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3 Centro di Ricerche sull'orientamento scolastico-professionale e sullo sviluppo delle organizzazioni - CROSS - Università Cattolica del Sacro Cuore QUADERNI Pubblicazioni dell'I.S.U. Università Cattolica Il Bilancio di Competenze nell’orientamento e nella formazione continua Cristina Castelli - Chiara Ancona

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3Centro di Ricerche sull'orientamentoscolastico-professionale e sullo sviluppodelle organizzazioni - CROSS -Università Cattolica del Sacro Cuore

QUADERNI

Pubblicazioni dell'I.S.U. Università Cattolica

Il Bilancio di Competenze

nell’orientamento

e nella formazione continua

Cristina Castelli - Chiara Ancona

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Centro di Ricerche sull’orientamento scolastico-professionale e sullo sviluppo delle organizzazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

QUADERNI

IL BILANCIO DI COMPETENZE NELL’ORIENTAMENTO

E NELLA FORMAZIONE CONTINUA

Cristina Castelli - Chiara Ancona

3

Milano 1998

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Comitato Direttivo Cristina Castelli – Lucia Giossi – Luisa Pombeni – Lucia Venini

Comitato Scientifico Luigi Anolli – Vincenzo Cesareo – Vittorio Cigoli – Paola di Blasio – Fernando Dogana –

Mario Groppo – Cesare Kaneklin – Mario Napoli – Assunto Quadrio Aristarchi – Alberto Quadrio Curzio – Tiziano Treu – Giuseppe Vico

Comitato di Redazione Barbara Bertani – Cristina Celli – Claudio Ghidelli – Maria Mancinelli – Emanuela Saita

© 1998 I.S.U. Università Cattolica – Largo Gemelli 1 – 20123 Milano Stampa: Litografia Solari – Peschiera Borromeo (MI) Contributo Fondo Sociale Europeo 1997 n. 5204 - Obiettivo 4 - Asse 1

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Indice

Introduzione .................................................................................................. 7

PARTE I ASPETTI TEORICI

Il Bilancio delle Competenze: genesi di un’idea ................................. 11 1. Le teorie dell’orientamento ............................................................... 12

1.1. Evoluzione degli approcci classici ............................................ 12 1.2. L’approccio psicosociale ............................................................. 20 1.3. Modelli di intervento e pratiche orientative ............................ 25

2. Le origini culturali alla base del Bilancio di Competenze ................. 35 2.1. L’apprendimento dall’esperienza e la formazione

continua ...................................................................................... 35 2.2. Il Bilancio di Competenze come strumento per il

riconoscimento e la certificazione delle competenze .................. 38

Il Bilancio delle Competenze: per una definizione del concetto ............................................................ 47

1. La nozione di “Bilancio” .................................................................... 47 1.1. Bilancio ed Orientamento: quale rapporto? ............................. 47 1.2. Il Bilancio secondo la legge ....................................................... 51 1.3. Il Bilancio o i Bilanci? ............................................................... 55

2. Il concetto di “competenza” ............................................................... 59 2.1. Dall’analisi della posizione al concetto di competenza ................. 60 2.2. Approcci e modelli teorici alla competenza.............................. 64 2.3. La competenza nel Bilancio di Competenze ............................ 87

3. La Metodologia del Bilancio di Competenze ................................... 97 3.1. Le linee di fondo ........................................................................ 97 3.2. Approcci e strumenti di misura .............................................. 100

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Il Bilancio delle Competenze: gli orientamenti del modello francese ................................................ 113

1. Le origini del Bilancio di Competenze ed il contesto istituzionale-normativo di riferimento .......................................... 113

2. Il dispositivo del Bilancio di Competenze ...................................... 119 2.1. Attori ed organismi coinvolti nel processo ............................. 119 2.2. Regole deontologiche ............................................................... 124

3. Il processo del Bilancio di Competenze .......................................... 126 3.1. Finalità e modalità del processo ............................................. 126 3.2. Le fasi del processo .................................................................. 128 3.3. Gli strumenti utilizzati nel processo ...................................... 132 3.4. I risultati del processo ............................................................. 138

PARTE II PRESENTAZIONE DI UN’ESPERIENZA

«Il Bilancio delle Competenze: punto di partenza per riprogettare la propria identità professionale» Analisi di un’esperienza .......................................................................... 145

1. Descrizione del progetto: ................................................................. 146 1.1. Il contesto di riferimento ........................................................ 146 1.2. Tipologia, reclutamento e selezione dei partecipanti ........... 147 1.3. Finalità e motivazioni del progetto ........................................ 149 1.4. Struttura ed articolazione del percorso ................................. 150 1.5. Aspetti metodologici ................................................................ 154 1.6. Contenuti e strumenti dell’intervento ................................... 156

2. Risultati del percorso di Bilancio di competenze .......................... 160 2.1. Il monitoraggio finale ed i commenti dei partecipanti ............... 162

3. Osservazioni conclusive ................................................................... 165

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APPENDICE ............................................................................................... 169 Accord national interprofessionnel du 3 juillet 1991 ......................... 170 LOI n° 91-1405 du 31 décembre 1991 relative à la formation

professionnelle et à l’emploi. .......................................................... 172 Décret n° 92-1075 du 2 octobre 1992 relatif au bilan de

compétences ..................................................................................... 174

ALLEGATI .................................................................................................. 179

BIBLIOGRAFIA ......................................................................................... 205

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Introduzione

Il volume affronta l’argomento del Bilancio di Competenze cercando di rispondere alle tante domande riguardanti il significato della nozione in rapporto al tema dell’orientamento e s’interroga sui possibili campi d’applicazione in una società come la nostra contrassegnata da grandi cambiamenti tecnologici, economici e politici che accompagnano importanti modificazioni in vari settori d’attività professionali.

L’ambizione è quella di riuscire a coniugare coerenza teorica ed indicazioni pratiche, fornendo una panoramica su di un tema considerato molto attuale ma che, inevitabilmente, porta ancora i segni visibili dei lavori in corso. Mentre in Francia, dal 1991, il Bilancio di Competenze è legalmente riconosciuto e quindi ampliamente applicato, in Italia, per ora, è ancora a livello di dibattito tra gli addetti che si occupano di orientamento e di Gestione delle Risorse Umane.

Le riflessioni che presentiamo rappresentano il frutto di esperienze di diversa natura: visite sul campo alla realtà francese, confronti con esperti e formatori sia italiani che stranieri ed applicazione sperimentale della metodologia del Bilancio di Competenze con un gruppo di persone disoccupate, compiuta nell’ambito di un progetto del Fondo Sociale Europeo realizzato dal CROSS nel 1997. Tali esperienze ci hanno portato a riflettere sull’importanza e l’interesse del Bilancio di Competenze per la crescita professionale della persona lungo l’itinerario che la conduce ad una maggiore consapevolezza di sé e della realtà circostante.

Il Bilancio di Competenze rappresenta un percorso utile per decidere del proprio avvenire professionale poiché offre l’opportunità di venire a conoscenza del maggior numero possibile di informazioni sulle proprie risorse e le proprie potenzialità, in modo da poterle implicare ed indirizzare verso l’attuazione delle strategie più opportune per la realizzazione del progetto di sviluppo (personale e professionale) individuato.

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Al fine di raggiungere tale obiettivo, sono possibili numerose modalità di applicazione del Bilancio di Competenze; non è quindi possibile identificare un modello universale di Bilancio, ma dei percorsi differenziati che è necessario adattare in funzione di alcune variabili fondamentali riguardanti i soggetti coinvolti, la loro storia, il loro itinerario scolastico-lavorativo ed i loro obiettivi professionali. È possibile comunque individuare una serie di strumenti, presentati nel testo, che aiutano a tal fine.

In particolare i contenuti di tale lavoro, sono stati suddivisi in due parti: nella prima parte vengono analizzati i presupposti teorici alla nascita del Bilancio di Competenze (Cap. 1), definiti i termini di riferimento (“Bilancio” e “competenza”) e le metodologie utilizzabili (Cap. 2) ed, infine, descritto il modello francese di applicazione del percorso (Cap. 3). La seconda parte del lavoro, invece, è riservata alla documentazione e all’analisi di un’esperienza pratica di Bilancio, realizzata dal Centro CROSS dell’Università Cattolica di Milano.

Siamo consapevoli del fatto che la quasi totalità di ciò che abbiamo scritto dipende da quanti, prima di noi, si sono dedicati a tali studi, documentando le loro esperienze; ad essi, quindi, va la nostra gratitudine. Un pensiero anche a chi, in Dipartimento, ha collaborato al fine di rendere possibile la stesura di questo lavoro: Miriam Magnoni, Cleopatra Pagani, Fabio Sbattella e anche Angelo Boccato e Carla Bosisio. Profonda gratitudine anche a tutti coloro i quali hanno permesso, fra ostacoli burocratici quasi insuperabili, di compiere la sperimentazione nelle migliori condizioni. Speriamo che questo documento contribuisca a stimolare un dibattito su di un tema, il Bilancio di Competenze, da intendersi non come “rimedio miracoloso” per i problemi del lavoro ma come una strada che, assieme ad altre, può contribuire allo sviluppo di una cultura tesa alla valorizzazione e alla promozione della persona.

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PARTE I ASPETTI TEORICI

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Il Bilancio delle Competenze: genesi di un’idea

Questo primo capitolo intende apportare dei chiarimenti in merito all’ambito teorico in cui nasce e s’inserisce l’approccio metodologico utilizzato nel contesto dei Servizi di orientamento e per l’Impiego, definito come “Bilancio delle Competenze”. È fondamentale, infatti, prima d’introdursi nello studio della metodologia del Bilancio delle Competenze, definire, per meglio comprenderne la finalità e le potenzialità, l’alveo culturale e scientifico nel quale esso si è sviluppato.

Ad un primo approccio al tema del Bilancio delle Competenze, risulta subito evidente l’eterogeneità di definizioni, applicazioni e funzioni ad esso associate, soprattutto nel contesto italiano. Il termine “Bilancio delle Competenze” è spesso soggetto ad una serie di fraintendimenti, malintesi e confusioni dovuti, soprattutto, all’ambiguità dei termini che fanno parte del suo campo semantico; “parole come competenza, atteggiamento, interesse, valore, sono dotate di più significati che evocano rappresentazioni diverse a seconda del contesto in cui si collocano” (J. Aubret, F. Aubret e C. Damiani in I. Palmonari, 1996). Proprio questa molteplicità di aspetti e di significati associati al Bilancio delle Competenze, lo rendono un termine suscettibile di essere utilizzato per designare, di volta in volta, una metodologia innovativa capace di risolvere problemi che solo in parte rientrano nel suo reale campo di applicazione, oppure semplicemente un nuovo modo di indicare metodologie in realtà tradizionali (A. Selvatici, 1997).

In questo modo è possibile parlare di Bilancio delle Competenze in riferimento ad ambiti ed applicazioni che, pur appartenendo a sfere attigue, delineano caratteristiche ed aree di intervento particolari come, ad esempio, la Gestione delle Risorse Umane, i servizi di orientamento professionale, le politiche di reinserimento di lavoratori disoccupati, la valutazione e la selezione del personale, la formazione continua e permanente.

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Di fronte ad una tale eterogeneità di ambiti e problematiche, e volendo affrontare il tema del Bilancio delle Competenze, la soluzione che ci è parsa maggiormente adeguata è stata quella di partire dall’analisi del modello francese più conosciuto e diffuso nella sua applicazione; a tal fine, ne abbiamo ripreso e riproposto il significato originale, la filosofia di intervento che lo ha ispirato, i presupposti metodologici ed, infine, lo abbiamo utilizzato come chiave di lettura dei vari interventi che, a volte impropriamente, vanno sotto il nome di Bilancio delle Competenze.

Tornando all’intenzione che ci muove in questa prima parte, lo scopo di questo capitolo sarà quello di descrivere alcuni presupposti teorici allo sviluppo del Bilancio delle Competenze: verrà analizzato, infatti, il retroterra culturale in cui esso si inserisce, ripercorrendo, a grandi linee, l’evoluzione delle teorie dell’orientamento e della formazione continua che ne hanno permesso la nascita e lo sviluppo; tratteremo, inoltre, anche il tema delle politiche di riconoscimento e certificazione delle competenze, all’interno delle quali il Bilancio di Competenze trova sicuramente spazi d’inserimento.

1. Le teorie dell’orientamento

1.1. Evoluzione degli approcci classici Il concetto e la pratica di orientamento hanno subito, in questo secolo,

delle profonde modificazioni influenzate, contemporaneamente, da fattori legati alle rapide trasformazioni sociali, economiche e produttive, e dal susseguirsi di differenti modelli e concezioni dell’uomo e del suo rapporto con l’ambiente circostante (Y. Forner, J. Guichard, in M.L. Pombeni, M.G. D’Angelo, 1994). L’intervento orientativo, infatti, considerando sia i bisogni dell’individuo sia i bisogni della società, intesa come referente del mondo del lavoro, non può prescindere dal contesto sociale ed economico e dalle continue evoluzioni che lo accompagnano. Se, infatti, ciò che caratterizza l’orientamento è, innanzitutto, la volontà di “favorire nell’individuo la ricerca e la comprensione della propria identità e la soddisfazione delle proprie motivazioni più autentiche, dall’altro lato, la

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realizzazione personale deve operarsi all’interno di un articolato rapporto con la realtà sociale in generale e con l’attività lavorativa in particolare, in un equilibrato rapporto di interazione tra fattori individuali e fattori sociali” (C. Castelli, L. Venini, 1996). Il concetto di orientamento, quindi, è andato progressivamente modificandosi, in concomitanza con le trasformazioni sociali, economiche e produttive e con la diversa collocazione di volta in volta attribuita all’individuo all’interno dell’organizzazione sociale, del mondo del lavoro e delle realtà produttive (C. Castelli, L. Venini, 1996).

Alla luce di tali considerazioni e nel tentativo di ricostruire l’evoluzione e lo sviluppo dei presupposti teorici e metodologici dell’orientamento, ci serviremo del lavoro di periodizzazione già svolto da G. Scarpellini e E. Strologo (1976) e successivamente ripreso anche da M.L. Pombeni (1996); questi autori hanno identificato all’interno della storia delle teorie dell’orientamento, almeno quattro tappe fondamentali:

* Approccio psicoattitudinale

Il presupposto di partenza di tale approccio consiste nell’affermazione dell’esistenza, nell’individuo, di attitudini stabili definite come predisposizioni naturali ed ereditarie, presenti in misura differente da persona a persona e misurabili attraverso i reattivi prodotti dalla psicotecnica o, successivamente, attraverso la tecnica dell’analisi fattoriale; lo scopo che si prefigge l’orientamento è, in questa prima fase, quello di stabilire le corrispondenze tra le attitudini possedute dagli individui ed i requisiti professionali richiesti per lo svolgimento di una determinata attività lavorativa. La filosofia sottesa a questo approccio è quella dell’ “uomo giusto al posto giusto”; tali presupposti “risentono almeno di due pretese meccaniche: essi stabiliscono infatti che in ogni individuo esistono delle capacità e disposizioni congenite tali da renderlo più adatto a certe professioni che richiedono precisamente quelle tipiche abilità [...] e inoltre che si possono costruire prove oggettive a misura delle singole capacità per cui è evidente la conclusione verso l’orientamento di tipo psicotecnico, meccanicistico e strumentalistico” (G. Scarpellini, E. Strologo, 1976).

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* Approccio caratterologico-affettivo

A partire dagli anni ‘30, in seguito anche a delle ricerche relative allo studio del rendimento lavorativo (F. Baumgarten, 1949 in M.L. Pombeni, 1996), viene messa in luce l’inadeguatezza dell’approccio delle attitudini nello spiegare il livello di riuscita lavorativa; la nuova variabile che viene introdotta come determinante dell’adattamento e del rendimento lavorativo, è quella degli interessi che rappresentano la principale spinta motivazionale relativa all’esperienza professionale. Il concetto di interesse comporta, quindi, l’affermazione secondo cui “risulta adatto ad un determinato lavoro non solo colui che sa fare grazie ad attitudini specifiche, ma colui che trova piacere a fare, in quanto ha interessi particolari che lo sostengono” (C. Castelli, L. Venini, 1996). In questo approccio, quindi, “l’azione orientativa si sposta verso l’intimo della vita psichica: dalla percezione esterna delle attitudini-capacità ci si orienta a cogliere la disponibilità interiore affettiva e caratterologica dell’uomo al lavoro” (M. Viglietti, 1983) attraverso l’utilizzo dei più sofisticati strumenti offerti dalla psicometria.

Riassumendo, è possibile identificare, tra i due approcci appena

descritti, delle forti analogie che ci permettono di accomunarli sotto la denominazione di “teorie tratto-fattore” (fase psicometrica dell’orientamento); queste analogie si riferiscono, in particolare, ai seguenti assunti da essi presupposti: – una determinata concezione della persona come soggetto che possiede

delle caratteristiche (attitudini, tratti, interessi...) stabili nel tempo, identificabili e misurabili;

– un ruolo sostanzialmente dipendente e passivo dell’individuo rispetto al processo orientativo che lo vede delegare le scelte relative alla propria carriera professionale all’esperto professionista;

– una pratica orientativa finalizzata a combinare le persone alle occupazioni;

– una concezione dell’orientamento come evento limitato e circoscritto ad un preciso momento della vita dell’individuo.

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* Approccio clinico-dinamico

A partire dagli anni ‘50, comincia a diffondersi un nuovo modo di intendere il lavoro, non più come aspetto isolabile della vita dell’individuo, bensì come possibile fonte di soddisfazione dei bisogni dell’uomo; in quest’ottica, quindi, viene ricercato un più stretto legame tra l’attività lavorativa e la personalità. Tale evoluzione porta, come conseguenza, quella di attribuire all’orientamento il nuovo compito di scegliere, tra le varie professioni, quella che maggiormente sembra soddisfare i bisogni profondi dell’individuo (G. Giugni, 1987). L’oggetto dell’analisi si sposta, quindi, dai tratti alle inclinazioni, intese come l’espressione dei bisogni più profondi della personalità ed indagati attraverso i metodi classici della psicologia clinica. Secondo A. Gemelli (1960), sostenitore di tale approccio, “non vi può essere riuscita professionale se non vi è corrispondenza tra il lavoro svolto e le inclinazioni personali” (in A. Marzi e S. Chiari, a cura di, 1960), definite come disposizioni specifiche verso un campo di attività e come espressione della maturità della persona, che trovano la loro origine nei meccanismi profondi dell’inconscio.

In questa fase “si pone attenzione non su singole abilità del soggetto, ma sulla sua personalità, sul modo con cui essa si sviluppa, sulle relazioni emotive, affettive e cognitive su cui si fonda. Rappresenta un modo molto più attento di considerare i soggetti durante il periodo delle loro scelte fondamentali, che influenza anche la concezione e la pratica dell’orientamento. Si comincia ad affermare che l’orientamento non può essere finalizzato ad un singolo mestiere, bensì ad una carriera professionale più ampia, ad una famiglia di mestieri o professioni. Tale attività, inoltre, deve tener conto dell’evolversi della struttura della personalità e, quindi, non limitarsi ad un singolo momento e non concentrarsi in un unico consiglio valido una volta per tutte. È in questo ambito teorico che si sviluppano le procedure di counseling per sostenere le decisioni del soggetto” (in F. Novara, R.A. Rozzi e G. Sarchielli, 1993).

Questo approccio fornisce dunque dei contributi fondamentali e determinanti per l’evoluzione verso quelle teorie dell’orientamento che permetteranno lo sviluppo del Bilancio delle Competenze:

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l’accento sull’uomo e sulla sua personalità (anziché sull’adattamento dell’uomo al lavoro), come fattore determinante della motivazione e della riuscita professionale;

l’evolvere della concezione di orientamento verso un approccio più dinamico che lo vede sempre più come processo continuo che accompagna l’individuo durante tutto il corso della sua carriera professionale;

una concezione più globale e dinamica dell’individuo che lo considera nei suoi aspetti più profondi legati a dimensioni emotive e cognitive, come soggetto in continuo sviluppo ed evoluzione verso il raggiungimento della sua maturità. Nonostante il contributo fondamentale fornito da questo approccio,

occorre sottolineare che fino a questo momento il punto di riferimento utilizzato dall’orientamento, sia teoricamente che metodologicamente, rimane quello della psicologia con l’inevitabile conseguenza di tralasciare, nell’analisi dei fattori che caratterizzano ed influenzano l’individuo, quelli di origine ambientale, economica e sociale.

Ciò che accomuna queste tre prime fasi dell’orientamento è la loro visione di un modello orientativo che riserva al soggetto un ruolo sostanzialmente passivo mentre il ruolo dominante è quello svolto dallo specialista che orienta (C. Castelli, L. Venini, 1996).

Ognuno di questi approcci, quindi, costituisce, nell’evoluzione dei modelli teorici e delle pratiche operative dell’orientamento, un punto di riferimento fondamentale ma ancora parziale, in quanto non fornisce una chiave di lettura che, prendendo in considerazione l’interazione fra i diversi fattori considerati, possa tentare di essere esaustiva.

* Approccio maturativo-personale

La critica agli approcci precedentemente descritti ha portato allo sviluppo di una nuova concezione dell’orientamento, che pone al centro dell’intervento l’individuo, la sua autodeterminazione e la sua autonomia nei confronti dell’inserimento professionale (C. Castelli, 1996).

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Questa fase dell’orientamento, che caratterizza il dibattito degli anni ‘60, trova i suoi riferimenti teorici più significativi nei lavori di E. Ginzberg sulla scelta professionale, successivamente ripresi ed ampliati da D. Super, il quale è pervenuto all’elaborazione della teoria dello sviluppo vocazionale.

Il presupposto di partenza di Super è che sia possibile individuare, nel processo di sviluppo di ogni individuo, delle tappe evolutive di maturazione alla scelta; in questo approccio la persona viene considerata come soggetto dotato di potenzialità di emancipazione e di autorealizzazione che gli rendono possibile affrontare un processo di continua riorganizzazione della propria esperienza, in risposta alle occasioni psicologicamente significative che gli vengono offerte durante il suo sviluppo personale, frutto delle interazioni con l’ambiente. Il principio essenziale che caratterizza questa teoria consiste, quindi, nell’affermazione dello sviluppo come processo continuo che accompagna l’individuo lungo tutta la sua vita, lo conduce irreversibilmente da una fase di dipendenza ad una di autonomia e all’interno del quale è possibile identificare degli stadi decisivi per la maturazione di determinati obiettivi evolutivi. Si delinea così “un modello di carriera lavorativa che interessa tutto l’arco esperienziale del soggetto il quale partecipa alla costruzione della propria esperienza lavorativa interagendo in maniera dinamica con una realtà sempre più complessa ed articolata” (M.L. Pombeni, 1996).

Può risultare interessante soffermarsi su alcuni dei concetti presi in considerazione e sviluppati all’interno della teoria dello sviluppo vocazionale particolarmente importanti anche ai fini della successiva elaborazione della pratica del Bilancio delle Competenze: – il concetto di stadio: Super distingue, nel corso dell’esistenza

dell’individuo, la presenza di cinque stadi vitali, che rappresentano i principali segmenti della sua vita e che demarcano le maggiori funzioni dell’esistenza lavorativa; essi sono: la crescita, l’esplorazione, la stabilizzazione, il mantenimento ed il declino. Ognuno di questi stadi è caratterizzato da quelli che Super definisce compiti di sviluppo, utilizzati per l’analisi dei progressi compiuti dal soggetto durante l’arco di vita; “il superamento positivo di un compito di sviluppo comporta un

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sentimento di benessere psicologico ed aiuta la persona ad affrontare con maggiori risorse i successivi compiti; l’insuccesso invece comporta sentimenti di disagio che possono minacciare l’identità del soggetto” (Havighurst e Gottlieb, 1975, in M.L. Pombeni, 1996).

– il concetto di sé: “tale modello parte dalla considerazione dei processi più profondi che toccano il soggetto [...] con particolare riguardo alla definizione della sua identità personale e sociale e ai modi con cui egli giunge ad ottenere rappresentazioni mentali delle professioni e della società” (F. Novara, R.A. Rozzi e G. Sarchielli, 1993); il concetto di sé rappresenta, dunque, per Super, il principio motore attraverso cui si esplica la carriera professionale; ogni individuo, infatti, tende ad organizzare la propria esperienza professionale in relazione all’immagine di sé che si è costruito progressivamente nell’affrontare e superare i diversi compiti evolutivi e nel tradurre questa esperienza in termini professionali. L’adattamento lavorativo è dunque considerato come il processo che aiuta l’individuo a sviluppare e ad accettare l’immagine adeguata di sé e del suo ruolo nel mondo del lavoro. Come sostiene Herr (1984): “la teoria dello sviluppo professionale ci ha fatto capire l’importanza della nozione di sé per strutturare la realtà dell’individuo e generare/filtrare le azioni”.

– il concetto di transizione: tale concetto si riferisce alla rappresentazione di una zona limite tra due stati di grande stabilità (cioè gli stadi), ed è utilizzato da Super in riferimento al cambiamento che avviene all’interno della persona e, in particolare, a quella condizione di riorganizzazione psicologica che l’individuo deve superare per affrontare gli eventi critici relativi alla propria carriera lavorativa che, quando si verificano improvvisamente ed inaspettatamente, possono comportare delle crisi rilevanti sia dal punto di vista personale che professionale. Riteniamo importante, a questo punto, sottolineare quegli elementi

della teoria di Super che costituiscono un punto di rottura fondamentale nell’evoluzione delle teorie e delle pratiche orientative; innanzi tutto lo scopo che viene attribuito all’azione orientativa è quello di aiutare il soggetto ad acquisire consapevolezza della propria carriera professionale,

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al fine di facilitare i processi di scelta messi in atto nei momenti di transizione, attraverso la presa di coscienza delle strutture cognitive ed interpersonali costruite nel corso delle fasi precedenti dello sviluppo. Viene così superata la tendenza ad attribuire al soggetto dell’azione orientativa una posizione di dipendenza e viene invece messa in luce la dimensione processuale dell’orientamento all’interno della quale si sottolinea la possibilità di autodeterminazione umana nei confronti del proprio inserimento sociale e professionale. “Questo modello vede il soggetto in una posizione attiva, in quanto è il soggetto stesso ad individuare in sé il cammino da percorrere, a costruire la sua esperienza lavorativa interagendo dinamicamente con la realtà esterna e ponendo se stesso al centro del processo decisionale” (C. Castelli, L. Venini, 1996).

La prospettiva dell’orientamento si trasforma così da funzione di

selezione sociale a processo di educazione alla scelta, come dimostra in maniera evidente anche la definizione di orientamento fornita in occasione del seminario UNESCO tenutosi nel 1970 a Bratislava: “orientare significa porre l’individuo in grado di prendere coscienza di sé e di progredire per l’adeguamento dei suoi studi e della sua professione alle mutevoli esigenze della vita con il duplice obiettivo di contribuire al progresso della società e di raggiungere il pieno sviluppo della persona”. Al centro di questo processo viene cioè messo l’individuo che si deve orientare, favorendo sempre di più lo sviluppo di una logica di autorientamento in cui il soggetto è considerato come primo responsabile delle proprie scelte e “agente principale dei processi dinamici che liberano le risorse capaci di sostenerne la promozione, la maturità, l’autonomia agli effetti delle decisioni da prendere” (A. Augenti, 1984). L’azione orientativa viene messa in stretto rapporto con il problema dell’emancipazione globale della persona e della sua formazione permanente; quello che viene messo in crisi è “lo schema diagnostico che modellava l’azione di orientamento sugli accertamenti dell’esperto riguardo le potenzialità del cliente” e che “accettava sostanzialmente il presupposto che le due realtà confrontate fossero stabili nel tempo: il giovane, al termine della sua formazione scolastica, desideroso di inserirsi nella vita attiva da un lato, e la

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professione ben strutturata dall’altro, professione che si sarebbe dovuta esercitare in modo stabile ed identico nel tempo” (M. Viglietti, 1985). Si delinea così un rapporto sempre più stretto tra il processo continuo dell’orientamento attraverso il quale l’individuo sviluppa capacità e acquisisce strumenti che lo rendono sempre più consapevole e capace di compiere scelte responsabili di fronte alla realtà che lo circonda, ed il processo di formazione permanente. Nelle condizioni di transizione che caratterizzano il sistema economico e sociale dagli anni ‘70 in poi, diventa sempre più necessario che gli individui acquisiscano la capacità di operare scelte inerenti la propria carriera professionale in un processo di circolarità ed alternanza tra esperienze formative ed esperienze lavorative in cui il soggetto è chiamato continuamente a ridefinire le proprie strategie orientative ed il proprio progetto professionale.

“L’intervento orientativo si caratterizza sempre più come strumento che mette a disposizione delle metodologie, piuttosto che delle risposte, per sviluppare nel soggetto delle competenze orientative finalizzate a fronteggiare positivamente le diverse esperienze di transizione e più in generale ad acquisire la maturità orientativa” (M.L. Pombeni, 1996).

1.2. L’approccio psicosociale Differenziandosi dagli approcci precedentemente considerati, “questo

modello tenta di collocare gli sforzi del soggetto per darsi una propria identità e per divenire adulto capace di scelte soddisfacenti, nel quadro dei processi di acquisizione dei ruoli sociali e delle abilità per agire in un dato sistema di relazioni sociali” (F. Novara, R.A. Rozzi e G. Sarchielli, 1983). All’interno di tale prospettiva, uno dei filoni di studio più importanti riguarda l’analisi del processo di socializzazione lavorativa; questo concetto viene introdotto per indicare “una particolare forma di interazione tra soggetto (le sue risorse, la sua costellazione motivazionale, i progetti di vita...) e contesto organizzativo (fatto di persone, modelli, regole e procedure) in cui entrambi possono essere reciprocamente influenzati, giungendo a risultati finali non predefiniti in partenza, ma connessi con le concrete possibilità di negoziazione presenti nelle diverse tappe del processo interattivo” (G. Sarchielli, 1983). L’analisi del rapporto

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tra l’individuo e la sua attività lavorativa viene quindi collocata all’interno di un complesso e continuo processo di socializzazione adulta, durante il quale il soggetto acquisisce delle strategie per affrontare le diverse situazioni in cui si viene a trovare cercando di esercitare su di esse un controllo attivo ed efficace. La carriera lavorativa si configura, quindi, come un percorso evolutivo connotato dal succedersi di una serie di situazioni particolarmente significative, in cui il soggetto, dotato di potenzialità di sviluppo e di autorealizzazione, partendo dall’analisi della propria esperienza, delle proprie risorse e dei vincoli imposti dalla situazione, costruisce attivamente il proprio iter formativo e professionale, anche attraverso la modifica dei propri atteggiamenti, interessi e comportamenti.

Un’altra variabile che entra in gioco, nel processo di socializzazione lavorativa, è quella che fa riferimento al paradigma delle rappresentazioni sociali; la rappresentazione può essere definita come un sistema di lettura che conferisce significato alla realtà, in questo caso socio-professionale, dell’individuo e che gli permette di sviluppare, nei confronti del lavoro, degli atteggiamenti, dei valori, delle aspettative e delle opinioni che condizioneranno il processo di presa di decisione e l’affronto della situazione di transizione professionale.

Il soggetto, infatti, nella sua scelta professionale deve riuscire ad operare una mediazione tra le attese e le aspirazioni personali e le variabili oggettive legate al mercato del lavoro; nel processo decisionale, quindi, svolgono un ruolo determinante sia le rappresentazioni che il soggetto possiede di se stesso, sia le rappresentazioni che egli si è costruito, nel corso della sua esperienza, circa i rapporti attraverso cui egli si relaziona con l’ambiente circostante, che gli consentono di orientarsi nella società, riconoscersi e percepirsi come riconosciuto dagli altri (C. Castelli, L. Venini, 1996).

Fondamentale diventa, a questo punto, lo studio dei processi di costruzione dell’immagine di sé e dell’identità; tali processi si configurano come processi dinamici che derivano dall’interazione individuo-società, in termini di reciproca influenza. Esistono due diversi aspetti della rappresentazione di sé: l’identità personale (consapevolezza di sé basata

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sul proprio punto di vista e sull’insieme delle caratteristiche che il soggetto ritiene di possedere: capacità, attitudini, disposizioni, motivazioni, aspettative...) e l’identità sociale (quella parte dell’immagine di sé che deriva dalla consapevolezza di appartenere ad uno o più gruppi sociali e che riflette, quindi, le reti di relazioni in cui l’individuo è inserito). Particolare interesse, nel nostro discorso, riveste il concetto di identità professionale che può essere incluso all’interno di quello di identità sociale; l’identità professionale, che si costruisce gradualmente nel corso del processo di socializzazione al lavoro, può essere definita come “l’insieme delle autorappresentazioni che il soggetto sviluppa in rapporto all’attività lavorativa” (L. Venini, 1996).

Il tipo di intervento orientativo che, a partire da queste osservazioni, viene a delinearsi, è quindi caratterizzato dalle dimensioni della continuità, della progressione e del coordinamento affinché si possa assistere l’individuo durante il suo intero corso esistenziale e professionale, nell’affrontare attivamente tutti quei numerosi momenti di transizione psicosociale che caratterizzano sempre di più l’esperienza lavorativa. Questi momenti di transizione, che si verificano in concomitanza ai compiti di sviluppo che l’individuo deve affrontare nelle varie fasi del suo percorso professionale, vengono descritti come degli eventi stressanti per il soggetto, il quale si trova a dover vivere una condizione di crisi o disagio psicologico ogni volta si ponga la necessità di riorganizzare e ristrutturare la propria esperienza di vita. Questa situazione critica, causata dal disorientamento del soggetto di fronte ad un evento nuovo e non controllabile attraverso l’utilizzo delle strategie e dei comportamenti abitualmente messi in opera, può comportare, per il soggetto, sia una minaccia per il proprio equilibrio psicologico e per l’identità acquisita, sia una potenziale occasione di emancipazione e sviluppo; la capacità di affrontare e di gestire positivamente una situazione di transizione varia da soggetto a soggetto e dipende, contemporaneamente, da fattori emozionali (legati ai vissuti soggettivi dell’esperienza), e da fattori cognitivi (legati all’adeguatezza delle mappe cognitive e degli schemi interpretativi posseduti dal soggetto). Questa variabilità individuale è dovuta, almeno in parte, al bagaglio di risorse che

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il soggetto ha a propria disposizione per fronteggiare le situazioni; tra queste risorse possiamo sicuramente ricordare gli stili personali di coping, cioè quelle strategie, elaborate nel corso del proprio percorso evolutivo, che permettono l’attivazione di comportamenti specifici finalizzati alla risoluzione dei problemi; altre due variabili particolarmente importanti nella spiegazione delle differenze individuali, sono quelle che si rifanno ai costrutti di “self-efficacy” e di “locus of control”. La self-efficacy si può definire come la percezione che il soggetto ha di sé in relazione alla propria capacità di portare a termine con successo il compito evolutivo o la difficoltà che si trova ad affrontare (L. Schunk 1989, in M.L. Pombeni, 1990); tale percezione risulta, però, condizionata dall’autovalutazione che il soggetto fa della propria esperienza precedente di successi ed insuccessi conseguiti nel superamento di compiti incontrati fino a quel momento. Questo costrutto viene completato e rinforzato da quello di locus of control, che si riferisce, invece, al processo di attribuzione causale messo in opera dal soggetto rispetto al proprio comportamento e agli eventi in cui si trova coinvolto, cioè al fatto che egli si percepisca più o meno in grado di determinare ed influenzare l’andamento del proprio percorso lavorativo (J.B. Rotter 1966, in M.L. Pombeni, 1990). Un individuo che non si sente artefice della propria esperienza, tenderà sicuramente ad assumere un atteggiamento passivo in ogni circostanza si trovi, mentre, al contrario, una persona che si percepisce responsabile delle proprie azioni e capace di influenzare le circostanze, si porrà, anche nei confronti di una situazione di transizione psicosociale, con un atteggiamento di fiducia e di attività propositiva, utile per un suo positivo superamento. A partire da queste osservazioni, alcuni studiosi (Cohen, Evans e altri), hanno elaborato la teoria secondo la quale quando un individuo comincia a ritenere che qualsiasi comportamento messo in atto non gli permetterà di risolvere positivamente la situazione, si sviluppa un sentimento di “impotenza appresa”, causato proprio dalla responsabilità che il soggetto si autoattribuisce circa il fatto di non essere in grado di controllare gli effetti del proprio comportamento.

Quando il soggetto si rende conto che la situazione in cui si trova richiede delle soluzioni che non è in grado di raggiungere con le proprie

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forze, sperimenta una condizione di malessere psicologico che incide in maniera negativa sulla definizione della propria identità personale e professionale. “Il processo di socializzazione al lavoro” – infatti – “chiama in causa la costruzione, il consolidamento o la modifica dell’identità professionale dell’individuo nel momento in cui la persona riconosce nell’attività lavorativa delle possibilità di traduzione operativa del proprio self” (G. Sarchielli, 1983).

In questa prospettiva l’intervento orientativo si configura come un intervento di supporto alla persona nel fronteggiamento delle difficoltà connesse ai compiti di sviluppo propri delle situazioni di transizione dell’esperienza professionale (ad esempio quelle relative ai processi decisionali o alla perdita del ruolo lavorativo) e come strategia di prevenzione nei confronti di esperienze individuali di insuccesso o di disagio; il processo orientativo è quindi concepito come un sostegno continuo alla persona nel corso di tutta la sua vita, per favorire l’interazione tra l’individuo ed il suo ambiente (processo di socializzazione lavorativa) in modo che, attraverso la messa in discussione (con colloqui individuali o di gruppo) dei vissuti soggettivi, degli schemi cognitivi e delle strategie di coping possedute, possa partecipare attivamente alla costruzione e allo sviluppo permanente di sé e della propria carriera professionale. La finalità ultima di ogni azione orientativa consiste, quindi, nell’aiutare l’individuo a dominare cognitivamente ed emotivamente la novità e la complessità connesse alle situazioni di transizione che deve affrontare nel corso della sua vita lavorativa, in modo da acquisire la capacità di sapersi orientare all’interno di questi elementi; quello che deve essere sviluppato, nel corso e per mezzo dell’intervento orientativo diventa, quindi, la competenza ad orientarsi, o meglio, ad autorientarsi. Questo approccio consulenziale fa, così, riferimento ad un modello di uomo dinamico, in continua evoluzione e sviluppo, capace di “costruire i significati della propria esperienza storica a partire dalle risorse personali che ha a disposizione e dalle condizioni del contesto socio-ambientale in cui vive” (M.A. Zimmerman 1990, in M.L. Pombeni, 1996). La pratica orientativa messa in atto si propone di facilitare, nel soggetto che vi si sottopone, lo sviluppo dell’empowerment, cioè di quella forma di

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potere interno alla persona inteso come insieme di competenze, forze, motivazioni intrinseche e capacità di mobilitazione delle proprie energie, che facilita il governo attivo di una situazione o di un evento. L’orientamento deve quindi sviluppare ed attivare qualcosa che è già intrinseco al soggetto, il quale viene aiutato a prefigurarsi positivamente in una situazione diversa da quella in cui si trova in modo da giungere alla maturazione di una nuova possibilità; questo passaggio cruciale gli permette, successivamente, di poter individuare le risorse da reperire ed i problemi da risolvere al fine di poter mettere in pratica, operativamente e responsabilmente, questa nuova possibilità. “L’empowerment è un processo attraverso il quale le persone, a partire da una qualche condizione di svantaggio e di dipendenza non emancipante, vengono rese potenti, ovvero rafforzano la propria capacità di scelta, autodeterminazione ed autoregolazione, sviluppando parallelamente il sentimento del proprio valore e la propria autostima, della propria autoefficacia e della realizzazione personale, riducendo parimenti i sentimenti di impotenza, sfiducia e paura, l’ansietà, la tensione negativa e l’alienazione grazie soprattutto al trasferimento di potere che consente loro il controllo sulla propria situazione di lavoro” (C. Piccardo, 1992). Questa definizione si colloca, quindi, all’interno di un paradigma che pone al centro l’individuo, il quale, attraverso la percezione di sé come elemento causale dei propri comportamenti e attraverso le spinte motivazionali che permettono la canalizzazione delle sue energie e dei suoi sforzi, diventa responsabile del proprio sviluppo e della propria carriera professionale.

1.3. Modelli di intervento e pratiche orientative Alla luce della discussione sull’evoluzione delle teorie dell’orientamento

che hanno condotto verso lo sviluppo dell’approccio contemporaneo, risulta adesso utile, anche ai fini della successiva presa in esame della metodologia del Bilancio delle Competenze, riportare alcune esperienze e pratiche orientative fondate sui presupposti precedentemente analizzati e sviluppatesi in ambiti e contesti differenti. I modelli esposti qui di seguito condividono, infatti, la stessa impostazione teorica e metodologica che inquadra il processo di orientamento all’interno di una dimensione

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processuale e continuata dello sviluppo e della crescita umana; li accomuna, inoltre, una visione complessa e dinamica della persona, analizzata sia nei suoi aspetti individuali che nel suo interagire con la realtà, una persona che contribuisce in modo attivo e responsabile alla costruzione e allo sviluppo della sua carriera professionale in risposta ai continui cambiamenti e alle nuove esigenze imposte dalla società e dai mutamenti economici. Partendo da questi postulati, le seguenti pratiche orientative si pongono la finalità di sostenere l’individuo nel fronteggiamento di tutte quelle situazioni di difficoltà inerenti la sua vita professionale, fornendogli degli strumenti e delle metodologie che gli permettano di prendere consapevolezza delle proprie risorse e dei vincoli posti dalle circostanze, in modo da sviluppare la sua autopromozione e la sua stima di sé e da prepararlo alla personale presa in carico del problema e della sua soluzione.

