sé.
Oggigiorno il concetto di trauma trova un uso sempre più ampio che
a volte fa pensare ad un abuso concettuale, per spiegare fenomeni
che poco hanno a che fare con l'impatto devastante che un trauma
ha sulla struttura psicologica dell'individuo e soprattutto l'ef-
fetto colonizzante sulla sua esperienza soggettiva.
Nelle riflessioni e lo studio che ha accompagnato l’avvicinamento
a questo convegno ho trovato utile per me fissare alcuni punti che
considero trasversali a tutte le esperienza traumatiche che sap-
piamo possono differire per diverse variabili:
1) il tempo (è un evento unico o ripetuto per lungo tempo?)
2) i soggetti (ciò che è attaccato è il singolo individuo, il nu-
cleo familiare o una collettività? È un bambino o un adulto? Il
trauma è causato da un evento naturale come ad esempio un terre-
moto o uno o più uomini?)
3) le azioni (è un attacco al corpo o alla mente?).
Se queste sono le variabili che rendono conto delle differenze dei
traumi sulla persona, è bene ricordare in questo contesto le co-
stanti che legano tra loro esperienze traumatiche anche molto di-
verse.
In tutte le situazioni che possiamo definire autenticamente trau-
matiche possiamo trovare:
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affetto intollerabile. Ciò che rende tollerabile e quindi ela-
borabile un trauma è stato oggetto di studio che ha tenuto im-
pegnato per tanto tempo i clinici e i teorici della
psicoanalisi. È ormai conoscenza condivisa sapere che esperien-
ze identiche possono avere impatti emotivi diversi. In ogni ca-
so l'intollerabilità rimanda invariabilmente sul piano
economico ad un “sentimento di dolore evocato troppo forte, in-
sopportabile per la mente/corpo del soggetto. Ma lo è anche
(soprattutto quando si parla di bambini) perché l’ambiente cir-
costante è assente nella sua funzione winnicottiana di holding
(ricordo che J. Altounian definisce la scrittura un holding as-
sente al momento del trauma) o quella di reverìe di Bion. At-
torno a questa mancanza si organizza il difetto fondamentale di
Balint, quel buco nero che si cercherà di compensare - spesso
inutilmente - con una vita intera all'insegna della riparazio-
ne.
L’intollerabilità starebbe quindi in una sommatoria tra un vis-
suto troppo forte che supera le capacità mentali di trasforma-
zione e contenimento e - come la chiama Ferenczi - una
omissione di soccorso. Chi vive il trauma sperimenta la solitu-
dine, la distanza dell'esperienza soggettiva dell'altro, con il
corteo di vissuti di abbandono ma anche di rabbia e rivendica-
zione.
2. Ma non basta. Questo convegno é stato occasione di letture
sul processo di formazione della diaspora e ciò che ho trovato
di grandissimo interesse è che dei modelli interpretativi uti-
lizzati per spiegare alcuni fenomeni sociali e culturali della
diaspora, possono sollecitare utili associazioni anche riguardo
alla dimensione intra-psichica e intersoggettiva.
La diaspora intesa come la dispersione di una etnia é stata de-
finita nel seguente modo: “un evento catastrofico diventa dia-
spora quando intacca i simboli costitutivi, le rappresentazioni
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Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani
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collettive unificanti, quando sono disgregate non le condizioni
materiali ma le rappresentazioni di Sé stesso, in sostanza la
sua identità”. E sono i simboli costitutivi di un popolo (o di
una persona, aggiungo) che poi producono senso. Attaccare i
simboli costitutivi significa esporre le persone al vissuto di
insensatezza, all’impossibilità di accedere ad un significato e
che fa dire: Perché è potuto accadere? Perché a me?
Hinde afferma: “quanto la fisica ha orrore del vuoto, la psico-
logia ha orrore del non-senso”. Per questo siamo spinti a cer-
care, trovare, produrre senso unica pacificazione che ci
acquieta e che resiste nel tempo.
