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Centro di Riferimento Oncologico di Aviano 2012

LEGGIAMOCI CON CURAScrittura e narrazione di sé in medicina

Atti del Convegno

16 settembre 2011Sala ConvegniCRO - Aviano

a cura diLINDA M. NAPOLITANO VALDITARA

COMITATO SCIENTIFICO - ORGANIZZATIVO DEL CONVEGNOPaolo De Paoli, Piero Cappelletti, Roberto Biancat, Marilena Bongiovanni, Chiara Cipolat Mis, Lucia Fratino, Maurizio Mascarin, Nicoletta Suter, Ivana Truccolo, Margherita Venturelli 0434 659248 - [email protected]

A cura diLinda M. Napolitano Valditara

TestiPaolo De Paoli, Direttore Scientifico - CRO AvianoPiero Cappelletti, Direttore Generale - CRO AvianoLinda M. Napolitano Valditara, Docente di Storia della filosofia - Università di VeronaIvana Truccolo, Responsabile Biblioteca Scientifica e per i Pazienti - CRO AvianoNicoletta Suter, Responsabile Centro Attività Formative - CRO Aviano Emanuela Vaccher, Medico oncologo, Oncologia Medica A - CRO AvianoMarilena Bongiovanni, Presidente Associazione AngoloSergio Audino, Medico odontostomatologo, Autore di un libro di testimonianzeM.G. Saberogi, Autrice di un libro di testimonianzeDonatella Raspadori, BiologaMaurizio Mascarin, Medico oncologo, Responsabile Area Giovani - CRO AvianoCaterina Elia, Borsista Area Giovani - CRO AvianoDafne Bertoncello, ex paziente Area Giovani CROAntonio Ferrara, Scrittore

© Centro di Riferimento Oncologico di Aviano - IRCCS - Istituto Nazionale TumoriVia Franco Gallini, 2 - 33081 Aviano (Pn) - www.cro.itTel. 0434 659467 - Email: [email protected]

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CROinforma. Atti. 1

Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina. Atti del ConvegnoISBN: 9788897305026

© Centro di Riferimento Oncologico di Aviano

Collana CROinforma curata dalla Direzione Scientifica - BibliotecaResponsabile Scientifico: Paolo De Paoli (Direttore Scientifico CRO)

Coordinamento editoriale e di redazione: Ivana Truccolo (Responsabile Biblioteca CRO)

Editing: Linda M. Napolitano Valditara (Filosofa Prof. Associato Università di Verona)

Grafica e impaginazione: Nancy Michilin (Direzione Scientifica - Biblioteca CRO)

CROinforma Atti

Indice

P. DE PAOLI: Introduzione. La narrazione, elemento terapeutico in oncologia ... pag. 7P. CAPPELLETTI:Introduzione. Medicina e narrazione (Bibliografia) ........................ pag. 9L. M. NAPOLITANO VALDITARA:Introduzione. Il quaderno di Maria .................................................. pag. 15

Parte I ............................................................................................. pag. 29Strumenti teorici e progettuali. Perché narrare in medicina?

1) I. TRUCCOLO: Dare voce alle storie. I “quaderni pieni di vita”del CRO ... pag. 31

a) Un inizio quasi casuale; b) La Biblioteca, luogo di cura; c) ‘Diari di bordo’, quaderni parlanti, pieni di vita; d) La richiesta di storie; e) Perle da non nascondere; f) Stare nel territorio; g) Continueranno a fiorire stagioni; h) Bilanci e progetti. (Bibliografia)

2) N. SUTER: Il valore delle narrazioni e l’ascolto come terapia. Il progetto del CRO ............................................................... pag. 48

a) Il quadro di riferimento; b) Il programma ‘Patient Education’ del CRO; c) Il valore delle narrazioni; d) Il valore dell’ascolto; e) Conclusioni. (Bibliografia)

3) L.M. NAPOLITANO VALDITARA: Narrazione, relazione e cura ............................................... pag. 58

a) Evidenza, narrazione e cura; b) Narrazione, competenza di specie; c) Creature del tempo; d) Storie-medicine; e) Autonarrazione e dialogo. (Bibliografia)

4) E. VACCHER: Il medico e la narrazione ..................................................... pag. 75

a) Introduzione; b) La relazione medico-paziente: narrazione / ascolto; c) L’evento cancro nella storia dell’ammalato; d) L’alleanza terapeutica; e) Il ‘burnout’ (Bibliografia)

Parte II ........................................................................................... pag. 85Testimonianze. Narrare insieme, curati e curanti

1) M. BONGIOVANNI: Scrivere e condividere la propria storia di malattia .......... pag. 872) S. AUDINO Le mie sette vite: chiamando cancro il cancro ................... pag. 913) M.G. SABEROGI: Raccontare: ricucire i pezzi .................................................. pag. 944) D. RASPADORI: Al ‘bordo’ delle storie: chiedere e rispondere ...................... pag. 965) M. MASCARIN, C. ELIA, D. BERTONCELLO: La “lucetta” di Dafne. L’esperienza con gli adolescenti oncologici dell’ ‘Area Giovani’ del CRO ................................ pag. 986) A. FERRARA: Le parole per dirlo ................................................................ pag. 1037) E. VACCHER: In memoria di Giampiero .................................................... pag. 105

Appendici ...................................................................................... pag. 109

Testimonianze e storie di vita.Libri disponibili in Biblioteca CRO ............................................. pag. 110Libri di testimonianze pubblicati dai relatori partecipanti al convegno .............................................................. pag. 116Libri di testimonianze pubblicati dal CRO ............................... pag. 117

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“Leggiamoci con cura” è un evento che il Centro di Riferimen-to Oncologico di Aviano ha organizzato nel 2011 per sottolineare in modo particolare l’importanza della narrazione come elemento tera-peutico in oncologia. Non a caso, perché da molti anni l’Istituto ha po-sto al centro del proprio percorso la persona, non soltanto la malattia.

Questo progetto, che abbiamo recentemente reso sistematico e articolato nel concetto di Patient Education, mette insieme gli aspetti più tradizionali della ricerca scientifica, visti come approccio di diagno-si e cura secondo la Medicina delle Evidenze (EBM), con la narrazione e l’ascolto delle voci di chi, con modalità diverse, ha a che fare con la malattia cancro. Avvicinando questi due mondi (la medicina delle evidenze e la medicina narrativa) la ricerca traslazionale, che rappre-senta la mission del CRO, assume una dimensione nuova, che trova oltretutto un terreno fertile nella cultura classica di cui il nostro paese possiede tradizione e che è ancora ben radicata nella realtà italiana.

Il CRO, in quanto Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scienti-fico, ha voluto valorizzare questo aspetto della Medicina fino a farlo diventare un vero e proprio progetto di ricerca; come tale, il progetto contiene non solo idee e attività concrete, ma anche criteri e mo-dalità di valutazione e di misurazione di quanto viene fatto al fine di discutere i risultati ottenuti, estrarne gli elementi importanti per poi applicarli alla realtà di tutti i giorni. Nello stile dell’Istituto è anche far conoscere in modo trasparente quanto viene fatto quotidianamente per migliorare la lotta alla malattia neoplastica.

Il libro “Leggiamoci con cura” contiene le testimonianze di molti attori protagonisti, dai pazienti agli operatori della sanità, dagli scritto-ri ai filosofi; questa rappresentanza estesa sottolinea il concetto che la

Paolo De Paoli

IntroduzioneLa narrazione, elemento terapeutico in oncologia

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PAOLO DE PAOLIDirettore Scientifico del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano

malattia e la cura non sono propri di una sola categoria di persone, ma sono il terreno sul quale molti possono seminare stati d’animo, idee e proposte, per poi raccogliere quanto è necessario per comprende-re e affrontare meglio il percorso che ogni malattia inevitabilmente comporta.

Nelle nostre intenzioni questo libro e il suo contenuto prezioso di testimonianze non rappresentano un evento accademico isolato, ma diventano un appuntamento costante nel tempo che ci deve por-tare a cambiare, migliorandolo, il percorso del paziente oncologico. Questa esperienza, a nostro avviso, rafforza la capacità degli opera-tori della sanità di affrontare in modo consapevole e più gratificante i rapporti con gli ammalati.

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IntroduzioneMedicina e narrazione

Piero Cappelletti

Da sempre la medicina è fatta di storie, raccontate ed ascoltate.I medici si raccontano storie. Fino dagli albori della medicina occidentale, tra il VII e il V secolo

a.C., nelle isole greche e sulle coste dell’Asia Minore, i medici, così come i filosofi, si incontravano in cenacoli e in simposi, per discutere delle teorie e della pratica della loro attività e per scambiarsi informa-zioni e suggerimenti sui casi difficili o particolari che avevano incon-trati. Talora entro questi gruppi di pari e di discepoli s’instauravano rapporti continuativi, dando vita a vere e proprie “istituzioni”, come la scuola medica di Cnido e quella di Coo.

Le ‘società scientifiche’, nell’accezione moderna dell’espressione, sorgono con la rivoluzione scientifica del 1600 e l’Italia allora, con 170 società operanti, ne rappresentava il luogo di nascita e di massima espansione. Nel secolo successivo l’Europa ed il mondo anglosassone prendono progressivamente il sopravvento e nel XIX secolo - mo-mento dell’affermazione della medicina moderna e del sorgere delle specialità mediche - si avvia la diffusione delle società medico-scienti-fiche, che s’impenna poi nel XX secolo1.

Medici e pazienti si raccontano storie. L’anamnesi infatti è la raccolta, dalla voce diretta del paziente e/o

dei suoi familiari, di tutte quelle informazioni, notizie e sensazioni che possono aiutare il medico a indirizzarsi verso una diagnosi. La parola anamnesi deriva dal greco anàmnesis, ‘ricordo’, ‘rammemorazione’, e il primo medico a parlarne fu Rufus Ephesius, vissuto negli anni 80-150 d.C. In epoca moderna l’anamnesi è stata paragonata ad una partita a scacchi, dove lo scambio di domande e risposte fra medico e paziente consente la ricostruzione precisa della malattia e la sua conquista co-

1 Cappelletti 2011.

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noscitiva (l’auspicato scacco al re)2.Anche i pazienti si raccontano vicendevolmente le loro storie.È probabilmente nella fase tardiva dell’evoluzione dell’homo sapiens

che i “meme” di natura medica incominciano ad essere definiti e ri-condotti al corpo, all’identità biologica e, in qualche modo, alla ge-netica3. Similmente accadde per le conoscenze relative alla malattia, alla guarigione e al loro adattamento. Nella fase evolutiva dei gruppi familiari e tribali dell’homo sapiens questi concetti iniziano a sostanzia-re ruoli e riti. Tutto questo, però, è anch’esso figlio delle osservazioni empiriche ch’erano state fatte e dello scambio interpersonale che quei primi umani intrattenevano fra loro4.

Il racconto di storie è un modo di cogliere il valore ideografico del-la medicina, salvaguardando la singolarità del caso clinico individuale dalle necessità nomotetiche di un’arte che vuole essere scienza e che, nondimeno, resta “una robusta arte di una debole scienza”5.

La medicina è primigeniamente un ‘saper fare’, un gesto terapeuti-co, un’arte medica (iatrikè tèchne) che tende a diventare un ‘sapere’, un quadro sistematico di spiegazione ed interpretazione dei “casi”, una theorìa, per darsi un fondamento razionale e costante di verità e di-staccarsi da impostazioni mitologiche e sciamanistiche. Questa volon-tà di divenire scienza (epistème) inizia con la rivoluzione ippocratica e si afferma in età moderna con le rivoluzioni del 1600, la cartesiana e vesaliana, poi con quelle virchowiana e bernardiana nel 1800 ed infine con quella genetica del secolo scorso.

In particolare, con l’avvento della dottrina cellulare del biologo Ru-dolph Virchow (1821-1902), la clinica cede il posto alla patologia ed il laboratorio diviene il simbolo della clinica. Nell’interrelazione della

2 Tumulty 1973.3 Il termine ‘meme’ si pronuncia ‘mimi’: deriva infatti dal pronome inglese ‘me’, duplicato poiché indicante il rispecchiamento di sé in qualcosa. L’ipotesi della sua esistenza deriva dal lavoro di Richard Dawkins Il gene egoista (1976): il termine indica un’entità d’informazione relativa alla cultura umana che sia replicabile da una mente ad un’altra, tramite un supporto simbolico di memoria (p.es. un libro). Dunque il ‘meme’ sarebbe “un’unità auto-propagantesi” di evoluzione culturale, analoga a ciò che è il gene in sede genetica. L’ipotesi di Dawkins, nata in ambito biologico-genetistico, ha avuto fortuna soprattutto nel mondo scientifico non tra-dizionalmente impegnato e specializzato in studi sulla cultura e sulla sua propagazione (ndC).4 Fabrega 1997.5 Jenicek 2006.

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triade illness - sickness - disease, il pendolo tende sempre più ad oscil-lare verso il lato della ‘malattia’, relegando il ‘malato’ nel ruolo dell’og-getto da esaminare6.

Nell’ultimo secolo la medicina scientifica ha assunto le forme della cosiddetta biomedicina e della evidence based medicine (EBM). Secondo David Sackett e i suoi collaboratori, fondatori dell’EBM, essa è “l’uso scrupoloso, esplicito e critico della miglior prova disponibile nel pren-dere una decisione in relazione alla cura dei pazienti individuali” e tende a standardizzare ed ottimizzare le procedure di scelta medica, a partire sostanzialmente da una valutazione statistica7.

L’EBM muove da 2 constatazioni fondamentali: 1) non sempre il razionale fisiopatologico, da solo, è adeguato a sostenere l’intervento terapeutico, se non è suffragato dai dati clinici di efficacia (e di efficacia nel singolo atto terapeutico, effectiveness per gli anglosassoni) otteni-bili solo dalla letteratura corretta; 2) l’accumulazione dell’esperienza personale, da sola, non è più eticamente accettabile come riferimento per la pratica professionale, per la limitatezza, lentezza e criticità che la connotano in un mondo che, anche nelle conoscenze teoriche e pratiche della medicina, è invece in accelerazione continua.

Le critiche all’EBM sono state molteplici. Nella definizione più ma-tura, però, la pratica dell’EBM significa integrare l’esperienza clinica individuale (capacità e giudizio che il medico acquisisce con la pratica) con la migliore evidenza clinica esterna disponibile da ricerche siste-matiche, mediata dalle preferenze (valori) del paziente.

Il medico sa che l’evidenza non è l’unica fonte esterna di cono-scenza: lo dimostrano le ricerche di Gabbay e le May8 sulle mindlines (contrapposte alle guidelines e costruite per apposizione di letture, scambi informativi con colleghi e collaboratori, euristiche mentali consapevoli e tacite) dei general practitioner inglesi; oppure lo dimostra il fatto, comunemente rilevato, delle alte percentuali di malattie che

6 Boyd 2000.<I termini inglesi citati indicano tutti e tre la ‘malattia’, ma con specificazioni semantiche di-verse, divenute importanti nel dibattito sul destinatario proprio della cura: disease è la malatt-tia intesa nella sua fisicità e rilevabile oggettivamente; sickness è la malattia con le sue ricadute sociali; illness è la malattia vissuta soggettivamente dal suo portatore (ndC)>.7 Sackett - Richardson - Rosenberg - Haynes 2000.8 Gabbay - le May 2004.

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guariscono da sole o con sintomatici, senza una definizione diagnosti-ca. Il medico è anche consapevole della complessità della questione9. Il modello cosiddetto dei 3 domains che si sovrappongono (l’esperien-za e la conoscenza del medico, le caratteristiche e i valori del paziente, l’evidenza clinica esterna) ha proprietà dinamiche, poiché il peso dei diversi ‘domini’ dipende, caso per caso, dal tipo di decisioni mediche da prendere: nelle condizioni urgenti ed acute le caratteristiche del paziente hanno minor peso rispetto alle conoscenze del medico e all’evidenza esterna, mentre hanno un valore preminente nella cura delle condizioni croniche. Inoltre questo modello fa inevitabilmente i conti con un elemento che contiene e condiziona l’equilibrio fra le 3 ‘regioni’, cioè con quelle che vengono definite “norme sociali”, talmen-te interiorizzate nella coscienza da essere applicate nelle decisioni senza una riflessione esplicita e consapevole.

In epoca contemporanea la medicina ed i medici sono in crisi. È una crisi che potremo definire di ‘disillusione’ rispetto alla visione positi-vistica della disciplina come interprete delle “magnifiche sorti e pro-gressive” delle scienze ad essa ancillari e della sua capacità guaritrice e perfino salvifica rispetto a tutti i problemi del “male”: una visione posi-tivistica e scientistica alla quale i medici continuano però ancor oggi a venire educati. Nella cultura post-moderna, con l’irrompere nell’arena filosofica e sociale del ‘soggetto’, essa diviene una crisi anche del rap-porto medico-paziente, rapporto visto tradizionalmente come duale, asimmetrico, univettoriale ed unidimensionale10.

È in questo quadro di difficoltà cliniche e relazionali che nasce e si afferma la proposta della cosiddetta medicina narrativa (NM)11: essa, prendendo spunto dai limiti di obbiettività del metodo clinico nove-centesco e dalle riflessioni convergenti di neuroscienze e cognitivismo (con la teoria degli script)12, pone l’accento sulla diagnosi come ‘storia interpretata’ più che come ‘evidenza’ e raccomanda l’integrazione nel giudizio clinico dei diversi livelli di ‘testo’ esperienziale, narrativo, fisi-co e strumentale. Una proposta articolata per conciliare le esigenze

9 Bauchner - Simpson - Chessare 2001.10 Cappelletti 2012.11 Greenhalg 1999. 12 Barrows - Feltovich 1987.

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dell’EBM (cioè l’obiettività e le prove) con la NM (cioè la soggettività e la relazione) è stata recentemente avanzata da Silva, Charon e Wyler13.

Riprende importanza in ambito clinico l’aneddoto, che si basa sulle regole della narrazione e non su quelle della riduzione, che è un con-tenitore di micro-teorie cliniche e psicosociali, fonte di teorie locali e di espedienti di soluzione e che non è di solito un insegnamento gene-ralizzabile. Esso è connesso al paradigma indiziario e alla biosingolarità.

Emerge dunque una (nuova) procedura diagnostica, in cui i primi secondi sono di ascolto ed interpretazione intuitiva: questi determina-no il vettore diagnostica e consentono di valutare l’intensità (urgenza) dello stesso. A seconda che i protagonisti dell’incontro si conoscano o meno, variano la velocità e le modalità del rapporto. Tuttavia, il me-dico ascoltando il paziente costruisce modelli mentali costituiti da conoscenze, credenze ed emozioni, in cui il “tempo” è fattore deter-minante. Egli tratta i concetti o copioni diagnostici come rappresen-tazioni mentali sui quali applica deduzione ed induzione eliminativa. Quindi instaura una relazione “negoziale”14, in cui le narrazioni acqui-stano un valore illuminante.

13 Silva - Charon - Wyler 2010.14 Tombesi 2003.

PIERO CAPPELLETTIDirettore Generale del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano

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BIBLIOGRAFIA• BARROWS H.S. - FELTOVICH P.J., The clinical Reasoning Process,

“Medical Education”, 21 (1987), pp. 86-91• BAUCHNER H. - SIMPSON L. - CHESSARE J., Changing Physician

Behaviour, “Archives of Disease in Childhood”, 84 (2001), pp. 459-62• BOYD K.M., Disease, Illness, Sickness, Health, Healing and Wholeness:

Exploring some elusive Concepts, “Medical Humanities”, 26 (2000), pp. 9-17

• CAPPELLETTI P., Il futuro delle Società Scientifiche e la Società Italiana di Medicina di Laboratorio, “Rivista Italiana della Medicina di Labora-torio”, 7 (2011), pp. 127-39

• ID., Medicina di Laboratorio e Postmodernità, “Rivista Italiana della Medicina di Laboratorio”, 8 (2012), pp. 1-15

• FABREGA H. Jr., Evolution of Sickness and Healing, Berkeley 1997• GABBAY J. - le MAY A., Evidence based Guidelines or collectively con-

structed “Mindlines”? Ethnographic Study of Knowledge Management in primary Care, “British Medical Journal”, 329 (2004), pp. 1013-17

• GREENHALG T., Narrative based Medicine in an Evidence based World, “British Medical Journal”, 318 (1999), pp. 323-5

• JENICEK M., The hard Art of a soft Science: Evidence-Based Medicine, Reasoned Medicine or Both?, “Journal of Evaluation in Clinical Practi-ce”, 12 (2006), pp. 410-19

• SACKETT D.L. - RICHARDSON S.W. - ROSENBERG W. - HAYNES R.B., Evidence-Based Medicine, London 2000

• SILVA S.A. - CHARON R. - WYLER C., The Marriage of Evidence and Narrative: scientific Nurturance within clinical Practice, “Journal of Evaluation in Clinical Practice”, 17 (2010), pp. 585-93

• TOMBESI M., Decidere in condizioni di incertezza, in V. CAIMI - M. TOMBESI (a c. di), Medicina Generale, Torino 2003

• TUMULTY P.A., Obtaining the History, in ID., The Effective Clinician: his Methods and Approach to Diagnosis and Care, Philadelphia 1973

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IntroduzioneIl quaderno di Maria

Linda M. Napolitano Valditara

Da vari anni, accanto al mio lavoro professionale, quello di docente universitaria in Storia della filosofia, mi occupo di collaborazione alla formazione del personale sanitario e soprattutto di medicina narrati-va (MN).

‘Occuparsene’ vuol dire per me anzitutto studiare non solo i ce-leberrimi, coinvolgenti romanzi di malattia scritti fra ‘800 e ‘900, ma anche le molte monografie, i saggi ed articoli che, in varie lingue, so-prattutto in inglese ma ora non poco anche in italiano, ogni anno escono, cartacei e online, sulla MN: un tema certo divenuto, dal 2004, anno ufficiale della sua fondazione, ad opera di Rita Charon presso il Medical Center della newyorkese Columbia University, di gran moda1.

Non riesco ovviamente a conoscere tutto quanto viene pubblica-to, né del resto - bisogna dirlo - questo gran fiorire teorico produ-ce sempre materiale editoriale di qualità. Si danno ormai ripetizioni, sovrapposizioni, ma anche approcci che, benché ribaditi da più parti, restano ancora globalmente vaghi, poco rilevati e incisivi; vari sono i nodi problematici e i termini non chiariti, i punti di vista diversi che andrebbero esplicitati, approfonditi, fatti interagire meglio. Si ha per-fino l’impressione che non siano ancora del tutto chiari, a chi pure tanto scrive e pubblica, lo statuto epistemologico, le basi teoriche, i fini, i limiti, le ricadute e applicazioni concrete di questa nuova disciplina in così vorticosa espansione.

Ma ‘occuparsi’ di MN non vuol dire per me solo studiarla in teoria. Vuol anche dire uscire dall’università e portare la mia disciplina, come forma di quelle medical humanities di cui anche e forse soprattutto la filosofia fa parte, agli operatori sanitari. A chi opera nel campo della

1 Lo stato dell’arte sulla MN è indicato a grandi linee anche qui, in questo libro, nell’Introdu-zione di Piero Cappelletti e infra, nel contributo di Nicoletta Suter e nel mio.

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cronicità, p.es., come mi è successo, in un Reparto di dialisi, oppure a chi lavora con i terminali, in un Hospice o in una RSA, ma anche - come di recente è avvenuto - a chi lavora in un’Unità non meno impegnati-va come un’Onco-ematologia pediatrica (ciao, Infermiere Nicoletta e Susy, mi ricordo di voi e di quanto mi avete dato nel nostro incontro. E anche di tutti gli altri che ho incontrato, di cui non ricordo i nomi, ma ho ben presente la testimonianza umana).

Per quelle occasioni devo scegliere un tema (la salute, il dolore, l’empatia, la morte...) e un testo, un passo che di quel tema parli, una poesia, un aforisma, un racconto e farne la base per una riflessione comune, che occupi non più di un paio d’ore, che sia di stimolo per gli operatori a ‘narrare’ sé stessi e i loro problemi, ad assumerne con-sapevolezza, provando, per tale via, a governarli o a trovar loro stessi, per quei problemi, nuove soluzioni possibili. ‘Occuparsi’ di MN vuol dire, ogni volta, alla fine di questi incontri, sentirsi ringraziare dagli operatori, sentirsi ripetere che questo momento comune ha fatto loro un gran bene e che di attività formative di questo tipo essi sento-no di aver assoluto bisogno.

‘Occuparsi’ di MN vuol dire per me anche correlare una tesi spe-cialistica in Scienze Filosofiche, in cui un’esperta di consulenza filoso-fica documenta come abbia aiutato, proprio tramite la narrazione, la mamma di un bambino affetto da una malattia rarissima e a prognosi infausta. Una mamma a cui quest’esperienza dolorosa aveva cambiato la vita, togliendola alla professione, al mondo esterno, ai parenti ed amici e che però - giustamente - non voleva aiuto terapeutico, psicolo-gico, per il semplice fatto che non si reputava affetta da una malattia o da un disturbo della psiche. Si reputava colpita da un evento eccezio-nale e desiderava solo curarsi di sé tanto da trovar chiarezza e forza per governare quell’evento, per stare accanto al suo piccolo nel modo migliore, lei e il marito, finché il bambino fosse rimasto in vita: voleva trovare senso, il suo personale senso a quest’esperienza durissima e de-finire il proprio comportamento possibile. ‘Occuparsi’ di MN ha volu-to dire per me verificare come la consulente filosofica avesse stabilito - negoziandolo con la sua interlocutrice - il cammino da fare insieme, quali passi precisi e strategie fossero stati concordati, che cosa e come fosse stato narrato dalla mamma e quali trasformazioni positive, quali

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rafforzamenti quel cammino di storie, durato più di un anno, avesse eventualmente portato. Che cosa esso avesse cambiato non nella si-tuazione familiare di quella mamma, nella patologia di quel bambino, non mutate di per sé di una virgola e forse perfino, in quel tempo, inevitabilmente peggiorate, ma dentro quella mamma e quel papà, nella loro forza di affrontar la situazione, di starci dentro. ‘Occuparsi’ di MN ha voluto anche dire, il giorno della discussione di quella tesi di laurea, aver l’onore d’incontrare quella mamma, che aveva lasciato per 2 ore il suo bambino per venire a festeggiare la sua consulente: stringerle forte la mano, trasmetterle in quel gesto tutta la mia condivisione di madre, ma anche la mia stima, il mio augurio che la sua ‘storia’, trovando narrativamente ragioni chiare e personali, potesse ancora non mancare di forza. E neppure lei ho scordato.

‘Occuparsi’ di MN vuol dire anche, per me, stare accanto, come tutor, agli iscritti al nostro Master veronese di II livello “Filosofia come via di trasformazione” e accompagnarli non solo nelle lezioni frontali, ma soprattutto nei tirocinii sul territorio ch’essi stessi si scelgono (nelle scuole, in comunità terapeutiche, nei sindacati, nelle strutture sanitarie). In particolare seguire l’iscritta che a me come tutor si è affidata e che, per tutto quest’anno accademico, scegliendo di svolgere il suo tirocinio proprio nel contesto durissimo di un’Onco-ematologia pediatrica, si è per ore preparata ed esercitata non solo a fare for-mazione agli operatori, ma anche a stare contatto con le famiglie e coi pazienti adolescenti. Ha voluto dire vedere due di questi pazienti, ragazzi proprio come quelli dell’Area Giovani del CRO avianese, ac-quisire tanta fiducia in lei non solo da raccontarle la propria storia di malattia, ma anche da chiederle di restituirla - alla riflessione loro, delle famiglie, dei curanti - in forma di fiaba. Perché quella storia resti, e possa essere riletta e rimeditata, ridare nuova forza, quali che siano e per quanto dure siano le puntate che ancora - realmente - ne atten-dono i giovanissimi protagonisti.

Ma forse nulla accade per caso, come riflette sotto, nel suo contri-buto, Ivana Truccolo, responsabile della Biblioteca del CRO, raccontan-do dei “quadernoni pieni di vita” da cui tutto il progetto di MN dello stesso CRO è partito.