* La “Career Education”

Il movimento della “Career Education”, sviluppatosi nel corso degli anni ‘70 negli Stati Uniti, nasce dalla constatazione di un divario tra la società, in continua e perenne evoluzione, ed il sistema educativo americano, ancora imperniato su presupposti tradizionali ormai inadatti alle nuove esigenze imposte dai cambiamenti economici e sociali; l’intenzione che accompagna questo movimento è quella di sollecitare un rinnovamento del sistema educativo nazionale proprio a partire dalla trasformazione di tali presupposti. Possiamo, quindi, identificare tra i postulati di partenza della Career Education: la necessità di collegare istruzione e lavoro durante tutti i vari stadi

della vita adulta; la necessità di fornire agli studenti gli strumenti per adeguarsi ai

continui cambiamenti del mondo del lavoro; la necessità che lo studente conosca se stesso ed il mondo del lavoro per

poter essere arbitro del proprio destino. Da questi postulati si ricava un nesso molto forte tra l’idea di Career

Education ed il concetto di educazione permanente; la constatazione dei cambiamenti nella natura e nella struttura del lavoro fanno emergere

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l’importanza di preparare l’individuo “a cambiare nella misura in cui cambia la situazione dell’occupazione (...). Quindi, oltre a specifiche abilità professionali gli studenti che lasciano la scuola devono possedere capacità di decidere circa la loro carriera, di sapersi cercare, trovare e conservare un lavoro” (K.B. Hoyt in Quaderni della Regione Lombardia, 1981). Lo studente, attraverso un’esperienza diretta e reale del mondo del lavoro, deve possedere gli strumenti di conoscenza e valutazione che gli permettano di essere pienamente consapevole dei suoi interessi, delle sue capacità e delle sue attitudini nei confronti del lavoro, al fine di diventare “arbitro del proprio destino”. Gli obiettivi che la Career Education cerca di raggiungere consistono nel promuovere negli studenti da una parte la consapevolezza di sé, delle proprie capacità e della propria carriera, dall’altra una consapevolezza economica relativa alla struttura, ai cambiamenti e alle possibilità offerte dal mondo del lavoro, indispensabile per lo sviluppo di capacità decisionali che gli permettano di adeguarsi in modo flessibile alle nuove situazioni professionali. Lo scopo ultimo dell’intervento proposto dalla Career Education rimane, quindi, quello di fornire agli individui gli strumenti per imparare ad affrontare positivamente le situazioni di transizione. Preoccupazione costante della Career Education è quella di considerare l’istruzione, frutto della collaborazione tra le attività di tutte le istituzioni sociali, come preparazione al lavoro, ponendo al centro dell’intero processo educativo l’individuo considerato come soggetto d’apprendimento più che come destinatario di formazione.

È necessario, a questo punto, soffermarsi brevemente su alcuni concetti che, molto spesso, vengono erroneamente identificati con la pratica della Career Education, per delinearne i punti di confine che li differenziano da essa. Il primo è quello di Career Development; tale espressione si riferisce al processo mediante il quale l’individuo, nel corso della sua intera esistenza, “sviluppa le proprie capacità impegnandosi nel lavoro come parte del suo modo di vivere” (K.B. Hoyt, in Quaderni della Regione Lombardia, 1981). Come sostiene B. Bertani (in C. Castelli, L. Venini, 1996) lo sviluppo di carriera rappresenta un processo continuo che, coinvolgendo molteplici contesti di riferimento, abbraccia numerose

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dimensioni del soggetto e comprende l’insieme delle interazioni tra il potenziale individuale, l’esperienza e l’ambiente; l’interazione di questi fattori conduce all’evoluzione della considerazione che l’individuo possiede di se stesso. Esso viene quindi considerato come un aspetto della crescita e dello sviluppo umano, ed è costituito dai momenti successivi dello sviluppo di consapevolezza delle careers, la loro esplorazione, l’assunzione di decisioni e scelte, la programmazione e la preparazione della career scelta, il suo mantenimento ed il suo declino. Il Career Development rappresenta una base di riferimento teorico sia per la Career Education, che per il secondo dei concetti che intendo analizzare in questa sede: il concetto di Career Guidance. Esso viene utilizzato per indicare un sistema di servizi programmati ed attuati per assistere gli individui nel processo di Career Development; tali servizi possono includere quelli finalizzati a fornire all’individuo un più positivo concetto di sé, quelli programmati per aumentare, nell’individuo, la consapevolezza di sé o delle opportunità professionali disponibili ed, infine, quelli che mirano ad assistere l’individuo nel processo di presa di decisione e nella successiva concretizzazione di tali decisioni. La distinzione che è possibile operare tra il concetto di Career Education e quello di Career Guidance si rifà al fatto che la Career Education, pur comprendendo al suo interno l’attività di “guidance” (cioè la funzione di consigliere d’orientamento), non si esaurisce in essa ma include anche tutta una serie di altre attività, svolte dall’insieme della comunità sociale, che collaborano soprattutto al fine di sollecitare un rinnovamento del sistema scolastico esistente. Concludendo possiamo quindi affermare che la Career Education è un progetto che mira a consentire ai soggetti di controllare il proprio sviluppo professionale (Career Development), fruendo al meglio dei servizi di Career Guidance.

* Il modello ADVP

Il modello ADVP (Activation du Developpement Vocationel et Personnel), messo a punto dall’équipe dell’Università Laval del Québec in Canada (Pelletier, Noiseux e Bujold, 1974) ha sviluppato operativamente il contributo di D. Super sulla teoria dello sviluppo vocazionale che ho precedentemente descritto. Esso parte, infatti, dal presupposto che la

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maturazione delle scelte professionali passi lungo un processo evolutivo segnato da stadi caratterizzati da diversi compiti evolutivi che l’individuo deve assolvere per pervenire a scelte soddisfacenti, in una sequenza di comportamenti vocazionali e di decisioni che gradualmente tessono la trama dello sviluppo della carriera professionale. I compiti vocazionali che l’individuo deve superare sono stati identificati nei compiti di: – esplorazione: comporta sperimentazioni, ricerche, formulazione di

ipotesi; tende a far prendere coscienza delle molteplici possibilità che offre l’ambiente quando si presenta la necessità di dover scegliere o di dover affrontare i condizionamenti della realtà, aprendo l’individuo ai vari tipi di informazioni e di esperienze che si riferiscono al suo avvenire.

– cristallizzazione: questa operazione permette all’individuo di ordinare ed organizzare le informazioni di cui è venuto a conoscenza nella fase precedente, raggruppandole in categorie di somiglianza e differenza per interpretarle in funzione della sua identità personale.

– specificazione: rappresenta il punto di incontro tra i valori della persona e le possibilità che le sono offerte; il soggetto identifica ed ordina i suoi interessi ed i suoi valori e, confrontando i propri progetti con la probabilità della loro realizzazione, giunge ad una decisione coerente con le valutazioni fatte.

– realizzazione: è il momento in cui l’individuo, esaminando le conseguenze implicate dalla decisione presa, traduce le sue scelte in realtà, pianifica le tappe da percorrere, anticipa eventuali ostacoli da superare ed ipotizza scelte alternative. Ad ognuno di questi compiti sottostanno particolari abilità mentali ed

atteggiamenti cognitivi che ne consentono l’esecuzione. Scopo del metodo ADVP è di attivare negli individui queste abilità attraverso la sequenza dei compiti vocazionali per favorire l’evolversi del processo orientativo fino alla maturazione della scelta. Il modello ADVP indica operativamente quali sono i metodi e le strategie da utilizzare per l’attivazione del processo vocazionale. Secondo M. Viglietti (1985), tali principi possono essere ridotti ai seguenti tre:

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Principio esperienziale: finalizzato a fare in modo che il soggetto percepisca le conoscenze e le informazioni acquisite nel corso dell’intervento orientativo come parte della propria esperienza vitale.

Principio euristico: finalizzato ad indurre nel soggetto la disponibilità alla ricerca mettendolo nelle condizioni di trovare la soluzione più adatta a risolvere il problema sfruttando al meglio le informazioni che ha ricevuto.

Principio integratore: finalizzato a sostenere la motivazione alla ricerca della soluzione attraverso la messa in luce del potenziale di utilità o vantaggio che il soggetto ne può trarre (integrazione tra esperienza-conoscenza ed interesse). L’intervento orientativo proposto, quindi, si colloca all’interno del ciclo

evolutivo della persona in modo da permetterle, gradualmente, di appropriarsi degli strumenti necessari a prendere autonomamente le sue decisioni, dopo aver raccolto ed ordinato tutti gli elementi utili a valutarne le conseguenze, assumendo così la forma di un’azione educativa continua tesa a far acquisire al soggetto la competenza ad orientarsi in un mondo in continua evoluzione. La logica sottostante a questo intervento fa riferimento ad un soggetto attivo che partecipa ai problemi del cambiamento dimostrandosi capace di assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Possiamo quindi condividere l’affermazione di M.L. Pombeni (1990), che raggruppa gli scopi che questo tipo di pratica orientativa si propone di raggiungere, in queste tre categorie: – la ricostruzione che mira ad aumentare il livello di consapevolezza del

soggetto nei confronti di tutte le variabili che possono intervenire e condizionare il processo orientativo (informazioni e conoscenze già elaborate, rappresentazioni di sé, delle proprie risorse, atteggiamenti nei confronti del lavoro, interessi ed attese per il futuro...);

– l’allargamento attraverso cui si cerca di incrementare, nell’individuo, la capacità di lettura della realtà e dei diversi fattori che la compongono, potenziando le competenze di analisi e di valutazione critica attraverso il confronto con nuove informazioni e nuovi punti di vista e la rielaborazione personale;

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– il coping che mira a sviluppare nell’individuo strategie e metodologie attive per affrontare positivamente un evento nuovo e complesso e per impostare correttamente la soluzione di un problema o di una situazione critica attraverso la promozione di atteggiamenti flessibili e di strategie finalizzate all’azione.

* L’esperienza del Bilancio Personale e Professionale

Questo tipo di consulenza orientativa, nata in Canada (Aubret, 1991) e sviluppata soprattutto in Francia in rapporto ai problemi emergenti di gestione delle Risorse Umane e alla domanda crescente di inserimento o reinserimento professionale di lavoratori adulti, rappresenta, oltre che un esempio di approccio psicosociale all’orientamento, il modello consulenziale più prossimo allo sviluppo della metodologia del Bilancio delle Competenze. I supporti teorici e metodologici della pratica del Bilancio personale e professionale sono da ricercare soprattutto nella teoria dello sviluppo vocazionale di D. Super e nel modello ADVP che ne rappresenta la traduzione operativa. Il presupposto di partenza è la constatazione del fatto che l’individuo si sviluppa attraverso un processo continuo durante il quale l’esperienza lo fa crescere, maturare ed evolvere (Yatchinovsky e Michard 1994, in M.L. Pombeni, 1996). Attraverso la pratica del Bilancio personale e professionale è possibile attivare, educare ed accelerare il processo permanente dello sviluppo vocazionale, rendendo il soggetto più consapevole delle tappe naturali della sua maturazione. Esso si situa, quindi, all’interno di una concezione educativa (e non diagnostica) dell’orientamento, inteso come processo attraverso cui si forniscono agli individui gli strumenti per costruire personalmente il proprio percorso professionale; il Bilancio è centrato principalmente, infatti, sull’individuo (e non sul posto o sulla funzione lavorativa) il quale è ritenuto “il principale testimone della propria storia ed il principale artefice del proprio adattamento all’ambiente di vita” (Aubret, Aubret, Damiani 1993) e nel quale si cerca di attivare la promozione e la mobilitazione rispetto alle risorse che possiede.

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Il Bilancio personale e professionale è considerato come uno strumento al servizio della politica di riconoscimento e validazione dei crediti formativi e lavorativi acquisiti dalla persona.

Esso assume la configurazione di un percorso finalizzato all’inserimento sociale e professionale dell’individuo; questo obiettivo viene perseguito attraverso l’indagine e la presa di coscienza, da parte dell’individuo, delle proprie risorse e potenzialità che possono essere canalizzate nell’elaborazione di un progetto professionale. A partire dall’analisi della sua esperienza, della sua storia, delle sue competenze, delle sue caratteristiche personali (interessi, valori, attitudini), e del suo potenziale, l’individuo acquisisce l’energia necessaria (la motivazione) all’investimento di queste risorse nell’elaborazione di un progetto personale e professionale, diventando, così, attore e protagonista del suo divenire professionale.

Il percorso operativo seguito nel Bilancio può essere ricondotto al perseguimento di tre obiettivi fondamentali: supportare l’individuo nell’analisi critica del suo passato e del suo

presente professionale partendo dalla percezione che il soggetto ha dei fatti oppure dalla traduzione delle sue singole esperienze professionali ed extra-professionali in competenze ed abilità spendibili in contesti differenti;

identificare i valori (schemi cognitivi di riferimento), le preferenze, gli interessi e le aspirazioni dell’individuo attraverso l’analisi delle rappresentazioni che egli si è costruito di sé, della propria esperienza passata e dell’attività lavorativa, al fine di poterlo orientare nelle scelte future;

costruire il progetto personale e professionale inteso come processo di negoziazione tra possibilità individuali e possibilità offerte dal contesto; l’elaborazione di questo progetto avviene in itinere lungo l’intero corso dell’intervento, modificandosi progressivamente in funzione delle nuove informazioni emergenti. La pratica del Bilancio personale e professionale suppone

l’affermazione secondo la quale il passato dell’individuo, lungi dall’essere in qualche modo d’ostacolo ad una sua futura realizzazione personale e

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professionale, costituisce, al contrario, il punto di partenza per ricostruire e rinforzare la propria identità (indebolita in conseguenza di eventi critici destabilizzanti) ai fini della stesura di un progetto propositivo rivolto al futuro.

Sul piano concreto, il Bilancio personale e professionale si realizza in tre fasi di lavoro principali: 1) Accoglienza: è la fase preparatoria finalizzata ad identificare e a fare

esplicitare la domanda da parte del consultante, valutando la possibilità di condurre un intervento di bilancio;

2) Analisi del potenziale: costituisce il momento centrale dell’intero processo e mira a far emergere sia le conoscenze e le competenze (trasversali e specifiche) precedentemente acquisite, sia le differenti componenti della personalità (attitudini, motivazioni, interessi, valori...), al fine di rendere l’individuo consapevole del bagaglio di risorse che ha a disposizione e su cui può investire nella stesura e nella messa in opera di un progetto professionale coerente e realistico;

3) Elaborazione del progetto finale: questa fase permette all’individuo di comprendere tutti gli elementi della situazione al fine di poter assumere una posizione fiduciosa e propositiva nella mobilitazione delle sue energie per affrontare i cambiamenti imposti dagli eventi critici inerenti la sua carriera professionale. In questo contesto l’operatore del Bilancio si trova a svolgere una

funzione di mediazione tra il soggetto (con le sue risorse ed i suoi limiti, con i suoi condizionamenti e le sue opportunità) e la situazione (con i vincoli strutturali e quelli contingenti), aiutando la persona a maturare un rapporto soddisfacente tra sé ed il contesto sociale e professionale in cui si trova a vivere.

È proprio all’interno di questo processo consulenziale che compare l’utilizzo della metodologia del Bilancio delle Competenze. La pratica del Bilancio delle Competenze, cui ci si riferisce anche con l’espressione “portafoglio di competenze”, può essere collocata, in maniera più precisa, all’interno della fase destinata all’analisi del potenziale individuale, come strumento utile per l’identificazione delle competenze possedute dal soggetto. Questa operazione consiste nella traduzione delle esperienze

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passate (professionali ed extra-professionali) descritte e raccontate dall’individuo, nei saperi, saper-fare e saper-essere che sono stati messi in atto per la loro realizzazione ma di cui, molto frequentemente, l’individuo stesso non ha consapevolezza, specialmente nel caso di mancanza di valorizzazione sociale o di validazione formale di tali competenze. Una volta individuato l’inventario (cioè il portafoglio) delle competenze possedute dal soggetto, si cerca di valutare la possibilità di una loro trasferibilità in altri contesti professionali o formativi. La scoperta di capacità e potenzialità impensate ed inesplorate da parte del soggetto costituisce un elemento fondamentale nel processo di riappropriazione del proprio sviluppo personale e nel passaggio ad un fronteggiamento attivo della situazione critica inerente la sfera professionale.

Quello che ci proponiamo di analizzare, nel corso di questo lavoro, è l’esistenza di diversi modelli e pratiche di Bilancio di Competenze, che riflettono la specificità della natura e degli scopi propri degli organismi che li hanno messi a punto, pur condividendo i seguenti presupposti: ogni individuo possiede delle risorse personali suscettibili di essere

investite all’interno di un progetto personale e professionale; la conoscenza, da parte dell’individuo, delle sue risorse potenziali è un

mezzo essenziale per appropriarsi del proprio avvenire; l’elaborazione di una raccolta di prove che attestano queste risorse

favorisce la loro mobilitazione per la realizzazione dei progetti elaborati. Cercheremo di mostrare come, a partire da tali considerazioni, si sia

dato vita, da parte di numerose istituzioni e agenzie formative contraddistinte ognuna da funzioni ed obiettivi differenti, ad una serie di attività eterogenee (per gli utenti cui si rivolgono, le finalità perseguite, la modalità di fruizione...) indicate tutte con il nome di Bilancio delle Competenze.

Un criterio che permetterà di fare chiarezza all’interno di tale eterogeneità di prestazioni e modelli di “Bilancio delle Competenze”, sarà la definizione fornita dalla legge francese che ne regolamenta le funzioni, gli scopi e lo svolgimento, e che assumeremo, nella nostra analisi, come punto di partenza e come chiave interpretativa.

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2. Le origini culturali alla base del Bilancio di Competenze

2.1. L’apprendimento dall’esperienza e la formazione continua La discussione attuale attorno al Bilancio si inserisce in una concezione

globale della formazione che vede la formazione iniziale e quella continua articolarsi ed integrarsi in un processo di formazione permanente.

La definizione di Bilancio delle Competenze, infatti, assume come postulato di partenza il principio secondo cui si apprende durante tutto l’arco della vita, in diversi contesti e situazioni, anche terminato il periodo di formazione iniziale, ed in particolare attraverso l’esperienza diretta del lavoro. Viene inoltre sottolineato come le acquisizioni derivanti da tale apprendimento debbano avere un impatto importante sulla vita lavorativa delle persone e sul loro sviluppo professionale (C. Levy Leboyer, 1993); in quest’ottica, il Bilancio di Competenze si pone come strumento utile per consentire alla persona di integrare tutti i tipi di apprendimento realizzati, sia quelli che sono frutto di una formazione organizzata e formalizzata, sia quelli derivanti dall’esperienza professionale e personale. Si afferma così che la formazione continua non si realizza solo nell’ambito di contesti e sessioni organizzate e formalizzate, ma nel corso di tutte le esperienze, lavorative ed extra-lavorative, che accompagnano l’individuo nel corso di tutta la sua vita.

Nell’assumere questa impostazione, il Bilancio delle Competenze riprende e sviluppa esperienze precedenti, anche lontane nel tempo, come quella dei militari americani che, alla fine della seconda guerra mondiale, rivendicarono il riconoscimento, sotto forma di crediti, dei saperi acquisiti durante l’esperienza militare, per poterli utilizzare come completamento della propria formazione o per spenderli nella vita civile; oppure quella dei movimenti di donne del Quebec degli anni ‘60 che, avendo allevato i propri figli, chiedevano che venissero riconosciuti i loro “apprendimenti esperienziali” al fine di ottenere un lavoro o seguire un corso di formazione. Si è avvertito, cioè, il bisogno di riconoscere le competenze personali per favorire l’inserimento dei soggetti in questione nel mercato del lavoro. Si trattava, da un lato, di identificare le competenze trasferibili

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da una situazione di lavoro ad un’altra, da una situazione di vita ad una di formazione, dall’altro di evitare, in situazione di formazione, di dover imparare ciò che era già stato acquisito.

Questo postulato si ricollega ad un presupposto fondamentale al Bilancio delle Competenze: quello dell’importanza dell’esperienza come possibilità di apprendimento e mezzo di sviluppo personale. È nell’esperienza stessa, infatti, che l’individuo ha la possibilità, confrontandosi con l’ambiente, di apprendere nuovi metodi di adattamento e sviluppo, di rivedere e ricostruire la propria immagine di sé, di acquisire informazioni importanti sul mondo al di fuori di sé, di confrontarsi con altri individui e di affrontare situazioni nuove e sconosciute che stimolano la sua intelligenza: gli insegnamenti tratti dall’esperienza, specie quella professionale, dall’azione, dalla presa di responsabilità diretta e dal confronto con problemi pratici, apportano delle competenze che il migliore degli insegnamenti teorici non sarebbe mai in grado di fornire (C. Levy-Leboyer, 1993). È in questo modo che si spiega e si giustifica il valore e l’utilità del Bilancio delle Competenze; esso è infatti preposto proprio alla certificazione di quelle competenze, attitudini e capacità sviluppate in un momento successivo a quello della formazione iniziale o continua, attraverso le esperienze concrete della vita. L’esperienza acquista così una valenza formatrice che sottintende una visione plastica dell’apprendimento e delle competenze, continuamente suscettibili di sviluppo e di cambiamento. La possibilità di approfittare delle lezioni fornite dall’esperienza permette all’individuo di continuare, durante tutta la sua vita, non solo a progredire, ma anche a sviluppare delle nuove competenze adattabili alle esigenze del mercato e alle caratteristiche delle organizzazioni del lavoro, soggette ai continui e rapidi cambiamenti tecnologici e strutturali.

Partendo da questo presupposto, un altro dei luoghi comuni messo in discussione dalla pratica del Bilancio delle Competenze, è quello che riguarda la capacità dei diplomi di predire il successo professionale. Si presuppone, infatti, che i diplomi ed i titoli di studio che attestano l’iter scolastico-formativo di un individuo, non abbiano quel valore predittivo da sempre loro accordato; in realtà, infatti, accade molto spesso che i risultati

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professionali non corrispondano ai successi o agli insuccessi scolastici passati: non è la capacità di successo scolastico a predire la riuscita ulteriore, ma la qualità ed il contenuto della formazione ed il suo grado di adeguatezza o inadeguatezza alle esigenze della vita attiva. Tale discrepanza viene spiegata attraverso la constatazione che le attitudini richieste per riuscire in formazione sono diverse da quelle richieste per riuscire nella vita attiva: all’inizio, infatti, la riuscita è fortemente dipendente dalle attitudini generali, mentre successivamente le attitudini, diventando sempre più specifiche, si legano alle strategie di volta in volta sviluppate per adattarsi ai compiti di sviluppo e si affermano, così, le competenze. Bisogna distinguere, quindi, il fatto di avere acquisito delle conoscenze essenziali all’esercizio di una data funzione, dal fatto di possedere le qualità necessarie all’esercizio di quella funzione (C. Levy-Leboyer, 1993). L’esistenza di un bagaglio di conoscenze indispensabili, controllate e certificate da un diploma, non rappresenta la prova che l’individuo possieda le qualità che assicurino la sua riuscita in condizioni differenti da quelle della formazione, soprattutto quando i cambiamenti tecnici e la continua evoluzione del mercato del lavoro rendono indispensabile l’acquisizione perenne di nuove competenze. “Le informazioni fornite dai diplomi sono, dal punto di vista del mercato dell’impiego, informazioni necessariamente relative [...]; quindi la tendenza del mercato del lavoro rende indispensabile lo sviluppo di altri modi di identificazione delle conoscenze” (P. Santelmann, 1995).

Il problema che si pone a questo punto è quello che riguarda, oltre la capacità individuale ad apprendere, la certificazione e la trasferibilità delle competenze acquisite esperienzialmente. Il Bilancio di Competenze si propone allora come metodologia utile alla valutazione e alla valorizzazione di tutte quelle competenze professionali e personali che, pur non essendo esito di percorsi formativi strutturati e pur non presentandosi sotto forma di certificazioni formali, sono state acquisite nel corso della vita lavorativa ed extra-lavorativa dell’individuo e sono quindi suscettibili di essere investite ed utilizzate in un percorso di sviluppo e di gestione di carriera.

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2.2. Il Bilancio di Competenze come strumento per il riconoscimento e la certificazione delle competenze

Il problema del riconoscimento e della certificazione delle competenze si pone sempre più insistentemente soprattutto in funzione del nuovo rapporto di reciproca “interferenza” che si sta venendo a creare tra la formazione e l’impiego (J.Y. Menard, 1992). La problematica che la formazione permanente si troverà a dover affrontare negli anni futuri sarà, infatti, sempre più, quella di favorire il trasferimento di competenze, i mutamenti culturali, i processi di riconversione, riqualificazione e mobilità dei lavoratori (P. Santelmann, 1995). In quest’ottica, diventa necessario valutare la pertinenza delle modalità di riconoscimento, certificazione e validazione dei saperi e delle competenze ed il modo attraverso cui tale sistema di validazione possa contribuire a ridurre i dislivelli economici e sociali. Il problema riguarda la capacità di identificare le competenze esistenti nella popolazione e di rendere gli individui capaci di far valere la loro esperienza sociale e professionale al di là delle loro acquisizioni scolastiche.

All’interno di una tale visione, l’esperienza professionale acquista un ruolo nuovo anche attraverso la pratica del Bilancio; essa deve essere rilevata, analizzata e formalizzata per poter essere valorizzata e valorizzabile dall’individuo e dalla società. Questa rilevazione si pone al centro di quel processo chiamato “presa di potere del salariato sul suo divenire” (A. Bekourian, 1991); essa, infatti, permette la presa di coscienza, da parte del soggetto, delle sue competenze individuali che, in questo modo, vengono messe in gioco, diventando trasferibili e generalizzabili.

Nel contesto professionale attuale, dominato dall’esigenza di adattare i lavoratori ai cambiamenti tecnologici e alle nuove condizioni del lavoro, il tema del riconoscimento delle competenze, di cui il Bilancio rappresenta uno strumento fondamentale, emerge come elemento di risposta ad una domanda sociale ed individuale; il fondamento principale della politica di riconoscimento e validazione delle acquisizioni risiede nell’ipotesi di base che esista, in ciascun individuo, un potenziale risultante certamente dal suo percorso di formazione, ma anche dalle esperienze della sua vita

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professionale, sociale e personale. Fino al momento in cui queste acquisizioni e questo potenziale non vengono resi oggetto di un riconoscimento sociale, però, essi restano privi di valore e di utilità; è necessario, quindi, trovare dei mezzi per identificarli e valorizzarli affinché possano essere investiti in un progetto realista d’inserimento sociale e professionale (B. Lietard, 1991). Possiamo riportare, a questo proposito, la definizione che J. Aubret (1993, in I. Palmonari, 1996) utilizza per descrivere il Bilancio di Competenze: “Un processo personalizzato, guidato da un esperto, di identificazione delle potenzialità personali e professionali suscettibili di essere investite nell’elaborazione e nella realizzazione di un progetto di inserimento sociale e professionale”.

Ciò che rappresenta un elemento fondamentale ed innovativo, all’interno del contesto francese, è il fatto che la legge stessa (legge del 20/7/1992) valorizzi socialmente il lavoro, nella misura in cui essa riconosce che l’attività professionale costituisce una via d’accesso alla competenza e che validare le acquisizioni derivanti dal lavoro costituisce un riconoscimento delle stesse che permette, a sua volta, la loro mobilitazione e negoziazione sul mercato dell’impiego. La validazione delle acquisizioni professionali partecipa della problematica globale dell’educazione permanente, poiché rinforza la possibilità che ogni individuo ha di poter accedere ad un diploma ufficiale in ogni momento della propria vita professionale.

Questo processo è fondato sulla responsabilizzazione della persona, la quale è chiamata, attraverso la strutturazione della propria esperienza, ad essere attrice del proprio progetto di formazione e validazione. Esso contribuisce, dunque, a preparare la sua evoluzione professionale e rende il soggetto più idoneo a dominare il proprio ambiente di lavoro e a gestire il cambiamento; mira, cioè, a rendere l’individuo consapevole delle competenze professionali messe in gioco nella propria attività lavorativa e composte da “saperi”, “saper fare” e “saper essere” che, entrando in rapporto tra loro, formano un insieme strutturato di cui, spesso, il soggetto stesso non ha piena coscienza e, quindi, neanche padronanza.

Uno dei nodi principali della discussione attorno a questo tema riguarda la distinzione tra le espressioni “riconoscimento” e

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“certificazione” delle competenze. Normalmente si riserva il termine “certificazione” per tutto ciò che si riferisce ai diplomi emessi sotto l’autorità dello Stato e dispensati da commissioni o istituzioni ufficiali, mentre il termine “riconoscimento” comprende tutte le forme di attestazione di competenze che possono essere acquisite in formazione, nell’impiego o nella vita personale e sociale ma che non sono sanzionate nel sistema di validazione (B. Lietard, 1991); secondo J.Y. Menard (1992), infatti, si può convenire che il “riconoscimento”, costituisce un atto preliminare alla certificazione, nel senso che per poter riconoscere occorre prima conoscere e che si può quindi ufficializzare questo riconoscimento attraverso la validazione, la certificazione e l’omologazione. Il riconoscimento, se resta informale, si limiterà ad iscriversi in un processo formativo di sviluppo individuale, in una prospettiva di aiuto, valorizzazione e sostegno alla persona, mentre la validazione, conducendo all’ottenimento di un diploma o di un attestato ufficiale, si situa nella categoria di sanzione di un risultato. Aggiungere la nozione di “validazione” delle acquisizioni a quella ancora velleitaria di “riconoscimento” delle acquisizioni, significa ammettere che non solo è possibile apprendere in modo informale, ma anche e soprattutto che è possibile far acquisire a questa categoria di apprendimenti uno statuto formale ed ufficiale, socialmente condiviso e riconosciuto (D. Jacobi, K. Lonchamp, 1994). Si trasforma così una semplice preoccupazione di valutazione preliminare in un riconoscimento sociale ufficializzato, ormai indispensabile ed essenziale per rendere il riconoscimento delle acquisizioni utile ai fini delle politiche di inserimento e reinserimento lavorativo.

Il riconoscimento e la validazione delle competenze hanno costituito, negli ultimi anni, l’oggetto di numerosi dibattiti e sperimentazioni: in un momento caratterizzato da grandi cambiamenti tecnologici che hanno messo in crisi numerosi tipi di impieghi e mansioni, dalla mondializzazione dell’economia e dalla creazione di mercati d’impiego più vulnerabili alla mobilità interterritoriale, la valorizzazione delle competenze apprese nella pratica o anche semplicemente nell’esercizio della vita attiva non può non costituire un argomento di primaria

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importanza; bisogna sottolineare, infatti, che la problematica del riconoscimento e della validazione delle competenze è associata, all’origine, a persone in difficoltà di inserimento professionale (ritorno dei militari al settore civile, disoccupati di lunga durata, ritorno al mercato del lavoro di donne responsabili di famiglia, integrazione nella struttura d’impiego di immigrati recenti...) (G. Pelletier, in J.Y. Menard, 1992).

La pratica del riconoscimento e della certificazione delle competenze non si pone come alternativa a quella dei diplomi tradizionali ed ufficiali, ma si prefigge lo scopo di ricercare più flessibilità e coerenza tra il sistema educativo, i bisogni economici, gli itinerari personali di carriera ed i bisogni individuali; essa può essere considerata come una parte necessaria, sebbene non sufficiente, di un progetto educativo nuovo che miri all’emancipazione della persona nel quadro di un sistema educativo che abbia, come una delle sue funzioni principali, quella di facilitare la mobilità e favorire la costruzione dell’identità sociale e professionale degli individui (B. Lietard, in J.Y. Menard, 1992).

È proprio all’interno di questa politica globale che è possibile contestualizzare e spiegare la nascita e la diffusione del Bilancio delle Competenze. Le imprese che gestiscono le loro Risorse Umane non possono più accontentarsi di attestazioni di competenze formulate in un dato momento, quali sono quelle rappresentate dai diplomi o da altre certificazioni; per stare al passo con il cambiamento imposto dall’evoluzione e dal continuo progresso esse cercano, infatti, di determinare le potenzialità dei loro salariati ad adattarsi a nuove situazioni di lavoro e la loro capacità di prendersi carico del necessario sviluppo delle proprie competenze (E. Chauvel, 1992).

In quest’ottica, lo Stato francese ha ritenuto di creare le condizioni per una mobilitazione istituzionale che favorisse questo diritto individuale alla valorizzazione di acquisizioni di ogni genere (accademiche, esperienziali, teoriche o pratiche...): nascono, in questo modo, i Centri Interistituzionali di Bilancio di Competenze (CIBC) e tentativi di messa in opera di “portafogli di competenze”. I CIBC, costituiti a titolo di sperimentazione nel 1986 dalla Delegazione alla Formazione Permanente (DFP) del Ministero del Lavoro, e successivamente estesi ad ogni

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dipartimento con la circolare DFP n°1944 del 14/6/1989, sono infatti nati con lo scopo di aiutare le organizzazioni, ma soprattutto gli individui, a fare il bilancio delle loro acquisizioni (saperi e saper-fare) a partire sia dalla loro formazione iniziale e continua (spesso limitata), sia dalle loro esperienze professionali, sociali ed associative. Essi sono delle strutture specialistiche con funzioni sia di erogazione diretta del servizio di Bilancio, sia di supporto ad altre strutture, pubbliche o private, erogatrici del servizio; hanno carattere interistituzionale, essendo costituite da rappresentanti dell’ANPE (Agenzia per l’Impiego) e dell’AFPA (Associazione per la formazione permanente), operando in rete con altri servizi di orientamento, formazione professionale ed inserimento lavorativo e comprendendo, al loro interno, un’équipe specialistica pluridisciplinare composta da operatori con differenti professionalità (psicologi, consulenti dell’orientamento, formatori, esperti dell’impegno).

La tecnica dei “portafogli di competenze”, che trova la sua ispirazione ed i propri precedenti storici nell’utilizzo dei “portafogli” in Nord America, costituisce, all’interno del Bilancio di Competenze, uno strumento fondamentale della politica di riconoscimento e validazione delle acquisizioni. L’idea di fondo è sempre quella per cui i diplomi non rappresentano necessariamente il potenziale reale che un individuo può investire nella realizzazione dei suoi progetti, dal momento che il suo potenziale risulta costituito, in gran parte, dalle sue esperienze familiari, sociali e professionali; il “portafoglio di competenze”, quindi, si fonda su una logica di formalizzazione delle tappe esperienziali e formative, permettendo di valorizzare l’itinerario professionale dell’individuo e di aiutarlo a costruire dei piani di sviluppo di carriera o dei progetti professionali. Esso può essere definito come “un dossier personale, documentato e sistematico, costruito per riconoscere personalmente le proprie acquisizioni (formative ed esperienziali) o per farle riconoscere da altri organismi di formazione o ambiti professionali” (J. Aubret, in B. Lietard, 1991); esso rappresenta, cioè, un inventario completo di tutte le capacità, potenzialità e competenze acquisite e sviluppate dalla persona nel corso delle esperienze formative precedenti e della sua storia personale e professionale; una sorta di “memoria del passato dell’individuo, uno

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spazio dedicato alle risorse per quanto concerne la documentazione necessaria per la realizzazione di un progetto” (I. Palmonari, 1993). Il portafoglio, se opportunamente costruito, può costituire la base per il riconoscimento e l’assegnazione di crediti individuali, essere utilizzato all’inizio di un’azione di bilancio o di formazione o, ancora, per l’elaborazione di un progetto di sviluppo professionale; di fatto, il processo di costruzione di un portafoglio di competenze rappresenta, di per sé; un progetto di formazione che mira al raggiungimento di tre obiettivi (B. Lietard, 1991): – valorizzare le acquisizioni, di qualsiasi origine siano, degli individui

che vi si sottopongono; – insegnare agli individui stessi a meglio negoziare il loro potenziale

nella ricerca dell’impiego o di percorsi formativi; – conservare, in modo sistematico, tracce delle acquisizioni provenienti

dalla loro formazione, dal loro impiego e dalla loro vita sociale e professionale, come prove delle competenze messe in atto al fine di poterle far valere anche nel futuro. Questo documento, che viene costruito dall’individuo stesso e rimane

sotto la sua unica responsabilità per quanto riguarda le sue possibilità di utilizzo, costituisce, quindi, un’importante fonte di informazioni che non solo favorisce la trasferibilità della professionalità e delle qualifiche possedute dall’individuo in contesti lavorativi differenti, ma rappresenta uno strumento fondamentale nell’autovalutazione che gli individui fanno su loro stessi, fornendo un valido contributo ad una migliore e più approfondita analisi delle proprie risorse, condizione indispensabile per l’avvio di un processo di sviluppo di carriera.

Risulta chiaro, a questo punto, il rapporto esistente tra la pratica del Bilancio di Competenze e la politica di riconoscimento e validazione delle acquisizioni: infatti pur ricoprendo, prima di tutto, una funzione di riconoscimento, e non di validazione, delle acquisizioni, il Bilancio di Competenze può essere considerato come uno strumento ed un servizio utile anche ai fini dell’ottenimento di diplomi ufficiali, in quanto esso rende l’individuo più consapevole delle proprie risorse e, quindi, più forte nella negoziazione con le istituzioni responsabili della validazione; sono

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infatti sempre più numerosi i casi in cui l’accesso all’impiego o il reinserimento nel mercato del lavoro sono facilitati dal posizionamento dell’individuo e dalla determinazione di un progetto professionale, entrambi conseguenze ed esiti proprio di un processo di Bilancio (B. Lietard, 1991).

Rispetto alle esperienze precedenti e ai tentativi più recenti di sviluppo della formazione continua e di applicazioni della politica di riconoscimento e validazione delle acquisizioni, il Bilancio di Competenze assume, però, anche connotazioni nuove ed originali; esso, infatti, non si presenta come azione episodica o sperimentale rivolta soprattutto a persone in difficoltà d’inserimento lavorativo o prive di formazione, bensì come opportunità per qualunque lavoratore, indipendentemente non solo dall’età, ma anche dalla sua collocazione sul mercato del lavoro (occupato, in cerca di occupazione, coinvolto in processi di mobilità o riconversione) e dal livello di qualifica posseduto (operaio, tecnico, dirigente o professionista). Nel contesto socioeconomico postindustriale, caratterizzato da innovazioni tecnologiche e mutamenti continui nel mercato del lavoro che accelerano i processi di obsolescenza delle competenze professionali dei lavoratori, la formazione continua e le azioni tese ad aumentare l’occupabilità delle persone vengono assunte dal sistema pubblico e dalle parti sociali come un investimento vitale sia per le imprese che per i lavoratori. Uno dei problemi fondamentali diventa, quindi, quello di ottimizzare le risorse di competenza possedute dalle persone e di puntare sulle loro capacità di sviluppo e di adattamento alle nuove esigenze organizzative e produttive; in questo senso diventa essenziale poter contare su tutto il loro patrimonio di conoscenze e di esperienze, dovunque essi lo abbiano acquisito, e non solo sulle competenze formalmente certificate e certificabili. Si rendono quindi necessarie nuove azioni e nuovi strumenti per valorizzare il potenziale e la competenza professionale delle persone: il Bilancio di Competenze è uno degli strumenti che vengono individuati e messi a punto a questo scopo. Nel complesso si tratta, quindi, di connettere tra loro diverse azioni tese a favorire lo sviluppo professionale e l’occupabilità dei lavoratori: la valutazione e la valorizzazione delle competenze,

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l’orientamento, la formazione professionale iniziale e quella continua, il collocamento e l’inserimento lavorativo (A. Selvatici, 1997).

Tuttavia, il Bilancio di Competenze si differenzia sensibilmente anche dalle pratiche di valutazione del personale già realizzate e collaudate dalle imprese: infatti, mentre queste ultime rispondono, in genere, a precisi bisogni organizzativi ed operativi, inerenti a specifici problemi di presa di decisione (assunzioni, promozioni, costruzione di basi di calcolo per remunerazioni ed incentivi, valutazione della qualità del lavoro all’interno delle attività di gestione del personale...), il Bilancio di Competenze, così come previsto nel suo significato originale, non essendo necessariamente collegato ad una presa di decisione ed essendo realizzato a partire dalla richiesta dell’interessato (e non solo dell’organizzazione), può essere considerato come un servizio offerto dall’impresa ai suoi membri, i quali hanno la possibilità di usufruirne nelle circostanze e con le finalità che essi stessi ritengono più opportune (C. Levy-Leboyer, 1993).

Possiamo concludere questo capitolo riassumendo i concetti presupposti

al Bilancio di Competenze ed utilizzando, a questo scopo, la riflessione di C. Levy-Leboyer (1993) secondo cui esso rappresenterebbe l’applicazione integrata di tre approcci originali allo sviluppo di carriera:

la gestione della propria carriera deve essere un problema

dell’individuo stesso: conviene, quindi, aiutarlo a farsene carico invece di imporgli orientamenti o decisioni che egli, non sentendo come propri, non assumerebbe mai completamente;

la formazione professionale non si limita a quella iniziale: l’adulto è in grado di apprendere nel corso di tutta la sua vita attiva;

la formazione continua non è solo quella organizzata e formale, ma deriva anche, in misura consistente, dall’esperienza diretta del lavoro. A partire da questi presupposti, il Bilancio di Competenze pone, allora,

nuovi problemi di metodo e di strumenti, ma, prima ancora, di una precisa definizione dei termini di riferimento: l’analisi di questo aspetto costituirà, appunto, il contenuto del capitolo successivo.