3) un terzo aspetto rimanda al profondo senso di estraniamento
e solitudine della persona traumatizzata. Chi ha vissuto un
trauma è accompagnato dal sentimento di essere diverso dagli al-
tri, di sentire un abisso invalicabile che lo separa dagli altri
che gli fa dire "non possono capire" e che spesso rende il trau-
matizzato una figura mitica, appartenente ad un altro mondo.
Gadamer ci ha insegnato che ogni comprensione implica una inter-
pretazione e che ogni interpretazione è possibile solo da una pre-
cisa prospettiva storica e/o psicologica. La prospettiva
psicologica di chi ha vissuto un trauma é essenzialmente e radi-
calmente incommensurabile.
Da un punto di vista clinico questa incomunicabilità - che si tra-
duce nel profondo senso di unicità e solitudine - si riflette in
una difficoltà ad accogliere gli interventi di sostegno psicolo-
gico. A volte l'ambiente è presente, ma è la persona traumatizzata
ad essere inaccessibile.
Qui la riflessione si apre all'importanza del ruolo del gruppo co-
me luogo di appartenenza in cui trovare un proprio "simile". La
clinica dei gruppi terapeutici omogenei conferma la forze propul-
siva della condivisione del trauma.
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Stolorow ci ha aiutato a capire la natura di questa frattura. Nel-
la prospettiva inter-soggettiva la stabilità e la prevedibilità
del mondo in cui viviamo si basa su delle illusioni che noi non
mettiamo in discussione, acquisiscono una caratteristica di "asso-
lutismo" che se applicato alla vita quotidiana diventa quella qua-
lità della realtà che la rende prevedibile e stabile. Quel "ci
vediamo a pranzo" nel saluto del genitore al figlio che esce per
recarsi a scuola è detto con serenità e certezza, nessuno mette in
dubbio che possa essere diversamente.
Un trauma invece decostruisce in maniera massiccia questo assolu-
tismo della vita quotidiana esponendo il soggetto traumatizzato a
quello che Stolorow e Atwood definiscono "l'insostenibile conte-
stualità dell'essere". Da quel momento si vive con la sensazione
di essere in balia degli eventi che minacciano pericolosamente
l'indispensabile ottimismo per affrontare la vita.
Per concludere vogliamo dire che Danny Boodman Lemon Novecento, Il
pianista sull'Oceano, quando dice all'amico: "non sei fregato ve-
ramente se hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccon-
tarla" sta dicendo una cosa vera. Perché una buona (non, bella)
storia la si può raccontare se si hanno le parole per dirlo e la
certezza che qualcuno l'accolga incuriosito... sì, questo fa sen-
tire che non si é fregati veramente!
Maria Rita Colucci:
Vorrei mettere la mia attenzione sulla famiglia.
Janine Altounian ha parlato dello sfondo della sua vita quotidiana
in famiglia durante l’infanzia: ella, dice, viveva in un’atmosfera
pesante, vicina a un gran dolore, a una minaccia sconosciuta. Un
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all’“incestuale” descritto da Racamier.
“Il proposito di It - dice Stephen King nel suo romanzo - era di
spezzare la loro comunicazione mentale: cessata quella, ne sareb-
bero stati polverizzati”.
Quelli che hanno attraversato l’inferno e sono riusciti a ritor-
nare hanno un “segreto” che non possono condividere, c’è un non-
sapere che resta in sofferenza, una falla, un corpo psichico non
integrato.
Il lavoro psichico che il genitore non può fare, per la propria
ineluttabile morte emotiva, per il suo distacco dal dolore, prima
o poi reclama il suo debito, con interessi da usura.
Gli stati mentali dissociati del genitore vengono messi in memoria
in modalità implicita e sottocorticale, e diventano stati spaven-
tati-spaventanti (come dicono Main e Hesse), sorgenti nei figli di
attaccamenti disorganizzati e disorientati, di deficienza emotiva,
di zone cieche della comunicazione (anche della comunicazione in-
trapsichica). Le neuroscienze avrebbero molto da dirci su quello
che succede nel sistema nervoso dopo esperienze estreme.
