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29 Berlioz e a Liszt è garantita l'immortalità. Il loro diritto ad un posto nel pantheon dei compositori del diciannovesimo secolo è ormai riconosciuto in modo incontestato. Eppure questo posto è ambi- guo. Le peggiori critiche rivolte loro da vivi vengono ripetute ancora oggi dai musicisti: Liszt è mediocre e superficialmente brillante, Berlioz è incompetente. Le accuse sono straordinariamente pesanti e precise. Le melodie di Liszt sono banali, le sue armonie appari- scenti, le sue forme ampie, ripetitive e poco interessanti. Ber¬lioz non era capace di scrivere contrappunti corretti, la sua armonia è piena di solecismi grammaticali che uno studente del secondo anno di conservatorio saprebbe evitare, e il suo senso della forma era imperfetto. Si po- trebbe pensare, a ragione, che sia particolarmente eroico aver raggiunto la grandezza mal¬grado tali carenze. Liszt e Berlioz furono, fin dall'inizio, alleati naturali. Nel Delle melodie di Liszt si è detto che sono banali, delle armonie è stata sottolineata l'appariscenza, delle forme l'ampiezza ma anche la ripetitività. Ma come ha fatto allora a raggiungere la grandezza e l'immortalità? Ce lo spiega l’ illustre studioso, in questa recensione che ha lo spessore di un saggio ricchissimo ed articolato Per celebrare il secondo centenario della nascita Il nuovo mondo sonoro di Liszt di Charles Rosen A

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Berlioz e a Liszt è garantita l'immortalità. Il lorodiritto ad un posto nel pantheon dei compositori deldiciannovesimo secolo è ormai riconosciuto inmodo incontestato. Eppure questo posto è ambi-guo. Le peggiori critiche rivolte loro da vivi vengonoripetute ancora oggi dai musicisti: Liszt è mediocre esuperficialmente brillante, Berlioz è incompetente.Le accuse sono straordinariamente pesanti e precise.

Le melodie di Liszt sono banali, le sue armonie appari-scenti, le sue forme ampie, ripetitive e poco interessanti.Ber¬lioz non era capace di scrivere contrappunti corretti,la sua armonia è piena di solecismi grammaticali che unostudente del secondo anno di conservatorio saprebbeevitare, e il suo senso della forma era imperfetto. Si po-trebbe pensare, a ragione, che sia particolarmente eroicoaver raggiunto la grandezza mal¬grado tali carenze.Liszt e Berlioz furono, fin dall'inizio, alleati naturali. Nel

Delle melodie di Liszt si è detto che sono banali, delle armonie è stata sottolineata l'appariscenza,delle forme l'ampiezza ma anche la ripetitività.

Ma come ha fatto allora a raggiungere la grandezza e l'immortalità? Ce lo spiega l’ illustre studioso, in questa recensione che ha lo spessore di un saggio

ricchissimo ed articolato

Per celebrare il secondocentenario della nascita

Il nuovo mondo sonoro di Liszt

di Charles Rosen

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1830 il diciannovenne Liszt ascoltò a Parigi la primadella ‘Symphonie fantastique’ e divenne uno dei di-fensori di Berlioz, che aveva otto anni più di lui. Fu lapubblicazione dell'adattamento per pianoforte dellasinfonia da parte di Liszt (un adattamento che fueseguito in pubblico molte volte), che fornì l'occa-sione per la famosa recensione critica di Schumann,la critica più elogiativa e favorevole che Berliozavrebbe mai ricevuto. Superficialmente Liszt e Ber-

lioz avevano molto in comune: tutti e due sfrutta-rono un'immagine pubblica diabolica e godettero diun gusto gotico per il macabro e per tutto il suo ar-mamentario: il sabba delle streghe, la marcia verso ilpatibolo, la danza della morte. Furono ambedue vir-tuosi della direzione e contribuirono, forse più diqualsiasi altro contemporaneo, a creare l'immaginemoderna del direttore d'orchestra quale "star" inter-nazionale. La musica che scrissero tuttavia era enor-memente diversa, e le controversie che suscitaronofurono di natura molto differente. Il mito romantico che i grandi artisti siano miscono-sciuti da vivi è stato a ragione demolito dagli storici.Al suo posto, tuttavia, essi hanno creato un antimitoegualmente sciocco: la credenza che gli artisti, le cuiopere sono sopravvissute ai danni prodotti daltempo, furono compresi meglio dai contemporaneiche dalle generazioni posteriori. La verità sta, in ge-nere, nel contrario. Il tempo tende a sradicate vec-chie credeze errate. (Ne aggiunge anchenaturalmente di nuove, ma queste raramente sono

perniciose o tenaci come le originali e scompaionofacilmente con i rapidi cambiamenti della moda cri-tica). Nessuno pensa più che le modulazioni di Mo-zart siano troppo complesse o che i suoi spartiticontengano troppe note, che Beethoven sia stato ungenio indisciplinato e barbarico o che la musica diWagner sia un fragore incomprensibile; e rimangonosolo pochi conservatori intransigenti a scrivere cheChopin non era in grado di gestire forme ampie, che

Beethoven era un melodista povero, o che la musicadi Schoenberg è inespressiva. La lontananza storicaha attutito, ammorbidito e velato quello che unavolta sembrava difficile e inaccessibile in questicompositori, e li ha fatti giustamente apparire quasiinfallibili, giustamente, perché gli stardards secondoi quali possiamo giudicarli derivano so¬prattutto dallo studio delle loro opere. La polemica su Liszt e Berlioz non è scemata, anchese viene riconosciuta la loro grandezza. La persi-stenza delle vecchie critiche è eccezionale, e sugge-risce che l'importanza di questi due compositoriviene ancora avvertita in modo istintivo, ma com-presa solo in modo imperfetto, e che non abbiamoancora acquisito un approccio critico alla loro opera,un modo per analizzare ciò di cui erano capaci. Duelibri recenti: l'analisi che Julian Rushton ha propostodella tecnica compositiva di Berlioz e il primo vo-lume della biografia di Liszt di Alan Walker, ambe-due molto belli, dovrebbero aiutarci ad affrontarequesti problemi e ad eliminare alcune delle vecchie

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erronee interpretazioni. Il professor Walker ha raggiunto un livello di accura-tezza non confrontabile con i precedenti biografi diLiszt, e padroneggia l'enorme quantità di materialedi consultazione con disinvoltura e perfino con uncerto piacere. Il suo primo volume, il cui sottotitolo è‘Gli anni del virtuoso’, ci porta dall'infanzia di Liszt inUngheria attraverso i suoi studi a Vienna, all'età diundici anni, col più famoso alunno di Beethoven,Carl Czerny, fino ai suoi trionfi parigini nei primi anniTrenta, alla sua creazione del moderno recital piani-stico, ai suoi viaggi in Europa, per finire col suo sor-prendente ritiro dal concertismo all'età ditrentacinque anni. Dopo quella data, come dice Wal-ker, "non suonò mai in pubblico per profitto". Walker si interessa soprattutto all'uomo e solo ca-sualmente al compositore, sebbene, ovviamente,ami e apprezzi la musica. E’ lucido e imparziale sullafamosa relazione tra Liszt e Marie d'Agoult che ab-bandonò il marito per il ventunenne musicista e glidette tre bambini (la seconda figlia Cosima avrebbea sua volta abbandonato il marito Hans von Bulowper Richard Wagner). L'amara fine di questa storiaviene narrata in modo sobrio da Walker che scegliecon cura la sua interpretazione tra le varie versioniriportate negli anni, la maggior parte ispirate alla piùevidente cattiva fede. È prudente e persuasivo ri-guardo al numero degli scritti in prosa di Liszt chepossono essergli realmente attribuiti, e ha dimo-strato che, meno di quanto a volte si pensi, furonoscritti da Marie d'Agoult e, più tardi, dalla PrincipessaSayn-Wittgenstein. La narrazione è permeata afondo dal background politico e sociale della car-riera di Liszt. Ciò che emerge più chiaramente è la straordinaria li-bertà intellettuale e spirituale di Liszt che dedicògran parte della sua vita alla causa dei suoi amicicompositori. Non serbò mai rancori. Continuò a di-fendere e ad eseguire la musica di Schumann, per-fino dopo che Schumann lo ebbe cacciato di casa(perché Liszt si era presentato molto tardi ad unpranzo e aveva espresso commenti sprezzanti suMendelssohn). A paragone dei suoi contemporanei -Chopin, Bellini, Rossini, Wagner, e perfino Berlioz -era tollerante, gentile e generoso. Era legittima-mente vanitoso e spesso poco profondo, sia comescrittore di prosa che di musica, ma non fu precisa-mente la pro-fondità che lo rese un grande compo-sitore. Era soprattutto magnanimo. Malgrado i tentativi di essere imparziale, Walkerprende le difese di Liszt. Ci mostra i difetti, ma inmodo non troppo evidente quando può farlo. Sisforza, per esempio, di difendere Liszt dall'ac¬cusadi essere un Don Giovanni, e, in modo convincente,mette in rilievo che, a differenza di molti altri artisticontemporanei, non si prese mai la sifilide (che Wal-ker, con pudore immotivato, chiama il ‘morbus galli-

