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Cartesio - Prove dell'esistenza di Dio www.maat.it/maat4 1 MAAT CONOSCERE LA STORIA PER CREARE IL FUTURO - MAAT Cartesio Prove dell'esistenza di Dio "Cartesio è un eroe, che ricominciò da capo l'impresa, e restituì alla filosofia quel terreno al quale essa tornò soltanto adesso dopo trascorsi mille anni" (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Cartesio) "Mentre per la metafisica premoderna la conoscenza dell'universo diveniente è la base a partire dalla quale si giunge alla conoscenza dell'esistenza della Realtà immutabile e divina, per la metafisica di Cartesio, al contrario, la conoscenza dell'esistenza di Dio è il fondamento della conoscenza dell'universo che esiste al di là delle rappresentazioni dell'io" (E. Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo, La filosofia moderna, V, 10) "Tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sorgono da questo tronco sono le altre scienze, che si riducono a tre principali: la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e la più perfetta morale, che presupponendo una conoscenza completa delle altre scienze è l'ultimo grado della saggezza" (Cartesio, Principia philosophiae, Lettera-prefazione)

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MAAT – CONOSCERE LA STORIA PER CREARE IL FUTURO - MAAT

Cartesio Prove dell'esistenza di Dio

"Cartesio è un eroe, che ricominciò da capo l'impresa, e restituì alla filosofia quel terreno al quale essa tornò soltanto adesso dopo trascorsi mille anni"

(G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Cartesio)

"Mentre per la metafisica premoderna la conoscenza dell'universo diveniente è la base a partire dalla quale si giunge alla conoscenza dell'esistenza della Realtà immutabile e divina, per la metafisica di Cartesio, al contrario, la conoscenza dell'esistenza di Dio è il fondamento della conoscenza dell'universo che esiste al di là delle rappresentazioni dell'io"

(E. Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo, La filosofia moderna, V, 10)

"Tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sorgono da questo tronco sono le altre scienze, che si riducono a tre principali: la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e la più perfetta morale, che presupponendo una conoscenza completa delle altre scienze è l'ultimo grado della saggezza"

(Cartesio, Principia philosophiae, Lettera-prefazione)

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Indice

Vita di Cartesio

Le opere in cui Cartesio tratta della esistenza di Dio

La prova dell'esistenza di Dio nella Meditazione Terza

La prova della esistenza di Dio nella Meditazione Quinta

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Estratti dalle opere di Cartesio

In lingua latina

Meditationes de prima philosophia - Meditatio Tertia (1641)

Meditationes de prima philosophia - Meditatio Quinta (1641)

Principia philosophiae - Pars Prima: De principiis cognitionis humanae (1644)

In lingua francese

Méditations métaphysiques - Méditation Troisième (1647)

Méditations métaphysiques - Méditation Cinquième (1647)

Les principes de la philosophie - Première Partie: Des principes de la connaissance humaine (1647)

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Vita di Cartesio

La formazione (1596-1616)

1596 - Il 31 marzo René Descartes nasce a La Haye in Touraine. Il padre è consigliere al parlamento di Bretagna a Rennes.

1597 - Muore la madre e Descartes va a vivere con la nonna materna.

1607 - A undici anni entra al Collegio Reale di La Flèche, gestito dai gesuiti.

1614 - Si reca a Poitiers per compiere gli studi all'università.

1616 - A venti anni ottiene il baccellierato e il licenziato in diritto civile e canonico.

La giovinezza (1618-1628)

1618 - A ventidue anni entra nell'esercito al seguito del protestante Maurizio di Nassau, principe di Orange. Vi rimane per circa quindici mesi. Studia matematica e architettura militare.

1619 - Si arruola nell'esercito del cattolico duca Massimiliano di Baviera.

1619 - Nella notte tra il 10 e l'11 novembre, a Neubourg in Boemia, ha un sogno che viene interpretato come l'indicazione ad una vita dedicata al sapere. Rinuncia alla vita militare.

1620-1622 - Viaggia in Germania, Olanda e Francia.

1623 - A Parigi incontra Padre Marin Mersenne, dell'Ordine religioso dei Minimi, filosofo e teologo, difensore delle posizioni di Galileo.

1623-1625 - In Italia incontra Pierre de Bérulle, fondatore dell'Ordine della Congregazione dell'Oratorio. Rientra in Francia.

1625-1628 - Vive principalmente a Parigi. Scrive le Regulae ad directionem ingenii, ma interrompe il lavoro nel 1628.

La maturità (1629-1650)

1629 - A trentatre anni si trasferisce stabilmente in Olanda. Pur essendo cattolico e rimanendo tale, pensa di trovare maggiore libertà intellettuale in un paese protestante.

1629 - Descartes si dedica completamente agli studi.

1633 - Galileo viene condannato. Descartes aveva già pronto per la stampa il trattato Du monde. Ne annulla la pubblicazione.

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1637 - A quarantuno anni pubblica anonimo a Leida, in Olanda, Discours de la méthode pour bien conduire sa raison et chercher la verité dans les sciences. Plus la dioptrique, les metéores, et la géometrie qui sont des essais de cette méthode. Descartes fu filosofo, ma anche fisico e matematico, oltre che studioso di medicina. A lui si deve l'invenzione della geometria analitica.

1641 - Pubblica a Parigi le Meditationes de prima philosophia, dedicato ai professori gesuiti della Sorbona. Marin Mersenne, prima della pubblicazione, sottopone l'opera al giudizio di illustri pensatori, tra cui il teologo giansenista Antoine Artaud, il filosofo inglese Thomas Hobbes, il filosofo atomista Pierre Gassendi. Le loro critiche e le risposte di Descartes vengono incluse nella edizione dell'opera.

1642 - Il senato accademico dell'università di Utrecht vieta l'insegnamento della "nuova filosofia" cartesiana.

1642 - Pubblica la seconda edizione delle Meditationes con l'aggiunta di altre obiezioni e risposte.

1643 - Inizia la corrispondenza con la venticinquenne principessa Elisabetta, figlia dell'ex re di Boemia, in esilio in Olanda. La principessa è una studiosa di filosofia.

1644 - Pubblica ad Amsterdam i Principia philosophiae, di cui la prima parte è dedicata alla metafisica e le altre tre alla fisica.

1645 - Le opere di Descartes suscitano molte polemiche. I magistrati di Utrecht vietano la pubblicazione di scritti a favore o contro Descartes.

1645 - L'università di Leida condanna Descartes, accusato di essere pelagiano e blasfemo.

1647 - A Parigi vengono pubblicate, in traduzione francese autorizzata dall'autore, due opere: Les méditations metaphysiques sur la philosophie première (traduttore il duca de Luynes per il testo e Claude Clerselier per le Obiezioni e Risposte) e Les principes de la philosophie (traduttore Padre Claude Picot).

1648 - Viaggio in Francia. Ospite dei Padri Teatini.

1649 - Pubblica Les passions de l'âme, trattato di morale ispirato dalla corrispondenza con la principessa Elisabetta.

1649 - Amareggiato dalla ostilità con cui venivano accolte le sue opere, accetta l'invito della regina Cristina, ventidue anni, di trasferirsi in Svezia. Ad ottobre parte. Tiene lezioni di filosofia alla regina alle cinque del mattino.

1650 - L'11 febbraio, a causa di una polmonite, Descartes muore a Stoccolma. Aveva cinquantaquattro anni.

Dopo la morte

1663 - Il 20 novembre le sue opere vengono messe all'indice dal Santo Uffizio. Vi rimarranno fino al 1948. L'iniziativa contro le opere di Descartes era partita dall'università di Lovanio.

1664 - Pubblicazione postuma del trattato Du monde.

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1819 - Le spoglie di Descartes vengono tumulate nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi.

Il cognome Descartes venne latinizzato in Cartesius, da cui l'italiano Cartesio.

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Le opere in cui Cartesio tratta della esistenza di Dio

Cartesio affrontò il tema della esistenza di Dio nelle seguenti opere:

- Discours de la méthode - Parte quarta

- Meditationes de prima philosohia

- Meditazione Terza (prove a posteriori)

- Meditazione Quinta (prova ontologica)

- Principia philosophiae - Parte prima

Discours de la méthode

Il Discours de la méthode si compone di sei parti:

1. Considerazioni relative alle scienze

2. Principali regole del metodo

3. Alcune regole della morale

4. Prova dell'esistenza di Dio e dell'anima

5. Questioni di fisica e di medicina

6. Progetto per procedere nella ricerca della natura.

Al Discours seguono i saggi sulla Diottrica, sulle Meteore e sulla Geometria.

Venne pubblicato nel 1637 in francese a Leida, in Olanda, in forma anonima, con il titolo Discours de la méthode pour bien conduire sa raison, et chercher la verité dans les sciences. Plus la dioptrique, les metéores, et la géometrie qui sont des essais de cette méthode.

Nel 1644, ad Amsterdam, venne pubblicata la versione latina con il titolo Specimina philosophiae; seu Dissertatio de methodo recte regendae rationis et veritatis in scientiis investigandae; Dioptrice et Meteora. Ex gallico translata et ab autore perlecta variisque in locis emendata.

Meditationes de prima philosophia

Le Meditationes de prima philosophia sono costituite da sei meditazioni:

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1. De iis quae in dubium revocari possunt

2. De mente humana quod ipsa sit notior quam corpus

3. De Deo quod existat

4. De vero et falso

5. De essentia rerum materialium, et iterum de Deo, quod existat

6. De rerum materialium existentia, et reali mentis a corpore distinctione

Vennero pubblicate a Parigi, in latino, nel 1641 in prima edizione con il titolo Meditationes de prima philosophia in qua Dei existentia et animae immortalitas demonstratur.

Nel 1642 furono pubblicate ad Amsterdam, in seconda edizione, con il titolo Meditationes de prima philosophia in quibus Dei existentia et animae umane a corpore distinctio demonstrantur. His adiunctae sunt variae obiectiones doctorum virorum in istas de Deo et anima demonstrationes, cun Responsionibus Authoris. Secunda editio septimis obiectionibus antehac non visis aucta.

Nel 1647, a Parigi, venne pubblicata la versione francese con il titolo Les méditations métaphysiques touchant la philosophie première.

Principia philosophiae

I Principia philosophiae sono costituiti da quattro parti:

1. De principiis cognitione humana

2. De principiis rerum materialium

3. De mundo adspectabili

4. De Terra

Vennero pubblicati nel 1644 ad Amsterdam in latino.

Nel 1647, a Parigi, venne pubblicata la versione francese con il titolo Les principes de la philosophie.

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La prova dell'esistenza di Dio nella Meditazione Terza

Le prove dell'esistenza di Dio

Le prove dell'esistenza di Dio si distinguono in prove a priori e prove a posteriori.

Le prove a priori non dipendono dalla esperienza (ovvero da informazioni provenienti dalle caratteristiche contingenti del mondo attuale), ma dalla pura ragione, anche se la comprensione delle prove deriva in tutto o in parte dall’esperienza.

Le prove a posteriori dipendono da un appello all’esperienza (ovvero da informazioni provenienti dalle caratteristiche contingenti del mondo attuale).

Cartesio nella Meditatio Tertia presenta due prove a posteriori dell'esistenza di Dio.

La prima prova parte dall'idea di Dio in noi e dalla impossibilità che tale idea sia derivata da noi stessi.

La seconda prova parte dal fatto che mi conosco come un essere imperfetto e dipendente; la mia esistenza implica quindi quella di un essere perfetto e indipendente. Si tratta di un argomento classico, non originale di Cartesio.

Nella Meditatio Quinta Cartesio presenta la prova a priori detta anche ontologica, ripresa da Anselmo d'Aosta e presentata in una nuova versione.

Questa prova si basa sulla non separazione di essenza ed esistenza in Dio.

Le idee

Cartesio sottopone al dubbio metodico tutte le conoscenze, compresa quella della realtà del mondo fuori di noi. Nessuna conoscenza pare sfuggire al dubbio, ma una verità risulta indubitabile: Io sono una realtà che pensa, che dubita, che afferma, che nega, che comprende poco, che ignora molto, che vuole, che non vuole, che immagina e che sente (Ego su res cogitans, id est dubitans, affirmans, negans, pauca intelligens, multa ignorans, volens, nolens, imaginans etiam et sentiens).

Cartesio passa ad esaminare il pensiero e trova che questo è costituito da idee, che sono immagini delle cose (rerum imagines), e da altri pensieri che sono volontà, affetti e giudizi.

Le idee non sono mai false in senso proprio. E lo stesso vale per la volontà e per gli affetti.

L'errore è invece possibile nei giudizi. E l'errore principale consiste nel giudicare che le idee che si trovano in noi siano simili, o conformi alle cose fuori di noi (Praecipuus autem error et requentissimus qui possit in illis reperiri, consistit in eo quod ideas quae in me sunt iudicem rebus quibusdam extra me positis similes esse sive conformes).

Le idee si dividono in tre categorie a seconda della loro origine:

- Le idee innate: comprendiamo cosa sia una cosa, cosa sia la verità, cosa sia il

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pensiero in base alla nostra stessa natura (nam quod intelligam quid sit res, quid sit veritas, quid sit cogitatio haec non aliunde habere videor quam ab ipsamet mea natura).

- Le idee avventizie: quando sentiamo un rumore, vediamo il sole, sentiamo il calore del fuoco, allora giudichiamo che tutto ciò abbia origine da cose poste al di fuori di noi (quod autem nunc strepitum audiam, solem videam, ignem sentiam, a rebus quibusdam extra me positis procedere hactenus iudicavi).

- Le idee fattizie: come le sirene, gli ippogrifi ed altre simili, vengono finte da noi stessi (ac denique syrenes, hippogryphes et similia, a me ipso finguntur).

Le idee in quanto modi di pensare non sono diverse tra loro e procedono da noi nello stesso modo (quatenus ideae istae cogitandi quidam modi tantum sunt, non agnosco ullam inter ipsas inaequalitatem, et omnes a me eodem modo procedere videntur).

Ma in quanto rappresentano una cosa o l'altra, è evidente che sono molto diverse tra loro (sed, quatenus una unam rem, alia aliam representat, patet easdem esse ab invicem valde diversas).

Quelle che rappresentano una sostanza sono qualcosa di più, contengono più realtà oggettiva, rispetto a quelle che che rappresentano solo dei modi, ossia degli accidenti (Nam proculdubio illae quae substantias mihi exhibent maius aliquid sunt, atque, ut ita loquar, plus realitatis obiectivae in se continent, quam illae quae tantum modos, sive accidentia, repraesentant).

Noi abbiamo l'idea innata di un Dio, eterno, infinito, onnisciente, onnipotente, creatore di tutte le cose fuori di lui (summum aliquem Deum, aeternum, infinitum, omniscium, onnipotentem, rerumque quae prater ipsum sunt creatorem intelligo).

Questa idea di sostanza infinita ha maggiore realtà oggettiva in sé, rispetto alle idee che rappresentano sostanze finite (plus profecto realitatis obiectivae in se habet, quam illae per quas finitae substantiae exhibentur).

Principi fondamentali per la dimostrazione

Sono evidenti per luce naturale (lumine naturali) alcuni principi fondamentali:

- in una causa efficiente e totale deve esserci almeno quanto in un suo effetto (tantumdem ad minimum esse debere in causa efficiente et totali quantum in eiusdem causae effectu);

- da cui segue che dal nulla non può derivare alcunché (hinc autem sequitur nec posse aliquid a nihilo fieri)

- e che è impossibile che qualcosa di più perfetto, che contenga maggior realtà in sé, derivi da qualcosa di meno perfetto (nec etiam id quod magis perfectum est, hoc est quod plus realitatis in se continet, ab eo quod minus).

Questi principi sono veri non solo per quegli effetti la cui realtà è attuale o formale, ma anche per le idee, delle quali si considera solo la realtà oggettiva (Atque hoc non modo perspicue verum est de iis effectibus quorum realitas est actuali sive formalis, sed etiam de ideis, in quibus consideratur tantum realitas obiectiva).

La realtà formale o attuale è la realtà delle cose esistenti e delle idee in quanto esistenti come atti

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del pensante. In questo senso l'idea deriva la sua realtà dal pensiero, è un modo del pensiero.

La realtà oggettiva è la realtà della idea in quanto rappresentante un oggetto.

Perché un'idea contenga questa o quella realtà oggettiva deve esserci una qualche causa nella quale ci sia una realtà formale pari almeno alla realtà oggettiva contenuta nell'idea (Quod autem haec idea realitatem obiectivam hanc vel illam contineat potius quam aliam, hoc profecto habere debet ab aliqua causa in qua tantumdem sit ad minimum realitatis formalis quantum ipsa continet obiectivae).

Una causa può produrre degli effetti formalmente, se esiste parità di perfezione tra causa ed effetto, oppure eminentemente se la causa è di un livello superiore rispetto all'effetto.

Se in qualcuna delle mie idee c'è tanta realtà oggettiva da rendermi certo che in me non c'è altrettanta realtà né formalmente né eminentemente, allora non posso essere io la causa dell'idea (Si realitas obiectiva alicuius ex meis ideis sit tanta ut certus sim eandem nec formaliter nec eminenter in me esse nec proinde me ipsum eius ideae causam posse esse).

Da questo necessariamente segue che non esisto solo io nel mondo, ma deve esistere qualche altra cosa che sia causa di questa idea (hinc necessario sequi non me solum esse in mundo sed aliquam aliam rem, quae istius ideae est causa, etiam existere).

Prova dell'esistenza di Dio a partire dall'idea di Dio in noi

Tra le mie idee, oltre a quella che rappresenta me stesso, e su questa non può esserci alcun problema, una rappresenta Dio, altre le cose corporee e inanimate, altre gli angeli, altre gli animali, e infine altre gli uomini simili a me (Ex his autem meis ideis, prater illam quae me ipsum mihi exhibet, de qua hic nulla difficultas esse potest, alia est quae Deum, aliae quae res corporeas et inanimes, aliae quae angelos, aliae quae animalia, ac denique aliae quae alios homines mei similes repraesentant).

Per quanto concerne le idee che rappresentano uomini, animali e angeli comprendo facilmente che possono essere composte dalle idee che ho di me stesso, delle cose corporee e di Dio, anche se nel mondo non ci fossero, oltre a me, né uomini, né angeli, né animali (Et quantum ad ideas quae alios homines, vel animalia, vel angelos exhibent facile intelligo illas ex iis quas habeo mei ipsius et rerum corporalium et Dei posse componi, quamvis nulli prater me homines, nec animalia, nec angeli in mundo essent).

Per quanto riguarda le idee delle cose corporee non vi è nulla in esse che sia tanto da far apparire impossibile che derivino da me stesso (Quantum ad ideas rerum corporalium, nihil in illis occurrit quod sit tantum ut non videatur a me ipso potuisse proficisci).

Per quanto concerne l'idea di Dio occorre effettuare una verifica se può essere originata da me stesso.

Con il nome Dio intendo, dice Cartesio, una sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, e dalla quale io stesso e qualunque altra cosa esistente (supposto che esista) è stata creata (Dei nomine intelligo substantiam quandam infinitam, indipendentem, summe intelligentem, summe potentem, et qua tum ego ipse tum aliud omne (si quid aliud extat) quodcumque extat, est creatum).

Ora appare evidente che tali attributi, per quanto li esamini, non possono essere derivati da me solo (Quod sane omnia talia sunt ut, quo diligentius attendo, tanto minus a me solo profecta esse posse

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videantur).

Quindi bisogna concludere, per tutto ciò che è stato detto prima, che Dio esiste necessariamente (ideoque ex antedictis Deum necessario existere est concludendum).

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Prova dell'esistenza di Dio nella Meditazione Quinta

Esiste in noi l'idea di un ente sommamente perfetto e della sua esistenza

Certamente esiste in me l'idea di un ente sommamente perfetto non meno della idea di qualunque figura o numero (Certe eius ideam, nempe entis summe perfecti, non minus apud me invenio quam ideam cuiusvis figurae et numeri).

E non meno chiaramente e distintamente comprendo come alla sua natura appartiene di esistere sempre, come ciò che si dimostra di qualche figura o numero apparteniene alla natura della figura o del numero (nec minus clare et distincte intelligo ad eius naturam pertinere ut semper existat quam id quod de aliqua figura aut numero demonstro ad eius figurae aut numeri naturam etiam pertinere).

Quindi, anche se non tutte le cose di cui si era trattato nelle meditazioni precedenti fossero vere, l'esistenza di Dio deve essere in me per lo meno con stesso grado di certezza con cui lo furono le verità matematiche (ac proinde, quamvis non omnia quae superioribus hisce diebus meditatus sum vera essent, in eodem ad minimum certitudinis gradu esse deberet apud me Dei existentia in quo fuerunt hactenus mathematicae veritates).

Dio esiste in quanto non possiamo pensarlo se non come esistente

Noi siamo abituati a distinguere in tutte le altre cose l'esistenza dall'essenza, per cui ci persuadiamo facilmente che si possa separare anche in Dio l'esistenza dalla essenza, e quindi di poter pensare Dio come non esistente (Cum enim assuetus sim in omnibus aliis rebus existentiam ab essentia distinguere, facile mihi persuadeo illam etiam ab essentiam Dei seiungi posse, atque ita Deum ut non existentem cogitari).

Ma se si esamina la cosa con più attenzione risulta manifesto che non possiamo separare l'esistenza dalla essenza di Dio (Sed tamen diligentius attendenti fit manifestum, non magis posse existentiam ab essentiâ Dei separari).

Dal fatto che non possiamo pensare Dio se non esistente segue che l'esistenza sia inseparabile da Dio, e che pertanto Dio esiste effettivamente (Atqui ex eo quòd non possim cogitare Deum nisi existentem, sequitur existentiam a Deo esse inseparabilem, ac proinde illum reverà existere).