La ricaduta intergenerazionale e trans-generazionale sarà più gra-
ve del danno individuale, e sarà localizzata in uno spazio trans-
personale, familiare. L’evento perdura intatto, non è un ricordo,
ma uno stato, non è nel tempo, non è nella storia.
Quando è il bambino a subire il trauma, sarà compito dei suoi a-
dulti significativi aiutarlo a tradurre in parole e a ritrovare il
contatto con le parti “perdute” di sè.
Nel caso del trauma trasmesso dal genitore al figlio, l’erede è
solo, in un role-reversal pesantissimo, e ha un mandato: è condan-
nato, come dice Janine Altounian, a ripetere, nella modalità della
coazione e dell’agito, oppure a tradurre.
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alfa, come direbbe Bion, nel rispetto dei tempi necessari perché
le persone possano accettare il potere risanatore della parola al
posto di un vuoto protettivo ma letale.
Il terapeuta stesso si sente abitato da qualcosa di estraneo e in-
comprensibile.
Ricordo il caso di un’adolescente, figlia di serbi fuggiti dalla
guerra dei Balcani, che di fronte a banalissime delusioni ha fatto
ben tre tentativi di suicidio, l’ultimo con gli antidepressivi
della mamma, come per dire: “mi sento annientata, la tua depres-
sione è anche mia”. Solo dopo il terzo tentativo la proposta di
sedute familiari ha permesso di legare e districare i fili della
memoria, e di ricondurre i sentimenti di annientamento alla loro
matrice originaria.
Aiutare i figli a dare nome all’angoscia, a dare senso
all’insensato, a trasformare un’esperienza nuda e cruda in ricordo
narrato, a ricostruire il sentimento di appartenenza all’umano, a
differenziarsi dal magma familiare, è un compito di noi psicotera-
peuti, ma anche della società tutta, particolarmente delicato, so-
prattutto con popolazioni cliniche che sempre più frequentemente
ci troviamo ad affrontare.
Il trauma collettivo inferto dall’uomo non è paragonabile né alle
catastrofi naturali, né ai traumi di una singola famiglia: porta a
uno sterminio della coscienza di tutto un popolo, alla perdita di
tutti i riferimenti, e perfino della “bussola umana”, e non è ge-
stibile col singolo individuo; assume un valore politico, cultu-
rale e gruppale carico di immense fragilità e immense forze
creative.
Risvegliare dunque il potenziale creativo, trovare mezzi espres-
sivi, ricostruire legami con le proprie radici affettive e cultu-
rali, è un lavoro che mi ricorda quello di Iside, che col suo
canto resuscita il corpo smembrato di Osiride, restituisce vita-
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phanos.
Le nuove generazioni sono strumenti della memoria di questo scorso
tormentato secolo. Sono straordinari “conduttori della corrente
del dolore”. C’è un appuntamento tacito fra le generazioni, a cui
non possiamo mancare.
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DISCUSSIONE
Janine Altounian: non ho potuto comprendere tutto quello che è
stato detto perché avevo solo la traduzione scritta ma vorrei ap-
profondire tre punti di quello che è stato detto del mio inter-
vento. La dott.ssa Bommassar ha spiegato che si tratta di traumi
collettivi ed è sul punto proprio di “collettivi” che vorrei dire
qualcosa. Il secondo punto è il tema della colpa e poi vorrei dire
qualcosa riguardo al lavoro analitico. Sul piano del trauma col-
lettivo a mano a mano che procede l’elaborazione, certe cose si
capiscono. Ho letto molte testimonianze, adesso ve ne racconterò
una recente, appena pubblicata in Francia. Si tratta della tradu-
zione del libro che si chiama “L’agonia di un popolo”. Questa let-
tura mi ha profondamente distrutta ma mi sono obbligata a leggerla
fino in fondo: qui si vede come le persone non siano state sempli-
cemente uccise ma suppliziate e torturate. Quando dicevo che ho
letto molti testi intendevo che ho letto con una curiosità più in-
tellettuale, solo dopo ho preso coscienza che è tutta una popola-
zione è stata sradicata dal suo paese. Tutta la zona dell’Europa
centrale che era popolata dagli Yiddish, non esiste più, e questo
non è ammissibile. È stata la prima volta che ho preso coscienza
che appartenevo a quel popolo lì.