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Il Bilancio delle Competenze: per una definizione del concetto

1. La nozione di “Bilancio”

1.1. Bilancio ed Orientamento: quale rapporto? Dopo aver delineato, nel corso del primo capitolo, lo sviluppo delle

teorie dell’orientamento all’interno delle quali si iscrive l’esperienza del Bilancio delle Competenze personali e professionali, riteniamo utile soffermarci su un’analisi più puntuale del termine “Bilancio” utilizzato per designare pratiche ed interventi a volte molto distanti tra loro per obiettivi, metodologie, utenti e contesti di riferimento. Ciò che ci interessa sottolineare, in primo luogo, sono gli elementi di affinità e di differenza che caratterizzano la relazione tra il concetto di orientamento e quello più recente di Bilancio.

Un primo paradigma utile in merito al problema del rapporto tra orientamento e bilancio è quello che fa riferimento agli obiettivi da essi perseguiti. Ad un’analisi sommaria dei termini risulta chiaro che, mentre l’obiettivo fondamentale della pratica orientativa è quello di pervenire all’elaborazione, da parte dello stesso soggetto, di un progetto personale o professionale di sviluppo e di cambiamento, il Bilancio è una prestazione che si pone come scopo principale di permettere, all’individuo che vi si sottopone, di fare il punto (da cui la scelta del termine “Bilancio”) della propria situazione personale e professionale in funzione di una determinata domanda e di un determinato contesto (S. Michel, 1993). Da queste prime definizioni emerge in maniera evidente la differenza e la relazione che unisce le due pratiche analizzate: il Bilancio si rivolge al passato dell’individuo mentre l’orientamento, teso all’elaborazione di un progetto, risulta proiettato verso il futuro e lo sviluppo del soggetto. In

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quest’ottica è possibile situare il Bilancio all’interno del processo più globale di orientamento come momento preposto alla valutazione delle risorse possedute dall’individuo. Si può quindi sostenere che il Bilancio consiste in uno strumento di analisi delle esperienze passate del soggetto allo scopo di “conteggiare” e mettere sui “due piatti della bilancia” i punti di forza e di debolezza acquisiti nel corso dell’intera vita professionale ed extra-professionale; esso risulta quindi indirizzato verso i criteri della misura, della valutazione e del giudizio, e può essere rappresentato dall’immagine di una fotografia che rende conto di ciò che l’individuo possiede e di ciò che non possiede in un dato momento della sua vita (S. Michel, 1993). L’obiettivo del Bilancio è, in primo luogo, quello di valutare il valore di un individuo analizzando e riconoscendo le competenze, gli interessi e le motivazioni che egli possiede ma di cui può non essere consapevole fino a quel momento.

Il Bilancio, così inteso, non risulta capace di rendere conto della dinamicità e dello sviluppo continuo della persona, delle sue possibilità di evolversi, maturare e cambiare che lo accompagnano per tutta la vita in un costante processo di ridefinizione di sé e della propria immagine. Una visione così statica del Bilancio preclude l’ipotesi che esso possa assumere significato in sé, indipendentemente dagli obiettivi più generali in cui si inserisce e dal contesto orientativo di riferimento, rispetto al quale soltanto acquista un senso ed una giustificazione. In questo modo possiamo definire il Bilancio come uno strumento utilizzato in un determinato momento del processo di orientamento al fine di fornire quegli elementi necessari all’elaborazione o alla conferma di un progetto di sviluppo che investe l’avvenire dell’individuo; esso può situarsi, infatti, sia nella fase propriamente finalizzata all’elaborazione del progetto, come supporto di riflessione, di analisi e di misura, sia nella fase successiva della sua concretizzazione, come strumento di conferma delle piste di lavoro precedentemente costruite.

All’interno di tale concezione, il problema principale degli interventi di Bilancio diventa, quindi, quello di disporre di strumenti di misura adatti, validi ed affidabili che assicurino una valutazione obiettiva delle risorse del soggetto da parte di un esperto-specialista. Il concetto di persona

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sotteso a questa visione è quello che fa riferimento ad un soggetto passivo e sostanzialmente dipendente dal giudizio che un individuo esterno -lo specialista, appunto- si fa su di lui e sulle sue competenze, in un’ottica di misurazione oggettiva e statica di uno “status quo”.

Da quanto detto emerge in modo evidente la dicotomia esistente tra la pratica del Bilancio ed il processo di orientamento. A questo riguardo è possibile richiamare la distinzione operata da S. Michel (1993) tra i due modelli opposti da lei definiti “Bilancio puro” ed “Orientamento puro”. Questi due modelli si collocano agli estremi di un asse continuo lungo il quale si trovano diversi modelli di Bilancio-Orientamento di cui, successivamente, analizzeremo quelli più importanti e diffusi nelle pratiche esistenti per giungere, infine, alla stesura di una tipologia di Bilanci.

Per quanto riguarda il cosiddetto “orientamento puro”, possiamo dire che esso si indirizza verso il perseguimento di due scopi principali: l’elaborazione di un progetto e, attraverso questo processo, il raggiungimento di una maggiore autonomia da parte del soggetto che vi si sottopone. Esso si basa essenzialmente sul fornire degli strumenti di autovalutazione attraverso i quali gli individui, in modo autonomo e responsabile, diventano capaci di giungere ad una valutazione obiettiva su di sé, sulla situazione personale e professionale in cui si trovano, sulle risorse di cui dispongono, sui vincoli imposti dall’ambiente e sulle possibilità concrete offerte dal mondo del lavoro: tutti elementi indispensabili per permettere l’elaborazione di un progetto personale e professionale che, tenendo conto del passato e delle condizioni del presente, sappia proiettarsi verso l’avvenire in un’ottica di sviluppo e superamento positivo di situazioni di transizione. Certamente questo modello di orientamento, nonostante i numerosi elementi positivi (la visione di un uomo complesso, in continua evoluzione, capace di costruire responsabilmente il proprio avvenire e di valutare autonomamente tutti i fattori in gioco, l’idea di orientamento come processo continuo di sostegno all’individuo lungo tutte le fasi della sua vita...), non tiene conto, però, di quelle situazioni che vedono coinvolti, sempre di più e sempre più spesso, nei processi orientativi, individui psicologicamente deboli, destabilizzati e

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demotivati, che si trovano in condizioni, sia materiali che psicologiche, precarie ed incerte, alla ricerca di qualcuno che possa fornire loro delle risposte concrete ed immediate, più che di un aiuto a riflettere su di sé e sulla propria vita, e che, probabilmente, non sarebbero neanche in grado di pervenire ad una elaborazione autonoma di un progetto di sviluppo personale o professionale.

All’altro estremo del continuum si trova quello che S. Michel (1993) definisce “Bilancio puro”; esso consiste in un intervento che ha per finalità quella di posizionare gli individui, cioè di valutarli attraverso dei criteri oggettivi per poterli poi confrontare. Questo modello rinvia essenzialmente a degli strumenti di valutazione che devono soddisfare certe condizioni scientifiche di base e rispondere ai requisiti della fedeltà, della validità e della pertinenza rispetto all’oggetto che intendono misurare; questi strumenti vengono quindi utilizzati da un esperto per misurare il più obiettivamente possibile le caratteristiche degli individui che si sottopongono al Bilancio.

Questo modello “diagnostico” di Bilancio si è sviluppato all’interno della stessa filosofia che ha voluto tentare di fondare il processo di selezione su dei percorsi scientifici e quindi ritenuti infallibili ed inconfutabili. Esso si iscrive infatti perfettamente nell’ambito di quelle teorie dell’orientamento precedentemente descritte che tentavano di trovare una corrispondenza precisa tra la persona, di cui si dovevano misurare le attitudini, i tratti di personalità e le potenzialità, ed i requisiti delle diverse mansioni lavorative. In questo contesto il “Bilancio puro” risulta essere strumento privilegiato di analisi e valutazione, in un’ottica che risulta molto più prossima a quella della selezione che a quella dell’orientamento inteso come processo educativo

Il presupposto di partenza di tale modello è l’esistenza di una personalità, nell’individuo, costituita da caratteristiche stabili, permanenti e relativamente indipendenti dal contesto, tali da poter essere identificate e misurate una volta per tutte. Dalla messa in evidenza di tali tratti è possibile procedere alla spiegazione dell’azione individuale e alla previsione dei comportamenti futuri.

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Sicuramente tale tipo di intervento può rivelarsi molto utile ma, come è abbastanza facile intuire, da solo non è sufficiente.

Dal quadro descritto emerge dunque un’idea di Bilancio non congruente con le teorie orientative di sviluppo più recenti, precedentemente descritte. Ma allora, come spiegare questo “scarto” tra una concezione di orientamento inteso come processo autoeducativo di emancipazione della persona considerata nella sua globalità come un soggetto in continuo sviluppo, ed una pratica metodologica – il Bilancio Puro- che non fa che misurare e valutare dall’esterno una situazione personale e professionale considerata statica ed immutabile? Stando ai termini del discorso utilizzati fino ad ora non è certo possibile trovare una via d’uscita a tale discrepanza, ma è proprio a questo punto che possiamo introdurre, come risposta a tale quesito, il concetto innovativo di “Bilancio delle Competenze” secondo la definizione fornitane dalla legislazione francese.

1.2. Il Bilancio secondo la legge È proprio il riferimento alla legge francese che regolamenta la pratica

del Bilancio delle Competenze, che ci permetterà di fare chiarezza sull’argomento e sul concetto di “Bilancio”, tanto innovativo quanto anche facilmente soggetto ad ambiguità e confusioni.

Il testo fondamentale della legge n° 91-1405 del 31/12/1991, riporta questa definizione:

“Le azioni di Bilancio di Competenze permettono ai lavoratori di

analizzare le proprie competenze professionali e personali, così come le proprie attitudini e motivazioni, allo scopo di determinare un progetto professionale e, se necessario, un progetto di formazione”.

Ulteriori precisazioni legislative vengono apportate dalla Delegazione

alla Formazione Professionale (DFP) del Ministero del Lavoro in occasione della emissione di una circolare esplicativa circa la complessità del dispositivo del Bilancio delle Competenze messo in atto (Cir. DFP. N° 93/13 del 19/3/1993). All’interno di tale documento ritroviamo un ulteriore tentativo di definizione e precisazione legale:

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“un Bilancio di Competenze deve permettere al lavoratore di passare in

rassegna tutte le sue attività professionali allo scopo di: fare il punto sulle sue esperienze personali e professionali; reperire e valutare le sue acquisizioni legate al lavoro, alla formazione e alla vita sociale; meglio identificare i suoi saperi, le sue competenze ed attitudini; scoprire le sue potenzialità inesplorate; raccogliere e strutturare gli elementi che gli consentono di elaborare un progetto professionale e personale; gestire al meglio le sue risorse personali; organizzare le sue priorità professionali; utilizzare al meglio le sue risorse nella negoziazione dell’impiego o nelle scelte di carriera.”

In un altro articolo dello stesso documento, la DFP assimila la

realizzazione del Bilancio delle Competenze ad un procedimento attraverso il quale

“l’individuo modifica il rapporto che ha con il suo ambiente

professionale; diventa un compagno, un attore della gestione della sua carriera. Gli permette di anticipare e definire la propria linea di azione e, nel caso di sviluppo di gestione professionale, di posizionarsi chiaramente, di trovarcisi e prenderci posto: In questo spirito, il Bilancio delle Competenze deve integrare totalmente e contemporaneamente una dimensione retrospettiva (identificare le grandi tappe di un percorso professionale per reperire le competenze acquisite, i centri di interesse, le motivazioni) ed una dimensione prospettica (formulare scelte, confrontarle alle realtà interne ed esterne)”.

Da queste definizioni appare immediato che “contrariamente a quello

che potrebbe lasciar intendere la parola bilancio, il Bilancio di Competenze è ben definito come un processo di azioni, e non come una constatazione di realizzazioni, esperienze, performances passate” (M. Joras, 1995). All’interno di tali definizioni possiamo quindi ritrovare la compresenza di elementi che appartengono sia al modello dell’ “orientamento puro”, sia a quello del “bilancio puro”: da una parte, infatti, si richiama la logica

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dell’orientamento attraverso la messa in evidenza di un processo di ricostruzione di sé che vede l’individuo direttamente coinvolto nella fase di esplorazione delle proprie risorse in vista della determinazione attiva delle proprie possibilità di evoluzione professionale; dall’altra, invece, si sottolinea l’importanza di una valutazione oggettiva delle competenze e delle attitudini individuali che consenta l’elaborazione di un progetto personale e professionale che, attraverso un’analisi attenta ed accurata di tutte le potenzialità spendibili da parte del soggetto, possa renderlo consapevole delle sue concrete possibilità di sviluppo.

Sembra così apparire un nuovo modello di Bilancio, che S. Michel (1993) definisce “forma ibrida”, ma che si è ormai sviluppato e consolidato nella pratica e nella letteratura con il nome di “Bilancio di orientamento”.

In cosa consiste, allora, questo Bilancio di orientamento? Innanzitutto esso si configura come una pratica orientativa mirata all’acquisizione di consapevolezza di sé, da parte del richiedente, attraverso il riconoscimento e la validazione delle sue capacità e competenze. Questo processo include, tra uno dei suoi momenti fondamentali, la fase del bilancio vero e proprio la cui valutazione, tuttavia, non costituisce più il fine dell’intero processo, bensì solo un mezzo particolarmente adatto per raggiungere l’obiettivo finale consistente nel favorire lo sviluppo personale e professionale, e quindi l’occupabilità, dei lavoratori.

La valutazione delle competenze non è più un fine, ma un mezzo al servizio dell’elaborazione del progetto: non si tratta più di condurre indagini sistematiche in ogni campo dell’esperienza del soggetto richiedente, come avveniva all’interno del modello di bilancio che B. Lietard (in S. Michel, 1993) definisce “Bilancio ad orientamento normativo”, ma piuttosto di procedere alla misura dello scarto esistente tra la situazione professionale attuale dell’individuo e quella da lui desiderata e attesa per il futuro (A. Divoux, P. Laurent, F. Lennvier, P. Serre, 1991). Non si tratta di una constatazione statica, ma della presa in considerazione della persona nella sua totalità e nella sua dinamica interna. Questa definizione ci permette di fissare il principio generale secondo cui il Bilancio di orientamento si iscrive nella dinamica della persona e non deve essere ridotto a delle valutazioni normative.

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In questo contesto l’oggetto del bilancio (inteso in senso diagnostico), cioè l’individuo con tutte le sue caratteristiche, diviene il soggetto stesso del bilancio: lo scopo è quello di mettere ciascun individuo nella situazione di autore-attore del proprio divenire offrendogli le possibilità e gli strumenti per elaborare e dar vita ad un proprio progetto personale e professionale (G. Chayla, 1992). Nonostante i diversi modi di intendere il Bilancio delle Competenze, si constata un’intesa generale in merito al principio secondo cui esso deve permettere all’individuo di utilizzare ed investire il suo potenziale intellettuale, psicologico ed affettivo in un’attività professionale; si suppone, dunque, che il processo di bilancio fornisca all’individuo i mezzi per svolgere un ruolo attivo nel corso di tutto il processo.

Il Bilancio di orientamento, che come abbiamo visto ben descrive la pratica del Bilancio delle Competenze, si iscrive dunque perfettamente nel processo globale di counseling individuale; è in rapporto alla consulenza individuale, infatti, che il bilancio acquista il suo senso, anche se non è del tutto indispensabile, ai fini della sua realizzazione, che esso sia seguito o incluso in un processo di consulenza più generico. Allo stesso modo, la procedura consulenziale sarà tanto più efficace e valida quanto più sarà preceduta da una pratica di bilancio e fondata su di essa.

Nell’approccio al bilancio è possibile quindi ritrovare i segni di un’evoluzione che, rispetto alla concezione iniziale del Bilancio come constatazione statica di esperienze, vede confluire ed integrarsi progressivamente due logiche differenti: da una parte, la logica della “costruzione di sé” tesa alla presa di consapevolezza, da parte dell’individuo, del suo potenziale e delle sue competenze, attraverso un’analisi guidata ed attenta delle sue esperienze lavorative ed extra-lavorative precedenti; dall’altra la logica della “mobilitazione” e del trasferimento delle competenze personali e professionali, riconosciute e possedute dall’individuo, verso il nuovo contesto socio-economico e le esigenze di flessibilità da esso imposte. Viene quindi rifiutata l’ipotesi di un bilancio inteso come giustapposizione di valutazioni parziali e cumulative dell’individuo, a favore dell’idea secondo la quale “fare un Bilancio delle Competenze significa fare il punto sul proprio potenziale e

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sulle competenze ed i comportamenti precedentemente acquisiti, ma anche essere capaci di trasferirli e di mobilitarli in altre situazioni presenti e future” (A.M. Lucas, 1991). In altri termini il Bilancio delle Competenze deve appoggiarsi sulla “metacognizione”, cioè non solo riconoscere e valutare quello che una persona sa, sa fare, sa essere, ma anche aiutarla a prendere coscienza dei propri meccanismi di pensiero e ad applicarli a delle situazioni nuove ed inconsuete (A.M. Lucas, 1991). L’analisi del passato, in quest’ottica, è quindi il punto di partenza per preparare il futuro attraverso la stesura di un progetto che, analizzando le risorse personali e le richieste ambientali e tentando di colmare gli eventuali scarti che le separano, si presenti come realistico e realizzabile.

Tornando alla definizione legislativa, il Bilancio delle Competenze si configura, quindi, come una pratica all’interno della quale confluiscono differenti e molteplici spazi d’azione: dalla valutazione all’elaborazione del progetto, fino alla sua convalida e messa in atto. È proprio questa compresenza di molteplici aspetti che fa del Bilancio delle Competenze uno strumento flessibile e facilmente adattabile a circostanze particolari e domande provenienti da attori diversi. A questo punto, una volta fornite le coordinate di riferimento necessarie per una più precisa definizione e collocazione teorica del Bilancio delle Competenze, possiamo introdurre il discorso sull’eterogeneità di applicazioni del Bilancio che, indipendentemente dalla definizione legislativa, continuano a coesistere nelle pratiche reali di erogazione del servizio.

1.3. Il Bilancio o i Bilanci? Nonostante l’esistenza di una definizione legislativa che stabilisce ciò

che deve essere inteso per “Bilancio”, rimangono molti aspetti indefiniti che, interpretati ed utilizzati diversamente, danno luogo ad una miriade di applicazioni eterogenee per finalità, strumenti, utenti e per il significato stesso attribuito al termine “Bilancio”.

Si assiste, infatti, alla coesistenza di molteplici termini e denominazioni per designare l’oggetto “Bilancio”; una tale ricchezza, dovuta a livelli di approccio differenti, è comunque sintomo di una certa imprecisione riguardo alla finalità propria di questo atto, imprecisione

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che, tuttavia, permette di utilizzare lo stesso concetto per delle pratiche orientative e formative anche molto distanti tra loro: il Bilancio di Competenze, in effetti, costituisce una pratica malleabile in funzione delle finalità, delle caratteristiche e delle esigenze proprie dell’organismo che ne eroga la prestazione; una pratica capace di assumere, di volta in volta, a seconda del contesto in cui viene attuata, connotati e requisiti particolari e differenti.

Una variabile fondamentale, nella determinazione della finalità assegnata al bilancio, è l’analisi degli attori sociali che ne fanno richiesta, cioè la provenienza della domanda: se da una parte, infatti, i lavoratori che, per legge, hanno il diritto di richiedere una prestazione di Bilancio, hanno maggior interesse, normalmente, a sottoporsi ad un intervento di Bilancio di orientamento nel senso sopra descritto, finalizzato cioè all’elaborazione di un progetto, dall’altra parte le imprese che si servono del Bilancio di Competenze all’interno della propria politica di Gestione delle Risorse umane preferiscono, nella maggioranza dei casi, usufruire principalmente dei suoi aspetti metodologici di valutazione del potenziale e della personalità, in funzione di procedure di selezione del personale, di pianificazione delle mansioni o ricollocamento dei lavoratori, all’interno di progetti di cambiamento ed esigenze esclusivamente aziendali. Nella pratica, dunque, accanto ad un Bilancio di Competenze inteso come Bilancio di orientamento, che segue la direzione tracciata dalla legge, continua ad essere applicato anche un Bilancio inteso, più classicamente, come Bilancio di posizionamento rispondente ad una domanda più limitata e circoscritta, in cui, alla funzione formativa-educativa del bilancio, se ne sostituisce una più prettamente selettiva e diagnostica. Questa differenza nel modo di interpretare il bilancio si traduce, operativamente, nella scelta di processi, strumenti, metodi e ruoli attribuiti agli attori in gioco, anche molto distanti tra loro.

G. Fournier (1992) ha ricostruito una tipologia che raggruppa tutte le pratiche, sia orientative che formative, che condividono la denominazione di “Bilancio”, in tre categorie principali riconducibili, più precisamente, alle seguenti definizioni:

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Bilancio di orientamento: attraverso l’aiuto a prendere coscienza della propria identità e attraverso un lavoro sull’immagine di sé, l’individuo è condotto alla valorizzazione del suo potenziale e all’elaborazione di un proprio progetto di sviluppo;

Bilancio di valutazione: fase determinante e prioritaria di una qualsiasi azione formativa, consistente nell’identificazione delle caratteristiche individuali suscettibili di essere investite in un processo di sviluppo e di cambiamento;

Bilancio psicopedagogico: precisando il percorso formativo in funzione degli obiettivi di qualificazione ricercati ed adattando le sue modalità alle caratteristiche personali precedentemente definite, permette di adeguare tale percorso in funzione dei risultati osservati. Un’altra distinzione rilevante all’interno della stessa pratica di

Bilancio di orientamento, è quella che fa riferimento ai dispositivi di erogazione del servizio; a questo proposito D. Demaziere (1991) riferisce l’esistenza di due forme tipiche ed opposte di Bilancio che si distinguono, sul piano dell’applicazione pratica, per la durata della prestazione, le professionalità implicate, i modi di articolazione del processo di formazione ed i compiti assegnati alle persone che vi si sottopongono: – da una parte, i bilanci che si inscrivono in un processo di orientamento

concepito come processo continuo che permette il passaggio rapido da una situazione professionale ad un’altra, erogati e messi in atto dai centri di Bilancio di Competenze personali e professionali miranti a permettere a ciascuno di condurre in modo cosciente la propria traiettoria individuale, attraverso un aiuto per l’elaborazione e la realizzazione di un progetto di sviluppo personale e professionale;

– dall’altra parte, i bilanci che rientrano nelle procedure di diagnosi individuali, considerate come un passaggio obbligato all’interno di un trattamento globale di situazioni di esclusione dall’impiego, in seno alle politiche di riconversione dei disoccupati di lunga durata. La differenza sostanziale tra queste due pratiche consiste, oltre che

nell’ambito di applicazione e negli utenti che vi fanno ricorso, nel modo di intendere ed applicare il bilancio: mentre nel primo caso si tratta di identificare e riconoscere tutte le potenzialità, anche inesplorate,

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dell’individuo per renderlo attore e responsabile del suo percorso di carriera, nel caso delle politiche di riconversione si tratta, piuttosto, di identificare i problemi che hanno condotto all’esclusione dal mondo del lavoro, cioè di valutare i bisogni ed i punti di debolezza dell’individuo, per orientarlo verso un processo di formazione che, tenendo in considerazione la domanda di impiego esistente sul mercato, possa fornirgli gli strumenti di cui necessita per potersi reinserire nel mondo del lavoro.

Esiste poi un’altra questione non ancora risolta in modo definitivo, che riguarda il Bilancio delle Competenze come Bilancio di conferma; all’interno di un processo di Bilancio di orientamento, infatti, la fase della valutazione delle competenze può avvenire in momenti diversi: o all’inizio, per fornire i dati individuali fondamentali per giungere all’elaborazione del progetto insieme al soggetto che si sottopone al bilancio, oppure in un momento successivo all’elaborazione del progetto, per raccogliere ulteriori dati che permettano di confermare le piste di lavoro già individuate. La questione cruciale è quella dell’esistenza preliminare di un progetto professionale e personale; nel caso di un individuo che si sottoponga ad una pratica di Bilancio avendo già elaborato un proprio progetto di sviluppo, la sua richiesta sarà, infatti, quella di poter raccogliere quante più informazioni possibili sulla sua attuabilità. In questo contesto il processo di Bilancio è rivolto in primo luogo alla concretizzazione e alla messa in opera del progetto professionale che, molto spesso, richiede il passaggio attraverso una fase formativa e, quindi, la stesura di un progetto di formazione. L’assunzione dell’interpretazione del Bilancio delle Competenze come bilancio di conferma, pone sicuramente dei grossi interrogativi in merito alla possibilità dei lavoratori di pervenire autonomamente all’elaborazione di un progetto, soprattutto nel caso di soggetti che, in seguito a situazioni di disagio (provocate, ad esempio, dall’esclusione dall’impiego o da politiche di mobilità interne o esterne all’azienda) presentano una personalità destabilizzata e una scarsa fiducia in sé e nelle proprie possibilità, caratteristiche che indubbiamente li rendono incapaci di pervenire ad una conoscenza realistica ed oggettiva della situazione professionale presente e futura, e delle proprie risorse ed opportunità.

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Dall’analisi fatta sulla nozione di Bilancio e sulla sua evoluzione è emersa, quindi, con chiarezza la sua caratteristica di polisemicità che la rende suscettibile a differenti e molteplici interpretazioni le quali, a loro volta, danno luogo a numerose pratiche e procedimenti tra loro eterogenei.

Un secondo aspetto che merita di essere analizzato ed approfondito in questo contesto è quello che si riferisce ai significati attribuiti al concetto di “competenza”.

2. Il concetto di “competenza”

In questi anni il concetto di competenza si è trovato ad essere, sempre più, al centro dell’attenzione e dell’interesse di dibattiti tecnico-scientifico-istituzionali di diversa natura, all’interno di ambiti professionali e culturali differenti, tra cui: La politica di Gestione delle Risorse Umane, che vede emergere in

maniera sempre crescente, l’importanza della soggettività della risorsa “uomo” come potenziale da scoprire, sviluppare, valorizzare ed utilizzare all’interno delle organizzazioni, a discapito della logica tradizionale centrata sulla mansione e sul compito lavorativo;

Il dibattito istituzionale sulla Riforma del sistema formativo, indirizzato verso una logica di maggiore flessibilità in funzione dei cambiamenti del mercato del lavoro ed attento, tra gli altri problemi, a quello dell’istituzione di un sistema nazionale per la certificazione delle competenze e dei percorsi formativi;

Il dibattito sulla riforma dei Servizi per l’Impiego e sul ruolo dell’orientamento professionale. Lo sviluppo e la diffusione di questo nuovo concetto dimostrano che

esso è considerato come la possibile risoluzione di aporie e problemi incontrati all’interno degli ambiti sopra citati e come costrutto strategico cui poter ricorrere per rimediare a difficoltà di diversa origine e natura (P.G. Bresciani, 1997). Come contropartita a questo fiorire di teorie ed analisi centrate sulla competenza, bisogna rilevare l’alone di incertezza ed ambiguità che accompagna ogni discorso su questo tema; tali problemi

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dipendono, in larga misura, dalla compresenza di una pluralità di linguaggi e definizioni del termine “competenza” che sottintendono, spesso, differenze concettuali rilevanti e dall’eterogeneità dei metodi e delle pratiche di intervento utilizzate per analizzare, sviluppare e valutare la competenze.

A partire da queste premesse cercheremo di analizzare come il concetto di “competenza”, la cui definizione risulta centrale ai fini di una esatta comprensione della metodologia del “Bilancio delle Competenze”, insinuandosi nel mondo del lavoro ed estendendosi a tutte le attività dell’economia moderna e delle pratiche formative, abbia sostituito, progressivamente, parametri e concezioni tradizionalmente dominanti. Successivamente evidenzieremo, tra la moltitudine di definizioni attribuite alla competenza, gli elementi costitutivi che risultano più confacenti all’approccio del “Bilancio di Competenze”, estendendo il discorso alle metodologie di valutazione e misurazione della competenza, utilizzate ed utilizzabili all’interno della suddetta pratica.

2.1. Dall’analisi della posizione al concetto di competenza “Oggi non si amministrano più degli impieghi o degli uomini, bensì

delle competenze”: così S. Michel (1993) sintetizza la situazione attuale in cui, dopo aver invaso la gestione delle Risorse Umane e l’impresa, le competenze riguardano ora anche il settore pubblico dell’impiego. L’onnipresenza del concetto di competenza porta le organizzazioni a procedere progressivamente alla ridefinizione dei mestieri, allo sviluppo di una gestione delle competenze e all’integrazione della formazione al lavoro, tutte strategie che contribuiscono ad una sempre crescente responsabilizzazione e partecipazione dei lavoratori. La nozione di competenza ha assunto, a partire dagli Anni ‘80, un posto preponderante nella gestione delle Risorse Umane, nella sfera dell’educazione ed in quella della formazione continua e dell’orientamento professionale, tendendo a sostituirsi a nozioni precedentemente prevalenti come quelle di “saperi” o conoscenze.

Possiamo ricondurre l’apparizione e lo sviluppo di questo termine alla confluenza di diversi fattori (S. Michel, 1993 e M. Joras, 1995): innanzi

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tutto la mondializzazione dell’economia, l’accelerazione dei mutamenti tecnologici e l’invasione dell’informatica, che hanno costretto le organizzazioni ad affrontare problemi nuovi come quello della soppressione progressiva di impieghi tradizionali, centrati soprattutto su attività operative manuali e mentali meccaniche e ripetitive, e l’emergenza di nuovi tipi di impiego, costituiti da mestieri composti e dinamici, attività trasversali e di gestione del sistema di informazione; in secondo luogo, e conseguenti a tale situazione, emergono i nuovi fenomeni della disoccupazione, dell’esclusione dal mondo del lavoro e dei processi di mobilità, interna ed esterna, in cui si trovano coinvolti un numero sempre maggiore di aziende e lavoratori. In questo contesto, ciò che diventa indispensabile è la capacità di raggiungere una certa flessibilità nell’uso e nella gestione della mano d’opera, concentrandosi sui processi di formazione continua e di riconversione dei lavoratori; ma, in particolare, diventa necessario, da parte delle organizzazioni, imparare a conoscere, analizzare e valutare le risorse umane esistenti al loro interno, per poterle utilizzare al meglio e per procedere ad un adeguamento costante degli impieghi e delle competenze, e, da parte del lavoratore, acquisire consapevolezza del proprio potenziale e delle proprie competenze per poter gestire, in modo autonomo e responsabile, l’evoluzione della propria carriera professionale. La competenza si pone, quindi, come concetto chiave in seno alle nuove politiche di gestione delle Risorse Umane, nelle decisioni riguardanti la selezione, la formazione ed i piani di carriera aziendali, e nelle pratiche di orientamento professionale.

In particolare, da un punto di vista strettamente organizzativo, l’emergenza del concetto di competenza, sembra ricondursi ed affiancarsi al fenomeno dell’abbandono progressivo, a partire dagli Anni ‘80, dell’organizzazione del lavoro di tipo Tayoloristico; l’evoluzione continua delle strutture organizzative, per tenere il passo con la dinamica di cambiamento dei mercati di riferimento, genera una progressiva indefinizione dei contenuti dei ruoli e delle posizioni (F. Ratti, 1989); le aziende, operando sempre più in contesti ed ambiti concorrenziali caratterizzati da forte discontinuità, assumono nuove forme organizzative e nuove modalità operative che tendono, infatti, alla destrutturazione dei

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compiti e delle mansioni: di fronte ai processi continui di cambiamento, ad una realtà sempre più complessa ed articolata e agli incessanti mutamenti tecnologici, i confini dei compiti, prima rigidamente definiti e strutturati, diventano aleatori e flessibili. In questa situazione caratterizzata da modelli organizzativi flessibili e reticolari, centrati sui processi e sull’interfunzionalità dei ruoli ed in cui le strutture organizzative non sono più cristallizzabili in sistemi rigidi e formalizzati di mansioni e compiti specializzati, diventa necessario ripensare anche alle tradizionali politiche e pratiche delle Risorse Umane; in questo contesto la gestione delle Risorse Umane risulta caratterizzata da una “indefinizione delle prescrizioni delle diverse posizioni e da una crescente incontrollabilità, da parte della gerarchia, del vario dipanarsi degli eventi organizzativi e delle prestazioni delle persone: [...] per la prima volta nella storia e nella cultura dell’organizzazione la persona è autenticamente al centro dello spazio organizzativo come primo, vero fattore strategico” (G. Varchetta, 1993). Ciò che acquista sempre più rilevanza è, infatti, quello che le persone sanno fare; l’acquisizione, il mantenimento e lo sviluppo delle competenze e delle capacità strategiche rappresentano, quindi, le nuove sfide nel campo della gestione delle Risorse Umane. “L’organizzazione del futuro sarà costruita sulle persone; si punterà sempre meno sulle mansioni [...]: questo comporta una crescente attenzione alla competenza del personale; utilizzare le persone come cellule dell’organizzazione significa costruire le organizzazioni sul contributo personale e specifico di ciascun collaboratore, in altre parole, sulla sua competenza” (A. Carretta, M.M. Dalziel e A. Mitrani, 1992). L’interesse si sposta, di conseguenza, dall’analisi del compito, in cui l’esperienza organizzativa veniva frammentata nella descrizione dei vari aspetti prevedibili della posizione, all’analisi del modo in cui le persone svolgono il compito, cioè all’analisi delle competenze, attraverso le quali l’organizzazione può fornire soluzioni creative, contingenti ed impreviste, adattandosi al contesto sempre nuovo ed imprevedibile cui si trova a dover rispondere.

Il modello delle competenze si presenta, quindi, quale sostituto obbligato del modello della posizione (C. Piccardo, B. Ferreri, 1995). In questo modo la classificazione basata sul concetto di competenza

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sostituisce, poco alla volta, quella basata sul concetto di qualificazione, dominante fino agli Anni ‘70 ed associato ad una visione statica del mondo del lavoro, in cui si presuppone che i lavoratori effettuino i compiti prescritti mettendo in opera unicamente dei saper-fare stereotipati e sempre identici; ciò che viene messo in discussione è la qualificazione intesa come insieme di saper-fare e conoscenze necessarie all’esercizio di un determinato impiego, e sulla base della quale si stabiliscono i parametri per la classificazione degli impieghi ed i corrispondenti valori retributivi (N. Jolis, 1997); tale concetto, basato sull’analisi della posizione e dei contenuti dei compiti prescritti al lavoratore e corrispondente alla segmentazione tayloristica del processo, si dimostra sempre meno adatto alle nuove esigenze di flessibilità imposte dalle nuove organizzazioni del lavoro e dai nuovi sistemi di produzione (G. Le Boterf, 1994 in N. Jolis, 1997), aprendo la strada al diffondersi della nozione di competenza che, invece, si focalizza sulle capacità trasversali possedute dagli individui e sui modi da essi utilizzati per mobilitare tali competenze, in modo attivo, creativo e responsabile, nella risoluzione dei problemi sempre nuovi imposti dalle costanti evoluzioni organizzative.

In questo quadro è facile capire come non sia più sufficiente avere le “persone giuste al posto giusto e al momento giusto”, quale era, invece, l’obiettivo primario dei sistemi di pianificazione delle Risorse Umane in uso negli Anni ‘70 (A. Carretta, M.M. Dalziel e A. Mitrani, 1992).

È proprio per rispondere a queste nuove esigenze che nasce, nei primi Anni ‘70, quello che in psicologia organizzativa viene definito come “movimento delle competenze”; tale nascita viene ricondotta, più precisamente, al 1973, anno di pubblicazione, da parte di D. McClelland, di un articolo – “Testing for competence rather than intelligence”- che metteva in discussione la capacità dei tradizionali test di cultura e di attitudine e dei titoli ed attestati scolastici, di predire l’attitudine al lavoro ed il successo nella vita professionale (D. McClelland, in L.M. Spencer-S.M. Spencer, 1995). L’intento che muoveva McClelland era quello di trovare quali fossero le variabili di competenza in grado di predire una performance efficace in una determinata mansione partendo dall’idea di utilizzare e confrontare tra loro campioni differenziati,

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composti da persone particolarmente produttive sul lavoro e da persone meno brillanti, al fine di identificare gli schemi cognitivi operativi ed i comportamenti causalmente correlati alla riuscita sul lavoro. Fu nell’ambito di un lavoro di riprogettazione dei metodi di selezione dei funzionari del Dipartimento degli Esteri degli Stati Uniti, che egli identificò, empiricamente, i fattori e le caratteristiche che discriminavano i funzionari che fornivano delle prestazioni eccellenti da quelli che fornivano prestazioni mediocri; attraverso la tecnica BEI (Behavioural Event Interview) McClelland fu in grado di stabilire quali erano le caratteristiche delle persone appartenenti al gruppo che eseguiva la mansione nel modo migliore, presupponendo che “è più facile prevedere il comportamento o il successo di una persona scoprendo che cosa spontaneamente penserebbe o farebbe o ha pensato e fatto in una situazione non strutturata” (D. McClelland, in L.M. Spencer- S. M Spencer, 1995). Mentre, quindi, la tradizionale psicologia organizzativa eseguiva analisi separate della mansione e della persona per poi tentare di combinarne insieme i rispettivi elementi, il metodo delle competenze comincia la sua analisi dalla persona nella mansione, senza presupporre le caratteristiche necessarie allo svolgimento ottimale di un compito, ed arrivando, così, alla definizione della mansione in termini di caratteristiche e comportamenti personali ad essa associabili.

Dopo aver richiamato, per sommi capi, i fattori che hanno progressivamente condotto a passare da una centratura sul lavoro ad una centratura sul soggetto al lavoro, e, quindi, sulle competenze da esso possedute e mobilitate, diventa fondamentale riflettere ora sui diversi significati che a questo termine sono stati attribuiti, per potersi rendere conto di quanto la mancanza di una definizione di partenza chiara ed univoca possa condurre ad ambiguità ed incongruenze.

2.2. Approcci e modelli teorici alla competenza Per quanto riguarda il concetto di competenza, quello che risulta

evidente è l’assenza di una riflessione teorica sufficiente e capace di supportare, in modo rigoroso, tutte le pratiche ed i modelli di intervento basati sulla competenza stessa. Sembra esistere, infatti, una sorta di

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tacito consenso nei confronti del significato evocato da questo termine, anche in conseguenza del suo largo utilizzo nel linguaggio e nel senso comune. In realtà coesistono, anche se espressi solo informalmente, una molteplicità di approcci alla competenza, che si traducono in pratiche e metodologie di intervento molto differenti tra loro; in particolare, per quanto riguarda il modello del Bilancio di Competenze, un diverso modo di concepire la competenza, ne determinerà finalità, processi, strumenti e risultati, dando luogo, come spiegheremo successivamente, a differenti tipologie di Bilancio.

La nostra analisi partirà dall’esposizione della definizione generica di competenza fornita dal modello di competenze originato dagli studi di D. McClelland sopra menzionati: “Per competenza intendiamo una caratteristica individuale causalmente collegata ad una performance efficace o superiore in una mansione o in una situazione, e che è misurata sulla base di un criterio prestabilito” (R.E. Boyatzis, 1982 in L.M. Spencer-S.M. Spencer, 1995); da questa prima definizione emerge con chiarezza la dimensione di nesso causale che lega il concetto di competenza a quello di azione riuscita; in altri termini, la competenza è “ciò che soggiace all’azione riuscita, ciò che permette di agire in modo positivo, efficace, riuscito e competitivo...” (S. Michel, 1993); quello che resta da chiarire e da determinare con maggiore precisione è ciò che viene inteso per “caratteristiche individuali”, cioè quali sono i fattori che consentono alla persona di agire in modo competente, e quindi con successo, in una mansione o in un compito; in altri termini, si tratta di determinare gli elementi che concorrono all’efficacia di un comportamento professionale.

È proprio a questo proposito che gli approcci ed i modelli di riferimento presentano una vasta eterogeneità di significati ed aspetti. Come prima tipologia dei differenti modelli di competenza più diffusi ed utilizzati, faremo parzialmente riferimento a quella fornita da S. Michel (1993), distinguendo la compresenza di almeno sei grandi approcci alla competenza:

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* Approccio basato sulle attitudini: Secondo quest’approccio, la competenza risulterebbe assimilabile al

concetto di capacità, definita come “la possibilità di riuscita nell’esecuzione di un compito o di una prestazione lavorativa” (H. Pieron, in C. Levy-Leboyer, J.C. Sperandio, 1993). La competenza consiste, quindi, nella messa in atto delle attitudini, cioè di quelle disposizioni individuali che costituiscono il substrato, il fondamento e la condizione di sviluppo di una capacità; in altri termini, l’attitudine, preesistente alla capacità, sarebbe una sorta di “propensione a...” che rappresenta una “capacità virtuale” o potenziale (W. Levati, 1993). Le attitudini, quindi, essendo la base delle competenze, sono anche esplicative delle stesse; si suppone dunque che senza attitudini non ci possa essere competenza e, in maniera ancora più estrema, se ci sono le attitudini, c’è riuscita (S. Michel, 1993).

* Approccio basato sui saperi: Questo approccio sostiene che ciò che conduce e spiega l’azione riuscita

è il possesso di conoscenze. Le competenze si riducono, in questo caso, a dei “saperi messi in atto”; é il sapere ciò che permette di riuscire, quindi, “più io so, più sono competente” (S. Michel, 1993). All’interno di tale concezione diventa possibile stabilire una gerarchia di competenze sulla base del livello di padronanza delle conoscenze sottostanti alla competenza stessa: il diploma ed i titoli di studio diventano, quindi, prove fondamentali che attestano e provano il possesso di competenze.

* Approccio basato sui saper-fare:

All’interno di questo approccio, la competenza viene assimilata all’azione, in particolare all’azione riuscita; essa viene, infatti, definita come un “saper fare operazionale valido”, mettendo così in rilievo la dimensione della messa in opera e collegando strettamente la competenza al fatto che il saper fare deve essere praticato, visibile e misurabile.