cus’). L'argomento è efficace, ma Walker aggiunge inmodo più dubbio: "A differenza del vero Don Giovanni, amava la com-pagnia femminile in modo schietto e aveva ungrande rispetto per l'intuizione e l'intelligenza fem-minile. Forse per questo motivo fu circondato datante ammiratrici sia giovani che vecchie, durantetutta la sua lunga vita. Liszt le trattava come sue parida un punto di vista intellettuale (il che, ancora unavolta, lo colloca lontano dal vero Don Giovanni chenon ha nessuna ammiratrice, dal momento che vedele donne solamente come sue prede sessuali)". Il ‘vero Don Giovanni’ e ‘l'autentico Don Giovanni’sono espressioni strane. Per Bernard Shaw (cheaveva una certa esperienza in proposito), il ‘vero’ DonGiovanni è un uomo che ama la compagnia delledonne ed è vittima involontaria dei loro desideri ses-suali; in un certo senso la cerca anche se non lavuole. Questo non riflette solo il gusto di Shaw per ilparadosso, è un ritratto esatto dei due più famosiDon Giovanni dei primi dell'Ottocento, Byron e Liszt.Byron trascorse gran parte della sua vita seguendodiete per rimanere magro e attraente, cercando lacompagnia delle donne, e, spesso, difendendosidalle loro "avances'' non gradite - infatti per alcuniperiodi della sua vita preferì i ragazzi. Liszt non eraaffatto omosessuale. Adorava semplicemente ledonne, e molte. Una delle pagine più divertenti dellibro di Walker elenca i suoi commenti sulle allieve,conservati nella biblioteca del Conservatorio di Gi-nevra: "Julie Raffard: Notevole sensibilità musicale. Manimolto piccole. Esecuzione brillante”. “Marie Demelleyer: Tecnica difettosa (se di tecnica sipuò parlare), zelo enorme, ma poco talento. Smorfiee contorsioni. Gloria a Dio nel più alto dei cieli e atutti gli Uomini di Buona Volontà”. “Ida Milliquet: Artista di Ginevra. Languida e medio-cre. Dita abbastanza buone. Abbastanza buona laposizione al pianoforte. Abbastanza "abbastanza", ilcui totale assoluto non è molto”. “Jenny Gambini: Begli occhi". Si noti che Liszt rifiutò di farsi pagare per queste le-zioni nel 1836 o per qualsiasi altra dopo i primi anni.(Walker non riporta nessun commento sugli studentimaschi. Gli studenti di Ginevra consistevano in ven-totto donne e cinque uomini). A Liszt piaceva inse-gnare alle ragazze giovani e deve essersi anchedivertito quando le donne, come scrive Walker "siprecipitavano verso di lui ogni volta che rompevauna corda di un pianoforte per farne un braccia-letto". Potremmo dire che l'onesto tentativo di Wal-ker di narrare i fatti oggettivamente, rende uncattivo servigio alla storia. In una professione comequella di Liszt, o di Byron, la leggenda è importantequanto la verità. Non ha importanza, infatti, quantevolte Liszt sia andato a letto con le donne che gli si

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buttavano tra le braccia; non fece quasi nulla perscoraggiare la sua reputazione internazionale di DonGiovanni che causò tanta angoscia a Marie d'Agoult. Walker non menziona mai (eccetto per dire che lasuonò in Russia e in Spagna) la più grande delle tra-scrizioni liriche di Liszt, la ‘Fantasia’ sull'opera di Mo-zart intitolata ‘Réminiscenses de Don Juan’.Quest'opera, scritta nel 1841 mentre Liszt partiva, trai trionfi più spettacolari della sua carriera di virtuoso,per i viaggi in Germania e Russia, ha acquisito, comeha osservato Busoni, "un significato quasi simbolicoquale vertice più alto dell'esecuzione per pianofor-ter". In essa Liszt mostrò ogni aspetto della sua in-ventiva come compositore per pianoforte. Che lenote siano di Mozart è irrilevante e l'opera è l'im-presa più personale di Liszt. Essendosi già guada-gnato una reputazione internazionale per leconquiste erotiche, Liszt deve aver saputo che ilpubblico avrebbe preso la sua fantasia come un ri-tratto personale, nella stessa maniera in cui ognunoaveva supposto che il ‘Don Giovanni’ di Byron fosseun'autobiografia. Come Mozart, ne ‘ Il flauto magico’,aveva usato la coloratura brillante come metaforadella collera e del potere, così Liszt usa qui il virtuosi-smo come una rappresentazione del dominio ses-suale. Bernard Shaw, uno dei rari critici che capì sia il‘Don Giovanni’ che le ‘Réminiscences de Don Juan’,scrisse che "l'estasi sfrenata di ‘Fin ch 'han dal vino ‘, ètrasformata da canzone in sinfonia, dall'individualeall'astratto, con innegabile intuito e potenza". Shaw,inoltre, nota che: "quando si ascolta la terribile pro-gressione dell'invito della statua che echeggia im-provvisamente attraverso le armonie cheaccompagnano il seducente ‘Andiam, andiam, miobene’ di Juan, non si può fare a meno di accettarlocome un tocco di genio, se si conosce "Don Giovannià fond". Se si conosce il ‘Don Giovanni’, conoscenzache è sempre stata la principale barriera ad un ap-prezzamento della ‘Fantasia’ di Liszt. Si deve cono-scere a memoria l'opera di Mozart e poidimenticarla. In generale le ‘Fantasie d'opera’ sono state sempreconsiderate una forma musicale di poco conto. Fu-rono disprezzate dagli ampollosi amanti della mu-sica e scomparvero in gran parte dalle sale daconcerto per molti decenni del Novecento. Le para-frasi d'opera stanno tornando oggi con il rinnovatointeresse per la musica da salotto dell'Ottocento eper l'antimodernismo neoconservatore scherzosa-mente chiamato Nuovo Romanticismo. Walker hauna buona parola da spendere per le ‘Parafrasi’ diLiszt della ‘Norma’, del ‘Rigoletto’, e del ‘Faust’. Hum-phrey Searle (in The New Grove) loda le ‘Fantasie’sulle opere di Donizetti, Bellini e Auber, e poi ag-giunge che "la ‘Fantasia sul Don Giovanni ‘è più di-scutibile anche se la trova "un pezzosoddisfacente".