Nulla accade per caso, perché anche nella mia storia c’è un quader-

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no su cui è stata narrata una vicenda di malattia, una storia di cancro. Quella di Maria, mia madre, morta 28 anni fa per un carcinoma ova-rico, troppo giovane (67 anni) perché tutti noi - mio padre, io, allora trentatreenne, la mia prima figlia, allora di soli 2 anni - potessimo non aver più bisogno della moglie, della madre, della nonna. Mia madre, sofferente, morente, piegata in due dal dolore e dalla chemioterapia, in quel quaderno, con la sua scrittura ordinata di scolara, con le sue lettere eleganti di pittrice, ha scritto a sé stessa (e a noi) le cose che allora non avevamo il coraggio di dirci, che non potevamo - in quel momento - permetterci di rendere esplicite l’uno all’altro. Lei, a cui nascondevamo con sciocca inutile cura la gravità del suo male, per paura di farle troppo... male e che sapeva invece bene ciò che l’atten-deva, ha intrecciato le lettere e le righe di tutto il suo amore per noi, nel non rivelarci che sapeva, nel capire quanto amore vi fosse in quel nostro silenzio condiviso e complice, eppure nel non smettere di darsi forza, nel ribadire, lettera per lettera e riga per riga, la sua fede in Dio e il suo amore per la vita e per noi.

Lei, donnetta con la V elementare, ha lasciato in quelle righe una sapienza, una testimonianza di vita immensa: che, nonostante lei da tan-to (28 anni!) non ci sia più, è rimasta a dar forza alla mia vita e, spero, anche a quella dei miei figli.

Così è la MN ed esattamente così - da questi ‘quaderni di storie’ - nasce questo libro del CRO, che ho avuto l’onore di esser stata chiamata a curare.

La MN sta oggi in mezzo a due estremi, per i quali occorre cercare e fra i quali occorre attuare una ricomposizione sempre migliore.

Di sopra, a guardarla per dir così dall’alto, cioè nella sua dimensione teorica, stiamo noi professionisti, il gruppo degli operatori della sanità (medicina) e quello di noi, esponenti delle discipline umanistiche (nar-ratività), con le nostre specializzazioni troppo precise e particolari, con i nostri linguaggi così tecnicizzatisi da risultare spesso incompren-sibili l’uno all’altro, con le disillusioni che ognuno dei due gruppi ha su-bito e subisce rispetto alle aspettative maturate a suo tempo riguardo al proprio sapere2.

2 Di “crisi” e “disillusione” del sapere medico parla qui, supra, nella sua Introduzione, il Diret-

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Dall’altra parte, di sotto, dal basso, alla base della MN, stanno tan-te figure, tante persone (malati, parenti, operatori, volontari, semplici cittadini) che - come, ancora, ricorda Ivana Truccolo e come testimo-niano in prima persona tutti quanti hanno collaborato alla II Parte di questo libro (Narrare insieme, curati e curanti) - di continuo, coral-mente, perfino compulsivamente, chiedono ascolto per le narrazioni che l’impatto con la malattia li spinge a fare.

E se ciò accade, in modo così ampio, da così tanto tempo, con tanta pertinace costanza, anche da parte di chi - come mia madre - mai, prima di ammalarsi, avrebbe scelto, per formazione culturale e disposizione personale, di narrarsi per iscritto, se così è, certo un tale fenomeno risale in qualche modo all’irrompere “nella cultura post-moderna, ... nell’arena filosofica e sociale del ‘soggetto’, che muta il rapporto tradizionale fra medico e paziente”3.

Forse, però, riconoscere al fenomeno questa causa non basta. La filosofia e la sociologia non hanno infatti, oggi, l’autorevolezza e la ‘forza’ (ammesso che mai le abbiano avute) sufficienti per promuovere

tore Generale del CRO, Dottor Piero Cappelletti. Ma, oltre all’amplissima letteratura prodot-ta in merito, di cui anche nel mio libro del 2011 Pietra filosofale della salute ho tenuto conto, va detto che anche le discipline umanistiche sono in crisi. È un gran peccato che lo siano anche in Italia, non solo per la ragione culturale che ancora ci riconosce, a livello internazionale, competenza e capacità nell’arte, nella letteratura, nella filosofia. È un grande, colpevole spreco anche per ragioni economiche (quelle invocate oggi quale criterio esclusivo di ogni nostro agire, individuale e collettivo), vero che ognuno abbia interes-se a vendere e promuovere ciò che ha e di cui anzi abbonda. Le discipline umanistiche sono in crisi, anche e soprattutto in Italia, proprio per l’inutilità loro costantemente rimproverata, che da anni riserva loro finanziamenti risibili o mal diretti. Personalmente sono ben consapevole e anzi mi vanto dell’inutilità della mia disciplina, la filo-sofia, della quale - per dirla con Aristotele - tutte le altre saranno certo più utili, ma nessuna più necessaria. Essa rappresenta così un’eccezione rasserenante in un quadro ossessivo di utilità monetizzabili, ma spesso non più motivate né, forse, motivabili... 3 Ancora mi ricollego, qui, a una considerazione, nell’Introduzione, di Piero Cappelletti. Del rapporto basato oggi sulla relazione medico-paziente parlano anche Nicoletta Suter, nel § a del suo contributo (ivi, nota 6) e la Dottoressa Emanuela Vaccher (§ b del suo testo). Credo però che la relazione biunivoca e compartecipata fra curante e curato oggi invocata non rappre-senti per nulla una novità: già Ippocrate (V sec. a.C.), o comunque quello che noi chiamiamo Corpus Hippocraticum, per segnalare il rapporto medico-paziente, usa non il singolare, non il plurale, ma il duale (il ‘noi due’!) (cfr. infra, il mio contributo, al § e). Sarebbe interessante inda-gare che cosa sia andato perduto, da allora in poi, per dover riscoprire oggi come cosa nuova ciò che i medici grecoantichi già sapevano e incarnavano così bene perfino a livello linguistico: la relazione medico-paziente come rapporto fra i due elementi, diversi, ma paritari, di un unico tutto inscindibile.

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esse stesse o esse da sole fenomeni così capillarmente diffusi e ormai così costanti nel tempo come sono il bisogno di ascolto e le narra-zioni da parte dei malati. E comunque il compito della filosofia e della sociologia non è tanto causare novità sociali di tale calibro, quanto semmai e al contrario interpretare, nel modo più corretto e argomen-tato possibile, fenomeni sociali in atto.

Forse allora non è solo il serpente della filosofia e della sociolo-gia ad aver fatto “irrompere” nell’Eden post-moderno del rapporto medico-paziente (“rapporto visto tradizionalmente come duale, asim-metrico, univettoriale ed unidimensionale”) la mela tentatrice della soggettività, che chiede di trasformare quella relazione in qualcosa invece di simmetrico, di biunivoco, di co-partecipato, e che dunque segnala, a questo fine, l’utilità della narrazione4.

Ciò che allora anch’io ho cercato di fare in quanto già ho scritto e che continuo a cercar di fare in quanto studio e provo poi a ipotizzare, ciò che mi pare necessiti ancora di approfonditi esame e riflessione è comprendere meglio per quale ragione, per ognuno di noi, soprattutto in una vicenda di malattia, divenga così importante, così fondamentale, raccontarsi.

Già altrove ho provato a ipotizzare che questa tendenza alla narra-zione rappresenti una sorta di competenza di specie, tipica di noi es-seri umani5. E credo, se è così, che tale inclinazione si acutizzi, si raffini in una vicenda di malattia perché la malattia, come ogni altra vicenda dolorosa o faticosa, rompe gli schemi della storia pregressa di chiun-que, esige un rinnovamento e una ricalibratura di ciò che il ‘soggetto’ fino ad allora è stato, esige ch’egli sappia narrare, con la collaborazione di chi lo ha in carico per la cura, una puntata inedita della propria sto-ria. Egli non potrà validamente curarsi di sé caduto malato senza questa narrazione: come ognuno di noi - sano o malato che sia - è impotente a prendersi cura di se stesso se non sa raccontare in modo lucido e veritiero la propria storia, se tace oppure mente, a sé e agli altri, su

4 Ho citato ancora un passaggio dell’interessante Introduzione di Piero Cappelletti.5 Cfr. il mio Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina, Verona 2011, Cap. III.6 (pp. 88-92), sulla scia di una considerazione del filosofo statunitense Mark Rowlands: noi uomini saremmo, “fra tutti gli animali, <quelli> capaci di narrar storie e di credere alle storie che narriamo su di noi: di crederci tanto da specificare la nostra identità come progetto radi-cantesi nel passato che sappiamo ricordare e proiettantesi nel futuro che possiamo sperare” (ivi, p. 91, corsivo nel testo). La considerazione è ripresa anche infra, nel mio contributo, § b.

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ciò che è stato in passato, su ciò che è nel presente e su ciò che potrà essere in futuro.

Questo fondamento (filosofico) della narrazione va, io credo, anco-ra compreso e sviscerato adeguatamente.

Così come va chiarito per quale ragione questo bisogno di narra-zione sia stato negli ultimi decenni, soprattutto nell’Occidente ricco, così disatteso da tornare con tanta prepotenza alla ribalta (da parte, si badi, sia dei malati, sia degli operatori della sanità). Un’amica infermie-ra professionale, coinvolta come volontario della Croce Rossa Italiana nelle operazioni di assistenza alle popolazioni del Sud Est asiatico col-pite dallo tsunami, raccontava come non avesse trovato in quelle zone nulla degli strumenti e dei supporti farmacologici di cui era abituata a valersi nell’Area di Emergenza dove, in Italia, lavorava. Raccontava però di aver trovato, presso quelle comunità prive di tutto, una gran-de solidarietà, una coralità del vivere la povertà, la malattia, la stessa morte, un farvi fronte insieme, di cui le nostre città, i nostri quartieri, le nostre strutture sanitarie così attrezzate sono oggi invece quasi del tutto prive.

Dunque è possibile che si manifesti, dal basso, in una vicenda di ma-lattia, una così grande e diffusa esigenza di narrarsi, non tanto e non solo per la comparsa teorica post-moderna del ‘soggetto’: quanto piutto-sto e soprattutto perché, in Europa e negli USA, sono scomparse o hanno perso il loro ruolo le ‘agenzie educative’ tradizionalmente e fino a poco tempo fa deputate a formare le persone. La famiglia, la scuola, la chiesa, il quartiere, il villaggio, ma anche il partito, il sindacato, perfino il vicolo o il marciapiede dove giocavano i bambini. Da noi, nell’immediato dopoguerra, cioè appena mezzo secolo fa, la sera ci si riuniva ancora nelle stalle dei nostri paesi, a ‘far filò’: e le nonne e le mamme raccontavano storie, cantavano canzoni, nelle osterie del paese i reduci, i cacciatori, i pescatori, gli emigranti rientrati ricorda-vano le loro avventure e le loro disgrazie. Il prete raccoglieva le confi-denze nel confessionale, il sindaco dirimeva le controversie, il medico condotto consigliava, il maestro era un educatore, gli anziani stavano in famiglia ed erano punti di riferimento importanti. Ci si guardava in faccia, ci si sapeva con chiarezza, e di momento in momento, parte di una comunità, si possedevano (li si accettasse poi o no) modelli con-

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solidati e condivisi di comportamento.Oggi tutto questo è perduto: e non sarà certo riunirsi davanti a un

televisore per guardare “Il grande fratello” o il Festival di Sanremo o anche la finale degli Europei di calcio, non sarà chattando su qualche social-network che si fruirà di una struttura educativa solida e affi-dabile com’era quella - giusta o sbagliata che poi fosse - ch’è andata perduta, non sarà l’oracolo televisivo, massmediatico e telematico a insegnarci come poter vivere, meno che meno che fare se ci ammale-remo e... meno ancora come poter morire.

Per questo ogni Maria che cada malata dovrà aprire un proprio ‘quaderno’ segreto (anche telematicamente, non lo nego), dovrà scri-vere di sé e della propria sofferenza, avrà più che mai bisogno di farlo: per dar forma alla propria vita, perché da noi non vi è più alcuna strut-tura educativa o sociale che sappia aiutarla a farlo. Aprirà un proprio quaderno per dar forma alla propria vita: e semmai alla propria morte; ma, così e nel contempo, alla vita di chi verrà dopo di lei.

I due gruppi, degli operatori della sanità e di noi umanisti, dovranno dunque, gli uni e gli altri, tener conto di quanto viene a loro, dal basso, così coralmente richiesto e di quanto anche dal materiale del nostro Congresso del settembre 2011, raccolto in questo libro, emerge con nettezza e prepotenza.

Dovranno continuare a fare ciò che, con lucidità e spontanea sag-gezza, il CRO di Aviano già ha fatto da oltre 10 anni in qua, ancor prima del diffondersi teorico della MN: dar voce alle storie dei pazienti.

Rispetto a un obiettivo simile risalta, però, quanto in generale è andato perduto, non solo intorno a noi, nei luoghi dove viviamo come esseri umani e cittadini, ma nelle nostre stesse discipline e nelle strut-ture ufficiali deputate a praticarle.

Tanto la sanità quanto l’università son state in Italia ‘aziendalizzate’: per ottimizzarne la funzione, per risparmiare, ci è stato ripetuto da ol-tre una decina d’anni, dunque ben prima che, nel 2008, si cominciasse a parlare di ‘crisi’ economica mondiale. Ma il mezzo (l’aziendalizzazione) pare non sia servito molto al raggiungimento del fine (il risparmio), se ancora si parla di ridurre, e drasticamente, gli sprechi nell’università e nella sanità pure da tempo trasformate in aziende. Vien allora da chie-

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dersi se lo spreco non rimontasse e non rimonti ad altri fattori più gravi (la disonestà? la corruzione? la trascuratezza del merito?) e se l’aziendalizzazione sbandierata quale rimedio, non avendo eliminato e forse neppure affrontato questi più gravi fattori di crisi, abbia davvero raggiunto obiettivi positivi.

Fra noi umanisti italiani, ridotti oggi in povertà da una sempre mi-nore disponibilità di fondi per la ricerca, pochi son quelli che credono ancora nella propria disciplina, che provano ancora a proporla in modo comprensibile, a lavorare, al di là di esausti specialismi, per diffonderne e farne conoscere i contenuti e risultati di ricerca, ancora pure effi-cacemente proponibili nell’arena scientifica internazionale. E per un docente, sia pure di giovani adulti quali sono gli iscritti all’università, nulla è più fallimentare - e più... disumanizzante - di non credere più nei contenuti che insegna, di non esser più capace di appassionarvisi e di farvi appassionare altri. Come nulla sarà più fallimentare che aver in giro per l’Italia migliaia di ‘monumenti’ e documenti (libri, codici, ma-noscritti, testi papiracei, epigrafi), che nessun giovane esperto sarà più in grado di avvicinare, leggere ed interpretare e che, inevitabilmente, saranno perciò o alienati o abbandonati, migliaia di beni che, meglio tutelati e ‘venduti’, avrebbero potuto invece costituire essi un cespite su cui far conto per investimenti in altri settori6.

Troppi ormai sono quelli di noi umanisti - influenzati e intimiditi dall’ancora imperante modello di scientificità positivistico, dalla no-zione esclusiva di una verità reputata tale solo se computabile ogget-tivamente e verificabile sperimentalmente - troppi quelli di noi che si sono... disumanizzati tanto da smettere di credere nel ruolo forma-tivo essenziale della letteratura, dell’arte, della filosofia, della musica, nell’essere, di questi saperi, basilari per la vita degli uomini, a loro modo anch’essi veri farmaci salvavita.

Inoltre l’aziendalizzazione dell’università ha imposto anche a noi umanisti oneri amministrativi continui, tanto più pesanti perché del tutto estranei alla nostra formazione (gran spreco, anche da noi, di

6 Non so nulla di economia, ma bello sarebbe stato se, invece, di dover promuovere il gioco d’azzardo per tutelare i nostri monumenti, questi nostri monumenti (25% del patrimonio artistico mondiale!) fossero stati a suo tempo tutelati e utilizzati così da finanziare essi, che so,... la nostra sanità?

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internet, inglese ed acronimi!): il turn over (eccolo!) del 20% fa infine sì che il corpo docente universitario italiano sia sempre più ridotto e con un’età media che è la più alta d’Europa.

Tutto ciò si ripercuote negativamente anche sulla nostra capacità di rispondere alle sollecitazioni provenienti dalla società, dai soggetti più deboli come sono i malati e, nello specifico, dall’ambiente sanitario, dalle medical humanities e dalla MN. Se pochi sono, in Italia, gli opera-tori sanitari che conoscono la MN, che credono in essa e che trova-no il tempo per occuparsene, ancora meno sono i letterati e filosofi che ne sanno qualcosa, quelli che dovrebbero affiancare psicologi e pedagogisti nell’approfondimento e consolidamento - come richiesto giustamente dagli stessi medici - dell’apparato teorico della MN e in una miglior definizione delle sue procedure pratiche.

Del resto non sempre facili sono i rapporti dei pochi di noi che pure credono nella MN e trovano tempo per occuparsene con l’altra metà del cielo, cioè con i medici.

Anzitutto qualcuno già ha notato come il progetto di “ri-umanizza-zione della medicina”, richiesto e auspicato anche in Italia dai medici stessi, possa aver seguito se noi umanisti si riesca a non far sentire i medici “messi sotto accusa” rispetto a una non umanità della loro condotta professionale quotidiana7. Il rilievo è verissimo e certo oc-corre tenerne conto.

E tuttavia la filosofia, in quanto pensiero non assertivo, ma struttural-mente critico, non intende “mettere sotto accusa” per semplice, gratui-ta, immotivata ostilità: intende piuttosto indurre (per prima se stessa) a una riflessione su errori e parzialità in cui s’incorra anche proprio malgrado, a causa di una formazione non più abbastanza rimeditata, o non più supportata da motivazioni solide. “C’è qualcosa che non ho tenuto nella dovuta considerazione?”: questa è la domanda che la filosofia costantemente si pone e insegna a porre.

Inoltre, il rischio paventato d’errore e di parzialità e, come appena visto, l’accusa stessa di ‘disumanità’ sono oggi parimenti possibili per un medico quanto per un umanista.

Le difficoltà sono spesso, fra gli uni e gli altri, di basilare com-

7 Così nota Sandro Spinsanti, Medical Humanities: una cura per la medicina, “Teoria”, 31 (2011), numero monografico su Critica della ragione medica, pp. 23-38.

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prensione linguistica: basti ricordare che, p.es., il termine ‘filosofico’, nell’accezione corrente - ancora di derivazione positivistica - usata nel linguaggio medico, significa il non provato, il non verificato spe-rimentalmente, dunque il non fondato, ciò che si reputa assai vicino all’irrazionale e forse allo stesso falso.

Starebbe ovviamente a noi filosofi riuscire a segnalare ai non ad-detti ai lavori e a convincerli che ‘filosofico’ ha voluto dire, nella storia del pensiero occidentale, soprattutto europeo, e può significare anco-ra oggi, ben di più e molto altro che questo.

Per farlo dobbiamo certamente noi per primi, noi umanisti, noi esperti delle parole, saper trovare, fra tante che pure proviamo a dir-ne, quelle giuste per farci capire.

Ma abbiamo bisogno anche di continuare a credere che vi sia, da parte dei medici, interesse ad ascoltarci.

Non è facile allora, anche nella MN, che s’ispirino l’un l’altro im-mediata, autentica e solida fiducia interlocutori che da troppo tempo pensano e operano secondo parametri tanto differenti. Non è facile passare da una teoria, pure in generale apprezzata, alla concretezza e all’applicazione pratica comune di uno strumento come la MN, del quale pure pare esservi così tanto bisogno.

Non tutto è roseo e pacifico, dunque, nel tentativo di costruzione pratica di queste, pur così necessarie e richieste, medical humanities8.

Per questo, per me, l’esperienza di quest’ultimo anno col CRO di Aviano è tanto più preziosa.

Perché, come già ho ricordato, e come puntualmente ricostruisco-no Ivana Truccolo e Nicoletta Suter nei loro contributi, al CRO una pratica di MN ha da parecchio tempo preso le mosse, prima ancora della sua teorizzazione ‘ufficiale’, e per giunta ha preso le mosse dal basso, dalle richieste stesse di pazienti, familiari e operatori e dall’a-scolto che si è voluto loro prestare.

Le difficoltà, per rispondere sempre meglio a tali richieste, sono

8 Un interessante confronto, quanto alla diffusione e alle difficoltà delle medical humanities, fra gli operatori e gli ambienti sanitari italiani e inglesi, rispetto alla formazione di base diffusa presso gli uni e presso gli altri, è condotto nella tesi di Dottorato in Scienze dell’Educazione e della Formazione Continua dell’Università di Verona, della Dottoressa Alessia Aurora Bevi-lacqua, che cito infra, nella nota 7 del mio contributo.

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sul tavolo e le abbiamo - tutti, credo - ben presenti. Oltre i contesti problematici, lavorativi ed economici, sono i linguaggi, le posture men-tali e disciplinari di medici e umanisti ad esser divenute molto diverse: dobbiamo allora noi per primi, noi medici e noi umanisti, trovare - con la maggiore umiltà possibile - il modo per narrarci l’un l’altro e per im-parare davvero ad ascoltare chi è tanto diverso da noi9.

Dobbiamo imparare ad applicare la narratività anzitutto a noi stessi, e tornare così, al di là dei troppo minuziosi specialismi, ad essere una “comunità di cura”, che coralmente, ancora prima di occuparsi della cure, cioè della cura riparativa, sappia impegnarsi nella care, vale a dire nella cura promotiva, che sappia formare e far fiorire le vite di noi tutti, esseri umani, e le storie di ognuno di noi10.

Davanti a noi, a chiedercelo imperiosamente, stanno infatti i qua-derni delle tante Marie, costrette ogni giorno ad affrontare vicende dure e penose di malattia: e nessuno di noi può più ignorare la richie-sta, proveniente dal basso, di ascolto delle loro storie.

Perché, se la ignoreremo, se non tenteremo di comprenderla al meglio e di continuare a farcene umile, sincero, generoso carico, nes-suno di noi sarà riuscito a tutelare davvero l’assetto della propria disciplina: né chi lavora nel campo medico, né chi lavora in quello delle scienze umane.

Se il quaderno di Maria, se i “quaderni pieni di vita” del CRO restas-sero inascoltati, sia la medicina, sia le discipline umanistiche avrebbero di fatto tradito il loro stesso scopo11.

9 Il tratto dell’ascoltare (ben diverso dal semplice ‘stare a sentire’) è messo a tema, infra, nel contributo di Nicoletta Suter, nel mio e nei due contributi della Dottoressa Emanuela Vac-cher: l’autentico ascoltare pare indispensabile sì nella relazione medico-paziente, ma, ancor prima, nella relazione di ognuno di noi con ogni altro.10 La distinzione cure (cura in senso terapeutico, riparativo) / care (cura in senso promoti-vo, del ‘far fiorire la vita’) e l’espressione “comunità di cura” le devo alla Direttrice del mio Dipartimento, quello di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università di Verona, l’amica pe-dagogista Luigina Mortari, i cui bei lavori sulla cura cito infra, nella Bibliografia del mio saggio.11 Nel curare questo ‘libro’, ho cercato di omogeneizzarne editorialmente i materiali, in origine molto diversi, lasciando però ad ognuno la sua specifica originalità. Al Convegno del settembre 2011 ogni ‘relazione’ era accompagnata da una ‘testimonianza’: qui ho scelto io la pianificazione generale del libro, ripartendolo in una I Parte, teorica e intro-duttiva, e in una II, di testimonianza delle storie, che (è questo il dato interessante e forse nuo-vo) in larga misura e fedelmente documentano e suffragano quanto proposto in sede teorica. Ho scelto io i titoli dei vari contributi e paragrafi, ho completato - spero correttamente - i

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riferimenti bibliografici e talora ho specificato e integrato alcuni punti, apponendo, a pie’ di pagina, delle “note del Curatore” (ndC).Ho soprattutto cercato di rendere questo libro garantito nei suoi fondamenti scientifici, ma anche leggibile da tutti: esso appartiene a tanti, e diversi, e a tanti e diversi mi piacerebbe sapesse parlare.Concludo segnalando, nella prima delle Appendici, la ricca bibliografia di narrazioni e testimo-nianze di malattia presente presso la Biblioteca Scientifica del CRO. Inoltre ricordando che la Legge dello Stato italiano non considera più lavori di curatela come quello da me condotto qui titoli scientifici spendibili, da noi docenti universitari, a fini valutativi e concorsuali.

LINDA M. NAPOLITANO VALDITARADocente di Storia della filosofia all’Università di Verona, studiosa di Medicina Narrativa ([email protected])

Parte IStrumenti teorici e progettuali. Perché narrare in medicina?

In questa I Parte sono raccolti i contributi, al Convegno “Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina”, che, provenendo da soggettività professionali differenti, riflettono in forma teorica e generale sulla medicina narrativa, sui suoi fondamenti e obiettivi, ne documentano applicazioni generali (come i progetti editoriali portati avanti nell’ultimo decennio dal CRO) e ne illustrano forme di concreta e utile spendibilità nell’attività di cura.

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Dare voce alle storie. I “quaderni pieni di vita” del CRO

Ivana Truccolo

a) Un inizio quasi casualePuò sembrare la scoperta dell’ovvio quella che sottende la Medi-

cina Narrativa. Il paziente racconta al medico la propria storia e que-sta narrazione, ai fini della ‘costruzione’ della diagnosi e del percorso terapeutico, è considerata altrettanto importante dei segni e sintomi della malattia. Il successivo percorso, a questo punto, non è deciso solo dal medico, ma viene concordato insieme fra paziente e medico-operatore.

Ma l’ovvio, si sa, non è scontato e naturale: perciò accade che, di fat-to, la narratività, come più precisamente la chiamano gli esperti dell’ar-gomento, venga ‘scoperta’ e compaia sulla scena proprio nel momen-to in cui la medicina, nel rapporto con il paziente, sembra perdere la sua efficacia. Così almeno lamentano Antonio Virzì, Presidente della Società Italiana di Medicina Narrativa, e i suoi collaboratori, in un re-cente articolo pubblicato sull’organo ufficiale della Società1.

È stato per differenza rispetto all’EBM, acronimo che sta per Medi-cina Basata sulle prove di Efficacia, che è stato coniato un altro acro-nimo, quasi a contrapporre i due approcci: l’acronimo NBM indica una Medicina Basata sulla Narratività. Vi è una vasta letteratura scientifica sull’argomento e vari punti di vista sul tema (medico, antropologico, sociologico, filosofico, psicologico)2. A noi sembra scontato che fra EBM e NBM debba e possa esserci non contrapposizione bensì com-plementarietà: ma di questo hanno parlato e parleranno più approfon-ditamente altri3.

1 A. Virzì, et al., Medicina Narrativa: cos’è, “Medicina Narrativa. Rivista ufficiale della Società Italiana di Medicina Narrativa”, 1(2011), pp. 9-13.2 In parte questa bibliografia è segnalata anche qui, in chiusura dell’Introduzione di Piero Cappelletti e dei contributi di Nicoletta Suter e Linda Napolitano.3 Rinvio ancora ai lavori citati alla nota precedente.

I.1

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In questo intervento desideriamo richiamare l’attenzione su un aspetto diverso della questione: quello di coloro, soprattutto pazienti, che narrano.

Di sé o di altro, dell’esperienza di malattia o semplicemente della vita, entro la relazione di cura o all’esterno di essa, producendo sia interi libri sia piccoli racconti, poesie, disegni, pensieri... Pezzi di storie che rimarrebbero ignorati e andrebbero perduti se qualcuno, nel ri-spetto dei diritti dei loro autori, non avesse pensato di farli circolare, di offrirli alla condivisione.

Il numero di storie di vita aventi i pazienti come autori è oggi vera-mente elevato (nelle Appendici un elenco, certamente non esaustivo, di ‘testi’ simili nati nel nostro Centro e presenti nella nostra Biblioteca): ma, negli anni ’90, quello che oggi si potrebbe definire un ‘genere let-terario’ era quasi inesistente.

Ci sembra interessante raccontare il nostro percorso nel ‘dare voce’ alle testimonianze e storie di vita soprattutto dei pazienti, pro-prio perché il suo inizio si situa agli albori di questo fenomeno, oggi assai più diffuso, e che noi abbiamo favorito quasi per caso. Il nostro contributo a questo convegno è, dunque, di tipo esperienziale, non teorico.