Vengo ora al secondo punto, quello della colpa. Spesso mi hanno
domandato se ho sentito la colpa, e io ho detto, dico “no”. Ho ca-
pito che la colpa, in me come in mia madre, si traduce in un la-
voro permanente. Sono viva perché lavoro. Il lavoro porta delle
soddisfazioni, come quello dell’incontro di oggi con voi. E’ un
sintomo da cui penso non guarirò. Ho cominciato la mia terza ana-
lisi per cercare di guarire da questo sintomo. Non si può vivere
senza lavorare per coloro che sono morti. Dunque è una forma di
colpa. Adesso parlerò del lavoro analitico stesso e del mondo del
transfert. Ho sempre scelto analisti, con i loro fantasmi, che non
assomigliavano ai miei. Analisti che non capivano nulla di tutto
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straneo a questa storia per creare il terzo. E quindi l’analista
non è fantasmato come comprendente ma come ascoltante. Questa re-
lazione tra parlare e ascoltare non è mai esistita nella mia fami-
glia. Ed è questa posizione di ascolto, senza la preoccupazione di
capire che crea quella distanza che garantisce l’alterità. E sono
sempre stata soddisfatta dei miei analisti. Avevo l’impressione di
essere io ad insegnare qualcosa all’analista e questa cooperazione
era una comprensione attorno all’incomprensibile. Penso che i so-
pravvissuti trasmettano dei valori ma non trasmettano gli stessi
valori. La chance che ho avuto, così rispondo anche alla domanda
di prima, è che non mi ha trasmesso una visione paranoica. E quin-
di mi ha trasmesso che bisogna lavorare e che bisogna essere cu-
riosi dell’altro. È necessario negoziare con l’altro sottomet-
tendosi al principio di realtà. Il lavoro psicoanalitico non si
può fare se non con qualche cosa che c’è nella famiglia. Ho ritro-
vato questo nel manoscritto di mio padre. E’ un diverso valore.
Maria Rita Colucci: Ci siamo domandate, Roberta e io, se la pre-
senza oggi di nuovi media come internet cambia qualche cosa ri-
guardo a questa situazione. Il fatto ad esempio che la ragazza
stuprata e massacrata in India sia divenuto oggetto del mondo in
24 ore, uscendo da spazio e tempo, se questo apporta un cambia-
mento che ha un valore dal punto di vista proprio della sopravvi-
venza, della memoria.
Janine Altounian: La tv, la radio non è confrontabile. Resta ino-
perante, non è confrontabile al lavoro della memoria. Siamo una
società che recupera il trauma e lo fa diventare qualcosa di ba-
nale. Non ci sono solo i traumi, ci sono delle scene orribili di
guerra che appaiono tutti i giorni.
Roberta Bommassar: io credo che il lavoro non possa che essere in-
dividuale, lo fa la singola persona. Poi credo che la rete metta
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essere paradossali o ambivalenti.
Janine Altounian: La primavera araba è un evento politico, quindi
è diverso dall’elaborazione.
Simona Taccani: è un tema che meriterebbe lunghe riflessioni, sem-
plificando all’osso, credo che quello che cambia è il tempo, la
dimensione della temporalità. Credo che oggi il reale, è reale la
primavera araba, il conclave è reale, il reale è tutto e questo
cambia l’equilibrio della nostra possibilità di interiorizzare e
di decantare e anche dei nostri stessi meccanismi difensivi. Io
penso che ci siano dei cambiamenti, che non possano non esserci
anche nell’elaborazione dello psichico. Ma comunque la memoria
stessa era una memoria, detto in questo senso, non voglio entrare
nell’argomento stesso di cosa sia la memoria o il ricordo o il non
ricordo ma credo che questa stessa dimensione sia una dimensione
che sicuramente ha prodotto dei notevoli cambiamenti.
Maria Rita Colucci: Io penso che ciò che qui abbiamo sentito è
l’unire l’accadimento con il fattore affettivo.