* Approccio basato sui comportamenti/saper-essere:

Tale approccio attribuisce un peso determinante, nella spiegazione dell’azione riuscita, al comportamento che, a sua volta, risulta

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strettamente collegato alla personalità dell’individuo (saper essere); il comportamento include dei saperi e dei saper fare, ma, secondo questo approccio, essi non bastano per ottenere una competenza: quest’ultima, infatti, è resa tale proprio dalla presenza di particolari tratti di personalità, disposizioni personali e motivazioni, che rendono l’individuo capace di utilizzare, in modo competente, tutte le risorse di cui dispone.

* Approccio basato su saperi, saper-fare e saper-essere:

All’interno di quest’approccio possiamo far rientrare la definizione di competenza fornita da M. Pellerey (1983), secondo il quale essa indica “l’insieme strutturato di conoscenze, abilità ed atteggiamenti necessari per l’efficace svolgimento di un compito lavorativo”.

* Approccio basato sulle competenze cognitive:

Secondo tale approccio la competenza rappresenta la capacità di risolvere un problema in modo efficace in un determinato contesto. La competenza, quindi, non è ciò che si fa, bensì il modo attraverso cui si perviene a farlo in modo soddisfacente; tale approccio si rifà alle strategie di risoluzione dei problemi, che sono considerate i fattori esplicativi dell’azione riuscita. La competenza, in altri termini, è la combinazione di diversi fattori tra i quali quelli che giocano il ruolo più importante di integrazione e di guida dell’azione, sono i processi intellettuali. Tale approccio introduce, inoltre, un concetto molto importante: quello secondo il quale la competenza non esiste in sé, ma deve sempre essere situata in rapporto ad un problema particolare e all’interno di un contesto specifico di riferimento.

Questa breve esposizione di differenti significati attribuiti al concetto

di competenza, fornisce un quadro di analisi all’interno del quale è possibile attuare delle considerazioni circa il progressivo evolversi del concetto stesso; è infatti possibile constatare, all’interno del dibattito svoltosi in Italia negli Anni ‘80-’90 ed avente per oggetto proprio il concetto di competenza professionale, il progressivo emergere di dimensioni e contenuti attribuiti alla competenza molto più complessi ed articolati dei

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precedenti (P.G. Bresciani, 1997). Poco alla volta, infatti, è stata messa in dubbio la validità di una concezione pressoché statica di competenza adatta a quella matrice classica di analisi del lavoro che, attraverso la scomposizione delle posizioni e dei ruoli lavorativi in sequenze di compiti, individua, per ciascun compito, i saperi, i saper fare ed i saper essere (cioè le competenze) causalmente collegati ad una performance soddisfacente. Si è progressivamente fatta largo l’idea che la competenza non possa essere solamente qualcosa da analizzare e ricostruire prendendo in esame una posizione per estrarne le conoscenze e le capacità implicitamente richieste: la competenza, in altri termini, non ha mai solo una dimensione di conoscenza, non è mai puro accumulo di saperi e tecniche, non è mai solo l’espressione di un sapere e di un saper fare riferibili meccanicamente ad una prestazione (P.G. Bresciani, 1997). Per capire ciò che influenza davvero l’efficacia di una prestazione professionale, occorre prendere in considerazione una serie di altri fattori e dimensioni che caratterizzano la competenza: e cioè l’insieme più ampio delle caratteristiche intrinseche, personali e più profonde dell’individuo, attraverso le quali egli diventa capace di mobilitare, in modo soddisfacente e flessibile, tutte le sue risorse (attitudini, conoscenze e capacità) nei compiti e nei ruoli che gli vengono affidati. N. Mandon (in N. Jolis, 1997) sottolinea, a questo proposito, che le competenze devono essere intese come capacità di mobilitare delle conoscenze e delle qualità personali per far fronte ad un determinato problema. È quindi possibile rintracciare, nell’analisi dei fattori che intervengono nella riuscita dell’azione, tre differenti tipi di “contenuti” della competenza: – quelle che vengono chiamate, dalla psicologia cognitiva, con il nome di

conoscenze dichiarative (o “know-what”) e che si riferiscono al sapere di tipo teorico, nozionistico ed accademico; in particolare, in questo contesto, esse indicano un bagaglio di conoscenze circa il lavoro, i compiti, il ruolo, il contesto, l’azienda;

– le conoscenze procedurali (o “know-how”), che riguardano invece i metodi, le procedure, i ragionamenti sul “come fare”, e che si costruiscono, al contrario delle precedenti, attraverso le azioni e le esperienze; tali conoscenze segnano e contraddistinguono

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profondamente l’individuo, che le immagazzina nella memoria a lungo termine e le utilizza nell’affronto di tutte quelle situazioni che richiedono una risoluzione di problemi;

– nfine, ma non meno importanti, quelle che possiamo genericamente indicare con il nome di disposizioni individuali nei confronti del lavoro, e che comprendono attitudini (mentali, fisiche e sensoriali), motivazioni, valori, rappresentazioni ed atteggiamenti nei confronti del lavoro e fattori strettamente connessi all’identità personale, alla stima e all’immagine di sé. La rilevanza di quest’ultima categoria di fattori che concorrono alla

messa in atto di un comportamento competente, si è progressivamente andata affermando in parallelo alla consapevolezza che, in una situazione, come quella attuale, di costante evoluzione dei mercati, dei modelli organizzativi e delle tecnologie, diventa sempre meno sufficiente che le persone sappiano “che cosa va fatto” (know-what), in quanto emerge l’impossibilità di determinare a priori e una volta per tutte i contenuti di un compito e le modalità più efficaci di esecuzione dello stesso, in modo da poter descrivere preventivamente una prestazione competente; in un contesto dominato sempre più dai criteri dell’incertezza e dell’emergenza (C. Odoardi, 1996), si dimostra insufficiente al raggiungimento di un’azione competente, anche la conoscenza, da parte dei lavoratori, del “come va eseguito” (know-how) un compito o svolta una mansione: ciò che diventa davvero determinante, affinché questi “saperi” si trasformino e si concretizzino in comportamenti competenti, è proprio l’insieme di quelle caratteristiche dell’individuo più profonde, stabili e radicate, e che comprendono sia le loro disposizioni personali che la loro disponibilità e volontà a mettere in atto il bagaglio di risorse complessive di cui dispongono. In questa concezione il centro dell’analisi si sposta dal ruolo lavorativo all’individuo che possiede ed utilizza, in modo creativo, flessibile e responsabile, un sistema di competenze caratterizzato non solo da conoscenze e capacità, ma anche da motivazioni, valori ed immagini di sé che gli permettono di porre in atto dei comportamenti professionali

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competenti e che lo rendono capace di trovare soluzioni innovative e rapide ai problemi che incontra.

A questo proposito e come prima esemplificazione di questa concezione di competenza, torniamo sulla definizione di competenza, sopra riportata, fornita da Boyatzis e costruita sulla base degli studi di D. McClelland; approfondendo la nozione di “caratteristica individuale” che, all’interno di tale paradigma viene considerata come il fattore fondante e costitutivo della competenza, scopriamo che essa comprende, al suo interno, un insieme più vasto di caratteristiche specifiche ed, in particolare, si ritiene che la competenza includa 5 diversi aspetti della persona che la possiede: – Motivazioni: “Interesse ricorrente per la situazione o condizione di un

obiettivo, presente nella mente e che spinge, dirige e seleziona il comportamento dell’individuo” (D. McClelland, 1971 in L.M. Spencer-S.M. Spencer, 1995); in altre parole le motivazioni costituiscono gli schemi mentali, i bisogni e le spinte interiori che inducono una persona ad agire per il raggiungimento di determinati obiettivi desiderati.

– Tratti: “Caratteristiche fisiche ed una generale disposizione a comportarsi o a reagire in un determinato modo ad una situazione o ad una informazione” (L.M. Spencer-S.M. Spencer, 1995). Velocità di riflessi, resistenza allo stress e alla fatica, autocontrollo e spirito d’iniziativa, per esempio, possono essere considerate caratteristiche appartenenti a questa categoria.

– Immagine di sé: tale caratteristica individuale si riferisce all’insieme degli atteggiamenti e dei valori personali, connessi con il concetto di sé; essa risulta collegata anche alla percezione del ruolo e delle norme sociali, cioè di quei comportamenti considerati socialmente accettabili e desiderabili. La fiducia in sé e la convinzione di riuscire in qualsiasi tipo di situazione fanno parte del concetto di sé.

– Conoscenze: esse vengono definite come le informazioni che una persona possiede circa un’area specifica; includono conoscenze riguardanti discipline o argomenti specifici, fatti e procedure. Indicano, quindi, ciò che una persona deve sapere per poter raggiungere gli obiettivi di uno specifico lavoro.

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– Capacità (Skills): tali caratteristiche si riferiscono alle capacità cognitive (ad esempio il pensiero analitico o il pensiero concettuale) e comportamentali di eseguire un determinato compito fisico o intellettuale. È interessante notare che, all’interno di tale modello di competenza, i

fattori elencati vengono rappresentati anche come diversi livelli di competenza: ad essi, infatti, viene assegnata una differente importanza rispetto all’incidenza che esercitano sull’efficacia di una performance; le competenze tecnico-professionali (conoscenze e skills), in quanto osservabili, vengono rappresentate come la superficie dell’iceberg e, di conseguenza, data la facilità con cui esse possono essere ulteriormente sviluppate, sono considerate in secondo piano rispetto ai fattori più determinanti della competenza: motivazioni, tratti ed immagine di sé. Questi ultimi, infatti, riguardando le dimensioni più profonde ed interne della personalità (la parte sommersa dell’iceberg), sono maggiormente stabili e radicate nell’individuo; da ciò deriva la considerazione di queste variabili come fattori cruciali della competenza, in quanto più difficilmente modificabili, correggibili e sviluppabili.

Da quanto detto emerge in maniera evidente come questo approccio differenzi la capacità, intesa come “possibilità di riuscita nell’esecuzione di un compito o di una prestazione lavorativa” (W. Levati, 1992), la cui attuabilità risulta condizionata, oltre che dalle occasioni e dagli ostacoli offerti dal contesto, dalla presenza di motivazioni, tratti ed immagine di sé, dalla competenza vera e propria, intesa come comportamento reale ed osservabile. Né le capacità, né le conoscenze, da sole, possono produrre una competenza: “essere competente significa saper (e voler) utilizzare la complessa struttura delle conoscenze e delle abilità, e non limitarsi all’esecuzione di un compito unico e ripetitivo ma sviluppare la capacità di apprendere e modificarsi” (A. Battistelli, 1996), adattandosi continuamente alle situazioni lavorative nel contesto organizzativo.

Nonostante l’importanza di questo modello di competenza, che risiede nell’introduzione di una novità rilevante come quella delle “disposizioni individuali”, è necessario approfondire alcuni aspetti della competenza

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non ancora esplicitamente sottolineati. L’elemento di cui si trascura l’influenza, in questo modello, è quello del contesto. Essi, infatti, partono dal presupposto che le motivazioni, i tratti e l’immagine di sé che condizionano e determinano l’azione riuscita, siano delle caratteristiche stabili ed immutabili degli individui, che ne descrivono la personalità e che possono essere osservati e reperiti dall’esterno, ad esempio attraverso l’uso di questionari di personalità, in modo statico ed una volta per tutte. In questo modo la competenza viene nuovamente ridotta ad un insieme di caratteristiche – attitudini e tratti di personalità – più soggettive e profonde rispetto a quelle classiche dei “saperi” (conoscenze) e dei “saper fare” (capacità), ma pur sempre statiche ed invariabili. La competenza, quindi, torna ad essere una somma di fattori diversi che però non è suscettibile di sviluppo, crescita e cambiamento; in altri termini, essa non sarebbe in grado di adeguarsi in modo flessibile ed elastico ai continui cambiamenti e alle innovazioni che caratterizzano il mondo professionale attuale.

Ciò che ci permette di uscire da questa visione ancora parziale, è, appunto, l’introduzione della variabile “contesto”. Un primissimo contributo in questa direzione è fornito dagli studi di R.W. White (1959) secondo il quale la competenza consiste in una generale capacità, conseguita lentamente attraverso prolungate e continue azioni di apprendimento, dell’organismo di interagire efficacemente con l’ambiente; la motivazione è ciò che spinge gli individui a mettere in atto delle azioni che gli consentano di apprendere come migliorare la capacità di padronanza dell’ambiente (in A. Battistelli, 1996). Egli, quindi, intende la competenza come una capacità appresa di padroneggiare il contesto e, di conseguenza, non come una proprietà fissa che è possibile possedere o meno nel proprio repertorio comportamentale; al contrario, essa implica una “capacità generativa nella quale le skills cognitive, sociali e comportamentali potrebbero essere organizzate ed efficacemente orchestrate” (A. Battistelli, 1996), in modo da servire ad innumerevoli scopi ed in situazioni e contesti differenti.

Un altro contributo nella stessa direzione è quello fornito dagli studi di G. Le Boterf (1994 in N. Jolis, 1997). Egli, infatti, fa riferimento esplicito

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al carattere contestuale e contingente della competenza, sostenendo che “la competenza è un saper-agire riconosciuto” e che “non esiste competenza che non sia competenza in atto”; tali definizioni sottolineano l’interazione e l’attualizzazione della competenza nei contesti di lavoro, proponendo una concezione integrata, costruttiva ed operativa di competenza. Secondo questo autore, quindi, la competenza non corrisponde ad una conoscenza posseduta, non si riduce né ad un sapere, né ad un saper fare: possedere delle conoscenze, delle capacità e delle attitudini particolari è un requisito fondamentale, ma non sufficiente per produrre competenza. È solamente l’attualizzazione, l’utilizzo in modo pertinente ed al momento opportuno, di tali requisiti, nella situazione di lavoro, che determina il passaggio a ciò che può veramente essere definito come competenza. “La competenza non può esistere al di fuori dell’atto che non si limita ad esprimerla, ma che la fa esistere” (A. Battistelli, 1996); all’interno di tale visione, quindi, la competenza non coincide con l’insieme delle risorse (conoscenze, abilità, capacità, attitudini, tratti...) di cui l’individuo dispone e che devono essere mobilitate, bensì con la mobilitazione stessa di queste risorse. Affinché si possa dire che una persona è competente bisogna verificare che sia stato messo in gioco un articolato repertorio di risorse attraverso un’operazione non di semplice applicazione delle risorse stesse, bensì di costruzione di quello che Le Boterf (1994 in A. Battistelli, 1996) chiama un “valore aggiunto”. Risulta evidente, a questo punto, che la competenza non può essere separata dalle sue condizioni di messa in opera, che essa si esercita in un contesto specifico ed è, quindi, sempre contestualizzata e finalizzata. Un passaggio ulteriore è quello attuato da J. Leplat, il quale ha identificato, nella competenza, delle caratteristiche che ne enfatizzano il carattere contingente ed operazionale. Egli definisce la competenza (in A. Battistelli, 1996 e J.Y. Menard, 1992): – Operatoria e finalizzata: la competenza è indissociabile dall’azione

attraverso la quale si manifesta ed è sempre relativa ad una situazione o ad un compito; essa non ha senso se non in rapporto all’azione e allo scopo perseguito attraverso l’azione stessa;

– Appresa: si diventa competenti attraverso una costruzione personale e sociale che combina gli apprendimenti teorici e quelli esperienziali;

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– Strutturata: essa combina e ricostruisce in modo dinamico i differenti elementi che la compongono – saperi, saper-fare, atteggiamenti, esperienze... – per rispondere a delle esigenze di adattamento ed in funzione della realizzazione di un obiettivo specifico. Sempre a questo proposito risulta interessante riportare anche la

riflessione di C. Levy-Leboyer (1996) in merito al discorso sulla distinzione, da lui operata, tra i concetti di attitudini e tratti di personalità, da una parte, e quello di competenza, dall’altra: mentre i primi “permettono di caratterizzare gli individui e di spiegare la variabilità dei loro comportamenti nell’esecuzione di compiti specifici, le seconde – che possono essere padroneggiate a differenti livelli – riguardano l’attuazione integrata di attitudini, tratti di personalità e conoscenze acquisite” al fine di condurre efficacemente a termine un incarico complesso nel quadro delle strategie, dello spirito e della cultura dell’impresa in cui l’individuo lavora (C. Levy-Leboyer, 1996). Le competenze, in altri termini, non possono costituirsi se non sono presenti le attitudini ed i tratti di personalità necessari, ma esse non sono riducibili ad un insieme di attitudini e tratti differenti; esse possono essere definite come degli “insiemi stabilizzati di saperi, attività, condotte tipo, procedure standard, tipi di ragionamento che si possono mettere in atto senza un nuovo apprendimento” (M. Montmollin, 1984 in N. Jolis, 1997). Le competenze, dunque, sono costituite progressivamente attraverso l’esperienza, implicano una reale padronanza del compito e fanno riferimento a dei compiti o a delle situazioni di lavoro e alla regolazione di cui è capace l’individuo nell’ambiente di lavoro e nella specifica attività: esse sono dei repertori di comportamento sempre “legati ad un compito o ad un’attività determinata, (...) che risultano dall’esperienza e costituiscono dei saperi articolati, integrati tra loro ed, in qualche modo, automatizzati” (C. Levy-Leboyer, 1996). La competenza diventa, così, anche lo strumento che permette all’individuo di superare i limiti del suo funzionamento cognitivo nella misura in cui, essendo il risultato delle esperienze accumulate in anni di lavoro, essa permette di attualizzare dei sistemi di informazione precedentemente acquisiti e di utilizzarli senza dover concentrare, ogni volta, l’attenzione su di essi.

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Questa teoria costituisce un forte supporto all’aspetto contestuale e costruttivo della competenza, sottolineando che essa si esprime attraverso la capacità di saper selezionare, all’interno del repertorio di risorse di cui l’individuo dispone, gli elementi necessari, saperli organizzare ed impiegare per realizzare un’attività professionale, per risolvere un problema o realizzare un progetto; l’individuo, di fronte ad un compito da svolgere, “sembra costruire un’architettura cognitiva, rendendo, così, la competenza una particolarissima combinazione di ingredienti multipli scelti accuratamente” (A. Battistelli, 1996), in funzione della situazione particolare e delle richieste del contesto.

Il discorso appena fatto introduce, a questo punto, il tema delle competenze cognitive, rinviando all’analisi della loro dimensione trasversale.

* Approccio cognitivo e competenze trasversali

B. Sire (1996, in N. Jolis, 1997) propone una tipologia di competenze che distingue: – Competenze teoriche: saperi acquisiti durante la formazione iniziale e

continua; – Competenze pratiche: saperi metodologici, tecnici ed organizzativi

acquisiti durante l’esperienza lavorativa; – Competenze sociali: esprimono contemporaneamente l’impegno nei

confronti dell’organizzazione e le competenze manageriali e comunicative;

– Competenze cognitive: insieme delle attitudini (trattare le informazioni, saperle formalizzare, saper valutare una situazione...) alla risoluzione dei problemi in un dato contesto organizzativo. Quest’ultima categoria di competenze viene indicata come quella

regolatrice ed ordinatrice delle precedenti; essa, infatti, include elementi quali la risoluzione di problemi, l’adattamento, la combinazione, l’integrazione, la trasversalità, la relatività e la messa in atto in un dato contesto.

Questo tipo di competenze rispecchia la dimensione trasversale della competenza: infatti, mentre la dimensione verticale delle competenze si

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riferisce al diverso livello di padronanza che l’individuo possiede rispetto alle competenze teoriche, pratiche e sociali, la dimensione trasversale delle competenze permette a colui che le detiene di utilizzarle e mobilitarle nell’esercizio successivo ed alternativo di più professioni, mettendolo nelle condizioni di gestire il proprio itinerario professionale ed i processi di mobilità nei quali si trova coinvolto, con una certa garanzia di riuscita professionale anche in contesti differenti.

A questo proposito mi pare interessante richiamare l’approccio cognitivo alla competenza elaborato da S. Michel e M. Ledru (S. Michel e M. Ledru, 1990); questi autori definiscono la competenza come “la capacità di risolvere dei problemi efficacemente in un dato contesto professionale, in modo da rispondere alle richieste dell’organizzazione”; essa si riferisce, dunque, alle strategie di risoluzione dei problemi messe in atto dagli individui in contesti particolari, e che costituiscono i fattori esplicativi del modo attraverso cui si perviene ad agire in modo soddisfacente. Queste strategie di risoluzione dei problemi rinviano ai processi intellettuali messi in atto quando ci si trova di fronte ad un compito da risolvere; sono proprio tali processi intellettuali, di ordine cognitivo, che guidano l’azione integrando, in una combinazione originale, funzione dello specifico contesto, tutte le competenze e le conoscenze dell’individuo.

In particolare, gli autori cercano di reperire il tipo di ragionamento mobilitato ed utilizzato in maniera preponderante nello svolgimento efficace di un’attività; essi sono pervenuti alla stesura di una tipologia di questi procedimenti intellettivi e all’individuazione di tre criteri attraverso cui analizzare la competenza:

A. Processi intellettivi:

Si parte dal presupposto che quando si arriva alla soluzione di un problema, di qualsiasi natura esso sia, è stato attuato un processo intellettivo (S. Michel, 1993); tali processi sono degli schemi di azione mentali che costituiscono una logica, un modo di fare e di trattare le informazioni relative alla situazione e quelle già possedute dal soggetto, una guida ed un metodo per agire e trovare le soluzioni. Questi processi, costruiti nell’azione attraverso l’esperienza, sono in gran parte incoscienti

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ed automatizzati e, di conseguenza, vengono trasferiti spontaneamente da un contesto all’altro. È possibile raggruppare questi processi in tre grandi famiglie utilizzando come criterio di discriminazione la rappresentazione della soluzione che il soggetto sviluppa nella sua mente quando ragiona: – Applicazione: tale processo è messo in atto ogniqualvolta la procedura

di risoluzione del problema è perfettamente definita, l’individuo ha una rappresentazione chiara della soluzione e si riferisce costantemente a delle norme, a delle procedure e ad un modello teorico che gli permettono di sapere sempre dove si trova e cosa deve fare (S. Michel, M. Ledru, 1990);

– Adattamento: tale processo si caratterizza per una rappresentazione relativamente chiara della soluzione, in quanto si suppone esistano molteplici possibilità di soluzione allo stesso problema; si tratta, quindi, di scegliere e trasferire la soluzione che si dimostra più adatta al contesto, alle circostanze e alle condizioni attuali (S. Michel, 1993);

– Creazione: in questo caso non è presente una rappresentazione della soluzione, in quanto essa è nuova, originale e da scoprire; diventa dunque impossibile riferirsi a delle norme, ad un modello qualunque o a delle regole prestabilite: si tratta di innovare, inventare e creare delle soluzioni (S. Michel, 1993).

B. I saperi di riferimento:

Questo criterio permette di comprendere il contesto di riferimento nel quale il lavoratore risolve il problema; in effetti, “se i procedimenti intellettivi costituiscono la dinamica del processo di risoluzione del problema, il quadro di riferimento costituisce il paesaggio nel quale si svolge questa dinamica” (S. Michel e M. Ledru, 1995). Questo quadro di riferimento contiene le informazioni ed i campi di conoscenza che consentono la riuscita nell’azione: i saperi di riferimento rappresentano, infatti, il raggruppamento delle conoscenze indispensabili al successo nell’impiego; essi costituiscono la “biblioteca di base che permette di comprendere, di agire e di apprendere all’interno dell’impiego” (S. Michel e M. Ledru, 1995). Tali saperi non si riferiscono a delle conoscenze particolari e specifiche, bensì a delle “famiglie di conoscenze” stabili che

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forniscono gli schemi esplicativi a partire dai quali verranno integrate tutte le altre nozioni.

C. La relazione con il tempo e con lo spazio:

Si tratta della possibilità di analizzare la forma che assume la complessità delle attività richieste da un impiego; tale criterio, infatti, fa riferimento al campo di informazioni e alla complessità delle operazioni mentali, necessarie alla risoluzione dei problemi nel corso dell’attività; la complessità viene considerata in termini di: – spazio: con riferimento alla quantità di elementi da prendere in

considerazione e alla varietà delle informazioni da gestire nell’atto della risoluzione del problema; essendo impossibile contare il numero di tali elementi, “si analizzerà lo spazio quasi geografico che viene chiamato in causa al momento della soluzione del problema” (S. Michel, 1993), differenziando almeno quattro livelli distinti: lo spazio circoscritto dell’équipe a cui appartiene l’individuo, lo spazio allargato costituito dall’insieme di più unità di lavoro, lo spazio che include l’intera impresa o, per finire, la spazio che coincide con l’ambiente esterno all’azienda;

– tempo: la relazione con il tempo riguarda le prospettive temporali nelle quali il soggetto si situa al momento dell’atto di risoluzione del problema; tale criterio si riferisce alla rappresentazione interiore e spontanea dell’individuo legata allo svolgimento dell’azione nel tempo. Normalmente tale proiezione viene distinta in breve, medio o lungo termine.

D. L’interazione relazionale:

Tale criterio fa riferimento al tipo di relazioni necessarie, durante lo svolgimento dell’attività, per la risoluzione dei problemi che si pongono; esso non riguarda tanto la dimensione psicoaffettiva o sociale (difficile da misurare) dell’aspetto relazionale, bensì il tentativo di capire se e come è necessario entrare in interazione con altre persone per gestire le informazioni coinvolte nel processo intellettivo di risoluzione dei problemi o, in altri termini, se esiste la necessità di integrare, nel processo

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cognitivo, la dimensione relazionale. L’interazione relazionale viene analizzata attraverso due indicatori: – la frequenza: si riferisce alla quantità di interazioni necessarie per

agire efficacemente e si analizza in rapporto al tempo trascorso in interazione, distinguendo due livelli: interazione rara o interazione frequente.

– la natura: è possibile riconoscere tre tipi di interazione: “a fianco” (quando il lavoro necessita di integrazione e scambi regolari di informazioni provenienti da altre persone), “frontale” (caratterizzante tutte le relazioni di vendita, negoziazione, accoglienza...) e “con” (quando si tratta di lavori di équipe che implicano una stretta collaborazione e l’integrazione di diverse logiche di pensiero nello svolgimento dell’attività) (S. Michel e M. Ledru, 1995). Tale approccio cognitivo si dimostra particolarmente interessante nel

quadro dei processi di riconversione e mobilità professionale che vedono coinvolti un numero sempre maggiore di lavoratori; esso concerne, infatti, la descrizione dei processi intellettivi associati alle attività professionali: descrivere le competenze non significa, cioè, descrivere le attitudini, le capacità o i tratti posseduti dagli individui ed associati alle mansioni, bensì gli schemi ed i ragionamenti intellettivi che si accompagnano ad ogni tipo di attività, che sia manuale, relazionale o puramente intellettuale. Quest’analisi permette, quindi, di paragonare tra loro attività anche molto differenti, ma che potrebbero richiedere lo stesso tipo di processi cognitivi, consentendo, in questo caso, di prevedere una mobilità tra gli impieghi che assicuri comunque l’efficacia ed il successo professionale. La finalità che si pone quest’approccio, infatti, è quella di pronosticare la possibilità che un individuo passi da un impiego o da un mestiere all’altro, nonostante essi richiedano competenze tecniche e specifiche differenti (F. Minet e M. Parlier, 1996).

Risulta interessante, in questo contesto, riportare la riflessione sulle competenze trasversali elaborata da parte di alcuni studiosi dell’ISFOL, finalizzata ad esplorare le dimensioni della professionalità e delle competenze così come queste evolvono nei contesti organizzativi e ad

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orientare la progettazione verso modelli di formazione coerenti con le tendenze in atto (in G. Di Francesco, 1994). Gli studiosi rilevano come, nella letteratura esistente in tema di skill per il lavoro, si riscontri un complessivo spostamento dell’interesse dagli scenari occupazionali (professioni e mestieri emergenti ed in declino, settori in crescita e in sviluppo...) all’individuazione delle caratteristiche individuali necessarie per affrontare un mercato del lavoro sempre più incerto, fluido e poco prevedibile (G. Di Francesco, 1994). Essi notano, infatti, che ciò che comincia a prevalere è quello che le persone sanno effettivamente fare ed il modo attraverso cui lo mettono in opera: “L’enfasi viene posta sulla competenza riferita non tanto al possesso di contenuti conoscitivi specifici, bensì alle dimensioni di appropriatezza, armonia, corrispondenza con cui il soggetto si mette in relazione con le richieste del contesto lavorativo” (P.G. Bresciani, in G. Di Francesco, 1994). Fino ad ora il sistema formativo, nel lavoro svolto sul raggruppamento delle mansioni, all’interno della ricerca sulla qualificazione e sulla mobilità occupazionale, si è concentrato sullo sviluppo verticale della professionalità, perseguendo l’obiettivo prioritario di fornire competenze tecnico-specialistiche ed attribuendo, invece, scarso rilievo ad un repertorio di abilità e competenze trasversali e di base. L’ipotesi di partenza di questi autori è che sia possibile identificare una mappa di queste competenze “aspecifiche e di base”, implementabili e sviluppabili, oltre che nei vari contesti e nei diversi momenti di crescita sociale e professionale degli individui, attraverso la progettazione di contenuti e metodologie formative specifiche.

Ciò che emerge in maniera evidente da tali studi, è la rilevanza attribuita alle cosiddette “abilità di base”, distinte dalle capacità e dalle conoscenze proprie di ciascun individuo. Il punto di partenza di questo approccio è la considerazione del fatto che ogni prestazione è caratterizzata contemporaneamente dalle richieste dell’ambiente, dalle capacità del soggetto e dalle sue abilità; queste ultime vengono considerate come la messa in atto di metodi e strategie efficienti per mettere in relazione e collegare le capacità con le richieste dell’ambiente. Connaturati al termine “abilità”, quindi, sono gli elementi di efficacia – rispondere alle richieste dell’ambiente in modo rapido e preciso – e di flessibilità –

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affrontare con successo circostanze e richieste variabili –. Il comportamento lavorativo finale risulta multideterminato da elementi di varia natura e complessità legati, da una parte, al soggetto e, dall’altra, alle caratteristiche della situazione e al contesto concreto di esperienza nel quale egli opera; per quanto riguarda le determinanti personali della prestazione, esse comprendono, al loro interno, tre distinti gruppi di elementi (G. Sarchielli, in G. Di Francesco, 1994): Tratti disposizionali: “caratteristiche collaudate dal soggetto nel corso

della sua esperienza che si configurano come stili di risposta più probabili (stili di apprendimento, stili cognitivi...)”;

Caratteristiche esperienziali: “attributi più esplicitamente legati a percorsi di apprendimento formale ed informale e facilmente modificabili (conoscenze, attitudini, skill, aspettative, abitudini...)”;

Caratteristiche motivazionali: “condizioni soggettive che sostengono un certo livello di attività e la sua direzione, influenzabili dalle situazioni di cambiamento esterno”. Dall’analisi dell’interazione soggetto-lavoro e delle abilità messe in

gioco attivamente dall’individuo per instaurare una relazione positiva con il contesto professionale, gli autori rilevano l’esistenza di un’insieme di abilità di ampio spessore, coinvolte in numerosi tipi di compiti e distinguono tra abilità strettamente tecniche, inerenti il compito specifico e fondate su una conoscenza dichiarativa, ed abilità di base, operanti in situazioni diverse tra loro e, dunque, ampiamente generalizzabili. Essi identificano, in questo modo, tre grandi tipi di operazioni effettuate dal soggetto e fondate su processi interni di differente natura (cognitiva, emotiva e motoria): “diagnosticare le caratteristiche dell’ambiente; mettersi in sintonia adeguata con esso, cioè relazionarsi con oggetti e persone; predisporsi ad affrontarlo mentalmente e a livello motorio” (G. Sarchielli, in G. Di Francesco, 1994). Il conseguimento di un livello adeguato di efficacia in tali abilità sarebbe collegato ad una capacità metacognitiva che corrisponde al mantenersi attivi conduttori del proprio processo di apprendimento, all’essere consapevoli di “come si apprende” e di come intervenire per facilitare o migliorare il proprio funzionamento cognitivo; si può parlare, a questo proposito della capacità di “imparare ad

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apprendere”, assumendo che un adulto valorizzi la propria esperienza per organizzarla in schemi utili per l’acquisizione di nuove conoscenze, adattandosi, così, alle mutevoli richieste provenienti dallo stesso ambiente di lavoro. G. Sarchielli (in G. Di Francesco, 1994) sottolinea, dunque, che mentre le capacità “concernono un sapere, un conoscere il che cosa (il contenuto), l’abilità riguarda il come, essa è un knowing how, un saper scegliere un metodo, un saper integrare diverse capacità. In quanto tali le abilità devono essere considerate come flessibili, riferite all’ambiente e modificabili; esse appaiono come strategie generali da cui derivare quelle di uso quotidiano predisposte ad hoc per determinate situazioni”. Partendo da queste osservazioni, l’autore sostiene che una prestazione skilled (o efficace) è definita, non tanto dalle capacità del lavoratore (a parità di capacità, infatti, potrebbero seguire risposte differenti, più o meno valide), bensì dalle strategie di esecuzione da lui adottate, cioè da come egli adopera le capacità possedute per affrontare il problema che si trova di fronte; sono proprio tali strategie (le abilità di base) che possiedono la proprietà di essere trasferibili, in grado elevato, su compiti diversi. Si può parlare, quindi, di una coesistenza di: skill di tipo tecnico – riguardanti il padroneggiamento di conoscenze dichiarative e di un repertorio di risposte adatte alla situazione –, skill di tipo cognitivo – riguardanti la diagnosi, la pianificazione, la presa di decisione sulle alternative giuste per affrontare il compito- e skill di tipo sociale – che designano i vari tentativi di coordinarsi ed interagire con altre persone-.

Il contributo dei ricercatori dell’ISFOL, dunque, è quello di indicare lo “zoccolo duro” di una skill professionale fondandolo su un repertorio di abilità strategiche ovvero su metodi che l’individuo sceglie di adottare per fronteggiare richieste di natura diversa e che può implementare nel corso delle sue esperienze, investendo energie per mantenere attive le sue capacità di apprendimento; non si tratta, cioè, di contenuti derivati o sollecitati da specifici compiti, assunti dal soggetto in modo contingente come conoscenze da organizzare e memorizzare, né di contributi personali o capacità astratte e potenziali, ma di “modalità e programmi di utilizzo analoghi ad un software” ed, in quanto tali, altamente generalizzabili, cioè trasferibili su contenuti ed in contesti lavorativi differenti. Tali

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competenze trasversali non sono, quindi, attributi di personalità ma strumenti di base, acquisibili in modo formale o informale, indirizzati a risolvere il problema dell’inserimento adeguato dell’individuo nella situazione lavorativa e del suo mantenimento in una posizione attiva di gestione efficace dei compiti assegnatigli.

Per quanto riguarda il problema della trasferibilità delle competenze, G. Sarchielli (in G. Di Francesco, 1994), sottolinea che “un conto è parlare di skill trasferibili, un altro è evidenziare le funzioni cognitive che facilitano il transfer da un setting all’altro”. Nel primo caso, infatti, ci si riferisce ad un dato non psicologico, ad un elenco di abilità che sono trasferibili in quanto adatte ad un nuovo contesto di utilizzo; nel secondo caso, invece, ci si trova di fronte ad una variabile psicologica che riguarda l’attivazione e l’applicazione di conoscenze consolidate nella memoria a situazioni diverse da quelle in cui si sono sviluppate: per gli autori di questo approccio tale processo sembra legato non tanto alla somiglianza tra gli elementi della nuova situazione e quelli già conosciuti dal soggetto, ma alla qualità dell’organizzazione della conoscenza nella memoria a lungo termine e al buon funzionamento di meccanismi come l’attenzione selettiva, l’uso di regole significative, la discriminazione, l’associazione, etc. Tali attributi riguardano il soggetto e l’insieme di risorse psico-sociali che egli ha acquisito nel corso della sua socializzazione pre-lavorativa. Ciò che conta, quindi, è che il soggetto comprenda appieno le possibilità di utilizzo delle abilità che possiede in contesti molteplici e che sia consapevole del modo attraverso cui esse possono essere trasferite ed utilizzate in situazioni differenti. Egli deve, cioè, rendersi conto di come funzionano i propri processi cognitivi e di come sia possibile controllarli o regolarli per poter facilitare, ad esempio, nuovi apprendimenti o l’applicazione delle conoscenze possedute a nuovi tipi di compiti. In altri termini il soggetto non si limita a reagire agli stimoli nuovi ricevuti dall’ambiente, ma cerca di intervenire su di essi, decifrandoli ed interpretandoli, sulla base degli schemi posseduti, di comprendere la nuova situazione adeguando le proprie risorse cognitive (strategie, conoscenze su di sé, sui propri limiti e sulle proprie risorse) alle esigenze del compito, mettendosi nella condizione migliore per accedere a

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conoscenze più generali ed efficaci rispetto al nuovo campo conoscitivo. Questa capacità di “apprendere ad apprendere” e di trasferimento delle abilità (competenza trasversale) è acquisibile nel tempo, migliorabile attraverso ambiti formativi sia formali che informali e può essere facilitata da specifici programmi di intervento.

Esistono, quindi, una serie di risorse psicosociali del soggetto che svolgono una funzione di attivazione del repertorio di abilità di base descritto sopra; con il termine un po’ generico di risorse “si intende comunemente tutto ciò che rende la persona capace di regolare attivamente le differenti forze che configurano il suo attuale spazio di vita e di progettare soluzioni più vicine agli scopi che vuole e deve conseguire in uno specifico contesto come quello lavorativo” (G. Sarchielli, in G. Di Francesco, 1994). Tali risorse sono di differente natura (di tipo sociologico, formativo o psico-sociale) e stabiliscono delle relazioni di influenza reciproca con le abilità strategiche cui sono collegate.

In questo discorso si evidenzia l’importanza delle risorse individuali che rientrano all’interno dell’ampio quadro motivazionale relativo al concetto di sé: esso, infatti, rappresenta una sorta di “schema cognitivo” che permette all’individuo di situarsi nell’ambiente e di stabilire con esso delle relazioni valide. La consapevolezza di sé, la fiducia nelle proprie capacità, il definire gli scopi prioritari da perseguire, il sentirsi membro di un dato gruppo sociale valorizzato rappresentano dei fattori imprescindibili per la costruzione di un assetto psicologico adatto ad affrontare in modo efficace i compiti che la situazione lavorativa presenta al soggetto; al contrario, la scarsa disponibilità di risorse psicologiche relative al self può influenzare negativamente l’utilizzo del repertorio di abilità di base possedute dal soggetto e necessarie alla realizzazione di una prestazione efficace: se il soggetto, ad esempio, non si percepisce capace di padroneggiare i propri punti di forza (magari non sapendoli neanche identificare) tenderà a sotto-utilizzare il suo repertorio di abilità, a ridurre il suo coinvolgimento personale nella situazione, il suo impegno nella risoluzione dei problemi, nella gestione del proprio ruolo professionale e nell’esecuzione accurata e creativa dei compiti affidatigli.

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Ciò che gli autori di questo approccio tengono a sottolineare è il fatto che sia le abilità di base che le risorse soggettive sono implementabili, possono cioè essere acquisite o potenziate in vari contesti, tra i quali riveste un ruolo di particolare importanza quello della situazione lavorativa, considerata come sede privilegiata di apprendimento di gran parte delle risorse individuali.

Il concetto di competenza, dunque, risulta assimilabile a quello di abilità, nella misura in cui quest’ultima non viene ridotta ad una capacità esecutiva ristretta, ma ricondotta al suo significato di “metodo adatto per”; parlare di competenza significa parlare di modalità di gestione delle proprie conoscenze, espresse dal soggetto attraverso comportamenti organizzativi osservabili che influenzano la natura e la qualità della prestazione finale. In questa definizione è implicita la distinzione tra competenza, intesa come conoscenza di modi e regole di appropriatezza di una risposta ad un dato problema, ed esecuzione vera e propria, intesa come uso effettivo di tali regole in una situazione precisa. La competenza professionale, in altri termini, può essere definita anche come una “mentalità”, elaborata dalla persona stessa, con cui si decifrano e si riconoscono gli eventi, si anticipano i fenomeni ed i loro possibili esiti, si costruiscono ipotesi pertinenti ed originali su come gestire la variabilità dei compiti e su come prepararsi ad affrontare le incertezze lavorative quotidiane con un certo grado di possibilità di riuscita (G. Sarchielli, 1996).

Una prestazione competente, quindi, non è delineabile a partire da un insieme di conoscenze tecniche, né da regole sociali o procedure anticipatamente progettate: gli individui hanno a loro disposizione una certa gamma di alternative e possibilità di scelta per elaborare, in modo originale, le sequenze di azioni che risultano più adatte alla situazione concreta e per creare risposte efficaci rispetto ad una richiesta o ad una soluzione di un problema. Il contributo dell’individuo, perciò, non si esaurisce in una risposta automatica, ma deriva da un importante lavoro mentale caratterizzato da processi cognitivi (percezione, interpretazione della situazione, pianificazione dell’azione, controllo dei risultati, anticipazione degli imprevisti) e da processi psicosociali (riconoscimento

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dell’efficacia del proprio agire, coinvolgimento personale nell’azione lavorativa, tipo di identità professionale costruita dal soggetto nel corso della sua storia lavorativa ed extra-lavorativa).