Se è soddisfacente, perché dovrebbe essere discuti-bile? Chiaramente perché una cosa è appropriarsidell'opera di un compositore italiano o francese,un'altra è mettere le mani su un classico tedesco inmodo sacrilego. Perfino Busoni scrive in modo difen-sivo: "Siamo d'accordo con i puristi scrupolosi che la‘Fantasia sul Don Giovanni’ tratta argomenti sacri inmodo troppo mondano". I temi di Mozart, in breve,sono troppo raffinati per Liszt. D'altra parte le melo-die zingaresche delle ‘Rapsodie Ungheresi’ non losono abbastanza, da questo punto di vista. Spesso sisostiene che non sono neanche canzoni folk, mamusica popolare urbana priva di valore. Nulla infattiera troppo ‘basso’ o troppo ‘elevato’ per servire damateriale alle composizioni di Liszt. Questi avevapoca sensibilità per la qualità del suo materiale mu-sicale, sebbene mostrasse una sensibilità straordina-ria per la natura di esso e per ciò che con esso sipoteva fare. L'indifferenza di Liszt verso il materiale musicale è ilprincipale ostacolo ad un apprezzamento della suamusica. La maggior parte delle opere di Liszt, rima-ste oggi nel repertorio, fu scritta nel 1850 e il mate-riale musicale è o inventato da qualcun'altro, oppure(con alcune importanti eccezioni) scadente e trito,tale da irritare qualsiasi musicista di sensibilità deli-cata. Dopo il 1850 la sensibilità di Liszt verso il mate-riale divenne più raffinata e, negli anni successivi,perfino austera. Questi ultimi anni furono dedicatisoprattutto a brevi pezzi per pianoforte e alla mu-sica religiosa (Liszt divenne abate quando il Vaticanorevocò la sua autorizzazione al divorzio della Princi-pessa Sayn-Wittgenstein e lui dovette abbandonareogni speranza di sposarla). Molti di questi lavoritardi per pianoforte sono sperimentali e adom-brano la musica di Debussy e dei compositori ato-nali dei primi del Novecento. Comunque nonpossono aver avuto molta influenza su questi svi-luppi, dal momento che erano essenzialmente pri-vati e molti rimasero inediti fino a poco tempo fa.Liszt non ha mai avuto bisogno di un revival. La suamusica è sempre stata una parte essenziale del re-pertorio pianistico. Nondimeno è sembrato cheavesse bisogno di una riabilitazione, e critici e bio-grafi recenti hanno avuto la tendenza a mettere daparte le prime opere e a concentrarsi solamente suquelle scritte dopo il 1850. Il primo volume di Walkersi ferma al 1847, ma trova il modo di asserire cheLiszt "non aveva ancora trovato la sua strada auten-tica e con difficoltà la trovò solo dopo la morte pre-matura di Chopin" (nel 1849). Si pone ora unanotevole enfasi sui lavori liturgici; nel recente ‘Con-cise Oxford History of Musi’c, Gerald Abra¬harm, peresempio, dedica il doppio dello spazio alle Messe eagli Oratori rispetto alla musica per pianoforte. Ep-pure sono le composizioni degli anni Trenta e Qua-ranta che oggi rimangono vive e noi ci basiamo

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ancor'oggi sulla loro fama: hano dato a Liszt la suastatura. I primi lavori sono grossolani ma importanti,i tardi sono ammirevoli ma minori. Liszt può essereparagonato ad un vecchio avo che ha costruito lafortuna della famiglia con affari disonesti e vergo-gnosi durante la sua giovinezza, e ha tra¬scorso i suoi ultimi anni in opere di carità; la cri-tica recente sembra una biografia ufficiale di fami-glia che nasconde i primi anni, e si soffermateneramente sugli anni della rispettabilità. La ‘Sonata in si minore’ del 1852 è un'opera cardinetra il primo e l'ultimo stile di Liszt. È l'unico pezzodopo il 1850 a rimanere parte basilare del repertorioper pianoforte (sebbene perlomeno due dei lavoritardi meritino eguale rispetto: le Variazioni su ‘Wei-nen, klagen’ di Bach e ‘Jeux d'eaux à la Villa d'Este’. La‘Sonata’ è considerata spesso il capolavoro di Liszt acausa della serietà e della originalità della forma. Inambedue i casi mi sembra leggermente sopravvalu-tata. Presenta una certa dose di enfasi e di posa sen-timentale mescolate ai suoi passaggi più belli. Sia lastruttura formale (quattro movimenti - Allegro, Ada-gio, Scherzoso e Finale - condensati in un singolomovimento di sonata, con espo¬sizione, sviluppo eripresa) sia la tecnica di trasformazione tematica chela tiene insieme, furono elaborate, con pariele¬ganza, alcuni anni prima da Schumann nella‘Fantasia per piano e orchestra’ (più tardi sarebbe di-ventata, con piccolissimi cambiamenti, il primo mo-vimento del suo ‘Concerto per pianoforte’).Veramente la trasformazione di temi per creare suc-cessivi movimenti di diverso carattere espressivo fuusata da molti compositori tra il 1825 e il 1850 in-clusi quelli assai minori come Moscheles. Sfortunata-mente noi, come Liszt, siamo ancora condizionati daun'estetica che riconosce come sublimi opere informa di sonata ma non studi o pezzi caratteristici(ope¬re brevi, idiosincratiche come i frammenti nel‘Carnevale’ di Schumann o i pezzi di descrizione na-turalistica che sono tra le creazioni più caratteristi-che di Liszt). Fu con lo Studio e il pezzo caratteristicoche Liszt, negli anni Trenta, realizzò una delle piùgrandi rivoluzioni della storia nello stile della ta-stie¬ra. La maggior parte delle composizioni di Lisztper pianoforte di quel tempo furono raccolte in cin-que grandi gruppi che cambiarono notevolmenteformato e stile durante gli anni, in varie edizioni: gli‘Studi trascendentali’, gli ‘Studi da Paganin’i e le treparti dell'Album d'un Voyageur’ - Svizzera, Italia eUngheria -. La parte ungherese divenne più tardi le‘Rapsodie Ungheresi’ e le prime due parti dell'Albumd'un Voyageur’ divennero i due libri di ‘Années depèlerinage’; la parte italiana acquistò un'appendice,intitolata ‘Venezia e Napoli’ e, molti anni più tardi, fuaggiunto un terzo libro (prevalentemente romano). Per vedere che tipo di compositore fu Liszt, si devecominciare con i due gruppi di ‘Studi’, le prime opere

importanti da lui pubblicate. Ciascuno di essi si pre-senta in tre stadi fondamentali: il primo stadio delgruppo ‘Paganini’ è la versione per violino di Paga-nini, i ‘caprices’, dai quali Liszt ne selezionò sei per latrascrizione. Il secondo stadio è la prima versione perpianoforte del 1838 dedicataa Clara Schumann; seLiszt non fosse statocosì essenzialmentegeneroso di natura, sipotrebbe sospettareun certo rancorenella dedica: a nes-suno se non a Lisztstesso, deve esserestato possibile suo-nare questa edizioneperfino sui pianofortidalla meccanica leg-gera di quel tempo. Que-sta versione, oggi,non vienepratica-mentemai pro-vata; aso-