Janine Altounian: quello invece che è importante è che questi ac-
cadimenti, come quello che ho raccontato, al consolato turco, pos-
sano risvegliare elaborazioni personali.
Simona Taccani: voglio semplicemente dire che sono un po’ più per-
plessa e pessimista che induca un lavoro di riflessione. Penso che
possa circuitare il pensiero, al contrario.
Janine Altounian: sono anch’io pessimista ma credo che gli avveni-
menti politici possano risvegliare un lavoro psichico.
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DISCUSSIONE SUL LAVORO DEI GRUPPI
Altounian risponde alle domande dei gruppi
Domanda: Sono tante le parole e pensieri di fronte a questi tragi-
ci avvenimenti dove la violenza portata a sistema fa uccidere ami-
ci e vicini di casa, com’è possibile? Tanti possono essere i
livelli di intervento intrapsichico. Lei, Janine Altounian ci ha
mostrato il lavoro di una vita, di elaborazione personale, di de-
nuncia sociale. Come sia possibile fare un lavoro di prevenzione
per formare una coscienza sociale più vigile e capace di condanna-
re ogni forma di abuso e annientamento dell’altro, persona o popo-
lo che sia.
Domanda: Che rapporto c’è tra il livello individuale e collettivo
nell’elaborazione del trauma? Quanto il trauma individuale può a-
iutare l’elaborazione del trauma collettivo e viceversa.
Quali tipi di intervento è possibile mettere in atto nei diversi
contesti di lavoro privato/sociale/pubblico?
Janine Altounian: Faccio un breve accenno alla storia. La guerra
del 1914: tedeschi e austriaci da una parte, dall’altra Francia,
Inghilterra e Russia. La Turchia, l’Impero Ottomano era molto va-
sto, ci sono delle parti come la Grecia e il Maghreb, che si sono
sviluppate di più per cui si è rimpicciolito. Gli Armeni erano lì
da tempo, da prima dell’arrivo dei Turchi. Erano all’interno
dell’impero Ottomano e non potevano emanciparsi come hanno fatto
per gli altri territori.
L’impero Ottomano ha usato il disordine, cioè la guerra per elimi-
nare i soggetti cristiani, gli Armeni. Creare un’eliminazione as-
soluta, e il mezzo che hanno messo in atto in modo efficace è
stato la deportazione.
Il 24 aprile 1915, che è una data di commemorazione, gli uomini
sono stati tutti quanti raccolti in una retata, tutti gli intel-
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stati caricati su un treno diretto in Anatolia e massacrati lungo
il tragitto.
Coloro che hanno memoria di questo episodio raccontano che un
quarto della popolazione armena è stata deportata da ogni villag-
gio lungo delle assi di deportazione. Gli uomini sono stati sepa-
rati dalle donne, uccisi decapitati, e le donne e i bambini sono
stati fatti camminare fino a morire di fame e di sete. Le giovani
donne sono state o violentate o vendute: l’uomo non era merce,
mentre la giovane donna e i bambini possono essere venduti come
una merce.
Sono sopravvissuti molto pochi. Gli orfani sono stati raccolti ne-
gli orfanotrofi, ci sono testimonianze dagli stranieri. Qualche
ambasciatore, come quello degli Stati Uniti, ha cercato di inter-
venire con i loro governi ma questi non hanno fatto nulla, in
quanto si occupavano della guerra.
Gli Armeni erano ricchi, dei grandi artigiani, hanno lasciato ca-
se, gioielli, tappeti, sono stati presi e gli economisti dicono
che la Turchia sia diventata molto ricca proprio grazie ai beni
degli Armeni.
Tutto è stato saccheggiato, sono stati utilizzati i predatori per
prendere proprio tutto il possibile. È stato un genocidio diverso
dalla Shoah perché l’organizzatore di questo genocidio non è mai
stato riconosciuto e contrastato dalla comunità internazionale,
come nel caso della Germania, e questo dimostra proprio come una
strage di popolo possa rimanere impunita.