Il concetto di competenza si presenta, quindi, come un concetto molto ampio che tiene in considerazione le richieste specifiche dell’ambiente lavorativo, le capacità del soggetto e le strategie da lui messe in opera per collegare richieste e capacità. “Si potrebbe anzi ipotizzare che il nucleo del sistema di competenza posseduto da un soggetto è dato proprio dalla mentalità di cui si è detto e dall’abilità di mettere in atto strategie di efficiente collegamento tra capacità e richieste” (G. Sarchielli, 1996). Questa definizione implica la presenza, nella progressiva formazione di un lavoratore competente, di un lavoro di sintesi personale compiuto dall’individuo, attraverso cui conoscenze e abilità si connettono per un’azione finalizzata; attraverso l’esperienza si struttura una particolare configurazione delle cognizioni e delle abilità necessarie alla soluzione dei problemi: è proprio tale sintesi altamente personalizzata a costituire il nucleo centrale della competenza. Vengono, in questo modo, sottolineate con forza le caratteristiche di elevata personalizzazione e relativa unicità (derivante dalla modalità con cui la persona si posiziona in un certo contesto mettendo in movimento risorse personali e procedure di soluzione percepite come adatte allo scopo) di una prestazione professionale competente; ma se la competenza è il frutto di un’esperienza individuale di organizzazione di differenti insiemi di abilità effettuata nell’ambito di un contesto determinato, tutte le azioni formative finalizzate al potenziamento o all’acquisizione di competenze dovranno essere indirizzate verso il rafforzamento delle risorse psicosociali e la specificazione del repertorio di abilità di base, più che verso la trasmissione di nozioni tecnico-professionali.

È proprio a partire da tali presupposti che diventa possibile pensare, mettere in atto e spiegare procedure di Bilancio di Competenze, in una prospettiva di evoluzione e sviluppo della professionalità dell’individuo basata non sulla semplice elencazione dei saperi e dei saper fare posseduti o da acquisire, bensì sulla presa di consapevolezza, da parte del soggetto stesso, di tutto quel complesso insieme di risorse personali ed abilità

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messe in atto, spesso inconsapevolmente, nelle situazioni di risoluzione di problemi, in modo da renderlo sempre più padrone di gestire autonomamente la sua carriera professionale ed il suo sviluppo personale.

2.3. La competenza nel Bilancio di Competenze Attraverso questa breve panoramica sul significato e sulle

problematiche collegate con il concetto di competenza si è cercato di evidenziare quegli aspetti e quei fattori implicati nel discorso su questo tema che presentano un legame stretto ed immediato con il contesto di riferimento all’interno del quale si sviluppano e si applicano le pratiche di Bilancio di Competenze. Ciò che è interessante sottolineare, infatti, sono quelle definizioni di competenza che mettono in luce le caratteristiche ed i fattori propri della competenza che si configurano come meglio adatti a sostenere la filosofia e gli scopi sottesi ad un percorso di Bilancio e le metodologie da esso utilizzate, anche se è possibile pensare, a partire da ognuna delle definizioni sopra riportate, differenti tipi di interventi di Bilancio.

È possibile ritrovare, tra la moltitudine e la diversificazione di approcci, degli elementi di fondo, condivisi e comuni, caratterizzanti il concetto di competenza professionale: prima di tutto il fatto che essa rappresenta il risultato di un processo di continua costruzione personale, complessa ed articolata: “è il soggetto che percepisce la sua competenza, fa il suo Bilancio di Competenze, mette in atto comportamenti competenti e che, intervenendo ed interagendo con il suo contesto professionale, acquisisce, sviluppa e costruisce la sua competenza” (A. Battistelli, 1996); un secondo elemento costante è quello della contestualità o contingenza della competenza: essa si esprime, infatti, come fattore strettamente collegato al contesto (professionale ed organizzativo) nel quale si manifesta la performance, funzione delle contingenze della situazione e degli scopi perseguiti dall’attività e, perciò, inseparabile dall’azione attraverso la quale si esprime e che ne consente l’attualizzazione.

È possibile recuperare queste caratteristiche comuni e costitutive della nozione di competenza anche riprendendo la definizione, che rappresenta una rielaborazione sintetica degli approcci di V. de Landsheere e M.

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Montmollin, fornitane da M. Parlier (in J.Y. Menard, 1992) secondo cui essa indica “un insieme di conoscenze, capacità di azione e di comportamenti strutturati e mobilitati in funzione di uno scopo ed in un contesto determinato”.

Partendo da tali presupposti e volendone verificare la congruenza con le pratiche di Bilancio di Competenze, è importante, a questo punto, analizzare la definizione che la legge francese attribuisce alla nozione in discussione, per poter usufruire di termini di paragone più precisi nell’analisi dei diversi interventi di Bilancio. Il primo riferimento legislativo al concetto di competenza lo si trova all’interno dell’articolo L. 900-2, riguardante le disposizioni relative al Bilancio di Competenze, della legge n° 91-1405 del 31/12/1991, intitolata “Disposizioni in merito ai diritti individuali e collettivi in materia di formazione”. Tale articolo afferma che le azioni miranti alla realizzazione di un Bilancio di Competenze

“hanno per obiettivo quello di permettere ai lavoratori di analizzare le

loro competenze professionali e personali come le loro attitudini e motivazioni”

allo scopo di definire un progetto professionale o, se è il caso, un

progetto formativo. Vengono quindi messe in campo tre differenti nozioni – competenze professionali e personali, attitudini e motivazioni – senza, tuttavia, che vengano fornite delle indicazioni più precise circa le loro singole definizioni, le differenze che le caratterizzano ed i loro eventuali rapporti. Rimane dunque difficile stabilire in modo univoco ed inequivocabile ciò che il legislatore sottintende quando utilizza questi termini; la povertà dei riferimenti e dei chiarimenti legislativi, a questo riguardo, lascia ampi margini d’interpretazione che, effettivamente, si riflettono anche nella molteplicità e nella diversità delle pratiche e degli approcci di Bilancio di Competenze; tuttavia, è possibile intuire, almeno a livello generale, le intenzioni e le priorità che muovono il legislatore, soprattutto esaminando il contenuto della nota esplicativa (Cir. DFP n°93/13 del 19/3/1993) che la Delegazione alla Formazione Professionale

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(DFP) del Ministero del Lavoro ha emesso in relazione all’art. L. 900-2. In tale ambito, infatti, viene dichiarato che, tra le altre cose,

“un Bilancio di Competenze deve permettere al lavoratore di passare in

rassegna tutte le sue attività professionali allo scopo di: fare il punto sulle sue esperienze personali e professionali; reperire e valutare le sue acquisizioni legate al lavoro, alla formazione e alla vita sociale; meglio identificare i suoi saperi, le sue competenze ed attitudini; scoprire le sue potenzialità inesplorate; raccogliere e strutturare gli elementi che gli consentono di elaborare un progetto professionale e personale; gestire al meglio le sue risorse personali; organizzare le sue priorità professionali; utilizzare al meglio le sue risorse nella negoziazione dell’impiego o nelle scelte di carriera.”

Dalla distinzione operata tra le nozioni di “saperi”, “competenze” ed

“attitudini” emerge l’idea che esse indichino delle risorse personali di diversa natura: i saperi esprimono, infatti, apprendimenti di conoscenze, le competenze la loro adattabilità ad una pratica professionale, e le attitudini le capacità (fisiche, psicomotorie, verbali e mentali) dell’individuo di mettere in opera le competenze, supportate dai saperi, in una situazione di lavoro (M. Joras e J.N. Ravier, 1993). L. Tanguy (1994, in M. Joras, 1995) collega tra loro i termini di attitudine, capacità e competenza, in questo modo: “La capacità è una manifestazione di attitudine acquisita in uno o più campi; essa non è misurabile in quanto tale, ma produce delle competenze che sono valutabili. [...] La competenza è l’attitudine a realizzare, in condizioni osservabili, secondo delle esigenze definite”. Per quanto riguarda le motivazioni, menzionate dalla legge, esse si riferiscono alle forze, ai poteri, consci ed inconsci, che precedono e guidano l’azione; in questo contesto vengono considerate esclusivamente le motivazioni dell’individuo legate alla definizione e alla stesura di un progetto di sviluppo e all’impegno corrispondente che egli è disposto ad assumersi nella sua elaborazione e nel processo di evoluzione che accompagna tutto il percorso di Bilancio di Competenze.

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Un ulteriore elemento di accordo, circa il significato evocato dalla legislazione in merito all’oggetto di un’attività di Bilancio, è quello che sottolinea la volontà di valorizzare i saperi e le abilità acquisite sia attraverso l’esperienza professionale, nel contesto lavorativo, che attraverso quella extra-professionale, in ambiti formativi o sociali; il legame esistente tra i termini di competenze professionali, intese come capacità di “saper fare” nelle situazioni lavorative, e competenze personali, intese come capacità di “saper essere”, fa presumere che queste ultime, rivestano un ruolo ugualmente importante nell’influire sull’attività professionale oggetto dell’analisi. La competenza, oggetto del Bilancio, include, quindi, sia dimensioni individuali e psico-sociali di tipo personale (cognitive, motivazionali ed affettive) che caratteristiche tecniche, professionali ed operative (conoscenze, capacità ed abilità); essa, inoltre, si presenta come risorsa dinamica, modificabile ed implementabile durante ed attraverso tutte le esperienze (lavorative ed extra-lavorative) nelle quali il soggetto rimane coinvolto nel corso della sua vita. In tale modello diventa essenziale, ai fini di una corretta diagnosi delle competenze e di uno sviluppo progettuale, personale e professionale, basato su di essa, un coinvolgimento profondo del soggetto che si sottopone alla pratica di Bilancio: l’acquisizione di consapevolezza da parte dell’individuo ed il suo ruolo attivo di costruttore del proprio progetto di sviluppo sono, infatti, fattori imprescindibili della riuscita del Bilancio stesso e del raggiungimento delle sue finalità prioritarie. Il lavoratore, come sostiene anche la legge, deve essere messo nelle condizioni di divenire attore del processo di negoziazione della propria carriera: egli, infatti, “non è più solamente colui che risponde ad un’offerta di lavoro, bensì colui che offre delle competenze, dei potenziali e delle attitudini” (M. Joras e J.N. Ravier, 1993). L’utilizzo del termine “potenziale”, infatti, apporta alla nozione di “attitudini” il significato supplementare di capacità di mettere a profitto i saperi e le competenze di cui l’individuo dispone, anche in situazioni ed ambienti differenti, in occasione di nuove mansioni e compiti assegnati o responsabilità accresciute. È proprio questa concezione integrata e costruttiva del concetto di competenza che richiama l’approccio delle competenze trasversali, attraverso la grande enfasi che viene data a

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dimensioni omogenee a quelle delle “risorse psico-sociali” e ai processi di autodiagnosi, sviluppo dell’autostima, della fiducia in se stessi e di rimotivazione degli individui direttamente coinvolti. Sono proprio le competenze “trasversali” (risoluzione di problemi, relazionali, consulenza, animazione, pianificazione, organizzazione...) a costituire, nella maggior parte dei casi, l’oggetto di un Bilancio di Competenze. Sono queste, infatti, ad essere trasferibili in situazioni nuove e sono sempre queste a rendere possibile, quando il soggetto ne acquisisce consapevolezza, lo sviluppo ulteriore, progressivo e continuo dell’individuo nella sua vita personale e nella sua carriera lavorativa.

A proposito dell’importanza delle dimensioni personali e profonde dell’individuo nella determinazione di una competenza e del successo di un percorso di Bilancio, ci sembra utile tornare alla riflessione di C. Levy-Leboyer sulla nozione di competenza per analizzarne gli influssi e le conseguenze sul modo d’intendere, progettare ed eseguire un percorso di Bilancio di Competenze. Questo autore parte (come sintetizza il Grafico n°1) da una concezione di competenza intesa come repertorio di comportamenti che, mettendo in opera in modo integrato attitudini, tratti di personalità e conoscenze acquisite attraverso le esperienze, rende l’individuo capace di eseguire una prestazione efficace in un contesto determinato.

Grafico n°1

Da tale modo d’intendere la competenza derivano, quindi, delle

importanti conseguenze sul significato e sull’utilità del Bilancio di Competenze; innanzitutto, sottolineando il ruolo dell’esperienza (personale e professionale) nella costruzione della competenza, si enfatizza la sua importanza come mezzo di sviluppo personale e la sua valenza formatrice; Tale plasticità ed implementabilità continua della competenza trova,

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d’altra parte, anche un fondamento giuridico nella sezione della legge n° 91-1405, dedicata al “congedo di Bilancio di Competenze”, in cui si prevede che il lavoratore possa richiedere nuovamente l’effettuazione di un Bilancio delle proprie competenze dopo un periodo di cinque anni (durante i quali deve aver lavorato) dalla precedente somministrazione. Se l’esperienza acquista un ruolo così fondamentale, diventa necessario, ai fini di una completa valutazione delle competenze e predizione del successo professionale, usufruire di nuovi metodi di certificazione che tengano conto non solo dei titoli di studio formalmente acquisiti ma anche della capacità individuale ad apprendere, nel corso di tutta la vita attiva, in contesti informali e professionali e della capacità di trasferire le competenze acquisite in situazioni diverse tra loro.

In secondo luogo, ciò che viene messo in rilievo dall’approccio di C. Levy-Leboyer è l’enorme importanza dell’immagine di sé, costruita dall’individuo sulla base delle sue esperienze personali, professionali e sociali, nell’influenzare ed indirizzare la dinamica delle azioni individuali prima, durante e dopo un percorso di Bilancio. Tale immagine, che si presenta come dinamica, varia e complessa, è il risultato di un processo cognitivo complesso che coinvolge rappresentazioni di natura diversa (cognitive, valutative ed affettive). Essa è fondata e costruita sulla base di confronti sociali e si arricchisce progressivamente attraverso le informazioni provenienti da diverse fonti (percezione ed attribuzione di responsabilità dei risultati delle proprie azioni, influenze sociali, osservazione degli altri). Ciò che costituisce fattore determinante all’interno del discorso sul Bilancio di Competenze, è il fatto che è proprio questa immagine di sé a determinare, in gran parte, i comportamenti sociali dell’individuo in termini di influenza sul modo di percepire se stesso e gli altri, sulle strategie sociali adottate, sul modo in cui egli reagisce alle informazioni su di sé provenienti da altri e, soprattutto, sugli obiettivi che egli si fissa e lo sforzo che impegna per la loro realizzazione, cioè sulla motivazione.

Il Bilancio di Competenze presuppone l’idea che l’individuo che vi si sottopone possieda un’immagine di sé e delle proprie competenze falsa o, almeno, incompleta, incerta ed imprecisa. In altri termini, l’immagine che

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gli adulti si costruiscono di loro stessi attraverso un’autovalutazione spontanea, nel corso della loro vita attiva, necessita di essere migliorata e completata attraverso l’apporto di altre informazioni e di confronti sociali. Il Bilancio di Competenze, quindi, risponde a questa esigenza ed interferisce con l’immagine di sé, costruita dalle persone, in diversi modi: prima di tutto, esso può aiutare l’individuo a scoprire ed interpretare i diversi livelli implicati nella propria concezione di sé, fornendogli anche un supporto nello sviluppo di tecniche cognitive che gli consentano di effettuare un’autovalutazione più oggettiva; può, inoltre, attraverso l’apporto di basi di confronto sociale differenti, arricchire le fonti da cui l’individuo riceve informazioni su di sé, mettendolo di fronte ad aspetti della propria identità esistenti ma sempre negati o sottovalutati, ed aiutarlo ad integrarle ed interpretarle in modo da confermare o modificare l’immagine di sé precedentemente elaborata. In altre parole l’idea che sottostà al Bilancio delle Competenze è quella secondo cui non è sufficiente possedere delle competenze, ma è necessario, ai fini di un loro adeguato ed efficace utilizzo, identificarle correttamente e completamente, sapere come e quando metterle in atto ed, infine, elaborare un’immagine chiara e precisa delle proprie capacità e dei propri limiti. Il Bilancio di Competenze ha per scopo, infatti, quello di rendere gli individui consapevoli del potenziale personale a loro disposizione, sviluppando in loro quelle tecniche cognitive necessarie per descriversi ed autovalutarsi e facendogli prendere coscienza del reale peso che le diverse cause (di ordine personale o situazionale) giocano sul successo/insuccesso dei loro comportamenti passati, in modo da concentrare le proprie energie sulle possibilità esistenti per migliorarsi nel futuro, senza lasciarsi influenzare da percezioni negative circa le proprie capacità. In effetti, è proprio questa percezione della propria competenza a costituire un fattore determinante delle azioni e dei comportamenti individuali: “un’accurata conoscenza di sé, con valutazioni scrupolose delle proprie abilità, ha un considerevole valore adattivo; essa è in grado di mettere gli individui in condizione di regolare il proprio comportamento secondo le richieste dell’ambiente e permette di evitare situazioni nelle quali essi potrebbero sentirsi inadeguati” (A. Battistelli, 1996). Come sostiene la stessa autrice “la

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competenza percepita è un aspetto essenziale della competenza reale”, in quanto è ciò che permette all’individuo di selezionare i compiti e le attività verso cui indirizzarsi e di persistere negli sforzi e nelle difficoltà incontrate; essa si collega alla capacità del soggetto di mobilitare le sue risorse cognitive, di esprimere una motivazione e di attivare il repertorio comportamentale necessario a controllare con successo gli eventi della propria vita. Tra le componenti maggiormente significative della competenza e degli interventi basati su di essa, quindi, i tratti personali, la motivazione, la concezione e la stima di sé rappresentano fattori determinanti almeno tanto quanto il possesso di determinate conoscenze, attitudini ed abilità. Diventa quindi essenziale che l’individuo sia accompagnato ed aiutato ad analizzare profondamente questi aspetti della sua personalità in quanto, fino a quando non diventa consapevole di possedere questo tipo di risorse, non sarà in grado di capirne le importanti potenzialità né, di conseguenza, di mobilitarle, al meglio, nelle situazioni in cui si imbatte per ottenerne dei vantaggi in termini di risultati soddisfacenti.

Se queste indicazioni circa gli scopi perseguiti dal Bilancio di Competenze risultano teoricamente condivisibili ed estendibili a tutte le pratiche esistenti, tuttavia, non si può tacere un innegabile proliferare di modelli di Bilancio anche molto distanti tra loro. Come abbiamo visto la legge francese non fornisce delle indicazioni precise ed univoche circa il significato della parola competenza e ciò da origine ad una molteplicità di approcci al Bilancio di Competenze che focalizzano, ognuno, aspetti differenti della competenza, riferendosi, quindi, anche a presupposti teorici diversi. Un tentativo di sintesi e di schematizzazione dei differenti modelli di Bilancio si collega alla tipologia di approcci alla competenza fornita da S. Michel (1993). L’assunzione di un dato significato di partenza al termine “competenza” comporta delle ripercussioni evidenti sulla pratica del Bilancio, in termini di obiettivi e finalità che ci si prefigge di raggiungere, di modalità di prestazione del servizio, e di metodi e strumenti utilizzati per la misura di ciò che, di volta in volta, s’intende per competenza. Ciò che è fondamentale, infatti, è che ciascuno dei servizi che si occupa della realizzazione di Bilanci di Competenze possieda ed

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espliciti, all’inizio del percorso, una definizione chiara, condivisa ed operativa dei concetti di competenze, attitudini e motivazioni indicati nella normativa. Requisito essenziale, quindi, per la riuscita e l’efficacia di un percorso di Bilancio è l’assicurare assoluta trasparenza all’intervento realizzato, in modo da rendere comprensibili ed accettabili i risultati cui esso perviene. È necessario, quindi, sviluppare una certa coerenza tra i metodi e le pratiche di Bilancio effettuate, gli scopi perseguiti e le scelte concettuali ad esse sottese. Nella tabella riportata qui di seguito si illustrano, proprio prendendo spunto dalla riflessione di S. Michel (1993), i legami intercorrenti tra la concezione di competenza da cui si decide di partire, il tipo di Bilancio – di posizionamento o di orientamento – (con riferimento alla tipologia precedentemente illustrata) più adatto a sostenere tale approccio, gli obiettivi da esso perseguiti e gli strumenti più idonei da utilizzare. Naturalmente le correlazioni che vengono fatte non vogliono essere rigidamente e schematicamente intese: è, infatti, possibile, e molto spesso è proprio ciò che si verifica nella pratica, che i diversi approcci ed i rispettivi tipi di Bilancio e strumenti indicati, vengano integrati o alternati all’interno dello stesso intervento di Bilancio, oppure che il medesimo approccio alla competenza dia origine, come illustra anche il Grafico n°2, ad interventi differenti a seconda della provenienza della domanda, degli utenti coinvolti e degli scopi perseguiti.

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Grafico n°2

Concezione competenza

Riferimentoteorico

Tipo diBilancio

prevalente

Obiettivo di Bilancio

Strumenti di Bilancio

Attitudini Caratteristiche individuali

Psico. classicae statistica

Bilancio di posizionamento

Valutare Pronosticare

Test attitudinali

Saperi Conoscenze Psicopedagogia Bil. orientamento Bil. posizionamento

Valutare Formare

Tassonomie Test di

conoscenza Saper fare Esperienza,

saper agire Attività

manageriale Bilancio di

orientamentoReperire

Descrivere Analizzare

Descrizioni attività ed esperienze

(es. portafoglio di competenze)

Saper essere Motivazioni Interazionismo Bilancio di orientamento

Analizzare Storie di vita

Comportamenti Caratteristiche individuali

Psicologia dei tratti e

statistica

Bilancio di posizionamento

Valutare Pronosticare

Test di personalità

Sapere, saper fare,

saper essere

Somma di conoscenze,

abilità e comportamenti

Psico. classicae attività

manageriali

Bilancio di orientamento

Reperire Descrivere Analizzare

Descrizioni di attività e di esperienze

Competenzecognitive

Strategie di risoluzione dei

problemi

Psicologia cognitiva

Bilancio di orientamento

Confrontare Orientare Mobilitare

Descrizioni di attività e di

esperienze (es. incidenti critici)

La varietà dei fattori evidenziati (abilità, attitudini, tratti di

personalità, immagine di sé) ed analizzati, di caso in caso, secondo dimensioni e prospettive diverse, sono, quindi, tutti suscettibili di costituire l’oggetto di un’azione di Bilancio, in conformità alle scelte effettuate dalle strutture che erogano il servizio; questo discorso porta, dunque, ancora una volta, a sottolineare come non sia possibile parlare di un modello unico di Bilancio di Competenze, ma piuttosto di una compresenza di molteplici approcci che, prendendo in considerazione aspetti in parte differenti della competenza, presuppongono anche l’utilizzo di tecniche diverse.

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Il discorso, a questo punto, introduce il problema della possibilità di misurare le competenze individuali, comunque esse siano intese, attraverso l’utilizzo di approcci e strumenti di diversa natura.

3. La Metodologia del Bilancio di Competenze

3.1. Le linee di fondo Rispetto alla finalità che il Bilancio si propone di raggiungere –

consentire a qualunque lavoratore, in qualsiasi condizione professionale e lavorativa, di fare il punto sulle proprie competenze e risorse personali, allo scopo di elaborare un progetto di sviluppo professionale –, è possibile mettere in rilievo alcuni punti fondamentali caratterizzanti la metodologia utilizzata e condivisi da tutti i differenti approcci esaminati.

Innanzitutto è importante sottolineare la centralità del soggetto nell’intero processo, sia durante l’analisi e la valutazione delle proprie competenze, che durante la fase di elaborazione del progetto di sviluppo. Il Bilancio, infatti, risponde a domande ed esigenze che partono dall’individuo stesso e che si riferiscono alla sua necessità di ricevere delle informazioni che gli consentano di giungere ad una migliore e più approfondita conoscenza di sé; tale richiesta, che deve essere formalmente esplicitata nella fase preliminare dell’intervento, attraverso la stipulazione di un contratto, nasce dalla volontà e dall’intenzione della persona di gestire in prima persona il proprio sviluppo di carriera. È fondamentale, quindi, per un esito efficace dell’azione di Bilancio, che l’individuo sia disponibile, poiché fortemente motivato, ad accettare ed affrontare attivamente tutti i cambiamenti che si dovessero rendere necessari per la propria crescita personale e professionale. Da questo punto di vista, infatti, un soggetto che si sottopone ad un Bilancio di Competenze è un soggetto che percepisce l’esistenza di una relazione inadeguata tra sé ed il proprio ambiente di lavoro; il Bilancio, quindi, si configura come un’azione di cambiamento nella misura in cui, aiutando l’individuo ad aumentare le proprie capacità di autovalutazione, va ad influire sull’immagine che egli si è costruito di se stesso e sulle

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rappresentazioni che si è costruito circa le condizioni e le opportunità professionali in cui si trova, modificando, di conseguenza, anche il rapporto tra sé ed il contesto lavorativo. Come evidenzia A. Selvatici (1997) un intervento di Bilancio incide significativamente su almeno tre aspetti: – Il sistema di rappresentazioni: “l’insieme più o meno organizzato di

opinioni, credenze, sentimenti che la persona ha su di sé (sulle proprie capacità, conoscenze, interessi e motivazioni) e sul contesto professionale e lavorativo”;

– La definizione del problema: “il modo in cui la persona interpreta e da significato agli elementi della situazione in cui si trova e all’inadeguatezza del rapporto tra sé ed il lavoro attuale”;

– La configurazione dello scopo: “l’insieme delle soluzioni possibili e degli elementi di tali soluzioni, così come la persona riesce a prefigurarli all’inizio dell’azione di Bilancio”. È evidente, quindi, che si rende indispensabile non solo la disponibilità

dell’individuo a tali modifiche, ma anche la sua partecipazione ed il suo contributo attivo e responsabile durante l’intero percorso di Bilancio. Infatti ciò che è importante è che la persona, nel corso dell’intervento, arrivi a comprendere meglio sé ed il suo rapporto con il contesto lavorativo e che diventi consapevole della sua possibilità di mobilitare e trasferire le proprie competenze da un contesto all’altro. A questo scopo diventa fondamentale, nella metodologia del Bilancio di Competenze, sviluppare capacità di autodiagnosi, di ricomposizione e valorizzazione dell’immagine di sé al fine di accrescere la propria autostima e la propria autonomia nel gestire la propria carriera e realizzare un progetto professionale. In questo senso, dunque, il Bilancio si distanzia parecchio dal giudizio diagnostico fornito da un esperto che ha la finalità predittiva circa la capacità di una persona di ricoprire con successo un ruolo lavorativo; l’operatore di Bilancio, invece di valutare dall’esterno e fornire i risultati della propria analisi, svolge il ruolo di “mediatore”, che propone al soggetto schemi di lettura e d’interpretazione della realtà e gli fornisce gli strumenti per renderlo autonomo nella gestione della sua evoluzione professionale, in funzione dei vincoli e delle opportunità che si sono valutate. L’azione di

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Bilancio si configura, di conseguenza, come un percorso di consulenza fortemente personalizzato, in cui non è possibile prevedere uno standard di metodi e strumenti utilizzabile sempre per tutti i destinatari, indipendentemente dalle loro caratteristiche personali e dalla loro storia professionale; esso, al contrario, si presenta come una pratica flessibile, che presuppone possibilità di dialogo tra utente e consulente e di adattabilità dei metodi e delle procedure alle diversità dei singoli casi e situazioni che, di volta in volta, si prospettano.

Un ulteriore aspetto di metodo che accomuna tutte le azioni di Bilancio è la loro finalizzazione operativa che si manifesta attraverso l’elaborazione di un progetto professionale concreto e realistico; ciò che viene sottolineato come fattore innovativo è, infatti, proprio il carattere di realismo che deve avere questo progetto: esso deve sfociare in un vero e proprio piano d’azione di sviluppo professionale, costruito sulla base di un’attenta esplorazione delle opportunità fornite dal contesto e del confronto tra queste opportunità ed i vincoli e le risorse possedute dal soggetto, in modo da evidenziare ed indicare con precisione i passi da effettuare per la sua messa in atto e per la realizzazione concreta dello sviluppo personale e professionale auspicato.

Nonostante queste linee di fondo, che segnano gli argini entro cui tutte le pratiche di Bilancio si muovono, non si può parlare, così come abbiamo detto per gli approcci alla competenza, di un’unica modalità di intendere e portare avanti le procedure di Bilancio.

È possibile differenziare, in linea generale, le pratiche messe in atto dagli operatori di Bilancio in relazione ad alcuni grandi orientamenti, a seconda che essi tendano a privilegiare le caratteristiche della persona in quanto tale, o le caratteristiche della persona in funzione al compito; che sottolineino la rilevanza della relazione tra soggetto ed operatore come elemento chiave del bilancio, oppure che privilegino l’uso di strumenti dotati di qualità metriche che consentano di misurare in modo valido ed attendibile le caratteristiche individuali.

Al di là di tali indicazioni di massima, però, si possono differenziare, in modo più dettagliato, i modelli di Bilancio maggiormente diffusi, anche

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secondo altre variabili, giungendo, così, ad identificare dei veri e propri approcci per la realizzazione di un Bilancio di Competenze.

3.2. Approcci e strumenti di misura Il discorso sulle diverse concezioni di competenza, sottostanti agli

interventi di Bilancio di Competenze, è strettamente connesso al discorso sui metodi, gli strumenti e le tecniche che si ritengono, di volta in volta, più adatte alla sua messa in opera e alla sua realizzazione. Esistono, infatti, molteplici modi di effettuazione di un Bilancio di Competenze, anche perché esso si indirizza verso una tipologia di utenza molto diversificata (disoccupati senza qualifiche formali in cerca di un ricollocamento sul mercato del lavoro, lavoratori altamente qualificati coinvolti in processo di riconversione o di mobilità interna all’azienda...) per età, titolo di studio, formazione, posizione lavorativa o livello di qualifica. Per rispondere a domande ed esigenze così differenziate c’è, dunque, bisogno di usufruire di strumenti e tecniche di vario genere che, attinte dal vasto repertorio di metodi di valutazione esistenti in psicologia, in statistica e nelle teorie dell’orientamento, devono, però, subire delle modifiche e degli adattamenti in funzione degli obiettivi peculiari e specifici del Bilancio. Chiarito ciò, ci soffermeremo sull’analisi dei quattro approcci che C. Levy-Leboyer (1993) identifica come quelli maggiormente diffusi e suscettibili di essere utilizzati nell’attività di Bilancio. Ognuno degli approcci presentati, partendo da presupposti teorici differenti, vuole rispondere, attraverso l’impiego di strumenti variegati, a domande in parte diverse; nessuno di essi, infatti, possiede il merito di essere esaustivo rispetto a tutti i fattori coinvolti nel complesso intervento del Bilancio; cercheremo, quindi, di metterne in luce, oltre che i rispettivi vantaggi, anche i limiti e gli inconvenienti di un’applicazione troppo rigida e chiusa in se stessa.

Approccio relazionale

Tale approccio, fortemente ispirato alle teorie rogersiane, si basa sulla relazione interpersonale, tra soggetto ed operatore, come mezzo fondamentale per la conoscenza di sé; all’interno di tale visione, il Bilancio

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viene considerato come un’azione direttamente collegata agli interventi, già ampiamente diffusi e sperimentati, di supporto ad adulti in difficoltà, specialmente nel quadro del ricollocamento di disoccupati.

I presupposti di partenza su cui esso poggia possono essenzialmente ricondursi ai seguenti: – La conoscenza di sé e la consapevolezza delle proprie risorse

costituiscono degli elementi essenziali nel processo orientativo e nella gestione del proprio percorso professionale.

– Gli individui sono in grado di risolvere autonomamente i propri problemi: il sostegno consiste, quindi, nell’aiutarli a fare il punto su di sé, non sostituendosi ad essi nella presa di decisioni o fornendogli dei consigli da “esperti”, bensì rendendoli attori del proprio apprendimento, del proprio divenire professionale e dell’elaborazione del percorso d’orientamento, “portandoli ad appropriarsi del proprio futuro” (C. Levy-Leboyer, 1993). In questo senso il processo che conduce all’elaborazione del progetto professionale diventa più rilevante del progetto stesso.

– L’intervento del consigliere si inscrive nel quadro di una domanda di tipo affettivo proveniente dal soggetto che ha bisogno di riacquisire valore ai propri occhi e di aumentare la stima che ha di se stesso.

– La relazione che si instaura tra il soggetto e l’operatore è, fondamentalmente, di tipo non direttivo, empatica e centrata sul cliente. Il ruolo del consigliere consiste, essenzialmente, non tanto nel fornire l’opinione di un esperto, bensì nell’apportare l’appoggio dello sguardo dell’altro, in quanto “è nel confronto con l’altro che l’individuo prende coscienza di sé” (J. Aubret, F. Aubret e C. Damiani 1990, in C. Levy-Leboyer, 1993). Il discorso che in questa sede ci sembra più interessante affrontare è

quello relativo alle metodologie e agli strumenti che, a partire da tali principi, possono essere utilizzati in un intervento di Bilancio e alla forma che, conseguentemente, esso viene ad assumere all’interno di tale approccio.

Per quanto riguarda gli strumenti maggiormente adatti a sostenere tali presupposti, possiamo menzionare il colloquio (soprattutto nella forma non

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direttiva), le tecniche di gruppo ed il materiale di aiuto al processo autobiografico. I colloqui non direttivi, infatti, si rivelano particolarmente efficaci all’interno di tale approccio in quanto servono ad aiutare il soggetto ad analizzare e comprendere da sé i propri problemi, parlandone del tutto liberamente; l’obiettivo che essi si prefiggono di raggiungere è quello di sviluppare un processo di maturazione psicologica e di valorizzazione dell’immagine che il soggetto si è costruito di se stesso, attraverso la riformulazione, da parte del consulente, delle problematiche, delle attese e delle priorità espresse dall’intervistato; tale riformulazione, infatti, permette all’individuo di prendere maggiormente coscienza di ciò che egli stesso ha espresso, in modo informale, circa la descrizione e la percezione della propria situazione personale e professionale. Anche le tecniche di gruppo utilizzate hanno per scopo quello di aiutare la persona, attraverso il confronto sociale e l’arricchimento delle informazioni su di sé, nel riconoscimento delle proprie competenze e delle proprie risorse. Il gruppo, infatti, svolge un importante ruolo nei processi di costruzione dell’identità e di sviluppo personale, influendo profondamente, attraverso il confronto con persone aventi lo stesso tipo di problemi, su ciascuno dei suoi membri. Infine, la ricostruzione dell’autobiografia riguarda la stesura del percorso personale che include il periodo di formazione e quello della vita attiva. Attraverso tale strumento si tenta di facilitare contemporaneamente il riconoscimento della propria identità e la presa di coscienza delle proprie competenze descritte attraverso il racconto delle proprie esperienze professionali passate (es.: le “storie di vita”). Il portafoglio di competenze rappresenta un esempio particolarmente adatto al Bilancio di Competenze: esso consiste in un dossier composto da schede distinte che vertono su aree specifiche relative alle esperienze e alle acquisizioni del soggetto, e che lo aiutano a fare il punto sulle risorse di cui dispone e sulle concrete possibilità di evoluzione professionale che gli si prospettano.

Coerentemente alla filosofia sottostante al Bilancio di Competenze, tale approccio pone fortemente al centro dell’intero processo la persona ed il rapporto che si instaura tra essa ed il consulente. La relazione interindividuale, in effetti, risulta una prerogativa fondamentale in

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quanto consente di stabilire un primo contatto personale ed individuale con il soggetto, di chiarire e precisare l’obiettivo dell’intervento e le aspettative dell’individuo che vi si sottopone e di sostenerlo durante tutta la difficile fase della restituzione delle informazioni su di sé. Il colloquio, nelle sue diverse forme (non direttivo, semi-direttivo...) deve costituire una parte integrante dell’intero percorso di valutazione; nella prima fase di esplorazione del bisogno, infatti, spesso la domanda di intervento psicologico, proveniente dal soggetto o dall’organizzazione, non è formulata in modo comprensibile e completo, in quanto il soggetto stesso non percepisce in modo chiaro la ragione profonda del suo malessere, né la natura delle sue motivazioni e del suo bisogno. È proprio la presenza ed il contatto con un interlocutore discreto, attento nell’ascolto, disponibile e competente, che consente all’individuo di esplicitare le proprie richieste, prendere coscienza di sé e della propria situazione e formulare delle aspettative nei confronti dell’obiettivo del Bilancio. Solo partendo da un’analisi approfondita e completa della natura della domanda iniziale, è possibile ottenere la fiducia, il consenso e la collaborazione dell’interessato e costruire un intervento personalizzato, durante il quale tutte le informazioni ed i dati emergenti devono essere, obbligatoriamente, analizzati, discussi, condivisi e restituiti alla persona che vi si è sottoposta.

I pericoli in cui l’utilizzo di un tale tipo di approccio potrebbe incorrere si riferiscono al rischio di trasformare la relazione tra il consulente ed il soggetto in un rapporto psicoterapeutico senza esiti concreti sul piano dello sviluppo professionale della persona; in realtà, invece, il Bilancio di Competenze è estraneo a tale interpretazione psicoanalitica (più adatta ad azioni di counseling vero e proprio) e anche gli strumenti utilizzati (come i colloqui e le esercitazioni di gruppo) non devono perseguire l’obiettivo di modificare in modo duraturo comportamenti ed atteggiamenti delle persone, bensì unicamente di aiutarli nella presa di coscienza, più realistica possibile, di sé e della totalità delle risorse di cui dispongono.

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Approccio differenziale

Un secondo tipo di approccio che può caratterizzare le pratiche di Bilancio è quello che trae spunto ed origine dalla psicologia differenziale, una branca della psicologia che si pone come scopo quello di misurare le differenze interindividuali. Possiamo sintetizzare i presupposti su cui si fonda tale approccio, in questo modo: – Gli individui differiscono tra loro per una serie di fattori-caratteristiche

relativamente stabili nel tempo; – Queste differenze interindividuali (che non è possibile osservare) si

traducono in comportamenti e performance di vario tipo, osservabili, misurabili e confrontabili;

– La misurazione di tali differenze deve essere rigorosa e basata su criteri oggettivi e scientifici, cioè non deve in alcun modo dipendere dalle caratteristiche della persona che misura o della situazione;

– Gli strumenti e le tecniche utilizzate, di conseguenza, devono possedere le qualità metriche indispensabili (fedeltà, validità ed affidabilità) ad una misurazione rigorosa. In particolare, la definizione delle caratteristiche individuali che

spiegano le differenze osservate a livello di comportamenti e di condotte lavorative, è il risultato di sofisticate ricerche che si appoggiano su metodi statistici ed, in particolare, sull’analisi fattoriale. Il punto focale di tale approccio sono, quindi, proprio gli strumenti che rendono possibile questa misurazione attenta e rigorosa delle caratteristiche personali (attitudini, tratti di personalità, conoscenze ed abilità). Negli strumenti più utilizzati da questo modello rientrano i test (attitudinali, di personalità...), i questionari strutturati e le tecniche di osservazione sistematica del comportamento. Per quanto riguarda l’utilizzo dei test, la cui origine si fa risalire agli studi di A. Binet, possiamo dire che essi, dopo essere stati oggetto di numerose ricerche, hanno dimostrato la loro utilità e la loro validità scientifica rispetto alla capacità di predire comportamenti professionali futuri. Tra le numerose prove esistenti, suscettibili di essere utilizzate nel Bilancio di Competenze, ricordiamo i test di conoscenza, quelli attitudinali (es.: test di attitudine motoria, test d’intelligenza, test d’attitudine verbale...), i questionari di personalità (i cui risultati si

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traducono in termini di “profilo”), i questionari d’interessi, le scale di valori, i test situazionali (osservazione sistematica dell’individuo posto in una situazione artificiale, di fronte ad un compito da svolgere o un problema da risolvere) oppure osservazioni di comportamenti durante esercitazioni (individuali o di gruppo) di simulazione dell’attività professionale.

L’utilità di questi strumenti all’interno di un intervento di Bilancio è sicuramente innegabile in quanto essi sono in grado di fornire dei dati assolutamente validi, precisi ed attendibili su vari aspetti della personalità dell’individuo, coinvolti nel processo di valutazione. Un individuo, infatti, che richiedesse un apporto di informazioni su qualche caratteristica della sua personalità, troverebbe sicuramente piena soddisfazione dall’applicazione di questi strumenti. Ma ciò che è importante ricordare è la funzione principale degli interventi di Bilancio: essi, infatti, non hanno per scopo fondamentale quello di misurare e diagnosticare le caratteristiche della persona per predirne la possibilità di riuscita o successo professionale in un determinato ruolo o funzione lavorativa; essi, al contrario, costituiscono, prima e più di tutto, un’occasione per l’individuo di accrescere la capacità di gestione autonoma della propria vita lavorativa e del proprio sviluppo professionale. Da questo punto di vista, quindi, l’utilizzo di tali tecniche nel Bilancio di Competenze, lungi dall’essere inutile, deve essere considerato come uno strumento al servizio della finalità principale sopra richiamata: le informazioni ottenute attraverso questi strumenti, infatti, forniscono un contributo essenziale ai fini del raggiungimento degli scopi del Bilancio (in quanto aiutano ad ottenere dati precisi ed obiettivi su risorse e limitazioni di base possedute dell’individuo), ma non esauriscono il significato e la finalità ultima dell’azione. Proprio per questa ragione, è necessario che essi vengano utilizzati in maniera da tenere in considerazione, di volta in volta, le caratteristiche peculiari delle persone che si sottopongono alla valutazione: bisogna saper scegliere (grazie alle informazioni e alle conoscenze acquisite attraverso il colloquio preliminare), quali test e quali domande, al loro interno, si rivelano più efficaci e discriminanti nei confronti degli individui oggetto di Bilancio, costruendo, ogni volta, un

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intervento altamente personalizzato e “su misura” dell’interessato. Un ulteriore aspetto cui porre attenzione e che limita l’utilizzo indiscriminato ed assoluto dei test come strumenti di Bilancio, è quello che si riferisce ad una caratteristica intrinseca di tale tipo di prove: esse, infatti, forniscono dati attendibili sulla base delle risposte fornite dai soggetti a quesiti che possono misurare solo delle caratteristiche stabili ed immutabili della persona; non sono in grado, però, di analizzare il percorso attraverso il quale la persona è pervenuta a tale risposta, soffermandosi, così, ad un’analisi statica che esclude dal suo campo d’indagine i processi cognitivi messi in opera dall’individuo nella risoluzione dei problemi. Questo aspetto risulta, al contrario, centrale nella metodologia del Bilancio di Competenze fondato su una concezione dinamica ed evolutiva della persona che sottolinea soprattutto i suoi aspetti di continuo sviluppo e costruzione attiva della propria competenza. Ma, a questo punto, torniamo sul discorso di cosa s’intende per competenza: se la competenza è la capacità di integrare in modo dinamico e strutturato le proprie risorse in funzione di situazioni determinate, allora diventa chiaro che ciò che queste prove misurano non è la competenza, bensì l’insieme di quei fattori personali e stabili (attitudini, tratti, abilità..) che ne costituiscono il substrato necessario. Si capisce, a questo punto, la necessità di affiancare, all’interno di un’azione di Bilancio che voglia essere esaustiva nella sua analisi, l’utilizzo di questi strumenti a quello di altri più direttamente confacenti alle dimensioni più evolutive e soggettive ugualmente coinvolte nel processo.

