Castello di Rivoli · Web viewWittgenstein, Foucault, Deleuze … forme di vita il cui pennello era...

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Estratto da Leonardo Caffo, Essere Giovani , in lavorazione. 62. Ecco dunque la giovinezza: un riparo per le cose della vita ovvie e semplici. Come possiamo averne riparo anche da adulti? È quasi leggendaria la vita così monotona di Immanuel Kant. Mattiniero, il maggiordomo che lo aiutava nelle faccende domestiche aveva l’obbligo di svegliarlo alle cinque del mattino. Usciva alle sette, sbrigava varie cose, alle undici e quarantacinque pare fosse già a casa e sempre senza mai tardare. Pranzava sempre alle dodici e quindici minuti, è noto che solo in tre potevano partecipare ai suoi pasti per fargli compagnia. Alle due e trenta, ecco la famosa passeggiata per K ö nigsberg : alle quattro meno cinque era già a casa. Alle sedici e trenta iniziava l’ora della filosofia, la scrittura terminava per le sei mezza quando era il momento della pipa e di un solo bicchiere di vino. Il maggiordomo serviva la cena alle venti spaccate, alle ventuno era in giardino dopo aver mangiato la frutta, alle ventuno e quarantacinque in pigiama nella sua camera da letto dove non doveva filtrare nessuna luce o aria: si dorme nel buio e nel silenzio. Pare russasse molto. Una vita così noiosa da essere, appunto, una vita “riparata”. La vita adulta sembra avere a che fare proprio con questo, ovvero con il concetto di routine; essere giovani, invece, significa soprattutto non sapere cosa accadrà di qui a poco. È il concetto di aspettativa forse, più che di routine: ogni attimo è, perché deve esserlo, prevedibile. La critica di Hume da parte di Kant al rapporto di causalità che ne dimostrava la contingenza, del resto è tutta qui; riducendo la causalità a uno stato d’animo appunto di attesa, cioè di un effetto che poteva o non poteva prodursi in presenza di una causa,

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Estratto da Leonardo Caffo, Essere Giovani, in lavorazione.

62. Ecco dunque la giovinezza: un riparo per le cose della vita ovvie e semplici. Come possiamo averne riparo anche da adulti? È quasi leggendaria la vita così monotona di Immanuel Kant. Mattiniero, il maggiordomo che lo aiutava nelle faccende domestiche aveva l’obbligo di svegliarlo alle cinque del mattino. Usciva alle sette, sbrigava varie cose, alle undici e quarantacinque pare fosse già a casa e sempre senza mai tardare. Pranzava sempre alle dodici e quindici minuti, è noto che solo in tre potevano partecipare ai suoi pasti per fargli compagnia. Alle due e trenta, ecco la famosa passeggiata per Königsberg: alle quattro meno cinque era già a casa. Alle sedici e trenta iniziava l’ora della filosofia, la scrittura terminava per le sei mezza quando era il momento della pipa e di un solo bicchiere di vino. Il maggiordomo serviva la cena alle venti spaccate, alle ventuno era in giardino dopo aver mangiato la frutta, alle ventuno e quarantacinque in pigiama nella sua camera da letto dove non doveva filtrare nessuna luce o aria: si dorme nel buio e nel silenzio. Pare russasse molto. Una vita così noiosa da essere, appunto, una vita “riparata”. La vita adulta sembra avere a che fare proprio con questo, ovvero con il concetto di routine; essere giovani, invece, significa soprattutto non sapere cosa accadrà di qui a poco. È il concetto di aspettativa forse, più che di routine: ogni attimo è, perché deve esserlo, prevedibile. La critica di Hume da parte di Kant al rapporto di causalità che ne dimostrava la contingenza, del resto è tutta qui; riducendo la causalità a uno stato d’animo appunto di attesa, cioè di un effetto che poteva o non poteva prodursi in presenza di una causa, Kant decide dunque di rifondare l’idea stessa di conoscenza su qualcosa che non corra il pericolo di essere, appunto, inconsistente. La conoscenza per Kant deve avere un criterio di validità universale su cui mettere radici, queste sono le strutture trascendentali del nostro conoscere che vengono esposte nella Critica della ragion pura del 1781: la vita adulta, come la struttura del pensiero, non deve regalare sorprese e «tutto va dedotto da princìpi»[footnoteRef:2]. Le cose ovvie e semplici vengono dunque messe al riparo in modo estremamente diverso, non perché le viviamo nel qui e ora ma perché imponiamo su di essere una norma, rigidissima: ma è davvero l’unica possibilità? [2: I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 11, (A XI-XII).]