Impossibilità di pensare Dio senza esistenza

E non è il mio pensiero che compie [questo collegamento tra esistenza ed essenza], e neppure è il pensiero ad imporre alle cose una qualche necessità; ma al contrario è la necessità della cosa stessa, ossia l'esistenza di Dio, a determinare il mio pensiero a pensare il questo modo (non quòd mea cogitatio hoc efficiat, sive aliquam necessitatem ulli rei imponat, sed contrà quia ipsius rei, nempe existentiae Dei, necessitas me determinat ad hoc cogitandum).

Non sono libero di pensare Dio senza esistenza, ossia un essere sommamente perfetto senza la somma perfezione (neque enim mihi liberum est Deum absque existentiâ - hoc est ens summe

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perfectum absque summâ perfectione - cogitare).

L'esistenza di Dio non viene dopo la determinazione delle sue perfezioni

E non si deve nemmeno dire che si deve porre Dio come esistente, dopo che ho posto che Dio deve avere tutte le perfezioni, e l'esistenza è una di esse, ma che la mia prima posizione non era necessaria (Neque etiam hîc dici debet, necesse quidem esse ut ponam Deum existentem, postquam posui illum habere omnes perfectiones, quandoquidem existentia una est ex illis, sed priorem positionem necessariam non fuisse).

Infatti, sebbene non sia necessario che io pensi qualcosa di Dio, tuttavia ogni qual volta mi capita di pensare ad un ente primo e sommo, e di tirare fuori la sua idea dal tesoro della mia mente, è necessario attribuire a Dio tutte le perfezioni, sebbene non le enumeri tutte in quel momento, e non faccia attenzione a ciascuna di esse (Nam, quamvis non necesse sit ut incidam unquam in ullam de Deo cogitationem, quoties tamen de ente primo & summo libet cogitare, atque ejus ideam tanquam ex mentis meae thesauro depromere, necesse est ut illi omnes perfectiones attribuam, etsi nec omnes tunc enumerem, nec ad singulas attendam).

E questa necessità è sufficiente per concludere rettamente, quando successivamente riconosco che l'esistenza è una perfezione, che l'ente primo e sommo esiste (quae necessitas plane sufficit ut postea, cùm animadverto existentiam esse perfectionem, recte concludam ens primum & summum existere).

Verità dell'idea innata di Dio

Ed esiste una grande differenza tra le false posizioni e le idee vere innate, delle quali la prima e precipua è l'idea di Dio (Ac proinde magna differentia est inter ejusmodi falsas positiones, & ideas veras mihi ingenitas, quarum prima & praecipua est idea Dei).

Infatti riconosco in più modi che questa idea non è qualcosa di fittizio dipendente dal mio pensiero, ma una immagine di una vera e immutabile natura (Nam sane multis modis intelligo illam non esse quid fictitium a cogitatione meâ dependens, sed imaginem verae & immutabilis naturae).

Primo perché non posso pensare nessuna altra cosa, oltre a Dio, alla cui essenza appartenga l'esistenza (ut, primo, quia nulla alia res potest a me excogitari, ad cujus essentiam existentia pertineat, praeter solum Deum).

Poi perché non posso concepire due o più dei di questo tipo, e, supposto che uno di questi esista, si vede chiaramente che è necessario che esista da tutta l'eternità precedente e che si mantenga in esistenza in tutta la futura eternità (deinde, quia non possum duos aut plures ejusmodi Deos intelligere, & quia, posito quòd jam unus existat, plane videam esse necessarium ut & ante ab aeterno extiterit, & in aeternum sit mansurus).

E infine perché io conosco una infinità di altre cose in Dio, nessuna delle quali io posso diminuire o cambiare (ac denique, quòd multa alia in Deo percipiam, quorum nihil a me detrahi potest nec mutari).

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Chiarezza e distinzione

Del resto, di qualunque prova od argomento io mi serva, bisogna tornare sempre allo stesso punto: solo le cose che percepisco chiaramente e distintamente, hanno la forza di persuadermi interamente (Sed verò, quâcumque tandem utar probandi ratione, semper eò res redit, ut ea me sola plane persuadeant, quae clare & distincte percipio).

E tra le cose che concepisco in questo modo, alcune sono note a chiunque, mentre altre si rivelano solo a coloro che le considerano più da vicino e che le esaminano più esattamente. Tuttavia una volta che sono state trovate, queste ultime non sono stimate meno certe delle altre (Et quidem ex iis quae ita percipio, etsi nonnulla unicuique obvia sint, alia verò nonnisi ab iis qui propiùs inspiciunt & diligenter investigant deteguntur, postquam tamen detecta sunt, haec non minus certa quàm illa existimantur).

Per quanto concerne Dio, certamente, se il mio spirito non fosse prevenuto da alcun pregiudizio, e se il mio pensiero non si trovasse assediato dalla presenza continua delle immagini delle cose sensibili, non conoscerei prima e più facilmente nessuna altra cosa che lui (Quod autem ad Deum attinet, certe nisi praejudiciis obruerer, & rerum sensibilium imagines cogitationem meam omni ex parte obsiderent, nihil illo prius aut facilius agnoscerem).

Infatti c'è nulla di per sé più manifesto che il sommo ente esista, ossia che Dio, unicamente nel quale l'esistenza appartiene alla essenza, esista? (nam quid ex se est apertius, quàm summum ens esse, sive Deum, ad cujus solius essentiam existentia pertinet, existere?).

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Renati Descartes

Meditationes de prima philosophia in qua Dei existentia

et animae immortalitas demonstratur.

(1641)

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Meditationes de prima philosophia In quibus Dei existentia,

et animae humanae a corpore distinctio, demonstrantur.

His adiunctae sunt variae obiectiones doctorum virorum in istas de Deo et anima demonstrationes;

cum responsionibus authoris. (1642)

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Meditatio Tertia De Deo quod existat.

Meditatio Quinta De essentia rerum materialium, et iterum de Deo, quod existat.

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M e d i t a t i o III

Meditatio Tertia De Deo quod existat.

1. Claudam nunc oculos, aures obturabo, avocabo omnes sensus, imagines etiam rerum corporalium omnes vel ex cogitatione mea delebo, vel certe, quia hoc fieri vix potest, illas ut inanes et falsas nihili pendam, meque solum alloquendo et penitius inspiciendo, meipsum paulatim mihi magis notum et familiarem reddere conabor.

Ego sum res cogitans, id est dubitans, affirmans, negans, pauca intelligens, multa ignorans, volens, nolens, imaginans etiam et sentiens; ut enim ante animadverti, quamvis illa quae sentio vel imaginor extra me fortasse nihil sint, illos tamen cogitandi modos, quos sensus et imaginationes [35] appello, quatenus cogitandi quidam modi tantùm sunt, in me esse sum certus.

2. Atque his paucis omnia recensui quae vere scio, vel saltem quae me scire hactenus animadverti. Nunc circumspiciam diligentiùs an forte adhuc apud me alia sint ad quae nondum respexi.

Sum certus me esse rem cogitantem. Nunquid ergo etiam scio quid requiratur ut de aliquâ re sim certus? Nempe in hac primâ cognitione nihil aliud est, quàm clara quaedam & distincta perceptio ejus quòd affirmo; quae sane non sufficeret ad me certum de rei veritate reddendum, si posset unquam contingere, ut aliquid, quòd ita clare & distincte perciperem, falsum esset; ac proinde jam videor pro regulâ generali posse statuere, illud omne esse verum, quòd valde clare & distincte percipio.

3. Verumtamen multa prius ut omnino certa & manifesta admisi, quae tamen postea dubia esse deprehendi. Qualia ergo ista fuere? Nempe terra, coelum, sydera & caetera omnia quae sensibus usurpabam. Quid autem de illis clare percipiebam? Nempe ipsas talium rerum ideas, sive cogitationes, menti meae obversari.

Sed ne nunc quidem illas ideas in me esse inficior. Aliud autem quiddam erat quòd affirmabam, quòdque etiam ob consuetudinem credendi clare me percipere arbitrabar, quòd tamen revera non percipiebam: nempe res quasdam extra me esse, a quibus ideae istae procedebant, & quibus omnino similes erant. Atque hoc erat, in quo vel fallebar, vel certe, si verum judicabam, id non ex vi meae perceptionis contingebat.

4. Quid verò? Cùm circa res Arithmeticas vel Geome[36]tricas aliquid valde simplex & facile considerabam, ut quòd duo & tria simul juncta sint quinque, vel similia, nunquid saltem illa satis perspicue intuebar, ut vera esse affirmarem? Equidem non aliam ob causam de iis dubitandum esse postea judicavi, quàm quia veniebat in mentem forte aliquem Deum talem mihi naturam indere potuisse, ut etiam circa illa deciperer, quae manifestissima viderentur. Sed quoties haec praeconcepta de summâ Dei potentiâ opinio mihi occurrit, non possum non fateri, siquidem velit, facile illi esse efficere ut errem, etiam in iis quae me puto mentis oculis quàm evidentissime intueri. Quoties verò ad ipsas res, quas valde clare percipere arbitror, me converto, tam plane ab illis persuadeor, ut sponte erumpam in has voces: fallat me quisquis potest, nunquam tamen efficiet ut nihil sim, quandiu me aliquid esse cogitabo; vel ut aliquando verum sit me nunquam fuisse, cùm jam verum sit me esse; vel forte etiam ut duo & tria simul juncta plura vel pauciora sint quàm quinque, vel similia, in quibus scilicet repugnantiam agnosco manifestam.

Et certe cùm nullam occasionem habeam existimandi aliquem Deum esse deceptorem, nec quidem adhuc satis sciam utrùm sit aliquis Deus, valde tenuis &, ut ita loquar, Metaphysica dubitandi ratio est, quae tantùm ex eâ opinione dependet. Ut autem etiam illa tollatur, quamprimum occurret occasio, examinare debeo an sit Deus, &, si sit, an possit

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esse deceptor; hac enim re ignoratâ, non videor de ullâ aliâ plane certus esse unquam posse.

5. Nunc autem ordo videtur exigere, ut prius omnes [37] meas cogitationes in certa genera distribuam, & in quibusnam ex illis veritas aut falsitas proprie consistat, inquiram. Quaedam ex his tanquam rerum imagines sunt, quibus solis proprie convenit ideae nomen: ut cùm hominem, vel Chimaeram, vel Coelum, vel Angelum, vel Deum cogito. Aliae verò alias quasdam practerea formas habent: ut, cùm volo, cùm timeo, cùm affirmo, cùm nego, semper quidem aliquam rem ut subjectum meae cogitationis apprehendo, sed aliquid etiam amplius quàm istius rei similitudinem cogitatione complector; & ex his aliae voluntates, sive affectus, aliae autem judicia appellantur.

6. Jam quod ad ideas attinet, si solae in se spectentur, nec ad aliud quid illas referam, falsae proprie esse non possunt; nam sive capram, sive chimaeram imaginer, non minus verum est me unam imaginari quàm alteram. Nulla etiam in ipsâ voluntate, vel affectibus, falsitas est timenda; nam, quamvis prava, quamvis etiam ea quae nusquam sunt, possim optare, non tamen ideo non verum est illa me optare.

Ac proinde sola supersunt judicia, in quibus mihi cavendum est ne fallar. Praecipuus autem error & frequentissimus qui possit in illis reperiri, consistit in eo quòd ideas, quae in me sunt, judicem rebus quibusdam extra me positis similes esse sive conformes; nam profecto, si tantùm ideas ipsas ut cogitationis meae quosdam modos considerarem, nec ad quidquam aliud referrem, vix mihi ullam errandi materiam dare possent.

7. Ex his autem ideis aliae innatae, aliae adventitiae, [38] aliae a me ipso factae mihi videntur: nam quòd intelligam quid sit res, quid sit veritas, quid sit cogitatio, hacc non aliunde habere videor quàm ab ipsâmet meâ naturâ; quòd autem nunc strepitum audiam, solem videam, ignem sentiam, a rebus quibusdam extra me positis procedere hactenus judicavi; ac denique Syrenes, Hippogryphes, & similia, a me ipso finguntur. Vel forte etiam omnes esse adventitias possum putare, vel omnes innatas, vel omnes factas: nondum enim veram illarum originem clare perspexi.

8. Sed hîc praecipue de iis est quaerendum, quas tanquam a rebus extra me existentibus desumptas considero, quaenam me moveat ratio ut illas istis rebus similes esse existimem. Nempe ita videor doctus a naturâ. Et praeterea experior illas non a meâ voluntate nec proinde a me ipso pendere; saepe enim vel invito obversantur: ut jam, sive velim, sive nolim, sentio calorem, & ideo puto sensum illum, sive ideam caloris, a re a me diversâ, nempe ab ignis cui assideo calore, mihi advenire. Nihilque magis obvium est, quàm ut luc judicem istam rem suam similitudinem potius quàm aliud quid in me immittere.

9. Quae rationes, an satis firmae sint, jam videbo. Cùm hîc dico me ita doctum esse a naturâ, intelligo tantùm spontaneo quòdam impetu me ferri ad hoc credendum, non lumine aliquo naturali mihi ostendi esse verum. Quae duo multum discrepant; nam quaecumque lumine naturali mihi ostenduntur, ut quòd ex eo quòd dubitem, sequatur me esse, & similia, nullo modo dubia esse possunt, quia nulla alia facultas esse potest, cui aeque fidam ac lumini isti, quaeque illa [39] non vera esse possit docere; sed quantum ad impetus naturales, jam saepe olim judicavi me ab illis in deteriorem partem fuisse impulsum, cùm de bono eligendo ageretur, nec video cur iisdem in ullâ aliâ re magis fidam.

10. Deinde, quamvis ideae illae a voluntate meâ non pendeant, non ideo constat ipsas a rebus extra me positis necessario procedere. Ut enim impetus illi, de quibus mox loquebar, quamvis in me sint, a voluntate tamen meâ diversi esse videntur, ita forte etiam aliqua alia est in me facultas, nondum mihi satis cognita, istarum idearum

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effectrix, ut hactenus semper visum est illas, dum somnio, absque ullâ rerum externarum ope, in me formari.

11. Ac denique, quamvis a rebus a me diversis procederent, non inde sequitur illas rebus istis similes esse debere. Quinimo in multis saepe magnum discrimen videor deprehendisse: ut, exempli causâ, duas diversas solis ideas apud me invenio, unam tanquam a sensibus haustam, & quae maxime inter illas quas adventitias existimo est recensenda, per quam mihi valde parvus apparet, aliam verò ex rationibus Astronomiae desumptam, hoc est ex notionibus quibusdam mihi innatis elicitam, vel quocumque alio modo a me factam, per quam aliquoties major quàm terra exhibetur; utraque profecto similis eidem soli extra me existenti esse non potest, & ratio persuadet illam ei maxime esse dissimilem, quae quàm proxime ab ipso videtur emanasse.

12. Quae omnia satis demonstrant me non hactenus ex [40] certo judicio, sed tantùm ex caeco aliquo impulsu, credidisse res quasdam a me diversas existere, quae ideas sive imagines suas per organa sensuum, vel quolibet alio pacto, mihi immittant.

13. Sed alia quaedam adhuc via mihi occurrit ad inquirendum an res aliquae, ex iis quarum ideae in me sunt, extra me existant. Nempe, quatenus ideae istae cogitandi quidam modi tantùm sunt, non agnosco ullam inter ipsas inaequalitatem, & omnes a me eodem modo procedere videntur; sed, quatenus una unam rem, alia aliam repraesentat, patet easdem esse ab invicem valde diversas. Nam proculdubio illae quae substantias mihi exhibent, majus aliquid sunt, atque, ut ita loquar, plus realitatis objectivae in se continent, quàm illae quae tantùm modos, sive accidentia, repraesentant; & rursus illa per quam summum aliquem Deum, aeternum, infinitum, omniscium, omnipotentem, rerumque omnium, quae praeter ipsum sunt, creatorem intelligo, plus profecto realitatis objectivae in se habet, quàm illae per quas finitae substantiae exhibentur.

14. Jam verò lumine naturali manifestum est tantumdem ad minimum esse debere in causâ efficiente & totali, quantum in ejusdem causae effectu. Nam, quaeso, undenam posset assumere realitatem suam effectus, nisi a causâ? Et quomodo illam ei causa dare posset, nisi etiam haberet?

Hinc autem sequitur, nec posse aliquid a nihilo fieri, nec etiam id quod magis perfectum est, hoc est quod plus realitatis in se con[41]tinet, ab eo quod minus. Atque hoc non modo perspicue verum est de iis effectibus, quorum realitas est actualis sive formalis, sed etiam de ideis, in quibus consideratur tantùm realitas objectiva. Hoc est, non modo non potest, exempli causâ, aliquis lapis, qui prius non fuit, nunc incipere esse, nisi producatur ab aliquâ re in quâ totum illud sit vel formaliter vel eminenter, quod ponitur in lapide; nec potest calor in subjectum quod priùs non calebat induci, nisi a re quae sit ordinis saltem aeque perfecti atque est calor, & sic de caeteris; sed praeterea etiam non potest in me esse idea caloris, vel lapidis, nisi in me posita sit ab aliquâ causâ, in quâ tantumdem ad minimum sit realitatis quantum esse in calore vel lapide concipio.

Nam quamvis ista causa nihil de suâ realitate actuali sive formali in meam ideam transfundat, non ideo putandum est illam minus realem esse debere, sed talem esse naturam ipsius ideae, ut nullam aliam ex se realitatem formalem exigat, praeter illam quam mutuatur a cogitatione meâ, cujus est modus. Quòd autem haec idea realitatem objectivam hanc vel illam contineat potius quàm aliam, hoc profectò habere debet ab aliquâ causâ in quâ tantumdem sit ad minimum realitatis formalis quantum ipsa continet objectivae.

Si enim ponamus aliquid in ideâ reperiri, quod non fuerit in ejus causâ, hoc igitur habet a nihilo; atqui quantumvis imperfectus sit iste essendi modus, quo res est objective in intellectu per ideam, non tamen profectò plane nihil est, nec proinde a nihilo esse potest.

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15. Nec etiam debeo suspicari, cùm realitas quam considero in meis ideis sit tantùm objectiva, non opus [42] esse ut eadem realitas sit formaliter in causis istarum idearum, sed sufficere, si sit in iis etiam objective. Nam quemadmodum iste modus essendi objectivus competit ideis ex ipsarum naturâ, ita modus essendi formalis competit idearum causis, saltem primis & praecipuis, ex earum naturâ. Et quamvis forte una idea ex aliâ nasci possit, non tamen hîc datur progressus in infinitum, sed tandem ad aliquam primam debet deveniri, cujus causa sit in star archetypi, in quo omnis realitas formaliter contineatur, quae est in ideâ tantùm objective.

Adeo ut lumine naturali mihi sit perspicuum ideas in me esse veluti quasdam imagines, quae possunt quidem facile deficere a perfectione rerum a quibus sunt desumptae, non autem quicquam majus aut perfectius continere.

16. Atque haec omnia, quò diutius & curiosius examino, tantò clarius & distinctius vera esse cognosco. Sed quid tandem ex his concludam?

Nempe si realitas objectiva alicujus ex meis ideis sit tanta ut certus sim eandem nec formaliter nec eminenter in me esse, nec promde me ipsum elus ideae causam esse posse, hinc necessario sequi, non me solum esse in mundo, sed aliquam aliam rem, quae istius ideae est causa, etiam existere. Si verò nulla talis in me idea reperiatur, nullum plane habebo argumentum quod me de alicujus rei a me diversae existentiâ certum reddat; omnia enim diligentissime circumspexi, & nullum aliud potui hactenus reperire.

17. Ex his autem meis ideis, practer illam quae me ipsum mihi exhibet, de quâ hîc nulla difficultas esse [43] potest, alia est quae Deum, aliae quae res corporeas & inanimes, aliae quae Angelos, aliae quae animalia, ac denique aliae quae alios homines meî similes repraesentant.

18. Et quantum ad ideas quae alios homines, vel animalia, vel Angelos exhibent, facile intelligo illas ex iis quas habeo meî ipsius & rerum corporalium & Dei posse componi, quamvis nulli praeter me homines, nec animalia, nec Angeli, in mundo essent.

19. Quantum autem ad ideas rerum corporalium, nihil in illis occurrit, quod sit tantum ut non videatur a me ipso potuisse proficisci; nam si penitiùs inspiciam, & singulas examinem eo modo quo heri examinavi ideam cerae, animadverto perpauca tantùm esse quae in illis clare & distincte percipio: nempe magnitudinem, sive extensionem in longum, latum, & profundum; figuram, quae ex terminatione istius extensionis exsurgit; situm, quem diversa figurata inter se obtinent; & motum, sive mutationem istius sitûs; quibus addi possunt substantia, duratio, & numerus: caetera autem, ut lumen & colores, soni, odores, sapores, calor & frigus, aliacque tactiles qualitates, nonnisi valde confuse & obscure a me cogitantur, adeo ut etiam ignorem an sint verae, vel falsae, hoc est, an ideae, quas de illis habeo, sint rerum quarundam ideae, an non rerum.

Quamvis enim falsitatem proprie dictam, sive formalem, nonnisi in judiciis posse reperiri paulo ante notaverim, est tamen profecto quaedam alia falsitas materialis in ideis, cùm non rem tanquam rem repraesentant: ita, exempli causâ, ideae quas habeo caloris & frigoris, tam parum clarae [44] & distinctae sunt, ut ab iis discere non possim, an frigus sit tantùm privatio caloris, vel calor privatio frigoris, vel utrumque sit realis qualitas, vel neutrum. Et quia nullae ideae nisi tanquam rerum esse possunt, siquidem verum sit frigus nihil aliud esse quàm privationem caloris, idea quae mihi illud tanquam reale quid & positivum repraesentat, non immerito falsa dicetur, & sic de caeteris.

20. Quibus profecto non est necesse ut aliquem authorem a me diversum assignem; nam, si quidem sint falsae, hoc est nullas res repraesentent, lumine naturali notum mihi est illas a nihilo procedere, hoc est, non aliam ob causam in me esse quàm quia deest aliquid naturae meae, nec est plane perfecta; si autem sint verae, quia tamen tam parum realitatis mihi exhibent, ut ne quidem illud a non re possim distinguere, non video cur a me ipso esse non possint.