Approccio ergonomico

A differenza dell’approccio precedente che concepisce la competenza come un insieme di attitudini e caratteristiche individuali misurabili attraverso strumenti attendibili, questo approccio parte da una concezione di competenza, molto più complessa, intesa come insieme organizzato e strutturato di conoscenze, abilità, procedure e modi di ragionamento tipici, in riferimento a compiti o situazioni professionali. Tale approccio, che si concentra sui processi di costruzione e sviluppo della competenza attraverso l’esperienza lavorativa, ci permette di precisare il legame che

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unisce le conoscenze, le attitudini ed i tratti di personalità, oggetto d’analisi dell’approccio differenziale, alle competenze vere e proprie. Il presupposto di partenza, infatti, è che attitudini, conoscenze e qualità personali costituiscono le caratteristiche individuali che rendono possibile, attraverso le esperienze accumulate, l’acquisizione delle competenze e l’esecuzione efficace dei rispettivi compiti. Le competenze, quindi, pur richiedendo come condizione indispensabile di sviluppo il possesso di tali caratteristiche personali, non possono essere ridotte ad una somma di attitudini, conoscenze e tratti di personalità, in quanto esse implicano un’esperienza ed una padronanza reale del compito e mettono in gioco rappresentazioni ed immagini operative della situazione, costruite ed apprese progressivamente dal soggetto nel corso del proprio lavoro. Le competenze, strettamente legate ad un’attività professionale, costituiscono, dunque, delle procedure d’uso delle informazioni possedute dal soggetto che gli permettono di affrontare un compito o una situazione guidato da una rappresentazione che integra i suoi saperi in modo funzionale e adattivo al risultato da raggiungere. Il ruolo dell’esperienza nell’acquisizione delle competenze è, quindi, fondamentale anche se non sufficiente in quanto per poter trarre delle lezioni efficaci da essa, è necessario che l’individuo possieda delle conoscenze di base e delle attitudini indispensabili; questo problema rinvia allo studio del ruolo svolto dalle attitudini nell’apprendimento delle competenze: molte ricerche sull’apprendimento di compiti relativamente semplici hanno, infatti, dimostrato l’importanza delle attitudini (specie di quelle intellettuali e cognitive) soprattutto nella prima fase dell’apprendimento, quando sono necessari un’attenzione ed un controllo cognitivo costanti. Successivamente, il ruolo giocato dalle attitudini generali diminuisce e l’individuo, raggiungendo la fase di automatizzazione del compito, acquisisce la competenza che gli consente di eseguirlo in modo ottimale senza dover ricorrere continuamente alle funzioni intellettuali.

Ciò che maggiormente ci interessa, all’interno del discorso sulle metodologie di Bilancio, è la forma che un intervento di Bilancio può assumere a partire da tali premesse. Prima di tutto è interessante evidenziare come, all’interno di tale approccio, sia sottolineata

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l’importanza del ruolo del consulente nell’aiutare l’individuo ad esplicitare le proprie competenze; si presume, infatti, che le rappresentazioni di cui egli si serve per integrare i suoi saperi e che guidano le sue azioni, rimangano, molto spesso, implicite ed inconsapevoli nel soggetto che le mette in atto. L’individuo competente, in altri termini, è in grado di dimostrare la sua competenza, ma non di descriverla ed esporla ad altri; è solo l’intervento esterno di un esperto che può aiutarlo e condurlo a ricostruirla: attraverso la tecnica della verbalizzazione delle procedure d’uso delle proprie conoscenze e delle modalità tipiche con cui affronta un compito, infatti, il consulente può aiutare la persona a ricostruire e riconoscere i propri modi tipici di funzionamento cognitivo, aumentando la sua conoscenza dei propri processi di pensiero e migliorando, di conseguenza, la sua capacità di regolazione e di affronto delle attività e delle situazioni lavorative.

L’azione di Bilancio di Competenze rappresenta, dunque, secondo questo approccio, un momento di potenziamento delle competenze e può costituire una risposta efficace a problemi di diversa origine e natura; esso, infatti, svolge un ruolo importante, ad esempio, nel caso di un lavoratore che si interroghi circa i motivi di una mancata appropriazione di determinate competenze relative all’attività professionale svolta: l’azione di Bilancio consente, infatti, di analizzare quali abilità, conoscenze o attitudini siano mancate impedendo di mettere a frutto l’esperienza, attraverso lo sviluppo di competenze adeguate. Una volta identificati i punti deboli o latenti il soggetto può, così, procedere ad un loro eventuale potenziamento in vista di uno sviluppo e un miglioramento professionale. Un altro caso in cui un intervento di Bilancio può svolgere un ruolo importante è quello di richieste di aiuto in vista di nuove esperienze professionali, quando il lavoratore può ritenere utile capire quali siano le sue concrete possibilità di sviluppo di nuove competenze, cercando di identificare ed acquisire, a questo punto, le attitudini e le caratteristiche necessarie. In ultima analisi è importante sottolineare come un intervento di Bilancio possa agire sull’individuo in modo da renderlo cosciente, attraverso la messa in luce delle attitudini e delle caratteristiche personali sottostanti alle competenze possedute, della possibilità di trasferirle, in

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una prospettiva evolutiva e dinamica, ad altri apprendimenti e a situazioni nuove che necessitano dello stesso tipo di risorse.

Il Bilancio di Competenze, quindi, si rivela, in questo modello, uno strumento particolarmente efficace nel fornire agli individui la possibilità di amministrare autonomamente la propria carriera e la propria vita professionale, permettendogli di precisare e prendere coscienza non solo dell’inventario delle competenze acquisite, ma anche dell’insieme delle attitudini che sottostanno a tali competenze.

Approccio basato sull’immagine di sé

Questo particolare approccio nasce (C. Levy-Leboyer, 1993) proprio per completare il quadro degli approcci presentati fin qui e che non tengono sufficientemente in considerazione la specificità del Bilancio di Competenze, inteso come azione mirante a far integrare nell’individuo delle nuove informazioni che lo riguardano e che vanno ad influire, in modo profondo, (confermandola o modificandola) sull’immagine di sé precedentemente costruita. Tale modo d’intendere il Bilancio e la forma che, conseguentemente esso viene ad assumere all’interno di questo approccio, si concentrano, infatti, soprattutto sull’analisi delle modalità più adatte attraverso le quali il consulente ha la possibilità di aiutare il soggetto ad accettare di modificare l’autovalutazione, stabilizzata e consolidata nel tempo, del proprio modo d’essere e della propria identità. Questi aspetti del self, strettamente connessi alla stima e alla fiducia in sé e fortemente influenti sulla motivazione ad agire, risultano essere particolarmente resistenti a subire delle variazioni che mettano in pericolo il delicato equilibrio interiore che la persona si è faticosamente costruito. Il concetto di identità, infatti, viene costruito dall’individuo attraverso un complesso processo cognitivo che tende a proteggere il proprio senso di continuità e mira a mantenere una certa coerenza tra i diversi aspetti dell’opinione che l’individuo ha di se stesso. Questa stabilità dell’immagine di sé costituisce un elemento che necessita di essere tenuto in massima considerazione all’interno di un intervento di Bilancio: è fondamentale, infatti, comprendere in che modo e perché le persone si difendano dalle informazioni e dai dati che risultano contraddittori rispetto a quelli che

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già possiedono e sui quali hanno costruito la propria autovalutazione. Contrariamente, ogni intervento di Bilancio, volto proprio ad esplicitare, modificare o completare l’immagine che l’individuo ha di se stesso, potrebbe risultare molto difficoltoso o, persino, inutile. Quando il soggetto si trova posto di fronte ad una serie di dati nuovi e contraddittori rispetto all’idea che egli ha di sé, reagisce non tanto rifiutandosi di prendere in considerazione tali informazioni, quanto mettendo in atto uno sforzo attivo per integrarle, attraverso varie procedure cognitive, all’interno di quelle già possedute, in modo da non modificare, se non per migliorarla, l’immagine di sé preesistente. Tali meccanismi cognitivi contribuiscono, quindi, a rinforzare l’idea, molto spesso erronea, vaga, condizionata o incompleta, che il soggetto ha di sé, delle proprie capacità e delle proprie possibilità di sviluppo ed evoluzione professionale, limitando, in questo modo, le probabilità di investimenti sicuri in progetti professionali che, basandosi su informazioni realistiche ed obiettive, possano portare a concreti successi nella gestione della propria carriera.

Il Bilancio di Competenze offre al lavoratore, dunque, una grande opportunità di esplicitare e prendere coscienza in modo obiettivo e realistico, attraverso il confronto sociale, di quelle che sono le risorse da giocare, i limiti da superare e le competenze da sviluppare, aumentando, così, anche la fiducia in se stesso e canalizzando consapevolmente tutte le forze di cui dispone, spinto da una motivazione forte, nell’elaborazione e nella realizzazione del progetto di sviluppo.

Gli strumenti di cui il Bilancio di Competenze si serve, all’interno di tale concezione, riguardano, evidentemente, una serie di tecniche e materiali che guidano l’esplicitazione e la valutazione, da parte dell’interessato, di ciò che egli pensa di sé. Tra quelli maggiormente indicati rientrano le scale di stima di sé (comprendenti tabelle di stima di sé generale, e tabelle di stima di sé specifiche, riguardanti ruoli o attività precisi), questionari composti da liste di aggettivi da scegliere che conducono alla stesura di profili individuali, descrizioni o liste di tratti di personalità che il soggetto deve classificare ed ordinare secondo le proprie priorità ed i differenziali semantici. Tali strumenti rappresentano un aiuto fondamentale per il soggetto in quanto gli forniscono una serie di quesiti e

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di risposte, tra cui scegliere, già definite, strutturate e predeterminate che lo conducono a riflettere su aspetti di sé di cui spesso non è neanche consapevole, costringendolo a prenderli in considerazione e ad autovalutarsi rispetto ad essi; in questo modo l’idea vaga, confusa ed indefinita di sé che conduceva le sue azioni, comincia a prendere forma e a diventare consapevole e, di conseguenza, inizia a diventare oggetto di un eventuale lavoro di sviluppo che il soggetto è disposto a compiere su se stesso. Un’ulteriore possibilità di utilizzo delle informazioni provenienti da tali strumenti si fonda sul principio della costruzione sociale dell’identità; i dati emergenti dai questionari possono diventare, infatti, oggetto di discussione all’interno di un gruppo ai quali membri è stato somministrato lo stesso questionario, in modo da offrire ai soggetti coinvolti nell’azione di Bilancio, l’opportunità di un confronto sociale che affianca la percezione e la valutazione che essi hanno di se stessi a quella che gli altri, appartenenti al gruppo, forniscono di loro (“come mi vedo io”, “come mi vedono gli altri”, “come io vedo gli altri” e “come gli altri vedono se stessi”); tale modalità, infatti, accresce il numero delle informazioni che l’individuo ha a disposizione su di sé, necessarie per una valutazione obiettiva ed un rafforzamento della propria identità e della propria autostima. In alternativa a questa socializzazione di gruppo è comunque importante che il soggetto discuta i risultati dei questionari attraverso un colloquio approfondito con il consulente, per aiutarlo a focalizzare quali aspetti della propria personalità, tra quelli emersi, possano essere maggiormente suscettibili di essere ulteriormente sviluppati ed investiti in un progetto di sviluppo e per indicargli attraverso quali modalità concrete sia effettivamente realizzabile tale progetto di sviluppo.

La possibilità di colloquio tra operatore e utente è fondamentale anche per arginare il rischio di interpretazioni delle domande e dei termini utilizzati nei questionari, troppo soggettive e distanti da ciò che in realtà essi permettono di misurare; il consulente, in questo modo, ha la facoltà di verificare con l’individuo il significato ed il valore che egli ha attribuito agli item proposti, acquisendo ulteriori informazioni utili su di lui e rendendo possibile un eventuale confronto con risultati provenienti da altre fonti.

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A conclusione di quest’analisi volta ad evidenziare gli aspetti teorici e

metodologici relativi al concetto di Bilancio di Competenze ci sembra utile introdurre, come elemento chiave di paragone, la descrizione e l’analisi di uno dei modelli più sviluppati di Bilancio di Competenze: il modello francese.

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Il Bilancio delle Competenze: gli orientamenti del modello francese

Giunti a questo punto, dopo esserci soffermati sulla valutazione dei presupposti e delle problematiche teoriche sottostanti la concezione di Bilancio delle Competenze la nostra attenzione si concentrerà, ora, sulla descrizione e l’analisi degli aspetti più significativi emergenti da quella modalità specifica di prestazione di Bilancio di Competenze che è stata creata e messa in atto all’interno del contesto francese. La scelta di prendere in considerazione il modello francese di Bilancio di Competenze, pur nella consapevolezza dell’esistenza di altri Paesi in cui viene applicata tale metodologia, dipende dal fatto che la Francia, per il momento, rappresenta uno dei Paesi europei dove il processo di Bilancio di Competenze è stato maggiormente studiato, perfezionato e sviluppato. Ci è parso quindi utile, dal momento che il tema del Bilancio di Competenze rappresenta tuttora un oggetto di ambiguità, incertezze e fraintendimenti circa il suo significato proprio, partire dalla descrizione dell’approccio più originale e strutturato al Bilancio di Competenze che è costituito, appunto, dal modello francese. L’intenzione che ci muove è, quindi, quella di individuare e fornire delle coordinate generali e significative proprie di tale prestazione che possano fungere da chiavi di lettura di tutti quegli interventi che, spesso impropriamente, vanno sotto il nome di “Bilancio di Competenze” e che possano consentire di valutare la possibilità e l’utilità di un’eventuale applicazione, adattamento e sviluppo di questo tipo di azione anche all’interno del contesto italiano.

1. Le origini del Bilancio di Competenze ed il contesto istituzionale-normativo di riferimento

Il Bilancio di Competenze, nella sua accezione originale e legale, nasce in Francia come azione finalizzata allo sviluppo della professionalità,

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strettamente correlata alla formazione continua e alle azioni di politica attiva.

Le prime origini del Bilancio di Competenze si possono far risalire almeno agli Anni ‘70, quando la legislazione francese ha contribuito in modo decisivo a fondare quei presupposti necessari al successivo sviluppo della pratica vera e propria di Bilancio di Competenze. Sotto l’impulso dei nuovi problemi introdotti dai continui mutamenti del mercato del lavoro e riguardanti la necessità di procedere ad un adeguamento e ad una modernizzazione delle politiche e delle metodologie di valutazione e gestione del personale, i responsabili della formazione continua, operanti nelle grandi imprese e nell’équipe del Ministero del Lavoro, s’interrogano sui cambiamenti da apportare alla politica esistente in merito alla formazione professionale permanente. In quest’ottica le parti sociali e lo Stato pervengono alla creazione, all’inizio degli Anni ‘70, di un sistema di gestione delle politiche di formazione che rimarrà, nelle sue linee guida fondamentali, sostanzialmente invariato; l’accordo del 9 Luglio 1970, che stabilisce il diritto (e non più la semplice possibilità) del dipendente di assentarsi dall’impresa per seguire un intervento formativo durante l’orario di lavoro, e la successiva legge del 16 Luglio 1971, che colloca la formazione professionale all’interno del quadro di educazione permanente, istituzionalizzando, così, le politiche di formazione continua, che rappresentano infatti due testi base. Attraverso di essi, cioè, viene formalmente riconosciuto a giovani ed adulti il diritto ad una formazione continua (finanziata dalle imprese e controllata dallo Stato) ai fini di consentire un migliore adeguamento alle mutevoli condizioni tecnologiche e lavorative; viene inoltre promosso lo sviluppo di studi e di procedure di valutazione dei requisiti professionali e di riconoscimento/validazione di conoscenze apprese in formazione, esperienze lavorative e competenze professionali. Successivamente, a partire dal 1982, di fronte al moltiplicarsi di situazioni di ristrutturazione industriale, la Delegazione alla formazione professionale (DFP) del Ministero del Lavoro comincia ad ipotizzare e prefigurare delle misure e degli interventi adatti alla situazione pervenendo anche, nel 1986, all’elaborazione di un dispositivo (Circolare DFP del 17/3/1986) volto alla creazione e alla sperimentazione

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di “Centri Interistituzionali di Bilancio personale e professionale”, allo scopo di aiutare il lavoratore ad identificare, definire e valutare le proprie acquisizioni professionali derivanti dalle sue esperienze formative, lavorative, personali e sociali, e a costruire, sulla base di questo, un progetto di sviluppo professionale e/o formativo. Tali centri, chiamati successivamente “Centri Interistituzionali di Bilancio di Competenze”, o C.I.B.C., costituiscono delle strutture riconosciute dallo Stato e raggruppanti figure professionali di diverso tipo (consulenti d’orientamento, formatori, esperti dell’occupazione, psicologi...) ed appartenenti a differenti istituzioni che si prestano, a vario titolo, all’organizzazione e all’effettuazione di un percorso di Bilancio. Il successo ottenuto dalle attività e dalle iniziative svolte da tali centri portarono, successivamente, ad una loro maggiore diffusione e strutturazione, fino a giungere, anche attraverso i contributi delle parti sociali e delle varie organizzazioni coinvolte nel processo (ad esempio l’APE – Agenzia Nazionale per l’impiego –, l’APEC – Associazione per l’impiego dei quadri- e l’AFPA – Associazione per la formazione professionale degli adulti-) alla concretizzazione dei risultati ottenuti dalla sperimentazione e alla creazione del dispositivo di Bilancio di Competenze. Tale dispositivo viene prefigurato nella Circolare n° 1944 del 14/6/1989 che offre la possibilità a tutte le persone che lo desiderano (giovani o adulti, lavoratori o disoccupati) di effettuare il proprio Bilancio di Competenze allo scopo di favorire una migliore gestione del proprio avvenire professionale; successivamente esso trova piena e completa legittimazione nell’Accordo Nazionale Interprofessionale del 3/7/1991 relativo alla formazione e al perfezionamento professionale, che segna un momento fondamentale in materia di formazione professionale continua: esso, infatti, partendo dalla considerazione delle evoluzioni in materia di formazione e di valutazione delle competenze e dello sviluppo di nuove professioni, introduce per la prima volta, nella seconda sezione del titolo terzo (intitolato “Disposizioni relative ai congedi di formazione dei lavoratori”), la nozione di congedo di Bilancio di Competenze, che

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“ha per obiettivo quello di permettere a tutti i lavoratori nel corso della loro vita professionale di partecipare ad un’azione di Bilancio di Competenze, indipendentemente da quelle realizzate per iniziativa dell’impresa” (Art. 32-1);

nello stesso articolo, inoltre, viene precisata la finalità del Bilancio di

Competenze che consiste nel “permettere al lavoratore di analizzare le sue competenze professionali

ed individuali così come le sue potenzialità mobilitabili nel quadro di un progetto professionale o di un progetto di formazione”

e si stabilisce che

“l’azione di Bilancio di Competenze da luogo ad un documento di sintesi

destinato ad uso esclusivo del lavoratore” (Art. 32-1). Tale provvedimento sanziona, quindi, un vero e proprio diritto di ogni

lavoratore ad un’autorizzazione di assenza retribuita, per un massimo di 24 ore, per la partecipazione ad azioni di Bilancio di Competenze, esprimendo anche, in questo modo, la possibilità che egli possiede di divenire il vero ed unico responsabile dell’intero processo formativo e di sviluppo. Si stabilisce, inoltre, che il lavoratore ha diritto a richiedere nuovamente un congedo di Bilancio di Competenze dopo un periodo di cinque anni dalla precedente richiesta, evidenziando, così, le concezioni di apprendimento continuo e formazione permanente sottostanti alla normativa. Le disposizioni dell’Accordo del 3/7/1991 sono state ulteriormente riprese, ampliate ed approfondite dalla legge n°91-1405 del 31/12/1991 che, all’interno del capitolo dedicato alle disposizioni relative al Bilancio di Competenze, completa l’art. L. 900-2 del codice del lavoro affermando che

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“le azioni che permettono di realizzare un Bilancio di Competenze entrano ugualmente nel campo di applicazione delle disposizioni relative alla formazione professionale continua”.

Tale normativa prevede anche la possibilità che l’intervento di bilancio

sia richiesto dal datore di lavoro, all’interno del piano di formazione attuato dall’impresa, alla condizione imprescindibile che il lavoratore esprima il suo personale consenso; essa specifica, a questo riguardo, che la persona che ha beneficiato di un Bilancio di Competenze attraverso questa seconda modalità rimane comunque “la sola destinataria dei risultati dettagliati e del documento di sintesi”; tali informazioni, infatti, sono strettamente riservate e non possono essere comunicate a terzi (compreso, quindi, anche il datore di lavoro che commissiona l’intervento) se non con l’accordo del lavoratore stesso. Sempre nello stesso articolo si legge, inoltre, che un eventuale rifiuto del lavoratore non può costituire né fattore, né motivo di licenziamento.

I contenuti di tale normativa si traducono, successivamente, in una serie di disposizioni regolamentari, decreti e circolari che, confermando il ruolo di questo nuovo strumento di gestione delle carriere e dei progetti individuali di sviluppo professionale, ne identificano le condizioni di funzionamento. Tra i documenti più importanti si possono menzionare il decreto attuativo della legge del 1991 (decreto n°92-1075 del 2/10/1992) e la circolare della DFP (cir. n°93/13 del 19/3/1993), che precisano ulteriormente i termini e stabiliscono le regole di utilizzo del dispositivo di Bilancio di Competenze sia nell’ambito del congedo individuale di Bilancio di Competenze che in quello del piano di formazione dell’impresa.

Da questo quadro emerge, quindi, come le prime attività di Bilancio di Competenze vengano realizzate, a partire dagli Anni ‘80, nell’ambito di servizi pubblici di orientamento e di formazione; esso, fin dalle origini, si configura, quindi, come servizio esterno (anche se non estraneo) alle imprese, legittimato dalle istanze centrali e periferiche del Ministero del Lavoro che ne garantisce l’erogazione e ne regola le modalità di attuazione. Tradizionalmente il sistema della formazione professionale continua, oggetto di un’intensa produzione regolamentare, ha sempre

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compreso l’insieme delle misure e dei dispositivi destinati alle persone già inserite nella vita attiva, mentre il sistema dell’orientamento professionale degli adulti era rivolto quasi esclusivamente alle persone in cerca di occupazione.

La creazione del dispositivo di Bilancio di Competenze, da questo punto di vista, rappresenta un elemento di innovazione ed integrazione dei due sistemi sopra citati: la sua realizzazione ed il suo sviluppo, infatti, sono stati resi possibili grazie agli interventi provenienti congiuntamente dal sistema di orientamento professionale e da quello della formazione continua; si assiste, infatti, ad una progressiva collaborazione ed integrazione tra queste due politiche, incentivata dalle nuove normative e resa possibile dal momento che lo sviluppo sistematico dell’orientamento professionale, attraverso il proliferare di strutture preposte, a vario titolo, ad attività d’incontro, informazione ed orientamento (ANPE, APEC, CIBC, Fondi di assicurazione-formazione con il compito di informare i datori di lavoro ed i dipendenti -FAF-, Centri d’informazione sulla formazione -MIF- etc...), entrando a far parte dell’insieme dei dispositivi di formazione professionale, ha contribuito a trasformare questi ultimi in sistemi complessi di riqualificazione finalizzati prima di tutto all’orientamento ed, in secondo luogo, alla formazione che l’orientamento ha stabilito come effettivamente necessaria. Secondo le misure adottate dal governo francese nel 1991, infatti, la prima necessità, per qualsiasi persona, occupata o in cerca di lavoro, giovane o adulta, che si interroghi sul proprio avvenire professionale è di beneficiare di un Bilancio di Competenze personali e professionali. Tutte le misure innovative create dalla legge poggiano, quindi, su una logica che prevede un’attività di orientamento precedente alla quale è subordinato l’intervento formativo: esse integrano armonicamente le nozioni di Bilancio (punto d’incontro ed integrazione di orientamento e formazione), di informazione e di assistenza, facendo in modo che il dispositivo di formazione professionale non sia più un semplice insieme di vie d’accesso alla formazione e tendendo, invece, a divenire un sistema sempre più complesso, coerente e compiuto.

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2. Il dispositivo del Bilancio di Competenze

L’ampio repertorio di normative e regolamentazioni esistenti in merito alle azioni di Bilancio di Competenze ci permette di poter conoscere e descrivere più dettagliatamente quali sono le regole, i diritti ed i doveri di tutti gli attori complessivamente coinvolti nel processo e di approfondire anche quali sono le procedure standard attraverso le quali le strutture e gli organismi interessati sono costretti a passare per la realizzazione di un Bilancio di Competenze. La messa in opera di tale dispositivo, infatti, richiede il rispetto di tutta una serie di condizioni ed accorgimenti e la presenza di una rete di strutture ed organismi che collaborano, con mansioni diverse, ad una sua efficace realizzazione. Quello che ci proponiamo di analizzare in questo paragrafo sono proprio le modalità e le condizioni essenziali all’applicazione del complesso dispositivo di Bilancio di Competenze, così come esso è stato pensato e costruito dalla legislazione francese

2.1. Attori ed organismi coinvolti nel processo Gli attori e le strutture che, a vario titolo, vengono interpellati in

quanto soggetti strutturalmente facenti parte della messa in opera del dispositivo, sono classificabili in cinque gruppi, aventi ognuno funzioni, responsabilità ed obblighi differenti, ed interagenti tra loro all’interno di un complesso sistema di funzionamento:

* Lavoratori o beneficiari del Bilancio di Competenze:

Secondo la legge i destinatari di azioni di Bilancio di Competenze sono tutti i lavoratori, qualunque livello di qualifica essi possiedano, che abbiano maturato un’anzianità lavorativa di almeno cinque anni (periodo che si riduce in casi particolari come quello di lavoratori a bassa qualificazione); in questo caso, quindi, il lavoratore ha il diritto di richiedere e di usufruire gratuitamente di un “congedo di Bilancio di Competenze” (all’interno dei congedi individuali di formazione) normalmente retribuito, all’interno delle sue ore lavorative. Tale diritto si rinnova dopo un periodo di cinque anni, oppure in concomitanza di

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cambiamenti di lavoro. Inizialmente, dunque, tale intervento nasce come servizio rivolto in particolare ai lavoratori dipendenti adulti che hanno già maturato un’esperienza professionale. Successivamente esso viene esteso ad un’utenza diversificata per età e stato occupazionale (giovani in cerca di prima occupazione, disoccupati in cerca di lavoro...) assumendo, così, anche i connotati di un’azione orientativa e d’aiuto all’inserimento lavorativo.

Un’altra importante novità, introdotta successivamente alle prime pratiche sperimentali, è quella che riguarda la provenienza della domanda di Bilancio; inizialmente, infatti, le prestazioni di Bilancio avevano come unico cliente e committente il singolo lavoratore che richiedeva direttamente e di sua iniziativa, di essere sottoposto ad un intervento di Bilancio. In seguito la normativa, precedentemente analizzata, introduce la possibilità che il lavoratore, beneficiario della prestazione di Bilancio, sia inviato alle strutture erogatrici del servizio dall’azienda presso la quale egli lavora (previo consenso del lavoratore stesso), nel caso di azioni rientranti nel quadro di processi di riorganizzazione, trasformazione e riprogettazione dei percorsi di carriera che riguardano l’azienda in questione.

In ogni caso, comunque, il lavoratore occupa un posto centrale all’interno del dispositivo poiché egli può essere contemporaneamente richiedente, beneficiario ed, in qualche caso, persino finanziatore del proprio Bilancio; egli, inoltre, è al cuore dell’intero processo in quanto: – il Bilancio di Competenze non può essere attuato senza il suo consenso

anche nel caso in cui esso rientri nel piano di formazione stabilito dall’impresa;

– egli è il cofirmatario della convenzione tripartita (tra lavoratore, organismo erogatore del bilancio ed organismo paritetico oppure datore di lavoro, a seconda di chi lo richiede formalmente) obbligatoria prima di ogni azione di Bilancio; tale convenzione costituisce il contratto iniziale che impegna e corresponsabilizza tutte le parti nell’intervento e deve essere stipulata sia nel caso di congedo di Bilancio che in quello di piano di formazione dell’impresa;

– egli può interrompere il Bilancio di Competenze nella fase preliminare;

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– egli è considerato come l’unico responsabile e destinatario delle conclusioni dettagliate e del documento di sintesi prodotto dall’azione di Bilancio;

– egli rimane sempre attore della propria autovalutazione, con il supporto tecnico fornito dall’organismo prestatario;

– egli è colui il quale struttura ed elabora il suo progetto di sviluppo, dopo aver preso coscienza delle proprie competenze, aver considerato le sue aspirazioni e le sue motivazioni professionali e personali;

– egli è anche, infine, colui che può decidere se dare un seguito all’azione di Bilancio: è, infatti, il solo che ha la facoltà di trasmettere, a sua scelta, le informazioni riguardanti i risultati del Bilancio al suo datore di lavoro come a qualsiasi altro possibile interlocutore della sua vita personale e professionale. È evidente, da questo insieme di regole, che la legge tutela in misura

massima i diritti del lavoratore beneficiario di un Bilancio di Competenze, in quanto lo considera il solo che, ultimamente, può decidere della realizzazione e dell’utilizzo del suo Bilancio, essendone l’unico ed assoluto proprietario e responsabile.

* Datori di lavoro:

Il datore di lavoro può richiedere, all’interno di un piano di formazione della sua impresa e previo consenso del lavoratore, che venga realizzata un’azione di Bilancio di Competenze a favore di un suo dipendente; in questo caso egli è anche il finanziatore principale di tale intervento e ha la facoltà di scegliere l’organismo prestatario del servizio, anche al di fuori di quelli segnalati dagli organismi paritetici, a condizione di fornire delle indicazioni e delle garanzie sui servizi da esso offerti.

Nel caso in cui, invece, sia il lavoratore stesso a richiedere il permesso di assentarsi per usufruire di un intervento di Bilancio, egli è tenuto a rilasciare il congedo di Bilancio di Competenze, remunerando normalmente il dipendente. Il suo contributo di finanziamento dell’intervento, in questo caso, deve essere versato all’OPACIF.

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* Organismi paritetici patrocinatori:

Essi rappresentano l’insieme degli organismi (OPACIF) che svolgono essenzialmente un ruolo amministrativo e finanziario per quanto riguarda i Bilanci di Competenze che vengono realizzati nel quadro di congedi individuali di Bilancio. Essi, infatti, si preoccupano di valutare la validità degli organismi prestatari di azioni di Bilancio, segnalando su un apposito elenco i nominativi di quelli ritenuti idonei ed adeguati alla realizzazione della prestazione. Si tratta, sostanzialmente, di assicurare che la struttura erogatrice del servizio di Bilancio rispetti determinati requisiti (relativi alle risorse materiali e tecniche possedute, alla qualità degli strumenti adottati, alle modalità di esecuzione del procedimento, alle esperienze e alla professionalità delle persone incaricate, all’esistenza e alle caratteristiche della convenzione tripartita e del documento finale di sintesi...) e principi (di trasparenza, relativo alle condizioni di realizzazione e alle metodologie proposte, di comunicazione, relativo alle informazioni fornite al beneficiario circa la situazione lavorativa attuale, e di fiducia, rispetto alla confidenzialità del processo e dei risultati) che garantiscono l’efficacia del processo. Tali organismi, inoltre, hanno la facoltà di accogliere o di rifiutare la richiesta di finanziamento dell’intervento di Bilancio proveniente dal lavoratore.

* Organismi prestatari:

Sono quelle strutture che sono state riconosciute dagli organismi paritetici e dalla Regione come idonee ed abilitate ad erogare il servizio del Bilancio di Competenze. Esse sono strutture specialistiche, sia pubbliche che private, sempre esterne alle imprese, le quali, per legge, non possono erogare direttamente la prestazione. Essi vengono scelti, tra la lista proposta dall’organismo paritetico per la realizzazione del Bilancio di Competenze dal lavoratore o dal suo datore di lavoro, a seconda della provenienza della richiesta. Essi devono: disporre di una struttura ben identificata e destinata esclusivamente alla realizzazione di Bilanci di Competenze e di azioni di valutazione o orientamento professionale; utilizzare dei metodi e delle tecniche valide ed affidabili, messe in atto da personale qualificato; attenersi al rispetto della legge per quanto riguarda

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il segreto professionale e la distruzione del documento di sintesi una volta concluso il processo di Bilancio (salvo domanda contraria espressa esplicitamente dal beneficiario); rispettare le differenti fasi del Bilancio; trasmettere periodicamente al prefetto della Regione e agli organismi paritetici un resoconto statistico e finanziario delle attività di Bilancio messe in atto.

Tra le strutture erogatrici più diffuse ricordiamo i CIBC, Centri Interistituzionali di Bilancio di Competenze, costituiti in concomitanza all’emanazione della legge allo scopo di renderla operativa; essi sono strutture specialistiche con funzioni sia di erogazione diretta del servizio, sia di sperimentazione delle metodologie e di supporto ad altre strutture erogatrici del servizio. Tali strutture, autonome sul piano gestionale ed amministrativo, raccolgono, al loro interno, rappresentanti delle organizzazioni ANPE (Agenzia per l’impiego) ed AFPA (Associazione per la formazione permanente). La gestione operativa è affidata ad équipe specialistiche pluridisciplinari, composte da un responsabile e da operatori con diverse professionalità, dipendenti direttamente dal Centro o da strutture esterne. Ciò che risulta molto interessante è che tali Centri, che possiedono un’articolazione territoriale, operano in rete con una serie di altri servizi di orientamento professionale, di formazione e di inserimento lavorativo, costituendo con essi un sistema di integrazione e stretta collaborazione reciproca.

* Stato e Regioni:

Il prefetto della Regione deve garantire la validità degli organismi prestatari, controllare le dichiarazioni che gli vengono fornite dagli organismi paritetici e dalle strutture erogatrici, e verificare la realizzazione del seguito dell’azione di Bilancio stabilito dai prestatari al momento della stipulazione della convenzione tripartita. Lo Stato, inoltre, contribuisce, a parziale copertura delle spese di funzionamento del dispositivo, fornendo un contributo finanziario agli organismi prestatari.

Per quanto riguarda i controlli effettuati dallo Stato, la legge afferma che

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“i controlli amministrativi e finanziari sulle attività degli organismi prestatari del Bilancio di Competenze si esercitano nelle stesse condizioni di quelli esercitati nei confronti degli organismi di formazione” (Art. R. 900-8 del decreto del 2/10/1992).

Tra gli obblighi che devono essere rispettati e sull’assolvimento dei

quali è previsto un forte controllo da parte delle autorità dello Stato, rivestono una particolare importanza le norme di carattere deontologico.

2.2. Regole deontologiche Le azioni che costituiscono un processo di Bilancio sono sottoposte a

degli obblighi deontologici che sono rigidamente stabiliti dalla regolamentazione in tema di Bilancio di Competenze. Queste disposizioni legislative riguardano soprattutto i centri prestatari di Bilanci che, nel caso di mancato rispetto, incorrono in sanzioni civili e penali.

Queste regole deontologiche, secondo la DFP, concernono soprattutto i seguenti argomenti: – Il rispetto del consenso, volontariamente espresso, del beneficiario per

la realizzazione del Bilancio; – La stipulazione di una convenzione tripartita tra il beneficiario,

l’organismo prestatario ed il soggetto richiedente ufficialmente (il datore di lavoro o l’organismo paritetico); nel caso il lavoratore si faccia personalmente carico della prestazione, tale convenzione può assumere una forma bipartita;

– Il rispetto del segreto professionale nei confronti di tutte le informazioni emergenti nel corso del Bilancio;

– La natura delle domande e delle valutazioni fatte al beneficiario: tutte le informazioni richieste devono presentare un legame diretto e necessario con l’obiettivo del Bilancio, così come esso è stato definito dalla legge; il lavoratore, a queste condizioni, è tenuto, da parte sua, a rispondere in assoluta buona fede;

– Il Bilancio deve essere organizzato in tre fasi ben distinte ed identificabili;

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– La nozione di possesso dei risultati: il beneficiario è l’unico destinatario dei risultati del documento di sintesi elaborato alla conclusione dell’azione di Bilancio;

– La comunicazione integrale dei risultati al beneficiario, cui devono essere restituite la totalità delle informazioni raccolte;

– La stesura del documento di sintesi da parte del prestatario sotto la sua unica responsabilità; tale elaborato deve essere sottoposto all’attenzione del beneficiario, prima della sua redazione finale, per eventuali correzioni;

– Ricorso a metodi e tecniche affidabili messe in atto da personale qualificato. Dal complesso di tali regole emerge in modo evidente la filosofia

d’intervento sottesa alle disposizioni normative in questione: il Bilancio di Competenze si configura come un diritto del lavoratore a perseguire in maniera autonoma e responsabile il proprio sviluppo personale e a migliorare, modificandola, la propria carriera lavorativa. In questa direzione, quindi, vanno tutte le misure prese dal legislatore e dagli organismi coinvolti nella regolamentazione, sottolineando in tutti i modi il primato dell’individuo nel corso dell’intero processo e tutelando il fatto che il Bilancio costituisce proprietà e patrimonio esclusivo della persona che può utilizzarlo (ma non ne è costretto) nella negoziazione con il datore di lavoro o nella ricerca di una nuova collocazione sul mercato del lavoro. Oltre a porre in primo piano il fatto che la realizzazione del Bilancio debba essere volontariamente e consensualmente espressa da parte del soggetto beneficiario, infatti, la normativa prevede anche un ruolo particolarmente attivo dell’individuo nel corso della prestazione: egli deve essere autore ed attore del proprio percorso, in modo da essere in grado di gestire il proprio itinerario e di concretizzare e portare a compimento il progetto professionale definito durante il percorso di Bilancio.

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3. Il processo del Bilancio di Competenze

3.1. Finalità e modalità del processo La DFP definisce la realizzazione del Bilancio di Competenze un

procedimento attraverso il quale l’individuo impara a modificare il rapporto che intrattiene con il suo ambiente professionale e a diventare attore nella gestione della propria carriera. Tale processo, quindi, gli consente di anticipare i suoi cambiamenti e la sua evoluzione professionale, di definire la propria linea d’azione e di posizionarsi chiaramente all’interno dell’impresa o del mercato del lavoro.

Per raggiungere questi scopi e per aiutare il soggetto a collocarsi realisticamente e proficuamente nella situazione professionale in cui esso si trova attualmente coinvolto, il procedimento deve assumere contemporaneamente una dimensione retrospettiva ed una dimensione prospettica, che devono essere integrate ed assimilate durante l’intero percorso di Bilancio. Per favorire una presa di coscienza realistica della situazione presente e delle eventuali prospettive cui essa apre, infatti, è necessario: – definire il contesto dell’impresa ed il mercato del lavoro esistente; – scoprire le prospettive evolutive potenziali e desiderate; – identificare gli elementi chiave del processo di cambiamento nel quale

il soggetto è coinvolto. Per quanto riguarda la dimensione retrospettiva, il processo di Bilancio

di Competenze dovrà ripercorrere le grandi tappe del percorso professionale dell’individuo, aiutandolo a: – valutare le sue conoscenze generali e professionali, i suoi saper-fare e le

sue attitudini; – diventare consapevole dei suoi valori, interessi, aspirazioni e

motivazioni; – scoprire le sue risorse e le sue potenzialità inesplorate.

Tale analisi, però, deve necessariamente tener conto della finalità ultima del processo, che non si limita ad una semplice constatazione dell’esistente, ma, al contrario, si situa in una prospettiva evolutiva di

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sviluppo e cambiamento. La dimensione prospettica, quindi, si riferisce alla necessità di aiutare il beneficiario, dopo avere identificato gli elementi della sua esperienza trasferibili alle nuove situazioni professionali considerate, a formulare delle scelte consentendogli di confrontare la realtà interna dell’impresa e/o quella esterna del mercato del lavoro con le prospettive di sviluppo emerse e considerate durante l’intervento di Bilancio. Tale dimensione, quindi, rappresenta emblematicamente lo spirito del dispositivo prefigurato dalla normativa, concretizzando la sua capacità a saper definire un progetto professionale che attesti l’impegno della persona coinvolta in un processo di evoluzione personale e professionale.