63. Gioventù, semplicità con assenza di regole. Età adulta, semplicità imponendosi regole. La dannazione della memoria impone ordine che l’assenza di memoria non conosce: eppure si può davvero rimanere giovani per sempre, evitare l’ordine kantiano. Se penso a Ettore Majorana, il fisico catanese scomparso a 26 anni mentre era professore di fisica teorica a Napoli, penso come suggerisce Agamben a qualcuno che ha mostrato le complessità del reale proprio tramite la sottrazione dalla realtà[footnoteRef:3]: è rimasto giovane eternamente, Majorana, avvolgendosi allo stesso mistero della sua scomparsa. Giovane e imprevedibile, come la città da cui veniamo entrambi costantemente messa in pericolo dal vulcano Etna, giovane e imprevedibile come quella partitella a calcio sul bagnasciuga di notte, giovane e imprevedibile come la fisica che pian piano porterà alla comparsa della bomba atomica col progetto Manhattan. Scomparire da giovani: una metafora anti-kantiana coltivata più o meno intenzionalmente dal Club 27, lo sterminato elenco di ragazzi svaniti a ventisette anni che spazia da Janis Joplin a Kurt Cobain, da Jean-Michel Basquiat a Amy Winehouse. Ovvia e semplice per sempre, la vita, congelata così all’interno della fascia di contenimento della giovinezza: un immenso ritratto di Dorian Gray dove sono solo gli altri a invecchiare al posto di chi è scomparso. [3: G. Agamben, Che cos'è reale? La scomparsa di Majorana, Neri Pozza, Vicenza 2016.]

Oggi, in un giorno di fine estate, mi sono fermato in auto nel parchetto dove da ragazzo venivo a giocare a basket con i miei amici: era stranamente vuoto, così sono stato seduto circa due ore sulla panchina e fumare qualche decina di sigarette di nascosto dai miei genitori, proprio come all’epoca. Mi viene in mente che l’ultima partitella qui, con Gregorio e gli altri, l’abbiamo fatta proprio a ventisette anni - l’ultimo tiro, quello da tre punti perché fatto da fuori area e che ci aveva fatto vincere, era stato di Carlo. L’ultimo tiro, si. Come se tutta la vita fosse un rapporto con una sigaretta. Un luogo-dispositivo, questo parchetto, perché forse basterebbe una palla tirata adesso a riavvolgere il nastro: un sms - “ci vediamo al parco alle 3?” -, quando era così semplice dare al tempo il suo spazio, che poi è sempre lo spazio del gioco, l’idea ancora una volta che la vita sia davvero solo e soltanto un gioco. Se chiudo gli occhi e li apro all’improvviso ci vedo ancora tutti lì, a giocare in calzoncini prima di stappare la solita birra di fine partita: siamo morti anche noi, a ventisette anni, mi chiedo? La partita infinita.