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21. Ex iis verò quae in ideis rerum corporalium clara & distincta sunt, quaedam ab ideâ meî ipsius videor mutuari potuisse, nempe substantiam, durationem, numerum, & si quae alia sint ejusmodi; nam cùm cogito lapidem esse substantiam, sive esse rem quae per se apta est existere, itemque me esse substantiam, quamvis concipiam me esse rem cogitantem & non extensam, lapidem verò esse rem extensam & non cogitantem, ac proinde maxima inter utrumque conceptum sit diversitas, in ratione tamen substantiae videntur convenire; itemque, cùm percipio me nunc esse, & priùs etiam aliquamdiu fuisse recordor, cùmque varias habeo cogitationes quarum numerum intelligo, acquiro [45] ideas durationis & numeri, quas deinde ad quascunque alias res possum transferre.

Caetera autem omnia ex quibus rerum corporearum ideae conflantur, nempe extensio, figura, situs, & motus, in me quidem, cùm nihil aliud sim quàm res cogitans, formaliter non continentur; sed quia sunt tantùm modi quidam substantiae, ego autem substantia, videntur in me contineri posse eminenter.

22. Itaque sola restat idea Dei, in quâ considerandum est an aliquid sit quod a me ipso non potuerit proficisci. Dei nomine intelligo substantiam quandam infinitam, independentem, summe intelligentem, summe potentem, & a quâ tum ego ipse, tum aliud omne, si quid aliud extat, quodcumque extat, est creatum. Quae sane omnia talia sunt ut, quo diligentius attendo, tanto minus a me solo profecta esse posse videantur. Ideoque ex antedictis, Deum necessario existere, est concludendum.

23. Nam quamvis substantiae quidem idea in me sit ex hoc ipso quòd sim substantia, non tamen idcirco esset idea substantiae infinitae, cùm sim finitus, nisi ab aliquâ substantiâ, quae revera esset infinita, procederet.

24. Nec putare debeo me non percipere infinitum per veram ideam, sed tantùm per negationem finiti, ut percipio quietem & tenebras per negationem motûs & lucis; nam contrà manifeste intelligo plus realitatis esse in substantiâ infinitâ quàm in finitâ, ac proinde priorem quodammodo in me esse perceptionem infiniti quàm finiti, hoc est Dei quàm meî ipsius. Quâ enim ratione intelligerem me dubitare, me [46] cupere, hoc est, aliquid mihi deesse, & me non esse omnino perfectum, si nulla idea entis perfectioris in me esset, ex cujus comparatione defectus meos agnoscerem?

25. Nec dici potest hanc forte ideam Dei materialiter falsam esse, ideoque a nihilo esse posse, ut paulo ante de ideis caloris & frigoris, & similium, animadverti; nam contrà, cùm maxime clara & distincta sit, & plus realitatis objectivae quàm ulla alia contineat, nulla est per se magis vera, nec in quâ minor falsitatis suspicio reperiatur.

Est, inquam, haec idea entis summe perfecti & infiniti maxime vera; nam quamvis forte fingi possit tale ens non existere, non tamen fingi potest ejus ideam nihil reale mihi exhibere, ut de ideâ frigoris ante dixi.

Est etiam maxime clara & distincta; nam quidquid clare & distincte percipio, quod est reale & verum, & quod perfectionem aliquam importat, totum in eâ continetur.

Nec obstat quod non comprehendam infinitum, vel quod alia innumera in Deo sint, quae nec comprehendere, nec forte etiam attingere cogitatione, ullo modo possum; est enim de ratione infiniti, ut a me, qui sum finitus, non comprehendatur; & sufficit me hoc ipsum intelligere, ac judicare, illa omnia quae clare percipio, & perfectionem aliquam importare scio, atque etiam forte alia innumera quae ignoro, vel formaliter vel eminenter in Deo esse, ut idea quam de illo habeo sit omnium quae in me sunt maxime vera, & maxime clara & distincta.

26. Sed forte majus aliquid sum quàm ipse intelligam, omnesque illae perfectiones quas Deo tribuo, potentiâ quodammodo in me sunt, etiamsi nondum sese exe[47]rant, neque ad actum reducantur. Experior enim jam cognitionem meam paulatim augeri; nec video quid obstet quominus ita magis & magis augeatur in infinitum, nec etiam cur, cognitione sic auctâ, non possim ejus ope reliquas omnes Dei perfectiones adipisci; nec denique cur

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potentia ad istas perfectiones, si jam in me est, non sufficiat ad illarum ideam producendam.

27. Imo nihil horum esse potest. Nam primo, ut verum sit cognitionem meam gradatim augeri, & multa in me esse potentiâ quae actu nondum sunt, nihil tamen horum ad ideam Dei pertinet, in quâ nempe nihil omnino est potentiale; namque hoc ipsum, gradatim augeri, certissimum est imperfectionis argumentum. Praeterea, etiamsi cognitio mea semper magis & magis augeatur, nihilominus intelligo nunquam illam idcirco fore actu infinitam, quia nunquam eo devenietur, ut majoris adhuc incrementi non sit capax; Deum autem ita judico esse actu infinitum, ut nihil ejus perfectioni addi possit. Ac denique percipio esse objectivum ideae non a solo esse potentiali, quod proprie loquendo nihil est, sed tantummodo ab actuali sive formali posse produci.

28. Neque profecto quicquam est in his omnibus, quod diligenter attendenti non sit lumine naturali manifestum; sed quia, cùm minus attendo, & rerum sensibilium imagines mentis aciem excaecant, non ita facile recordor cur idea entis me perfectioris necessariò ab ente aliquo procedat quod sit revera perfectius, ulte[48]rius quaerere libet an ego ipse habens illam ideam esse possem, si tale ens nullum existeret.

29. Nempe a quo essem? A me scilicet, vel a parentibus, vel ab aliis quibuslibet Deo minus perfectis; nihil enim ipso perfectius, nec etiam aeque perfectum, cogitari aut fingi potest.

30. Atqui, si a me essem, nec dubitarem, nec optarem, nec omnino quicquam mihi deesset; omnes enim perfectiones quarum idea aliqua in me est, mihi dedissem, atque ita ipsemet Deus essem. Nec putare debeo illa forsan quae mihi desunt difficilius acquiri posse, quàm illa quae jam in me sunt; nam contrà, manifestum est longe difficilius fuisse me, hoc est rem sive substantiam cogitantem, ex nihilo emergere, quàm multarum rerum quas ignoro cognitiones, quae tantùm istius substantiae accidentia sunt, acquirere. Ac certe, si majus illud a me haberem, non mihi illa saltem, quae facilius haberi possunt, denegassem, sed neque etiam ulla alia ex iis, quae in ideâ Dei contineri percipio; quia nempe nulla difficiliora factu mihi videntur; si quae autem difficiliora factu essent, certe etiam mihi difficiliora viderentur, siquidem reliqua quae habeo, a me haberem, quoniam in illis potentiam meam terminari experirer.

31. Neque vim harum rationum effugio, si supponam me forte semper fuisse ut nunc sum, tanquam si inde sequeretur, nullum existentiae meae authorem esse quaerendum. Quoniam enim omne tempus vitae in [49] partes innumeras dividi potest, quarum singulae a reliquis nullo modo dependent, ex eo quòd paulo ante fuerim, non sequitur me nunc debere esse, nisi aliqua causa me quasi rursus creet ad hoc momentum, hoc est me conservet. Perspicuum enim est attendenti ad temporis naturam, eâdem plane vi & actione opus esse ad rem quamlibet singulis momentis quibus durat conservandam, quâ opus esset ad eandem de novo creandam, si nondum existeret; adeo ut conservationem solâ ratione a creatione differre, sit etiam unum ex iis quae lumine naturali manifesta sunt.

32. Itaque debeo nunc interrogare me ipsum, an habeam aliquam vim per quam possim efficere ut ego ille, qui jam sum, paulo post etiam sim futurus: nam, cùm nihil aliud sim quàm res cogitans, vel saltem cùm de eâ tantùm meî parte praecise nunc agam quae est res cogitans, si quae talis vis in me esset, ejus proculdubio conscius essem. Sed & nullam esse experior, & ex hoc ipso evidentissime cognosco me ab aliquo ente a me diverso pendere.

33. Forte verò illud ens non est Deus, sumque vel a parentibus productus, vel a quibuslibet aliis causis Deo minus perfectis. Imo, ut jam ante dixi, perspicuum est tantumdem ad minimum esse debere in causâ quantum est in effectu;

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& idcirco, cùm sim res cogitans, ideamque quandam Dei in me habens, qualiscunque tandem meî causa assignetur, illam etiam esse rem cogitantem, & omnium perfectionum, quas Deo tribuo, ideam habere fatendum est.

Potestque de illâ rursus quaeri, an sit a se, vel ab aliâ. Nam si a se, patet ex dictis illam ipsam Deum esse, quia nempe, [50] cùm vim habeat per se existendi, habet proculdubio etiam vim possidendi actu omnes perfectiones quarum ideam in se habet, hoc est omnes quas in Deo esse concipio. Si autem sit ab aliâ, rursus eodem modo de hac alterâ quaeretur, an sit a se, vel ab aliâ, donec tandem ad causam ultimam deveniatur, quae erit Deus.

34. Satis enim apertum est nullum hîc dari posse progressum in infinitum, praesertim cùm non tantùm de causâ, quae me olim produxit, hîc agam, sed maxime etiam de illâ quae me tempore praesenti conservat.

35. Nec fingi potest plures forte causas partiales ad me efficiendum concurrisse, & ab unâ ideam unius ex perfectionibus quas Deo tribuo, ab aliâ ideam alterius me accepisse, adeo ut omnes quidem illae perfectiones alicubi in universo reperiantur, sed non omnes simul junctae in uno aliquo, qui sit Deus. Nam contrà, unitas, simplicitas, sive insepararibilitas eorum ommum quae in Deo sunt, una est ex praecipuis perfectionibus quas in eo esse intelligo. Nec certe istius omnium ejus perfectionum unitatis idea in me potuit poni ab ullâ causâ, a quâ etiam aliarum perfectionum ideas non habuerim: neque enim efficere potuit ut illas simul junctas & inseparabiles intelligerem, nisi simul effecerit ut quaenam illae essent agnoscerem.

36. Quantum denique ad parentes attinet, ut omnia vera sint quae de illis unquam putavi, non tamen profecto illi me conservant, nec etiam ullo modo me, quatenus sum res cogitans, effecerunt; sed tantùm dispositiones quasdam in eâ materiâ posuerunt, cui me, hoc est mentem, quam solam nunc pro me acci[51]pio, inesse judicavi. Ac proinde hîc nulla de iis difficultas esse potest; sed omnino est concludendum, ex hoc solo quòd existam, quaedamque idea entis perfectissimi, hoc est Dei, in me sit, evidentissime demonstrari Deum etiam existere.

37. Superest tantùm ut examinem quâ ratione ideam istam a Deo accepi; neque enim illam sensibus hausi, nec unquam non expectanti mihi advenit, ut solent rerum sensibilium ideae, cùm istae res externis sensuum organis occurrunt, ve occurrere videntur; nec etiam a me efficta est, nam nihil ab illâ detrahere, nihil illi superaddere plane possum; ac proinde superest ut mihi sit innata, quemadmodum etiam mihi est innata idea meî ipsius.

38. Et sane non mirum est Deum, me creando, ideam illam mihi indidisse, ut esset tanquam nota artificis operi suo impressa; nec etiam opus est ut nota illa sit aliqua res ab opere ipso diversa. Sed ex hoc uno quòd Deus me creavit, valde credibile est me quodammodo ad imaginem & similitudinem ejus factum esse, illamque similitudinem, in quâ Dei idea continetur, a me percipi per eandem facultatem, per quam ego ipse a me percipior: hoc est, dum in meipsum mentis aciem converto, non modo intelligo me esse rem incompletam & ab alio dependentem, remque ad majora & majora sive meliora indefinite aspirantem; sed simul etiam intelligo illum, a quo pendeo, majora ista omnia non indefinite & potentiâ tantùm, sed reipsâ infinite in se habere, atque ita Deum esse.

Totaque vis argumenti in eo est, quòd agnoscam fieri non posse [52] ut existam talis naturae qualis sum, nempe ideam Dei in me habens, nisi revera Deus etiam existeret, Deus, inquam, ille idem cujus idea in me est, hoc est, habens omnes illas perfectiones, quas ego non comprehendere, sed quocunque modo attingere cogitatione possum, & nullis plane defectibus obnoxius. Ex quibus satis patet illum fallacem esse non posse; omnem enim fraudem & deceptionem a defectu aliquo pendere, lumine naturali manifestum est.

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39. Sed priusquam hoc diligentius examinem, simulque in alias veritates quae inde colligi possunt inquiram, placet hîc aliquandiu in ipsius Dei contemplatione immorari, ejus attributa apud me expendere, & immensi hujus luminis pulchritudinem, quantum caligantis ingenii mei acies ferre poterit, intueri, admirari, adorare. Ut enim in hac solâ divinae majestatis contemplatione summam alterius vitae foelicitatem consistere fide credimus, ita etiam jam ex eâdem, licet multo minus perfectâ, maximam, cujus in hac vitâ capaces simus, voluptatem percipi posse experimur.

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Meditatio Quinta De essentia rerum materialium, et iterum de Deo, quod existat.

1. Multa mihi supersunt de Dei attributis, multa de meî ipsius sive mentis meae naturâ investiganda; sed illa forte aliàs resumam, jamque nihil magis urgere videtur (postquam animadverti quid cavendum atque agendum sit ad assequendam veritatem), quàm ut ex dubiis, in quae superioribus diebus incidi, coner emergere, videamque an aliquid certi de rebus materialibus haberi possit.

2. Et quidem, priusquam inquiram an aliquae tales res extra me existant, considerare debeo illarum ideas, quatenus sunt in meâ cogitatione, & videre quaenam ex iis sint distinctae, quaenam confusae.

3. Nempe distincte imaginor quantitatem, quam vulgo Philosophi appellant continuam, sive ejus quantitatis aut potius rei quantae extensionem in longum, latum & profundum; numero in eâ varias partes; quaslibet istis partibus magnitudines, figuras, situs, & motus locales, motibusque istis quaslibet durationes assigno.

4. Nec tantùm illa, sic in genere spectata, mihi plane nota & perspecta sunt, sed praeterea etiam particularia innumera de figuris, de numero, de motu, & similibus, attendendo percipio, quorum veritas adeo aperta [64] est & naturae meae consentanea, ut, dum illa primùm detego, non tam videar aliquid novi addiscere, quàm eorum quae jam ante sciebam reminisci, sive ad ea primùm advertere, quae dudum quidem in me erant, licet non prius in illa obtutum mentis convertissem.

5. Quodque hîc maxime considerandum puto, invenio apud me innumeras ideas quarumdam rerum, quae, etiam si extra me fortasse nullibi existant, non tamen dici possunt nihil esse; & quamvis a me quodammodo ad arbitrium cogitentur, non tamen a me finguntur, sed suas habent veras & immutabiles naturas. Ut cùm, exempli causâ, triangulum imaginor, etsi fortasse talis figura nullibi gentium extra cogitationem meam existat, nec unquam extiterit, est tamen profecto determinata quaedam ejus natura, sive essentia, sive forma, immutabilis & aeterna, quae a me non efficta est, nec a mente meâ dependet; ut patet ex eo quòd demonstrari possint variae proprietates de isto triangulo, nempe quòd ejus tres anguli sint acquales duobus rectis, quòd maximo ejus angulo maximum latus subtendatur, & similes, quas velim nolim clare nunc agnosco, etiamsi de iis nullo modo antea cogitaverim, cùm triangulum imaginatus sum, nec proinde a me fuerint effictae.

6. Neque ad rem attinet, si dicam mihi forte a rebus externis per organa sensuum istam trianguli ideam advenisse, quia nempe corpora triangularem figuram habentia interdum vidi; possum enim alias innumeras figuras excogitare, de quibus nulla suspicio esse potest quòd mihi unquam per sensus illapsae sint, & tamen [65] varias de iis, non minus quàm de triangulo, proprietates demonstrare. Quae sane omnes sunt verae, quandoquidem a me clare cognoscuntur, ideoque aliquid sunt, non merum nihil: patet enim illud omne quod verum est esse aliquid; & jam fuse demonstravi illa omnia quae clare cognosco esse vera.

Atque quamvis id non demonstrassem, ea certe est natura mentis meae ut nihilominus non possem iis non assentiri, saltem quamdiu ea clare percipio; meminique me semper, etiam ante hoc tempus, cùm sensuum objectis quam maxime inhaererem, ejusmodi veritates, quae nempe de figuris, aut numeris, aliisve ad Arithmeticam vel Geometriam vel in genere ad puram atque abstractam Mathesim pertinentibus, evidenter agnoscebam, pro omnium certissimis habuisse. 7. Jam verò si ex eo solo, quòd alicujus rei ideam possim ex cogitatione meâ depromere, sequitur ea omnia, quae ad illam rem pertinere clare & distincte percipio, revera ad illam pertinere, nunquid inde haberi etiam potest argumentum, quo Dei existentia probetur?

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Certe ejus ideam, nempe entis summe perfecti, non minus apud me invenio, quàm ideam cujusvis figurae aut numeri; nec minus clare & distincte intelligo ad ejus naturam pertinere ut semper existat, quàm id quòd de aliquâ figurâ aut numero demonstro ad ejus figurae aut numeri naturam etiam pertinere; ac proinde, quamvis non omnia, quae superioribus hisce diebus meditatus sum, vera essent, in eodem ad minimum certitudinis gradu esse deberet apud me Dei existen[66]tia, in quo fuerunt hactenus Mathematicae veritates.

8. Quanquam sane hoc primâ fronte non est omnino perspicuum, sed quandam sophismatis speciem refert. Cùm enim assuetus sim in omnibus aliis rebus existentiam ab essentiâ distinguere, facile mihi persuadeo illam etiam ab essentiâ Dei sejungi posse, atque ita Deum ut non existentem cogitari. Sed tamen diligentius attendenti fit manifestum, non magis posse existentiam ab essentiâ Dei separari, quàm ab essentiâ trianguli magnitudinem trium ejus angulorum acqualium duobus rectis, sive ab ideâ montis ideam vallis: adeo ut non magis repugnet cogitare Deum (hoc est ens summe perfectum) cui desit existentia (hoc est cui desit aliqua perfectio), quàm cogitare montem cui desit vallis. 9. Verumtamen, ne possim quidem cogitare Deum nisi existentem, ut neque montem sine valle, at certe, ut neque ex eo quòd cogitem montem cum valle, ideo sequitur aliquem montem in mundo esse, ita neque ex eo quòd cogitem Deum ut existentem, ideo sequi videtur Deum existere: nullam enim necessitatem cogitatio mea rebus imponit; & quemadmodum imaginari licet equum alatum, etsi nullus equus habeat alas, ita forte Deo existentiam possum affingere, quamvis nullus Deus existat.

10. Imo sophisma hîc latet; neque enim, ex eo quòd non possim cogitare montem nisi cum valle, sequitur alicubi montem & vallem existere, sed tantùm mon[67]tem & vallem, sive existant, sive non existant, a se mutuo sejungi non posse. Atqui ex eo quòd non possim cogitare Deum nisi existentem, sequitur existentiam a Deo esse inseparabilem, ac proinde illum reverà existere; non quòd mea cogitatio hoc efficiat, sive aliquam necessitatem ulli rei imponat, sed contrà quia ipsius rei, nempe existentiae Dei, necessitas me determinat ad hoc cogitandum: neque enim mihi liberum est Deum absque existentiâ (hoc est ens summe perfectum absque summâ perfectione) cogitare, ut liberum est equum vel cum alis vel sine alis imaginari.

11. Neque etiam hîc dici debet, necesse quidem esse ut ponam Deum existentem, postquam posui illum habere omnes perfectiones, quandoquidem existentia una est ex illis, sed priorem positionem necessariam non fuisse; ut neque necesse est me putare figuras omnes quadrilateras circulo inscribi, sed posito quòd hoc putem, necesse erit me fateri rhombum circulo inscribi, quod aperte tamen est falsum. Nam, quamvis non necesse sit ut incidam unquam in ullam de Deo cogitationem, quoties tamen de ente primo & summo libet cogitare, atque ejus ideam tanquam ex mentis meae thesauro depromere, necesse est ut illi omnes perfectiones attribuam, etsi nec omnes tunc enumerem, nec ad singulas attendam: quae necessitas plane sufficit ut postea, cùm animadverto existentiam esse perfectionem, recte concludam ens primum & summum existere: quemadmodum non est necesse me ullum triangulum unquam imaginari, sed quoties volo figuram rectilineam tres tantùm angulos habentem considerare, necesse est ut illi ea tribuam, ex qui[68]bus recte infertur ejus tres angulos non majores esse duobus rectis, etiamsi hoc ipsum tunc non advertam. Cùm verò examino quaenam figurae circulo inscribantur, nullo modo necesse est ut putem omnes quadrilateras ex eo numero esse; imò etiam idipsum nequidem fingere possum, quamdiu nihil volo admittere nisi quod clare & distincte intelligo.