Tale processo si pone, come ultima finalità, quella di produrre, come effetti concreti ed immediati: – l’elaborazione di una strategia mirante ad un inserimento professionale

duraturo; – il tentativo di migliorare ed approfondire, in seno ad una determinata

attività lavorativa, le competenze richieste e possedute, o di acquisire, eventualmente, delle competenze mancanti ma necessarie all’esercizio di possibili attività future;

– la preparazione a processi di mobilità interni o esterni all’impresa verso impieghi di livello e responsabilità più elevati;

– la volontà, da parte del lavoratore, di una ricerca continua di formazione ed accompagnamento specifici per processi di riconversione e cambiamento di funzioni lavorative. In altri termini, tale processo dovrebbe essere in grado, nella sua

globalità, di fornire al lavoratore beneficiario la misura della sua “impiegabilità” che rappresenta “la capacità individuale di mantenersi nello stato di trovare un nuovo impiego, all’interno o all’esterno dell’attività esercitata attualmente. Questa capacità fa appello contemporaneamente al bagaglio di esperienze e di competenze accumulato nei propri impieghi (attuali e precedenti), alla volontà di anticipazione e all’autonomia che ciascuno deve manifestare per prendere il sopravvento in una situazione di cambiamento, e all’ampiezza delle

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informazioni e del campo visivo di cui si dispone per orientare le proprie scelte” (C. Sautet e D. Thierry, 1994 in M. Joras, 1995).

3.2. Le fasi del processo Il Bilancio di Competenze si caratterizza come percorso, cioè come un

insieme di attività e di azioni suddivise in fasi, che la stessa normativa (Decreto n°92-1075 del 2/10/1992, Art. R. 900-1) prevede ed identifica. Essa indica, infatti, che un Bilancio di Competenze, sotto la guida del centro prestatario, deve comprendere le tre fasi seguenti:

1) Fase preliminare-esplorativa:

In questa fase avviene il primo contatto diretto tra il lavoratore e la struttura erogatrice del servizio. Lo scopo fondamentale di questo primo momento è quello di raccogliere tutte le informazioni e gli elementi necessari alla formalizzazione della domanda di Bilancio. L’articolo menzionato sancisce che gli obiettivi della fase preliminare consistono nel:

A) confermare l’impegno del lavoratore beneficiario nel processo di

sviluppo; B) definire ed analizzare la natura dei suoi bisogni; C) informarlo delle condizioni di svolgimento del Bilancio di

Competenze e dei metodi e tecniche che verranno utilizzate nel corso del procedimento.

Sostanzialmente questa prima fase dell’intervento risulta essere

essenziale in quanto è il momento in cui si decide che tipo di Bilancio deve essere effettuato e quali sono gli scopi che devono essere raggiunti; si tratta, in primo luogo, di identificare, attraverso un colloquio di accoglienza, la natura del problema e dei bisogni dell’individuo, analizzando ed esplicitando le ragioni profonde di tipo personale, sociale e professionale che stanno alla base della richiesta di prestazione. Il soggetto deve essere condotto alla individuazione e alla precisazione dei suoi problemi e dei risultati che intende o spera di conseguire attraverso l’azione di Bilancio, in modo da spingerlo ad impegnarsi nell’intero

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processo consapevole delle reali possibilità e delle eventuali difficoltà. A questo fine è anche necessario che gli vengano fornite tutte le informazioni possibili sul servizio offerto, sugli scopi dell’intervento, sui metodi e gli strumenti che gli verranno proposti e sul modo in cui verranno elaborate ed utilizzate le conclusioni finali. Questa fase si conclude, poi, con la stipulazione del contratto, relativo alle condizioni di realizzazione e alle modalità di utilizzo dei risultati del Bilancio, che viene stabilito tra le diverse parti coinvolte (lavoratore, servizio erogatore e organismo paritario o impresa) le quali, attraverso di esso, si impegnano a rispettarne i termini e a collaborare tra loro.

Questo primo incontro, quindi, risulta determinante perché stabilisce le basi e le condizioni del processo e, soprattutto, perché fornisce l’occasione di verificare la piena adesione del beneficiario all’intervento, condizione essenziale per un’azione di Bilancio fondata su una partecipazione attiva, costante e responsabile del consultante.

2) Fase investigativa:

Questa fase è la fase di Bilancio in senso stretto, cioè è il momento in cui, a partire dagli elementi emergersi nella fase precedente di analisi dei bisogni, si esercita l’attività di ricostruzione, analisi e valutazione delle competenze. Essa, quindi, viene condotta in funzione degli obiettivi inizialmente stabiliti dai firmatari della convenzione. Oltre ad essere, quindi, una fase completamente e fortemente personalizzata, perché costruita su misura per le specifiche caratteristiche della persona e della situazione coinvolte, essa si rivela, per sua natura, anche evolutiva, in quanto si arricchisce e si costruisce progressivamente nel corso del processo, in conseguenza degli avvenimenti che si producono e delle informazioni che si aggiungono durante il suo svolgimento.

Si tratta di effettuare un’esplorazione approfondita delle risorse personali e professionali che possono essere investite nell’elaborazione di un progetto di sviluppo, legittimando, in questo senso, l’utilizzo del termine “Bilancio” che esprime l’idea di un inventario dei punti forti e dei punti deboli di un individuo, in rapporto ad un progetto.

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In particolare la legge stabilisce che la fase investigativa deve permettere al beneficiario di:

A) analizzare le sue motivazioni ed i suoi interessi professionali e

personali; B) identificare le sue competenze e le sue attitudini professionali e

personali e, se è il caso, valutare le sue conoscenze generali; C) determinare le sue possibilità di evoluzione professionale.

Mi sembra importante sottolineare il fatto che l’analisi, prevista in

questa fase, si concentra, oltre che sulla valutazione delle diverse componenti della personalità (attitudini, valori, interessi, motivazioni..), sulla valutazione delle conoscenze e soprattutto delle esperienze professionali (abilità e competenze) del soggetto. Un altro fattore rilevante, all’interno di questo discorso, è che in sede di Bilancio la valutazione delle conoscenze possedute dal soggetto non viene costruita prendendo in considerazione i soli riconoscimenti e titoli formali, in quanto essi non consentono di analizzare fattori determinanti come le capacità di ragionamento, di innovazione e di creatività, né le attività svolte durante il tempo libero, in famiglia ed in società che, al contrario, rappresentano degli elementi cruciali che devono poter essere valorizzati in quanto competenze trasferibili a diversi ambiti, anche professionali. Per quanto riguarda la valutazione dei diversi aspetti della personalità, vengono prese in considerazione ed analizzate le componenti fisiche e sensoriali (allo scopo di valutarne la compatibilità con determinate occupazioni), cognitive, motivazionali, culturali, affettive e relazionali.

Oltre ad analizzare e chiarire le proprie risorse, le proprie potenzialità inesplorate e gli elementi della propria esperienza suscettibili di essere trasferiti a nuove situazioni, il beneficiario, in questa fase, deve essere aiutato ad identificare gli elementi ed i fattori che hanno innescato il processo di cambiamento nel quale si trova coinvolto; egli, di conseguenza, deve poter accedere ad informazioni riguardanti l’ambiente socio-professionale ed economico che lo circonda, in modo da poter prefigurare e determinare, confrontando ed integrando l’insieme degli elementi esplorati

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ed emersi nel corso del processo, piste realistiche di sviluppo, cambiamento ed evoluzione professionale.

3) Fase conclusiva:

Questa fase, condotta attraverso dei colloqui personalizzati, deve permettere al beneficiario di:

A) venire a conoscenza dei risultati dettagliati prodotti dalla fase

investigativa; B) identificare i fattori suscettibili di favorire od ostacolare la

realizzazione di un progetto professionale o, se è necessario, di un progetto di formazione;

C) prevedere le principali tappe della messa in opera di questo progetto. Tutti i dati raccolti devono essere restituiti al beneficiario attraverso

dei colloqui individuali ed attraverso un documento di sintesi, a suo uso esclusivo, previsto obbligatoriamente dall’Art. L. 900-4-1. Tale documento deve essere redatto dall’operatore incaricato di prestare il servizio e deve contenere tutte le spiegazioni e le conclusioni relative alle fasi precedenti. Una volta completato, tale documento deve essere discusso con il beneficiario del Bilancio per raccogliere le sue osservazioni in merito e, alla fine, consegnatogli definitivamente per l’utilizzo che egli stesso riterrà di farne.

Tale fase rappresenta, quindi, un momento di sintesi durante il quale il soggetto, una volta riappropriatosi dell’insieme complessivo dei risultati del Bilancio emersi precedentemente, viene aiutato e guidato dal soggetto prestatario, ad estrarre e valutare gli elementi in grado di favorire od ostacolare la realizzazione del proprio progetto di sviluppo, concentrandosi, in particolare, sul confronto tra competenze e debolezze possedute, da una parte, e richieste ambientali, dall’altra. A questo punto si ritiene che l’individuo sia in grado di elaborare un piano di azione che preveda mezzi, azioni, tappe ed attività da mettere in atto per raggiungere quegli obiettivi evolutivi di sviluppo che è arrivato a definire.

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Ciò che è interessante notare, in questa fase, è la restituzione dei risultati al beneficiario e le conseguenze rilevanti che questo comporta. L’obiettivo ultimo, infatti, è quello di fornire al consultante le informazioni su se stesso che gli permettano di definirsi, o meglio, di ridefinirsi in rapporto a criteri, informazioni e punti di vista nuovi e diversi dai propri. La restituzione dei risultati ha lo scopo di permettere all’individuo di autovalutarsi nuovamente e prendere coscienza degli scarti esistenti tra l’immagine che egli possiede (o meglio possedeva) di sé e quella che l’esperto gli consegna come l’immagine che è emersa di lui durante il Bilancio. Questa nuova percezione di sé permette al beneficiario di attivare un processo di cambiamento ed elaborare un progetto personale, sociale e professionale (che può consistere, per esempio, in un cambiamento di lavoro o nel frequentare un corso di formazione) realistico e coerente, raggiungendo, così, l’obiettivo finale del processo di Bilancio di Competenze.

La durata complessiva di un percorso di Bilancio così strutturato varia

tra le 16 e le 24 ore, limite stabilito dalla legge come durata massima di un congedo di Bilancio di Competenze retribuito.

Bisogna, inoltre, aggiungere che a queste tre fasi, stabilite obbligatoriamente dalla legge, ne può seguire una quarta chiamata, appunto, “seguito” o “fase di accompagnamento”: a distanza di sei mesi dal termine della realizzazione del Bilancio di Competenze, infatti, il lavoratore beneficiario ha la possibilità di richiedere un nuovo intervento come verifica o eventuale rimessa a punto del proprio progetto.

3.3. Gli strumenti utilizzati nel processo Durante la realizzazione di una prestazione di Bilancio, l’operatore

incaricato si trova posto di fronte ad una duplice difficoltà: mettere in atto degli strumenti di valutazione allo scopo di raggiungere una realtà, quella umana, che si presenta complessa, instabile e parzialmente inaccessibile (J. Aubret, in M. Joras, 1995), e valutare un soggetto che è una totalità indissociabile di capacità prodigiose ma anche limitate, che possiede un’età, una morfologia, uno stato di salute e una cultura specifici, che vive

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in un ambito socio-familiare e professionale, e che crea e sviluppa, a partire dalla sua storia di vita, apprendimenti continui e cultura (S. Michel, 1995). Di fronte a tali problematiche, è necessario domandarsi quali siano le tecniche e gli strumenti di valutazione più idonei a rispondere agli obiettivi propri di un percorso di Bilancio; bisogna, quindi, interrogarsi sul significato e sui contenuti del Bilancio di Competenze. Partendo dalla definizione fornita da J. Aubret secondo il quale il Bilancio rappresenta un “processo personale, richiedente una mediazione sociale, di riconoscimento e di esplicitazione delle potenzialità personali e professionali investibili in un progetto d’inserimento sociale” (1991), si possono ricostruire le caratteristiche distintive di un Bilancio che devono essere necessariamente e contemporaneamente tenute in considerazione nella scelta degli strumenti da utilizzare: – La stretta relazione tra il processo di Bilancio e la persona: esso,

infatti, non prescinde dall’individuo beneficiario, in quanto parte proprio dalle domande e dai bisogni che egli esprime e la realizzazione dei suoi obiettivi è fondata su una sua forte motivazione ed un impegno responsabile;

– La necessità di una mediazione sociale: non si può parlare di Bilancio senza la presenza e l’intervento di figure “esperte” che, assistendo il beneficiario personalmente, gli apportino dei punti di vista su di sé diversi dai propri;

– La finalizzazione del processo: esso, infatti, persegue l’obiettivo ultimo dell’inserimento sociale e professionale dell’individuo in modo che egli possa soddisfare le sue aspirazioni personali e sociali ed apportare il suo contributo allo sviluppo economico, culturale e sociale. Questo scopo è raggiungibile attraverso l’attuazione di tappe intermedie, tra cui importantissima è quella deputata all’elaborazione del progetto d’orientamento e delle strategie d’inserimento;

– Il processo implica un lavoro di riconoscimento e di esplicitazione: tali termini sottolineano le dimensioni analitica e sintetica di un Bilancio e la necessità di passare da forme di presa di coscienza di sé vaghe e confuse ad un’espressione chiara delle constatazioni effettuate nel corso del Bilancio;

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– Il contenuto del Bilancio è costituito dal riconoscimento e dall’esplicitazione delle potenzialità dell’individuo, cioè di tutti quei fattori positivi e negativi (associati alle sue acquisizioni, attitudini, capacità cognitive e sociali...) di cui egli deve tener conto nell’elaborazione del progetto di formazione o nel progetto d’inserimento professionale. Precisato questo, la sfida è quella di capire attraverso quali metodi e

con quali strumenti è possibile, appunto, far apprendere, ad un individuo, il suo passato, il suo presente ed il suo futuro professionale (in termini di aspettative, potenzialità, opportunità e rischi).

La normativa, a questo proposito, fornisce solo delle indicazioni circa le caratteristiche che tali metodi e tecniche devono possedere, indicando che

“gli organismi prestatari sono tenuti ad utilizzare, per realizzare un

Bilancio di Competenze, metodi e tecniche affidabili, messi in atto da personale qualificato” (Art. R. 900-4).

Questo imperativo relativo al criterio dell’affidabilità è stato

ampiamente sottolineato anche dal rapporto “Le libertà pubbliche e l’impiego” presentato, nel dicembre del 1991, da Gerard Lyon-Caen al Ministero del Lavoro, dell’Impiego e della Formazione. In tale rapporto si afferma la necessità di apportare, ai metodi e alle procedure di valutazione delle persone, più chiarezza e razionalità; in particolare, secondo questo rapporto, le qualità che deve possedere ogni metodo di valutazione sono così sintetizzate: – Fedeltà: le informazioni fornite sono indipendenti da colui che le

utilizza e sono costanti se vengono utilizzate più volte o rispetto a più candidati;

– Potere discriminante: attitudine a classificare le risorse umane tra loro; – Pertinenza: le informazioni che vengono richieste devono essere utili ai

fini della formazione di un progetto (“tutto ciò che è necessario e niente altro”);

– Validità scientifica: predittività provata.

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Ogni atto valutativo, secondo il rapporto, deve sottostare ad alcuni principi giuridici che si applicano bene anche al dispositivo di Bilancio di Competenze; tali principi (di trasparenza, validità scientifica, pertinenza...) tutelano il soggetto, sottoposto alla valutazione, dal rischio di violazione della sua vita privata e di discriminazioni che non hanno niente a che vedere con le competenze necessarie all’attività professionale in questione; a questo scopo il soggetto deve essere informato preventivamente di quali strumenti verranno utilizzati, del motivo e degli scopi per cui si utilizzano tali strumenti e dell’uso che verrà fatto dei risultati da essi prodotti.

Nel rispetto di tali norme e principi, quindi, l’operatore incaricato di prestare il servizio deve decidere quali tecniche e quali strumenti siano più adatti a rispondere alla domanda individuale del beneficiario, considerando quest’ultimo non come l’ “oggetto” da valutare, bensì come la persona cui fornire gli strumenti necessari per la sua autovalutazione. Il dispositivo che si viene a creare, a questo punto, si manifesta, più che come prestazione di valutazione, come “prestazione di aiuto all’autovalutazione”, in cui il beneficiario deve essere condotto e sostenuto nell’identificazione attiva delle proprie conoscenze e competenze e nel diventare giudice ed interprete dei suoi risultati.

Tra il vasto repertorio di strumenti esistenti per la valutazione della persona, quelli che si rivelano particolarmente adatti alla conduzione di un percorso di Bilancio e tra i quali il prestatario sceglie, in funzione degli obiettivi e delle fasi del percorso, quelli più utili agli scopi da raggiungere, possiamo sicuramente includere i seguenti: Il colloquio: esso si presenta come uno degli strumenti fondamentali del

Bilancio di Competenze, in quanto, attraverso di esso, si esprime la relazione di aiuto e di chiarificazione svolta dall’operatore nel corso dell’intero processo. La tecnica del colloquio faccia a faccia, con tutte le sue varianti, costituisce uno degli strumenti essenziali per entrare in interazione con il beneficiario e controllare le implicazioni affettive ed i sistemi di difesa che il processo di Bilancio scatena nella persona. In particolare, il colloquio svolge tre funzioni essenziali: una funzione di scambio di informazioni tra intervistatore ed intervistato; una funzione

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maieutica nel far emergere dal soggetto la sua “immagine di sé”, le sue aspettative ed i suoi progetti; una funzione di osservazione, da parte dell’esperto, di comportamenti e reazioni messi in atto dal consultante. Nella prima fase il colloquio di accoglienza, che assume, normalmente una forma semi-direttiva, si pone lo scopo di definire e determinare il problema del soggetto, attraverso la raccolta di informazioni utili. Nella fase successiva il colloquio, detto diagnostico, tende ad analizzare più profondamente le motivazioni, le aspirazioni e le diverse esperienze professionali possedute dal soggetto, anche con il supporto di semplici strumenti di autovalutazione (dei valori, degli interessi, dell’autostima...); nella fase finale, invece, il colloquio assume una forma non-direttiva e si trasforma in strumento attraverso il quale il consultante e l’esperto sintetizzano ed interpretano le informazioni raccolte, incitano il confronto tra l’immagine che il soggetto ha di sé e gli elementi della realtà emersi durante il processo, incoraggiando, così, l’emergere di nuove prospettive di sviluppo. I colloqui individuali possono essere integrati da sessioni di gruppo (nella fase investigativa) finalizzate al confronto sociale, ad una chiarificazione delle possibilità di sviluppo ed a una migliore conoscenza delle opportunità e delle richieste del sistema aziendale o socio-professionale.

Gli itinerari autobiografici: rappresentano l’insieme delle tecniche che

orientano l’individuo verso la spiegazione, l’analisi e la ricostruzione del proprio passato esperienziale. Tale categoria include, per esempio, l’analisi dei curricula vitae, delle biografie e delle storie di vita (narrazione di elementi e tappe significative della vita familiare, sociale e professionale) in cui si guida il soggetto ad esplorare il suo passato ed il suo presente attraverso delle domande finalizzate a fargli ricostruire la logica dell’evolversi delle diverse tappe e della traiettoria professionale, sottolineando i fili conduttori che la contraddistinguono. Queste inchieste anamnestiche, che hanno per finalità quella di portare alla memoria del soggetto il suo passato, permettono di circoscrivere la storia e l’itinerario professionale del soggetto, facendo emergere degli elementi salienti ai fini dell’elaborazione del progetto di sviluppo.

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Sempre all’interno di tale gruppo di strumenti possiamo ricordare l’utilizzo di schede che facilitano la ricostruzione delle esperienze personali e lavorative: si tratta di schede e dossier di descrizione delle attività svolte, dei ruoli ricoperti e delle relative competenze esercitate; tali strumenti aiutano il soggetto a riconoscere ed esplicitare in modo chiaro delle abilità, delle conoscenze e delle competenze acquisite ma di cui non aveva piena consapevolezza, indirizzandolo anche verso quelle attività future che richiedono l’impiego di tale patrimonio di risorse da lui possedute. Particolare importanza, per un Bilancio di Competenze, riveste la tecnica di costruzione del cosiddetto “portafoglio di competenze”; questa metodologia permette al consultante di costruire da sé il proprio dossier, di appropriarsi dell’insieme delle sue conoscenze, abilità e competenze, organizzandole e valorizzandole con lo scopo di investirle attivamente in un progetto futuro di sviluppo formativo e professionale.

i test ed i questionari: questi strumenti, malgrado il loro utilizzo sia

ancora soggetto a molte controversie, vengono affiancati ai precedenti per la valutazione diagnostica e standardizzata di varie componenti della personalità; essi vengono somministrati a discrezione dell’esperto che sceglie quelli più adatti per stabilire una valutazione oggettiva di competenze intellettuali e caratteristiche della personalità del soggetto, da confrontare con le caratteristiche medie della popolazione di riferimento (la popolazione di appartenenza dell’individuo). Tra gli strumenti psicodiagnostici maggiormente utilizzati rientrano i test di personalità, di interessi, di valori ed i test d’efficienza (per esempio test d’intelligenza ed attitudinali).

Le simulazioni e le prove professionali: sono situazioni artificiali che

riproducono, per quanto è possibile, il contesto ed i problemi incontrabili sul lavoro. Tali situazioni si rivelano molto utili ai fini della valutazione delle competenze, in quanto l’esperto ha la possibilità di osservare direttamente le capacità di adattamento dell’individuo ad un ambiente complesso, le risorse applicate nell’esecuzione di un

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compito specifico, i suoi comportamenti sociali e le strategie di risoluzione dei problemi che egli mette in atto. Tra le tecniche più conosciute ci sono gli studi di caso, le simulazioni, i giochi d’impresa ed i lavori di gruppo.

Tutte le pratiche qui elencate, se utilizzate al momento e nel modo

giusto da parte del soggetto prestatario, possono costituire aiuti importanti ad una presa di coscienza reale, da parte dell’individuo, delle proprie risorse e potenzialità mobilitabili nel proprio progetto di sviluppo; esse, quindi, devono essere considerate, all’interno di un processo di Bilancio di Competenze, come tecniche di aiuto all’autovalutazione che l’individuo compie su se stesso, nel senso che gli forniscono delle informazioni, diverse tra loro ma complementari ed ugualmente indispensabili, su di sé e sulle concrete possibilità di impiegare le proprie competenze nel raggiungimento degli obiettivi personali e professionali che si è prefissato.

3.4. I risultati del processo L’intero e complesso processo di Bilancio di Competenze si conclude con

la restituzione dei risultati raggiunti al destinatario dell’intervento che ha la facoltà di usufruirne nel modo che ritiene più opportuno. Questo sottolinea, ancora una volta, la filosofia sottesa a questo tipo di intervento che si realizza, prima di tutto, nell’interesse del lavoratore che beneficia del servizio di Bilancio. L’impresa nella quale eventualmente il soggetto lavora, infatti, può usufruire dei vantaggi derivanti dall’intervento in maniera indiretta, potendo contare su Risorse Umane più responsabilizzate nel processo di sviluppo delle proprie potenzialità, in grado di affrontare i processi di cambiamento con adeguati supporti e di negoziare meglio la propria collocazione lavorativa.

Al termine di una prestazione di Bilancio, quindi, il soggetto si trova a possedere un bagaglio di informazioni che lo riguardano e che gli consentono di attuare e portare a compimento il progetto di sviluppo (formativo e/o professionale) che ha stabilito, durante il percorso, come realistico ed adeguato. Egli avrà, così, a sua disposizione, oltre che gli

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apprendimenti provenienti dall’esperienza fatta e riguardanti aspetti importanti della propria identità e del proprio modo di percepire sé ed il contesto in cui s’inserisce, dei documenti che costituiscono i prodotti materiali e concreti sui quali fondare il proprio processo evolutivo.

La legge stabilisce che al termine della fase conclusiva del Bilancio di Competenze venga elaborato, da parte dell’organismo prestatario, un documento di sintesi che non può comportare indicazioni diverse da quelle così definite (Art. L. 900-4-1, Art. R. 900-2): – Le circostanze nelle quali si è sviluppato il Bilancio di Competenze; – Le competenze e le attitudini del beneficiario che riguardino le

prospettive evolutive considerate; – Gli elementi costitutivi del suo progetto professionale o,

eventualmente, del suo progetto di formazione e le principali tappe previste per la sua realizzazione. Per quanto riguarda il primo contenuto del documento, una circolare

della DFP del 1993 precisa che per “indicazioni circa le circostanze” del Bilancio di Competenze si deve intendere: il chiarimento e la spiegazione dell’origine della domanda, attraverso un riassunto della fase preliminare dell’intervento ed una descrizione dei termini stabiliti nella convenzione tripartita iniziale, e la descrizione delle condizioni di realizzazione della prestazione: fasi proposte, durata delle azioni, metodi e strumenti utilizzati, concetti di competenza privilegiati, luoghi ed orari della prestazione.

In riferimento alla seconda parte del documento di sintesi, le competenze e le attitudini che devono essere riportate devono riferirsi unicamente alle prospettive di evoluzione considerate; si tratta, quindi, di descrivere i punti di forza e quelli di debolezza dell’individuo, le sue risorse e le competenze da acquisire o sviluppare e di confrontarle con le risorse necessarie per la realizzazione del progetto di sviluppo elaborato. Il documento include, in questo modo, il “portafoglio di competenze” che descrive l’insieme delle competenze acquisite dalla persona e le

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potenzialità sviluppate nel corso della sua storia personale e professionale; esso rappresenta il ritratto, l’autobiografia dell’individuo comprendendo i principali apprendimenti delle esperienze di vita e di lavoro, le competenze acquisite ufficialmente e le competenze acquisite, ma non ancora validate. Tale documento che, se opportunamente costruito, può costituire la base per il riconoscimento di crediti professionali, rappresenta, per il soggetto, una sorta di memoria-guida del lavoro di analisi fatto su se stesso durante il processo di bilancio, e lo sostiene nelle azioni di messa in opera del progetto stesso.

Per finire, il documento di sintesi deve contenere anche gli elementi costitutivi del progetto professionale di sviluppo considerato. La definizione, da parte del beneficiario, di un progetto di sviluppo dimostra il suo impegno in un processo evolutivo, la sua volontà di muoversi e mobilitare tutte le sue risorse per fare una scelta di cambiamento o adattamento professionale o, ancora, per ammettere la necessità di un progetto formativo d’accompagnamento. Tale progetto nasce dal confronto tra l’ambiente professionale (contesto d’impresa o mercato del lavoro) e le caratteristiche personali dell’individuo che, a questo punto, deve essere in grado di organizzare le sue priorità professionali, di utilizzare nel migliore dei modi le sue capacità nelle scelte di carriera e, dunque, di gestire efficacemente le sue risorse personali. Il progetto professionale, così elaborato, deve descrivere gli obiettivi di sviluppo professionale e/o formativo decisi dall’individuo ed indicare i mezzi, le azioni e le fasi di attività che devono essere attuati per il raggiungimento degli obiettivi indicati.

Il documento di sintesi, così composto, deve essere stilato dall’organismo prestatario sotto la sua unica responsabilità e consegnato, prima della sua redazione finale, al soggetto beneficiario per permettergli di fare delle eventuali osservazioni e correzioni. Esso, inoltre, costituisce un documento strettamente personale e riservato all’unico destinatario che è il soggetto stesso il quale può decidere se trasmettere i risultati del Bilancio ad un terzo soggetto oppure no (come stabilito dalla convenzione tripartita iniziale); il centro prestatario, infatti, è tenuto, salvo domanda

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contraria del beneficiario, a distruggere, al termine dell’intervento, tutte le informazioni ed i dati contenuti nel documento.

A questo punto, analizzato il modello di Bilancio di Competenze diffuso

e sviluppato all’interno del contesto francese, ci concentreremo sulla presentazione di un’esperienza italiana, nel tentativo di far emergere degli interessanti elementi di riflessione e dei possibili spunti per un confronto tra le due situazioni.

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PARTE II PRESENTAZIONE

DI UN’ESPERIENZA

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«Il Bilancio delle Competenze: punto di partenza per riprogettare la propria identità professionale».

Analisi di un’esperienza

La prima parte di questo lavoro, finalizzata a riscoprire e valutare i presupposti di base e le finalità proprie della metodologia del Bilancio di Competenze, trova, in questa seconda parte, occasione di essere completata e supportata dall’analisi e dal confronto con un’esperienza italiana di applicazione di Bilancio di Competenze, svoltasi nell’ambito di un progetto finanziato dal Fondo Sociale Europeo e conclusasi nel Giugno dell’anno scorso (1997).

L’analisi di questa iniziativa, a carattere sperimentale, fornisce l’opportunità di approfondire alcuni aspetti della metodologia del Bilancio di Competenze, emergenti dagli studi e dalla letteratura esaminata, attraverso un contatto più diretto e concreto con le reali possibilità di utilizzo ed applicazione degli interventi di Bilancio. In questo capitolo, quindi, riporteremo quelli che sono stati i fattori salienti dell’esperienza sopra accennata, evidenziando, in modo particolare, quelle caratteristiche dell’intero processo suscettibili di essere utilizzate come punto di partenza per una discussione in merito all’applicabilità della pratica di Bilancio di Competenze nel contesto italiano.

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1. Descrizione del progetto:

Bilancio delle Competenze: punto di partenza per riprogettare la propria identità professionale

QUADRO ORGANIZZATIVO

Grafico n. 3

Tipologia d’intervento: Percorso orientativo-formativo Destinatari del corso: 25 lavoratori in mobilità o CIGS Durata del corso: 150 ore Tempi di svolgimento: da Maggio 1997 a Giugno 1997 Luogo di svolgimento del corso: Università Cattolica del Sacro

Cuore di Milano Operatori coinvolti: équipe del CROSS

(psicologi, formatori, esperti in processi orientativi, organizzazione e mercato del lavoro)

1.1. Il contesto di riferimento Tale progetto è stato organizzato e realizzato dall’équipe del Centro di

Ricerche sull’Orientamento Scolastico-Professionale e sullo sviluppo delle Organizzazioni (CROSS) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con il patrocinio del Fondo Sociale Europeo e del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale.

Esso nasce, infatti, come iniziativa che si inserisce nell’ambito del Programma Quadro (MOB. CIGS 936034) di Interventi Formativi in favore dei lavoratori in CIGS ed in Mobilità nelle Regioni del Centro-Nord, cofinanziati dal Fondo Sociale Europeo (secondo il Decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del 27 Giugno 1996 e la Decisione della Commissione N° C (95) 2999 del 29 Novembre 1995).

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L’intervento si colloca, quindi, all’interno di quella sfera di iniziative, originate nel contesto delle politiche di formazione continua ed orientamento professionale, finalizzate all’inserimento o al reinserimento di lavoratori disoccupati nel mondo del lavoro. L’interesse per tali tipi di interventi si è reso sempre più necessario dal momento che un numero sempre crescente di lavoratori è rimasto coinvolto in processi di riconversione, ristrutturazione, messa in mobilità, Cassa Integrazione e licenziamento. L’attuale contesto lavorativo, infatti, risulta essere sempre più caratterizzato da elementi di flessibilità e mobilità che, spesso, i lavoratori non sono in grado di fronteggiare in modo adeguato. L’esperienza della transizione lavorativa e dei continui cambiamenti, richiesti dall’incessante evoluzione tecnologica ed organizzativa, costituiscono, ormai, fattori imprescindibili del contesto professionale che comportano, in molti casi, la progressiva espulsione dei lavoratori dal mercato del lavoro.

Il progetto che andremo a presentare, quindi, s’inserisce perfettamente nel quadro sopra descritto cercando di rispondere ad alcune delle esigenze più impellenti (di formazione, di sostegno psicologico, di orientamento, d’informazione, di sviluppo di nuove professionalità e competenze...) emergenti da parte dei lavoratori che si trovano inseriti in un tale contesto professionale.

1.2. Tipologia, reclutamento e selezione dei partecipanti L’intervento formativo si è rivolto a lavoratori implicati in situazioni di

mobilità o di CIGS, per un numero complessivo di 25 destinatari. Le procedure eseguite per l’individuazione, il reclutamento e la

selezione dei candidati hanno incluso le seguenti attività (Vedi ALL 2): – Reperimento dei possibili partecipanti attraverso:

Contatti con Enti-Associazioni presenti sul territorio (CIGL, Corriere Lavoro, Consiglio di zona 17, Camere del Lavoro, SEI Milano, Centro servizi per l’impiego di Bollate, FIOM, Centri Donna del Comune di Milano, Filpia, Sertini, Fedele);

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Contatti telefonici con persone il cui nominativo risultava tra gli elenchi dei lavoratori in mobilità e CIGS forniti dall’Agenzia per l’Impiego della Lombardia e dall’Assolombarda;

Pubblicizzazione dell’iniziativa attraverso la pubblicazione di un’inserzione-bando di partecipazione sul Corriere della Sera;

Predisposizione e diffusione di locandine riportanti finalità, attività e tempi previsti per l’iniziativa (Vedi ALL 1).

– Analisi delle candidature, rispetto ai vincoli imposti dal Decreto Ministeriale, attraverso la redazione e la compilazione di una scheda di rilevazione dei dati personali e professionali dei singoli candidati.

– Selezione dei candidati, preliminarmente individuati e contattati, attraverso l’analisi del curriculum, colloqui individuali e somministrazione di test che hanno evidenziato gli individui dotati di una più alta scolarità e di motivazioni più forti e sviluppate. Una volta selezionati i 25 partecipanti al corso, si è proceduto ad un

secondo colloquio individuale (colloquio d’accettazione) finalizzato ad esplicitare e chiarire i bisogni e le aspettative dei partecipanti, i contenuti e gli obiettivi del corso, a definirne i tempi (modalità ed orari) di svolgimento e, soprattutto, all’assunzione di un impegno personale da parte dell’utente.

Ai fini anche di una più completa comprensione delle intenzioni e delle finalità che muovono l’intervento in analisi, è interessante, a questo punto, sottolineare la particolare condizione vissuta da questa categoria di soggetti che, trovandosi a dover affrontare una situazione professionale così precaria e sentendosi impossibilitati ed incapaci di gestirla in modo positivo ed efficace, la subiscono, per la maggior parte delle volte, in modo passivo e distruttivo. La condizione del lavoratore disoccupato o in mobilità provoca, infatti, anche un momento di profonda crisi soggettiva, in quanto il lavoratore si ritrova a mettere in discussione la propria identità ed il proprio sistema di relazioni familiari e sociali, comportando, a livello personale, disturbi psicologici più o meno gravi che si manifestano con atteggiamenti di sfiducia in se stessi, rassegnazione, demotivazione ad impegnarsi in un progetto costruttivo di sviluppo, e, di conseguenza, con l’assunzione di un approccio inadeguato al mercato del lavoro.

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Un intervento di supporto, di qualsiasi natura esso sia, rivolto a soggetti di questo tipo deve, quindi, necessariamente tenere in considerazione lo stato emotivo con il quale essi possono affrontare situazioni particolarmente coinvolgenti come può essere quella del momento di Bilancio ed adeguare, di conseguenza, metodologie, contenuti ed obiettivi del percorso.

Questa puntualizzazione sullo stato delle persone destinatarie dell’intervento di Bilancio di Competenze, inoltre, permette di capire ed interpretare in modo più verosimile anche molti dei comportamenti da loro messi in atto durante l’intero percorso di Bilancio e, soprattutto, le aspettative, forse non troppo realistiche, con cui essi si sono approcciati, fin dall’inizio, all’intervento proposto.

1.3. Finalità e motivazioni del progetto Tale progetto si è proposto di recuperare e potenziare la motivazione e

l’autostima dei destinatari, attraverso un percorso di ricostruzione della loro identità personale e professionale compiuto mediante un processo di rilettura delle esperienze di vita e di lavoro dei soggetti stessi. La finalità ultima era quella di poter fornire agli individui degli strumenti e dei supporti adeguati per poter valutare il proprio potenziale e l’insieme delle risorse, acquisite nell’ambito delle molteplici esperienze personali e professionali, di cui dispongono e che possono essere mobilitate all’interno di azioni volte al concreto inserimento nel processo lavorativo. Tale intervento, quindi, intendeva attivare, nei lavoratori in difficoltà, degli atteggiamenti positivi nei confronti del mercato del lavoro e della ricerca di una nuova occupazione, proponendosi di facilitare l’elaborazione di una strategia finalizzata ad un concreto inserimento professionale.

Il progetto ha teso a dimostrare l’efficacia di un percorso di Bilancio di Competenze nello sviluppo delle potenziali possibilità di occupazione di ogni singolo individuo attraverso la definizione e la stesura di un progetto professionale che, partendo dall’analisi delle risorse e dei vincoli di cui l’individuo dispone e dal chiarimento delle richieste provenienti dall’ambiente lavorativo, potesse costituire un primo e concreto passo nell’attivazione del soggetto alla ricerca di una nuova occupazione.

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L’esito auspicato al termine dell’intervento era quello di restituire gli individui al mercato del lavoro dotati di una rinnovata definizione della propria personalità, in modo da poter essere anche inseriti, eventualmente, in iniziative di formazione professionale sulla base di scelte mature, responsabili e consapevoli effettuate dai lavoratori stessi.

1.4. Struttura ed articolazione del percorso Il progetto si è articolato intorno a tre moduli principali (vedi ALL 3)

tesi al raggiungimento di diversi obiettivi intermedi, funzionali allo scopo ultimo dell’intervento (vedi Grafico n°4).

Il percorso orientativo si è aperto con un momento diagnostico teso alla valutazione del livello iniziale d’autostima attraverso la somministrazione del test di “Coopersmith” a tutti i partecipanti. La misurazione del grado di autostima ha costituito, infatti, uno degli indicatori più oggettivi dell’efficacia e della validità del percorso di Bilancio, dal momento che una delle sue finalità principali, a breve termine, era proprio costituita dal potenziamento del livello di motivazione, della fiducia in se stessi e dell’autostima.

La prima fase dell’intervento ha rappresentato, invece, un momento durante il quale i soggetti hanno avuto la possibilità, accompagnati e stimolati dai docenti e dagli operatori di volta in volta implicati, di ripercorrere la storia della loro vita personale, sociale e professionale (lavorativa ed extra-lavorativa) ai fini di evidenziarne gli eventi critici e salienti (vedi ALL 6). Il presupposto di partenza, infatti, è che molto spesso gli individui, soprattutto se vivono in modo negativo e distruttivo i periodi di transizione in cui si trovano coinvolti, non sono capaci di analizzare in modo oggettivo, critico ed adeguato i propri vissuti, le proprie esperienze e le proprie risorse. L’intento di questa prima fase è stato proprio quello di sostenere i soggetti nel reperimento di elementi della loro vita, fattori della loro personalità, dei loro atteggiamenti e delle loro scelte che potessero essere analizzati, spiegati, rivissuti ed utilizzati come fonti di importanti apprendimenti sui quali fondare i propri comportamenti attuali ed i propri progetti per il futuro.

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Ciò che si è analizzato, in questa fase, non sono state solo le competenze acquisite da esperienze professionali precedenti, o le conoscenze certificate, derivanti dai percorsi formativi formali; grande importanza, infatti, è stata attribuita a fattori come la percezione dell’immagine di sé, le spinte motivazionali, l’influenza esercitata dagli interessi e dai valori nelle scelte di vita e le strategie d’azione e di risoluzione dei problemi che gli individui, inconsapevolmente, mettono in atto nell’affrontare le diverse situazioni. La presa di consapevolezza, da parte dei soggetti, di tali elementi costitutivi della propria personalità, del proprio modo d’essere e delle proprie competenze, rappresenta un fattore determinante nell’evoluzione del percorso d’orientamento, in quanto rende possibile un loro maggiore coinvolgimento ed una loro attivazione nella ricerca di nuove soluzioni al proprio problema occupazionale.

In questo senso, questo primo momento dell’intervento di Bilancio non può essere considerato semplicemente come un momento statico di diagnosi rivolta al passato dell’individuo; la valutazione delle risorse complessive di cui il soggetto dispone, infatti, mette in moto un processo dinamico di cambiamento e di ridefinizione dell’identità personale e professionale dell’individuo, in una prospettiva evolutiva che è in linea con la dimensione progettuale e rivolta al futuro caratteristica della finalità perseguita dal Bilancio di Competenze.

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Grafico n. 4

FASE PRELIMINARE

Valutazione livello iniziale d’autostima

I FASE Elaborazione di un inventario delle acquisizioni:

Individuazione tappe del percorso personale e professionale:

–competenze –conoscenze Identificazione —–capacità –motivazioni –interessi

II FASE Orientamento alle scelte professionali future:

–Sviluppo mercato del lavoro Informazioni su –Professioni emergenti –Percorsi formativi

III FASE

Elaborazione del progetto di sviluppo

Individuazione prospettive professionali

–trasferibili Identificazione risorse –da acquisire –da sviluppare Indicazione delle strategie operative

FASE CONCLUSIVA

Valutazione livello finale d’autostima

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Nella seconda fase dell’intervento, invece, si è agito sulla rappresentazione che l’individuo possiede dell’ambiente che lo circonda. In particolare si mettono in luce gli elementi che caratterizzano l’attuale contesto professionale: dinamiche e sviluppo del mercato del lavoro, normative in tema di mobilità ed impiego, possibilità offerte dal territorio, nuovo modo d’intendere l’organizzazione del lavoro, richieste di professionalità emergenti, percorsi formativi esistenti.

Lo scopo di questa fase è stato quello di aiutare i soggetti ad avere una visione più chiara del mondo lavorativo con cui devono fare i conti ma, soprattutto, di come potersi muovere, in un tale contesto, in modo efficace ai fini di un inserimento professionale soddisfacente. Spesso, infatti, i soggetti che si trovano in una situazione lavorativa precaria non sono neanche in possesso delle informazioni base sull’evolvere del mercato del lavoro e sulle modalità di approccio a tali nuove esigenze e richieste; questo momento del Bilancio, quindi, ha teso proprio a fornire agli individui quegli strumenti e quelle nozioni necessarie affinché essi potessero proporsi adeguatamente e con successo nel nuovo mondo del lavoro.