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pravvivere nella sala da concerto è stato un terzo sta-dio o seconda versione per pianoforte, pubblicatanel 1851. Questa versione è stata ridotta e, sotto al-cuni aspetti, era più simile agli originali ‘Capricci’ perviolino; guadagna in efficacia, e perde in immagina-zione pianistica. Liszt, al massimo della sua strava-ganza, era superbo. Il primo stadio degli ‘Studi trascendentali’ è di Lisztstesso a quindici anni: ‘Studi per il Piano in DodiciEsercizi’, op. 6. Uno o due di questi Studi hanno uncerto fascino, particolarmente il n. 9 in ‘la bemollemaggiore’; anche lo ‘Studio n. 7’ ha qualcosa dellaricca sonorità dello stile maturo di Liszt. Gli altrihanno scarso interesse musicale, inferiore perfinoalla maggior parte degli Studi di Czerny, e non sononeanche particolarmente difficili. Dubito che qual-cuno, a partire dal tempo in cui Liszt era adolescente,li abbia mai trovati degni di essere suonati in pub-blico. Successivamente nel 1837, all'età di ventiseianni, pubblicò i ‘Dodici Grandi Studi per pianoforte’(in realtà chiamati Ventiquattro, ma gli altri dodicinon videro mai la luce) undici di questi sono riscrit-ture dei primi esercizi e lo Studio che rimane è ba-sato su l'’Impromptu’, op. 3, composto molti anniprima. Riscrittura è un termine troppo moderato; inquesto secondo stadio, i primi esercizi sono comple-tamente trasformati. Solo due o tre di essi sarebberoriconoscibili ad un primo ascolto nella nuova ver-sione.Come gli ‘Etudes’ di Paganini pubblicati un annodopo, rasentano l'impossibile nella tecnica piani-stica, il limite dell'eseguibilità umana. Ancora unavolta, come i ‘Paganini’, furono rivisti dal compositorenel 1851, sfrondati dagli eccessi romantici, ridotti, inbreve resi classici. Perfino in questa forma finale piùfacile, rimangono tra le opere più difficili nel reperto-rio per pianoforte. Lo studio è una creazione romantica. Il repertorio di-dattico per tastiera esisteva da più di un secondoprima di Liszt; prime tra tutte le opere pubblicate diJohann Sebastian Bach; le prime trenta Sonate diDomenico Scarlatti furono chiamate "Esercizi". Non-dimeno lo studio come apparve ai primi dell'otto-cento, fu un genere nuovo: si tratta di un pezzobreve in cui l'interesse musicale deriva quasi intera-mente da un solo problema tecnico. Una difficoltà meccanica produce direttamente lamusica, il suo fascino e il suo pathos. Bellezza e tec-nica sono unite, ma lo stimolo creativo è la manodell'esecutore con la sua combinazione di muscoli etendini, la sua forma idiosincratica, negli ‘Etudes’ diChopin, il momento di maggior tensione emotiva ègeneralmente quello che forza la mano del pianistanel modo più doloroso, così che la sensazione mu-scolare diventi - perfino senza il suono - una mimesidella passione. Chopin è il vero inventore dello studio, almeno nel

senso che fu il primo a dargli una forma artisticacompleta - una forma in cui la sostanza musicale e ladifficoltà tecnica coincidono. I suoi primi Studi fu-rono scritti nei tardi anni Venti e il gruppo completodell'op. 10 fu pubblicato nei 1833 e dedicato a Liszt.Studi di interesse musicale furono scritti prima di lui;nel 1804 da John Baptist Cramer, un tedesco angli-cizzato amico di Beethoven; da Maurizio Clementi,un italiano anglicizzato la cui opera ‘Gradus ad Par-nassum’ (1817 - 1826) fu molto importante perl'esercizio di giovani pianisti; e da Carl Czerny, mae-stro di Liszt. Studi destinati in modo specifico adesecuzioni concertistiche piuttosto che a scopi di-dattici furono pubblicati da Ignaz Moscheles, fa-moso pianista cecolovacco, nel 1825, poco primache Chopin cominciasse a comporre la sua op. 10. Intutti questi, come nel primo gruppo di Liszt del1825, il valore musicale è minimo, oppure parzial-mente indipendente dai problemi tecnici. (In alcunedelle ultime parti del ‘Gradus ad Parnassum’ di Cle-menti. il valore musicale è alto, ma l'esecuzione è re-lativamente facile). La riscrittura dell'op. 6 di Liszt,che l'ha trasformata in sublime, deve moltissimo aChopin. È stato spesso riconosciuto il debito dello‘Studio trascendentale in fa minore’ di Liszt nei con-fronti dello ‘Studio in fa minore’ di Chopin, op. 10.Walker a questo proposito fa notare: "In momenticome questi (e ci sono dozzine tra cui scegliere)sembra che i due compositori siano intercambiabili.Eppure è precisamente in tali occasioni che dob-biamo procedere con la massima prudenza se vo-gliamo evitare di rimanere presi in una trappolastorica. Lo ‘Studio trascendentale in fa minore’, cosìcome lo conosciamo oggi, è un risultato della ver-sione giovanile che Liszt compose a quindici anni,molto prima che avesse udito una nota di Chopin".Qui è Walker che è caduto in trappola. Nessuno deiparticolari che rendono lo’ Studio’ di Liszt simile aChopin è presente nella versione del 1826; furonotutti aggiunti nella versione del 1837, quattro annidopo la pubblicazione dell'op, 10 di Chopin, operache Liszt conobbe ben prima della pubblicazione. Ilsuo gruppo del 1837 fu pubblicato contemporanea-mente a Parigi, a Vienna e a Milano. L'edizioni pari-gina e viennese furono dedicate a Czerny, lamilanese a Chopin. L'esistenza della versione giovanile pre-trascenden-tale degli Studi trascendentali di Liszt pare causareconfusione e perfino Walker sembra imbarazzatodalla somiglianza quando scrive: "Non è chiaro per-ché abbia scelto di riesaminare i pezzi che scrisse daapprendista piuttosto che comporre un gruppo diopere completamente nuove". Mi sem¬bra di co-gliere qui in Walker una traccia di intolleranza che sipuò trovare così spesso negli ammiratori di Liszt,l'eco di un rincrescimento che il loro eroe non fossespesso più originale e che perdesse tanto del suo

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tempo parafrasando altre opere. La critica fallisce sericonosce una forma straordinaria di originalità. Lenuove versioni degli Studi trascendentali non sonorevisioni, ma parafrasi concertistiche delle precedenti e la loro arte stanella tecnica di trasformazione. Gli Studi di Paganinisono trascrizioni per piano di studi per violino e gliStudi trascendentali sono trascrizioni per piano distudi per pianoforte. I principi sono gli stessi e para-gonare le prime e le seconde versioni aiuta a capirecome funzionasse la mente di Liszt e cosa lo ren-desse diverso come compositore. Qualunque Studioandrebbe bene per questo paragone, ma riporto quile prime e ultime versioni del ‘Quarto’, in Si bemollemaggiore’ citate da Walker. Egli scrive: "Paragonate ilmodello giovanile con lo ‘Studio’ concertisticomolto ampliato che più tardi Liszt derivò da esso.Una versione splende dietro l'altra e nel momento incui la persona che suona se ne accorge, la sua ese-cuzione è destinata ad esserne influenzata". Non trovo convincente questo approccio. Ciò che misembra notevole nella versione giovanile è la suaestrema mancanza di interesse o diversità. È un tipodi Czerny minore. Naturalmente Beethoven e altricompositori hanno composto musica notevole svi-luppando materiale egualmente non promettente,ma questa non è la maniera di Liszt. Questi man-tiene la struttura primitiva, il suo profilo melodico, ela successione basilare di armonie, e cambia la sono-rità; la radicale trasformazione di suono rende la ver-sione posteriore un capolavoro. La scelta di parole di Walker è significativa, stimolata

da una genuina reazione alla musica. “Una versionesplende” ma non è la prima che splende. Ciò cheLiszt ha aggiunto nella seconda versione è l'esercizioestremamente difficile di diteggiatura cromatica indoppie note che dà l'effetto brillante o tremolante;le versioni del 1837 e del 1851 sono identiche inqueste battute, ma il pezzo del 1851 si chiama ora‘Fuochi fatui‘ (da ciò si può vedere che il significatopro¬grammatico di molti pezzi di Liszt, come diSchumann, fu inventato dopo la composizione dellamusica). Liszt ha preso il lavoro banale di un fan-ciullo e ne ha ideato nuovamente il suono. I critici talvolta scrivono come se tutti i compositoricominciassero con un suono in mente, una sonoritàimmaginata, la ascoltassero con cura e poi la scrives-sero. Questa è una concezione romantica. derivata,in verità, dalle opere di Liszt e dei suoi contempora-nei. Un'occhiata al manoscritto del ‘Concerto in Dominore per pianoforte’ di Mozart ci farà rapidamenteabbandonare l'inganno. È chiaro che, nelle parti delfinale, tutto quello che Mozart aveva deciso era cheil piano avrebbe suonato lunghi passaggi di semi-crome. Dapprima scrisse un abbozzo della mano de-stra del piano nello spartito in quel registro, e cercòpoi di trovare quali semicrome inserirvi. Elaborò treversioni, tutte cancellate, e forse non arrivò mai aduna decisione prima di eseguire l'opera. Ciò che Mo-zart aveva in mente era solo un movimento di semi-croma ed un profilo melodico. La realizzazione diquesta idea poteva essere differita. È difficile oggicomprendere esattamente quanto può spesso es-sere astratta la composizione della musica. Quando