Casuale, però, non vuol dire immotivato: il nostro percorso si basa su presupposti, motivazioni e condizioni ben precisi, che cercheremo di esplicitare. Si tratta di un percorso che non era già tracciato: ma la sperimentazione, non solo clinica, è per dir così nel DNA di Istituti come il CRO, dediti insieme alla ricerca e alla cura.

Accenneremo brevemente anche ai dubbi e ai quesiti che ci siamo posti durante il percorso e ad alcune riflessioni che hanno guidato le nostre scelte.

b) La Biblioteca, luogo di ricerca e curaCatalizzatore di questo percorso è la Biblioteca Pazienti, servizio

avviato al CRO dal 1998, nell’ambito della collaborazione fra le due anime dell’Istituto, l’anima della ricerca e quella della cura appunto, ed entro l’interazione biunivoca fra di esse. Scopo della Biblioteca è favorire l’empowerment dei nostri curati, attraverso attività di tipo informativo, tese a soddisfare specifiche richieste, di tipo educativo

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e di promozione della lettura e attraverso altre attività che partano comunque dai libri, dai film, dalla musica.

Da questa base il ‘dare voce’ alle testimonianze che i pazienti stessi lasciano scritte nei vari ‘diari di bordo’, messi a loro disposizione nelle aree comuni dell’Istituto, è stato un passaggio quasi naturale, anche se iniziato in un certo senso per caso. Questo ‘lavoro’ è cominciato circa 10 anni fa, quando, come ho già ricordato, i libri scritti e pubblicati dai malati oncologici erano ancora pochi.

Esso è potuto iniziare, però, perché hanno interagito a renderlo possibile alcune precise condizioni:• il fatto che venisse avanzato un certo numero di richieste in tal

senso da parte dei pazienti e dei loro familiari; • il fatto che operassimo in un’organizzazione - il CRO, Istituto ap-

punto di ricerca e di cura - che ascolta pazienti e familiari, che ha fiducia in loro, che li coinvolge e che da loro cerca anzi d’imparare;

• il fatto che fossero disponibili alcuni strumenti, per prima la Biblio-teca Pazienti stessa, con la sua attitudine alla sperimentazione e all’innovazione;

• il fatto che fosse disponibile un minimo di risorse da destinare a un progetto che avesse preso forma;

• la nostra volontà comune di creare ponti e sinergie fra realtà e soggetti diversi.

La collaborazione, regolata da convenzione, fra la Biblioteca del CRO e la Biblioteca Civica di Aviano è stata fondamentale per le atti-vità sia di promozione della lettura, sia del ‘dar voce’ alle narrazioni di pazienti, operatori: e non solo...

c) ‘Diari di bordo’, quaderni parlanti, pieni di vita. Tutto ha avuto inizio nel 2002, quando una persona, utente della

Biblioteca Pazienti, ci ha chiesto di poter rileggere ciò che il fratello aveva lasciato scritto nel primo quadernone che i volontari di un’as-sociazione ricreativa - G.A.S. Gruppo Animatori Sociali, 1999 - aveva avuto l’idea di mettere a disposizione nel salone delle attività di svago del nostro Istituto. E le pagine si erano andate riempiendo rapidamen-te... Grande è stata la felicità di quella persona nel ritrovare il piccolo

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‘testamento morale’ del fratello - che non c’era più -. Questo episodio ci ha incuriosito, dandoci lo spunto per leggere al-

tre parti di quel quaderno un po’ sgualcito... Un quaderno a cui erano stati affidati pensieri, sfoghi, lettere, dove figuravano disegni, poesie, commenti, perfino ricette... un blog si direbbe oggi: solo su carta in-vece che online.

Ci siamo accorti che quel quadernone era pieno della vita di tante persone passate per il nostro Istituto.

La voce si è rapidamente diffusa e altri ci hanno chiesto di rileggere pagine di quel quaderno parlante. Dopo alcuni mesi, cogliendo l’occa-sione di residui derivanti da un “Premio 5 stelle” che nel frattempo la Biblioteca Pazienti aveva conseguito (Bologna, 2002), abbiamo pubbli-cato il primo libro di testimonianze di pazienti, dal titolo Caro G.A.S. volevo dirti che... Quaderno di pazienti e familiari al CRO4.

Una pubblicazione spartana, essenziale: ma le 300 copie tirate si sono esaurite in breve tempo e numerose sono state le persone che hanno continuato a chiedere di leggere questo ‘testo’. Grazie a dona-zioni ricevute, ne abbiamo così stampate 1000 copie - di una seconda edizione riveduta e ampliata5: un’edizione leggermente meno spartana, grazie al prezioso apporto di una collaboratrice a progetto della Bi-blioteca esperta in grafica, e che già conteneva le narrazioni, oltre che dei pazienti, anche di alcuni operatori e di altri testimoni ‘privilegiati’.

4 Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2002.5 Caro G.A.S. volevo dirti che. Il quaderno di pazienti e familiari al CRO, Centro di Riferimento Oncologico, 2a edizione, Aviano 2004.

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“Grazie per aver messo a disposizione questo diario, ove ho potuto sfogarmi un po’...”6.

d) La richiesta di storieCi ponevamo tuttavia l’interrogativo se avesse senso dare conti-

nuità a quest’attività. Per quale ragione e per quale scopo un’organiz-zazione di ricerca e cura dovrebbe impegnarsi a trascrivere, editare, pubblicare, dare dignità di stampa alle testimonianze rinvenute nei ‘diari di bordo’ messi a disposizione di chi passa, a qualunque titolo lo faccia, nei suoi locali?

Alla fine abbiamo deciso di fare il possibile per continuare, anzitut-to e proprio perché ci è stato richiesto:• da persone che desideravano rileggere ciò che avevano affidato ai

diari in tempi più difficili della loro vita;• da parenti che ricercavano frammenti lasciati da persone non più

con noi;

6 Tratto da Caro G.A.S. volevo dirti che... cit., edizione 2002, p. 35.

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• da persone che si aspettano questa pubblicazione come ‘buona pratica’ di cura.

La richiesta di storie - come del resto chiarisce chi, in questo stes-so libro, studia in sede teorica la funzione della narrazione - risponde dunque ad esigenze diverse: di chi con fatica si è curato ed è guarito; di chi vuole ricordare qualcuno che non ce l’ha fatta; di chi crede nella narrazione come parte integrante della cura medica7.

Su quest’attività avevamo il fondamentale supporto della Direzio-ne. Come Biblioteca ci stavamo così lentamente avviando verso un’at-tività di tipo editoriale e di promozione della scrittura inedita dei pazienti.

e) Perle da non nascondereAssolutamente convincenti a suffragare la bontà e utilità della stra-

da imboccata erano certi contenuti, certe ‘perle’ nascoste nei nostri quaderni, troppo coinvolgenti e significative per dover restare nasco-ste.

Ne cito qualcuna:

“Questo è il momento per riflettere su quello che vogliamo dalla vita ed è l’occasione per fare quello che non abbiamo mai avuto il coraggio di fare. Trasformiamo tutto quello che abbiamo dentro in energia nuova per esprimere noi stessi. Per sentirci più vivi di come siamo stati finora. Per scoprire nuove parti di noi stessi. E la malattia ci avrà fatto un regalo, ci avrà fatto vedere le cose più importanti ...”8.

“La vera forza la traggo dagli altri pazienti. Li vedo arrivare con i loro borsoni, stanchi e provati da un lungo viaggio e da una dolorosa malattia. Li vedo con la speranza negli occhi, oppure con il desiderio di rassegnarsi. Tutti si sentono feriti nel cuore più che nella carne. Ho incontrato persone meravigliose che mi hanno cambiato la vita!”9.

7 Ancora rinvio ai contributi, in questo stesso libro, di Nicoletta Suter, Linda Napolitano ed Emanuela Vaccher.8 Tratto da Caro G.A.S. volevo dirti che... cit., 2a edizione 2004, p. 14. 9 Tratto da Passaggio al CRO: voci di pazienti, volontari e cittadini, Centro di Riferimento On-cologico, Aviano 2006, p. 21.

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La terza pubblicazione di questo tipo, intitolata Passaggio al CRO: voci di pazienti, volontari e cittadini, aveva, oltre a un’ancor migliorata veste editoriale, una caratteristica diversa dalle precedenti. Oltre alle testimonianze dei pazienti raccolte nel quadernone posto nell’atrio dell’area d’ingresso, ci è piaciuto dare qui spazio anche alle esperienze dirette narrate da alcuni volontari operanti all’interno della struttura. Questo se non altro perché lo spunto per tutta questa attività è ve-nuto, come già ho ricordato, proprio da loro.

E poi quelli che fanno volontariato al CRO non sono volontari ‘qualunque’: sono al contempo professionali e umanissimi ‘compagni di viaggio’ dei pazienti, presenti allo stesso modo, con la stessa discrezio-ne e sollecitudine, sia nelle attività di svago sia nei momenti di dolore. Era dunque doveroso, nella ricerca della “vita” emergente dai nostri quadernoni, dare voce anche a loro.

Chi passa da qui conoscerà il senso della vitaChi passa da qui conoscerà il senso della morteChi esce da qui vivo cambierà vitaChi vi scrive è uno che è passato di qui e vi augura di cambiare vita.

tratto da Passaggio al CRO: voci di pazienti, volontari e cittadini, 2006

f) Stare nel territorioIn questo Passaggio al CRO del 2006 figurava anche una terza se-

zione dove abbiamo tentato una verifica di come il nostro Centro sia percepito nella comunità avianese: lo abbiamo potuto fare grazie - an-

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cora - alla collaborazione con la locale Biblioteca Civica. Aviano è un comune, adagiato ai piedi della Pedemontana friulana

occidentale, di circa 8000 abitanti, dediti per lo più ad attività produt-tive e artigianali, con un’originaria cultura contadina, ormai però quasi del tutto scalzata dal terziario.

A distanza di 25 anni dalla costituzione ufficiale del CRO (1984), c’interessava comprendere quale rapporto si fosse instaurato fra il Centro e la comunità territoriale, se e come tale rapporto si fosse evoluto rispetto al tabù degli inizi (cancro = morte), come e quanto il nostro Centro si fosse integrato nel territorio e come fosse percepi-ta all’esterno la vita vissuta dai pazienti in cura qui da noi.

In definitiva, però, più che una rigorosa e asettica indagine quan-titativa, c’interessava la percezione di noi che emergesse da racconti ed espressioni dei cittadini: ancora la verità quotidiana e spicciola più autentica sarebbe emersa dalle storie...

Sono stati perciò raccolti i racconti di 24 persone, di età compresa tra i 21 e i 66 anni, ma in prevalenza adulti fra i 30 e i 40 anni. Ne è emerso uno spaccato interessante, affidato poi anch’esso alla pubbli-cazione, una pennellata - ancora una volta - di storie, più che i risultati di un’indagine sociometrica.

L’impatto di questa terza pubblicazione - presentata all’edizione 2006 di “Pordenonelegge”, l’incontro annuale di rilevanza nazionale con autori nazionali ed internazionali -, impatto consistente in 2000 copie esaurite in breve tempo, ci ha fornito ulteriori spunti di riflessio-ne: ci siamo resi conto che sapere, per via di narrazione, come pazien-ti, volontari, cittadini sentono, percepiscono, vivono un’organizzazione sanitaria presente sul loro territorio... ‘fa bene’ all’organizzazione stes-sa, oltre che, forse e prima di tutto, ai pazienti!

g) Continueranno a fiorire stagioniDi fatto quest’ultima pubblicazione ha avuto un interessante ‘effet-

to contagio’. È seguita infatti, a distanza di due anni, una quarta pubblicazione:

Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori10. Un vero e proprio

10 Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori. Testimonianze di giovani malati di tumore, Milano, CRO-Mondadori 2008.

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libro questa volta, edito presso una nota casa editrice commerciale: il promotore, in questo caso, non è stata la Biblioteca, ma l’Area Giovani del CRO.

Di quest’opera e soprattutto dei principi che l’hanno ispirata par-lerà il dottor Maurizio Mascarin nel suo intervento11: lui che dell’Area Giovani, nata nel 2007, è il coordinatore e che l’ha voluta con forza e lucidità, fin da quando questa realtà era un’idea nella mente di pochi.

In questo libro i protagonisti sono i ragazzi e i giovani adulti, che non solo raccontano se stessi e le loro storie di malattia, ma, con i loro racconti, sotto forma di lettere, messaggi, disegni, commenti, ... hanno contribuito e contribuiscono a progettare, a realizzare, ... a dare vita alla nostra Area Giovani.

Un luogo in cui si sommano quelle che dovrebbero esser due fragi-lità: l’adolescenza e la malattia. E che invece mostra, ancora attraverso le sue storie, come dalle fragilità possano nascere anche forze e forme del tutto nuove e insperate di vita.

Questo è un libro di racconti e fotografie e a raccontare sono i ragazzi, gli operatori, i genitori...

11 Cfr. infra, il contributo di Maurizio Mascarin, Caterina Elia e Dafne Bertoncello.

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Difficile individuare una frase ‘chiave’ che sintetizzi il senso di que-sto scritto: il successo del libro, molto richiesto ancor oggi, molto citato nei blog e in altri contesti, parla da solo.

Scelgo, a titolo di esempio, una frase di Chiara:

“Mi piace comparare la mia storia alla scelta fatta da un atleta per coronare il sogno di vincere le Olimpiadi. Una lunga strada fatta di duri allenamenti lo attende per raggiungere la forma perfetta. Io non ho mai scelto di gareggiare alle Olimpiadi ma qualcuno ha deciso che dovevo fare l’atleta”12.

Molto “icastica” anche la storia di Procuste che la signora Monica, mamma di Giacomo, “insegna” al dottor Mascarin per spiegare la si-tuazione di tanti ospedali italiani che lei aveva conosciuto per curare il suo bambino: “... Mi spiegò che Procuste era un gigante della mitologia greca che, malvagio, legava i viandanti a un letto di tortura e amputava gli arti se erano più lunghi, li stirava se più corti del letto. Lei, girova-gando fra tanti ospedali con suo figlio malato, aveva incontrato tanti letti come quelli di Procuste...”. E ancora, il medico: “... Questo libro vuole essere un orecchio rivolto ai nostri ragazzi, un occhio rivolto ai loro sguardi, un mettersi in gioco degli operatori, ma soprattutto un ringraziamento a tutte quelle persone che ci hanno aiutato e ci aiutano quotidianamente. Spero che le nostre idee cavalchino anche altri lidi e che alla fine Procuste venga sconfitto in tutti gli ospedali”. Sempre la stessa mamma mi ha scritto: “Dopo aver ucciso Procuste, Teseo compì un’altra grande leggendaria impresa contro il Minotauro. Fu un cammino lungo e faticoso il suo, ma lottò sempre per la vita. Mio figlio che dapprima fu rapito da Procuste, ha trovato poi la libertà per vivere decorosamente il tempo che gli era stato ancora concesso. Egli è giunto sì alla morte, ma senza membra mutilate, con la dignità che ogni uomo deve possedere, con la libertà che gli ha concesso di volare senza catene”. E lo stesso mito ritroviamo ancora insieme ad altri nel libro, quasi sia un filo rosso che lo percorre...13.

L’Area Giovani ha poi prodotto altri libri e altri ne produrrà: ma di

12 Non chiedermi come sto cit., p. 92.13 Ivi, p. 30, 34 e 210.

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questo parlerà il dottor Mascarin nel suo intervento. Anche la quinta pubblicazione, uscita 2 anni dopo, CIP non ha paura.

Racconto per immagini e testimonianze di pazienti in cura presso l’Onco-logia Medica del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano14, s’inserisce nella scia del precedente. L’iniziativa è venuta, anche in questo caso, da un Servizio della struttura, l’Ambulatorio di Geriatria Oncologica, la Biblioteca collabora con esso e, come dice il sottotitolo, il racconto si snoda non solo con le parole, ma attraverso le immagini. Protagonisti sono sette anziani in cura presso il nostro Istituto: a partire dal loro narrare, questa volta soprattutto all’interno della relazione di cura, si sviluppa un percorso di ‘medicina personalizzata’ che evidenziano soprattutto l’ascolto e l’empatia creati nei loro casi. Il narratore-fo-tografo, Pierpaolo Mittica, sa cogliere vari momenti, sia dell’esistenza quotidiana dei pazienti nelle loro abitazioni o in altri luoghi centrali della loro vita, sia all’interno del Centro durante le fasi della cura.

14 CRAF 2010.

CIP non ha paura è anche un prezioso documento di storia orale.

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L’ultimo ‘testo’, in ordine cronologico, appena presentato anch’esso alla manifestazione ‘Pordenonelegge’ 2011, riprende la nostra ‘tradi-zione’ originale, quella di dare voce alle testimonianze lasciate scritte nei ‘diari di bordo’ della struttura.

In quest’ultima edizione, dove sono raccolte le testimonianze re-lative al periodo gennaio 2006-giugno 2011, abbiamo voluto provare a fare tre esperimenti. Il primo è stato ‘consegnare’ una parte di que-sti scritti agli studenti di un Istituto d’Arte della nostra zona: questo perché uno degli scopi che ostinatamente perseguiamo con le nostre pubblicazioni è, come detto, quello di lanciare un ponte fra il CRO e il territorio che lo circonda e, di converso, quello restituire alla vita vissuta dalle persone che qui vengono a curarsi la normalità del quo-tidiano. Lo scopo principale è però quello di ‘contagiare’ più persone possibile con la ricchezza di vita emergente dalle narrazioni di quanti vivono una condizione fragile come quella della malattia oncologica. E ragazzi, pur giovani e inesperti come quelli iscritti all’Istituto d’Arte, hanno raccolto la nostra sfida, mostrandosene all’altezza.

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Il secondo esperimento è stata ispirato da una scelta interna alla Biblioteca: affidare a personale ‘a progetto’, nuovo rispetto all’ambien-te CRO e, anche in questo caso, giovane, il compito di selezionare e organizzare il materiale da trascrivere. Tali scelte sono poi state su-pervisionate: ma l’idea di suddividere le narrazioni delle persone - sto-rie grandi o piccole che siano - in quattro stagioni è un’idea dei ‘giovani’ addetti alla Biblioteca del CRO. Un’idea che fotografa vari momenti di una storia di vita (l’infanzia, la giovinezza, l’età adulta, la vecchiaia), partendo dal principio che la malattia ne accentui e ne rilevi i carat-teri, negativi o positivi che siano: e soprattutto che tutte le stagioni della vita abbiano il loro fascino e che non si potrebbe apprezzare la primavera se non ci fosse l’inverno.

Terza cosa da noi provata è il coinvolgimento, per ognuna delle quattro stagioni della vita, di operatori che, a vario titolo, svolgono la loro attività al CRO. La maggior parte di questi ‘narratori’ sono ope-ratori non sanitari.

Ci ha incuriosito raccogliere racconti spontanei di persone che lavorano nel nostro bar, nei nostri uffici amministrativi, ancora dei vo-lontari presso di noi: insomma, tranne qualche eccezione, di personale non direttamente coinvolto in funzioni assistenziali. Nella convinzio-ne che un’organizzazione sanitaria e di ricerca, piccola ma complessa come il CRO, può funzionare solo se vi è effettiva complementarietà fra tutti quanti, giovani e meno giovani, operano in essa, se tutti han-no chiaro che il loro lavoro, qualunque sia, è una tessera importante affinché i pazienti si sentano a disagio il meno possibile: soprattutto se tutti sono consapevoli di star affrontando, secondo prospettive e traiettorie diverse, un percorso di cura che mette al centro la persona prima che il malato.

Anche in questo caso le storie narrate paiono aver testimoniato un esperimento riuscito.

h) Bilanci e progettiSaranno però i lettori delle tante storie uscite, così, dal nostro

CRO a dire se le nostre scelte abbiano o no raggiunto l’obiettivo finale che raccorda tutte queste iniziative: rispettare il nostro tacito patto con pazienti e familiari di ‘passaggio’ al CRO, di dare voce alle

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testimonianze di vita (non solo di dolore e di morte) che essi hanno affidato ai quaderni e ai ‘diari di bordo’. Saranno i lettori a dire se sia stato un buon investimento coinvolgere così tanti soggetti (i cittadini, i volontari, gli studenti dell’Istituto d’Arte) e chiedere loro di entrare in risonanza con queste storie di vita, narrate in un ambiente di cura un po’ speciale qual è il CRO.

Di seguito un esempio delle creazioni degli studenti dell’Istituto d’Arte:

Perché, dunque, i nostri malati amano tanto narrare per iscritto, nel nostro caso essendo ben avvertiti che quanto da essi prodotto potrà essere pubblicato, anche se in forma resa anonima?

Che cosa possiamo trarre, dalle tante storie di vita lasciate sui no-stri quaderni, riguardo alla voglia stessa di narrare e di scrivere entro un percorso di malattia e di cura?• Scrivere pare sia un mezzo attraverso cui comprendere meglio i

propri vissuti e sottrarli a un destino incerto, se legato solo alla memoria e all’analisi da essa permessa. La memoria è spesso ina-datta perché è instabile, oppure dominata da fattori come l’esigen-za, per il dolore patito, di distogliere gli occhi e di guardare altrove;

• scrivere pare voglia dire anche andare alla ricerca del senso di ciò che si è e delle esperienze che si stanno vivendo, nella certezza che, proprio attraverso la scrittura, si testimonierà attivamente e chiaramente il proprio vivere;

• scrivere pare sia il mezzo più affidabile per dire ‘certe verità’, quelle con cui spesso un malato, un parente, un operatore, un testimone si trova a dover fare i conti.

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Quali ‘verità’?• quelle che si vorrebbe raccontare senza il timore di essere giudicati;• quelle che si vorrebbe raccontare senza il timore di svelare i propri

sentimenti e le proprie emozioni più profonde;• quelle che non si possono dire a tutti;• quelle che non si possono dire alle persone che si amano;• quelle che si possono confessare solo a persone che ‘stanno pro-

vando’ lo stesso.

Ormai le persone si aspettano da noi, come parte della nostra atti-vità di cura, queste storie di vita: sono curiose di rileggere a distanza di tempo qualche segreta pena o intima gioia o sommessa gratitudine o dolorosa lamentela emerse in quelle giornate particolari vissute al CRO.

Le giornate in cui le cose essenziali della vita si presentano nitide come mai lo sono state.

Molti si fermano a leggere quelle pagine e talvolta a scrivere qual-cosa come in una specie di dialogo a distanza.

Anche chi al CRO lavora si ferma a leggere: quasi a voler ritrovare, guardandosi in uno specchio, un senso del proprio operare. E talvolta scrive anche lui, accettando di mettersi in gioco a sua volta.

La medicina, quella che sa prendersi cura delle persone e non solo delle malattie, ha un’occasione per ritrovare il suo senso: perché si vede rispecchiata in modo profondo e ben netto nelle parole di chi ripone con fiducia la propria vita o quella dei propri cari nelle mani degli operatori sanitari.

Le storie delle persone sono là, a dire se si tratti o no di una fiducia ben riposta perché - ed è una cosa preziosa dei nostri tempi - l’affidar-si delle persone, oggi, è sempre più consapevole, sempre meno cieco.

Quest’attività editoriale è ora parte di un ben preciso programma di Patient Education di cui altri parleranno e che ha nella Biblioteca Pazienti il suo catalizzatore.

Finisco con una citazione da Oliver Sacks, il neurologo autore di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, in cui racconta dei suoi pazienti, privati dalla malattia non tanto della salute, quanto

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dell’identità15: “Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto

interiore...Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un racconto,

e che questo racconto è la nostra identità. Per essere noi stessi, dob-biamo... possedere e se necessario ri-possedere, la storia del nostro vissuto... L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto inte-riore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé” .

Scrivere è l’esplicitazione, per sé e per altri, di questo racconto e ognuno di noi, dunque, continua ad essere vivo e sano finché può - in qualunque modo lo faccia - narrare di sé.

15 Tr. it. Milano 1986, pp. 153-54.

IVANA TRUCCOLOResponsabile della Biblioteca Scientifica e per i Pazienti del CRO di Aviano

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BIBLIOGRAFIA• A cura della Biblioteca per i Pazienti del CRO di Aviano, Caro G.A.S.

volevo dirti che... Il quaderno di pazienti e familiari al CRO, Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2002

• A cura della Biblioteca per i Pazienti del CRO di Aviano, Caro G.A.S. volevo dirti che... Il quaderno di pazienti e familiari al CRO, Centro di Riferimento Oncologico, 2a edizione, Aviano 2004

• A cura della Biblioteca per i Pazienti del CRO di Aviano, Passaggio al CRO: voci di pazienti, volontari e cittadini, Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2006

• Testi scritti dai ragazzi in cura presso l’Area Giovani del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano; responsabili del progetto Mau-rizio Mascarin e Ivana Truccolo; foto di Attilio Rossetti; disegni di Ugo Furlan, Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori. Testimo-nianze di giovani malati di tumore, Milano 2008

• A cura del Dipartimento di Oncologia Medica e Biblioteca per i Pazienti del CRO di Aviano; fotografie di Pierpaolo Mittica da un’idea del Prof. Umberto Tirelli, CIP non ha paura. Racconto per immagini e testimonianze di pazienti in cura presso l’Oncologia Medica del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, Fotografie di P. Mittica, CRAF 2010

• A cura di Centro di Riferimento Oncologico di Aviano-Biblioteca Pazienti; Istituto Statale d’Arte-Liceo Artistico Enrico Galvani di Cordenons, Continueranno a fiorire stagioni. Pensieri raccolti in un Isti-tuto Tumori illustrati da giovani studenti, Centro di Riferimento Onco-logico, Aviano 2011

• Radio Trolla, Edizioni CROinforma, Aviano 2011• Colora la tua linfa, Edizioni CROinforma, Aviano 2011• Diabolik. ZeroNegativo. Un gruppo speciale, Edizioni CROinforma,

Aviano 2011• A. MERIGHI, Oltre l’acqua, Pordenone 2010• O. SACKS, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, tr. it. Mi-

lano 1986• A. VIRZÌ, et al., Medicina Narrativa: cos’è, “Medicina Narrativa. Rivista

ufficiale della Società Italiana di Medicina Narrativa”, 1(2011)

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Il valore delle narrazionie l’ascolto come terapia. Il progetto del CRO

Nicoletta Suter

a) Il quadro di riferimentoLa medicina narrativa fonda le sue radici nel movimento culturale

che, già negli anni ’70, diffonde nell’ambito delle cure sanitarie il mo-dello bio-psico-sociale in opposizione al modello biomedico1.

Segue l’importante contributo di Arthur Kleinman e Byron Good dell’Università di Harvard, i quali sfruttano la semantica della lingua inglese sottolineando la distinzione fra disease e illness2: con il primo termine s’intende la malattia da un punto di vista oggettivo, quella che può essere studiata sulla base dei dati raccoglibili attraverso il metodo clinico; con il secondo termine s’intende invece il vissuto di malattia di ogni singola persona che ne viva l’esperienza. L’approccio sistematico alla cura promosso da Kleinmann e Good invita a considerare, per un miglior successo della cura stessa, entrambi i lati della malattia.

In seguito, negli anni ’90, Rita Charon della Columbia University di New York avvia un programma di medicina narrativa all’interno della Medical School e inizia la pubblicazione della rivista internazionale “Literature in Medicine”3.

Nel 1998 viene coniato il termine narrative based medicine (NBM)4: si tratta di una medicina che vuole fare diagnosi e ricerca a partire dai racconti dei pazienti, i quali chiedono sempre di più di poter comuni-care la loro esperienza di malattia e, soprattutto, di essere considerati non solo casi clinici, ma protagonisti del percorso di malattia e di

1 Engel 1977.2 Kleinmann - Good 1988 (cfr. supra, l’Introduzione di Cappelletti, nota 6).3 Charon 2000a, Charon 2000b; Charon 2001a; Charon 2001b.4 Cfr., per la nascita del termine, in questo stesso volume infra, il contributo di Linda Napo-litano, nota 1.