Ac proinde magna differentia est inter ejusmodi falsas positiones, & ideas veras mihi ingenitas, quarum prima & praecipua est idea Dei. Nam sane multis modis intelligo illam non esse quid fictitium a cogitatione meâ dependens, sed imaginem verae & immutabilis naturae: ut, primo, quia nulla alia res potest a me excogitari, ad cujus essentiam existentia pertineat, praeter solum Deum; deinde, quia non possum duos aut plures ejusmodi Deos intelligere, & quia, posito quòd jam unus existat, plane videam esse necessarium ut & ante ab aeterno extiterit, & in aeternum sit mansurus; ac denique, quòd multa alia in Deo percipiam, quorum nihil a me detrahi potest nec mutari. 12. Sed verò, quâcumque tandem utar probandi ratione, semper eò res redit, ut ea me sola plane persuadeant, quae clare & distincte percipio. Et quidem ex iis quae ita percipio, etsi nonnulla unicuique obvia sint, alia verò nonnisi ab iis qui propiùs inspiciunt & diligenter investigant deteguntur, postquam tamen detecta sunt, haec non minus certa quàm illa existimantur. Ut quamvis non tam facile appareat in triangulo rectan[69]gulo quadratum basis aequale esse

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quadratis laterum, quàm istam basim maximo ejus angulo subtendi, non tamen minùs creditur, postquam semel est perspectum.

Quod autem ad Deum attinet, certe nisi praejudiciis obruerer, & rerum sensibilium imagines cogitationem meam omni ex parte obsiderent, nihil illo prius aut facilius agnoscerem; nam quid ex se est apertius, quàm summum ens esse, sive Deum, ad cujus solius essentiam existentia pertinet, existere?

13. Atque, quamvis mihi attentâ consideratione opus fuerit ad hoc ipsum percipiendum, nunc tamen non modo de eo aeque certus sum ac de omni alio quod certissimum videtur, sed praeterea etiam animadverto caeterarum rerum certitudinem ab hoc ipso ita pendere, ut absque eo nihil unquam perfecte sciri possit.

14. Etsi enim ejus sim naturae ut, quamdiu aliquid valde clare & distincte percipio, non possim non credere verum esse, quia tamen ejus etiam sum naturae ut non possim obtutum mentis in eandem rem semper defigere ad illam clare percipiendam, recurratque saepe memoria judicii ante facti, cùm non amplius attendo ad rationes propter quas tale quid judicavi, rationes aliae afferri possunt quae me, si Deum ignorarem, facile ab opinione dejicerent, atque ita de nullâ unquam re veram & certam scientiam, sed vagas tantùm & mutabiles opiniones, haberem. Sic, exempli causâ, cùm naturam trianguli considero, evidentissime quidem mihi, utpote Geometriae principiis imbuto, apparet ejus tres angulos aequales esse duobus rectis, nec possum non credere id verum esse, quamdiu ad [70] ejus demonstrationem attendo; sed statim atque mentis aciem ab illâ deflexi, quantumvis adhuc recorder me illam clarissime perspexisse, facile tamen potest accidere ut dubitem an sit vera, si quidem Deum ignorem. Possum enim mihi persuadere me talem a naturâ factum esse, ut interdum in iis fallar quae me puto quàm evidentissime percipere, cùm praesertim meminerim me saepe multa pro veris & certis habuisse, quae postmodum, aliis rationibus adductus, falsa esse judicavi.

15. Postquam verò percepi Deum esse, quia simul etiam intellexi caetera omnia ab eo pendere, illumque non esse fallacem; atque inde collegi illa omnia, quae clare & distincte percipio, necessariò esse vera; etiamsi non attendam amplius ad rationes propter quas istud verum esse judicavi, modo tantùm recorder me clare & distincte perspexisse, nulla ratio contraria afferri potest, quae me ad dubitandum impellat, sed veram & certam de hoc habeo scientiam. Neque de hoc tantùm, sed & de reliquis omnibus quae memini me aliquando demonstrasse, ut de Geometricis & similibus. Quid enim nunc mihi opponetur? Mene talem factum esse ut saepe fallar? At jam scio me in iis, quae perspicue intelligo, falli non posse. Mene multa aliàs pro veris & certis habuisse, quae postea falsa esse deprehendi? Atqui nulla ex iis clare & distincte perceperam, sed hujus regulae veritatis ignarus ob alias causas forte credideram, quas postea minus firmas esse detexi.

Quid ergo dicetur? Anne (ut nuper mihi objiciebam) me forte somniare, sive illa omnia, quae jam cogito, non magis vera esse quàm ea quae dormienti occurrunt? Imò etiam hoc nihil mutat; nam certe, [71] quamvis somniarem, si quid intellectui meo sit evidens, illud omnino est verum.

16. Atque ita plane video omnis scientiae certitudinem & veritatem ab unâ veri Dei cognitione pendere, adeo ut, priusquam illum nossem, nihil de ullâ aliâ re perfecte scire potuerim. Jam verò innumera, tum de ipso Deo aliisque rebus intellectualibus, tum etiam de omni illâ naturâ corporeâ, quae est purae Matheseos objectum, mihi plane nota & certa esse possunt.

d i t a t i o V

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René Descartes

Principia Philosophiae

SERENISSIMAE PRINCIPI ELISABETHAE,

FREDERICI BOHEMIAE REGIS,

COMITIS PALATINI ET ELECTORIS SACRI ROMANI IMPERII, FILIAE NATU MAXIMAE.

Serenissima Princeps,

Maximum fructum percepi scriptorum, quae antehac in lucem edidi, quod ea perlegere dignata sis, quodque, eorum occasione in notitiam tuam admissus, tales dotes tuas esse cognoverim, ut e re gentis humanae esse putem, eas seculis in exemplum proponi. Non deceret me vel adulari, vel aliquid non satis perspectum affirmare, praesertim hoc in loco, in quo veritatis fundamenta iacere conaturus sum; et scio non affectatum ac simplex Philosophi iudicium generosae modestiae tuae gratius fore, quam magis exornatas blandiorum hominum laudationes. Quapropter ea tantum scribam, /2/ quae vera esse ratione vel experientia cognosco, et hic in exordio eodem modo ac in toto reliquo libro philosophabor.

Magnum est discrimen inter veras et apparentes virtutes; nec non etiam ex veris, inter illas quae ab accurata rerum cognitione deveniunt, et illas quae cum aliqua ignoratione coniunctae sunt. Per apparentes, intelligo vitia quaedam non valde frequentia, vitiis aliis notioribus opposita; quae quoniam ab iis magis distant quam intermediae virtutes, idcirco magis solent celebrari. Sic quia plures inveniuntur qui pericula timide refugiunt, quam qui se inconsiderate in ipsa coniiciant, vitio timiditatis temeritas tanquam virtus opponitur, et magis quam vera fortitudo vulgo aestimatur; sic saepe prodigi pluris fiunt quam liberales; sicque nulli facilius ad magnam pietatis famam perveniunt, quam superstitiosi vel hypocritae.

Inter veras autem virtutes, multae non a sola recti cognitione, sed etiam ab errore aliquo nascuntur: sic saepe a simplicitate bonitas, a metu pietas, a desperatione fortitudo exsurgit. Atque hae ab invicem diuersae sunt, ut etiam diversis nominibus designantur; sed illae purae et sincerae, quae ex sola recti cognitione profluunt, unam et eandem omnes habent naturam, et sub uno sapientiae nomine continentur. Quisquis enim firmam et efficacem habet uoluntatem recte semper utendi sua ratione, quantum in se est, idque omne quod optimum esse cognoscit exsequendi, revera sapiens est, /3/ quantum ex natura sua esse potest; et per hoc unum, iustitiam, fortitudinem, temperantiam, reliquasque omnes virtutes habet, sed ita inter se coniunctas, ut nullae supra caeteras emineant; et idcirco, quamvis multo sint praestantiores iis quae aliqua vitiorum mistura distinctae sunt, quia tamen multitudini minus sunt notae, non tantis laudibus solent extolli.

Praeterea, cum duo ad sapientiam ita descriptam requirantur, perceptio scilicet intellectus et propensio voluntatis: eius quidem quod a voluntate dependet nemo non est capax, sed quidam aliis multo perspicaciorem habent intellectum. Et quamvis sufficere debeat iis qui sunt natura tardiusculi, quod, etsi multa ignorent, modo tamen firmam et constantem retineant voluntatem nihil omittendi, quo ad recti cognitionem perveniant, atque id omne quod rectum iudicabunt exsequendi, pro modulo suo sapientes et hoc nomine Deo gratissimi esse possint: multo tamen praestantiores illi sunt, in quibus, cum firmissima recte agendi voluntate, perspicacissimum ingenium et summa veritatis cognoscendae cura reperitur.

Summam autem esse in Celsitudine tua istam curam, ex eo perspicuum est, quod nec aulae auocamenta, nec consueta educatio quae puellas ad ignorantiam damnare solet, impedire potuerint, quominus omnes bonas artes et scientias investigaris. Deinde summa etiam et incomparabilis ingenii tui perspicacitas ex eo apparet, quod omnia istarum scientiarum arcana penitissime inspexeris, ac brevissimo tempore accurate cognoveris. Maiusque adhuc eiusdem rei habeo argumentum mihi peculiare, quod te unam hactenus invenerim, quae /4/ tractatus antehac a me

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vulgatos perfecte omnes intelligas. Obscurissimi enim plerisque aliis, etiam maxime ingeniosis et doctis, esse videntur; et fere omnibus usu venit ut, si versati sint in Metaphysicis, a Geometricis abhorreant; si vero Geometriam excoluerint, quae de prima Philosophia scripsi non capiant: solum agnosco ingenium tuum, cui omnia aeque perspicua sunt, et quod merito idcirco incomparabile appello. Cumque considero tam variam et perfectam rerum omnium cognitionem non esse in aliquo Gymnosophista iam sene, qui multos annos ad contemplandum habuerit, sed in Principe puella, quae forma et aetate non caesiam Mineruam, aut aliquam ex Musis, sed potius Charitem refert, non possum in summam admirationem non rapi.

Denique non tantum ex parte cognitionis, sed etiam ex parte voluntatis, nihil ad absolutam et sublimem sapientiam requiri, quod non in moribus tuis eluceat, animadverto. Apparet enim in illis eximia quaedam cum maiestate benignitas et mansuetudo, perpetuis fortunae iniuriis lacessita, sed nunquam efferata nec fracta. Haecque ita me sibi devinxit, ut non modo Philosophiam hanc meam Sapientiae, quam in Te suspicio, dicandam et consecrandam putem (quia nempe ipsa nihil aliud est quam studium sapientiae), sed etiam non magis Philosophus audire velim, quam Serenissimae Celsitudinis

tuae Devotissimus cultor

Des-Cartes.

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Pars Prima: De principiis cognitionis humanae

1. Veritatem inquirenti, semel in vita de omnibus, quantum fieri potest, esse dubitandum. Quoniam infantes nati sumus, et varia de rebus sensibilibus iudicia prius tulimus, quam integrum nostrae rationis usum haberemus, multis praeiudiciis a veri cognitione avertimur; quibus non aliter videmur posse liberari, quam si semel in vita de iis omnibus studeamus dubitare, in quibus vel minimam incertitudinis suspicionem reperiemus.

2. Dubia etiam pro falsis habenda. Quin et illa etiam, de quibus dubitabimus, utile erit habere pro falsis, ut tanto clarius, quidnam certissimum et cognitu facillimum sit, inveniamus.

3. Hanc interim dubitationem ad usum vitae non esse referendam. Sed haec interim dubitatio ad solam contemplationem veritatis est restringenda. Nam quantum ad usum vitae, quia persaepe rerum agendarum occasio praeteriret, antequam nos dubiis nostris exsoluere possemus, non raro quod tantum est vuerisimile cogimur amplecti; vel etiam interdum, etsi e duobus unum altero verisimilius non appareat, alterutrum tamen eligere.

4. Cur possimus dubitare de rebus sensibilibus. Nunc itaque, cum tantum veritati quaerendae incumbamus, dubitabimus inprimis, an ullae res sensibiles /6/ aut imaginabiles existant: primo, quia deprehendimus interdum sensus errare, ac prudentiae est, nunquam nimis fidere iis, qui nos vel semel deceperunt; deinde, quia quotidie in somnis innumera uidemur sentire aut imaginari, quae nusquam sunt; nulla que sic dubitanti signa apparent, quibus somnum a uigilia certo dignoscat.

5. Cur etiam de Mathematicis demonstrationibus. Dubitabimus etiam de reliquis, quae antea pro maxime certis habuimus; etiam de Mathematicis demonstrationibus, etiam de iis principiis, quae hactenus putavimus esse per se nota: tum quia vidimus aliquando nonnullos errasse in talibus, et quaedam pro certissimis ac per se notis admisisse, quae nobis falsa videbantur; tum maxime, quia audivimus esse Deum, qui potest omnia, et a quo sumus creati. Ignoramus enim, an forte nos tales creare voluerit, ut semper fallamur, etiam in iis quae nobis quam notissima apparent; quia non minus hoc videtur fieri potuisse, quam ut interdum fallamur, quod contingere ante aduertimus. Atque si non a Deo potentissimo, sed vel a nobis ipsis, vel a quovis alio, nos esse fingamus: quo minus potentem originis nostrae authorem assignabimus, tanto magis erit credibile, nos tam imperfectos esse, ut semper fallamur.

6. Nos habere liberum arbitrium, ad cohibendum assensum in dubiis, sicque ad errorem vitandum. Sed interim, a quocumque tandem simus, et quantumvis ille sit potens, quantumvis fallax, hanc nihilominus in nobis libertatem esse experimur, ut semper ab iis credendis, quae non plane certa sunt et explorata, possimus abstinere; atque ita cavere, ne unquam erremus.

7. Non posse a nobis dubitari, quin existamus dum dubitamus; atque hoc esse primum, quod ordine philosophando cognoscimus. Sic autem reiicientes illa omnia, de quibus aliquo /7/ modo possumus dubitare, ac etiam falsa esse fingentes, facile quidem supponimus nullum esse Deum, nullum coelum, nulla corpora; nosque etiam ipsos non habere manus, nec pedes, nec denique ullum corpus; non autem ideo nos, qui talia cogitamus, nihil esse: repugnat enim, ut putemus id quod cogitat, eo ipso tempore quo cogitat, non existere. Ac proinde haec cognitio: 'Ego cogito, ergo sum' est omnium prima et certissima, quae cuilibet ordine philosophanti occurrat.

8. Distinctionem inter animam et corpus, sive inter rem cogitantem et corpoream, hinc agnosci. Haecque optima via est ad mentis naturam, eiusque a corpore distinctionem, agnoscendam. Examinantes enim quinam simus nos, qui omnia quae a nobis diversa sunt supponimus falsa esse, perspicue videmus, nullam

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extensionem, nec figuram, nec motum localem, nec quid simile, quod corpori sit tribuendum, ad naturam nostram pertinere, sed cogitationem solam, quae proinde prius et certius quam ulla res corporea cognoscitur; hanc enim iam percepimus, de aliis autem adhuc dubitamus.

9. Quid sit cogitatio. Cogitationis nomine, intelligo illa omnia, quae nobis consciis in nobis fiunt, quatenus eorum in nobis conscientia est. Atque ita non modo intelligere, velle, imaginari, sed etiam sentire, idem est hic quod cogitare. Nam si dicam, ego video, vel ego ambulo, ergo sum; et hoc intelligam de visione, aut ambulatione, quae corpore peragitur, conclusio non est absolute certa; quia, ut saepe fit in somnis, possum putare me videre, vel ambulare, quamvis oculos non aperiam, et loco non movear, atque etiam forte, quamvis nullum habeam corpus. Sed si intelligam de ipso sensu sive conscientia videndi aut ambulandi, quia tunc refertur ad /8/ mentem, quae sola sentit siue cogitat se videre aut ambulare, est plane certa.

10. Quae simplicissima sunt et per se nota, definitionibus Logicis obscuriora reddi; et talia inter cognitiones studio acquisitas non esse numeranda. Non hic explico alia multa nomina, quibus iam usus sum, vel utar in sequentibus, quia per se satis nota mihi videntur. Et saepe adverti Philosophos in hoc errare, quod ea, quae simplicissima erant ac per se nota, Logicis definitionibus explicare conarentur; ita enim ipsa obscuriora reddebant. Atque ubi dixi hanc propositionem: 'Ego cogito, ergo sum' esse omnium primam et certissimam, quae cuilibet ordine philosophanti occurrat, non ideo negavi quin ante ipsam scire oporteat, quid sit cogitatio, quid existentia, quid certitudo; item, quod fieri non possit, ut id quod cogitet non existat, et talia; sed quia hae sunt simplicissimae notiones, et quae solae nullius rei existentis notitiam praebent, idcirco non censui esse numerandas.

11. Quomodo mens nostra notior sit quam corpus. Iam vero ut sciatur, mentem nostram non modo prius et certius, sed etiam evidentius quam corpus cognosci, notandum est, lumine naturali esse notissimum, nihili nullas esse affectiones sive qualitates; atque ideo ubicumque aliquas deprehendimus, ibi rem sive substantiam, cuius illae sint, necessario inveniri; et quo plures in eadem re siue substantia deprehendimus, tanto clarius nos illam cognoscere. Plura vero in mente nostra, quam in ulla alia re a nobis deprehendi, ex hoc manifestum est, quod nihil plane efficiat, ut aliquid aliud cognoscamus, quin idem etiam multo certius in mentis nostrae cognitionem nos adducat. Ut si terram iudico existere, ex eo quod illam tangam vel videam, certe ex hoc ipso adhuc magis mihi iudicandum est mentem meam existere: fieri enim forsan /9/ potest, ut iudicem me terram tangere, quamvis terra nulla existat; non autem, ut id iudicem, et mea mens quae id iudicat nihil sit; atque ita de caeteris.

12. Cur non omnibus aeque innotescat. Nec aliam ob causam aliter visum est iis, qui non ordine philosophati sunt, quam quia mentem a corpore nunquam satis accurate distinxerunt. Et quamvis sibi certius esse putarint, se ipsos existere, quam quidquam aliud, non tamen adverterunt, per se ipsos, mentes solas hoc in loco fuisse intelligendas; sed contra potius intellexerunt sola sua corpora, quae oculis videbant, et manibus palpabant, quibusque vim sentiendi perperam tribuebant; hocque ipsos a mentis natura percipienda avocavit.

13. Quo sensu reliquarum rerum cognitio a Dei cognitione dependeat. Cum autem mens, quae se ipsam novit, et de aliis omnibus rebus adhuc dubitat, undiquaque circumspicit, ut cognitionem suam ulterius extendat: primo quidem invenit apud se multarum rerum ideas, quas quamdiu tantum contemplatur, nihilque ipsis simile extra se esse affirmat nec negat, falli non potest. Invenit etiam communes quasdam notiones, et ex his varias demonstrationes componit, ad quas quamdiu attendit, omnino sibi persuadet esse veras. Sic, exempli causa, numerorum et figurarum ideas in se habet, habetque etiam inter communes notiones, quod si aequalibus aequalia addas, quae inde exsurgent erunt aequalia, et similes; ex quibus facile demonstratur, tres angulos trianguli aequales esse duobus rectis, etc; ac proinde haec et talia sibi persuadet vera esse, quamdiu ad praemissas, ex quibus ea deduxit, attendit. Sed quia non potest semper ad illas attendere, cum postea recordatur se nondum scire, an forte talis naturae creata sit, /10/ ut fallatur etiam in iis quae ipsi evidentissima apparent, videt se merito de talibus dubitare, nec ullam habere posse certam scientiam, priusquam suae authorem originis agnoverit.

14. Ex eo quod existentia necessaria in nostro de Deo conceptu contineatur, recte concludi Deum existere. Considerans deinde inter diversas ideas, quas apud se habet, unam esse entis summe intelligentis, summe potentis et summe perfecti, quae omnium longe praecipua est, agnoscit in ipsa existentiam, non possibilem et contingentem

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tantum, quemadmodum in ideis aliarum omnium rerum, quas distincte percipit, sed omnino necessariam et aeternam. Atque ut ex eo quod, exempli causa, percipiat in idea trianguli necessario contineri, tres eius angulos aequales esse duobus rectis, plane sibi persuadet triangulum tres angulos habere aequales duobus rectis: ita ex eo solo quod percipiat existentiam necessariam et aeternam in entis summe perfecti idea contineri, plane concludere debet ens summe perfectum existere.

15. Non eodem modo in aliarum rerum conceptibus existentiam necessariam, sed contingentem duntaxat contineri. Magisque hoc credet, si attendat nullius alterius rei ideam apud se inveniri, in qua eodem modo necessariam existentiam contineri animadvertat. Ex hoc enim intelliget, istam ideam entis summe perfecti non esse a se effictam, nec exhibere chimericam quandam, sed veram et immutabilem naturam, quaeque non potest non existere, cum necessaria existentia in ea contineatur.

16. Praeiudicia impedire, quominus ista necessitas existentiae Dei ab omnibus clare cognoscatur. Hoc, inquam, facile credet mens nostra, si se prius omnino praeiudiciis liberarit. Sed quia sumus assueti reliquis omnibus in rebus essentiam ab existentia distinguere, atque etiam uarias ideas rerum, quae nusquam sunt, aut fuerunt, ad arbitrium effingere, facile contingit, /11/ cum in entis summe perfecti contemplatione non sumus plane defixi, ut dubitemus an forte eius idea una sit ex iis, quas ad arbitrium effinximus, aut saltem ad quarum essentiam existentia non pertinet.

17. Quo cuiusque ex nostris ideis obiectiua perfectio maior est, eo eius causam esse debere maiorem. Ulterius vero considerantes ideas quas in nobis habemus, videmus quidem illas, quatenus sunt quidam modi cogitandi, non multum a se mutuo differre, sed quatenus una unam rem, alia aliam repraesentat, esse valde diuersas; et quo plus perfectionis obiectivae in se continent, eo perfectiorem ipsarum causam esse debere. Nam quemadmodum, si quis in se habet ideam alicuius machinae valde artificiosae, merito quaeri potest quaenam sit causa a qua illam habet: an nempe viderit alicubi talem machinam ab alio factam; an mechanicas scientias tam accurate didicerit, anve tanta sit in eo ingenii vis, ut ipsam nullibi unquam visam per se excogitare potuerit? Totum enim artificium quod in idea illa obiective tantum sive tanquam in imagine continetur, debet in eius causa, qualiscumque tandem sit, non tantum obiective sive repraesentatiue, saltem in prima et praecipua, sed reipsa formaliter aut eminenter contineri.