FRANZ LISZT 1811-2011

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Heandel scriveva un'aria, sapeva che il cantanteavrebbe aggiunto abbellimenti, ma non poteva co-noscere esattamente quali, eccetto il fatto che veni-vano da un repertorio standard, da un gruppostabilito che ci si aspettava che ogni cantante usassecon abilità, sensibilità e immaginazione. Haendelavrebbe insultato i suoi cantanti migliori e con piùtemperamento, se avesse impostol'abbellimento. Nella musica dei primi del Sette-

cento l'espressività dipende ancora ampiamente dal-l'ornamento. Anche la realizzazione dell'armoniaveniva lasciata spesso agli esecutori; si diceva loroquali armonie suonare, ma non se ne indicaval'esatta successione degli accordi. La composizione ela realizzazione del suono eranoprocessi differenti. È una incom-prensione della natura della com-posizione musicale di queltempo, insistere sul fatto che il‘Clavicembalo ben temperato’ diBach, o l'Arte della fuga’ fosseroscritti specificamente perclavi¬cembalo, organo o clavi-cordo, sebbene tutte queste pos-sibilità siano state e siano ancoradiscusse. Ora che sappiamo chec'erano più pianoforti che clavi-cembali alla corte di Madridverso la metà del Settecento, nonpossiamo più dichiarare con sicu-rezza che la ‘Sonata’ di DomenicoScarlatti fu concepita solo perclavicembalo. Fin dal Cinquecento c'era statamusica composta direttamenteper certi strumenti o combina-zioni di strumenti, da Gabrieli eFrescobaldi a François Couperin, ma gli esempi pre-cedenti dovrebbero insegnare a guardarci dalla con-cezione anacronistica che attribuisce un ruolotroppo grande nella composizione alla sonorità e alcolore del suono. La composizione e la realizzazionecominciano a riunirsi nel tardo Settecento e, ancorapiù strettamente con Beethoven. Alan Tyson ci hamostrato che Mozart ha cominciato il ‘Concerto perpianoforte in la maggiore’, K. 488 con gli oboe, e li hacambiati in clarinetti l'anno seguente quando ritornòsull'opera poiché allora aveva clarinetti nell'orche-stra. Mozart preferì i clarinetti agli oboe, ma il suononon determinò la forma della sua opera. DonaldFrancis Tovey definì una volta la differenza tra l'or-chestrazione di Mozart e quella di Beethoven met-tendo in rilievo che, quando Mozart attribuisce unafrase ad un oboe, riteniamo che sia un'ispirazionemeravigliosa, ma, quando lo fa Beethoven, ci colpi-sce di meno, perché non sembra possibile nessunaltro strumento. La realizzazione sonora, l'orchestra-

zione, è diventata unica. (Possiamo tranquillamentetrascurare il fatto che Beethoven acconsentì a gua-dagnare denaro extra adattando alcune sue operead altre combinazioni, e produsse, per esempio, l'as-surda trascrizione per pianoforte del suo ‘Concertoper violino’). Perfino con Beethoven, tuttavia, lacomposizione basilare è ancora in un certo sensoconcepita in modo astratto. In altre parole le altezzeed il ritmo sono i determinanti essenziali dellaforma, e la disposizione ed i timbri sono subordinati,sono solo un mezzo per la realizzazione del suono.Come sia diventata incerta questa gerarchia si puòtuttavia vedere dal ruolo dell'accento dinamico inBeethoven (sia i ‘forte’ violenti che i ‘piano’ improv-

visi) che ora svolge un premi-nente ruolo strutturale. È parteessenziale dei motivi e del movi-mento ritmico generale. Tutto ciòfu rivoluzionato da Liszt. La realiz-zazione ha ora la precedenza sullaforma preesistente. Ci furonomolti compositori prima di Lisztche scrissero con un suono inmente ben definito, ma nessunoin cui questa realizzazione delsuono è più importante del datoche la precede. Sotto questoaspetto, Liszt è più radicale, piùmoderno di Chopin. Perfetta-mente sensibile allo stile del suomateriale musicale, e profonda-mente indifferente alla sua qua-lità, tutto il genio di Liszt siconcentra nella realizzazione insuoni. La versione del 1830 deisuoi Studi giovanili, deve esserestato il risultato di centinaia di

rappresentazioni, migliaia di ore di improvvisazione.Perché avrebbe dovuto scrivere nuovi Studi? L'in-venzione del materiale non è mai stato il suo puntoforte; poiché sviluppò nuovi effetti di realizzazione,si sospetta che creò materiale per provarli e mo-strarli. Liszt è forse il primo compositore di musicastrumentale, la cui musica è concepita solamenteper esibizione pubblica. Questa è la ragione per cuici sono tante versioni dello stesso pezzo; ogni ver-sione successiva è di per sé stessa una nuova esecu-zione. Negli Studi di Paganini, Liszt prende la semplice suc-cessione di note seguente: do-la-mi-do-la-mi-do-la.L'edizione del 1838 è molto differente da quella del1851. Nella versione del 1838, questa variazione rap-presenta il violino ‘balzao’, l'arco che rimbalza dacorda a corda, la mano che rimbalza su tutto ilpiano. Nel 1851 la stessa successione di note rimanein un ambito limitato, e presenta ora un effetto’ piz-zicato’. La versione del 1838 ispira ammirazione per

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la sua stravaganza immaginativa. Il diletto deriva dalfatto che è quasi ineseguibile. Dal 1851 è divenutapiù fedele a Paganini, ma è il nuovo effetto, il nuovocolore che conta. La successione di altezze rimane lastessa, sebbene trasferita su registri differenti. Adogni modo, cosa importa quali furono le note origi-nali di Paganini, quando si confrontano con tale im-maginazione? Le uniche forme musicali in cui composizione e rea-lizzazione risultano identiche, sono l'improvvisa-zione e la musica elettronica; suono e ideazionecoincidono qui in modo assoluto. Nella improvvisa-zione jazz, come negli Studi su Paganini di Liszt, c'èun dato che precede la realizzazione sonora, un ma-teriale preesistente, ma nell'ascoltare una delle ese-cuzioni registrate di Art Tatum ci risulta quasiindifferente chi scrisse il testo musicale che precedela realizzazione - Cole Porter, Fats Waller, RubeBloom. Quello che conta è la ‘parafrasi’. Riu¬nendo lacomposizione e la realizzazione, Liszt ha reso possi-bile dare alle qualità del suono - risonanza, trama,contrasti di registro - un'importanza che non ave-vano mai avuto prima nella composizione. Il colore del suono è perfino più im-portante nella sua musica che in quella di Berlioz, ele sue combinazioni di suoni inventati sono sorpren-denti quan¬to quelle della musica elettronica. La sensibilità di Liszt per il suono fu più grande diqualunque compositore per tastiera tra Scarlatti eDebussy, e li sorpassò in audacia. I critici scrivonospesso come se le innovazioni di Liszt nella tecnicadel piano fossero solo modi di suonare una granquantità di note in breve tempo, e non invenzioni disuoni. Perfino Walker si comporta così. Pensa che laditeggiatura di Liszt di una scala per terze, suonandotutte le terze in staccato con il secondo e quartodito, renda più facile suonare, ma questo è vero solose non ci sono tasti neri nella scala. Questa diteggia-tura fu inventata per sonorità, non per facilità di ese-cuzione. Un'esigenza di sonorità infatti trasforma leterze banali dello Studio giovanile di Liszt in re mi-nore nel poema drammatico di Victor Hugo,’Ma-zeppa’, negli ‘Studi trascendentali’, dal momento chele terze non possono essere eseguite sul piano conforza. In modo simile Walker discute la diteggiaturadi scale di Liszt con cinque, quattro e tre dita, manon dice ai lettori che eseguire scale con tutte e cin-que le dita successivamente permette di acquistareuna velocità straordinaria, fino ad eseguire una"macchia" come un glis¬sando; che la scala a quat-tro dita è per un legato controllato: e che la scala atre dita è per un tocco leggero, distaccato, ‘perlaceo’.Solo la prima è un'invenzione di Liszt. Le altre sonomenzionate da Beethoven in una lettera a Czerny incui spiega come vuole che suo nipote studi il piano-forte. Le innovazioni tecniche di Liszt gli resero possibile