I.2

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cura. Non vi è, da parte della NBM, opposizione all’EBM, ma integra-zione con essa5. Si tratta della prosecuzione di un filone della patient centered medicine, che si oppone semmai alla doctor o disease centered medicine, incentrata sulla figura del medico o sulla sola malattia e fino ad allora modello esclusivo o dominante.

Il contesto attuale è caratterizzato da un processo verso una me-dicina che fa perno sulla relazione curato-curante: Giorgio Bert e Silvana Quadrino dell’Istituto Change di Torino, esponenti in Italia di questo nuovo movimento, richiamano la necessità, ai fini di un’ottimizzazio-ne della cura, del recupero del dialogo con il malato, della qualità del tempo dedicato alla visita medica (la cosiddetta slow medicine), dell’at-tenzione al mondo della vita, per capire al meglio i bisogni del paziente e per impostare cura e terapia in modo personalizzato e perciò il più possibile efficace6.

La medicina narrativa si colloca dunque nella prospettiva più ampia delle cosiddette medical humanities, campo interdisciplinare che fa pro-pri ed impiega quali strumenti di lavoro molti contributi provenienti dalle discipline umanistiche (le scienze sociali, l’arte, la letteratura, il cinema, il teatro, le arti visive e pittoriche), con l’intento di affinare negli operatori la sensibilità nell’approccio alla persona. Le medical humanities infatti, mobilitando riflessioni filosofiche, etiche, storiche, letterarie, aiutano a ripensare l’esistenza umana sotto l’impatto della medicina moderna; contribuiscono inoltre a sviluppare e coltivare ne-gli operatori sanitari le competenze di osservazione e analisi, l’empa-tia, la riflessione e la competenza emotiva7.

b) Il programma ‘Patient Education’ del CROEntro questo quadro di riferimento, anche al CRO è stato avviato

il programma Patient Education: esso nasce dalla cultura dell’attenzione al paziente oncologico, con numerose iniziative sul fronte dell’umaniz-zazione e della personalizzazione delle cure.

Il gruppo di lavoro che opera entro questo progetto è costituito

5 Rinvio ancora alle precisazioni in merito supra, nell’Introduzione, di Piero Cappelletti, e infra, di Linda Napolitano, nel § a del suo contributo.6 Bert - Quadrino 2002; Bert 2007.7 Cfr. Garrino 2010.

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da professionisti che rappresentano i vari Dipartimenti dell’Istituto e si occupa di:• censire le iniziative in atto nell’Istituto in tema di informazione e

comunicazione ai pazienti;• promuovere azioni di coordinamento di queste stesse iniziative e

di collaborazione fra i loro diversi attori istituzionali;• organizzare iniziative formative, rivolte sia agli operatori che ai pa-

zienti, dove fondamentale è il lavoro di squadra, di carattere multi-disciplinare, aperto ai caregiver e alla comunità;

• raccogliere in modo sistematico i feedback rispetto a simili iniziati-ve in vari modi rilevati da parte degli utenti;

• realizzare iniziative d’informazione, volte a valorizzare il ruolo di IRCCS, cioè di istituzione di cura e ricerca, del nostro CRO;

• dare voce alle testimonianze di vita dei pazienti.

c) Il valore delle narrazioniIn particolare dare voce alle testimonianze dei pazienti significa

dare un nuovo spazio alle narrazioni.In queste c’è un narratore e c’è un ascoltatore: le persone sono

esseri in relazione, in un mondo che assume per ciascuna dei significati soggettivi ed è questo ciò che si chiama ‘il mondo della vita’. Qui si costruiscono le trame esistenziali, si stringono le relazioni significative di ognuno di noi con oggetti, situazioni, persone; e ciascuno di noi at-tribuisce i suoi significati a tali relazioni. In questo ‘mondo della vita’ la narrazione, cioè la capacità di esprimere i propri significati soggettivi, è, dunque, parte integrante della comunicazione.

Di conseguenza anche la malattia assume un significato soggetti-vo. Essa non coincide con il malato, né si riduce alla cartella clinica che porta il suo nome, ma si riferisce al ‘mondo della vita’ di quella specifica persona. Il malato è il primo, il vero esperto della sua con-dizione: ciò contrasta con la concezione di salute e malattia propria del tradizionale modello biomedico, un modello invece meccanicista, positivista, riduzionista8.

La narratività è dunque la competenza comunicativa che aiuta a ricostruire il mondo della vita: le malattie non si verificano nel corpo,

8 Rinvio ancora alle considerazioni fatte in merito nell’Introduzione, dal Dottor Cappelletti.

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ma nella vita della persona, cioè in un luogo, un tempo, in un’esperienza vissuta, in una cultura individuale, in un contesto personale e sociale. In una storia.

Non è possibile capire una persona, sana o malata che sia, senza capire il suo mondo e la rete di significati nei quali ella vive. L’ascol-to delle sue narrazioni ci dà la possibilità di comprendere una realtà complessa, spesso, se riferita a una situazione di malattia, non definibi-le chiaramente solo con la prospettiva biomedica tradizionale.

L’approccio narrativo non può che essere fenomenologico, cioè volto a cogliere il senso dell’esperienza di qualcuno qui e ora: esso pre-vede il racconto di storie in cui, come detto, vi è un narratore e vi è un ascoltatore, che, nella reciprocità, concorrono alla co-costruzione della storia, cioè sono ambedue soggetti attivi.

La narrazione può così divenire una vera e propria forma di cura: non solo nel dialogo, ma anche attraverso la scrittura creativa, che sottrae la storia di ciascuno all’oblio e le restituisce la memoria. L’e-sperienza rivissuta nell’atto stesso di scriverla diviene una forma di apprendimento, per la persona malata e anche per l’operatore che sappia leggerla.

Narrare infatti è scrivere di sé, è ricostruire e dar forma al pro-prio ‘mondo della vita’ e ciò ha valore fondamentale di cura entro un percorso di malattia.

Numerosi sono i verbi della lingua italiana che hanno un’etimolo-gia interessante per la narrazione così intesa:• Ricordare: riportare al cuore; • Rievocare: ridare voce;• Rimembrare: ricostruire nelle membra, nelle varie parti;• Rammentare: riportare alla mente;• Rivivere: vivere di nuovo un’esperienza;• Rimpiangere: piangere nuovamente;• Commemorare: ricordare insieme a qualcun altro.

Ancora, secondo Rita Charon, 5 sono gli elementi narrativi nella relazione con la persona assistita: la temporalità, come tempo partico-lare vissuto dal malato; l’unicità della persona e della sua esperienza; la causalità, cioè la ricerca di nessi tra i dati oggettivi di malattia e i

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vissuti; l’intersoggettività fra un narratore e un ascoltatore, che insieme costruiscono una nuova trama; l’atteggiamento etico del professionista, che si pone in modo empatico e rispettoso dell’altrui soggettività9.

Tutto ciò, inserito in un contesto di cura, contribuisce a modificare in modo sostanziale l’attuale approccio relazionale fra operatore e paziente. L’operatore, attraverso l’utilizzo della cosiddetta ‘agenda del paziente’, dispone di una traccia nuova per la gestione del colloquio. E riesce a passare da un’anamnesi puramente tecnica (raccolta di se-gni e sintomi) ad un’anamnesi narrativa, con cui raccoglie informazioni altrettanto importanti ai fini della cura, tenendo conto dei pensieri, delle emozioni, delle aspettative, dei desideri, dei tempi e del contesto di riferimento della persona10. Così si esprime in merito Oliver Sacks:

“Se vogliamo sapere qualcosa di un uomo, chiediamo: qual è la sua storia, la sua storia vera, intima, poiché ciascuno di noi è una storia, una biografia. Ognuno di noi è un racconto peculiare costruito di con-tinuo, inconsciamente da noi, in noi e attraverso di noi - attraverso le nostre percezioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni e non ultimo il nostro discorso, i nostri racconti orali. Da un punto di vista biologico, fisiologico noi non differiamo molto l’uno dall’altro; storicamente come racconti ognuno di noi è unico”11.

E, con le parole di Gabriel Garcia Marquez, possiamo aggiungere: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”12.

d) Il valore dell’ascoltoLa narrazione si realizza dunque fenomenologicamente in un luogo

e in un tempo specifici, dove qualcuno sia disponibile ad ascoltare e dove l’ascolto divenga un atto terapeutico essenziale.

9 Rinvio ai contributi di Rita Charon citati supra, alla nota 3 e per esteso nella Bibliografia finale. Per una precisazione della nozione di ‘empatia’ alla nota finale del contributo, in questo stesso libro, di Linda Napolitano.10 Sulla nozione di ‘anamnesi’ e sul suo significato originario di ‘ricordo’, ‘rammemorazione’, rinvio ancora alle precisazione fatta da Piero Cappelletti all’inizio della sua Introduzione.11 Sacks 2009, in Bert 2007, p. 3.12 Garcia Marquez 2002, p. 1.

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L’ascolto, però, non si riduce ad un semplice, neutro o perfino ras-segnato stare a sentire gli sfoghi altrui.

È invece un’arte complessa, che implica innanzitutto uscire dalle cornici abituali entro cui siamo inseriti e piuttosto aprirci alla scoper-ta di punti di vista per noi inediti. L’ascolto autentico ci permette di guardare il mondo e le persone con altri occhi: a volte sono possibili nuovi insight, cioè comprensioni prima impensate dei fenomeni, che ci offrono la possibilità di ristrutturare la situazione stessa di cui noi siamo parte. In particolar modo queste nuove comprensioni possono rimettere in discussione le nostre convinzioni e dar corso a nuove linee d’azione.

L’ascolto, inoltre, non è solo una tecnica e implica un’autentica postura relazionale: è capacità di osservazione per acquisire nuova conoscenza e consapevolezza, anche (e forse prima di tutto) di sé; è attenzione al linguaggio del corpo altrui; necessita di epochè, cioè di sospensione del giudizio, perché solo l’accettazione e la considerazio-ne positiva - o almeno rispettosa - dell’altro permettono di realizzare l’empatia13.

I malati in particolare esprimono un profondo bisogno di ascolto e riconoscono la valenza ch’esso assume nel percorso di cura: ciò perché “l’esperienza di essere compresi da parte di qualcuno è un’e-sperienza bonificante e sanificante: la salute mentale nasce quando ci sen-tiamo compresi, in questo consiste la relazione di aiuto, non tanto fare qualcosa ma saper ascoltare e comprendere ...”14.

La comprensione dell’altro, cioè l’ascolto autentico, si realizza allo-ra attraverso tre passaggi:• il vissuto dell’altro si presenta davanti a noi tramite la narrazione

fattane;• veniamo coinvolti in questo vissuto e lo viviamo a nostra volta;• ‘oggettiviamo’ il vissuto narratoci dell’altro e lo facciamo ‘tornare’

davanti a noi, come non nostro, ma come altrui. L’ascolto empatico, comprensivo apre le porte al prendersi cura

nel suo significato ontologico più profondo: l’empatia infatti è “una

13 Sull’empatia, cfr. Rogers 1976; Rogers 2007a, e Rogers 2007b. Cfr. ancora la Bibliografia indicata alla nota finale del contributo, in questo stesso libro, di Linda Napolitano. 14 Cfr. Blandino 2009, corsivo mio.

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pratica che ha luogo in una relazione in cui qualcuno si prende a cuo-re un’altra persona dedicandosi, attraverso azioni cognitive, affettive, materiali, sociali e politiche, alla promozione di una buona qualità della sua esistenza”15.

L’empatia si realizza nella “giusta prossimità”: chi parla e chi ascolta sono abbastanza vicini perché l’incontro dia significato alla relazione e orienti le azioni che all’incontro conseguono, ma sono abbastanza lontani da non sovrapporre e confondere le due identità. L’empatia crea dunque un contatto tale da promuovere la resilienza di entrambi i soggetti della relazione16.

Ecco allora che tornano utili quelle di recente indicate come le 7 regole dell’arte di ascoltare17:1) non abbiamo fretta di arrivare alle conclusioni, che sono del resto

la parte più effimera della ricerca;2) quello che riusciamo a vedere dipende dal nostro punto di vista,

ma, per riuscire a vedere il nostro punto di vista, ... dobbiamo cam-biare punto di vista;

3) se vogliamo comprendere ciò che un altro ci sta dicendo, dobbia-mo assumere che abbia ragione e chiedergli di aiutarci a vedere le cose e gli eventi dal suo punto di vista;

4) le emozioni sono degli strumenti fondamentali se ne sappiamo comprendere il linguaggio: esse però non ci informano su che cosa stiamo vedendo, ma su come stiamo guardando ed hanno un codi-ce relazionale e analogico;

5) siamo buoni ascoltatori se siamo essere esploratori di mondi possibili;

6) siamo buoni ascoltatori se sappiamo accettare volentieri i parados-

15 Mortari 2006, p. 111-152.16 In ingegneria il termine ‘resilienza’ (dal participio presente latino resiliens, ‘ciò che rimbal-za, che torna indietro’) indica la capacità dei materiali di resistere a delle forze impulsive ad essi applicate. Sinonimi sono dunque ‘flessibilità, elasticità’. Il termine è stato esteso di recente anche al campo della biologia, per indicare la capacità di un organismo o di sistema, p.es. dello stesso ecosistema, di ripristinare l’omeostasi, cioè il proprio equilibrio complessivo interno, in seguito ad un intervento esterno che abbia modificato le condizioni dell’equilibrio originario; a quello della psicologia, per indicare la capacità umana di affrontare situazioni esistenziali difficili uscendone trasformati o addirittura rafforzati. Ci si riferisce qui proprio a quest’ultima accezione (ndC).17 Cfr. Sclavi 2003.

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si del pensiero e della comunicazione e accogliere i conflitti come occasioni per esercitarci in un campo che ci appassiona: la gestione creativa dei conflitti stessi;

7) per divenire esperti nell’arte di ascoltare, dobbiamo adottare un metodo umoristico: ma quando avremo imparato ad ascoltare, l’u-morismo verrà da sé.

e) ConclusioniPer realizzare un progetto di narrazione / ascolto di questo tipo

anche entro i percorsi di cura, è dunque fondamentale sviluppare e affinare la competenza narrativa degli operatori18.

Perciò vanno allestiti percorsi formativi che coprano queste aree tematiche:• acquisizione e rinforzo dell’auto-consapevolezza, di convinzioni

potenzianti e dell’intelligenza emotiva;• miglioramento dei linguaggi e delle abilità di counselling; • esercitazioni alla lettura e alla scrittura creativa;• uso delle medical humanities: impiego di strumenti quali letteratura,

arte e filmografia.Tali percorsi, oltre che a sviluppare competenze di medicina nar-

rativa utili a migliorare la relazione col paziente, possono divenire un valido strumento per la promozione del benessere degli operatori stessi e per la prevenzione del burnout.

Le narrazioni ci aiutano ad incontrare l’altro su un piano umano, l’altro con il suo dolore, con la sua sofferenza, ma anche con le sue conquiste ed i suoi successi.

Senza farci coinvolgere o perfino travolgere dalle emozioni dell’al-tro affidato alle nostre cure, ma sapendole ascoltare, comprendere e rispettare; restando accanto a lui, accompagnandolo; facendoci carico della sua dignità e proteggendola, nell’ottica etica dell’advocacy che è propria delle professioni di aiuto: se sapremo far tutto questo, avremo soddisfatto i fondamenti stessi della nostra professionalità di cura.

18 Anche a questo aspetto dedica una riflessione Linda Napolitano nel suo contributo, al § e. Sul tema generale, cfr. anche Marcadelli - Artioli 2010, e, già prima, Masini 2005, e Zannini 2008.

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È in questo senso che la medicina narrativa può essere considerata un valido strumento professionale per promuovere la resilienza degli as-sistiti, delle famiglie, degli operatori.

NICOLETTA SUTERResponsabile del Centro Attività Formative del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano

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tive nella formazione dei professionisti della cura, Milano 2008

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Narrazione, relazione e cura

a) Evidenza, narrazione e curaLa medicina narrativa (narrative based medicine, NBM) è un ap-

proccio relazionale che ottimizza l’atto di cura utilizzando racconti di pazienti ed operatori sanitari ed altro materiale narrativo (romanzi, film, testi teatrali): quest’uso rende i sanitari capaci di considerare e descrivere i tratti non solo tecnici, ma anche emozionali della salute e malattia, e i pazienti più attrezzati ad affrontare la ‘storia’ della propria malattia1.

La NBM si affianca alla medicina dell’evidenza (evidence based me-dicine, EBM) mirando ad integrarla2. La conoscenza logico-scientifica che guida la EBM guadagna il vero generalizzando il particolare nell’u-niversale ed elaborando così i suoi standard diagnostico-terapeutici: la NBM guadagna il vero considerando il particolare e individuale. Si dà una verità dei fatti per cui il sanitario afferma che il paziente ‘sta’ bene e una verità dei fatti per cui il paziente, solo lui e chi ne accolga i racconti, afferma ch’egli ‘si sente’ bene. Altro è la verità universale, oggettiva e tecnicamente rilevabile, della malattia descritta e curabile come standard: altro è la verità individuale, soggettiva ed emozional-mente rilevabile, di quel singolo malato, lui solo destinatario della cura3. Cura che è efficace e completa solo se fa conto di entrambe le verità e le pone in relazione.

Ottimizzazione della cura è miglioramento non solo del servizio al paziente, ma anche della qualità del lavoro del sanitario, con l’attenua-zione di tratti negativi frequenti nella sanità aziendalizzata, come ripe-

1 Faccio conto di spunti già pubblicati in Napolitano 2011, Cap. III. Sulla NBM cfr. la biblio-grafia finale e www.medicinanarrativa.it, e http://narrativemedicine.org, sul programma NBM della Columbia University, dal cui Medical Center la NBM iniziò nel 2004 a diffondersi. Il nome narrative based medicine è in Greenhalg - Hurwitz 1998, in analogia con la evidence based medicine, EBM (cfr. Bert 2007, p. 69).2 Cfr. AA.VV. 2005.3 Napolitano 2011, 83-5. Cfr. Gadamer 1994.

Linda M. Napolitano Valditara

I.3

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titività, affaticamento, burnout, mancanza di motivazione e di propen-sione ad aggiornarsi. Il sanitario sa porre domande utili a formulare diagnosi corrette e a praticare terapie efficaci solo se abbia acquisito competenze all’ascolto empatico dei racconti dei pazienti e se, prima, abbia imparato ad ascoltare e narrare se stesso, a porre su di sé, lui per primo e che è sano, le domande giuste.

Nel concreto, tale acquisito possesso di competenze narrative ren-de il sanitario capace di dare al paziente prescrizioni ch’egli possa: • comprendere (il linguaggio medico non sempre è chiaro ai ‘laici’ ed

è la competenza narrativa a far cogliere e formulare sensi linguistici diversi dai propri);

• accettare (non sempre e subito il paziente può adeguare le infor-mazioni e prescrizioni ricevute ai suoi valori psicologici, morali, re-ligiosi, ad aspettative e abitudini ed è la competenza narrativa a far considerare tale difficoltà);

• praticare (non sempre e subito il paziente può tradurre nella sua organizzazione personale, familiare, lavorativa, un programma tera-peutico ed è la competenza narrativa a far elaborare, insieme con lui, possibili alternative).Perché il paziente comprenda, accetti e pratichi quanto il sanitario

diagnostica e prescrive, questi deve imparare ad usare competenze nar-rative, lasciando spazio alle storie che il paziente narra.

Ciò per il sanitario concretamente significa: • porre le domande giuste, quelle esploranti il vissuto del paziente e

che aumentano la comunicazione in entrata, da lui al sanitario, limi-tando invece quella, massicciamente usata in medicina, da questi al paziente;

• ascoltare in modo empatico, credendo che quanto il paziente narra abbia senso, almeno per lui, dunque mai giudicandolo, ridicolizzan-dolo o sminuendolo4;

• non entrare in conflitto col paziente, non somministrargli raccoman-dazioni, ordini, giudizi ch’egli ha il diritto di rifiutare, ma cercare una compliance, a partire non dalle proprie opinioni, qui non importanti,

4 Si parla molto nella medicina centrata sul paziente di ‘empatia’: ma sussistono equivoci su questa parola e sul relativo concetto. Oltre a quanto precisato anche qui supra, da Nicoletta Suter (§ d), accenno anch’io qualche chiarimento alla fine del contributo.

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ma da quello che il paziente dice di sé, invece basilare; • agire con creatività operativa, a partire dalle storie ascoltate, cercan-

do col paziente la soluzione migliore, quella che lui appunto può comprendere, accettare, praticare, con la forza e consapevolezza di cui, in quel momento della sua vita, dispone5. Contro l’obiezione più frequente dei sanitari, non porta poi via

molto tempo far tutto questo, a patto però che con l’allenamento adatto esso diventi un atteggiamento mentale, un modo usualmente narrativo con cui essi stanno dinnanzi ai pazienti, da gestire con profes-sionalità e senza farsene mai prendere la mano6.

b) Narrazione, competenza di specie.Vero tutto ciò, dobbiamo supporre che la capacità di narrare /

ascoltare storie, di cercare soluzioni mediche interrogando le storie, che la narratività - competenza positiva seppur in modi diversi per malati e sani - non sia superflua ed opzionale. Se l’acquisizione e l’uso anche in medicina di competenze narrative hanno gli effetti positivi che si stanno anche in Italia rilevando, dobbiamo chiederci perché sa-per raccontare / ascoltare storie faccia bene7. Tanto che, se pure non guarisce ciò che, come le patologie croniche o a prognosi infausta, guarire non può, però migliora la qualità della vita, se pure non può far ‘stare’ bene, almeno - che non è per nulla poco - fa ‘sentire’ meglio. E fa lavorare con meno fatica e più motivato lo stesso sanitario.

Se sanno far questo, cos’hanno allora di buono le storie? E cos’è questa ‘narratività’, competenza a raccontare / ascoltare storie, utile anche in campo medico?

5 Cfr. su tutto ciò Bert - Quadrino 2002, pp. 105-20, e 121-39; Bert 2007, Parte II, e Napo-litano 2011, pp. 102-05.6 Cfr. Bert 2007, p. IX: “La medicina narrativa non è una disciplina... è... piuttosto un atteggia-mento mentale del medico” (corsivo mio). Cfr. anche il Cap. 12, Che cosa non è medicina narrativa, pp. 98-104, dove Bert, lui stesso medico, segnala come il sanitario debba non farsi prendere la mano dal paziente e non limitarsi a stare a sentire i suoi sfoghi: ‘stare a sentire’ infatti non significa ‘ascoltare’, né ‘onorare’ le storie dei pazienti.7 Cfr. www.hstory,wordpress.com, sul progetto di promozione e diffusione della NBM negli ospedali. Cfr. anche, per i progetti in realizzazione in Italia, il Portale dell’Istituto Superiore della Sanità, e la tesi di Dottorato in Scienze dell’Educazione e della Formazione Continua dell’Università di Verona, XXIV Ciclo, di A.A.M. Bevilacqua, sull’implementazione delle medical humanities.

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Che la competenza narrativa sia basilare è provato anzitutto dal piacere che tutti sentiamo sia nel raccontare di noi, sia nel seguire le storie di altri, da quelle narrateci da bambini, alla confidenza dell’ami-co, al gossip, alla fiction televisiva. Normalmente raccontare di noi e sentir narrare gli altri ci danno piacere nello stesso modo e grado, perché i due atti rispondono per vie diverse a un solo scopo di chiarificazione e costruzione interiore. Il piacere di narrarci e ascoltare storie è basilare allo stesso modo entro la crescita e formazione strutturata del sé8.

Questo piacere paritario del raccontare / ascoltare storie segna-lerebbe la narratività perfino come competenza di specie, cioè abilità che noi soli umani abbiamo e che ci distingue dagli altri viventi. Mark Rowlands riflette: “Nelle storie che <noi umani> raccontiamo su di noi, la nostra unicità è un ritornello abituale”. Ma dei molti tratti se-gnalati a fondare questa nostra unicità biologica (saper crear cultura e proteggerci dalla natura, cogliere la differenza tra bene e male, ra-zionalità, linguaggio, libero arbitrio, capacità di amare, di esser felici, consapevolezza della mortalità), Rowlands non ne salva nessuno: “La nostra unicità ... sta invece, nel fatto che noi ci raccontiamo tali storie e, soprattutto, possiamo indurre noi stessi a crederci... gli esseri umani... sono quegli animali che credono alle storie che raccontano su se stessi”9.

Noi uomini dunque saremmo i soli viventi capaci di narrar storie su noi stessi e di crederci: tanto da qualificare la nostra stessa identità come progetto radicato nel passato che sappiamo ricordare e pro-iettato nel futuro che possiamo sperare, tanto da continuare finché è possibile il gioco inventivo giocato da bambini: “facciamo che io ero... (un principe, un guerriero, una regina...)”10.

8 Cfr. White 1992, p. 16: “... il raccontare... è una capacità umana universale, ... per costruire la nostra identità, ... controllare il passato, ... ipotizzare più futuri in un gioco di interpretazione e re-interpretazione della propria vita... ” (corsivi miei).9 Rowlands 2009, pp. 3-4, corsivi miei. Cfr. Napolitano 2011, pp. 90-1, e quanto già anticipa-to supra, nella mia Introduzione, alla nota 5.10 Al Convegno ad Aviano, lo scrittore Antonio Ferrara sottolineava l’importanza di questo imperfetto (“facciamo che io ero...”), tempo aspecifico, stabile e continuo, della finzione nar-rativa, della storia del ‘personaggio’ che ognuno sceglie d’interpretare. La ‘temporalità’ è per Charon 2006, il primo degli aspetti narrativi rilevanti (insieme con la singolarità, la causalità, l’intersoggettività e l’etica) (cfr. Bert 2007, pp. 91-8, anche in questa sede il contributo di Ni-coletta Suter, nel testo prima della nota 9, e, ancor prima, il basilare testo Ricoeur 1983).

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c ) Creature del tempoSiamo creature del tempo, esseri obbligati tra un inizio, la nascita, e

una fine, la morte, non dipendenti da noi: e sappiamo narrare / ascol-tare storie proprio perché gettati in questa sequenza sempre, fino alla fine, scandita dal ‘e allora’, dal ‘e poi’, dal dispiegarsi continuo tra un passato e un futuro che ognuno raccorda riempiendoli di un’interpre-tazione narrabile, plasma in una ‘storia’ che, con oscillazioni e contrad-dizioni, pretendiamo sia la più coerente possibile (perciò ‘facciamo’ ora, e rifaremo poi, che io, il più stabilmente possibile, ‘ero’...)11.

Viviamo raccontando sempre noi stessi, anche indirettamente, nelle azioni compiute, nelle scelte fatte, nei gusti manifestati, nelle emozioni provate, in tutto ciò con cui ci esprimiamo all’esterno12. Ognuno con-tinua, anche quando non crede di farlo, a raccontarsi, a sé e agli altri, a immaginare le puntate successive della propria storia: lo fa “... anche quando racconta cose di scienza - poiché racconta ciò in cui crede o di cui dubita e, in tal modo, si ripresenta nel mondo tutte le mattine”13.

Proprio perché siamo creature del tempo, geneticamente obbligate fra un inizio e una fine che non controlliamo, perciò il tempo compre-so tra nascita e morte diventa davvero nostro - come, benché finito, può e dev’essere - solo se è organizzato in un progetto narrabile come storia: quella che ci identifica, unica e irripetibile, e che sceglia-mo di raccontare per dar senso alla nostra vita.

Non è detto che coincidano la storia vera che viviamo e quella che narriamo di noi: ma è comunque la seconda a dar senso alla nostra vita, poiché è il ruolo che abbiamo deciso di giocarvi e che ne condi-ziona eventi e direzione.

Vi è anzi sempre uno scarto fra la sequenza di eventi che viviamo e la narrazione poi fattane a noi stessi e agli altri: tale narrazione non

11 L’espressione ‘facciamo che io ero...’ stipula una convenzione narrativa con un altro (‘fac-ciamo’ io e te) coinvolto come uditore e compartecipe nel ruolo narrativo che si dichiara di assumere per sé: è questa una prima traccia, nella formula convenzionale stessa di un gioco infantile, di una relazionalità a mio parere obbligata della modalità narrativa; chi si narra si pone sempre in un atteggiamento di apertura dinnanzi ad un altro.12 Il verbo deriva dal latino ex-primere, nel suo primo significato ‘cavar fuori spremendo, spremere <l’olio dal sesamo>, estrarre’, ma anche ‘trar fuori modellando, rappresentare, ri-trarre’: è quindi un ‘buttare fuori’, uno ‘spremere fuori’ ciò che da sé si è sforzandosi di ren-derlo, in ogni modo, visibile all’altro davanti a noi. 13 Demetrio 1996, p. 49.