18. Hinc rursus concludi Deum existere. Sic, quia Dei sive entis summi ideam habemus in nobis, iure possumus examinare a quanam causa illam habeamus; tantamque in ea immensitatem inveniemus, ut plane ex eo simus certi, non posse illam nobis fuisse inditam, nisi a re in qua sit revera omnium perfectionum complementum, hoc est, nisi a Deo realiter existente. Est enim lumine naturali notissimum, non modo a nihilo nihil fieri; nec id quod est perfectius ab eo quod est minus perfectum, ut a causa /12/ efficiente et totali, produci; sed neque etiam in nobis ideam sive imaginem ullius rei esse posse, cuius non alicubi, sive in nobis ipsis, sive extra nos, Archetypus aliquis, omnes eius perfectiones reipsa continens, existat. Et quia summas illas perfectiones, quarum ideam habemus, nullo modo in nobis reperimus, ex hoc ipso recte concludimus eas in aliquo a nobis diverso, nempe in Deo, esse, vel certe aliquando fuisse; ex quo evidentissime sequitur, ipsas adhuc esse.

19. Etsi Dei naturam non comprehendamus, eius tamen perfectiones omni alia re clarius a nobis cognosci. Hocque satis certum est et manifestum, iis qui Dei ideam contemplari summasque eius perfectiones advertere sunt assueti. Quamvis enim illas non comprehendamus, quia scilicet est de natura infiniti ut a nobis, qui sumus finiti, non comprehendatur, nihilominus tamen ipsas clarius et distinctius quam ullas res corporeas intelligere possumus, quia cogitationem nostram magis implent, suntque simpliciores, nec limitationibus ullis obscurantur.

20. Nos non a nobis ipsis, sed a Deo factos, eumque proinde existere. Quia vero non omnes hoc aduertunt, atque etiam quia non, quemadmodum habentes ideam artificiosae alicuius machinae scire solent undenam illam acceperint, ita etiam recordamur ideam Dei nobis aliquando a Deo advenisse, utpote quam semper habuimus: quaerendum adhuc est, a quonam simus nos ipsi, qui summarum Dei perfectionum ideam in nobis habemus. Nam certe est lumine naturali notissimum, eam rem, quae novit aliquid se perfectius, a se non esse: dedisset enim ipsa sibi omnes perfectiones, quarum ideam in se habet; nec proinde etiam posse ab ullo esse, qui non habeat in se omnes illas perfectiones, hoc est, qui non sit Deus. /13/

21. Existentiae nostrae durationem sufficere, ad existentiam Dei demonstrandam. Nihilque huius demonstrationis evuidentiam potest obscurare, modo attendamus ad temporis sive rerum durationis

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naturam; quae talis est, ut eius partes a se mutuo non pendeant, nec unquam simul existant; atque ideo ex hoc quod iam simus, non sequitur nos in tempore proxime sequenti etiam futuros, nisi aliqua causa, nempe eadem illa quae nos primum produxit, continuo veluti reproducat, hoc est, conservet. Facile enim intelligimus nullam vim esse in nobis, per quam nos ipsos conservemus; illumque in quo tanta est vis, ut nos a se diversos conservet, tanto magis etiam se ipsum conservare, vel potius nulla ullius conservatione indigere, ac denique Deum esse.

22. Ex nostro modo existentiam Dei cognoscendi, omnia eius attributa naturali ingenii vi cognoscibilia simul cognosci. Magna autem in hoc existentiam Dei probandi modo, per eius scilicet ideam, est praerogativa: quod simul quisnam sit, quantum naturae nostrae fert infirmitas, agnoscamus. Nempe ad eius ideam nobis ingenitam respicientes, videmus illum esse aeternum, omniscium, omnipotentem, omnis bonitatis veritatisque fontem, rerum omnium creatorem, ac denique illa omnia in se habentem, in quibus aliquam perfectionem infinitam, sive nulla imperfectione terminatam, clare possumus advuertere.

23. Deum non esse corporeum, nec sentire ut nos, nec velle malitiam peccati. Nam sane multa sunt, in quibus etsi nonnihil perfectionis agnoscamus, aliquid tamen etiam imperfectionis sive limitationis deprehendimus; ac proinde competere Deo non possunt. Ita in natura corporea, quia simul cum locali extensione divisibilitas includitur, estque imperfectio esse divisibilem, certum est, Deum non esse corpus. Et quamvis in nobis perfectio quaedam sit, quod sentiamus, quia tamen in omni sensu /14/ passio est, et pati est ab aliquo pendere, nullo modo Deum sentire putandum est, sed tantummodo intelligere et velle: neque hoc ipsum ut nos, per operationes quodammodo distinctas, sed ita ut, per unicam, semperque eandem et simplicissimam actionem, omnia simul intelligat, velit et operetur. Omnia, inquam, hoc est, res omnes: neque enim vult malitiam peccati, quia non est res.

24. A Dei cognitione ad creaturarum cognitionem perveniri, recordando eum esse infinitum, et nos finitos. Iam vero, quia Deus solus omnium quae sunt aut esse possunt vera est causa, perspicuum est optimam philosophandi vuiam nos sequuturos, si ex ipsius Dei cognitione rerum ab eo creatarum explicationem deducere conemur, ut ita scientiam perfectissimam, quae est effectuum per causas, acquiramus. Quod ut satis tuto et sine errandi periculo aggrediamur, ea nobis cautela est utendum, ut semper quam maxime recordemur, et Deum authorem rerum esse infinitum, et nos omnino finitos.

25. Credenda esse omnia quae a Deo revelata sunt, quamvis captum nostrum excedant. Ita si forte nobis Deus de se ipso vel aliis aliquid revelet, quod naturales ingenii nostri vires excedat, qualia iam sunt mysteria Incarnationis et Trinitatis, non recusabimus illa credere, quamvis non clare intelligamus. Nec ullo modo mirabimur multa esse, tum in immensa eius natura, tum etiam in rebus ab eo creatis, quae captum nostrum excedant.

26. Nunquam disputandum esse de infinito, sed tantum ea in quibus nullos fines advertimus, qualia sunt extensio mundi, divisibilitas partium materiae, numerus stellarum, etc, pro indefinitis habenda. Ita nullis unquam fatigabimur disputationibus de infinito. Nam sane, cum simus finiti, absurdum esset nos aliquid de ipso determinare, atque sic illud quasi finire ac comprehendere conari. Non igitur respondere curabimus iis, qui quaerunt an, si daretur linea /15/ infinita, eius media pars esset etiam infinita; vel an numerus infinitus sit par anve impar, et talia: quia de iis nulli videntur debere cogitare, nisi qui mentem suam infinitam esse arbitrantur. Nos autem illa omnia, in quibus sub aliqua consideratione nullum finem poterimus invenire, non quidem affirmabimus esse infinita, sed ut indefinita spectabimus. Ita, quia non possumus imaginari extensionem tam magnam, quin intelligamus adhuc maiorem esse posse, dicemus magnitudinem rerum possibilium esse indefinitam. Et quia non potest dividi aliquod corpus in tot partes, quin [et] singulae adhuc ex his partibus divisibiles intelligantur, putabimus quantitatem esse indefinite divisibilem. Et quia non potest fingi tantus stellarum numerus, quin plures adhuc a Deo creari potuisse credamus, illarum etiam numerum indefinitum supponemus; atque ita de reliquis.

27. Quae differentia sit inter indefinitum et infinitum. Haecque indefinita dicemus potius quam infinita: tum ut nomen infiniti soli Deo reservemus, quia in eo solo omni ex parte, non modo nullos limites agnoscimus, sed etiam positive nullos esse intelligimus; tum etiam, quia non eodem modo positive intelligimus alias res aliqua ex parte limitibus carere, sed negative tantum earum limites, si quos habeant, inveniri a nobis non posse confitemur.

28. Non causas finales rerum creatarum, sed efficientes esse examinandas. Ita denique nullas unquam rationes, circa res naturales, a fine quem Deus aut natura in iis faciendis sibi proposuit,

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desumemus: quia non tantum nobis debemus arrogare, ut eius consiliorum participes esse putemus. Sed ipsum ut causam efficientem rerum omnium /16/ considerantes, videbimus quidnam ex iis eius attributis, quorum nos nonnullam notitiam voluit habere, circa illos eius effectus qui sensibus nostris apparent, lumen naturale, quod nobis indidit, concludendum esse ostendat; memores tamen, ut iam dictum est, huic lumini naturali tamdiu tantum esse credendum, quandiu nihil contrarium a Deo ipso revelatur.

29. Deum non esse errorum causam. Primum Dei attributum quod hic venit in considerationem, est, quod sit summe verax, et dator omnis luminis: adeo ut plane repugnet ut nos fallat, sive ut proprie ac positive sit causa errorum, quibus nos obnoxios esse experimur. Nam quamvis forte posse fallere nonnullum ingenii argumentum apud nos homines esse videatur, nunquam certe fallendi voluntas nisi ex malitia vel metu et imbecillitate procedit, nec proinde in Deum cadere potest.

30. Hinc sequi omnia quae clare percipimus, vera esse, ac tolli dubitationes ante recensitas. Atque hinc sequitur, lumen naturae, sive cognoscendi facultatem a Deo nobis datam, nullum unquam obiectum posse attingere, quod non sit verum, quatenus ab ipsa attingitur, hoc est, quatenus clare et distincte percipitur. Merito enim deceptor esset dicendus, si perversam illam ac falsum pro vero sumentem nobis dedisset. Ita tollitur summa illa dubitatio, quae ex eo petebatur, quod nesciremus an forte talis essemus naturae, ut falleremur etiam in iis quae nobis euidentissima esse videntur. Quin et aliae omnes dubitandi causae, prius recensitae, facile ex hoc principio tollentur. /17/ Non enim amplius Mathematicae veritates nobis suspectae esse debent, quia sunt maxime perspicuae. Atque si advertamus quid in sensibus, quid in vigilia, quidve in somno clarum sit ac distinctum, illudque ab eo quod confusum est et obscurum distinguamus, facile quid in qualibet re pro vero habendum sit agnoscemus. Nec opus est ista pluribus verbis hoc in loco persequi, quoniam in Meditationibus Metaphysicis iam utcumque tractata sunt, et accuratior eorum explicatio ex sequentium cognitione dependet.

31. Errores nostros, si ad Deum referantur, esse tantum negationes; si ad nos, privationes. Quia vero, etsi Deus non sit deceptor, nihilominus tamen saepe contingit nos falli, ut errorum nostrorum originem et causam investigemus, ipsosque praecavere discamus, advertendum est, non tam illos ab intellectu quam a voluntate pendere; nec esse res, ad quarum productionem realis Dei concursus requiratur: sed cum ad ipsum referuntur, esse tantum negationes, et cum ad nos, privationes.

32. Duos tantum in nobis esse modos cogitandi, perceptionem scilicet intellectus, et operationem voluntatis. Quippe omnes modi cogitandi, quos in nobis experimur, ad duos generales referri possunt: quorum unus est perceptio, sive operatio intellectus; alius vero uolitio, siue operatio voluntatis. Nam sentire, imaginari, et pure intelligere, sunt tantum diversi modi percipiendi; ut et cupere, aversari, affirmare, negare, dubitare, sunt diversi modi volendi.

33. Nos non errare, nisi cum de re non satis percepta iudicamus. Cum autem aliquid percipimus, modo tantum nihil plane de ipso affirmemus vel negemus, manifestum est nos non falli; ut neque etiam cum id tantum affirmamus aut negamus, quod clare et distincte percipimus esse sic affirmandum aut negandum: sed tantummodo /18/ cum (ut fit), etsi aliquid non recte percipiamus, de eo nihilominus iudicamus.

34. Non solum intellectum, sed etiam voluntatem requiri ad iudicandum. Atque ad iudicandum requiritur quidem intellectus, quia de re, quam nullo modo percipimus, nihil possumus iudicare; sed requiritur etiam voluntas, ut rei aliquo modo perceptae assensio praebeatur. Non autem requiritur (saltem ad quomodocumque iudicandum) integra et omnimoda rei perceptio; multis enim possumus assentiri, quae nonnisi perobscure et confuse cognoscimus.

35. Hanc illo latius patere, errorumque causam inde esse. Et quidem intellectus perceptio, non nisi ad ea pauca quae illi offeruntur, se extendit, estque semper valde finita. Voluntas vero infinita quodammodo dici potest, quia nihil unquam advertimus, quod alicuius alterius voluntatis, vel immensae illius quae in Deo est, obiectum esse possit, ad quod etiam nostra non se extendat: adeo ut facile illam, ultra ea quae clare percipimus, extendamus; hocque cum facimus, haud mirum est quod contingat nos falli.

36. Errores nostros Deo imputari non posse. Neque tamen ullo modo Deus errorum nostrorum author fingi potest, propterea quod nobis intellectum non dedit omniscium. Est enim de ratione intellectus creati, ut sit finitus; ac de ratione intellectus finiti, ut non ad omnia se

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extendat.

37. Summam esse hominis perfectionem, quod agat libere, sive per voluntatem; et per hoc laude vel vituperio dignum reddi. Quod vero latissime pateat voluntas, hoc etiam ipsius naturae convenit; ac summa quaedam in homine perfectio est, quod agat per voluntatem, hoc est libere, atque ita peculiari quodam modo sit author suarum actionum, et ob ipsas laudem mereatur. Non enim laudantur automata, quod motus omnes ad quos instituta sunt, accurate exhibeant, quia necessario illos sic /19/ exhibent; laudatur autem eorum artifex, quod tam accurata fabricarit, quia non necessario, sed libere ipsa fabricavit. Eademque ratione, magis profecto nobis tribuendum est, quod verum amplectamur, cum amplectimur, quia voluntarie id agimus, quam si non possemus non amplecti.

38. Esse defectum in nostra actione, non in nostra natura, quod erremus; et saepe subditorum culpas aliis dominis, nunquam autem Deo tribui posse. Quod autem in errores incidamus, defectus quidem est in nostra actione sive in usu libertatis, sed non in nostra natura, utpote quae eadem est, cum non recte, quam cum recte iudicamus. Et quamvis tantam Deus perspicacitatem intellectui nostro dare potuisset, ut nunquam falleremur, nullo tamen iure hoc ab ipso possumus exigere. Nec, quemadmodum inter nos homines, si quis habeat potestatem aliquod malum impediendi, nec tamen impediat, ipsum dicimus esse eius causam: ita etiam, quia Deus potuisset efficere ut nunquam falleremur, ideo errorum nostrorum causa est putandus. Potestas enim, quam homines habent uni in alios, ad hoc est instituta, ut ipsa utantur ad illos a malis revocandos; ea autem, quam Deus habet in omnes, est quam maxime absoluta et libera: ideoque summas quidem ipsi debemus gratias, pro bonis quae nobis largitus est; sed nullo iure queri possumus, quod non omnia largitus sit, quae agnoscimus largiri potuisse.

39. Libertatem arbitrii esse per se notam. Quod autem sit in nostra voluntate libertas, et multis ad arbitrium uel assentiri uel non assentiri possimus, adeo manifestum est, ut inter primas et maxime communes notiones, quae nobis sunt innatae, sit recensendum. Patuitque hoc maxime paulo ante, cum de omnibus dubitare studentes, eo usque sumus progressi, /20/ ut fingeremus aliquem potentissimum nostrae originis authorem modis omnibus nos fallere conari; nihilominus enim hanc in nobis libertatem esse experiebamur, ut possemus ab iis credendis abstinere, quae non plane certa erant et explorata. Nec ulla magis per se nota et perspecta esse possunt, quam quae tunc temporis non dubia videbantur.

40. Certum etiam omnia esse a Deo praeordinata. Sed quia iam Deum agnoscentes, tam immensam in eo potestatem esse percipimus, ut nefas esse putemus existimare, aliquid unquam a nobis fieri posse, quod non ante ab ipso fuerit praeordinatum: facile possumus nos ipsos magnis difficultatibus intricare, si hanc Dei praeordinationem cum arbitrii nostri libertate conciliare, atque utramque simul comprehendere conemur.

41. Quomodo arbitrii nostri libertas et Dei praeordinatio simul concilientur. Illis vero nos expediemus, si recordemur mentem nostram esse finitam; Dei autem potentiam, per quam non tantum omnia, quae sunt aut esse possunt, ab aeterno praescivit, sed etiam voluit ac praeordinavit, esse infinitam: ideoque hanc quidem a nobis satis attingi, ut clare et distincte percipiamus ipsam in Deo esse; non autem satis comprehendi, ut videamus quo pacto liberas hominum actiones indeterminatas relinquat; libertatis autem et indifferentiae, quae in nobis est, nos ita conscios esse, ut nihil sit quod evidentius et perfectius comprehendamus. Absurdum enim esset, propterea quod non comprehendimus unam rem, quam scimus ex natura sua nobis esse debere incomprehensibilem, de alia dubitare, quam intime comprehendimus, atque apud nosmet ipsos experimur.

42. Quomodo, quamvis nolimus falli, fallamur tamen per nostram voluntatem. Iam vero, cum sciamus errores omnes nostros a voluntate pendere, mirum uideri potest, quod unquam /21/ fallamur, quia nemo est qui velit falli. Sed longe aliud est velle falli, quam velle assentiri iis, in quibus contingit errorem reperiri. Et quamvis revera nullus sit, qui expresse velit falli, vix tamen ullus est, qui non saepe velit iis assentiri, in quibus error ipso inscio continetur. Quin et ipsa veritatis assequendae cupiditas persaepe efficit, ut ii qui non recte sciunt qua ratione sit assequenda, de iis quae non percipiunt iudicium ferant, atque idcirco ut errent.

43. Nos nunquam falli, cum solis clare et distincte perceptis assentimur. Certum autem est, nihil nos unquam falsum pro vero admissuros, si tantum iis assensum praebeamus quae clare et distincte percipiemus. Certum, inquam, quia, cum Deus non sit fallax, facultas percipiendi quam nobis dedit, non

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potest tendere in falsum; ut neque etiam facultas assentiendi, cum tantum ad ea quae clare percipiuntur se extendit. Et quamvis hoc nulla ratione probaretur, ita omnium animis a natura impressum est, ut quoties aliquid clare percipimus, ei sponte assentiamur, et nullo modo possimus dubitare quin sit verum.

44. Nos semper male iudicare, cum assentimur non clare perceptis, etsi casu incidamus in veritatem; idque ex eo contingere, quod supponamus ea fuisse antea satis a nobis perspecta. Certum etiam est, cum assentimur alicui rationi quam non percipimus, vel nos falli, vel casu tantum incidere in veritatem, atque ita nescire nos non falli. Sed sane raro contingit, ut assentiantur iis, quae advertimus a nobis non esse percepta: quia lumen naturae nobis dictat, nunquam nisi de re cognita esse iudicandum. In hoc autem frequentissime erramus, quod multa putemus a nobis olim fuisse percepta, iisque, memoriae mandatis, tanquam omnino perceptis assentiamur, quae tamen revera nunquam percepimus.

45. Quid sit perceptio clara, quid distincta. Quin et permulti homines nihil plane in tota vita percipiunt satis recte, ad certum de eo iudicium ferendum. /22/ Etenim ad perceptionem, cui certum et indubitatum iudicium possit inniti, non modo requiritur ut sit clara, sed etiam ut sit distincta. Claram voco illam, quae menti attendenti praesens et aperta est: sicut ea clare a nobis videri dicimus, quae, oculo intuenti praesentia, satis fortiter et aperte illum movent. Distinctam autem illam, quae, cum clara sit, ab omnibus aliis ita seiuncta est et praecisa, ut nihil plane aliud, quam quod clarum est, in se contineat.

46. Exemplo doloris ostenditur, claram esse posse perceptionem, etsi non sit distincta; non autem distinctam, nisi sit clara. Ita, dum quis magnum aliquem sentit dolorem, clarissima quidem in eo est ista perceptio doloris, sed non semper est distincta; vulgo enim homines illam confundunt cum obscuro suo iudicio de natura eius, quod putant esse in parte dolente simile sensui doloris, quem solum clare percipiunt. Atque ita potest esse clara perceptio, quae non sit distincta; non autem ulla distincta, nisi sit clara.

47. Ad primae aetatis praeiudicia emendanda, simplices notiones esse considerandas, et quid in quaque sit clarum. Et quidem in prima aetate mens ita corpori fuit immersa, ut quamvis multa clare, nihil tamen unquam distincte perceperit; cumque tunc nihilominus de multis iudicarit, hinc multa hausimus praeiudicia, quae a plerisque nunquam postea deponuntur. Ut autem nos iis possimus liberare, summatim hic enumerabo simplices omnes notiones, ex quibus cogitationes nostrae componuntur; et quid in unaquaque sit clarum, quidque obscurum, sive in quo possimus falli, distinguam.

48. Omnia quae sub perceptionem nostram cadunt, spectari ut res rerumve assectiones, vel ut aeternas veritates; et rerum enumeratio. Quaecumque sub perceptionem nostram cadunt, vel tanquam res, rerumve affectiones quasdam, consideramus; vel tanquam aeternas veritates, nullam existentiam extra cogitationem nostram habentes. Ex iis quae tanquam res consideramus, maxime generalia sunt /23/ substantia, duratio, ordo, numerus, et si quae alia sunt eiusmodi, quae ad omnia genera rerum se extendunt. Non autem plura quam duo summa genera rerum agnosco: unum est rerum intellectualium, sive cogitativarum, hoc est, ad mentem sive ad substantiam cogitantem pertinentium; aliud rerum materialium, sive quae pertinent ad substantiam extensam, hoc est, ad corpus. Perceptio, volitio, omnesque modi tam percipiendi quam volendi, ad substantiam cogitantem referuntur; ad extensam autem, magnitudo, sive ipsamet extensio in longum, latum et profundum, figura, motus, situs, partium ipsarum divisibilitas, et talia. Sed et alia quaedam in nobis experimur, quae nec ad solam mentem, nec etiam ad solum corpus referri debent, quaeque, ut infra suo loco ostendetur, ab arcta et intima mentis nostrae cum corpore unione proficiscuntur: nempe appetitus famis, sitis, etc; itemque, commotiones, sive animi pathemata, quae non in sola cogitatione consistunt, ut commotio ad iram, ad hilaritatem, ad tristitiam, ad amorem, etc; ac denique sensus omnes, ut doloris, titillationis, lucis et colorum, sonorum, odorum, saporum, caloris, duritiei, aliarumque tactilium qualitatum.