ottenere non solo nuovi tipi di sonorità per il piano-forte, ma strati di suoni contrastanti. Il suo adatta-mento di ‘Der Lindenbaum’ di Shubert, per esempio,nella ultima stanza consiste nel tema nella parte de-stra sopra, in ottave, e sotto il trillo regolare, e deli-cato che dà di continuo una sonorità brillante,mentre la mano sinistra imita un basso ‘pizzicato’, e,nello stesso tempo, realizza il semplice accompa-gna¬mento scorrevole di Schubert come se fosseeseguito da un trio di corni francesi. Bisogna confes-sare che questo è uno scherzo piuttosto brutto dagiocare ad un Lied di Schubert, ma sarebbe avaro ri-fiutare la propria ammirazione per la grandiosità e laricchezza della concezione, o per il pianista che sasuonarla o farla sembrare volgarmente bella comeera nelle intenzioni. Per comprendere la grandezzadi Liszt è necessario mettere da parte ogni avver-sione e rinunciare momentaneamente agli scrupolimusicali. Furono le invenzioni stravaganti di Liszt perquanto riguarda la struttura, la disposizione, e le so-norità, che resero possibili i grandi gruppi di operein differenti stili nazionali: ungherese, svizzero e ita-liano. Nella musica ungherese fu preceduto da Schu-bert, il cui magnifico ‘Divertimento ungherese’ aquattro mani, lui aveva trascritto ed eseguito a duemani; nella musica svizzera ci furono precedentioperistici ne ‘L'Elisa o le montagne del San Bernardo’di Cherubini, e nel ‘Guglielmo Tell’ di Rossini. Questiidiomi nazionali erano ciascuno un'altra forma di co-lore tonale per Liszt. Quale romantico che avevaletto Rousseau, cominciò con lo stile svizzero, e Wal-ker ha documentato l'estremo patriottismo unghe-rese che lo guidò verso la musica che udì nel suostesso paese. Alcune delle sue opere più belle siagiovanili che tarde sono evocazioni del paesaggioitaliano. Nella maggior parte dei casi il materiale èpreso in prestito, ma, come gli Studi di Paganini,sono tra le più originali imprese di Liszt.È una strategia sbagliata ammirare oggi Liszt sullabase di quelle opere in cui la sostanza musicale è in-teressante, originale e di buon gusto. Tali opere esi-stono naturalmente, come i tre arrangiamenti deiSonetti del Petrarca che riscrisse in tanti modi diffe-renti durante la sua vita, ma, perfino qui, la varietàdelle realizzazioni colpisce, più della melodia che c'èsotto. Ad ogni modo il buon gusto costituisce unabarriera per comprendere e capire l'Ottocento. Sonodesideroso di lasciare ‘Liebestraum’ a chi lo voglia,ma solo una visione di Liszt che metta la ’Secondarapsodia ungherese’ al centro della sua opera, glirenderà giustizia. @

*Il presente saggio, pubblicato su Piano Time nel1986 e mai più ripreso, è una recensione apparsa sul‘New York Review of Books", del libro di Alan Walker,‘Franz Liszt, The Virtuo so Years 1811-1847,’ Knopf,

voI. I, pp. 481.

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160 scatti della Collezione Ernt Burger

Maestro, permette una fotodi Giulia Mariti

importanza dichiamarsi Ernst…omeglio di chiamarsiErnst Burger, piani-sta e musicologo,nonché massimoiconologo di FranzLiszt. Herr Burger, classe1937, affianca difattialla docenza pressoil Richard-Strauss-Konservatoriumdella città natale,Monaco, lo studiodella biografia li-sztiana, con partico-lare attenzioneall’aspetto icono-grafico (tra le suepubblicazioni:“Franz Liszt. Eine Le-benschronik in Bil-dern und Dokumenten”, straordinaria biografia dataalle stampe in occasione del centenario della mortedel musicista, corredata di ben 1000 immagini tra di-pinti, documenti e fotografie; e, più recentemente(2003), “Franz Liszt in der zeitgenössischen Photo-graphie. 260 Portraits 1843-1886.” , catalogo dei ri-tratti fotografici lisztiani); da oltre 50 anni, si dedica acollezionare immagini dell’Abbé, portando alla luceveri e propri cimeli fotografici. A tale ricerca appas-sionata ed appassionante dobbiamo la mostra “FranzLiszt nelle fotografie d’epoca della collezione ErnstBurger”, ospitata nella meravigliosa cornice di Villad’Este a Tivoli. Il “Commendatore”, come chiamavanoLiszt i tiburtini, è presentato in una straordinaria va-rietà di ritratti fotografici (ben 160!) dal primo da-gherrotipo a noi pervenuto (di Hermann Biow;

giugno 1843) all’immaginemortuaria (di Hans Brand, 1Agosto 1886, giorno suc-cessivo al decesso).Mirabili le fotografie digruppo, che mantengonoforse più dei veri e propriritratti la natura “istanta-nea” dello scatto. C’è sem-pre qualche anarchico chesfugge alla rigidità dellaposa: ecco il domestico delMaestro, Achille Colonello,che sbuca incauto dalla fi-nestra della residenza diWeimar (la Hofgärtnerei),durante un tipico ritrattodel genere “Liszt contor-nato dagli allievi” (rif.cat.n°80); oppure la stranastretta di mano tra i pupilliMoriz Rosenthal e ArthurFriedheim, assieme ad altririuniti per festeggiare i 73

anni del Maestro (rif.cat n°93). Diverso il modo in cuiLiszt stringe la mano della moglie di Carl V. La-chmund, allievo affezionatissimo: la bella Karolinedoveva essere una tentazione non irrilevante perl’animo del vecchio “Don Juan”, che distoglie la pro-pria attenzione e guarda lontano, con un fare quasipaterno (rif.cat. n°92). Dunque, ecco tornarci allamente quel Liszt irresistibile del primo ritratto: ele-gante, slanciato e soprattutto certo della propria ec-cezionalità. Un genio consapevole del suo ruolo, chealla maniera napoleonica nasconde la mano destranella giacca; l’uomo fascinoso dalla chioma bruna elucente che fa sragionare le nobildonne.E’ il Franz Liszt corteggiato dalle donne, dal pubblicoe dai fotografi di tutta Europa; bello e talentuoso, ca-pace di tenere in pugno le personalità aristocratiche

Villa d’Este, Tivoli, che fu residenza saltuaria, per un ventennio circa, di Franz Liszt, ha ospitato lasingolare mostra della più ricca e preziosa collezione di foto lisztiane.