Alcune donne sposate a forza, comprate a caro prezzo, perché le
donne armene erano di educazione fine e allora certi Turchi ama-
vano avere come terza o quarta moglie una donna raffinata. Perché
lo dico? Nel 2004 un avvocato turco ha pubblicato un libro, “Mia
nonna”, tradotto in Francia e forse anche in Italia dove racconta
che un giorno sua nonna, prima di morire, ha rivelato di essere
armena. E oggi molti Turchi discendono da donne islamizzate a for-
za, di origine armena.
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ritti dell’uomo, non dicevano nulla per paura di essere persegui-
tate, quindi era un segreto. Questo libro ha creato un gran
movimento in Turchia, molte persone hanno ritrovato nella loro fa-
miglia una nonna armena.
E poi in un altro libro, “Il libro dei misteri”, questo avvocato,
con una giovane antropologa, ha intervistato molte persone a pro-
posito della presenza di parenti armeni. Queste persone tengono
l’anonimato per non essere discriminate nel loro lavoro.
È vero che c’è un movimento, un qualcosa che si muove anche se la
maggioranza è negazionista.
E quindi torno alla domanda, “come impedire questo..?” beh io non
lo so, se non lo sapete voi…
Seconda risposta:
Prima si diceva bisognerebbe che lo psicoanalista non conoscesse
la storia della Shoah eccetera per capire il paziente ma in realtà
sul divano il lavoro concerne l’individuo. Per dirla in poche pa-
role ciò che importa allo psicoanalista è il genocidio a casa, le
relazioni nella famiglia dei sopravvissuti non sono relazioni di
tenerezza.
P.-C. Racamier ha parlato proprio di questo clima,
nell’incestuale, dei legami, della fusionalità.
Man mano che l’elaborazione individuale avviene e il paziente si
apre alla vita politica acquista una coscienza sociale e può di-
ventare qualcuno che opera per questo. C’è una relazione tra
l’individuale e il collettivo: il mio lavoro oggi con voi è stato
proprio un’illustrazione di questo.
Domanda: La cura psicoterapica significa elaborazione di uno spa-
zio mentale di un terzo. Per una persona traumatizzata ha senso
una terapia individuale e/o di gruppo? In quale fase e quali indi-
cazioni, valutando che nel trauma esiste un significato relaziona-
le?
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Janine Altounian: non bisogna dimenticare che sono cresciuta a Pa-
rigi, nella protezione, nella sicurezza, mi sono sentita sicura,
non eravamo ricchi ma avevamo tutto quello che occorreva. Tra la
casa e la scuola, dove c’erano i compagni, la letteratura, il pia-
cere, vivevo tra i due spazi. Io non ero personalmente traumatiz-
zata. I sopravissuti non possono fare una psicoterapia, solo i
loro figli possono portare in psicoterapia questa esperienza. Que-
sto è molto importante: chi ha vissuto questa esperienza in prima
persona per proteggersi tace, per non rivivere questa esperienza.
Lo tace ai figli ed è il figlio che a partire da questo silenzio
può portare all’elaborazione.
Maria Rita Colucci: Questo è molto innovativo, anche per chi lavo-
ra nel gruppo dell’emergenza.
Janine Altounian: non tutti gli eredi, non sono tutti capaci di
questo.
Domanda: qual è il tempo per l’elaborazione di un lutto così gran-
de? Che cosa può facilitarlo, insomma come si fa a passare
dall’eccezionalità alla normalità?
Janine Altounian: penso che i nodi traumatici restino sempre, ma
che si possa sviluppare a partire da una capacità relazionale, uno
spazio psichico, uno spazio normale, è normale che oggi sia qui
con voi. La persona normale si informa di ciò che accade ma nella
persona anormale, traumatizzata che conosce il trauma, il trauma
rimane. Ed è la persona vivente che sviluppa questa capacità di
vita. Come si chiama questo piacere di vita? Piacere della vita,
delle relazioni, di innamorarsi, di avere figli, di avere un pen-
siero, ma ciò non toglie niente allo stato traumatico, rimane, ri-
mane sempre.
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le generazioni il nostro pensiero si è più spostato al futuro.
Quali sono i segnali di elaborazione del trauma di aver saldato il
debito con il passato? Le generazioni future potranno essere più
libere se i traumi sono stati elaborati individualmente?