64. Definizioni, certo, ma anche «pace nei pensieri. Questa è la meta agognata da chi fa filosofia»[footnoteRef:4]. Una meta inversa, se la gioventù serve davvero a qualcosa nel quadro della riflessione filosofica: prima la pace, poi improvvisa la guerra. «La filosofia non potrà mai possedere l’eternità», tuona Heidegger col suo solito legiferare, «né farne mai un uso metodico come possibile prospettiva per discutere del tempo»[footnoteRef:5]. Eppure, invece, la gioventù sembra fornire alla filosofia ciò che Heidegger relega alla sola teologia: «il tempo sotto molteplici aspetti»[footnoteRef:6]. «Quanto dura una strada senza smetterla»[footnoteRef:7], si chiede al termine della poesia “Intesa” Paul Eluard: è sempre la questione della scomparsa, della gioventù intesa adesso come spazio definitivo e non transeunte. Non farla mai più finita con l’idea di essere giovani, correre il rischio di esserlo per sempre; la gioventù è la vera rottura del tempo lineare contro cui lotta Nietzsche in tutta la sua filosofia[footnoteRef:8], la fine di ogni possibile cattiva coscienza, l’unica chance per comprendere che l’assoluto è davvero tutto interno al qui e ora: «sento spesso il bisogno di ruminare il passato e di rendere digeribile il presente con quel condimento»[footnoteRef:9]. [4: L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 86.] [5: M. Heidegger, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 1973, p. 23] [6: Ibidem.] [7: P. Eluard, Poesie, Einaudi, Torino 1966, p. 139. ] [8: G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 1978, p. 29.] [9: F. Nietzsche, “Lettera a Erwin Rohde, Naumburg, 3 novembre 1867”, in Id. Epistolario 1850-1869, Adelphi, Milano 1977, p. ?]

65. Sono qui, adesso, eppure «il pianeta», come racconta Gilles Clément, è «macchina della memoria; registra i passaggi e non li giudica in alcun modo. Le tracce finiscono sempre per scomparire ma inscrivono la propria storia in quella più generale dell’evoluzione»[footnoteRef:10]. Finché viviamo come interpreti perenni della traccia il sogno nietzschiano della gioventù eterna si spezza di continuo, ruminiamo passato; è tutta una questione, d’altronde, di assenza di consapevolezza. Il sistema eteronormativo dei ricordi e della memoria che regola il concetto sociale di gioventù o quello di vecchiaia è un regime epistemologico che genera frammentazione dei corpi, delle vite mentali, delle stazioni emotive. Siamo di fronte a una questione filosofica enorme che va ribadita con ancora più forza e vigore: tutto va ripensato, di nuovo, alla luce dell’idea che prima di ogni altro difetto di catalogo genere/sesso/animale/natura/cultura ci sia il fondamento della scissione ontologica giovane/vecchio. Pensare è una cosa per giovani, invecchiare pensando è una cosa impossibile: si pensa all’impiedi, correndo, viaggiando, scopando, lottando, forse addirittura rischiando la vita. Da seduti, dietro uno scrivania o dallo studio di qualche ufficio, al massimo si può pensare di pensare: i vecchi non possono fare filosofia, perché i vecchi non esistono persi come sono, smarriti in un vuoto, tra le tracce accumulate del pianeta personale che li ospita. Ancora una volta dobbiamo restare giovani per sempre. [10: G. Clément, Breve trattato sull’arte involontaria, Quodlibet, Macerata 2019, p. 87. ]