L’

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più influenti del Vecchio Continente grazie al suo ca-risma artistico. Ma se il disfacimento del corpo noncancella quella fascinosa aura cosacca, quale è allorail segreto dell’immagine di Liszt? Invecchiano i suoi ritratti, ma non la percezione che ilmondo ha di lui: quasi un Dorian Gray. Del belmondo lisztiano, negli ultimi ritratti, non è ri-masta che la scarna rivelazione della crudeltà deltempo: l’uomo immortalato da Louis Held e Nadar(figlio) è uno sciamano indiano, il volto ricoperto diverruche (chiamate indulgentemente “grani digenio”) e rughe profonde, a testimonianza di unavita che definire agitata è forse un eufemismo. E’ solo il fulgore della sapienza musicale a salvarlo,preservandone l’immagine di vincitore difficile dasradicare. Ma il Liszt che si esilia a Tivoli, in cerca diuna tranquillità compositiva quasi mistica, lontanadagli “schiamazzi virtuosistici”, è un genio provatodal fallimento della propria vita affettiva e familiare:il matrimonio mancato con l’amata principessa Caro-lyne von Sayn-Wittgenstein, la morte dei figli Daniele Blandine, lo scandalo che ha travolto la secondo-genita Cosima e Wagner. (“Il mio Eldorado”: così Lisztdefinisce la residenza tiburtina, di cui calcherà i vialiombrosi per la prima volta il 21 Luglio 1865; l’ultimavent’anni dopo, nel Novembre 1885). Non tutti hanno creduto alla svolta contemplativache ne seguì. Nel 1877, il giornale satirico “Le Chari-vari” descriveva con termini poco lusinghieri il Mae-stro, calcando il vecchio adagio: ‘l’abito non fa ilmonaco’. “Non credeteci; è finta umiltà, e la tonacanon riesce a contenere l’anima ancora giovane…” ,tuonava il detrattore lisztiano, definendolo un vec-chio Mefistofele che “toccato dalla morte di Marghe-rita, mediti una lenta conversione”. Nonostante

difatti Liszt avesse preso gli ordini minori, apparen-temente abdicando alla vita ‘peccaminosa’ condottasino ad allora, non aveva saputo perdere quei viziettigiovanili che sono spesso conforto capriccioso dellavecchiaia: alcol, fumo e belle donne. E’ noto difatticome il maestro non si fosse realmente arreso a in-camminarsi sul viale del tramonto: le “liaisons dan-gereuses” non erano una novità per lui, brevi quantorocambolesche. Tra le più chiacchierate quella conl’allieva Olga Janina, folle d’amore e d’indole, millan-tatrice, morbosamente gelosa, nonché autrice delladiffamante “biografia” Souvenirs d'une Cosaque. Fu proprio nella Stanza delle Rose, la sala da musicadell’appartamentino indipendente riservatogli a Villad’Este dal Cardinale Hohenlohe, che la Janina pa-ventò di uccidere a revolverate il suo amante, curan-dosi prima di ingerire una buona dose dilaudano…ma non abbastanza da essere letale! Era lateatralità sfacciata che aveva attratto inizialmenteLiszt, ed era per questo stesso temperamento incon-tenibile e volgare che egli l’aveva lasciata con unagelida lettera d’addio.Quale era dunque il segreto di questo vecchio scia-mano, che continuava a mietere vittime, pur nellacorruzione del tempo?Forse la risposta è proprio nell’espressione faustianache come un filo conduttore lega i magnifici ritrattifotografici della collezione Burger. Una ineffabilecommistione di tratti somatici, pronti a palesare unavolontà artistica ferrea e subito dopo a confessare,negli occhi annacquati dalla cataratta, una intimasofferenza… la debolezza di un uomo troppo calatonel proprio personaggio, troppo votato alla fama perpoterne rimanere indenne. @

SIGARI, ZAGAROLO’ E PIZZUTELLO

Traspare dai ricordi di chi lo conobbe nella sua dimensione casalinga, un ritratto quasi casereccio! Un vecchioamabile e di buon cuore, amante del gentil sesso e dei sapori spontanei della campagna romana. Ai sigari -che fumava in quantità smisurata, cospargendo di mozziconi la sala da musica-, s’accomunava la pas-sione per i peperoni e il pizzutello (o uva corna). Ma su tutto troneggiava l’amore per il vino dei Castelli, come ri-cordato affettuosamente dall’allievo Filippo Guglielmi: “Appena arrivato, smontava dalla diligenza, che impiegava non meno di cinque ore da Roma, e si dirigeva all'al-bergo-trattoria della Pace, sulla piazzetta del Trevio, gestito dal sor Andrea Frittelli, tagliando corto agli intermi-nabili ossequi di costui con la sua immancabile domanda: "Avez vous du Zagarolò?". Il sor Andrea era infatti ilfornitore di vini del Maestro (n'era orgoglioso!) e teneva sempre in serbo per lui il "Zagarolò" prediletto…”

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DISCHI

PIANISTI LISZTIANI

Non ha mai stupito nessuno il fatto che nella ampia e varia popolazione dei pianisti emergesse una categoria par-ticolarmente motivata, quando addirittura con devozione, nei confronti della letteratura lasciata da Franz Liszt(1811-1886), il Padre nobile riconosciuto del grande strumento in bianco e nero. Il quale ha formulato e intro-dotto anche l’idea del ‘concerto’ come il pubblico lo conosce ancora oggi, in questi tempi perigliosi. Il mondo dellamusica ha sempre seguito con interesse le esibizione solistiche soprattutto pubbliche, o in qualche modo aperte;in particolare, il virtuosismo ha da sempre destato passioni per la sorpresa - ogni volta più o meno appagata, die-tro compenso, spesso meritato - destata dalla fama di abilità. Soprattutto quella rara. Gli esempi nella pratica mu-sicale anche del lontano passato sono numerosi, ma è sufficiente il nome di Niccolò Paganini a sintetizzare unfenomeno che però vedeva protagonisti strumentisti i quali si offrivano quasi esclusivamente nell’esecuzione diproprie opere.Franz Liszt appartiene alla modernità: tanto con la sua opera quanto con la sua presenza intellettuale e fisica sulloscenario della musica. Il grande musicista e i suoi allievi animavano ancora i ricordi di chi, vecchio, prima che il filorosso si spezzasse, raccontava di antiche emozioni ai quasi ottuagenari di oggi che li ascoltavano nella prima metàdel secolo passato. Sul lascito lisztiano - opera e figura - s’è innestata e formata una categoria di pianisti che sembra essersi “specializ-zata” nel tempo, e, per il tempo, ha lasciato testimonianza nelle registrazioni, variamente attendibili per sonorità;oggi, a causa dell’utilizzo invalutabile dell’editing, le testimonianze vanno progressivamente sfumando di presti-gio; sarà invece di qualche utilità richiamare alla memoria, con inevitabile e carente approssimazione, alcuni tra ipiù rappresentativi esecutori che hanno lasciato, dei testi lisztiani, documenti sonori: intanto Claudio Arrau, Gio-vanni Bellucci oggi svettante, Arturo Benedetti Michelangeli con il ‘Concerto n.1’ e poco altro, lo straordinarioLazar Berman, Jorge Bolet per letture luminose e trasparenti, Michele Campanella, Aldo Ciccolini, Shura Cherkas-sky, Georges Cziffra, Vladimir Horowitz, Glenn Gould, Eugene Istomin, Nikita Magaloff, John Ogdon, Egon Petri,Sviatoslav Richter, György Sándor, Vladimir Sofronitski, Roberto Szidon, Carlo Vidusso almeno.