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è una neutra registrazione dei fatti accadutici in una sequenza mecca-nica, ma continuamente li seleziona e li modifica, proprio in vista del-la costruzione / ricostruzione dell’identità che scegliamo di darci. Lo precisa Gabriel García Marquez: “la vita vera non è quella che si è vis-suta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”14.

Nessuno, però, sarebbe buon narratore della sua storia e sarebbe-ro semmai gli altri a poterla raccontare rispecchiandone l’oggettività15. Resta però che ognuno prova piacere a narrarsi ed ha anzi necessità di farlo e che tale narrazione non è mai solitaria, ma basilarmente rela-zionale: lo è non solo perché, come accennato, sempre proposta ad un altro chiamato ad ascoltarla o a parteciparvi (‘facciamo - io e te - che io ero...’), ma perché, come vedremo, è fatta di domande e risposte e quindi è formulata nella sua stessa struttura come un dialogo.

Il punto, in questo scarto inevitabile fra storia vissuta e narrata, è forse come sia possibile e che accada quando storia vera e storia nar-rata differiscano tanto da diventare inconciliabili: quando il ruolo che vogliamo giocare nella storia che raccontiamo di noi e quello di cui, di fatto, siamo capaci siano del tutto diversi e non riusciamo a renderci conto di tale diversità o ad accettarla. Quando, per esempio, conti-nuiamo a protestarci innamorati o davvero amici di qualcuno e però non riusciamo a dare all’altro ciò che fattivamente gli testimoni la disponibilità e vicinanza pure professatagli, o quando non accettiamo una malattia, un limite fisico e pretendiamo di continuare a narrare la storia di noi come sani o sempre prestanti.

Allora la scelta di un’autonarrazione impossibile diviene fonte di sofferenza, per noi e per chi ci sta accanto, poiché causa d’inganno, prima ancora di autoinganno. Ciò evidenzia la necessità di e l’impegno a un qualche grado e modo di ‘verità’ nella storia di noi che raccon-tiamo a noi stessi e agli altri, a una qualche congruenza fra ciò che viviamo e come lo raccontiamo.

14 G. Garcìa Marquez, Vivere per raccontarla, tr. it. Milano 2002, p. 1. Il passo è citato anche da Nicoletta Suter, § c.15 Cavarero 2001.

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Chi ci assiste nella malattia deve allora, tanto più, possedere gli strumenti per aiutarci a narrare la storia il più possibile vera di noi caduti malati e con la maggiore verità possibile la storia di noi che a quella malattia sapremo far fronte. Perché vi sono momenti in cui dalla narrazione che sappiamo far di noi dipendono la nostra stessa vita e la felicità possibile, nostra e di chi ci sta vicino.

d) Storie-medicineQuesta nostra narrazione continua non è solo piacere e gioco: è

appunto anche bisogno, come sperimentiamo in termini di disagio e sofferenza quando abbiamo la sensazione che nessuno s’interessi a noi e dia ascolto alla nostra vera storia. Oltre al piacere di narrare / ascoltare storie, è proprio questa necessità emozionalmente conno-tata di raccontarci ed esser visti e accettati nella nostra storia a segnalare quanto sia utile la nostra competenza di specie alla narrazione: non impareremmo a vivere e ancor meno a superare i momenti critici senza la storia che costruiamo della nostra vita, senza il confronto fra essa e le storie altrui, senza l’accoglimento che di essa fa chi entri in relazione con noi16.

È muovendo allora da ciò che abbiamo, per quanto poco appaia, cioè appunto dalla nostra storia, è muovendo dal ri-raccontarcela dac-capo noi stessi e in altro modo, è facendo questo che possiamo anche cambiar direzione, darci un’identità nuova, imparare a far qualcosa che non immaginavamo di saper fare, come trovare, dinnanzi a un dolore, un coraggio che non pensavamo di avere, o risolvere una situazione che pareva bloccata.

Ma, per far questo, è pur sempre la nostra storia che deve ‘andare avanti’, è un’altra puntata della nostra storia, non di quella di un altro e ancora meno di uno qualunque, che va inventata e raccontata. Riflette

16 Charon 2006 e già Frank 1995 parlano perfino di “onorare” (to honour) le storie dei pazienti (cfr. Bert 2007, pp. 86-7): ciò conferma quanto suggerito dalla competenza narrativa come “ascoltare in modo empatico” e “non entrare in conflitto col paziente” (supra, § a). Ognuno necessita di esser riconosciuto e accettato nella storia che decide di narrar di sé e anche l’eventuale cambiamento di essa ne esige come prima mossa l’accoglimento da parte degli altri. Le storie sono un modo di “ridisegnare le mappe e di trovare nuove destinazioni” (Frank 1995, tr. it. in Bert 2007, p. 31): per poterlo essere vanno anzitutto “onorate” per come sono elaborate dal protagonista-narratore, cioè accolte da chi davvero le ‘ascolti’ senza limitarsi, come detto, a starle solo a ‘sentire’.

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Luis Borges: “Memoria e oblio sono aspetti della nostra immaginazio-ne... dunque, per non dimenticarci del futuro... possibilità aperta del presente, dobbiamo esser capaci di immaginarci un passato che, come il futuro, finora non abbiamo saputo vedere”17.

Tra i nostri futuri possibili, anche la malattia od ogni altra sofferenza può trovar spazio nella nostra storia18: ma dobbiamo trovare il modo, per faticoso, doloroso che sia, d’intessercela dentro, di annodarne i fili a quelli che già delineano il nostro passato, rinvenendovi qualcosa (un filo, una traccia, un disegno) che fino ad allora non avevamo visto e che può farci comprendere, accettare ed inserire nella nostra storia anche quella novità imprevista.

In questo lavoro di costruzione narrativa della nostra identità qual-cos’altro ci aiuta: a costruire le nostre specifiche storie e a raffinare la nostra generale competenza narrativa. È il riferimento all’ampio pa-trimonio delle narrazioni dominanti (master narratives), “archetipiche e... costituite da trame di repertorio e da personaggi... riconoscibili, che usiamo non solo per dare senso alla nostra esperienza ma anche per giustificare ciò che facciamo... depositi di norme comuni, <esse> esercitano una certa autorità sulla nostra immaginazione morale e giocano un ruolo nel dare forma alle nostre intuizioni morali”19.

Utile, per la costruzione della nostra storia come per l’esercizio alla competenza narrativa, è il confronto non solo, se siamo malati o medici, con le storie di malattia20, ma in generale con le storie di cul-ture e tempi diversi, intessute di simboli narrativi validi oltre spazio e tempo: la bella perseguitata, il re giusto, la strega cattiva, l’eroe corag-gioso, il mago sapiente, il mostro ripugnante; l’amore appassionato, la favolosa ricchezza, la grande generosità, l’eroismo e l’astuzia, la santità e la perversione, il coraggio e la disperazione...21.

“Le storie sono medicine... <vi si trovano> i rimedi per reintegra-

17 Quando riprendiamo eventi passati come perni della nostra vita da narrare oggi, ripren-diamo quelli che già in passato erano oggetto di racconto e “manifestiamo così, attraverso il rivivere, la nostra voglia di vivere ancora” (Demetrio 1996, p. 88, e p. 91 per la citazione).18 Per Karen Blixen “tutti i dolori sono sopportabili se vengono inseriti in una storia o se si racconta una storia su di essi” (frase non per caso usata come esergo del Cap. III, Narrare per curare, di Napolitano 2011).19 Lindemann Nelson 2001, tr. it. in Bert 2007, p. 31.20 Cagli 2004.21 In merito Bert 2007, pp. 81-90, anche in riferimento a Booker 2004.

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re o reclamare una pulsione psichica perduta... generano l’eccita-mento, la tristezza, le domande, gli struggimenti e le conoscenze che spontaneamente riportano in superficie <il nostro modo d’essere ori-ginario e naturale>... sono disseminate di istruzioni che ci guidano nelle complessità della vita... mettono in moto la vita interiore... dove <essa> è spaventata, incastrata o messa alle strette ... aprono per noi grandi fi-nestre in muri prima ciechi, aperture... che ci riportano alla vita vera...”22.

Si giustificano qui il nostro piacere e bisogno di narrare / ascolta-re storie, conseguenza di quanto ci appartiene come competenza di specie. Le storie sono simulatori di volo per misurare la forza delle nostre ali interiori: ci fanno riconoscere debolezze, scacchi subìti ed errori fatti, ma anche soppesare capacità possedute e guadagni acqui-siti, intravedere rischi, ma anche immaginare linee d’azione future per superare blocchi attuali. Le storie che narriamo di noi, che di noi o di sé narrano gli altri, che sempre e ovunque si son narrate contengo-no “istruzioni per vivere”, descrivono cieli dell’esistenza e del sentire dove anche le nostre ali potrebbero trovarsi a volare. Perciò esse ci aiutano a provar le ali, a fare il punto su quanto stiamo vivendo e il conto delle forze disponibili, a oggettivare e ricordare in modo diver-so i problemi, a medicar le ferite subìte.

Elementi fondamentali, dunque, quando si debba affrontare una ma-lattia o aiutare qualcuno ad affrontarla.

e) Autonarrazione e dialogoQuanto di solitario e perfino di autoreferenziale c’è in questa nar-

razione continua fatta a noi e agli altri? Quanto invece di struttural-mente relazionale, cioè di aperto al diverso ed all’altro? Siamo soli nel narrare la nostra storia, puro monologo, e mai accetteremmo che un altro vi s’inserisca a metterne in questione l’intreccio? Oppure in tale narrazione mai siamo soli, sempre ci esprimiamo attraverso un dialogo e proprio per questo l’altro in carne e ossa può aiutarci a raccontarne una puntata nuova?

Il riferimento alle master narratives, come strumento di affinamen-to della competenza narrativa tramite simboli interculturali e storie comunque ‘di altri’, ha in parte anticipato la risposta. Ma possiamo

22 Pinkola Estès 1993, p. XXVII, corsivi miei. Cfr. Napolitano 2011, pp. 95-6.

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supporre che la cura di noi caduti malati funzioni, che l’atto medico narrativamente esperto sia efficace solo se quella che vale è la secon-da opzione: ogni narrazione, anche la più apparentemente solitaria, non è mai, in realtà, monologica e chiusa in sé, ma è strutturalmente dialogica, aperta all’altro e diverso.

Qualche precisazione, prima, sulla possibilità di migliorare la compe-tenza narrativa appartenenteci come esseri umani, di esercitarla e raffi-narla con un training adeguato. La possibilità / necessità di un esercizio alla competenza narrativa (esercizio cui si è accennato riferendoci all’importante confronto con le master narratives) è comprensibile se pensiamo la narratività come competenza di specie: un uccello ha sì per natura una competenza di specie al volo, ma deve poi di fatto imparare, proprio esercitandovisi, a volare, come noi umani dobbia-mo imparare con l’esercizio quanto da natura pure siamo attrezzati a fare, come parlare, camminare o nuotare. Dunque anche narrare e ascoltare storie23.

L’esercizio esprime e consolida la capacità naturale e, quanto più frequente e protratto, tanto più differenzia i livelli possibili della pre-stazione: si va da chi sguazza nell’acqua bassa al campione di nuoto, dal narratore di barzellette da bar al grande scrittore, da chi avrà sempre difficoltà comunicative a chi interagisce con disinvoltura ed empatia.

Già nell’antichità esistevano strumenti, entro una più generale ‘cura’ dell’anima, per acquisire e migliorare la competenza narrativa24: lettura e scrittura erano considerate askèseis, forme dell’esercizio spi-rituale, dell’allenamento interiore con cui l’anima si esercitava, con la ripetizione, ad ottimizzare sue competenze naturali, proprio come un

23 Ciò pare vero per ogni abilità pratica. Per Aristotele la ripetizione di certi atti ne consoli-da la presenza in habitus: chi compie di continuo atti di coraggio diventa stabilmente coraggio-so e lo è poi più facilmente, chi a più riprese si mostra pavido si consolida nella vigliaccheria, chi si abitua a mentire diventa stabilmente bugiardo, chi si sforza di dir la verità diviene sincero e trova anzi poi più facile esserlo. Dunque anche l’abilità all’ascolto e alla narrazione, competenza di specie, può, con l’esercizio, consolidarsi e divenir forma mentis, habitus. 24 La nozione odierna di ‘cura’, in larga o esclusiva misura terapeutica o riparativa, va con-frontata con la nozione antica, soprattutto socratica e platonica, di ‘cura’ (epimèleia), del corpo e soprattutto dell’anima: di essi occorre prendersi cura così da aiutarli a fiorire, ad espandersi, a manifestarsi nel modo migliore loro consentito da natura. Al confronto delle due accezioni di ‘cura’ (a cui ho fatto cenno anche supra, nell’Introduzione, nota 10) è dedicata la parte introduttiva di un mio lavoro di prossima pubblicazione su Platone e la cura di sé.

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atleta, attraverso ripetizione ed esercizio, ottimizza la velocità o po-tenza appartenenti per natura ai suoi muscoli25.

Noi moderni però “...non sappiamo più leggere,... fermarci, liberarci dalle preoccupazioni, ritornare a noi stessi..., meditare con calma, lasciare che i testi ci parlino. È un esercizio spirituale, uno dei più difficili...”26.

Alla lettura meditativa erano diretti testi antichi come le Epistole o le Consolazioni scritte da Seneca a parenti ed amici incappati in rovesci e disgrazie. Infatti: “Solo gli spiriti tranquilli e sereni possono riper-correre ogni istante della propria vita, mentre quelli sempre carichi di impegni, come fossero sotto un giogo, non possono voltarsi a guarda-re indietro... La loro vita, dunque, si perde negli abissi del tempo... non ha ... importanza la quantità di tempo concesso se non ha un luogo per raccogliersi, ma passa attraverso delle vite sconnesse e incapaci di trattenerlo”27. Lettura, scrittura e meditazione ottimizzano la nar-ratività se mirano proprio a non sprecare una vita vivendola in modo frettoloso e logorante (come accade alla maggioranza di noi), a darle senso senza disperderla “negli abissi del tempo”.

Composti come meditazione e utili alla meditazione sono il diario dell’imperatore stoico Marco Aurelio (I ricordi o A se stesso) e il Ma-nuale dello schiavo Epittèto, che, come dice il titolo greco Encherìdion, sta “a portata di mano” (en chersì) come un’arma da difesa, dunque da tenersi sul comodino e rimeditarne ogni sera i pensieri per difen-dersi dagli attacchi della vita quotidiana. La sera scrivere un pensiero nuovo o rimeditarne uno vecchio, annotare, della giornata trascorsa, lo scacco subìto, ma anche la scoperta, la speranza, la gioia, la crescita della propria anima. Già Platone prescriveva questo esercizio serale di nutrimento dell’anima razionale “con bei discorsi e ragionamenti”: anche le parti irrazionali dell’anima, l’ardimentosa e l’appetitiva, vanno calmate da collere e desideri eccessivi, non ‘represse’, ma riportate alla misura naturale delle emozioni che sanno provare28.

Socrate dà anch’egli un esempio di comunicazione dialogica, nel suo caso parlata, non scritta, dove le domande esplorative inducono

25 Cfr. sull’àskesis Hadot 2005.26 Ivi, p. 68, corsivo mio. Cfr. anche Bert 2007, Parte III: Leggere e scrivere.27 Seneca, La brevità della vita, 10,5.28 Platone, Repubblica, 571d-572a.

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l’interlocutore a raccontar di sé e della sua vita, individuandone le cri-ticità: “Quando... si dialoga con lui... egli ci tira in un discorso che ha ogni specie di giri, deviazioni, tortuosità: finché non si giunga a dover render conto di sé, sia per come al presente si vive, sia per come si è vissuto in passato. ... Socrate non vi lascerà prima di aver sottoposto tutto ciò alla prova del suo controllo... non vedo un male nel fatto che mi si ricordi che ho agito ed agisco in modo non corretto. Chi non lo evita sarà, nel resto della vita, per forza più prudente”29.

Il dialogo socratico è dunque un metodo antichissimo, oggi in fase di riscoperta, che - tramite domande capaci d’indurre proprio la nar-razione di sé, dei valori e opinioni che danno senso alla nostra vita - fa individuare mancanze e criticità, ma anche aspirazioni disattese e capacità inutilizzate, e delineare nuove trame da potersi scrivere e vivere in futuro.

Ciò dovrebbe saper fare, col paziente, il sanitario narrativamente esperto, quando gli ponga le domande giuste per indurlo a narrarsi e trovare così una via co-costruita di cura. Il metodo che Socrate usava per la cura dell’anima, per il consolidamento morale dell’interlocuto-re (“che cos’è, per te, coraggio, giustizia, saggezza, temperanza?”), do-vrebbe servire, nella NBM, per una miglior cura dell’intero bio-psico -sociale che oggi si riconosce sia il paziente30.

Ma ciò è possibile perché mai in realtà la propria storia si narra da soli, autoreferenzialmente, sempre essa è intessuta di rapporto con l’altro e col diverso, marcata dagli infiniti feedback che hanno scandito il nostro impatto col mondo: “in una relazione, inclusa la relazione te-rapeutica, quando dico ‘io’, dico implicitamente o esplicitamente ‘tu’... un ‘io’ per conto proprio, un ‘io’ tutto solo semplicemente non esiste... Ogni ‘io’ muovendosi nel mondo conosce, agisce, osserva in relazione costante con una rete di altri ‘io’... <dunque> il fatto stesso di essere un narratore ha una dimensione intersoggettiva”31.

29 Platone, Lachete, 187e-188b, corsivo mio.30 Sul dialogo socratico e la cura socratica di sé, cfr., oltre al non troppo profondo Platone è meglio del Prozac (Marinoff 2001, pp. 57-67), i più recenti Stavru 2009, e Dordoni 2009. Il legame fra dialogo e cura di sé nel pensiero socratico va però ancora approfondito.31 Bert 2007, p. 95, in riferimento all’opera del filosofo Martin Buber, del 1923, Io e tu.

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Già Ippocrate, per il rapporto medico-paziente, non usa il singolare, né il plurale, ma quel genere particolare del greco antico che è il duale, espressione linguistica di un rapporto-fra-due, di un binomio intersog-gettivo dove le singolarità costituenti sono legate e cooperanti: ciò che oggi si torna a raccomandare in una medicina centrata non sul medico, non sul paziente, ma sulla loro relazione.

Si potrebbe però pensare che l’autonarrazione, il racconto conti-nuo che di sé si fa a sé e agli altri non abbia niente a che fare con l’an-tica pratica socratica e platonica delle domande e risposte32. Ma per Platone è il nostro stesso pensiero, il discorso intrattenuto con noi stessi, a strutturarsi dialogicamente, se è “ragionamento che l’anima fa da sé con se stessa, chiedendo e rispondendo, affermando e negando”, o “dialogo interiore dell’anima con se stessa fatto senza voce”33.

Vero ciò, non inizierò con un semplice ‘c’era una volta’ e con una sequela di pure affermazioni la narrazione dell’io che vorrei essere, del personaggio che invito l’altro che mi ascolta a fare, insieme con me, ‘che io ero’. Con me stesso e con l’altro reale con cui parlo, la mia storia si costruisce per domande e risposte, con la domanda di ciò che desidero e posso, ora e per come finora sono stato, essere (forte, buono, bello, coraggioso, sincero, amorevole, ... sano) e con la risposta che ogni volta m’indica la via per essere come desidero, oppure per darmi ragione del fatto che il mio desiderio non è attuabile.

‘E allora?’ ‘E poi?’: le domande fatte da bambini a chi ci raccontava storie e che porremo ancora, a noi stessi e a chi ci sta accanto, per tutta la vita, soprattutto nei momenti di crisi, per esempio nella dia-gnosi di una malattia: ‘sono malato, e allora? e poi?’; ‘come vivrò da ora con questo responso, sarò il debole che verrà escluso, o l’eroe così forte da scampare alla fine?’

32 Per qualcuno il dialogo socratico, riprodotto nelle opere di Platone, non sarebbe un ‘vero’ dialogo, poiché spesso l’interlocutore risponde alle domande del personaggio Socrate solo con ‘sì’ o ‘no’. Ma con tali domande Socrate acquisisce dall’interlocutore le premesse condivise per continuare il dialogo; se l’interlocutore negasse, invece di annuire, chi domanda, cioè chi ascolta ed esplora la narrazione, dovrebbe cambiar direzione seguendo il senso indicato da chi risponde, che è lui, in realtà, il responsabile, cioè l’autore, della narrazione svolta (cfr. Platone, Alcibiade I, 112e-113d). 33 Platone, Teeteto, 189e6-7; Sofista, 263e4-5, corsivi miei.

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Se questa, per domande e risposte, affermazioni e negazioni, è la via della stessa autonarrazione di cui come vivente uomo sono capace, se questa è la via della costruzione di una mia personale storia-medicina che abbia cura della mia vita, ne sciolga i nodi e ne fluidifichi le dif-ficoltà, tanto più questa dovrà esser la via di chi mi sta davanti con la pretesa di curarmi se cadrò malato e se non mi saranno chiare le risposte su come uscire dalla malattia.

‘E allora? e poi?, dottore, che cosa crede che sarà di me con questa diagnosi, che cosa crede che dovrei fare? Curarmi o mollare, operarmi o no, resistere o lasciarmi andare? c’è qualcosa, nella mia storia pas-sata, che non ho visto e che potrebbe, ora, servirmi per scrivere altre puntate della mia storia futura?’

Ascoltare, chiedere, rispondere, l’operatore sanitario narrativa-mente esperto saprà farlo per “onorare” empaticamente la storia di me caduto malato, per costruire insieme con me la storia della mia gua-rigione o, almeno, se guarire non posso, della qualità di vita che mi toccherà durante la malattia34.

34 Un’ultima puntualizzazione sul concetto di ‘empatia’, a cui si riferisce supra, nel § a, uno dei passaggi della competenza narrativa dell’operatore sanitario (“ascoltare in modo empatico”) e su cui si è discusso al Convegno ad Aviano. Concordo con la Dottoressa Vaccher che altro sia la ‘simpatia’ o ‘compassione’ ed altro l’ ‘empatia’: non è delle prime che l’operatore sanita-rio ha bisogno (se provasse ogni volta i medesimi sentimenti del suo paziente, in particolare se di sofferenza ed angoscia, difficilmente riuscirebbe nel suo scopo professionale o a reggere l’impatto emozionale stesso del suo mestiere). L’‘empatia’ non è tanto una competenza emo-zionale, ma conoscitiva: si ha non quando si condividono, fusionalmente, le stesse emozioni (sym-pathèin, o cum-patire, appunto), ma quando si comprenda che cosa l’altro sta provando (anche se da parte nostra non lo stiamo provando o non l’abbiamo mai provato), quando, esattamente, si sappia immaginare la storia che l’altro sta vivendo e le si dia credito, la si sappia “onorare”, entrando in risonanza con essa tanto da farne conto nell’azione (terapeutica) che ne segue. In tal senso l’empatia pare esattamente una competenza narrativa: cfr. Bert 2007, p. 13: “A differenza della simpatia, che è una risposta emotiva spontanea e tende a produrre vicinan-za eccessiva fino alla vera e propria identificazione, l’empatia è uno strumento in qualche modo ‘neutro’. Essa definisce la capacità di ricostruire nell’immaginazione l’irripetibile esperienza dell’altro; nessuno infatti può provare ciò che l’altro prova (niente identificazione quindi): è però possibile entrare per così dire in risonanza con le emozioni dell’altro e di conseguenza migliorare la comunicazione” (corsivo mio).Basilare, in merito, il testo, del 1916, di Edith Stein (Stein 2002): anche qui si precisa che l’empatia “mette in contatto con un’emozione altrui, dolorosa o di altro tipo, ma non è identi-ficabile con la partecipazione emotiva” (ivi, p. 12, corsivo mio), che si tratta di “un cogliere senza immedesimarsi” (p. 25). Cfr. ancora in merito: Boella - Buttarelli 2000, e ancora Boella 2006, nonché Pinotti 2011.

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Solo per tale via, questo dialogo, questa narrazione fatta di doman-de e risposte, mie e di chi mi ascolta ‘onorando’ la mia storia, solo così essa sarà una relazione e un’autentica presa in cura della mia vita, sana, malata o anche compromessa ch’essa sia.

Anche in questo caso estremo, vera la nostra competenza di specie di viventi narratori di storie, essa sarà una vita: una vita umana che vale comunque e fino all’ultimo la pena di vivere e raccontare.

LINDA M. NAPOLITANO VALDITARADocente di Storia della filosofia all’Università di Verona, studiosa di Medicina Narrativa ([email protected])

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Il medico e la narrazione

a) IntroduzioneLa medicina narrativa ha fornito un contributo determinante nel

passaggio dalla medicina biologica alla medicina centrata sul paziente. Il focus della medicina biologica è fondamentalmente la malattia e i suoi obiettivi sono la diagnosi e la terapia della malattia stessa, lo studio della sua eziopatogenesi e l’attivazione di programmi di sor-veglianza e prevenzione. La medicina centrata sul paziente si focalizza invece principalmente su quest’ultimo e il suo obiettivo principale è quello di prendersi cura di lui nella sua globalità1.

In questo contesto la narrazione della malattia offre un’opportuni-tà di riflessione che favorisce lo sviluppo delle capacità e delle moda-lità d’intervento dell’operatore sanitario2. La diatriba esistente fra la vecchia medicina biologica e la nuova medicina focalizzata sul paziente non è stata però ancora completamente superata: la dimostrazione più evidente è l’assenza, negli attuali corsi di laurea italiani in Medi-cina, di adeguati percorsi di formazione per stimolare le abilità e / o insegnare le strategie necessarie per un’adeguata comunicazione fra medico e paziente3.

Questo contributo su Il medico e la narrazione si propone di cer-care risposte a due importanti quesiti: 1) come il medico interpreti

1 Cfr. Good 1997, Bardes 2012, e Steensma - Jacobsen - Holland 2012.<Di questa distinzione e della sua fondamentalità fanno cenno sia le due Introduzioni, di Piero Cappelletti e di Linda Napolitano, sia supra, il contributo di questa e quello di Nicoletta Suter (ndC)>.2 Cfr. Charon 2004, e Khorana - Shayne - Koones 2011.3 Riferimenti e dati su tale aspetto problematico, in parte diverso in altri Paesi europei, nella Tesi di Dottorato sulle medical humanities, in Italia e nel Regno Unito, della Dottoressa A. A. Bevilacqua (citata da Linda Napolitano nel suo contributo, alla nota 7). Cfr. anche G. Bert, Me-dicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura, Roma 2007, p. 76: “Gli studi italiani in tema di medicina narrativa sono piuttosto scarsi e relativamente recenti: più in generale le medical humanities non hanno ancora assunto nel curriculum formativo del medico l’importanza che in altri Paesi è ad esse da un certo tempo riconosciuta” (ndC).

Emanuela Vaccher

I.4

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la narrazione del paziente, e 2) come il medico, l’operatore sanitario in generale, viva le emozioni suscitate in lui dalla narrazione e come eventualmente se ne difenda.

Nella prima parte verrà trattato il ruolo della narrazione nello svi-luppo della relazione medico-paziente; nella seconda saranno invece affrontati il disagio dell’operatore sanitario e la sua difesa dal cosid-detto burnout.

b) La relazione medico-paziente: narrazione / ascoltoLa narrazione ha un ruolo fondamentale nello sviluppo di un’effi-

cace relazione fra medico e paziente4. In questo contesto essa dev’es-sere però inscindibile dall’ascolto ed il binomio narrazione / ascolto dev’essere bidirezionale5. Il medico e l’ammalato ‘ascoltano’ l’uno la storia dell’altro espressa attraverso discorsi, gesti e azioni.