49. Aeternas veritates non posse ita numerari, sed nec esse opus. Atque haec omnia tanquam res, vel rerum qualitates seu modos, consideramus. Cum autem agnoscimus fieri non posse, ut ex nihilo aliquid fiat, tunc propositio haec: Ex nihilo nihil fit, non tanquam res aliqua existens, neque etiam ut rei modus consideratur, sed ut veritas quaedam aeterna, quae in mente nostra sedem habet, vocaturque communis notio, sive axioma. /24/ Cuius generis sunt: Impossibile est idem simul esse et non esse: Quod factum est, infectum esse nequit: Is qui cogitat, non potest non existere dum cogitat: et alia innumera, quae quidem omnia recenseri facile

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non possunt, sed nec etiam ignorari, cum occurrit occasio ut de iis cogitemus, et nullis praeiudiciis excaecamur.

50. Eas clare percipi, sed non omnes ab omnibus, propter praeiudicia. Et quidem, quantum ad has communes notiones, non dubium est quin clare ac distincte percipi possint, alioqui enim communes notiones non essent dicendae: ut etiam revera quaedam ex ipsis non aeque apud omnes isto nomine dignae sunt, quia non aeque ab omnibus percipiuntur. Non tamen, ut puto, quod unius hominis cognoscendi facultas latius pateat quam alterius; sed quia forte communes istae notiones adversantur praeiudicatis opinionibus quorundam hominum, qui eas idcirco non facile capere possunt: etiamsi nonnulli alii, qui praeiudiciis istis sunt liberi, evidentissime ipsas percipiant.

51. Quid sit substantia, et quod istud nomen Deo et creaturis non conveniat univoce. Quantum autem ad ea, quae tanquam res vel rerum modos spectamus, operae pretium est ut singula seorsim consideremus. Per substantiam nihil aliud intelligere possumus, quam rem quae ita existit, ut nulla alia re indigeat ad existendum. Et quidem substantia quae nulla plane re indigeat, unica tantum potest intelligi, nempe Deus. Alias uero omnes, non nisi ope concursus Dei existere posse percipimus. Atque ideo nomen substantiae non convenit Deo et illis uniuoce, ut dici solet in Scholis, hoc est, nulla eius nominis significatio potest distincte intelligi, quae Deo et creaturis sit communis.

52. Quod menti et corpori univoce conveniat, et quomodo ipsa cognoscatur. Possunt autem substantia corporea et mens, sive /25/ substantia cogitans, creata, sub hoc communi conceptu intelligi, quod sint res, quae solo Dei concursu egent ad existendum. Verumtamen non potest substantia primum animadverti ex hoc solo, quod sit res existens, quia hoc solum per se nos non afficit; sed facile ipsam agnoscimus ex quolibet eius attributo, per communem illam notionem, quod nihili nulla sint attributa, nullaeve proprietates aut qualitates. Ex hoc enim quod aliquod attributum adesse percipiamus, concludimus aliquam rem existentem, sive substantiam, cui illud tribui possit, necessario etiam adesse.

53. Cuiusque substantiae unum esse praecipuum attributum, ut mentis cogitatio, corporis extensio. Et quidem ex quolibet attributo substantia cognoscitur; sed una tamen est cuiusque substantiae praecipua proprietas, quae ipsius naturam essentiamque constituit, et ad quam aliae omnes referuntur. Nempe extensio in longum, latum et profundum, substantiae corporeae naturam constituit; et cogitatio constituit naturam substantiae cogitantis. Nam omne aliud quod corpori tribui potest, extensionem praesupponit, estque tantum modus quidam rei extensae; ut et omnia, quae in mente reperimus, sunt tantum diversi modi cogitandi. Sic, exempli causa, figura nonnisi in re extensa potest intelligi, nec motus nisi in spatio extenso; nec imaginatio, vel sensus, uel uoluntas, nisi in re cogitante. Sed e contra potest intelligi extensio sine figura uel motu, et cogitatio sine imaginatione vel sensu, et ita de reliquis: ut cuilibet attendenti fit manifestum.

54. Quomodo claras et distinctas notiones habere possimus, substantiae cogitantis, et corporeae, item Dei. Atque ita facile possumus duas claras et distinctas habere notiones, sive ideas, unam substantiae cogitantis creatae, aliam substantiae corporeae, si nempe attributa omnia cogitationis ab attributis extensionis /26/ accurate distinguamus. Ut etiam habere possumus ideam claram et distinctam substantiae cogitantis increatae et independentis, id est Dei: modo ne illam adaequate omnia quae in Deo sunt exhibere supponamus, nec quidquam etiam in ea esse fingamus, sed ea tantum advertamus, quae revera in ipsa continentur, quaeque evidenter percipimus ad naturam entis summe perfecti pertinere. Nec certe quisquam talem ideam Dei nobis inesse negare potest, nisi qui nullam plane Dei notitiam in humanis mentibus esse arbitretur.

55. Quomodo duratio, ordo, numerus etiam distincte intelligantur. Duratio, ordo, et numerus, a nobis etiam distinctissime intelligentur, si nullum iis substantiae conceptum affingamus, sed putemus durationem rei cuiusque esse tantum modum, sub quo concipimus rem istam, quatenus esse perseverat. Et similiter, nec ordinem nec numerum esse quicquam diversum a rebus ordinatis et numeratis, sed esse tantum modos, sub quibus illas consideramus.

56. Quid sint modi, qualitates, attributa. Et quidem hic per modos plane idem intelligimus, quod alibi per attributa, vel qualitates. Sed cum consideramus substantiam ab illis affici, vel variari, vocamus modos; cum ab ista variatione talem posse denominari, vocamus qualitates; ac denique, cum generalius spectamus tantum ea substantiae inesse, vocamus attributa. Ideoque in Deo non proprie modos aut qualitates, sed attributa tantum esse dicimus, quia nulla in eo variatio est intelligenda. Et

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etiam in rebus creatis, ea quae nunquam in iis diverso modo se habent, ut existentia et duratio, in re existente et durante, non qualitates aut modi, sed attributa dici debent.

57. Quaedam attributa esse in rebus, alia in cogitatione. Et quid duratio et tempus. Alia autem sunt in rebus ipsis, quarum attributa vel /27/ modi esse dicuntur; alia vero in nostra tantum cogitatione. Ita, cum tempus a duratione generaliter sumpta distinguimus, dicimusque esse numerum motus, est tantum modus cogitandi; neque enim profecto intelligimus in motu aliam durationem quam in rebus non motis: ut patet ex eo quod, si duo corpora, unum tarde, aliud celeriter per horam moveatur, non plus temporis in uno quam in alio numeremus, etsi multo plus sit motus. Sed ut rerum omnium durationem metiamur, comparamus illam cum duratione motuum illorum maximorum, et maxime aequabilium, a quibus fiunt anni et dies; hancque durationem tempus vocamus. Quod proinde nihil, praeter modum cogitandi, durationi generaliter sumptae superaddit.

58. Numerum et universalia omnia esse tantum modos cogitandi. Ita etiam, cum numerus non in ullis rebus creatis, sed tantum in abstracto, sive in genere consideratur, est modus cogitandi duntaxat; ut et alia omnia quae universalia vocamus.

59. Quomodo universalia fiant; et quae sint quinque vulgata: genus, species, differentia, proprium, accidens. Fiunt haec universalia ex eo tantum, quod una et eadem idea utamur ad omnia individua, quae inter se similia sunt, cogitanda: ut etiam unum et idem nomen omnibus rebus per ideam istam repraesentatis imponimus; quod nomen est universale. Ita, cum videmus duos lapides, nec ad ipsorum naturam, sed ad hoc tantum quod duo sint attendimus, formamus ideam eius numeri quem vocamus binarium; cumque postea duas aves, aut duas arbores videmus, nec etiam earum naturam, sed tantum quod duae sint consideramus, repetimus eandem ideam quam prius, quae ideo est universalis; ut et hunc numerum eodem universali nomine binarium appellamus. Eodemque modo, cum /28/ spectamus figuram tribus lineis comprehensam, quandam eius ideam formamus, quam vocamus ideam trianguli; et eadem postea ut universali utimur ad omnes alias figuras tribus lineis comprehensas animo nostro exhibendas. Cumque advertimus, ex triangulis alios esse habentes unum angulum rectum, alios non habentes, formamus ideam universalem trianguli rectanguli, quae relata ad praecedentem, ut magis generalem, species vocatur. Et illa anguli rectitudo est differentia universalis, qua omnia triangula rectangula ab aliis distinguuntur. Et quod in iis basis potentia aequalis sit potentiis laterum, est proprietas iis omnibus et solis conveniens. Ac denique, si supponamus aliquos eiusmodi triangulos moveri, alios non moveri, hoc erit in iis accidens universale. Atque hoc pacto quinque universalia vulgo numerantur: genus, species, differentia, proprium, et accidens.

60. De distinctionibus, ac primo de reali. Numerus autem, in ipsis rebus, oritur ab earum distinctione: quae distinctio triplex est, realis, modalis, et rationis. Realis proprie tantum est inter duas vel plures substantias: et has percipimus a se mutuo realiter esse distinctas, ex hoc solo quod unam absque altera clare et distincte intelligere possimus. Deum enim agnoscentes, certi sumus ipsum posse efficere quidquid distincte intelligimus: adeo ut, exempli causa, ex hoc solo quod iam habeamus ideam substantiae extensae sive corporeae, quamvis nondum certo sciamus ullam talem revera existere, certi tamen sumus illam posse existere; atque si existat, unamquamque eius partem, a nobis cogitatione definitam, realiter ab aliis eiusdem substantiae partibus esse distinctam. Itemque, /29/ ex hoc solo quod unusquisque intelligat se esse rem cogitantem, et possit cogitatione excludere a se ipso omnem aliam substantiam, tam cogitantem quam extensam, certum est unumquemque, sic spectatum, ab omni alia substantia cogitante atque ab omni substantia corporea realiter distingui. Ac etiamsi supponamus, Deum alicui tali substantiae cogitanti substantiam aliquam corpoream tam arcte coniunxisse, ut arctius iungi non possint, et ita ex illis duabus unum quid conflavisse, manent nihilominus realiter distinctae: quia, quantumvis arcte ipsas univerit, potentia, quam ante habebat ad eas separandas, sive ad unam absque alia conservandam, seipsum exuere non potuit, et quae vel a Deo possunt separari, vel seiunctim conservari, realiter sunt distincta.

61. De distinctione modali. Distinctio modalis est duplex: alia scilicet inter modum proprie dictum, et substantiam cuius est modus; alia inter duos modos eiusdem substantiae. Prior ex eo cognoscitur, quod possimus quidem substantiam clare percipere absque modo quem ab illa differre dicimus, sed non possimus, viceuersa, modum illum intelligere sine ipsa. Ut figura et motus distinguuntur modaliter a substantia corporea, cui insunt; ut etiam affirmatio et recordatio a mente. Posterior vero cognoscitur ex eo, quod unum quidem modum absque alio possimus agnoscere, ac viceversa; sed neutrum tamen sine eadem substantia cui insunt. Ut si lapis moveatur et sit quadratus, possum quidem intelligere eius figuram quadratam sine motu; et viceuersa, eius motum sine figura quadrata; sed nec illum motum, nec illam figuram possum intelligere

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sine lapidis substantia. Distinctio /30/ autem, qua modus unius substantiae differt ab alia substantia vel a modo alterius substantiae, ut motus unius corporis ab alio corpore vel a mente, atque ut motus a duratione, realis potius dicenda esse videtur, quam modalis: quia modi illi non clare intelliguntur sine substantiis realiter distinctis, quarum sunt modi.

62. De distinctione rationis. Denique distinctio rationis est inter substantiam et aliquod eius attributum, sine quo ipsa intelligi non potest, vel inter duo talia attributa eiusdem alicuius substantiae. Atque agnoscitur ex eo, quod non possimus claram et distinctam istius substantiae ideam formare, si ab ea illud attributum excludamus; vel non possimus unius ex eiusmodi attributis ideam clare percipere, si illud ab alio separemus. Ut, quia substantia quaevis, si cesset durare, cessat etiam esse, ratione tantum a duratione sua distinguitur; et omnes modi cogitandi, quos tanquam in obiectis consideramus, ratione tantum differunt, tum ab obiectis de quibus cogitantur, tum a se mutuo in uno et eodem obiecto. Memini quidem me alibi hoc genus distinctionis cum modali coniunxisse, nempe in fine responsionis ad primas obiectiones in Meditationes de prima Philosophia: sed ibi non erat occasio de ipsis accurate disserendi, et sufficiebat ad meum institutum, quod utramque a reali distinguerem.

63. Quomodo cogitatio et extensio distincte cognosci possint, ut constituentes naturam mentis et corporis. Cogitatio et extensio spectari possunt ut constituentes naturas substantiae intelligentis et corporeae; tuncque non aliter concipi debent, quam ipsa substantia /31/ cogitans et substantia extensa, hoc est, quam mens et corpus; quo pacto clarissime ac distinctissime intelliguntur. Quin et facilius intelligimus substantiam extensam, vel substantiam cogitantem, quam substantiam solam, omisso eo quod cogitet vel sit extensa. Nonnulla enim est difficultas, in abstrahenda notione substantiae a notionibus cogitationis vel extensionis, quae scilicet ab ipsa ratione tantum diversae sunt; et non distinctior fit conceptus ex eo quod pauciora in eo comprehendamus, sed tantum ex eo quod illa quae in ipso comprehendimus, ab omnibus aliis accurate distinguamus.

64. Quomodo etiam ut modi substantiae. Cogitatio et extensio sumi etiam possunt pro modis substantiae, quatenus scilicet una et eadem mens plures diversas cogitationes habere potest; atque unum et idem corpus, retinendo suam eandem quantitatem, pluribus diversis modis potest extendi: nunc scilicet magis secundum longitudinem, minusque secundum latitudinem vel profunditatem, ac paulo post e contra magis secundum latitudinem, et minus secundum longitudinem. Tuncque modaliter a substantia distinguuntur, et non minus clare ac distincte quam ipsa possunt intelligi: modo non ut substantiae, sive res quaedam ab aliis separatae, sed tantummodo ut modi rerum spectentur. Per hoc enim, quod ipsas in substantiis quarum sunt modi consideramus, eas ab his substantiis distinguimus, et quales revera sunt agnoscimus. At e contra, si easdem absque substantiis, quibus insunt, vellemus considerare, hoc ipso illas ut res subsistentes spectaremus, atque ita ideas modi et substantiae confunderemus. /32/

65. Quomodo ipsarum modi sint etiam cognoscendi. Eadem ratione, diversos cogitationum modos, ut intellectionem, imaginationem, recordationem, volitionem, etc; itemque diversos modos extensionis sive ad extensionem pertinentes, ut figuras omnes, et situs partium, et ipsarum motus, optime percipiemus, si tantum ut modos rerum quibus insunt spectemus; et quantum ad motum, si de nullo nisi locali cogitemus, ac de vi a qua excitatur (quam tamen suo loco explicare conabor) non inquiramus.

66. Quomodo sensus, affectus et appetitus, clare cognoscantur, quamvis saepe de iis male iudicemus. Supersunt sensus, affectus, et appetitus, qui quidem etiam clare percipi possunt, si accurate caveamus, ne quid amplius de iis iudicemus, quam id praecise, quod in perceptione nostra continetur, et cuius intime conscii sumus. Sed perdifficile est id obseruare, saltem circa sensus: quia nemo nostrum est, qui non ab ineunte aetate iudicarit, ea omnia quae sentiebat, esse res quasdam extra mentem suam existentes, et sensibus suis, hoc est, perceptionibus quas de illis habebat, plane similes. Adeo ut videntes, exempli gratia, colorem, putaverimus nos videre rem quandam extra nos positam, et plane similem ideae illi coloris, quam in nobis tunc experiebamur; idque ob consuetudinem ita iudicandi, tam clare et distincte videre nobis videbamur, ut pro certo et indubitato haberemus.

67. In ipso de dolore iudicio saepe nos falli. Idemque plane est de aliis omnibus quae sentiuntur, etiam de titillatione ac dolore. Quamvis enim haec extra nos esse non putentur, non tamen ut in sola mente sive in perceptione nostra solent spectari, sed ut in manu, aut in pede, aut quavis alia parte nostri /33/ corporis. Nec sane magis certum est, cum, exempli causa, dolorem sentimus tanquam in pede, illum esse quid extra nostram mentem, in pede existens, quam cum videmus lumen tanquam in Sole, illud

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lumen extra nos in Sole existere; sed utraque ista praeiudicia sunt primae nostrae aetatis, ut infra clare apparebit.

68. Quomodo in istis id, quod clare cognoscimus, ab eo in quo falli possumus, sit distinguendum. Ut autem hic quod clarum est ab eo quod obscurum distinguamus, diligentissime est advertendum, dolorem quidem et colorem, et reliqua eiusmodi, clare ac distincte percipi, cum tantummodo ut sensus, sive cogitationes, spectantur. Cum autem res quaedam esse iudicantur, extra mentem nostram existentes, nullo plane modo posse intelligi quaenam res sint, sed idem plane esse, cum quis dicit se videre in aliquo corpore colorem, vel sentire in aliquo membro dolorem, ac si diceret se id ibi videre vel sentire, quod quidnam sit plane ignorat, hoc est, se nescire quid videat aut sentiat. Etsi enim, minus attendendo, sibi facile persuadeat se nonnullam eius habere notitiam, ex eo quod supponat esse quid simile sensui illi coloris aut doloris, quem apud se experitur: si tamen examinet quidnam sit, quod iste sensus coloris vel doloris, tanquam in corpore colorato vel in parte dolente existens, repraesentet, omnino advertet se id ignorare.

69. Longe aliter cognosci magnitudinem figuram, etc, quam colores, dolores, etc. Praesertim si consideret, se longe alio modo cognoscere, quidnam sit in viso corpore magnitudo, vel figura, vel motus (saltem localis: Philosophi enim, alios quosdam motus a locali diversos effingendo, naturam eius sibi minus intelligibilem reddiderunt), vel situs, vel duratio, vel numerus, et similia, quae in corporibus /34/ clare percipi iam dictum est: quam quid in eodem corpore sit color, vel dolor, vel odor, vel sapor, vel quid aliud ex iis, quae ad sensus dixi esse referenda. Quamvis enim videntes aliquod corpus, non magis certi simus illud existere, quatenus apparet figuratum, quam quatenus apparet coloratum: longe tamen evidentius agnoscimus, quid sit in eo esse figuratum, quam quid sit esse coloratum.

70. Nos posse duobus modis de sensibilibus iudicium ferre, quorum uno errorem praecavemus, alio in errorem incidimus. Patet itaque in re idem esse, cum dicimus nos percipere colores in obiectis, ac si diceremus nos percipere aliquid in obiectis, quod quidem quid sit ignoramus, sed a quo efficitur in nobis ipsis sensus quidam valde manifestus et perspicuus, qui vocatur sensus colorum. In modo autem iudicandi permagna est diversitas: nam quamdiu tantum iudicamus aliquid esse in obiectis (hoc est, in rebus, qualescumque demum illae sint, a quibus sensus nobis advenit), quod quidnam sit ignoramus, tantum abest ut fallamur, quin potius in eo errorem praecavemus, quod advertentes nos aliquid ignorare, minus procliues simus ad temere de ipso iudicandum. Cum vero putamus nos percipere colores in obiectis, etsi revera nesciamus quidnam sit, quod tunc nomine coloris appellamus, nec ullam similitudinem intelligere possimus, inter colorem quem supponimus esse in obiectis, et illum quem experimur esse in sensu: quia tamen hoc ipsum non advertimus, et multa alia sunt, ut magnitudo, figura, numerus, etc, quae clare percipimus non aliter a nobis sentiri vel intelligi, quam ut sunt aut saltem esse possunt in obiectis: facile in eum errorem delabimur, ut iudicemus /35/ id, quod in obiectis vocamus colorem, esse quid omnino simile colori quem sentimus, atque ita ut id, quod nullo modo percipimus, a nobis clare percipi arbitremur.