Umberto Padroni

Battere il ferro finch’è caldo: e oc-corre riconoscere a Michele Cam-panella ogni merito per avererealizzato, nell’occasione dei due-cento anni dalla nascita di Franzliszt, l’affatto scontato programma- 22 pagine di rarissimo e signifi-cativo ascolto - sul pianoforte Be-chstein n.247, acquistato aWeimar nel 1860 dal maestro un-gherese, il quale ha voluto dotar-sene durante la permanenza aRoma, e che, alla sua morte, ap-partenne a Giovanni Sgambati, al-lievo di un tempo. I legni, i metallie i feltri che la sorte ha assem-blato, per la storia, in questo stru-mento, risuonano oggi in unostraordinario capitolo della mu-sica; si tratta di uno strumentoche la buona ventura e la genero-sità hanno poi portato a Siena,

MICHELE CAMPANELLA

BRILLIANT

Schlaflos!, En reve, In festo transfi-gurationis Domini nostri J.Ch., Re-cueillement, Am Grabe RichardWagner, Nuages gris, forse la pa-gina più nota, ma anche oggettodi trascorsi equivoci.essere intesain una luce negativa, si evidenzial’espressività drammatica di un ac-centato dinamismo che la solleci-tazione del testo riscatta dalladolorosa contemplazioni ieratica. La sequenza delle dodici stazionisi intreccia nella specie del capo-lavoro, e la critica (Rognoni, CarliBallola, ma anche Bacchelli) dàautorevolezza alla distinta valuta-zione dell’opera. (U.P)

all’Accademia Musicale: RobertoAlmagià, proprietario dello stru-mento, alla scomparsa della mo-glie, pianista, nel 1938 pensò digratificarne la memoria facen-done dono al conte Guido ChigiSaracini, fondatore dell’Accade-mia, come da ampia, rara docu-mentazione nel prezioso booklet.Il prezioso illustre pianofortevanta un secolo e mezzo abbon-dante d’età; tecniche e meccanicaappaiono inevitabilmente datate,ma Michele Campanella, anchenella scelta del repertorio - cheappartiene ai tardi anni delgrande Magiaro - ricupera le dia-fane sonorità suggerite dalla tessi-tura dei trasparenti pentagrammi,ormai lontani dagli eroici ed elo-quenti atletismi delle passate sta-gioni, e ci si trova bene: qui neisette ‘Ritratti storici ungheresi’,nelle quattro Valses oubliées, (pia-cevano anche al vecchio Horo-witz) e poi in Sancta DorotheaResignazione, Romance oubliée,

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DISCHI

Il coronamento - termine impor-tante, eloquente, tale da non dareluogo a infraintendimenti - dellecelebrazioni dei due secoli dallanascita di Franz Liszt (1811-1886),prende forma luminosa fino allosplendore nei due CD che Gio-vanni Bellucci ha licenziato conl’offerta delle Rapsodie Ungheresicomposte dal 1840 al 1885.L’evento, atteso, conferma l’altis-sima statura e la dinamica com-plessità della presenza delgiovane pianista romano, ma at-tivo soprattutto oltr’alpe dove ilconfronto è meno temuto, nellamusica musicata, e nel pianofortecontemporaneo, e realizza nelcontempo - altro coronamento - ilriscatto definitivo di un repertoriodi grande valenza, guardato consufficienza fino a qualche decen-nio fa, concesso senza troppe at-tenzioni, ai “dattilofoni”, aivirtuosi.Giovanni Bellucci, da autenticofuoriclasse, anima la multiformeraccolta con lo sfarzo di una per-sonalità ricchissima di doti men-tali, culturali, tecniche e fisichequi ed ora di improbabile raf-fronto. Doti che si mostrano in-trecciate in un viluppostupefacente per efficienza: le sueesecuzioni - il Beethoven delle re-gistrazioni ancora in corso, e inquesto caso la grandiosa rappre-sentazione musicale delle Rapso-die Ungheresi - si rivelano comeprodotto integrato di una genialeosmosi che ha un dato catalizza-tore nella sensibilità per il suonoe l’intuito di ineguagliabile ric-chezza atto ad evocarlo con arte.Lazar Berman, il suo maestro chenegli anni a Imola lo stimavasenza riserve, ne sarebbe assaicompiaciuto.Qualcuno, a corto di idee, ha defi-

GIOVANNI BELLUCCIACCORD

protagonista sempre a fronte altanell’invenzione di pluriformi realtàmusicali, autore di un corpus didimensioni impressionanti,quando si tenga conto anchedella sua attività concertistica - haatteso con intenso sentimentoper oltre quarant’anni, fino inprossimità della scomparsa, trovain Bellucci il cantore forse più mo-tivato, anch’egli generoso, come sidiceva, nel creare un inquieto,cangiante corpo sonoro, sempredi nobile spessore, tanto nelle ar-cobaleniche nuances, quantonelle caleidoscopiche fantasma-gorie: nella raffinata allusione, maanche nella concretezza. Il corposonoro più vero, da attribuire aisegni - solo suggestivi, ma di co-munque storicamente lamentatainsufficienza - della pagina.Un valore aggiunto dei due CDconsiste nella magistrale, calco-lata spazialità ambientale confe-rita alle registrazioni, anche live -effettuate in tempi diversi, alcunesono recentissime - che appaionoindenni dalla rigida, pallida,astratta vetrosità di tante regi-strazioni pianistiche, e che si of-frono all’audizione, e allacoscienza, in una riconoscibile,vissuta, felice fisicità strumentale.Nell’intervista articolata con par-tecipe competenza da Grazia Di-stefano nel booklet, GiovanniBellucci precisa e approfondiscele numerosissime ragioni, storicheed estetiche quantomeno, di que-sto autentico evento: di per sé, esi perdoni l’iperbole, vale l’acqui-sizione. (U.P)

nito Bellucci una “forza scatenatadella natura”: sarebbe forse me-glio parlare, con il conforto del di-zionario, di energia, e per quantoattiene allo scatenamento risultachiaro, da ogni sua esecuzione,un sovrano controllo sulla materiasonora, esaltata, semmai, dal lu-minoso, consapevole dominiosulle eccelse virtù individuali: l’in-dagine e la riflessione culturale, ela prestanza dell’aureo circuito at-tivato dalla singolare, arditissima,forse - ma solo salvo prova contra-ria - ineguagliabile psico-fisicità.Altro che scatenamento!Il fantastico e fantasioso affresco,ricco di ogni valenza poetica e digesti studiatamente improvvisa-tivi, delle diciannove RapsodieUngheresi, precedute qui dallaRapsodia Rumena - il titolo è apo-crifo, e la composizione, intessutadi melodie valacche e iniziata nel1846, non ha mai convinto l’au-tore, che non l’ha pubblicata; ilmanoscritto è stato rinvenutosolo nel 1936: una rarità - il fanta-stico affresco, si diceva, è esaltatocon convinzione. Due spiriti gene-rosi si incontrano: quello del moti-vatissimo musico che si specchiain quello del suo grande mèntore;l’arte del giovane musicista eser-cita il privilegio di inverare il la-scito straordinario; si tratta diun’arte in cui lievita palesemeneteuna calda empatia per i testi li-sztiani, e i valori precipuamentestrumentali, ma anche poetici,quando non schiettamenteumani. In essi egli riconosce conrara acutezza le ardenti e anchenostalgiche componenti del fittointreccio, spesso spavaldamentesorridente: di canto, ritmi, colore,gesto, e alti voli del pensiero. Si la-scia all’ascolto del musicofilo ladelibazione del dettaglio; Bellucciindugia con straordinaria sensibi-lità nelle pieghe dei caratteri e af-ferma con autorevolezza leoriginali imposizioni della forte ta-stiera: la sua arte è sempre maiu-scola, anche nella duttilità;l’ambiziosa epopea ungarica allaquale Liszt - generoso, carismatico

MUSIC@ gennaio-febbraio_MUSIC@_ok 27/11/11 18:15 Pagina 39