Il medico con la sua narrazione trasmette al paziente le nozio-ni che possiede sulla malattia, cioè fornisce informazioni generali, e le conoscenze sul singolo caso, ossia informazioni particolari, utili e anzi necessarie per prendere poi decisioni consensuali. Nello stesso tempo egli apprende il concreto vissuto del paziente: che cosa la ma-lattia significhi nella sua vita e come la trasformi. La narrazione fatta al medico dovrebbe fornire anzi al malato un’occasione per attribuire un significato alla nuova esperienza di malattia che sta facendo e per acquisire la consapevolezza necessaria ad affrontarla in prima perso-na6. L’ascolto ‘attivo’ da parte del medico stimola la riflessione / inter-pretazione della narrazione del paziente e fornisce al medico stesso le indicazioni per strutturare un intervento mirato (il migliore possibile nelle condizioni date) su quel determinato paziente.

La narrazione utilizza sia il linguaggio verbale che il linguaggio non-verbale. Il primo fornisce informazioni sugli aspetti più propriamente biologici del processo patologico, ossia quelle sui sintomi / segni della malattia. Il linguaggio non-verbale è invece il linguaggio delle emozioni e fornisce indicazioni sul vissuto e sulle sofferenze del paziente. Tipi-

4 Annunziata 2005.5 Questo aspetto basilare del legame fra narrare e ascoltare è trattato anche nei contributi di Nicoletta Suter e Linda Napolitano (ndC).6 Law 2011.

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che del linguaggio non-verbale sono la postura, la gestualità, l’espres-sione del volto, l’inflessione della voce: ed anche l’uso / non uso di specifiche declinazioni verbali, come, p.es., il non uso del tempo futuro durante la fase acuta della malattia neoplastica.

I determinanti di una relazione medico-paziente positiva ed ef-ficace sono molteplici. Innanzitutto il binomio narrazione / ascolto deve svolgersi secondo i principi stabiliti dalla bioetica, quali il rispetto dell’autonomia decisionale del paziente, della sua integrità personale e psicologica, la salvaguardia del paziente eventualmente incapace di autodeterminazione ed il rispetto per il ‘diverso’.

Ogni persona ha infatti il diritto di operare scelte di vita coerenti con le proprie aspirazioni, con i propri valori e con i propri desideri, anche quando le sue scelte non risultino in pieno accordo con le indi-cazioni ottimali dal punto di vista clinico. Il medico ha perciò il dovere di informare adeguatamente i pazienti, in modo di metterli in grado di consentire (oppure di dissentire) liberamente alle indagini diagno-stiche e alle cure. Ha il dovere di consigliare e assistere il malato nella valutazione dei benefici attesi in termini di miglioramento / manteni-mento del suo stato di salute, riconoscendogli il diritto di rendersi parte attiva entro il processo decisionale che lo riguarda.

La partecipazione del paziente a scelte di così grande importanza sulla quantità e qualità della sua stessa vita è indispensabile: dal punto di vista però non di una medicina difensiva, bensì di quella positiva-mente e pienamente rispettosa dei valori personali dell’individuo.

Dare informazioni utili e necessarie perché il paziente possa esse-re il regista delle informazioni che lo riguardano è però un compito molto arduo in oncologia. Nell’immaginario individuale e collettivo il cancro è associato infatti a miriadi di vissuti e di significati condivisi di stigma sociale, di sofferenza e di morte ineluttabile7.

La narrazione / informazione è però essenziale per poter sceglie-re: per questo è necessaria una comunicazione chiara ed esplicita. La mancanza d’informazioni sulla diagnosi e sulla terapia del cancro è una

7 Molti di questi investimenti dell’immaginario collettivo, anche metaforici, sono appro-fonditi nell’intenso studio di Susan Sontag, La malattia come metafora, tr. it. Milano 2002: nella prima parte del suo libro ella parla della metaforizzazione, fra ‘800 e ‘900, della TBC, nella seconda proprio della metaforizzazione del cancro (ndC).

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grossolana negazione dei diritti umani ed impedisce al paziente il con-trollo della propria vita8. Compito del medico è allora quello di trovare il linguaggio adatto per ogni paziente, di capire la quantità di informazioni che egli può ricevere e di saper calcolare anche il tempo necessario per fornirle, poiché una quota rilevante di pazienti necessita di un’in-formazione graduale nel tempo9.

Le strategie di somministrazione dell’informazione rappresenta-no un aspetto sul quale il medico dovrebbe essere adeguatamente istruito nei corsi intra- e / o post-laurea10.

Componente cruciale per un’efficace relazione fra operatore sani-tario e paziente è l’empatia, cioè la capacità di comprendere, condivi-dere ed apprezzare il mondo affettivo, cognitivo ed esistenziale delle altre persone11. Il potenziale empatico ha però una marcata variabilità interindividuale: la relazione fra operatore sanitario e paziente non lo genera, ma lo può rinforzare12.

Affrontare le emozioni e le preoccupazioni del paziente è però fonte di grande stress per l’operatore sanitario. La negazione dell’emo-zione provata dall’operatore sanitario non giova allo sviluppo di una buona comunicazione con il paziente: tuttavia lo stress emotivo dell’o-peratore dev’essere rigorosamente auto-gestito. La chiave di volta del suo accomodamento emotivo alle emozioni del paziente è la costante consapevolezza che, nella relazione con l’ammalato, l’obiettivo princi-pale dell’operatore sanitario è quello di prendersi cura della persona

8 Gerard - Begley 2008.9 A proposito della quantità e dei modi dell’informazione su una prognosi infausta, pre-cisa A. Malliani, Un medico in ascolto, in AA. VV., L’ascolto che guarisce, Assisi 1995, pp. 27-43, p. 39, che “non si tratta di verità sì o verità no... si tratta <ancora> di ascoltare. Quando il paziente si sente ascoltato, è lui stesso che trova dentro di sé quel tanto di verità di cui ha bisogno” (ndC). 10 Kissane - Bylund - Banerjee et al. 2012.11 Di empatia parlano anche, nei loro contributi, Nicoletta Suter e Linda Napolitano: sareb-be interessante stabilire se, com’è possibile migliorare attraverso l’esercizio le competenze narrative, anche il “potenziale empatico” possa essere, con l’esercizio, incrementato. Così parrebbe in effetti essere se - com’è stato di recente ipotizzato - l’empatia ha una base fisio-logica nei cosiddetti neuroni specchio, capaci di provocare una reazione speculare nel sistema neurale dell’osservatore di un’azione, e se anch’essi, come tutti i neuroni, sono plastici: cfr. in merito G. Rizzolatti - C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano 2006 (ndC). 12 Cfr. Sands - Stanley - Charon 2008, e Moore - Hallenbeck 2010.

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che ha di fronte. Caratteristica del rapporto medico-paziente è l’asim-metria: nella relazione il paziente è portatore di bisogni e di richieste, mentre il medico deve accogliere e dare risposte.

c ) L’evento cancro nella storia dell’ammalatoL’insorgere di una malattia importante come il cancro determi-

na una lacerazione nella storia personale di un soggetto. La malattia neoplastica è un trauma esistenziale che minaccia la realizzazione degli obiettivi futuri e che nell’immaginario collettivo avvicina l’uomo alla morte. La comunicazione di una cattiva notizia, come la diagnosi di cancro, scatena nel paziente una grave crisi, nella quale gli antropologi evidenziano tre fasi, che i miei pazienti definiscono come il “percorso della sofferenza”: la fase del cambiamento, quella dell’adattamento e lo sviluppo di un nuovo equilibrio.

Durante la fase del cambiamento il paziente diventa consapevole della propria vulnerabilità e del fatto che la malattia annulla la sua capacità di auto-gestire i problemi. La perdita della propria identità, anche fisica, del proprio ruolo sociale, la percezione immediata del limite della vita e la paura della morte scatenano un grave stress emo-tivo, che si manifesta in modo estremamente eterogeneo, con ansia ed angoscia, ma anche con rabbia ed ostilità.

Durante la seconda fase il paziente sviluppa le strategie di adatta-mento che gli permettono di attutire l’impatto negativo della malattia, intesa come minaccia per il suo benessere fisico e psichico. Le strate-gie di adattamento, o coping secondo gli autori anglosassoni, dipendo-no da moltissimi fattori, fra cui la valutazione cognitiva dell’evento, l’e-tà e il sesso del paziente, la sua personalità e le risorse di cui dispone, la prognosi ed il livello di disagio provocato dalla malattia e / o dalla terapia, la rete di solidarietà e, non da ultimo, la qualità della relazione stessa medico-paziente13.

Lo sviluppo di un nuovo equilibrio nasce dall’individuazione di so-luzioni adattative e dall’accettazione del cambiamento: l’atteggiamento

13 Le modalità, cognitive, emozionali e comportamentali, di riallestimento (management) di traumi della psiche furono già studiate nella prima metà degli anni ’80 da Susan Folkmann e Richard Lazarus, autori, nel 1984, del libro Stress, Appraisal and Coping. Tali modalità e strategie sono in continua evoluzione dinamica (ndC).

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attivo che ne può conseguire porta ad un inaspettato riequilibrio della vita, soprattutto quando prima questa era modulata da ritmi frettolosi, disattenti di sé. Ed è in questa fase che il paziente manifesta un bisogno intenso di raccontarsi, per descrivere l’esperienza che ha stravolto la sua esistenza e lo ha portato alla conquista di un nuovo ‘senso’ della vita stessa.

All’estremo opposto, la mancanza di strategie di adattamento por-ta ad un atteggiamento passivo del paziente, che esprime il suo disagio esistenziale soprattutto con il linguaggio non-verbale e molto spesso con il silenzio. La ‘narrazione’ del silenzio deve suggerire al medico la necessità di un supporto psicologico potenziato, che richiede l’inter-vento di personale specializzato, quale lo psicologo e / o lo psichiatra.

In questo contesto, la narrazione della malattia è una delle strategie terapeutiche più importanti per lo psicoterapeuta. Studi recenti sulla memoria e sul sistema nervoso hanno dimostrato che la narrazione di un evento traumatico permette di trasferire i ricordi negativi dalla memoria motoria a quella narrativa, di ri-codificare i ricordi e le emo-zioni sotto forma di racconto, dando loro una struttura, una cornice. La narrazione e la verbalizzazione dei ricordi stimolano la loro elabo-razione ed in tal modo favoriscono una vera e propria ristrutturazione percettiva dell’evento traumatico, che a sua volta consente lo sviluppo delle capacità adattative del soggetto. Alla fine, la persona si sente non più spettatore, ma attore e diventa capace di auto-gestire la propria realtà problematica14.

e) L’alleanza terapeuticaGli effetti positivi di un’efficace relazione fra medico e paziente

sono molteplici e si concretizzano nella nascita di un’alleanza tera-peutica. Alcuni riducono l’alleanza al programma terapeutico condivi-so, ma il fondamento è nella relazione fra due persone. E, proprio in quanto relazione interpersonale, l’alleanza terapeutica è già di per sé strumento di cura.

Non può essere desunta e codificata fin dall’inizio dell’incontro tra medico e paziente, ma evolve in modo dinamico, adattandosi al variare degli eventi. Oltre a favorire le strategie di adattamento del paziente

14 Cfr. su tutto quanto sopra, Tamburini - Murru 2003.

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alla malattia, l’alleanza terapeutica favorisce una migliore aderenza e tollerabilità del paziente stesso ai trattamenti ed una migliore piani-ficazione della sua vita futura. L’effetto ultimo per lui è una migliore qualità della cura ed una migliore qualità di vita. In questo contesto, il medico non cura solo la malattia, ma si prende cura del paziente nella sua globalità fisica e psichica.

Infine, un rapporto di fiducia costruito non attraverso una relazio-ne di dipendenza, ma attraverso una relazione di ruolo orientato all’a-scolto e alla comprensione dei motivi e dei sentimenti del paziente, costituisce per ogni operatore sanitario un arricchimento esistenziale d’inestimabile valore. L’esperienza clinica in ambito oncologico mette in contatto l’operatore sanitario con storie, emozioni, pensieri avve-nimenti spesso difficili da gestire: ma l’alleanza terapeutica ha riper-cussioni positive anche per l’operatore, poiché è in grado di ridurre anche il suo stress emotivo ed il rischio, per lui, di burnout.

f) Il ‘burnout’Negli anni Trenta il mondo dello sport professionista americano

iniziò ad utilizzare l’espressione gergale burned-out, letteralmente ‘es-sere cotti’, ‘bruciati’, per indicare quegli atleti che, dopo alcuni succes-si, non riuscivano più a mantenersi ad alti livelli di prestazione sportiva.

Da allora la sindrome del burnout sta ad indicare una forma di rea-zione allo stress lavorativo, tipica delle professioni di aiuto (operatori sanitari, poliziotti, sacerdoti, etc.). È una risposta ad uno stress emozio-nale cronico e si caratterizza con una costellazione di sintomi che si esprimono a livello cognitivo, emotivo, comportamentale e somatico. I sintomi più comuni sono la demotivazione, l’apatia, la depressione alternate ad irritabilità, il nervosismo e l’intransigenza verso gli altri.

Globalmente, nel burnout l’operatore sanitario mostra una perdita di entusiasmo per il lavoro, una ridotta produttività ed un deteriora-mento della relazione con il malato. Le cause scatenanti la sindrome del burnout sono molteplici e spesso comprendono il sovraccarico del lavoro e / o l’assenza di un’organizzazione ottimale per esso, la mancanza di un ruolo lavorativo ben definito, problemi personali e l’assenza di competenze psicologiche e relazionali.

L’assenza di un rapporto efficace fra operatore e paziente rende

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stressante la comunicazione delle cattive notizie, il confronto conti-nuo con la sofferenza e con la morte dei pazienti accentua la frustra-zione derivante dall’inefficacia della terapia e lo stress determinato da decisioni diagnostiche e terapeutiche difficili.

Gli operatori sanitari che lavorano in oncologia possono essere una popolazione particolarmente a rischio di burnout. Gli studi pub-blicati in letteratura evidenziano in effetti una prevalenza di burnout fra gli oncologi oscillante fra il 35 ed 56%, con un tasso superiore al 40% fra i giovani medici, il 18% dei quali soffre di una forma grave, con conseguenze fisiche ed emotive di rilievo clinico.

Nello studio delle possibili cause del burnout è fondamentale in-cludere anche l’analisi del contesto organizzativo nel quale l’individuo opera: la struttura e il funzionamento di questo contesto sociale pla-smano infatti il modo in cui le persone interagiscono tra loro e quello nel quale eseguono il loro lavoro. Quando l’ambiente lavorativo non riconosce l’aspetto umano del lavoro, il rischio di burnout cresce, im-plicando un prezzo professionale da pagare molto alto.

È dunque consigliabile l’adozione di un approccio preventivo per affrontare il problema del burnout e il modo migliore per prevenirlo è sicuramente puntare sulla promozione dell’impegno nel lavoro e dei valori umani.

In questo contesto, il recupero della ‘terapeuticità’ della relazione medico-paziente costituisce uno degli antidoti più importanti della sindrome del burnout.

EMANUELA VACCHERMedico oncologo, in servizio presso l’Oncologia Medica A del CRO di Aviano

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Parte IITestimonianze.Narrare insieme, curati e curanti

In questa II Parte sono le raccolte le testimonianze al Convegno “Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina”, sempre, come nella I Parte, di soggetti diversi (pazienti-scrittori, medici, operatori sanitari, scrittori-formatori), che illustrano applicazioni concrete della narratività in situazioni di malattia ed entro percorsi di cura, sottolineando la fondamentalità, in tali contesti, di relazioni in cui il paziente possa esprimersi e sia ascoltato e l’incidenza che il narrare / ascoltare stessi hanno per un miglioramento della qualità della vita.

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Scrivere e condividerela propria storia di malattia

Marilena Bongiovanni

Nel contesto di questo convegno, molto interessante ma emotiva-mente assai coinvolgente, a me è toccato un compito gradevole: devo presentarvi gli ospiti, i due pazienti scrittori che abbiamo voluto oggi con noi.

Ho conosciuto Sergio Audino e Maria Grazia Saberogi attraverso i libri che hanno scritto e pubblicato. Ho subito provato una forte simpatia per loro e mi sono sentita partecipe delle loro storie di vita, perché la loro narrazione è coinvolgente, ma, nonostante tutto, ‘lieve’, delicata. Ho apprezzato la loro capacità di mettersi a nudo, di raccon-tare un’esperienza di vita così dura come quella della malattia che li ha colpiti e delle terapie che hanno dovuto adottare; li ho anzi ammirati moltissimo, perché scrivere del proprio dolore, esporlo così agli altri trovo che sia un gesto molto coraggioso.

Raccontare significa di fatto rivivere la malattia, ripercorrere i mo-menti e luoghi bui della disperazione: ma traspare chiaramente che il loro narrarsi non è dettato solo dal bisogno personale di chiudere i conti, sanare le ferite, riconciliarsi con il dolore provato e con la vita che per fortuna va avanti.

No, nel loro caso non è solo questo1. In loro la scelta della narrazione e dunque della condivisione è

dettata da una profonda generosità, da una totale assenza di avarizia.Quella di ognuno di noi , secondo William Shakespeare, “è una pic-

cola vita circondata dal sonno”. Guardandola forse come tale, Eugenio

1 Nella I Parte di questo libro si è sottolineato, parlando di pazienti che scrivono, come la narrazione paia un bisogno personale legato profondamente allo stato di malattia, una strate-gia a cui ci si sente individualmente indotti a ricorrere per dargli forma e affrontarlo meglio. Qui Marilena Bongiovanni sottolinea un altro aspetto della narratività in medicina, quello, socialmente e moralmente non meno importante, della testimonianza e della condivisione con altri soggetti e, soprattutto, di un malato con altri malati (ndC).

II.1

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Scalfari a sua volta raccomanda: “non dilapidatela, non difendetela con avarizia (...) vivetela con intensa passione, con speranza e allegria”.

Dunque vivere la vita con speranza, sempre. Ma viverla soprattutto con totale assenza di avarizia di sé, figlia di

questo oggi purtroppo diffuso rachitismo spirituale che fa dimenticare ciò che fa di un uomo un uomo, che manca di curiosità e che, troppo impegnato a curar se stesso, dimentica l’altro e non sa più averne cura.

Ecco, secondo me, questa è la chiave di lettura di questi due pazien-ti-autori: essi scrivono di sé, si raccontano, ma non tanto e non solo per la cura di sé, bensì anche e soprattutto per la cura dell’altro.

Sergio Audino è medico, specializzato in odontostomatologia e vive a Palermo. Il titolo che ha scelto per il suo libro è Le mie sette vite, il sottotitolo è Chiamando cancro il cancro.

Già questo la dice lunga del suo approccio bifronte alla malattia. Infatti, l’autore, da medico qual è, non ha rinunciato all’approccio alla malattia di tipo pragmatico, razionale, proprio dell’uomo di scienza2. Perciò, appunto nella sua veste di medico, spiega, chiarisce le dinami-che della malattia oncologica e a lui dobbiamo anzi una definizione quantomeno originale del cancro, definito un colpo di stato nel no-stro corpo. Il dottor Audino scrive infatti: “Il cancro compromette la democrazia biologica del nostro organismo,... generando una specie di colpo di stato. Il cancro nasce da una anarchia biologica. Il cancro è anarchia”.

Tutto ciò mentre illustra con grande competenza scientifica e ap-propriatezza concetti complessi come l’omeostasi e l’apoptosi cellu-lare, che spiega essere “morte cellulare altruista o morte pulita”. Ac-canto a questa parte, che io definirei ‘affettuosamente didattica’, c’è la parte personale ed emotiva della storia vissuta di malattia: la diagnosi a 47 anni, l’ultimo Natale della sua ‘prima vita’, e il racconto delle altre sette vite e delle altrettante rinascite che per lui si sono succedute, scandite da episodi di malattia, da impegnative tappe terapeutiche, da

2 Egli è quello che forse si chiamerebbe un ‘guaritore ferito’. La metafora del ‘guaritore ferito’ è usata da Hans Georg Gadamer nel suo libro Dove si nasconde la salute (citato da Linda Napolitano nella Bibliografia finale del suo contributo) e ricorda l’antica figura mitica del Centauro Chirone, grande esperto di medicina e però anch’egli sofferente per una ferita inguaribile a un arto, infertagli da un colpo di freccia. Per un uso di tale metafora in campo psicologico e psichiatrico, cfr. il libro di P. MOSELLI, Il guaritore ferito. La vulnerabilità del tera-peuta, Milano 2008 (20112) (ndC).

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un terribile incidente stradale... Concludo questa breve presentazione di Sergio Audino con un’al-

tra citazione dal suo libro, che forse dice tutto o almeno la cosa più importante: “La malattia, nonostante i suoi frequenti e devastanti esiti fisici e psicologici, aiuta ad essere protagonisti di una metamorfosi in-teriore”.

Ottimistico invece è il titolo dell’altro libro, di Maria Grazia Sabe-rogi: Domani è un altro giorno.

Voglio presentare Maria Grazia con le parole di quella che, proprio attraverso la malattia, è diventata una sua grande amica, la biologa Do-natella Raspadori: “Il suo è il racconto di un’avventura, quella di una donna guarita dalla leucemia...

Maria Grazia Saberogi racconta un’esperienza forte, intensa, quella del trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche”3.

Gli elementi distintivi della narrazione di Maria Grazia sono la luci-dità e il ricordo minuziosamente cronologico delle emozioni vissute; la fine capacità descrittiva; il racconto del suo rapporto, durante la malattia, con i figli, ancora piccoli; la storia della relazione con tutta la struttura di cura, ma in particolare con la biologa, che analizzava i suoi vetrini e “lasciava il suo laboratorio” per informarla, sostenerla, assisterla. Il sottolineare il ruolo decisivo che tutta l’équipe di cura e in particolare la biologa hanno avuto nella costruzione di una compliance con la paziente.

Quando, dopo il primo prelievo di midollo, la dottoressa Raspadori deve comunicare a Maria Grazia che è necessario un secondo prelie-vo, va personalmente a trovarla e le dice: “volevo dirti che sei stata brava, ma...”.

Questo pare sia molto importante per chi, malato, è “bravo”, per chi “è stato bravo, ma...”.

Queste storie di malattia sono scandite da questo snodo: dalla ne-cessità - non certo gestibile e sopportabile da soli - di continuare ad “essere bravi”, di esser posti, da chi sa restare accanto a loro, nelle

3 Le storie complementari delle due amiche, la ‘curata’ Maria Grazia Saberogi e la ‘curante’ Donatella Raspadori, figurano infra, una di seguito all’altra: il raffronto di pezzi di storie, narrate da attori diversi, è molto interessante e potrebbe anzi essere una strategia utile nella forma-zione alla narrazione del personale sanitario, o, forse, delle stesse famiglie coinvolte in vicende di malattia (ndC).

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condizioni di andare avanti a lottare con tutte le forze, perché, alla fine di un percorso tanto duro, possa non esservi più, com’è stato per Sergio e per Maria Grazia, alcun “ma...”.

MARILENA BONGIOVANNIPresidente dell’Associazione Angolo

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Le mie sette vite: chiamando cancro il cancro

Sergio Audino

Mi chiamo Sergio Audino, ho 58 anni, sono medico chirurgo, specia-lista in odontostomatologia, perfezionato in gnatologia clinica. Mi sono sempre dedicato con passione al mio lavoro, alla didattica e alla ricerca e, attualmente, sono impegnato nello studio sulle cellule staminali, sui fattori di crescita e sulla loro applicazione per la rigenerazione ossea.

Nel 2000 ho scoperto di avere il cancro, che ho affrontato tempe-stivamente, con sofferenza, ma anche con tanta grinta e, per fortuna, con successo. Dalla diagnosi della malattia ho subìto varie recidive, mi sono dovuto sottoporre a ben sei interventi chirurgici e varie terapie complementari, e ultimamente - nell’ottobre del 2011- mi sono state diagnosticate anche delle metastasi vertebrali.

Nonostante tutto ciò, sono riuscito a non perdere mai la forza interiore e l’ottimismo. Il libro Le mie sette vite: chiamando cancro il cancro, uscito nel giugno 2010, nasce dagli appunti scritti negli ultimi dodici anni, sull’esperienza che ho vissuto e sulle emozioni che ho provato. Ho voluto raccontare la mia storia, sia come paziente che come medico, perché possa servire da supporto o da sprone a chi ha vissuto o vive oggi la mia stessa esperienza.

Il taglio che ho scelto di dare al libro è volutamente narrativo, ma non ho escluso informazioni utili e riferimenti scientifici, quelli che il mio ruolo professionale di medico mi ha permesso di formulare, secondo il più aggiornato e accreditato ‘stato dell’arte’ della ricerca e della medicina, senza mai snaturare, però, le finalità del testo. In parti-colare, ho voluto sottolineare ripetutamente l’insostituibile ruolo del-la prevenzione, della diagnosi precoce e della ricerca scientifica, come armi vincenti nella odierna lotta contro il cancro.

Nella Prefazione al libro, il professor Roberto Lagalla, Rettore dell’Università di Palermo, scrive una cosa interessante: “Nell’Iliade è

II.2

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raccontato di un luogo che rappresenta un simbolo e insieme una condizione reale della esistenza umana: un luogo che è una linea di confine tra la vita e la morte, una soglia che deve essere traversata da chi combatte ogni giorno la lotta per la vita. Questo luogo è Le porte Scee. I guerrieri troiani, ogni mattina, devono traversarlo per andare sul campo di battaglia, e nessuno garantisce loro che ritorneranno salvi alle loro case: Le Porte Scee sono insieme il luogo che fa temere la morte e il luogo che dona la salvezza, soglia che conduce al nulla e che riporta alla vita. Tutti noi, in fondo, siamo nella stessa condizione. Che cosa è ogni inizio di giorno, se non un inizio di lotta? Per affermare i nostri valori, per dare un contributo al bene, ma anche a volte il con-trario, per affermare se stessi, per distruggere. Ma, traversando ogni mattina Le Porte Scee della vita, chi mai garantirà che arriveremo a sera ancora in vita? Tutto può accadere in un giorno, tutto può mutare in un istante: il nemico è sempre in agguato, nessuno garantisce che non cadremo nella sua rete.

È accaduto così all’Autore del presente, commosso e intenso vo-lume. Per lui il primo giorno del secondo millennio è stato come tra-versare la soglia di un nuovo universo, mentale, emotivo, psichico: si ritrova, improvvisamente, di fronte al nemico che senza avvertire, ha preso possesso del suo corpo e lo vuole annientare. Il nemico è il can-cro, con la sua promessa di morte. Se vivere è certamente una lotta, dinanzi al nemico, la morte, tutto si trasforma in battaglia. In batta-glia fiera, durissima, implacabile. Non bisogna mai cedere, mai deporre le armi, combattere fino allo stremo, con la certezza della vittoria finale, che non mancherà, se tutte le energie convergeranno verso questo obiettivo. Non dovremo mai credere che quello sia, come di-ceva Tiziano Terzani in un suo bellissimo libro, “Il nostro ultimo giro di giostra”: occorrerà armare il cuore di speranza, di determinazione, di certezze. Occorrerà non temere, affrontare con risolutezza il dolore, le giornate terribili dell’incertezza, gli interventi chirurgici per togliere le armi al nemico, le prove quotidiane che possono essere superate solo quando non si cede al demone oscuro della paura e della depres-sione, i veri nemici della salvezza e della rinascita. Noi medici, in lotta eterna con il nemico, sappiamo quanto sia dura la battaglia, quanto sia coraggiosa la resistenza, quanto sia difficile sperare, quanto sia neces-

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sario credere. Ma crediamo anche fermamente che la battaglia è persa se cediamo le armi, se ci prende la paura di morire perché, in fondo, abbiamo avuto paura di vivere. Essere guerrieri è l’unica speranza, la battaglia l’unica forma di vita.

Questo libro è in questo senso esemplare. L’Autore dimostra come sia possibile affrontare in armi la minaccia della malattia mortale. Con stile pacato, intenso ed emotivamente contenuto, dice delle sue paure, delle sue rinascite, del suo coraggio, dell’implacabile volontà di vivere che è ragione vera della vittoria. Attento osservatore non soltanto delle emozioni interiori, ma oggettivo osservatore dei dati scientifici, del percorso terapeutico, insieme poeta e medico della sua storia. Il che onora non soltanto la sua professionalità, ma anche questo dono, umile e forte, questo libro che vuole essere (ed è) un libro di speranza e d’amore: per gli altri, innanzitutto, che nelle stesse condizioni tro-veranno ulteriori ragioni per combattere, altre ragioni per vincere la battaglia per la vita”.