Janine Altounian: penso che non si possa liquidare il debito di
fronte alle persone che hanno subito uno sterminio, resta sempre,
penso che sia una ricchezza interiore sentirsi eredi di questa
storia. I bambini che lasciano cadere questa eredità si impoveri-
scono. Bisogna tenere a questa eredità e trasporla perché è una
grande ricchezza, essere sensibili a ciò che succede nel mondo,
questa eredità è un bene che si ama.
Roberta Bommassar: una cosa a cui non avevo pensato, che ha detto
Janine, riguarda la differenza tra la Shoah, l’esperienza degli
Ebrei, e il genocidio degli Armeni. Che riguarda il riconoscimen-
to. L’associazione che ho fatto è questa: nella mia piccola espe-
rienza con il tribunale per i minorenni un momento importante era
quello della mediazione giuridica che è un momento in cui il col-
pevole, cioè il ragazzo che ha commesso il reato incontra la co-
siddetta vittima. In questo incontro c’è la possibilità, per chi
ha commesso il reato, la possibilità di riparare, di riconoscere
ciò che ha fatto e riparare il danno. Credo che l’esperienza degli
Ebrei abbia almeno in parte consentito questo. Cioè noi abbiamo
una generazione di sopravvissuti figli di sopravvissuti ma abbiamo
anche una generazione di nazisti e di figli di nazisti che hanno
dovuto lottare contro il silenzio e contro questa cosa molto gros-
sa che è l’elaborazione della responsabilità dei propri genitori.
Credo che per quanto riguarda l’esperienza della Shoah sia stato
possibile in qualche modo, parlare di riparazione.
Janine Altounian: Cambia che c’è un riconoscimento giuridico, mi
hanno chiesto “che cosa cambia nella vostra vita se la Turchia ri-
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sposto di getto “Beh andrei là e andrei in una delle case di mio
padre”. E la Turchia non riconosce perché se riconoscesse dovrebbe
restituire dei beni.
Domanda: l’umanità si è sviluppata attraverso distruzioni, genoci-
di, traumi e allora la domanda è che cosa permette all’essere uma-
no di sopravvivere a tutti i traumi che da 70.000 anni, dall’homo
sapiens ad oggi ci perseguitano? Ci deve essere qualcosa nella na-
tura umana, qualche forza che permette all’uomo di sopravvivere a
queste cose. Questa è la mia domanda.
Janine Altounian: Nel giornale di mio padre c’è un passaggio in
cui lui racconta di essere stato al mercato e dice “che bello, che
bei colori” ed è conservata la capacità di gioire. C’è questo nel-
la natura umana, che bisogna sviluppare: le buone cose che abbiamo
ricevuto.
CeRP Centro di Ricerca di Psicoterapia Scuola CeRP di specializzazione in psicoterapia
Decreto di riconoscimento MIUR (ex-Murst) 16 novembre 2000 Direttore: dott.ssa Simona Taccani
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•Janine Altounian, L’Intraduisible, Dunod, Paris 2005;
•Janine e Vahram Altounian, Ricordare per dimenticare, Donzelli
Editore, Roma 2007;
•Janine Altounian, “Erede di un’infanzia sacrificata”, in Rivista
di Psicoanalisi, 2007, LIII, 3;
•Janine Altounian, “Di cosa sono testimonianza le mani dei soprav-
vissuti? Dell’annientamento dei viventi dell’affermazione della
vita”, in La psicoanalisi e i suoi confini, a cura di Giuseppe Le-
o, Astrolabio, Roma, 2009;
•Janine Altounian, “Un’emozione indelebile insiste nel volersi
scrivere”, in ID-ENTITA’MEDITERRANEE, Psicoanalisi e luoghi della
memoria, a cura di Giuseppe Leo, Edizioni Frenis Zero, 2010;
•Janine Altounian, “Un’eredità traumatica non si mette a parlare
se non con uno spostamento nel tempo e nello spazio culturale”, in
Scrittura e Memoria, vol.2, Edizioni Frenis Zero, 2012