La terza fase del percorso di Bilancio di Competenze qui analizzato, è stata quella più propriamente operativa, destinata all’elaborazione di piste di lavoro concrete individuate, dai soggetti stessi, attraverso il confronto tra il complesso di risorse possedute (identificate nella prima fase dell’intervento) e le prospettive offerte dal mercato del lavoro (emerse durante la seconda fase del percorso). In questo modo, gli individui hanno avuto la possibilità di effettuare delle scelte e di prendere delle decisioni riguardo alle proprie prospettive professionali (o formative) future che, fondandosi sull’analisi oggettiva di tutti i fattori coinvolti nella dinamica della ricerca di un’occupazione, hanno maggiore probabilità di produrre esiti soddisfacenti.

L’elaborazione del progetto professionale finale presupponeva che l’individuo, destinatario dell’intervento, fosse arrivato, a questo punto, a possedere dei nuovi elementi (riguardo a sé e all’ambiente esterno) che lo rendessero capace di valutare autonomamente le sue concrete opportunità di sviluppo professionale, le debolezze da colmare (attraverso specifici

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programmi formativi), i punti di forza sui quali basarsi, e le competenze mobilitabili nei diversi contesti. Queste acquisizioni sono state tradotte in termini di obiettivi (professionali e formativi) da raggiungere e nelle concrete strategie d’azione che conducono al perseguimento di tali obiettivi.

Lo scopo, quindi, è stato quello di fornire all’individuo un piano d’azione preciso e concreto che gli chiarisse in che direzione andare, con quali mezzi muoversi ed attraverso quali modalità.

Al termine dell’azione di Bilancio di Competenze si è prevista una discussione di gruppo relativa alla valutazione dell’efficacia del corso e, per finire, un’ulteriore somministrazione del Test d’autostima iniziale per verificare gli effetti prodotti dal corso sul livello d’autostima dei soggetti che vi hanno partecipato.

1.5. Aspetti metodologici Il percorso illustrato si colloca all’interno degli interventi di supporto a

persone in difficoltà che chiamano in causa i presupposti metodologici propri della relazione d’aiuto. Prima di tutto, infatti, quello che caratterizza questo percorso è l’attenzione conferita al rapporto instaurato tra gli esperti-consulenti d’orientamento ed i soggetti partecipanti. A causa anche della particolare tipologia d’utenza (soggetti demotivati e con scarsa fiducia in se stessi e negli altri) è stato, infatti, necessario, durante l’intero percorso, porre attenzione alla richiesta di aiuto e di relazione proveniente da tali individui; per questo motivo i partecipanti hanno avuto la possibilità di colloqui individuali con gli psicologi coinvolti nel progetto non solo all’inizio del percorso, ma anche durante il suo stesso svolgimento per verificare in itinere problemi, cambiamenti, aspettative o per confrontare la propria esperienza personale direttamente con l’esperto e chiedergli ulteriori consigli e supporti.

Anche per quanto riguarda i momenti in aula, durante i quali è previsto che il conduttore si confronti con l’intero gruppo dei partecipanti, si è teso a coinvolgerli in modo diretto ed attivo così da renderli attori protagonisti dell’intero percorso. Si voleva, cioè, che i soggetti partecipassero attivamente a tutti i momenti che venivano loro proposti,

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interagendo dinamicamente tra loro e con il conduttore del gruppo; gli argomenti trattati durante il corso, ad esempio, sono stati raramente esposti solo attraverso lezioni frontali: si è privilegiata, infatti, una metodologia attiva che offrisse la possibilità ai destinatari dell’intervento, di confrontarsi con ciò che veniva loro detto, di prendere parte al discorso attraverso interventi, richieste di chiarimenti ed esemplificazioni e, soprattutto, attraverso esercitazioni pratiche che gli consentissero un apprendimento più immediato e concreto dei contenuti in esame.

L’individuo, quindi, ha assunto un ruolo fondamentale nell’intero percorso; sin dall’inizio, infatti, gli sono stati esposti gli obiettivi del corso e gli si è domandato continuamente di esprimere pareri ed opinioni, sulla base delle proprie esperienze personali e professionali, riguardo ai temi che, di volta in volta, vengono trattati. Per quanto riguarda la scelta di introdurre lavori e discussioni di gruppo, essa è stata finalizzata a favorire una maggiore consapevolezza di sé agli individui coinvolti, in quanto, il gruppo ha costituito un’importante fonte di informazioni, riguardo la propria identità, che hanno contribuito, in modo determinante, alla costituzione di una rinnovata immagine di sé, più completa ed obiettiva. I soggetti, infatti, nella situazione di gruppo, hanno avuto la possibilità di confrontare se stessi e la situazione in cui si trovano, con persone che condividevano le medesime condizioni di difficoltà occupazionale, avendo l’opportunità, in questo modo, di rinforzare la propria identità e la fiducia nelle proprie possibilità.

Il ruolo dei docenti e dei conduttori del percorso in questo contesto, quindi, è quello di facilitatori dei processi di transizione in cui si trovano coinvolti i destinatari; essi, infatti, aiutano questi ultimi nell’apprendimento di nuove soluzioni e strategie di azione e, soprattutto, nell’autovalutazione che i soggetti devono compiere su se stessi. I conduttori, fornendo degli strumenti adatti, guidano, indirizzano e stimolano gli individui ad una riflessione completa e profonda su loro stessi, sulla propria vita e sulle proprie esperienze personali, sociali, familiari e professionali. Essi non hanno rappresentato, quindi, degli esperti che valutano dall’esterno attraverso l’uso di strumenti psicodiagnostici (test psicometrici, questionari...) e che forniscono, alla fine

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del percorso, i risultati delle loro misurazioni; sono i soggetti stessi, infatti, che sono pervenuti all’elaborazione del proprio “inventario delle acquisizioni” (ALL 7) e del documento di sintesi finale (ALL 9) che include il proprio progetto di sviluppo professionale e le prospettive evolutive.

1.6. Contenuti e strumenti dell’intervento Per quanto riguarda i contenuti trattati nel corso dell’intervento, essi

possono essere complessivamente ricondotti, secondo la struttura del percorso precedentemente illustrata, alle tre aree tematiche rappresentate nel grafico n°5. Queste aree tematiche, all’interno delle quali si possono includere gli argomenti trattati dai docenti e dai tutor coinvolti nel progetto, si sono alternate ed integrate tra loro in modo da fornire ai partecipanti tutti quegli elementi necessari ad una consapevole e realistica elaborazione di un progetto funzionale ad un possibile inserimento lavorativo. In questo senso, quindi, i temi di volta in volta trattati (esposti più dettagliatamente nel grafico n°6) non sono stati semplicemente esposti in termini teorici; gli individui, infatti, hanno avuto la possibilità di confrontarsi direttamente e di coinvolgersi con l’argomento di volta in volta affrontato.

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Grafico n°5

Una parte importante, all’interno di questo percorso, hanno avuto i

temi attinenti gli aspetti più soggettivi, profondi e personali degli individui; sono proprio questi, infatti, quei fattori di cui, più spesso, i

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soggetti non possiedono piena consapevolezza: largo spazio si è dato, per esempio, alla descrizione delle modalità individuali di affronto delle difficoltà e di risoluzione dei problemi, all’influenza esercitata dagli interessi, dalle aspettative e dalle motivazioni degli individui sulle scelte e sul comportamento lavorativo.

Si è inteso, in questo modo, fornire ai soggetti dei nuovi parametri sui quali fondare la propria autovalutazione e, di conseguenza, mobilitare tutte le proprie energie e risorse nella ricerca attiva di un’occupazione duratura.

A questo fine sono stati utilizzati molteplici strumenti e tecniche di apprendimento: esercitazioni di gruppo, simulazioni, itinerari autobiografici, colloqui individuali, schede di autovalutazione, test psicometrici, discussioni di gruppo, giochi di ruolo e risoluzioni di casi.

Tra gli strumenti utilizzati bisogna segnalare la presenza di supporti e programmi informatici attraverso i quali si è permesso ai partecipanti di conoscere ed imparare nuovi modi di apprendimento delle informazioni e di autovalutazione. In particolare si è usufruito di alcuni programmi (Talete, Da donna a donna, Self-assessment e Ritornare al lavoro) contenuti all’interno pacchetto informatico MITO, messo a punto dalla SPO (Scuola di Psicosociologia dell’Organizzazione) come “sistema integrato ed informatizzato di Autovalutazione, Informazione e Supporto per l’Occupazione” avente per obiettivi l’orientamento al lavoro, il career counseling, l’inserimento lavorativo dei disoccupati di lunga durata e delle fasce deboli del Mercato del lavoro, la valutazione del personale, il reclutamento e la selezione. Oltre a MITO sono stati utilizzati e messi a disposizione dei partecipanti Internet, il Filo di Arianna ed una serie di supporti e Cd-rom allegati a riviste specialistiche del settore (CLIC, COME ed ESPANSIONE).

È comunque rilevante ricordare l’importanza che, durante tutte le fasi dell’intervento, ha rivestito il colloquio individuale, strumento essenziale per una rielaborazione continua ed una verifica in itinere dei bisogni degli utenti, dei contenuti e delle metodologie del corso.

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Grafico n°6

Area tematica Argomenti Strumenti IDENTITÀ e COMPETENZE

Personalità e competenze Obiettivi personali ed aspirazioni Interessi ed attitudini nel lavoro Autoaiuto Modalità di problem solving Strategie di copying

Esercitazioni: – Come mi vedono gli altri – Cosa vorrei – La storia della mia vita Test: – Big Five – Wartegg – Kolbe

MOTIVAZIONE

Elementi della motivazione L’automotivazione

Lezioni Esercitazioni di gruppo: – Sul tempo libero – Problem solving

GRUPPO

Dinamiche della comunicazione Lavoro di équipe Decision making La cooperazione

Esercitazioni di gruppo: – Risoluzione casi aziendali sulla comunicazione Discussioni di gruppo

MONDO del LAVORO

Normative in tema di impiego e mobilità Le nuove professioni Percorsi di formazione

Lezioni Colloqui individuali

PROGETTO

Definizione e finalità del progetto Strategie di autopromozione Inserzioni e lettere presentazione Come si scrive un curriculum Il colloquio di selezione Creazione del proprio lavoro

Esercitazioni: – Piano di marketing – Compilazione curriculum – Ricerca annunci – Simulazioni filmate di colloqui di selezione Stesura progetto Colloqui individuali

PROGRAMMI INFORMATICI

Ricerca di informazioni Autovalutazione

Utilizzo di MITO Utilizzo Internet

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2. Risultati del percorso di Bilancio di competenze

Al termine di questa esperienza i partecipanti hanno avuto la possibilità di confrontarsi nuovamente con i consulenti ed i tutor presenti, per verificare l’attuabilità del progetto professionale elaborato e per chiedere ulteriori informazioni e consigli sulle modalità più opportune per muoversi concretamente nel modo del lavoro (esempio: indirizzi cui rivolgersi per i corsi di formazione, correzione del curriculum, discussione sui risultati dei test psicometrici...).

I risultati materialmente prodotti dal percorso di Bilancio di Competenze analizzato sono stati (Vedi Allegati): – L’inventario delle acquisizioni: una scheda riassuntiva (assimilabile al

“portafoglio di competenze” del modello francese) e certificativa delle risorse complessive possedute dall’individuo, comprendenti conoscenze di base, competenze, capacità, attitudini e caratteristiche personali (“io conosco”, “io so fare” e “io sono”). Tale strumento rappresenta una sorta di identikit o di fotografia del soggetto e della sua storia personale e professionale che mette in luce quali sono i suoi punti di forza e le sue “carte da giocare” sul mercato del lavoro (ALL 7);

– Il documento di sintesi: un prospetto completo del profilo individuale e delle prospettive di sviluppo emerse per il futuro; tale documento include, infatti, l’elenco degli interessi, delle motivazioni, delle competenze formalmente certificate e di quelle emerse durante il percorso di Bilancio come competenze trasferibili (conoscenze, modalità relazionali, abilità, caratteristiche personali) e sulle quali l’individuo sa di poter investire nell’impegno rispetto alle prospettive professionali future. Il documento include, infatti, anche il progetto professionale elaborato nel corso dell’intervento e le strategie concrete ed operative da mettere in atto per la realizzazione di tale progetto. Sulla base del percorso fatto il soggetto è in grado di identificare e segnalare, sempre in questo documento di sintesi, quali siano le competenze e gli aspetti della propria personalità e della propria esperienza che necessitano di un ulteriore sviluppo ed affinamento e di quelle che richiedano, invece, di essere ancora acquisite attraverso diversi percorsi e momenti di formazione. Questo documento di sintesi, dunque, rappresenta per il

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soggetto, oltre che il risultato di un percorso teso a fare il punto della situazione esistente, un importante punto di partenza per un ulteriore e continuo processo di sviluppo personale e professionale rispetto alle prospettive future (ALL 9);

– L’attestato di partecipazione al corso: una dichiarazione nominativa che certifica la frequenza al corso, rilasciata dall’Università Cattolica del Sacro Cuore (centro CROSS) con il patrocinio del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale e del Fondo Sociale Europeo (ALL 10). L’insieme di tutti questi documenti e delle informazioni risultate dal

percorso di Bilancio di Competenze viene mantenuto assolutamente riservato e considerato a carattere strettamente confidenziale; l’intera documentazione prodotta rimane, infatti, esclusivamente nelle mani dei singoli partecipanti che possono decidere di usufruirne nei modi che ritengono più opportuni.

In questo senso si manifesta nuovamente il significato di tale azione orientativa: ciò che interessa è fornire ai partecipanti degli strumenti e delle occasioni perché possano apprendere a gestire autonomamente ed affrontare responsabilmente il difficile momento di transizione (relativo alla mancanza di occupazione) in cui si trovano coinvolti.

Uno degli strumenti considerati fondamentali per il raggiungimento dello scopo prefissato dal progetto si riferisce al processo di rafforzamento e di ridefinizione della propria identità personale e professionale.

L’esito più importante ed oggettivamente misurabile, proprio dal punto di vista della ricostruzione dell’identità professionale dei soggetti, è quello che si riferisce ai punteggi ottenuti dai partecipanti alla somministrazione finale del Test d’autostima (Test di “Coopersmith”); si è riscontrato, infatti, in tutti i destinatari dell’intervento, un notevole aumento del livello d’autostima rispetto a quello misurato dallo stesso Test all’inizio del percorso. Questo risultato è indicativo del fatto che l’intervento ha raggiunto uno degli obiettivi immediati più importanti: l’acquisizione di fiducia e stima in se stessi, che infatti, costituisce uno dei primi fattori scatenanti un atteggiamento positivo, costruttivo e dinamico nei confronti della situazione in cui si trova un soggetto in difficoltà.

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A partire, quindi, da una rinnovata stima in se stessi, nelle proprie competenze e nelle possibilità di affrontare efficacemente la situazione di mobilità o disocuppazione in cui si trovano, i partecipanti all’intervento di Bilancio di Competenze sono proiettati nel mondo del lavoro carichi di iniziativa e motivazioni nella realizzazione del proprio progetto professionale e nella ricerca di un impiego.

Un altro esito rilevante, prodotto dall’intervento, riguarda il fatto che i suoi partecipanti, avendo valorizzato il loro intero percorso di vita ed avendo riconosciuto l’importanza di alcuni fattori della propria personalità precedentemente trascurati (le cosiddette “competenze trasversali”), non solo sono in grado di avere un quadro più completo ed obiettivo sulle proprie competenze, ma hanno anche ampliato la possibilità di utilizzare e spendere queste competenze in contesti e situazioni molteplici, ben adattandosi, quindi, alle condizioni e alle richieste di flessibilità provenienti dall’attuale mondo del lavoro.

2.1. Il monitoraggio finale ed i commenti dei partecipanti Al termine dell’intervento si è proceduto ad un’attività di monitoraggio

e di verifica dei risultati da esso prodotti, condotta da un soggetto esterno al percorso svolto (un’esperta di psicologia del lavoro che non aveva mai partecipato agli incontri); tale controllo è avvenuto attraverso un’accurata valutazione dell’efficacia delle diverse fasi del percorso rispetto al raggiungimento degli obiettivi di partenza, sulla base dei commenti e del grado soddisfazione-insoddisfazione espresso dai partecipanti.

Dal quadro degli interventi è emerso, complessivamente, un livello discreto di soddisfazione ed approvazione del percorso seguito, in quanto il corso ha saputo rispondere alle aspettative che riguardavano soprattutto una maggiore conoscenza di sé e delle proprie potenzialità.

In particolare è emersa, da parte dei partecipanti, una maggiore soddisfazione nei confronti della prima parte del corso (riservata, appunto, alla conoscenza di sé) che è sembrata più approfondita e meglio gestita. Una larga parte del gruppo dei partecipanti, infatti, dopo l’iniziale scetticismo ed indifferenza, ha compreso l’importanza e l’utilità del lavoro di analisi ed autovalutazione di sé, scoprendo di possedere risorse

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inconsapevoli ed interessandosi alle strategie cognitive e relazionali da mettere in atto nell’affronto di determinate situazioni o nella risoluzione delle difficoltà. Un aspetto che ha particolarmente colpito le persone coinvolte è stato quello relativo alla dimensione motivazionale: molti di loro, infatti, scindevano la dimensione professionale da quella più propriamente personale, pensando che per svolgere bene un determinato lavoro occorresse semplicemente possedere le competenze tecniche necessarie. La scoperta dell’influenza di valori, interessi, motivazioni ed abilità sociali nella scelta professionale e nel comportamento lavorativo ha costituito, infatti, un risultato molto evidente del percorso orientativo, contribuendo ad una ridefinizione più completa ed appropriata della propria identità professionale.

Per quanto riguarda la seconda parte del corso (esplorazione dell’ambiente esterno) i partecipanti hanno dimostrato grande interesse nei confronti dei temi inerenti i cambiamenti del mondo del lavoro, la situazione occupazionale e l’utilizzo dei programmi informatici, cui, a parere di alcuni, era necessario dedicare maggiore tempo ed attenzione.

Infine, in merito alla terza fase del percorso (destinata all’elaborazione del progetto professionale), la totalità dei soggetti ha affermato che il proprio progetto professionale è stato sufficientemente approfondito e che il colloquio individuale con gli psicologi ha fornito dei feed-back importanti ed utili per verificare l’effettiva validità ed attuabilità del progetto elaborato.

Un altro aspetto percepito dai soggetti in modo positivo è stato il clima di sostegno che ha caratterizzato l’intero percorso. Essi, infatti, si sono sentiti di poter condividere con qualcuno di più esperto la propria condizione svantaggiata, appoggiandosi e quasi “confidandosi” in cerca di aiuto, comprensione e, soprattutto, di strumenti concreti di risoluzione della propria situazione. Una componente fondamentale, quindi, soprattutto per alcuni dei partecipanti, è stata la percezione di sentirsi sostenuti, guidati e non abbandonati a se stessi nel difficile momento di crisi transitoria che stavano vivendo. A questo proposito, infatti, è stato evidenziato un desiderio diffuso di poter verificare successivamente gli sviluppi dei propri progetti e di rinnovare occasioni della conoscenza di sé

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e della ricaduta di questi elementi sulla ridefinizione della propria identità professionale (“Questo corso ci è servito; ora c’è la paura di ripiombare nel buio: adesso ci ritroviamo da soli, sarebbe utile mantenerci in contatto”).

I partecipanti risultano nel complesso soddisfatti anche dei docenti e del materiale (dispense, lucidi...) ricevuto ed utilizzato per la presentazione degli argomenti, manifestando, in alcuni casi, il desiderio di ricevere ulteriore documentazione come possibilità di approfondimento personale dei temi trattati.

Per quanto riguarda le metodologie adottate, i partecipanti sono sembrati unanimi nel giudicare positivamente sia i colloqui individuali, sia le esercitazioni di gruppo attraverso cui hanno avuto la possibilità di apprendere i contenuti trattati in modo più immediato ed efficace. La dinamica di gruppo, dopo le prime titubanze e difficoltà, si è rivelata essenziale, come luogo di condivisione della stessa problematica (mancanza di lavoro) e di confronto sociale, ai fini della presa di consapevolezza, da parte dei suoi membri, della propria identità personale e professionale; il gruppo appare, quindi, l’elemento centrale dell’esperienza in quanto, grazie al lavoro svolto insieme, le persone hanno dichiarato di aver raggiunto maggiore conoscenza di sé, dei propri limiti e delle proprie potenzialità. La variabile gruppo ha, infatti, permesso l’elaborazione di problematiche interne di cui i soggetti hanno preso coscienza, contribuendo al potenziamento del livello di autostima, fortemente compromesso dalla prolungata esperienza di non lavoro.

È interessante, a questo punto, accennare alla presenza di aspettative recondite che una gran parte dei soggetti nascondeva circa lo sviluppo e le conseguenze che avrebbe prodotto la partecipazione all’intervento; alcuni, infatti, alla fine del corso hanno esplicitamente confessato di essere stati spinti alla partecipazione anche dalla segreta speranza che il corso potesse rappresentare una via d’accesso ad un concreto inserimento lavorativo (“Tutti noi, in fondo, avevamo la segreta speranza di trovare lavoro”). Questo aspetto è risultato essere abbastanza determinante nel modo che i soggetti hanno avuto di porsi di fronte agli argomenti e ai compiti che venivano loro assegnati: quello che essi, maggiormente, ricercavano, infatti, era la possibilità di trovare dei riscontri effettivi e concreti nella

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propria esperienza, delle soluzioni immediate ed efficaci alla loro situazione e, quindi, ultimamente, di trovare un impiego nel minor tempo possibile. Nonostante gli obiettivi che il corso si proponeva di raggiungere fossero stati ampiamente illustrati dai conduttori dell’intervento e condivisi con i partecipanti, questi ultimi hanno dimostrato di possedere comunque delle aspettative nascoste che, inevitabilmente, sono rimaste deluse. La sottolineatura di questo aspetto è dovuta al fatto che esso può essere considerato un aspetto emblematico e rappresentativo di una pressoché totale mancanza, soprattutto tra queste tipologie d’utenza, di un’esatta “cultura dell’orientamento”, interpretato spesso, di conseguenza, in maniera vaga, imprecisa ed erronea.

3. Osservazioni conclusive

L’analisi del progetto presentato in questa sede ci fornisce la possibilità di fare alcune riflessioni in merito all’utilità e all’efficacia degli interventi di Bilancio di Competenze.

Il particolare ambito in cui si colloca l’esperienza che abbiamo analizzato e le specifiche finalità che essa si è posta, prima di tutto, costituiscono un’occasione di riflessione sulla natura, gli obiettivi ed i possibili destinatari di un percorso di Bilancio di Competenze.

L’intervento analizzato, infatti, ci è parso in grado di rispondere in maniera soddisfacente ai bisogni specifici della tipologia di utenza cui si è rivolto.

Le persone che si trovano in questa condizione (disoccupati, cassaintegrati, lavoratori in mobilità) stanno diventando sempre più, in questi ultimi anni, interlocutori crescenti delle azioni e degli interventi di orientamento. La perdita del ruolo lavorativo, che esercita un’influenza determinante sulla percezione che gli individui hanno di loro stessi e delle loro relazioni con gli altri, implica, al di là degli effetti connessi alla deprivazione economica, anche delle conseguenze sul piano psicologico in termini di disagio personale, perdita di status, svalutazione della propria identità ed isolamento sociale. L’insieme di questi elementi costituisce una forte minaccia per l’identità personale e sociale degli individui, rischiando

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di compromettere il mantenimento di livelli accettabili di autostima e la capacità di controllare e prevedere un futuro che viene percepito in modo negativo (C. Manfredda e T. Vecchio, 1992). In una tale situazione è facile che la difficoltà insita nel processo di transizione porti gli individui ad identificare la propria debolezza con una totale incapacità di affrontare la situazione, producendo delle conseguenze tutt’altro che emancipatorie (G. Sarchielli, M. Depolo, F. Fraccaroli, M. Colasanto, 1991).

In questo contesto gli interventi di orientamento, tra i quali possiamo sicuramente collocare l’esperienza presentata di Bilancio di Competenze, svolgono l’importante funzione di fornire occasioni di riconoscimento positivo della propria identità attraverso la rivalutazione delle risorse sviluppate nelle esperienze precedenti e ancora spendibili in altre circostanze, e l’esplorazione di nuove possibilità di realizzazione personale. L’attività orientativa, quindi, si propone di supportare la persona disoccupata in un’operazione di ridefinizione di sé e delle diverse forze che interagiscono nella situazione in cui si è trovata, “stimolandola a riappropriarsi di una capacità progettuale finalizzata a prefigurare possibili vie di superamento della propria condizione non-lavorativa; l’intervento orientativo intende aiutare il soggetto a gestire, sul piano cognitivo e sociale-emotivo, la situazione critica elaborando un ampliamento del repertorio di strategie atte a fronteggiarla ed evitare, in questo modo, comportamenti di puro adattamento passivo alle circostanze” (M.L. Pombeni, 1994).

All’interno di questo tipo di interventi, quindi, ci sembra possa trovare un’esatta collocazione il percorso di Bilancio di Competenze, con le finalità, gli obiettivi e le metodologie che lo caratterizzano. In particolare, nell’esperienza analizzata ed esposta in questa parte della mia ricerca, è emersa la necessità di una preliminare definizione dei bisogni dei partecipanti e, soprattutto, una precisazione ed una condivisione delle finalità perseguite dall’intervento, per evitare attese irrealistiche o incomprensioni rispetto all’impegno da assumere. Per i soggetti disoccupati, infatti, non è facile capire la funzione, non sempre oggettivamente ed immediatamente tangibile, di un percorso di orientamento, essendo concentrati esclusivamente sulla ricerca di

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soluzioni concrete al loro problema occupazionale. In questo senso diventa fondamentale equilibrare, nel corso dell’intervento, momenti riservati all’erogazione di informazioni concrete e strategie operative concernenti la situazione occupazionale, con momenti in cui si dà la possibilità, all’individuo, di integrare tali informazioni all’interno della propria esperienza e della propria storia di vita per poterle ancorare a significati e valori in cui si riconosce come persona e come lavoratore. Ci sembra che, da questo punto di vista, il percorso di Bilancio di Competenze qui analizzato abbia saputo proporsi in modo adeguato, rivelandosi uno strumento ed un’opportunità efficace all’interno degli interventi orientativi rivolti ad una tipologia di utenza molto particolare.

L’analisi di quest’esperienza, inoltre, offre sicuramente degli interessanti spunti per aprire il discorso sulle possibilità concrete di utilizzo e di applicazione degli interventi di Bilancio di Competenze anche all’interno del contesto italiano.

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APPENDICE

Estratti dalla legislazione francese di riferimento:

APP. 1 Accordo Nazionale Interprofessionale del 3 Luglio 1991

APP. 2 Legge n° 91-1405 del 31 Dicembre 1991

APP. 3 Decreto n° 92-1075 del 2 Ottobre 1992

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APP. 1

Accord national interprofessionnel du 3 juillet 1991 relatif à la formation et au perfectionnement professionnels modifié par les avenants du 8 novembre 1991 et du 8 janvier 1992

TITRE III DISPOSITIONS RELATIVES AUX CONGÉS

DE FORMATIONS DES SALARIÉS

Section II Le congé de bilan de compétences

Art. 32-1 Le congé de bilan de compétences a pour objet de permettre à tout salarié au cours de sa vie professionnelle de parteciper à une action de bilan de compétences, indépendamment de celles réalisées à l’initiative de l’entreprise. Ce bilan de compétences doit permettre au salarié d’analyser ses compétences professionnelles et individuelles ainsi que ses potentialités mobilisables dans le cadre d’un projet professionel ou d’un projet de formation. L’action de bilan donne lieu à un document de synthèse destiné à l’usage exclusif du salarié.

Art. 32-2 Pour l’application de l’article 32-1 ci-dessus, chaque salarié

peut demander une autorisation d’absence dont la dureé correspond à celle de l’action de bilan de compétences, dans la limite maximale de vingt-quatre heures par action.

Art. 32-3 L’ouverture du droit au congé de bilan de compétences des

salariés est fixeé à cinq ans consécutifs ou non en qualité de salarié, quelle qu’ait été la nature des contrats de travail succesifs dont douze mois dans l’entreprise.

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Art. 32-4 Tout salarié ayant bénéficié d’une autorisation d’absence pour suivre une action de bilan de compétences ne peut prétendre au bénéfice d’une autre autorisation d’absence dans la même but avant l’expiration d’un délai de franchise de cinq ans.

L’autorisation d’absence donneé pour suivre une action de bilan de compétences n’intervient pas dans le calcul du délai de franchise applicable au congé individuel de formations à l’article 31-6 du présente titre.

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172

APP. 2

LOI n° 91-1405 du 31 décembre 1991 relative à la formation professionnelle et à l’emploi.

TITRE II DISPOSITIONS RELATIVES AUX DROITS INDIVIDUELS

ET COLLECTIFS EN MATIÈRE DE FORMATION

Chapitre II Dispositions relatives au bilan de compétences

Art. 16. -I. – L’article L. 900-2 du code du travail est complété par un alinéa ainsi rédigé:

“Entrent également dans le champ d’application des disposition relatives à la formation professionnelle continue les actions permettant de réaliser un bilan de compétences. Elles ont pour objet de permettre à des travailleurs d’analyser leurs compétences professionnelles et personnelles ainsi que leurs aptitudes et leur motivations afin de définir un projet professionel et, le cas échéant, un projet de formation.”

II. – Il est inséré, dans le livre IX du code du travail, un article L. 900-

4-1 ainsi rédigé: “Art. L. 900-4-1. – Le bilan de compétences ne peut être réalisé qu’avec

le consentement du travailleur. La personne qui a bénéficié d’un bilan de compétences au sens de l’article L. 900-2 est seule destinataire des résutats détaillés et d’un document de synthèse. Ils ne peuvent être communiqués à un tiers qu’avec son accord. Le refus d’un salarié de consentir à u bilan de compétences ne constitue ni une faute ni un motif de licenciement.

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“Les personnes chargées de réaliser et de détenir les bilans de compétences sont soumises aux dispositions de l’article 378 du code pénal en ce qui concerne les informations qu’elles détiennent à ce titre.”

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APP. 3

Ministère du travail, de l’emploi et de la formation professionnelle

Décret n° 92-1075 du 2 octobre 1992 relatif au bilan de compétences et modifiant le code du travail (deuxième partie: Décrets en Conseil d’État)

Le Premier ministre, Sur le rapport du ministre du travail, de l’emploi et de la formation

professionnelle, Vu le livre IX du code du travail, notamment les articles L. 900-2, L.

900-4-1, L. 931-21 à L. 931-27, L. 951-3, L. 951-13, L. 991-1 et L. 991-4; Vu la loi n° 78-17 du 16 janvier 1978 relative à l’informatique, aux

fichiers et aux libertés; Le Conseil d’État (section sociale) entendu, Décrète: Art. 1er. – Il est inséré au livre IX du code du travail (deuxième partie:

Décrets en Conseil d’État) avant le titre 1er de ce livre un titre préliminaire qui conporte les articles R. 900-1 à R. 900-8, ainsi rédigés:

TITRE PRÉLIMINAIRE Article R. 900-1

Un bilan de compétences au sens de l’article L. 900-2 doit comprendre, sous a conduite du prestataire, les trois phases suivantes: a) Une phase préliminaire qui a pour objet:

– de confirmer l’engagement du bénéficiaire dans sa demarche; – de définir et d’analyser la nature de ses besoins;

– de l’informer des conditions de déroulement du bilan de compétences, ainsi que des méthodes et tecnicques mises en œuvre.

b) Une phase d’investigation permettant au bénéficiaire: – d’analyser ses motivations et intérêts professionnels et personnels;

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– d’identifier ses compétences et aptitudes professionnelles et personnelles et, le cas échéant, d’évaluer ses connaissances générales;

– de déterminer ses possibilités d’évolution professionnelle.

c) Une phase de conclusions qui, par la voie d’entretiens personnalisés, permet au bénéficiaire: – de prendre connaissance des résultats détaillés de la phase

d’investigation; – de recenser les facteurs susceptibles de favoriser ou non la

réalisation d’un projet professionnel et, le cas échéant, d’un projet de formation;

– de prévoir les principales étapes de la mise en œuvre de ce projet. Cette phase de conclusion se termine par la présentation au

bénéficiaire du document de synthèse prévu par l’article 900-4-1. Les action que comportent les trois phases susmentionnées doivent être

menées de façon collective, à condition qu’il ne soit pas porté atteinte au respect de la vie privée des bénéficiaires.

Outre le document de synthèse, l’organisme prestataire est tenu de

communiquer au bénéficiaire les conclusions détaillées du bilan de compétences au terme de ce dernier.

Article R. 900-2

Le document de synthèse mentionné à l’article 900-4-1 est élaboré pendant la phase de conclusion de bilan de compétences. Il ne peut comporter d’autres indications que celles définies ci-dessous: – circostances du bilan de compétences; – compétences et aptitudes du bénéficiaire au regard des perspectives

d’èvolution envisagées; – le cas échéant, éléments constitutifs du projet professionnel et

éventuellement du projet de formation du bénéficiaire et principales étapes prévus pour la réalisation de ce projet.

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Ce document, établi par l’organisme prestataire et sous sa seule responsabilité, est soumis au bénéficiaire pour éventuelles observations.

Article R. 900-3

Un bilan de compétences ne peut être réalisé qu’après conclusion d’une conventio tripartite entre le salarié bénéficiaire, l’organisme prestataire de bilans de compétences et soit l’organisme paritaire agrée au titre du congé individuel de formation mentionné à l’article L. 951-3 lorsque e bilan de compétences est effectué dans le cadre du congé de bilan de compétences, soit l’employeur lorsque le bilan de compétences est effectué au titre du plan de formation.

Ces conventions tripartites sont établies conformément à des

conventions types définies par un arrêté du ministre chargé de la formation professionnelle et rappelant aux signataires les principales obligations qui leur incombent respectivement.

Article R. 900-4

Les organismes prestataires sont tenus d’utiliser, pour réaliser les bilans de compétences, des méthodes et des tecniques fiables, mises en œuvre par des personnels qualifiés, dans le respect des dispositions des articles R. 900-1 à R. 900-3.

Article R. 900-5

Tout organisme prestataire de bilans de compétences et qui exerce par ailleurs une ou plusieurs autres acivités est ténu: a) De disposer au sein de son organisation d’une structure identifiée,

exclusivement destinée à la réalisation de bilans de compétences et d’actions d’évaluation ou d’orientation en matière professionnelle;

b) De suivre en comptabilité de façon distincte ces activités. Les entreprises ne peuvent réaliser elles-mêmes des bilans de

compéteces pour leurs salariés.

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Article R. 900-6

Les documents élaborés pour la réalisation d’un bilan de compétences sont aussitôt détruits par l’organisme prestataire, sauf demande écrite du bénéficiaire fondée sur la nécessité d’un suivi de sa situation; dans cette hypothèse, ils ne pourront être gardés plus d’un an.

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ALLEGATI

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INDICE DEGLI ALLEGATI

ALL. 1 Volantino pubblicitario di presentazione dell’iniziativa ALL. 2 Schema delle procedure di reclutamento e selezione dei

partecipanti ALL. 3 Grafico della struttura e degli obiettivi del percorso ALL. 4 Scheda di presentazione del corso ALL. 5 Intestazione del raccoglitore del materiale fornito a ciascun

partecipante ALL. 6 Esercitazione: “La mia storia di vita” ALL. 7 Schema dell’inventario delle acquisizioni ALL. 8 Esercitazione: “Cosa vorrei” ALL. 9 Documento di sintesi ALL. 10 Attestato di frequenza al corso

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ALL. 1

FONDO SOCIALE EUROPEOUNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE

IL BILANCIOIL BILANCIODELLE COMPETENZEDELLE COMPETENZE

PER CHI?

Si rivolge a tutte le persone che s’interrogano sul proprio percorso professionale.Permette ad ognuno di analizzare le proprie competenze personali e professionali, leattitudini e le motivazioni allo scopo di definire un progetto professionale edeventualmente un progetto di formazione.

PERCHÉ’?

Si propone di facilitare l’elaborazione di una strategia finalizzata ad uninserimento professionale durevole e ad elevare il livello d’autostima a voltecompromesso da una situazione di precarietà.

COME?

Attraverso lavori di gruppo, utilizzo di programmi informatizzati,questionari, sistemi di autovalutazione, colloqui individuali.

CON CHI?

Con l'équipe del Centro di Ricerche sull’Orientamento(CROSS) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

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ALL. 1A

INIZIATIVA A FAVORE DEI LAVORATORI IN MOBILITÀ E CIGS

Con il patrocinio ed il finanziamento del Fondo Sociale Europeo, l’Università Cattolica di Milano organizza, per un numero limitato di lavoratori, un corso gratuito di 200 ore da svolgersi nei mesi di aprile, maggio e giugno, il cui obiettivo strategico sarà quello di accrescere le potenziali possibilità di occupazione di ogni singolo individuo.

Al corso possono partecipare tutte le persone interessate poiché l’unico

requisito richiesto è quello di essere in mobilità o in CIGS. Al termine del percorso di formazione, i partecipanti saranno

immediatamente restituiti al mercato del lavoro in possesso di un attestato di frequenza rilasciato dall’Università Cattolica che certificherà, competenze, interessi e motivazioni professionali attraverso un profilo individuale.

Se veramente interessati si prega di telefonare al più presto al n.

indicando il nome del progetto.

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ALL. 3A

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ALL. 4

L’esperienza della mobilità, della cassa integrazione e della disoccupazione coinvolge le persone in processi di transizione e cambiamento.

Tali processi in sé non sono né positivi né negativi ma funzionali alla costruzione di un nuovo progetto professionale. Per affrontarli sono necessarie competenze cognitive e relazionali quali ad esempio conoscenze dell’ambiente, conoscenze dei comportamenti delle persone, strategie, ecc.

Gli strumenti per raggiungere questi obiettivi sono:

1) I docenti e conduttori di gruppo che si pongono come facilitatori del processo di transizione

2) Il gruppo che sostiene e ha un ruolo di condivisione dei problemi 3) ma soprattutto voi stessi che con la vostra partecipazione aiutate a

creare un clima positivo adatto a pensare, valutare e costruire progetti professionali Il percorso di bilancio prevede 150 ore di formazione suddivise in

momenti di lavoro, di gruppo (attività di laboratorio) e momenti di lavoro individuale (colloquio e test di autovalutazione).

Gli esiti del lavoro sono strettamente personali, sta a voi decidere quali elementi condividere col gruppo e con i docenti e quali informazioni considerare confidenziali e quindi coperte da segreto professionale. Il corpo docente si impegna a mantenere l’assoluta segretezza delle informazioni confidenziali e chiede a ciascun corsista il rispetto di tali regole nei confronti dei colleghi partecipanti.

La responsabile del corso

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ALL. 5

di

REALIZZATO CON Università Cattolica del Sacro Cuore – Dal al

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ALL. 6

ISTRUZIONI PER L’UTILIZZO DELLO STRUMENTO:

Le pagine che seguono vogliono essere un’occasione per rileggere le esperienze più importanti della sua vita.

Le proponiamo innanzitutto di vidimare le esperienze che ritiene più

importanti del suo percorso di vita. Per fare questo richiami alla memoria non solo le attività di tipo professionale ma rivolga la sua attenzione anche alle situazioni e a contesti non attinenti al lavoro.

In secondo luogo passi a descrivere brevemente, per ciascun evento, ciò

che concretamente ha fatto in termini di azioni e comportamenti (seconda colonna).

Proceda poi nel compilare le successive colonne cercando di precisare quali conoscenze (informazioni – teorie, apprendimenti, ecc.), quali abilità (intese come elementi del saper fare), quali aspetti del carattere, le hanno permesso di fronteggiare con successo l’evento descritto.

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L. 6

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ALL. 8

Ciascun corsista deve scrivere sui tre fogli consegnati in sequenza rispondendo alle domande 1 alla volta (per punti o breve elaborato):

A – IDEALE: Cosa vorrei fare della mia vita se potessi fare ciò che voglio B – ASPIRAZIONE MINIMA: Quale obiettivo minimo vorrei realizzare,

senza il quale sarei fortemente insoddisfatto C – CIO’ CHE RITENGO POSSIBILE/PROBABILE

Le considerazioni emerse da ciascun corsista verranno poi sintetizzate

su un cartellone. Il terzo punto è generalmente il punto di mediazione tra quelli che sono i desideri massimi ed il livello minimo di accettabilità.

Obiettivo: rinforzare i processi di negoziazione tra ideale del sé ed

immagine di sé

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ALL. 8A

IDEALE = Cosa vorrei fare della mia vita se potessi fare ciò che voglio

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ALL. 8B

ASPIRAZIONE MINIMA: quale obiettivo minimo vorrei

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ALL. 8C

Ciò che ritengo probabile, possibile

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ALL. 9

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ALL. 10

DICHIARAZIONE

Si attesta che il Sig.

ha frequentato il Corso del Fondo Sociale Europeo - Programma Quadro MOB. CIGS936034 16 - Fascicolo n. AgLO/24

“IL BILANCIO DELLE COMPETENZE: punto di partenza

per riprogettare la propria identità professionale”

dalla durata di 150 ore, nell’anno 1997

Si rilascia il presente attestato in carta libera. su richiesta dell’interessato per gli usiconsentiti dalla legge.

Il CAPO SERVIZIO IL DIRETTORE DEL CORSO

Ministero del Lavoro e della Previdenza SocialeUniversità Cattolica del Sacro Cuore

ALL. 10

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Finito di stampare Nel mese di ottobre 1998

dalla Litografia Solari Peschiera Borromeo (Milano)