I diritti d’autore del mio libro verranno devoluti in favore della ri-cerca sul cancro. Il progetto editoriale relativo al libro Le mie sette vite: chiamando cancro il cancro si avvale di un supporto informatico fornito dal sito www.chiamandocancroilcancro.it, in cui è possibile leggere e ascoltare alcuni tra i brani più significativi, nonché navigare su alcuni altri siti correlati tramite link.

L’interattività reale è garantita dal collegamento informatico alla mail dedicata [email protected].

SERGIO AUDINOMedico, odontostomatologo, autore del libro dal titolo omonimo a questo contributo, edito a Palermo Dario Flaccovio Editore 2010.

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Raccontare: ricucire i pezzi

Maria Grazia Saberogi

Per tanti anni, pensando alla malattia, sono stata convinta di averla digerita, di poterla sentire lontana: ma ogni elaborazione cronologica-mente successiva mi confermava che non ero mai arrivata al distacco.

Ne ho parlato molto io, fin da subito, della mia malattia, ho sempre sentito la necessità di raccontarmi nelle emozioni che provavo, ma anche, dettagliatamente, nelle sensazioni del corpo. Era una narrazione che facevo in prima battuta a me stessa, da sola: guardando il muro bianco che avevo davanti, dove vedevo proiettati i miei momenti, ac-compagnati dalle riflessioni, dalle sequenze verbali.

Raccontavo a me stessa la mia vita, cercando di tenere insieme tutti i frammenti esplosi per la paura: li cucivo insieme piano, con una lucidità sconvolgente, come a tessere una tela che potesse sostenere le mie angosce.

Dopo anni la narrazione concreta è arrivata: reale, tangibile, scritta. L’energia era montata a un punto tale da richiedermi di fermare tutto il resto, per dedicarmi alla scrittura del libro.

Ecco allora una nuova catarsi: chiudevo gli occhi e ricontattavo le mie emozioni di allora, ancora vivide e presenti; e ripercorrevo le diverse fasi, risentendo sensazioni, voci, odori e dolori, cercando di prolungare la mia anima su quelle pagine che sarebbero giunte a toc-care altre anime.

Poi sono arrivate le presentazioni del libro, gli incontri con i lettori: e allora ancora narravo e narravo, ogni volta con qualche particolare in più e diverso che saltava fuori inaspettato.

La narrazione è un atto con cui viene creata la connessione tra gli eventi separati, frammentati, andati in pezzi in una vicenda della vita, che si ricompongono e si ricuciono in una Gestalt significativa.

Il senso di coerenza e la significatività della propria storia fanno parte degli elementi che strutturano i confini dell’io. Attraverso la narrazione, prima con me stessa, poi con i medici, poi attraverso lo strumento narrativo per eccellenza, il libro, sono riuscita a dar senso

II.3

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al mio dramma, ho avuto la possibilità di raccordare in sequenza gli eventi, consolidandone il senso ed il significato e verificando di volta in volta la potenza evocativa della flessibilità tra figura e sfondo.

In questi anni di vicinanza con tanti pazienti in ematologia, sono stata a mia volta depositaria di tante altre storie1: le persone mi hanno voluto rendere ascoltatrice di tratti del loro percorso, soprattutto per la parte che riguarda il periodo diagnostico e la scoperta dell’esser malate.

Questo è il tratto in cui l’esistenza e la propria realtà vanno a fran-tumarsi contro la paura della morte, è lo sfondo dove si dissolvono i confini dell’io, dove i ruoli consueti s’invertono, dove si hanno forti sentimenti di auto-svalutazione. Il mio ruolo è stato allora quello di ascoltatore curioso, ma capace ancora di far collegamenti, di ricucire insieme i vari pezzi, fino alla percezione di una vicenda che diventasse coesa e che potesse contenere l’ansia.

1 Maria Grazia Saberogi testimonia qui, con la sua esperienza di ascolto di altri pazienti come lei, la complementarietà fra la capacità di narrare e quella di ascoltare, che sia Nicoletta Suter, sia io nel mio contributo abbiamo sottolineato in forma teorica: il narratore è un “buon esploratore di mondi possibili,” come ricorda Nicoletta Suter sulla scia di Marinella Sclavi (cfr. il contributo della Suter, la nota 18). Narrare ed ascoltare paiono allora davvero le due facce di un’unica medaglia (ndC).

MARIA GRAZIA SABEROGIAgente Immobiliare di Città di Castello, autrice del libro Domani è un altro giorno, edito da Joelle, Città di Castello 2009.

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Al ‘bordo’ delle storie: chiedere e rispondere

Donatella Raspadori

A differenza dei relatori che mi hanno preceduto, la maggioranza dei quali si rapporta quotidianamente con il malato e la sua sofferen-za, la mia professione di biologa non mi porta ad avere un contatto diretto con i pazienti.

Ho però da sempre avuto una grande fortuna: quella di svolgere la mia attività in laboratori di strutture ematologiche specialistiche dove vengono svolti incontri periodici fra tutto il personale per discutere le problematiche dei vari pazienti. Questo lo considero un privilegio, perché mi ha dato modo di ‘conoscere’, di questi pazienti, oltre che le cellule che analizzavo in laboratorio, anche un po’ le storie di persone e di malati.

E questo è quello che può essere considerato il ‘gancio’! Mi è stato quindi abbastanza facile stabilire un contatto quando, per motivi di tipo professionale, mi è capitato poi di dovermi rapportare diretta-mente con loro. È stata sempre un’esperienza che mi ha arricchiva leggere nei loro occhi un lieve stupore quando scoprivano che, anche se fino ad allora non mi avevano mai incontrato, io ‘sapevo di loro’, conoscevo le loro cellule - e le loro storie -, anche se non avevo mai visto i loro volti. In un certo senso si sentivano ‘curati’ e non solo nel corpo!1

1 Questa testimonianza è particolarmente significativa: la Dottoressa Raspadori mostra come una buona pratica di cura, quale quella adottata presso le strutture di ematologia dov’ella lavorava, la pratica di cura che, perfino in sua assenza, considera il paziente una per-sona e non semplicemente una cartella clinica o un vetrino, abbia ricadute positive nel tempo. L’operatore sanitario si può formare ad ‘ascoltare’ le narrazioni dei suoi pazienti in molti modi e perfino, come raccontato qui,... a distanza! L’attenzione alla narrazione, l’ascolto è, dunque, non una pratica da aggiungere, complicandole e appesantendole, alle molte consuete nei vari reparti, ma una particolare ed unica postura mentale con la quale svolgere tutte le pratiche già consuete (cfr. quanto in merito precisato, sulla scia di Giorgio Bert, supra, nella nota 6 del mio contributo) (ndC).

II.4

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Un aspetto particolare di questo rapporto è sicuramente il fatto che, pur non essendo io il medico che si prende cura di loro, rappre-sento comunque la struttura a cui i malati si affidano e, pertanto, per definizione, autorevole. Ma paradossalmente è proprio il mio ruolo di ‘non medico’ che permette loro di rivolgersi a me più facilmente, esponendo dubbi o ponendo domande che forse al medico di riferi-mento non proporrebbero mai direttamente.

Un altro “gancio” è la mia attività di volontariato nell’ambito dell’As-sociazione Italiana contro Leucemie, linfomi e mieloma. Quest’attività mi porta spesso a frequentare la casa di accoglienza dove pazienti e familiari soggiornano per le cure, anche se per brevi periodi. Il dovere di ospitalità fa sì che, la sera o nei giorni di festa, io li possa incontrare fuori dall’ufficialità dell’incontro in ospedale: allora generalmente si scatena il fuoco di fila delle domande, la ricerca della spiegazione in più che li possa tranquillizzare, anche quando sono a casa e il medico non è a portata di mano.

In quei momenti si stringono rapporti forti, che spesso poi van-no oltre il tempo della loro malattia, legami tra persone incontratesi in momenti particolari, quando una delle due stava attraversando un percorso pieno di ostacoli.

Sono esperienze meravigliose, che mi riempiono il cuore e mi danno emozioni forti, emozioni che forse non avrei potuto vivere altrimenti. È veramente gratificante sentirsi dire: “Grazie, questo, così chiaramente come me lo ha detto lei, non me l’ha mai detto nessuno, adesso ho capito!”.

E sono sicura che le stesse cose, forse anche più chiaramente di me, il medico gliele aveva già dette. Io però gliele dico con le parole del cuore, con l’empatia che loro sentono esserci tra noi.

DONATELLA RASPADORIBiologa, amica di Maria Grazia Saberogi

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La “lucetta” di Dafne.L’esperienza con gli adolescenti oncologici dell’Area Giovani del CRO di Aviano

Maurizio Mascarin, Caterina Elia, Dafne Bertoncello

Sono molti i momenti in cui ci siamo soffermati a leggere con cura non un libro, non un testo: con cura abbiamo voluto provare a leggere i pensieri e le emozioni dei ragazzi affidati al nostro Centro.

Ci siamo rifatti a Janusz Korczak, un pedagogista polacco di origine ebraica1: ispirandoci a lui, abbiamo cominciato a rapportarci ai ragazzi innalzandoci alla loro altezza.

Non è per nulla facile avvicinarsi a loro: soprattutto quando si è costretti a pronunciare sentenze che nessuno vorrebbe ascoltare. Ri-sulta quasi impossibile dover dire - soprattutto a un giovane - ‘mai più’. Eppure la parola che più spesso siamo costretti a pronunciare è proprio quella.

La loro vita, dal momento del nostro incontro, cambia radicalmen-te. Cambiano loro stessi, tanto fuori, nel corpo, quanto dentro, nell’a-nima: proprio perché a risentire della malattia che stanno vivendo è non tanto il loro aspetto, quanto la loro personalità.

1 Janus Korczak (Varsavia 1878- Campo di sterminio di Treblinka 1942), pediatra, pedagogo e scrittore, realizzò, nel 1911, la Casa degli orfani del Ghetto di Varsavia, dove i piccoli ospiti imparavano a mantenersi col loro lavoro, ad auto-gestirsi tramite un tribunale interno, e comunicavano la loro vita attraverso un giornale. Autore, nel 1914, del libro Come amare un bambino (tr. it. Milano 1979) e, nel 1929, de Il diritto del bambino al rispetto (tr. it. Milano 1995): in questo secondo testo, in particolare, viene presentata una sorta di Magna Charta dei diritti del bambino (il diritto alla morte; alla vita presente, ad essere quel che è), che in qualche modo anticipa la Carta Internazionale dei Diritti del Bambino. Teorizzava, fra l’altro, che il bambino fosse un ribelle, libero nei propri atti, e che fosse però dovere degli adulti informarlo delle difficoltà della vita ed educarlo ad affrontarle. Su Korczak è stato girato un film (1990, Il dottor Korczak, di A. Wajda) ed è stato scritto un romanzo, da parte di uno dei suoi ospiti: A. Valis, Kindling (Felici Editore 2011). Si veda anche il testo di D. Arkel, Ascoltare la luce, Vita e pedagogia di Janus Korczak, Segrate 2009 (ndC).

II.5

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Trascorrono gli anni eppure ogni volta ci meravigliamo nel vedere come questi ragazzi vengano forgiati dalla malattia.

Abbiamo appreso dalle loro parole, dai loro scritti, che la sofferenza c’è, ma prima o poi si dimentica: in compenso, però, essa insegna sempre qualcosa.

Non vogliamo qui pronunciare un elogio alla sofferenza, bensì pren-dere atto di un modo diverso di guardarla: sotto una diversa prospettiva, da un punto di vista non convenzionale.

Dafne, una ragazza ammalatasi a soli 13 anni, oggi scrive che la sua vita non le è mai sembrata così rosea. Ha deciso di scrivere, forse un po’ per esorcizzare il mostro, forse per sentirsi più libera... e scrivendo e poi rileggendosi ha scoperto qualcosa di sé che non conosceva.

Dafne ha ricominciato a sorridere, a vedere un futuro non più buio ma roseo. Quel buio, sinonimo di poca speranza, adesso si colora pro-prio di rosa, di luce, ... di vita!

Una vita a cui Dafne ha voluto dedicare una poesia.

Mi ritrovai in un posto buio Tanto buio che non ci si vedeva nessunoPreoccupata incominciai a camminareNon so se drittaNon so se indietroNon so se a destraNon so se a sinistraMa infine vidi una luceMi ci avvicinaiE capii che era la mia vita...Coperta da pensieri buiPerò una lucetta splendevaEd è quella della vita.

La complicità segreta che sempre purtroppo s’instaura fra un gio-vane malato e chi evita di entrare in contatto con lui, per lo più amici e compagni, crea quella strana condizione che chiude chi soffre in un isolamento aggiuntivo a quello già provocato dalla malattia.

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Una sofferenza silenziosa che, come la nebbia, tocca in modo im-percettibile.

In fondo, la malattia, quanto è più grave, tanto più tende a nascon-dersi. E, come riflette il filosofo Umberto Galimberti, nessuno la va a cercare perché la sua vista inquieta...

La routine frantumata dalla malattia, l’isolamento, non cercato, né vo-luto, porta questi giovanissimi malati a rinchiudersi in se stessi. Allora leggere dentro di loro, avvicinarsi a loro sino a percepirne le emozioni è tanto difficile, quanto però importante, fondamentale.

Avvicinarci a loro è l’unico modo che abbiamo per poter convin-cerli che è arrivato il momento di lottare.

La vita non finisce con la malattia: anzi, per molti di loro - come per Dafne - la vita ricomincia dalla malattia.

E noi abbiamo cercato di avvicinarci a loro in punta di piedi, senza sconvolgere ancora di più quel mondo che essi, ora, vedono minato da tutto e tutti.

Attraverso colloqui, osservazioni e scritti di vario genere, dal 2007

abbiamo raccolto incertezze, perplessità, esitazioni e richieste di pa-zienti e famiglie. Sulla base di essi ci siamo impegnati a trascrivere informazioni mediche, pratiche e logistiche, che fossero utili ai nostri giovani pazienti, utilizzando un linguaggio comunicativo adeguato ai nostri destinatari. Tutto è stato pianificato e poi attuato con il coin-volgimento diretto dei pazienti stessi.

I libri e gli stampati prodotti dall’Area Giovani del CRO dal 2008 al 2011 sono stati pensati e redatti a misura di paziente.

Il libro Non chiedermi come sto, ma dimmi cosa c’è fuori è una rac-colta di testimonianze circa l’esperienza di malattia2: da questi brani emergono il coraggio e la fragilità, nonché la paura e la vitalità dei ragazzi e di chi loro resta accanto.

In RadioTrolla3 è narrata una favola che, attraverso le parole e le immagini, spiega ai bambini la radioterapia, il percorso terapeutico che dovranno affrontare, e li orienta rispetto alla ‘mappa’ del Reparto. Il

2 Il libro è stato edito da Mondadori nel 2008 e ne parla supra, nel suo contributo, anche Ivana Truccolo.3 Ed. CROinforma 2011.

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libretto, realizzato con il supporto delle Associazioni GOCNE onlus, Associazione Genitori LUCA onlus ed AGMEN FVG onlus, vuole es-sere uno strumento (narrativo) per aiutare il bambino in questo per-corso difficile.

Colora la tua linfa è una brochure illustrativa dell’Area Giovani4: una carta dei servizi e dei temi principali sul percorso di malattia, configu-rata stilisticamente e graficamente per adolescenti e giovani-adulti. Il filo conduttore sono le piante con il loro continuo divenire, tanto si-mili in questo all’adolescenza. La brochure cerca di mantenere dei toni morbidi e di speranza per tutta la presentazione del progetto, volendo però, nel contempo, essere esaustiva nell’informare.

Diabolik. ZeroNegativo. Un gruppo speciale è un veicolo per la cam-pagna promozionale 2011 per la donazione di sangue5. È realizzato in collaborazione con AVIS e Diabolik-Astorina. In particolare si rivolge ai giovani, fascia d’età nella quale le donazioni cominciano ad essere meno frequenti. Lo scopo dell’iniziativa è principalmente quello di sti-molare i giovani alla donazione di sangue, attraverso un messaggio che parte dai loro coetanei ricoverati al CRO di Aviano. Il protagonista è Diabolik, personaggio noto dei fumetti, il quale vuol trasmettere il messaggio che non serve essere degli eroi per compiere un gesto così grande come la donazione di sangue.

Oltre l’acqua è un romanzo, scritto col nostro diretto impegno e supporto, dalla professoressa Alessandra Merighi6. In un’alternanza emozionale continua viene raccontata la vicenda di una ragazza in cura presso la nostra Area Giovani, in parallelo alla storia di due sue compagne di scuola, che sprecano invece la loro adolescenza nella noia e nell’alcool. Forte è la contrapposizione tra i due diversi modi di vedere e affrontare l’adolescenza e la vita, quello di chi si trova a dover lottare per sopravvivere e quello, nichilistico, di chi, non riuscendo a trovare una ragione, spreca stupidamente la sua giovinezza.

Questi scritti ci hanno fornito l’occasione per far sentire, accanto a quella forte ma non sempre vincente della medicina, la voce sussurra-

4 Ed. CROinforma 2011.5 Ed. CROinforma 2011.6 Ed. Omino Rosso 2010.

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ta delle vite nate da poco e purtroppo già impegnate in una dura lotta per la sopravvivenza7.

Il nostro percorso non è stato e non è facile: in fondo, come diceva Picasso, “ci vogliono molti anni per diventare giovani”.

Molti di più ce ne vogliono per imparare a conoscerli, i giovani, e a curarli.

Ma per fortuna la “lucetta di vita” di Dafne continua a farci da guida.

7 È straordinario come sia stato usato lo strumento della narrazione nei libri e negli stam-pati qui ricordati: nati tutti dall’ascolto attento di pazienti e familiari, cioè da un’attenzione medica alle storie di vita dei pazienti, questi ‘supporti narrativi’ del CRO mostrano come lo strumento della narrazione sia versatile e flessibile (fiabe, testimonianze, romanzi, fumetti, brochure informative) e come - dalla narrazione alla narrazione - si possa rendere almeno più chiaro, se non meno duro, il percorso terapeutico degli stessi pazienti (ndC).

MAURIZIO MASCARIN, CATERINA ELIA, DAFNE BERTONCELLOMaurizio Mascarin è medico oncologo e dirige l’Area Giovani del CRO di Aviano; Caterina Elia è una borsista presso l’Area Giovani del CRO; Dafne Bertoncello ha 17 anni ed è stata paziente presso il CRO. Pare particolar-mente significativo che abbiano voluto ‘narrare’, firmandola insieme, la storia raccontata qui (ndC).

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Le parole per dirlo

Antonio Ferrara

Nato anni fa nel carcere di massima sicurezza di Novara per dare tragitti visibili alle tante storie chiuse nei cassetti, consapevolezza tecnica e canalizzazione a tante emozioni affidate segretamente alla carta, perfezionato insieme ai detenuti delle case circondariali di Se-condigliano e di Pesaro, questo corso continua la sua esplorazione nei territori della scrittura e si connota come emersione di un lungo e partecipato percorso di impegno, sperimentazione e coinvolgimento.

Un sentiero frequentato da persone motivate a cercare - tra quo-tidiano e letterario - avanzamenti progressivi della relazione e della comunicazione, sui terreni dello stupore e del caso. Persone diverse ma tutte progressivamente sedotte dalla magia della scrittura, dalle parole saporite, cercate insieme. Persone che, fra entusiasmi e fatiche, generosità e competenze, hanno rappresentato la spinta ad andare oltre, a preparare nuove esplorazioni, a raccogliere racconti inediti.

Questa volta, dunque, in un contesto sanitario complesso e ricco di vissuti, aspettative, rimozioni, bisogni, l’idea è stata quella di provare a narrare il disagio, ad affrontare la malattia come metafora. A fare con la scrittura solidarietà.

Innanzitutto abbiamo provato a lavorare insieme, a capire che il confronto è un’opportunità e non una minaccia. Nel laboratorio si sono messi in gioco coraggiosamente - raccogliendo senza riserve una mia proposta - primario, medici, radiologi, infermieri, psicologi, bibliotecaria, pazienti, ex pazienti, genitori.

Una collaborazione senza precedenti. Tutti insieme abbiamo provato a leggere un testo letterario per

imparare a leggere noi stessi, gli altri e la realtà, lo abbiamo scompo-sto per studiarne le impalcature e le tecniche, provando a ridurre il divario fra intenzione di scrittura e prodotto finale. E abbiamo un po’ scoperto che scrivere vuol dire anche affrontare il proprio universo concettuale e la propria visione del mondo in un unico, inscindibile

II.6

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progetto di vita.Abbiamo lavorato sulla scrittura come competenza per nominare

le emozioni e per condividerle. Chi scrive sa bene che ogni lettore vuol essere chiamato per nome

e sa anche che a volte scrivere significa prendere su di sé almeno un frammento della pietra che tanti portano sul cuore.

La malattia e la morte sono sempre state oggetto di rimozione e la scrittura, invece, ha sempre avuto l’ambizione di trovare le parole giuste per dire anche l’indicibile. L’ineffabile. Il doloroso.

Scrivere vuol dire risarcire. Risarcire chi è più debole, chi non ha voce. Vuol dire riscattare la marginalità. “La letteratura è quando chi perde vince”, diceva Jean Paul Sartre.

La scrittura ci ha aiutato a creare empatia, a provare a metterci nei panni scomodi degli altri. Un modo semplice per elaborare il dolore ed organizzare la speranza.

Ci siamo illusi?Forse.Ma illudersi letteralmente significa entrare nel ludico, mettersi in

gioco.Bene, dunque, no?

ANTONIO FERRARAScrittore e formatore alla narrazione. Il testo illustra il ‘corso’ ideato per la formazione alla scrittura creativa, portato e ‘testato’ in vari contesti proble-matici, anche, appunto, in quello medico del CRO.

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In memoria di Giampiero

Emanuela Vaccher

Il dottor Giampiero Di Gennaro è arrivato qui al CRO da lontano. Si è inserito nel nostro gruppo con discrezione, è cresciuto con noi e, con il passare del tempo, è diventato per gli ammalati e per noi una figura molto rassicurante.

Era rassicurante come medico perché aveva una grande professio-nalità. Ed era rassicurante come persona perché era onesto e aveva un grande rispetto per gli altri.

In quei tragici giorni, quando era ormai evidente che non vi era più alcuna terapia efficace per la sua malattia e la sofferenza non gli lasciava un attimo di tregua, noi abbiamo vissuto un grande, duplice dramma: il dramma di perdere un amico e l’angoscia di non potergli essere utili come curanti.

Nella nostra quotidianità di operatori sanitari, siamo abituati / al-lenati a comunicare le cattive notizie e a gestire le situazioni critiche: per essere in grado di farlo, però, ci ‘corazziamo’ dentro al nostro ruolo professionale, cioè nella capacità stessa di essere pronti ad agire, di saper trovare comunque un’azione efficace, o almeno utile. È una tecnica di ‘sopravvivenza’, che ci permette di avere il distacco emotivo necessario per poter esser essere lucidi ed utili al paziente.

Ma nei tragici giorni della malattia di Giampiero la nostra corazza si era frantumata in mille pezzi. Non potevamo fuggire, non potevamo comportarci solo come amici, dovevamo continuare ad essere anche i suoi medici, privati però di quella che allora ritenevamo essere l’unica arma disponibile: la somministrazione, appunto, di una terapia efficace.

Per sopravvivere al dramma che insieme stavamo vivendo non ci rimaneva altro che scavare dentro di noi: ‘grattare’ in fondo all’animo per trovare / ritrovare il senso profondo del nostro essere medici, il senso dell’essere infermieri, in un’esperienza così doppiamente dram-matica com’è quella di dover ‘gestire’ una malattia divenuta ingestibile e com’è quella di dover accompagnare un amico verso la morte.

In questa ricerca del senso e del modo, Giampiero stesso ci è stato

II.7

106

di grandissimo aiuto.Con il suo narrarsi verbale e non-verbale, con il suo linguaggio

semplice, con la sua dignità nel soffrire: e soffrire in un luogo dove tut-ti ti conoscono non è facile. Ci ha aiutato il suo pudore nel contenere l’angoscia, che inizialmente intravedevi nelle sue domande sempre più incalzanti “Come pensi che andrà a finire...?”, e che, poi, quando non aveva più la forza di parlare, coglievi nel suo sguardo e nel tremito delle mani quando ti salutava.

Ci ha aiutato moltissimo la lucidità delle sue scelte. Mi ricordo che in quei giorni discutevamo animatamente fra di noi

quale fosse per Lui la migliore terapia di supporto. Si erano creati due gruppi: uno (ed io ero fra questi) proponeva di associare alla terapia con analgesici una blanda sedazione, nel pietoso tentativo di rendere meno traumatico il passaggio verso la morte; l’altro gruppo invece dis-sentiva perché aveva ‘ascoltato’ la sua resistenza a una pratica simile.

In questo penoso ‘bailamme’, Giampiero ha fatto la sua scelta e ha rifiutato questa procedura.

E quando ho trovato il coraggio di chiedergliene il perché (la forza stessa della sua scelta mi aveva risvegliato il coraggio di comunicare), Lui mi ha risposto: “Voglio rimanere lucido fino in fondo, io ho la mia dignità da difendere... e poi ho qui la mia gente, voglio vivere con loro... non so cosa farei senza di loro”.

Giampiero, con la sua scelta consapevole e coraggiosa, con la sua storia di “dignità” personale di uomo, con la sua visione del rapporto con l’altro, anche ma non solo professionale (“qui ho la mia gente”), ci ha insegnato che il nostro compito è anche quello di assistere l’am-malato e non solo quello di curarlo.

Assistere significa stare vicino, al capezzale: e quindi essere attenti ad ascoltare, a cogliere i desideri e i bisogni della persona e sapervi rispondere. Anche quando la cura riparativa non è più praticabile, anche quando va in mille pezzi la nostra ‘corazza’ di curanti tempestivi ed efficaci.

Giampiero ci ha insegnato ad accettare l’autonomia decisionale del paziente, che è (che deve poter essere) capace di autodeterminazione anche nella fase terminale della vita.

Era tenacemente, caparbiamente attaccato alla vita: e voleva assa-

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porarla fino in fondo, fino all’ultimo istante nella qualità e nel senso che aveva deciso di darle, nonostante la sofferenza e l’assoluta incertezza del domani.

Sono molto grata per il pezzo di strada che ho percorso con Lui, e ancora di più per quanto la storia della sua vita, fino all’ultimo, mi ha insegnato e testimoniato1.

1 Sul termine ‘assistere’, precisa il Dottor Sebastiano Castellano, medico e laureato in filo-sofia (Pensare narrando. Storie vere e storie inventate nell’attività di cura, Milano 2008, p. 20, nota 33): “’stare vicino’ è uno dei significati del verbo latino adsisto (adsistere), da cui, per assimila-zione consonantica, il tardo latino assisto (assistere) e l’identica parola italiana con le sue de-rivate”. Del tutto in linea con quanto vissuto, sentito e pensato qui dalla Dottoressa Vaccher la riflessione di Cicely Saunders, infermiera e poi medico, fondatrice, nel 1967, a Londra, del primo Hospice (il St. Cristopher), dello stesso Hospice Movement e delle cure palliative: “Per quanto solleviamo i pazienti <terminali> ... ci sarà sempre un limite dove dovremo fermarci e comprendere di essere di fatto impotenti. Sarebbe sbagliato se, in quel momento, ci dimenticas-simo che è così e facessimo finta di nulla. Sarebbe sbagliato nasconderlo, per negarlo e per illuderci che avremo sempre successo. Nel momento in cui sentiamo di non poter fare assolu-tamente nulla dobbiamo essere preparati a restare fermi dove siamo. ‘Vegliate con me’ significa, soprattutto, semplicemente ‘esserci’” (C. Saunders, Vegliate con me. Hospice, un’ispirazione per la cura della vita, tr. it. Bologna 2008 (ed. or. 2003), p. 39, corsivi miei). ‘Esserci’ appunto per ‘ascoltare’ i bisogni, i desideri di chi se ne sta andando, averne rispetto e agire di conseguenza (ndC).