71. Praecipuam errorum causam a praeiudiciis infantiae procedere. Hicque primam et praecipuam errorum omnium causam licet agnoscere. Nempe in prima aetate, mens nostra tam arcte corpori erat alligata, ut non aliis cogitationibus vacaret, quam iis solis, per quas ea sentiebat quae corpus afficiebant: necdum ipsas ad quidquam extra se positum referebat, sed tantum ubi quid corpori incommodum occurrebat, sentiebat dolorem; ubi quid commodum, sentiebat voluptatem; et ubi sine magno commodo vel incommodo corpus afficiebatur, pro diversitate partium in quibus et modorum quibus afficiebatur, habebat diversos quosdam sensus, illos scilicet quos vocamus sensus saporum, odorum, sonorum, caloris, frigoris, luminis, colorum, et similium, quae nihil extra cogitationem positum repraesentant. Simulque etiam percipiebat magnitudines, figuras, motus, et talia; quae illi non ut sensus, sed ut res quaedam, vel rerum modi, extra cogitationem existentes, aut saltem existendi capaces, exhibebantur, etsi hanc inter ista differentiam nondum notaret. Ac deinde, cum corporis machinamentum, quod sic a natura fabricatum est ut propria sua vi variis modis moveri possit, hinc inde temere se contorquens, casu commodum quid assequebatur aut fugiebat incommodum, mens illi adhaerens incipiebat advertere id, quod ita assequebatur aut fugiebat, extra se esse; nec tantum illi tribuebat magnitudines, figuras, motus, et talia, quae ut res aut rerum modos /36/ percipiebat, sed etiam sapores, odores, et reliqua, quorum in se sensum ab ipso effici advertebat. Atque omnia tantum referens ad utilitatem corporis, cui erat immersa, eo plus aut minus rei esse putabat in unoquoque obiecto a quo afficiebatur, prout plus aut minus ab ipso afficiebatur. Unde factum est, ut multo plus substantiae, seu corporeitatis, esse putaret in saxis aut metallis, quam in aqua vel aere, quia plus duritiei et ponderositatis in iis sentiebat. Quin et aerem, quandiu nullum in eo ventum aut frigus aut calorem experiebatur, pro nihilo prorsus ducebat. Et quia non plus luminis a stellis quam ab exiguis flammis lucernarum ipsi affulgebat, idcirco

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nullas stellas flammis istis maiores sibi repraesentabat. Et quia nec terram in gyrum verti, nec eius superficiem in globum curvatam esse notabat, ideo proclivior erat ad putandum, et eam immobilem, et eius superficiem planam esse. Milleque aliis eiusmodi praeiudiciis, a prima infantia, mens nostra imbuta est; quae deinde in pueritia non recordabatur fuisse a se sine sufficienti examine recepta, sed tanquam sensu cognita, vel a natura sibi indita, pro verissimis evidentissimisque admisit.

72. Alteram errorum causam esse, quod praeiudiciorum oblivisci nequeamus. Et quamvis iam maturis annis, cum mens non amplius tota corpori servit, nec omnia ad illud refert, sed etiam de rerum, in se ipsis spectatarum, veritate inquirit, permulta ex iis, quae sic antea iudicavit, falsa esse deprehendat: non tamen ideo facile ipsa ex memoria sua expungit, et quamdiu in ea haerent, variorum errorum causae esse possunt. Ita, exempli causa, quoniam a prima aetate stellas imaginati sumus perexiguas, /37/ etsi iam rationes Astronomicae perspicue nobis ostendant ipsas esse quam maximas, tantum tamen praeiudicata opinio adhuc valet, ut nobis perdifficile sit, ipsas aliter quam prius imaginari.

73. Tertiam causam esse, quod defatigemur, ad ea, quae sensibus praesentia non sunt, attendendo; et ideo assueti simus de illis, non ex praesenti perceptione, sed ex praeconcepta opinione iudicare. Praeterea mens nostra non sine aliqua difficultate ac defatigatione potest ad ullas res attendere; omniumque difficillime ad illa attendit, quae nec sensibus, nec quidem imaginationi praesentia sunt: sive quia talem, ex eo quod corpori coniuncta sit, habet naturam; sive quia in primis annis, cum tantum circa sensus et imaginationes occuparetur, maiorem de ipsis quam de caeteris rebus cogitandi usum et facilitatem acquisivit. Hinc autem fit, ut iam multi nullam substantiam intelligant, nisi imaginabilem, et corpoream, et etiam sensibilem. Neque enim norunt ea sola esse imaginabilia, quae in extensione, motu et figura consistunt, etsi alia multa intelligibilia sint; nec putant quidquam posse subsistere, quod non sit corpus; nec denique ullum corpus non sensibile. Et quia revera nullam rem, qualis ipsa est, sensu solo percipimus, ut infra clare ostendetur, hinc accidit, ut plerique in tota vita nihil nisi confuse percipiant.

74. Quartam causam esse, quod conceptus nostros verbis, quae rebus accurate non respondent, alligemus. Et denique, propter loquelae usum, conceptus omnes nostros verbis, quibus eos exprimimus, alligamus, nec eos nisi simul cum istis verbis memoriae mandamus. Cumque facilius postea verborum quam rerum recordemur, vix unquam ullius rei conceptum habemus tam distinctum, ut illum ab omni verborum conceptu separemus, cogitationesque hominum fere omnium circa verba magis quam circa res versantur: adeo ut persaepe vocibus non intellectis praebeant /38/ assensum, quia putant se illas olim intellexisse, vel ab aliis qui eas recte intelligebant accepisse. Quae omnia, quamvis accurate hic tradi non possint, quia natura humani corporis nondum fuit exposita, necdum probatum est ullum corpus existere, videntur tamen satis posse intelligi, ut iuvent ad claros et distinctos conceptus ab obscuris et confusis dignoscendos.

75. Summa eorum quae observanda sunt, ad recte philosophandum. Itaque ad serio philosophandum, veritatemque omnium rerum cognoscibilium indagandam: primo, omnia praeiudicia sunt deponenda, sive accurate est cavendum, ne ullis ex opinionibus olim a nobis receptis fidem habeamus, nisi prius, iis ad novum examen revocatis, veras esse comperiamus. Deinde, ordine est attendendum ad notiones, quas ipsimet in nobis habemus, eaeque omnes et solae, quas sic attendendo clare ac distincte cognoscemus, iudicandae sunt verae. Quod agentes, inprimis advertemus nos existere, quatenus sumus naturae cogitantis; et simul etiam, et esse Deum, et nos ab illo pendere, et ex eius attributorum consideratione caeterarum rerum ueritatem posse indagari, quoniam ille est ipsarum causa; et denique, praeter notiones Dei et mentis nostrae, esse etiam in nobis notitiam multarum propositionum aeternae veritatis, ut quod ex nihilo nihil fiat, etc; itemque, naturae cuiusdam corporeae, sive extensae, divisibilis, mobilis, etc; itemque, sensuum quorundam qui nos afficiunt, ut doloris, colorum, saporum, etc, quamvis nondum sciamus quae sit causa, cur ita nos afficiant. Et haec conferentes cum iis quae confusius antea cogitabamus, usum claros et distinctos omnium rerum cognoscibilium conceptus formandi acquiremus. Atque in his paucis /39/ praecipua cognitionis humanae principia contineri mihi videntur.

76. Autoritatem divinam perceptioni nostrae esse praeferendam: sed ea seclusa non decere philosophum aliis quam perceptis assentiri. Praeter caetera autem, memoriae nostrae pro summa regula est infigendum, ea quae nobis a Deo revelata sunt, ut omnium certissima esse credenda. Et quamvis forte lumen rationis, quam maxime clarum et evidens, aliud quid nobis suggerere videretur, soli tamen authoritati divinae potius quam proprio nostro iudicio fidem esse adhibendam. Sed in iis, de quibus fides divina nihil nos docet, minime decere hominem philosophum aliquid pro vero assumere, quod verum esse nunquam perspexit; et magis fidere sensibus, hoc est, inconsideratis infantiae suae iudiciis, quam maturae

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rationi. /40/

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René Descartes

Méditations métaphysiques touchant la Première Philosophie dans lesquelles l'Existence de Dieu

et la Distinction réelle entre l'Ame et le Corps de l'Homme sont démontrées.

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Méditation Troisième De Dieu; qu'il existe.

Méditation Cinquième De l'essence des choses matérielles;

et, derechef de Dieu, qu'il existe.

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Méditation Troisième De Dieu; qu'il existe.

1. Je fermerai maintenant les yeux, je boucherai mes oreilles, je détournerai tous mes sens, j'effacerai même de ma pensée toutes les images des choses corporelles, ou du moins, parce qu'à peine cela se peut-il faire, je les réputerai comme vaines et comme fausses; et ainsi m'entretenant seulement moi-même, et considérant mon intérieur, je tâcherai de me rendre peu à peu plus connu et plus familier à moi- même. Je suis une chose qui pense, c'est-à-dire qui doute, qui affirme, qui nie, qui connaît peu de choses, qui en ignore beaucoup, qui aime, qui hait, qui veut, qui ne veut pas, qui imagine aussi, et qui sent. Car, ainsi que j'ai remarqué ci-devant, quoique les choses que je sens et que j'imagine ne soient peut-être rien du tout hors de moi et en elles-mêmes, je suis néanmoins assuré que ces façons de penser, que j'appelle sentiments et imaginations, en tant seulement qu'elles sont des façons de penser, résident et se rencontrent certainement en moi.

2. Et dans ce peu que je viens de dire, je crois avoir rapporté tout ce que je sais véritablement, ou du moins tout ce que jusques ici j'ai remarqué que je savais. Maintenant je considérerai plus exactement si peut-être il ne se retrouve point en moi d'autres connaissances que je n'aie pas encore aperçues. Je suis certain que je suis une chose qui pense; mais ne sais-je donc pas aussi ce qui est requis pour me rendre certain de quelque chose? Dans cette première connaissance, il ne se rencontre rien qu'une claire et distincte perception de ce que je connais; laquelle de vrai ne serait pas suffisante pour m'assurer qu'elle est vraie, s'il pouvait jamais arriver qu'une chose que je concevrais ainsi clairement et distinctement se trouvât fausse. Et partant il me semble que déjà je puis établir pour règle générale, que toutes les choses que nous concevons fort clairement et fort distinctement, sont toutes vraies.

3. Toutefois j'ai reçu et admis ci-devant plusieurs choses comme très certaines et très manifestes, lesquelles néanmoins j'ai reconnu par après être douteuses et incertaines. Quelles étaient donc ces choses-là? C'était la terre, le ciel, les astres, et toutes les autres choses que j'apercevais par l'entremise de mes sens. Or qu'est-ce que je concevais clairement et distinctement en elles? Certes rien autre chose sinon que les idées ou les pensées de ces choses se présentaient à mon esprit. Et encore à présent je ne nie pas que ces idées ne se rencontrent en moi. Mais il y avait encore une autre chose que j'assurais, et qu'à cause de l'habitude que j'avais à la croire, je pensais apercevoir très clairement, quoique véritablement je ne l'aperçusse point, à savoir qu'il y avait des choses hors de moi, d'où procédaient ces idées, et auxquelles elles étaient tout à fait semblables. Et c'était en cela que je me trompais; ou, si peut-être je jugeais selon la vérité, ce n'était aucune connaissance que j'eusse, qui fût cause de la vérité de mon jugement. 4. Mais lorsque je considérais quelque chose de fort simple et de fort facile touchant l'arithmétique et la géométrie, par exemple que deux et trois joints ensemble produisent le nombre de cinq, et autres choses semblables, ne les concevais-je pas au moins assez clairement pour assurer qu'elles étaient vraies? Certes si j'ai jugé depuis qu'on pouvait douter de ces choses, ce n'a point été pour autre raison, que parce qu'il me venait en l'esprit, que peut-être quelque Dieu avait pu me donner une telle nature, que je me trompasse même touchant les choses qui me semblent les plus manifestes. Mais toutes les fois que cette opinion ci-devant conçue de la souveraine puissance d'un Dieu se présente à ma pensée je suis contraint d'avouer qu'il lui est facile, s'il le veut, de faire en sorte que je m'abuse, même dans les choses que je crois connaître avec une évidence très grande. Et au contraire toutes les fois que je me tourne vers les choses que je pense concevoir fort clairement, je suis tellement persuadé par elles, que de moi-même je me laisse emporter à ces paroles: Me trompe qui pourra, si est-ce qu'il ne saurait jamais faire que je ne sois rien tandis que je penserai être quelque chose; ou que quelque jour il soit vrai que je n'aie jamais été, étant vrai maintenant que je suis, ou bien que deux et trois joints ensemble fassent plus ni moins que cinq, ou choses semblables, que je vois clairement ne pouvoir être d'autre façon que je les conçois. Et certes, puisque je n'ai aucune raison de croire qu'il y ait quelque Dieu qui soit trompeur, et même que je n'aie pas encore considéré celles qui prouvent qu'il y a un Dieu, la raison de douter qui dépend seulement de cette opinion, est bien légère, et pour ainsi dire métaphysique. Mais afin de la pouvoir tout à fait ôter, je dois examiner s'il y a un Dieu, sitôt que l'occasion s'en présentera; et si je trouve qu'il y en ait un, je dois aussi examiner s'il peut être trompeur: car sans la connaissance de ces deux vérités, je ne vois pas que je puisse jamais être certain d'aucune chose. Et afin que je puisse avoir occasion d'examiner cela sans interrompre l'ordre de méditer que je me suis proposé, qui est de passer par degrés des notions que je trouverai les premières en

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mon esprit à celles que j'y pourrai trouver après, il faut ici que je divise toutes mes pensées en certains genres, et que je considère dans lesquels de ces genres il y a proprement de la vérité ou de l'erreur. 5. Entre mes pensées, quelques-unes sont comme les images des choses, et c'est à celles-là seules que convient proprement le nom d'idée: comme lorsque je me représente un homme, ou une chimère, ou le ciel, ou un ange, ou Dieu même. D'autres, outre cela, ont quelques autres formes: comme, lorsque je veux, que je crains, que j'affirme ou que je nie, je conçois bien alors quelque chose comme le sujet de l'action de mon esprit, mais j'ajoute aussi quelque autre chose par cette action à l'idée que j'ai de cette chose-là; et de ce genre de pensées, les unes sont appelées volontés ou affections, et les autres jugements. 6. Maintenant, pour ce qui concerne les idées, si on les considère seulement en elles-mêmes, et qu'on ne les rapporte point à quelque autre chose, elles ne peuvent, à proprement parler, être fausses; car soit que j'imagine une chèvre ou une chimère, il n'est pas moins vrai que j'imagine l'une que l'autre. Il ne faut pas craindre aussi qu'il se puisse rencontrer de la fausseté dans les affections ou volontés; car encore que je puisse désirer des choses mauvaises, ou même qui ne furent jamais, toutefois il n'est pas pour cela moins vrai que je les désire. Ainsi il ne reste plus que les seuls jugements, dans lesquels je dois prendre garde soigneusement de ne me point tromper. Or la principale erreur et la plus ordinaire qui s'y puisse rencontrer, consiste en ce que je juge que les idées qui sont en moi sont semblables, ou conformes à des choses qui sont hors de moi; car certainement, si je considérais seulement les idées comme de certains modes ou façons de ma pensée, sans les vouloir rapporter à quelque autre chose d'extérieur, à peine me pourraient-elles donner occasion de faillir. 7. Or de ces idées les unes me semblent étre nées avec moi, les autres être étrangères et venir de dehors, et les autres être faites et inventées par moi-même. Car, que j'aie la faculté de concevoir ce que c'est qu'on nomme en général une chose, ou une vérité, ou une pensée, il me semble que je ne tiens point cela d'ailleurs que de ma nature propre; mais si j'ouis maintenant quelque bruit, si je vois le soleil, si je sens de la chaleur, jusqu'à cette heure j'ai jugé que ces sentiments procédaient de quelques choses qui existent hors de moi; et enfin il me semble que les sirènes, les hippogriffes et toutes les autres semblables chimères sont des fictions et inventions de mon esprit. Mais aussi peut-être me puis-je persuader que toutes ces idées sont du genre de celles que j'appelle étrangères, et qui viennent de dehors, ou bien qu'elles sont toutes nées avec moi, ou bien qu'elles ont toutes été faites par moi; car je n'ai point encore clairement découvert leur véritable origine. 8. Et ce que j'ai principalement à faire en cet endroit, eset de considérer, touchant celles qui me semblent venir de quelques objets qui sont hors de moi, quelles sont les raisons qui m'obligent à les croire semblables à ces objets. La première de ces raisons est qu'il me semble que cela m'est enseigné par la nature; et la seconde, que j'expérimente en moi-même que ces idées ne dépendent point de ma volonté; car souvent elles se présentent à moi malgré moi, comme maintenant, soit que je le veuille, soit que je ne le veuille pas, je sens de la chaleur, et pour cette cause je me persuade que ce sentiment ou bien cette idée de la chaleur est produite en moi par une chose différente de moi, à savoir par la chaleur du feu auprès duquel je me rencontre. Et je ne vois rien qui me semble plus raisonnable, que de juger que cette chose étrangère envoie et imprime en moi sa ressemblance plutôt qu'aucune autre chose. 9. Maintenant il faut que je voie si ces raisons sont assez fortes et convaincantes. Quand je dis qu'il me semble que cela m'est enseigné par la nature, j'entends seulement par ce mot de nature une certaine inclination qui me porte à croire cette chose, et non pas une lumière naturelle qui me fasse connaitre qu'elle est vraie. Or ces deux choses diffèrent beaucoup entre elles; car je ne saurais rien révoquer en doute de ce que la lumière naturelle me fait voir être vrai, ainsi qu'elle m'a tantôt fait voir que, de ce que je doutais, je pouvais conclure que j'étais. Et je n'ai en moi aucune autre faculté, ou puissance, pour distinguer le vrai du faux, qui me puisse enseigner que ce que cette lumière me montre comme vrai ne l'est pas, et à qui je me puisse tant fier qu'à elle. Mais, pour ce qui est des inclinations qui me semblent aussi m'être naturelles, j'ai souvent remarqué, lorsqu'il a été question de faire choix entre les vertus et les vices, qu'elles ne m'ont pas moins porté au mal qu'au bien; c'est pourquoi je n'ai pas sujet de les suivre non plus en ce qui regarde le vrai et le faux. 10. Et pour l'autre raison, qui est que ces idées doivent venir d'ailleurs, puisqu'elles ne dépendent pas de ma volonté, je ne la trouve non plus convaincante. Car tout de même que ces inclinations, dont je parlais tout maintenant, se trouvent en moi, nonobstant qu'elles ne s'accordent pas toujours avec ma volonté, ainsi peut-être qu'il y a en moi quelque faculté ou puissance propre à produire ces idées sans l'aide d'aucunes choses extérieures, bien qu'elle ne me soit pas encore connue; comme en effet il m'a toujours semblé jusques ici que, lorsque je dors, elles se forment ainsi en moi sans l'aidé des objets qu'elles représentent.

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11. Et enfin, encore que je demeurasse d'accord qu'elles sont causées par ces objets, ce n'est pas une conséquence nécessaire qu'elles doivent leur être semblables. Au contraire, j'ai souvent remarqué, en beaucoup d'exemples, qu'il y avait une grande différence entre l'objet et son idée. Comme, par exemple, je trouve dans mon esprit deux idées du soleil toutes diverses: l'une tire son origine des sens, et doit être placée dans le genre de celles que j'ai dit ci-dessus venir de dehors, par laquelle il me paraît extrêmement petit; l'autre est prise des raisons de l'astronomie, c'est-à-diré de certaines notions nées avec moi, ou enfin est formée par moi-même de quelque sorte que ce puisse être par laquelle il me paraît plusieurs fois plus grand que toute la terre. Certes, ces deux idées que je conçois du soleil, ne peuvent pas être toutes deux semblables au même soleil; et la raison me fait croire que celle qui vient immédiatement de son apparence, est celle qui lui est le plus dissemblable. 12. Tout cela me fait assez connaître que jusques à cette heure ce n'a point été par un jugement certain et prémédité, mais seulement par une aveugle et téméraire impulsion, que j'ai cru qu'il y avait des choses hors de moi, et différentes de mon être, qui, par les organes de mes sens, ou par quelque autre moyen que ce puisse être, envoyaient en moi leurs idées ou images, et y imprimaient leurs ressemblances. 13. Mais il se présente encore une autre voie pour rechercher si, entre les choses dont j'ai en moi les idées, il y en a quelques-unes qui existent hors de moi. A savoir, si ces idées sont prises en tant seulement que ce sont de certaines façons de penser, je ne reconnais entre elles aucune différence ou inégalité, et toutes semblent procéder de moi d'une même sorte; mais, les considérant comme des images, dont les unes représentent une chose et les autres une autre, il est évident qu'elles sont fort différentes les unes des autres. Car, en effet celles qui me représentent des substances, sont sans doute quelque chose de plus, et contiennent en soi (pour ainsi parler) plus de réalité objective, c'est-à-dire participent par représentation à plus de degrés d'être ou de perfection, que celles qui me représentent seulement des modes ou accidents. De plus, celle par laquelle je conçois un Dieu souverain, éternel, infini, immuable, tout connaissant, tout-puissant, et Créateur universel de toutes les choses qui sont hors de lui; celle-là, dis-je, a certainement en soi plus de réalité objective, que celles par qui les substances finies me sont représentées. 14. Maintenant, c'est une chose manifeste par la lumière naturelle, qu'il doit y avoir pour le moins autant de réalité dans la cause efficiente et totale que dans son effet: car d'où est-ce que l'effet peut tirer sa réalité sinon de sa cause? et comment cette cause la lui pourrait-elle communiquer, si elle ne l'avait en elle-même? Et de là il suit, non seulement que le néant ne saurait produire aucune chose, mais aussi que ce qui est plus parfait, c'est-à-dire qui contient en soi plus de réalité, ne peut être une suite et une dépendance du moins parfait. Et cette vérité n'est pas seulement claire et évidente dans les effets qui ont cette réalité que les philosophes appellent actuelle ou formelle, mais aussi dans les idées où l'on considère seulement la réalité qu'ils nomment objective: par exemple, la pierre qui n'a point encore été, non seulement ne peut pas maintenant commencer d'être, si elle n'est produite par une chose qui possède en soi formellement, ou éminemment, tout ce qui entre en la composition de la pierre, c'est-à-dire qui contienne en soi les mêmes choses ou d'autres plus excellentes que celles qui sont dans la pierre; et la chaleur ne peut être produite dans un sujet qui en était auparavant privé, si ce n'est par une chose qui soit d'un ordre, d'un degré ou d'un genre au moins aussi parfait que la chaleur, et ainsi des autres. Mais encore, outre cela, l'idée de la chaleur, ou de la pierre, ne peut pas être en moi, si elle n'y a été mise par quelque cause, qui contienne en soi pour le moins autant de réalité, que j'en conçois dans la chaleur ou dans la pierre. Car encore que cette cause-là ne transmette en mon idée aucune chose de sa réalité actuelle ou formelle, on ne doit pas pour cela s'imaginer que cette cause doive être moins réelle; mais on doit savoir que toute idée étant un ouvrage de l'esprit, sa nature est telle qu'elle ne demande de soi aucune autre réalité formelle, que celle qu'elle reçoit et emprunte de la pensée ou de l'esprit, dont elle est seulement un mode, c'est-à-dire une manière ou façon de penser. Or, afin qu'une idée contienne une telle réalité objec'tive plutôt qu'une autre, elle doit sans doute avoir cela de quelque cause, dans laquelle il se rencontre pour le moins autant de réalité formelle que cette idée contient de réalité objective. Car si nous supposons qu'il se trouve quelque chose dans l'idée, qui ne se rencontre pas dans sa cause, il faut donc qu'elle tienne cela du néant; mais, pour imparfaite que soit cette façon d'être, par laquelle une chose est objectivement ou par représentation dans l'entendement par son idée, certes on ne peut pas néanmoins dire que cette façon et manière-là ne soit rien, ni par conséquent que cette idée tire son origine du néant. 15. Je ne dois pas aussi douter qu'il ne soit nécessaire que la réalité soit formellement dans les causes de mes idées, quoique la réalité que je considère dans ces idées soit seulement objective, ni penser qu'il suffit que cette réalité se rencontre objectivement dans leurs causes; car, tout ainsi que cette manière d'être objectivement appartient aux idées, de leur propre nature, de même aussi la manière ou la façon d'être formellement appartient aux causes de ces idées (à tout le moins aux premières et principales) de leur propre nature. Et encore qu'il puisse arriver qu'une idée