66. Sono le due di un pomeriggio qualsiasi di ottobre quando mi accorgo che la festa è davvero finita. Sono a casa di Luca De Leva, un amico artista, a vedere i suoi ultimi quadri per capire se ha senso progettare una mostra insieme. Osservo il caos del suo studio, i cavalletti sparsi, la musica africana di sottofondo mentre cerchiamo di parlare di arte ma poi, come sempre, finiamo a parlare di altro. Di vita? Forse. Il rapporto tra gioventù ed età adulta assomiglia a quello tra una stanza ordinata e una disordinata, ed è il rapporto tra arte e filosofia, tra me e Luca. È come se osservando capissi che non ho mai avuto il coraggio di lasciare davvero andare le cose, me compreso; un ordine, derivato dalla ragione, che oggi mi appare per ciò che è stato: una festa terminata prima del tempo. Ma l’arte prolunga il tempo e lo trafora, la festa appare infinita e forse non ho mai ricevuto l’invito: abbiamo chiamato filosofi coloro che forse erano artisti? Wittgenstein, Foucault, Deleuze … forme di vita il cui pennello era la parola, la parola-pennello. La festa, ripeto, mi sembra davvero finita; mentre osservo il caos dell’artista per la prima volta lo giudico: non mi piace, non mi appartiene, non lo capisci più come un tempo. Sono vecchio? Noioso? Eppure mi sembra che durante la noia, il processo-noia intendo, divento responsabile, e senza responsabilità non ci sarebbe neanche il caos che sull’ordine appoggia. Autobiografia? Risponde Schelling, «certo è che chi fosse in grado di scrivere la storia della propria vita, a cominciare dalle sue radici più profonde, con ciò stesso avrebbe brevemente riassunto anche la storia dell’Universo»[footnoteRef:11]. D’altronde, ancor prima che con la gioventù, il problema è con il concetto di “età”: «l’età si dice in molti modi. Per un anno, come negli animali, per sette come fra gli uomini, per cento, e per qualsivoglia altro tempo»[footnoteRef:12]. Si tratta, innanzitutto, di invertire una norma non scritta ma diffusa: che sia la vecchiaia l’età del compimento del sapere, delle cose profonde dell’esistenza umana[footnoteRef:13], dell’«invecchiate e lo capirete!»[footnoteRef:14]. Nel luogo comune si cela la più incredibile falsità, “il pensiero non ha età”. Se fosse dunque l’arte la filosofia che stiamo cercando? Luca, nel caos, genera pensiero che nell’ordine io, ora taccio. [11: F. W. Schelling, Die Weltalter, 1. ] [12: Isidoro, Etimologie, V, 38, 1-4.] [13: A titolo di esempio il bellissimo M. Sgalambro, Trattato dell’età, Adelphi, Milano 1999.] [14: J. W. Goethe, Faust, v. 6818.]

67. Come è noto, secondo Aristotele, avere un’età significa accertarsi del «fatto di aver vissuto molti anni»[footnoteRef:15]. È un’intuizione da seguire, che genera il paradosso per cui appunto la gioventù non sia nemmeno un’età ma, come più volte ho provato a dire, una condizione dello spirito, del mondo; detto insieme ancora una volta: dello stare al mondo. Si potrebbe dunque sostenere di avere qualsiasi età ed essere, al contempo, giovani? Non “giovanili”, parola oscena, ma proprio giovani. È sempre la questione del tempo oggettivo e soggettivo, in questo è chiarissimo Husserl: «stabilire quale sia il rapporto tra il tempo che in una coscienza del tempo è posto come oggettivo e il tempo realmente oggettivo, verificando se le stime di intervalli di tempo corrispondano agli intervalli oggettivamente reali oppure se ne allontanano»[footnoteRef:16]. D'altronde, dal momento in quella spiaggia da cui tutto è partito, mi sono convinto che la gioventù sia piuttosto una sorta di aura nel senso in cui rispetto all’arte ne parlava Walter Benjamin: qualcosa che ci avvolge, neutralizzando la vita mortale, ma che pure trascende dalla biologia con cui ovviamente, qualora le cose si parlino insieme, risulta unione perfetta. I giovani non hanno idee, perché come sosteneva Spinoza le idee sono soltanto «racconti o storie della natura della mente»[footnoteRef:17]; i giovani, essi stessi, sono le idee: i racconti e le storie della mente che tornano improvvisi quando giovani non siamo più. Sono i film di Federico Fellini. La gioventù non è appunto, con Aristotele, un’età ma un’idea fuori dal mentale: un’idea che vive, un’idea che corre, un’idea che si schianta senza la paura del morire, dell'essere sbagliata, di una congestione durante un bagno notturno. Tutto intorno a noi, nei cortili delle scuole dove rumoreggiano voci che sentiamo dalle finestre dei nostri uffici, camminano le idee pure dell’intelletto: i contenuti, più o meno espliciti, anche di ciò che chiamiamo pensiero creativo adulto. Siamo giganti sulle spalle dei nani. [15: Aristotele, Retorica, 1389b. ] [16: E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 2002, par 1. ] [17: Spinoza, Cogitata Metaphysica, I, VI. ]