EMANUELA VACCHERMedico oncologo, in servizio presso l’Oncologia Medica A del CRO di Avia-no, autore del contributo teorico, supra, Il medico e la narrazione. Qui ‘narra’ a sua volta un’esperienza di malattia oncologica, quella vissuta da un medico suo collega, anch’egli, quindi, un ‘guaritore ferito’(cfr. supra, il contributo di Marilena Bongiovanni, la mia nota 3). Pur nell’immenso dolore per la per-dita di un amico, Emanuela Vaccher dà ‘prova narrativa’ della modalità, da lei come medico proposta teoricamente, di difesa dal burnout: la relazione stessa medico-paziente. Una relazione da portarsi avanti e da viversi con professionalità e con non minore umanità, nell’ascolto stesso - e fino alla fine - delle scelte del paziente (ndC).

Appendici

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Testimonianze e storie di vitaLibri disponibili in Biblioteca CRO

Autore Titolo Editore AnnoRusso, Anna Lisa Toglietemi tutto ma non il sorriso Mondadori 2012Butland, Stephanie Come ho sconfitto il cancro: una storia vera Newton Compton 2012Natalicchio, Paola Il regno di Op: storie incredibili dei bambini invincibili di Oncologia pediatrica La meridiana 2012Gabrieli, Giulia Un gancio in mezzo al cielo Paoline 2012Ervas, Fulvio Se ti abbraccio non aver paura Marcos y Marcos 2012Di Eleonora, Lidia Sono guarita dal cancro La Riflessione 2012Verga, Massimiliano Zigulì Mondadori 2012Da Ros, Giada Stanchi: vivere con la sindrome da fatica cronica SBC 2012Pivetti, Veronica Ho smesso di piangere Mondadori 2012Marzano, Michela Volevo essere una farfalla: come l’anoressia mi ha insegnato a vivere Mondadori 2011Pacchini, Monica La scoperta: un tumore all’orizzonte La Bancarella 2011Bernardi, Linda ... [et al.] Nuova stagione: storie di donne alle prese col cancro In dialogo 2011CRO di Aviano Continueranno a fiorire stagioni: pensieri raccolti in un istituto tumori, illustrati da giovani studenti CRO di Aviano 2011Soriente, Omar La vita allo specchio Kimerik 2011Fontanella, Lucia La comunicazione diseguale: ricordi di ospedale e riflessioni linguistiche Il Pensiero Scientifico 2011Abate, Francesco; Mastrofranco, Saverio Chiedo scusa Einaudi 2010

CRO di Aviano CIP non ha paura: racconto per immagini e testimonianze di pazienti anziani in cura presso l’Oncologia Medica del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano CRO di Aviano 2010

Reginato, Adriana Amazzone The Principe Editore 2010Fondazione Federico Calabresi (a cura di) La parola alle pazienti: storie di vita di giovani donne con tumore al seno Pubblimax 2010

Morelli, Patrizia Col senno di poi Nuovi autori 2010Biasini, Giorgia Come una funambola: dieci anni in equilibrio sul cancro Cromografica Roma 2010Carr, Kris Ho il cancro, vado a comprarmi un rossetto Piemme 2010Mandelli, Franco Ho sognato un mondo senza cancro Sperling & Kupfer 2010Calabrese, Pietro L’albero dei mille anni: all’improvviso un cancro, la vita all’improvviso Rizzoli 2010Cardaci, Giacomo La formula chimica del dolore Mondadori 2010Salvatore, Fabio La paura non esiste Aliberti 2010Audino, Sergio Le mie sette vite: chiamando cancro il cancro Flaccovio 2010

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Aggiornamento: 31.08.2012

Autore Titolo Editore AnnoRusso, Anna Lisa Toglietemi tutto ma non il sorriso Mondadori 2012Butland, Stephanie Come ho sconfitto il cancro: una storia vera Newton Compton 2012Natalicchio, Paola Il regno di Op: storie incredibili dei bambini invincibili di Oncologia pediatrica La meridiana 2012Gabrieli, Giulia Un gancio in mezzo al cielo Paoline 2012Ervas, Fulvio Se ti abbraccio non aver paura Marcos y Marcos 2012Di Eleonora, Lidia Sono guarita dal cancro La Riflessione 2012Verga, Massimiliano Zigulì Mondadori 2012Da Ros, Giada Stanchi: vivere con la sindrome da fatica cronica SBC 2012Pivetti, Veronica Ho smesso di piangere Mondadori 2012Marzano, Michela Volevo essere una farfalla: come l’anoressia mi ha insegnato a vivere Mondadori 2011Pacchini, Monica La scoperta: un tumore all’orizzonte La Bancarella 2011Bernardi, Linda ... [et al.] Nuova stagione: storie di donne alle prese col cancro In dialogo 2011CRO di Aviano Continueranno a fiorire stagioni: pensieri raccolti in un istituto tumori, illustrati da giovani studenti CRO di Aviano 2011Soriente, Omar La vita allo specchio Kimerik 2011Fontanella, Lucia La comunicazione diseguale: ricordi di ospedale e riflessioni linguistiche Il Pensiero Scientifico 2011Abate, Francesco; Mastrofranco, Saverio Chiedo scusa Einaudi 2010

CRO di Aviano CIP non ha paura: racconto per immagini e testimonianze di pazienti anziani in cura presso l’Oncologia Medica del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano CRO di Aviano 2010

Reginato, Adriana Amazzone The Principe Editore 2010Fondazione Federico Calabresi (a cura di) La parola alle pazienti: storie di vita di giovani donne con tumore al seno Pubblimax 2010

Morelli, Patrizia Col senno di poi Nuovi autori 2010Biasini, Giorgia Come una funambola: dieci anni in equilibrio sul cancro Cromografica Roma 2010Carr, Kris Ho il cancro, vado a comprarmi un rossetto Piemme 2010Mandelli, Franco Ho sognato un mondo senza cancro Sperling & Kupfer 2010Calabrese, Pietro L’albero dei mille anni: all’improvviso un cancro, la vita all’improvviso Rizzoli 2010Cardaci, Giacomo La formula chimica del dolore Mondadori 2010Salvatore, Fabio La paura non esiste Aliberti 2010Audino, Sergio Le mie sette vite: chiamando cancro il cancro Flaccovio 2010

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Autore Titolo Editore Anno

Merighi, Alessandra Oltrelacqua: dai racconti dei ragazzi dell’Area Giovani del CRO di Aviano e di alcune studentesse L’Omino Rosso 2010

De Bac, Margherita Noi, quelli delle malattie rare Sperling & Kupfer 2010Crespi, Paolo Vado a farmi la chemio e torno Rizzoli 2009Vighy, Cesarina L’ultima estate Fazi 2009Ascione, Antonio Abbiamo vinto: insieme Messaggero 2009Autori vari Alla luce del sole: storie di esperienze vissute da persone sieropositive MNL 2009Salvatore, Fabio Cancro, non mi fai paura Aliberti 2009

Pantani, Pierangela Da velocista a maratoneta: come ho scoperto la tenacia del maratoneta per affrontare e combattere la malattia Piccin 2009

Saberogi, Maria Grazia Domani è un altro giorno Edizioni Joelle 2009Boldrini, Mauro Ho vinto io: guarire dal tumore del seno: testimonianze e interventi Giunti Demetra 2009Naretto, Giuseppe; Vergano, Marco (a cura di) Il passo della notte Il Pensiero Scientifico 2009

Bidinost, Milena Mi riprendo il biglietto: un nuovo cielo dopo la chemio L’Omino Rosso 2009

Spadola, Cinzia Nel segno del cancro Sampognaro & Pupi Editori Associati 2009

Ménard, Sylvie Si può curare: la mia storia di oncologa malata di cancro Mondadori 2009Sannucci, Corrado A parte il cancro tutto bene : io e la mia famiglia contro il male Mondadori 2008Pedroni, Massimo Alla salute!: vivere contro la sclerosi multipla Memori 2008Pellegrini, Patrizia La luce di quegli occhi che hanno visto oltre Edizioni Villadiseriane 2008Stap, Sophie van der La ragazza dalle 9 parrucche Bompiani 2008

Merighi, Lara (a cura di) Mi fa male la testa: la nostra diversità: nel silenzio della solitudine per questo nostro male invisibile

Centro Stampa Comunale Ferrara 2008

CRO di Aviano Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori: testimonianze di giovani malati di tumore Mondadori Electa 2008Rizzoli, Melania Perché proprio a me?: come ho vinto la mia battaglia per la vita Sperling & Kupfer 2008Ducoli, Rosanna Quel vestito troppo stretto Pointcommunication 2008Lindquist, Ulla-Carin Remare senza remi: un libro sulla vita e sulla morte Marsilio 2008De Bac, Margherita Siamo solo noi: le malattie rare: storie di persone eccezionali Sperling & Kupfer 2008De Pinto, Maria Lucia Stagioni di vita Città aperta 2008Piga, Cristina Ho il cancro e non ho l’abito adatto Mursia 2007Macchi, Fabrizio Più forte del male: la mia sfida contro ogni limite Piemme 2007Panini Finotti, Alessandro Mie belle lune perdute, ovvero Cronaca di un dolore Graus 2006CRO di Aviano Passaggio al CRO: voci di pazienti, volontari e cittadini CRO di Aviano 2006Bonadonna, Gianni Coraggio, ricominciamo: tornare alla vita dopo un ictus, un medico racconta Baldini Castoldi Dalai 2005

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Autore Titolo Editore Anno

Merighi, Alessandra Oltrelacqua: dai racconti dei ragazzi dell’Area Giovani del CRO di Aviano e di alcune studentesse L’Omino Rosso 2010

De Bac, Margherita Noi, quelli delle malattie rare Sperling & Kupfer 2010Crespi, Paolo Vado a farmi la chemio e torno Rizzoli 2009Vighy, Cesarina L’ultima estate Fazi 2009Ascione, Antonio Abbiamo vinto: insieme Messaggero 2009Autori vari Alla luce del sole: storie di esperienze vissute da persone sieropositive MNL 2009Salvatore, Fabio Cancro, non mi fai paura Aliberti 2009

Pantani, Pierangela Da velocista a maratoneta: come ho scoperto la tenacia del maratoneta per affrontare e combattere la malattia Piccin 2009

Saberogi, Maria Grazia Domani è un altro giorno Edizioni Joelle 2009Boldrini, Mauro Ho vinto io: guarire dal tumore del seno: testimonianze e interventi Giunti Demetra 2009Naretto, Giuseppe; Vergano, Marco (a cura di) Il passo della notte Il Pensiero Scientifico 2009

Bidinost, Milena Mi riprendo il biglietto: un nuovo cielo dopo la chemio L’Omino Rosso 2009

Spadola, Cinzia Nel segno del cancro Sampognaro & Pupi Editori Associati 2009

Ménard, Sylvie Si può curare: la mia storia di oncologa malata di cancro Mondadori 2009Sannucci, Corrado A parte il cancro tutto bene : io e la mia famiglia contro il male Mondadori 2008Pedroni, Massimo Alla salute!: vivere contro la sclerosi multipla Memori 2008Pellegrini, Patrizia La luce di quegli occhi che hanno visto oltre Edizioni Villadiseriane 2008Stap, Sophie van der La ragazza dalle 9 parrucche Bompiani 2008

Merighi, Lara (a cura di) Mi fa male la testa: la nostra diversità: nel silenzio della solitudine per questo nostro male invisibile

Centro Stampa Comunale Ferrara 2008

CRO di Aviano Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori: testimonianze di giovani malati di tumore Mondadori Electa 2008Rizzoli, Melania Perché proprio a me?: come ho vinto la mia battaglia per la vita Sperling & Kupfer 2008Ducoli, Rosanna Quel vestito troppo stretto Pointcommunication 2008Lindquist, Ulla-Carin Remare senza remi: un libro sulla vita e sulla morte Marsilio 2008De Bac, Margherita Siamo solo noi: le malattie rare: storie di persone eccezionali Sperling & Kupfer 2008De Pinto, Maria Lucia Stagioni di vita Città aperta 2008Piga, Cristina Ho il cancro e non ho l’abito adatto Mursia 2007Macchi, Fabrizio Più forte del male: la mia sfida contro ogni limite Piemme 2007Panini Finotti, Alessandro Mie belle lune perdute, ovvero Cronaca di un dolore Graus 2006CRO di Aviano Passaggio al CRO: voci di pazienti, volontari e cittadini CRO di Aviano 2006Bonadonna, Gianni Coraggio, ricominciamo: tornare alla vita dopo un ictus, un medico racconta Baldini Castoldi Dalai 2005

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Autore Titolo Editore AnnoNemez, Luisa Ad un passo dalla meta: il tumore della mammella attraverso 5000 anni di storia Villaggio del Fanciullo 2004CRO di Aviano Caro G.A.S. volevo dirti che...: il quaderno di pazienti e familiari al CRO CRO di Aviano 2004Schmitt, Eric-Emmanuel Oscar e la dama in rosa Rizzoli 2004Casciaro, Elvira Pianeta K Il coscile 2004Terzani, Tiziano Un altro giro di giostra Longanesi 2004Scrimin, Federica Un dottore tutto matto, sulla testa un gatto: Bruno Pincherle, storia e storie di un pediatra Editoriale Associati 2004

Cancro di segno e... di fatto: storia di Stefania IEO 2002La forza della consapevolezza: storia di Claudia IEO 2002

Sgarzini, Patrizia; Nanni, Paolo (a cura di)

Le emozioni non si fermano mail: un libro verità su chi vive con l’HIV AUSL9 Macerata 2002

Bonicelli, Emilio Ritorno alla vita: il cammino di un uomo che lotta per vincere la leucemia Jaca Book 2002Pietrantoni Lamastra, Romana ...di me: 1988-1992 IEO 2001

Biro, David Cento giorni: il mio viaggio da medico a paziente Ponte delle grazie 2001Kreinheder, Albert Il corpo e l’anima: l’altra faccia della malattia Moretti & Vitali 2001Ciampi, Alessandra Amare la vita Belforte & C. 2000Pontiggia, Giuseppe Nati due volte Mondadori 2000

Io e quel nemico dentro di me: storia di Paola IEO 2000Nemez, Luisa One woman...: many women... Lint 2000Giacalone, Annalisa (a cura di) Quando il male è ormai alle spalle: ricordalo sempre: oggi di cancro si può guarire Angeli 2000Nemez, Luisa Una donna... tante donne... Lint 2000Sourkes, Barbara M. Il tempo tra le braccia: l’esperienza psicologica del bambino affetto da tumore Raffaello Cortina Editore 1999Attivecomeprima (a cura di) ... E poi cambia la vita: parlano i medici, le donne, gli psicologi Angeli 1998Hennezel, Marie de La morte amica BUR 1998Previti Totaro, Rory La signora Acca Uno Vento Sociale 1997Buzzi, Silvio Storia di una ricerca privata Nemo 1996Cortello, Stefania Voglia di vivere Edizioni Camilliane 1996

Buda, Patrizia Nella buona e nella cattiva sorte: viaggio con le famiglie nell’assistenza all’ammalato grave a casa Istituto Oncologico Romagnolo 1995

Calcagno, Giorgio (a cura di) Gigi Ghirotti nel tunnel della malattia La Stampa 1994Verda, Sandra Il male addosso Bollati Boringhieri 1994Burrone, Ada Il gusto di vivere Mondadori 1993Belcastro, Vittoria Un medico racconta: come ho vinto il cancro : un mito che diventa realtà Luigi Pellegrini 1992Bortot, Daniela; De Bortoli, Gigetto (a cura di) Silvana Istituto bellunese di

ricerche sociali e culturali 1978

de Beauvoir, Simone Una morte dolcissima Einaudi 1966

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Autore Titolo Editore AnnoNemez, Luisa Ad un passo dalla meta: il tumore della mammella attraverso 5000 anni di storia Villaggio del Fanciullo 2004CRO di Aviano Caro G.A.S. volevo dirti che...: il quaderno di pazienti e familiari al CRO CRO di Aviano 2004Schmitt, Eric-Emmanuel Oscar e la dama in rosa Rizzoli 2004Casciaro, Elvira Pianeta K Il coscile 2004Terzani, Tiziano Un altro giro di giostra Longanesi 2004Scrimin, Federica Un dottore tutto matto, sulla testa un gatto: Bruno Pincherle, storia e storie di un pediatra Editoriale Associati 2004

Cancro di segno e... di fatto: storia di Stefania IEO 2002La forza della consapevolezza: storia di Claudia IEO 2002

Sgarzini, Patrizia; Nanni, Paolo (a cura di) Le emozioni non si fermano mail: un libro verità su chi vive con l’HIV AUSL9 Macerata 2002

Bonicelli, Emilio Ritorno alla vita: il cammino di un uomo che lotta per vincere la leucemia Jaca Book 2002Pietrantoni Lamastra, Romana ...di me: 1988-1992 IEO 2001

Biro, David Cento giorni: il mio viaggio da medico a paziente Ponte delle grazie 2001Kreinheder, Albert Il corpo e l’anima: l’altra faccia della malattia Moretti & Vitali 2001Ciampi, Alessandra Amare la vita Belforte & C. 2000Pontiggia, Giuseppe Nati due volte Mondadori 2000

Io e quel nemico dentro di me: storia di Paola IEO 2000Nemez, Luisa One woman...: many women... Lint 2000Giacalone, Annalisa (a cura di) Quando il male è ormai alle spalle: ricordalo sempre: oggi di cancro si può guarire Angeli 2000Nemez, Luisa Una donna... tante donne... Lint 2000Sourkes, Barbara M. Il tempo tra le braccia: l’esperienza psicologica del bambino affetto da tumore Raffaello Cortina Editore 1999Attivecomeprima (a cura di) ... E poi cambia la vita: parlano i medici, le donne, gli psicologi Angeli 1998Hennezel, Marie de La morte amica BUR 1998Previti Totaro, Rory La signora Acca Uno Vento Sociale 1997Buzzi, Silvio Storia di una ricerca privata Nemo 1996Cortello, Stefania Voglia di vivere Edizioni Camilliane 1996

Buda, Patrizia Nella buona e nella cattiva sorte: viaggio con le famiglie nell’assistenza all’ammalato grave a casa Istituto Oncologico Romagnolo 1995

Calcagno, Giorgio (a cura di) Gigi Ghirotti nel tunnel della malattia La Stampa 1994Verda, Sandra Il male addosso Bollati Boringhieri 1994Burrone, Ada Il gusto di vivere Mondadori 1993Belcastro, Vittoria Un medico racconta: come ho vinto il cancro : un mito che diventa realtà Luigi Pellegrini 1992Bortot, Daniela; De Bortoli, Gigetto (a cura di) Silvana Istituto bellunese di

ricerche sociali e culturali 1978

de Beauvoir, Simone Una morte dolcissima Einaudi 1966

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Libri di testimonianze pubblicati dai relatori partecipanti al convegno

Domani è un altro giorno / Maria Grazia Saberogi. - S. l. : edizioni Joelle, [2009]. - 126 p. ; 17 cm. ISBN 9788890321207

Pietra filosofale della salute: filosofia antica e formazione in medicina / Linda M. Napolitano Valditara; a cura di Francesca Fermeglia. - Verona; Bolzano: QuiEdit, 2011. - 205 p. ; 21 cm. ISBN 9788864640532

Le mie sette vite: chiamando cancro il cancro / Sergio Audino. - Palermo: Dario Flaccovio Editore, [2010]. - 269 p. ; 21 cm.ISBN 9788877589255

È la storia di un medico-paziente, della sua esperienza umana e professionale nella malattia oncologica. La prevenzione, la diagnosi precoce e la ricerca scientifica oggi rappresentano le più importanti formule vincenti nella lotta contro il cancro, per la sua definitiva sconfitta. Statisticamente uccide più una diagnosi tardiva che lo stesso tumore.

È il racconto autobiografico di Maria Grazia guarita dalla leucemia. È l’esperienza vissuta durante la sua sofferenza, che vuole essere d’aiuto a tutti coloro che sono malati così gravemente.

Il volume rielabora i contributi offerti da una filosofa nell’arco di sei anni ad operatori sanitari. Sono trattate anzitutto le nozioni di ‘salute’ e ‘cura’ e quella di una distribuzione equa del bene stesso ‘salute’; si riflette poi sull’impiego in campo sanitario della ‘narratività’ (medicina narrativa) e sui problemi del dolore e della morte. Il volume, diretto non solo ad addetti ai lavori (filosofi od operatori sanitari), documenta una ‘pratica filosofica’: cioè l’impiego di testi e nozioni propri della filosofia antica in un campo - quello della salute, del dolore e della stessa morte - che ci coinvolge tutti in modo profondo.

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Libri di testimonianze pubblicati dal CRO

Caro G.A.S. volevo dirti che...: il quaderno di pazienti e familiari al CRO: Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2004 / redazione a cura della Biblioteca per i Pazienti del CRO di Aviano. - 2a ed. - Aviano: Centro di Riferimento Oncologico, [2004]. - 96 p. : ill. color. ; 21 cm.

Passaggio al CRO: voci di pazienti, volontari e cittadini / redazione a cura della Biblioteca per i Pazienti del CRO di Aviano. - Aviano: Centro di Riferimento Oncologico; Comune, [2006]. - 141 p. : ill. ; 24 cm.

È una raccolta di scritti e disegni nata dall’idea di un Gruppo di Animatori Sociali (G.A.S. appunto), che hanno svolto attività di animazione al CRO dal 1998 al 2001. Questi volontari hanno messo a disposizione di tutti un “quadernone” che, a poco a poco, si è riempito di pensieri, poesie, lettere, disegni, ricette... che le persone desideravano condividere con gli altri. La Biblioteca per i Pazienti del CRO in collaborazione con la Biblioteca Civica del Comune di Aviano ha pensato di ‘dare voce’ a questo scrigno di umanità. La prima edizione, del 2002, è piaciuta a quanti vi si sono avvicinati tanto che, nel 2004, ne è seguita una seconda, aggiornata, riveduta e corretta, ed è iniziata una tradizione...

Oltre a 500 scritti di pazienti, familiari e persone che, a vario titolo frequentano l’ospedale, sono qui raccolte testimonianze di Volontari che collaborano con l’Istituto, allo scopo di rendere più accogliente l’assistenza, e pensieri di cittadini del Comune di Aviano che ci danno un’idea di come il CRO venga percepito nel territorio.Anche in questo caso la richiesta da parte di pazienti e familiari è stata così elevata che le copie, in breve tempo, sono andate esaurite. È prevista, quindi, una nuova e originale edizione per il 2010.

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Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori : testimonianze di giovani malati di tumore / testi scritti dai ragazzi in cura presso l’Area Giovani del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano; responsabili del progetto Maurizio Mascarin e Ivana Truccolo; foto di Attilio Rossetti; disegni di Ugo Furlan]. - Milano: Mondadori Electa; Aviano: Centro di Riferimento Oncologico, ©2008. - 213 p. : ill. ; 23 cm.

CIP non ha paura : racconto per immagini e testimonianze di pazienti anziani in cura presso l’Oncologia Medica del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano / a cura di Dipartimento di Oncologia Medica e Biblioteca per i Pazienti del CRO di Aviano; fotografie di Pierpaolo Mittica da un’idea del Prof. Umberto Tirelli. - Aviano: Centro di Riferimento Oncologico; Lestans: Centro Ricerca e Archiviazione della Fotografia, ©2010. - 154 p. : in gran parte ill. ; 22 x 24 cm.

Nel 2006 prende forma, al CRO di Aviano, un’Area dove protagonisti indiscussi sono i giovani ospiti segnati dalla malattia oncologica. In ogni stanza e nel corridoio vengono collocati dei diari: una sorta di invito ai ragazzi a lasciare un ricordo di sé attraverso scritti, pensieri, poesie, lettere nei quali esprimere sensazioni, angosce, paure, ma anche momenti di felicità e soddisfazione quando il male viene domato e sconfitto. Dopo due anni, i medici e gli operatori del CRO hanno letto i quaderni e raccolto i ‘fiori’ che in essi sono sbocciati. A questi scritti hanno affiancato quelli delle mamme, degli amici, degli operatori, quelli indirizzati direttamente ai dottori, gli sms arrivati ai loro telefoni, i messaggi spediti ai loro indirizzi email. Ne è nato un volume di testimonianze, reso vivo e ‘parlante’ dalle straordinarie foto scattate da Attilio Rossetti ai giovani ricoverati e dai fantasiosi disegni di Ugo Furlan.

Nel corso del 2007, sulla base di una lunga tradizione, è stato avviato un programma di cura per l’anziano oncologico presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano. Da allora i pazienti seguiti sono quasi cinquecento. Per alcuni di essi la malattia è diventata un’esperienza di vita e

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Continueranno a fiorire stagioni: pensieri raccolti in un istituto tumori, illustrati da giovani studenti / a cura di Centro di Riferimento Oncologico di Aviano-Biblioteca Pazienti; Istituto Statale d’Arte-Liceo Artistico Enrico Galvani di Cordenons. - Aviano: CRO, [2011]. - 173 p. : ill. ; 21 x 30 cm.

Le centinaia di testimonianze, annotate nei quaderni tra il 2006 e il 2011 da tante persone “di passaggio” al CRO, trovano in quest’opera un completamento nell’espressione visiva del disegno, del colore, delle elaborazioni grafiche e delle fotografie che i ragazzi hanno realizzato, ispirandosi non solo ai testi, ma anche alle sensazioni derivate dalla lettura e dallo scambio di emozioni con quanti, ogni giorno, per motivi diversi, entrano in contatto con l’ospedale. Nel libro, sofferenza, voglia di riscatto, rabbia, fede, speranza si succedono in un tempo sempre uguale e sempre diverso come in un alternarsi di stagioni che hanno tutte un loro senso: non si apprezzerebbe la primavera se non ci fosse l’inverno. Sentimenti che anche le tavole figurate rispecchiano, utilizzando le tecniche più disparate, attraverso un dialogo nel quale entrano in gioco persone in cura, persone che curano, persone che si prendono cura e le giovani emozioni dei ragazzi di scuola. Un confronto audace e sincero tra la sofferta maturità di chi è paziente e la freschezza giovanile di chi ancora studia e muove i propri passi nelle prime stagioni della vita.

di solidarietà con il personale e con il luogo di cura.Da qui è nata l’idea di dar voce ai pazienti anziani, protagonisti consapevoli delle scelte terapeutiche che sono state loro offerte. Sette anziani, sette storie. L’occhio del fotografo ne propone un ritratto insolito: dentro l’ospedale ma anche fuori, nei luoghi casalinghi in cui vivere la propria malattia, nella consuetudine dei gesti quotidiani. Sfogliare questo libro, lasciarsi sorprendere dalle immagini, accompagnate da testi sensibili e attenti, permette di capire perché “Cip non ha paura”.

Finito di stampare a settembre 2012da Grafiche Risma cod. 111628

Il marchio FSC® identifica i prodotti contenenti legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici

Questa pubblicazione è stata realizzata grazie alle donazioni del 5 per Mille al CRO

destinate alla ricerca che cura

Codice Fiscale CRO Aviano:00623340932

5 PER

MILLE AL CRO

Il contribuente che, con il 5 per mille della dichiarazione dei redditi, vuole sostenere la ricerca scientifica al CRO dovrà inserire il Codice Fiscale del CRO nello spazio“FINANZIAMENTO DELLA RICERCA SANITARIA” e firmare nel riquadro corrispondente.

Le scelte di destinazione dell’otto per mille dell’Irpef e del cinque per mille dell’Irpef sono indipendenti tra loro e possono essere espresse entrambe.

CROinforma è la collana di informazione divulgativa del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, rivolta a pazienti e cittadini. Tratta argomenti inerenti alla ricerca, prevenzione, cura dei tumori. Prevede tre sezioni Piccole Guide, Pieghevoli, Atti. Si articola in diverse serie: LA RICERCA CHE CURA; INFORMAZIONI SCIENTIFICHE; PERCORSI DI CURA; ISTRUZIONI ALL’USO DI...; AREA GIOVANI; CIFAV INFORMAZIONE SUL FARMACO