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donne la naissance à une autre idée, cela ne peut pas toutefois être à l'infini, mais il faut à la fin parvenir à une première idée, dont la cause soit comme un patron ou un original, dans lequel toute la réalité ou perfection soit contenue formellement et en effet, qui se rencontre seulement objectivement ou par représentation dans ces idées. En sorte que la lumière naturelle me fait connaître évidemment, que les idées sont en moi comme des tableaux, ou des images, qui peuvent à la vérité facilement déchoir de la perfection des choses dont elles ont été tirées, mais qui ne peuvent jamais rien contenir de plus grand ou de plus parfait. 16. Et d'autant plus longuement et soigneusement j'examine toutes ces choses, d'autant plus clairement et distinctement je connais qu'elles sont vraies. Mais enfin que conclurai-je de tout cela? C'est à savoir que, si la réalité objective de quelqu'une de mes idées est telle, que je connaisse clairement qu'elle n'est point en moi, ni formellement, ni éminemment, et que par conséquent je ne puis pas moi-même en être la cause, il suit de là nécessairement que je ne suis pas seul dans le monde, mais qu'il y a encore quelque autre chose qui existe, et qui est la cause de cette idée; au lieu que, s'il ne se rencontre point en moi de telle idée, je n'aurai aucun argument qui me puisse convaincre et rendre certain de l'existence d'aucune autre chose que de moi-même; car je les ai tous soigneusement recherchés, et je n'en ai pu trouver aucun autre jusqu'à présent. 17. Or entre ces idées, outre celle qui me représente à moi-même, de laquelle il ne peut y avoir ici aucune difficulté, il y en a une autre qui me représente un Dieu, d'autres des choses corporelles et inanimées, d'autres des anges, d'autres des animaux, et d'autres enfin qui me représentent des hommes semblables à moi. 18. Mais pour ce qui regarde les idées qui me représentent d'autres hommes, ou des animaux, ou des anges, je conçois facilement qu'elles peuvent être formées par le mélange et la composition des autres idées que j'ai des choses corporelles et de Dieu, encore que hors de moi il n'y eût point d'autres hommes dans le monde, ni aucuns animaux, ni aucuns anges. 19. Et pour ce qui regarde les idées des choses corporelles, je n'y reconnais rien de si grand ni de si excellent, qui ne me semble pouvoir venir de moi-même; car, si je les considère de plus près, et si je les examine de la même façon que j'examinais hier l'idée de la cire, je trouve qu'il ne s'y rencontre que fort peu de chose que je conçoive clairement et distinctement: à savoir, la grandeur ou bien l'extension en longueur, largeur et profondeur; la figure qui est formée par les termes et les bornes de cette extension; la situation que les corps diversement figurés gardent entre eux; et le mouvement ou le changement de cette situation; auxquelles on peut ajouter la substance, la durée, et le nombre. Quant aux autres choses, comme la lumière, les couleurs, les sons, les odeurs, les saveurs, la chaleur, le froid, et les autres qualités qui tombent sous l'attouchement, elles se rencontrent dans ma pensée avec tant d'obscurité et de confusion, que j'ignore même si elles sont véritables, ou fausses et seulement apparentes, c'est-à-dire si les idées que je conçois de ces qualités, sont en effet les idées de quelques choses réelles, ou bien si elles ne me répresentent que des êtres chimériques, qui ne peuvent exister. Car, encore que j'aie remarqué ci-devant, qu'il n'y a que dans les jugements que se puisse rencontrer la vraie et formelle fausseté, il se peut néanmoins trouver dans les idées une certaine fausseté matérielle, à savoir, lorsqu'elles représentent ce qui n'est rien comme si c'était quelque chose. Par exemple, les idées que j'ai du froid et de la chaleur sont si peu claires et si peu distinctes, que par leur moyen je ne puis pas discerner si le froid est seulement une privation de la chaleur, ou la chaleur une privation du froid, ou bien si l'une et l'autre sont des qualités réelles, ou si elles ne le sont pas; et d'autant que, les idées étant comme des images, il n'y en peut avoir aucune qui ne nous semble représenter quelque chose, s'il est vrai de dire que le froid ne soit autre chose qu'une privation de la chaleur, l'idée qui me le représente comme quelque chose de réel et de positif, ne sera pas mal à propos appelée fausse, et ainsi des autres semblables idées; auxquelles certes il n'est pas nécessaire que j'attribue d'autre auteur que moi-même. 20. Car, si elles sont fausses, c'est-à-dire si elles représentent des choses qui ne sont point, la lumière naturelle me fait connaître qu'elles procèdent du néant, c'est-à-dire qu'elles ne sont en moi, que parce qu'il manque quelque chose à ma nature, et qu'elIe n'est pas toute parfaite. Et si ces idées sont vraies, néanmoins, parce qu'elles me font paraître si peu de réalité, que même je ne puis pas nettement discerner la chose représentée d'avec le non-être, je ne vois point de raison pourquoi elles ne puissent être produites par moimême, et que je n'en puisse être l'auteur. 21. Quant aux idées claires et distinctes que j'ai des choses corporelles, il y en a quelques-unes qu'il semble que j'ai pu tirer de l'idée que j'ai de moi-même, comme celle que j'ai de la substance, de la durée, du nombre, et d'autres choses semblables. Car, lorsque je pense que la pierre est une substance, ou bien une chose qui de soi est capable d'exister, puis que je suis une substance, quoique je conçoive bien que je suis une chose qui pense et non étendue, et que la pierre au contraire est une chose étendue et qui ne pense point, et qu'ainsi entre ces deux conceptions il se rencontre

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une notable différence, toutefois elles semblent convenir en ce qu'elles représentent des substances. De même, quand je pense que je suis mainteniant, et que je me ressouviens outre cela d'avoir été autrefois, et que je conçois plusieurs diverses pensées dont je connais le nombre, alors j'acquiers en moi les idées de la durée et du nombre, lesquelles, par après, je puis transférer à toutes les autres choses que je voudrai. Pour ce qui est des autres qualités dont les idées des choses corporelles sont composées, à savoir, l'étendue, la figure, la situation, et le mouvement de lieu, il est vrai qu'elles ne sont point formellement en moi, puisque je ne suis qu'une chose qui pense; mais parce que ce sont seulement de certains modes de la substance, et comme les vêtements sous lesquels la substance corporelle nous paraît, et que je suis aussi moi-même une substance, il semble qu'elles puissent être contenues en moi éminemment. 22. Partant il ne reste que la seule idée de Dieu, dans laquelle il faut considérer s'il y a quelque chose qui n'ait pu venir de moi-même. Par le nom de Dieu j'entends une substance infinie, éternelle, immuable, indépendante, toute connaissante, toute-puissante, et par laquelle moi-même, et toutes les autres choses qui sont (s'il est vrai qu'il y en ait qui existent) ont été créées et produites. Or ces avantages sont si grands et si éminents, que plus attentivement je les considère, et moins je me persuade que l'idée que j'en ai puisse tirer son origine de moi seul. Et par conséquent il faut nécessairement conclure de tout ce que j'ai dit auparavant, que Dieu existe. 23. Car, encore que l'idée de la substance soit en moi, de cela même que je suis une substance, je n'aurais pas néanmoins l'idée d'une substance infinie, moi qui suis un être fini, si elle n'avait été mise en moi par quelque substance qui fût véritablement infinie. 24. Et je ne me dois pas imaginer que je ne conçois pas l'infini par une véritable idée, mais seulement par la négation de ce qui est fini, de même que je comprends le repos et les ténèbres par la négation du mouvement et de la lumière: puisque au contraire je vois manifestement qu'il se rencontre plus de réalité dans la substance infinie que dans la substance finie, et partant que j'ai en quelque façon premièrement en moi la notion de l'infini, que du fini, c'est-à-dire de Dieu, que de moi-même. Car comment serait-il possible que je pusse connaître que je doute et que je désire, c'est-à-dire qu'il me manque quelque chose et que je ne suis pas tout parfait, si je n'avais en moi aucune idée d'un être plus parfait que le mien, par la comparaison duquel je connaîtrais les défauts de ma nature? 25. Et l'on ne peut pas dire que peut-être cette idée de Dieu est matériellement fausse, et que par conséquent je la puis tenir du néant, c'est-à-dire qu'elle peut être en moi pour ce que j'ai du défaut, comme j'ai dit ci-devant des idées de la chaleur et du froid, et d'autres choses semblables: car, au contraire, cette idée étant fort claire et fort distincte, et contenant en soi plus de réalité objective qu'aucune autre, il n'y en a point qui soit de soi plus vraie, ni qui puisse être moins soupçonnée d'erreur et de fausseté. L'idée, dis-je, de cet être souverainement parfait et infini est entièrement vraie; car, encore que peut-être l'on puisse feindre qu'un tel être n'existe point, on ne peut pas feindre néanmoins que son idée ne me représente rien de réel, comme j'ai tantôt dit de l'idée du froid. Cette même idée est aussi fort claire et fort distincte, puisque tout ce que mon esprit conçoit clairement et distinctement de réel et de vrai, et qui contient en soi quelque perfection, est contenu et renfermé tout entier dans cette idée. Et ceci ne laisse pas d'être vrai, encore que je ne comprenne pas l'infini, ou même qu'il se rencontre en Dieu une infinité de choses que je ne puis comprendre, ni peut-être aussi atteindre aucunement par la pensée: car il est de la nature de l'infini, que ma nature, qui est finie et bornée, ne le puisse comprendre; et il suffit que je conçoive bien cela, et que je juge que toutes les choses que je conçois clairement, et dans lesquelles je sais qu'il y a quelque perfection, et peut-être aussi une infinité d'autres que j'ignore, sont en Dieu formellement ou éminemment, afin que l'idée que j'en ai soit la plus vraie, la plus claire et la plus distincte de toutes celles qui sont en mon esprit. 26. Mais peut-être aussi que je suis quelque chose de plus que je ne m'imagine, et que toutes les perfections que j'attribue à la nature d'un Dieu, sont en quelque façon en moi en puissance, quoiqu'elles ne se produisent pas encore, et ne se fassent point paraître par leurs actions. En effet j'expérimente déjà que ma connaissance s'augmente et se perfectionne peu à peu, et je ne vois rien qui la puisse empêcher de s'augmenter de plus en plus jusques à l'infini; puis, étant ainsi accrue et perfectionnée, je ne vois rien qui empêche que je ne puisse m'acquérir par son moyen toutes les autres perfections de la nature divine; et enfin il semble que la puissance que j'ai pour l'acquisition de ces perfections, si elle est en moi, peut être capable d'y imprimer et d'y introduire leurs idées. 27. Toutefois, en y regardant un peu de près, je reconnais que cela ne peut être; car, premièrement, encore qu'il fût vrai que ma connaissance acquît tous les jours de nouveaux degrés de perfection, et qu'il y eût en ma nature beaucoup de choses en puissance, qui n'y sont pas encore actuellement, toutefois tous ces avantages n'appartiennent et n'approchent en aucune sorte de l'idée que j'ai de la Divinité, dans laquelle rien ne se rencontre seulement en

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puissance, mais tout y est actuellement et en effet. Et même n'est-ce pas un argument infaillible et très certain d'imperfection en ma connaissance, de ce qu'elle s'accroît peu à peu, et qu'elle s'augmente par degrés? Davantage, encore que ma connaissance s'augmentât de plus en plus, néanmoins je ne laisse pas de concevoir qu'elle ne saurait être actuellement infinie, puisqu'elle n'arrivera jamais à un si haut point de perfection, qu'elle ne soit encore capable d'acquérir quelque plus grand accroissement. Mais je conçois Dieu actuellement infini en un si haut degré, qu'il ne se peut rien ajouter à la souveraine perfection qu'il possède. Et enfin je comprends fort bien que l'être objectif d'une idée ne peut être produit par un être qui existe seulement en puissance, lequel à proprement parler n'est rien, mais seulement par un être formel ou actuel. 28. Et certes je ne vois rien en tout ce que je viens de dire, qui ne soit très aisé à connaître par la lumière naturelle à tous ceux qui voudront y penser soigneusement; mais lorsque je relâche quelque chose de mon attention, mon esprit se trouvant obscurci et comme aveuglé par les images des choses sensibles, ne se ressouvient pas facilement de la raison pourquoi l'idée que j'ai d'un être plus parfait que le mien, doit nécessairement avoir été mise en moi par un être qui soit en effet plus parfait. C'est pourquoi je veux ici passer outre, et considérer si moi-même, qui ai cette idée de Dieu, je pourrais être, en cas qu'il n'y eût point de Dieu. 29. Et je demande, de qui aurais-je mon existence? Peut-être de moi-même, ou de mes parents, ou bien de quelques autres causes moins parfaites que Dieu; car on ne se peut rien imaginer de plus parfait, ni même d'égal à lui. 30. Or, si j'étais indépendant de tout autre, et que je fusse moi-même l'auteur de mon être, certes je ne douterais d'aucune chose, je ne concevrais plus de désirs, et enfin il ne me manquerait aucune perfection; car je me serais donné à moi-même toutes celles dont j'ai en moi quelque idée, et ainsi je serais Dieu. Et je ne me dois point imaginer que les choses qui me manquent sont peut-être plus difficiles à acquérir, que celles dont je suis déjà en possession; car au contraire il est très certain, qu'il a été beaucoup plus difficile, que moi, c'est-à-dire une chose ou une substance qui pense, soit sorti du néant, qu'il ne me serait d'acquérir les lumières et les connaissances de plusieurs choses que j'ignore, et qui ne sont que des accidents de cette substance. Et ainsi sans difficulté, si je m'étais moi-même donné ce plus que je viens de dire, c'est-à-dire si j'étais l'auteur de ma naissance et de mon existence, je ne me serais pas privé au moins des choses qui sont de plus facile acquisition, à savoir, de beaucoup de connaissances dont ma nature est dénuée; je ne me serais pas privé non plus d'aucune des choses qui sont contenues dans l'idée que je conçois de Dieu, parce qu'il n'y en a aucune qui me semble de plus difficile acquisition; et s'il y en avait quelqu'une, certes elle me paraîtrait telle (supposé que j'eusse de moi toutes les autres choses que je possède), puisque j'expérimenterais que ma puissance s'y terminerait, et ne serait pas capable d'y arriver. 31. Et encore que je puisse supposer que peut-être j'ai toujours été comme je suis maintenant, je ne saurais pas pour cela éviter la force de ce raisonnement, et ne laisse pas de connaître qu'il est nécessaire que Dieu soit l'auteur de mon existence. Car tout le temps de ma vie peut être divisé en une infinité de parties, chacune desquelles ne dépend en aucune façon des autres; et ainsi, de ce qu'un peu auparavant j'ai été, il ne s'ensuit pas que je doive maintenant être, si ce n'est qu'en ce moment quelque cause me produise et me crée, pour ainsi dire, derechef, c'est-à-dire me conserve. En effet c'est une chose bien claire et bien évidente (à tous ceux qui considéreront avec attention la nature du temps), qu'une substance, pour être conservée dans tous les moments qu'elle dure, a besoin du même pouvoir et de la même action, qui serait nécessaire pour la produire et la créer tout de nouveau, si elle n'était point encore. En sorte que la lumière naturelle nous fait voir clairement, que la conservation et la création ne diffèrent qu'au regard de notre façon de penser, et non point en effet.

32. Il faut donc seulement ici que je m'interroge moi-même, pour savoir si je possède quelque pouvoir et quelque vertu, qui soit capable de faire en sorte que moi, qui suis maintenant, sois encore à l'avenir: car, puisque je ne suis qu'une chose qui pense (ou du moins puisqu'il ne s'agit encore jusques ici précisément que de cette partie-là de moi-même), si une telle puissance résidait en moi, certes je devrais à tout le moins le penser, et en avoir connaissance; mais je n'en ressens aucune dans moi, et par là je connais évidemment que je dépends de quelque être différent de moi. 33. Peut-être aussi que cet être-là, duquel je dépends, n'est pas ce que j'appelle Dieu, et que je suis produit, ou par mes parents, ou par quelques autres causes moins parfaites que lui? Tant s'en faut, cela ne peut être ainsi. Car, comme j'ai déjà dit auparavant, c'est une chose très évidente qu'il doit y avoir au moins autant de réalité dans la cause que dans son effet. Et partant, puisque je suis une chose qui pense, et qui ai en moi quelque idée de Dieu, quelle que soit enfin la cause que l'on attribue à ma nature, il faut nécessairement avouer qu'elle doit pareillement être une

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chose qui pense, et posséder en soi l'idée de toutes les perfections que j'attribue à la nature Divine. Puis l'on peut derechef rechercher si cette cause tient son origine et son existence de soi-même, ou de quelque autre chose. Car si elle la tient de soi-même, il s'ensuit, par les raisons que j'ai ci-devant alléguées, qu'elle-même doit être Dieu; puisque ayant la vertu d'être et d'exister par soi, elle doit aussi avoir sans doute la puissance de posséder actuellement toutes les perfections dont elle conçoit les idées, c'est-à-dire toutes celles que je conçois être en Dieu. Que si elle tient son existence de quelque autre cause que de soi, on demandera derechef, par la même raison, de cette seconde cause, si elle est par soi, ou par autrui, jusques à ce que de degrés en degrés on parvienne enfin à une dernière cause qui se trouvera être Dieu. 34. Et il est très manifeste qu'en cela il ne peut y avoir de progrès à l'infini, vu qu'il ne s'agit pas tant ici de la cause qui m'a produit autrefois, comme de celle qui me conserve présentement. 35. On ne peut pas feindre aussi que peut-être plusieurs causes ont ensemble concouru en partie à ma production, et que de l'une j'ai reçu l'idée d'une des perfections que j'attribue à Dieu, et d'une autre l'idée de quelque autre, en sorte que toutes ces perfections se trouvent bien à la vérité quelque part dans l'Univers, mais ne se rencontrent pas toutes jointes et assemblées dans une seule qui soit Dieu. Car, au contraire, l'unité, la simplicité, ou l'inséparabilité de toutes les choses qui sont en Dieu, est une des principales perfections que je conçois être en lui; et certes l'idée de cette unité et assemblage de toutes les perfections de Dieu, n'a pu être mise en moi par aucune cause, de qui je n'aie point aussi reçu les idées de toutes les autres perfections. Car elle ne peut pas me les avoir fait comprendre ensemblement jointes et inséparables, sans avoir fait en sorte en même temps que je susse ce qu'elles étaient, et que je les connusse toutes en quelque façon. 36. Pour ce qui regarde mes parents, desquels il semble que je tire ma naissance, encore que tout ce que j'en ai jamais pu croire soit véritable, cela ne fait pas toutefois que ce soit eux qui me conservent, ni qui m'aient fait et produit en tant que je suis une chose qui pense, puisqu'ils ont seulement mis quelques dispositions dans cette matière, en laquelle je juge que moi, c'est-à-dire mon esprit, lequel seul je prends maintenant pour moi-même, se trouve renfermé; et partant il ne peut y avoir ici à leur égard aucune difficulté, mais il faut nécessairement conclure que, de cela seul que j'existe, et que l'idée d'un être souverainement parfait (c'est-à-dire de Dieu) est en moi , l' existence de Dieu est très évidemment démontrée. 37. Il me reste seulement à examiner de quelle façon j'ai acquis cette idée. Car je ne l'ai pas reçue par les sens, et jamais elle ne s'est offerte à moi contre mon attente, ainsi que font les idées des choses sensibles, lorsque ces choses se présentent ou semblent se présenter aux organes extérieurs de mes sens. Elle n'est pas aussi une pure production ou fiction de mon esprit; car il n'est pas en mon pouvoir d'y diminuer ni d'y ajouter aucune chose. Et par conséquent il ne reste plus autre chose à dire, sinon que, comme l'idée de moi-même, elle est née et produite avec moi dès lors que j'ai été créé. 38. Et certes on ne doit pas trouver étrange que Dieu, en me créant, ait mis en moi cette idée pour être comme la marque de l'ouvrier empreinte sur son ouvrage; et il n'est pas aussi nécessaire que cette marque soit quelque chose de différent de ce même ouvrage. Mais de cela seul que Dieu m'a créé, il est fort croyable qu'il m'a en quelque façon produit à son image et semblance, et que je conçois cette ressemblance (dans laquelle l'idée de Dieu se trouve contenue) par la même faculté par laquelle je me conçois moi-même; c'est-à-dire que, lorsque je fais réflexion sur moi, non seulement je connais que je suis une chose imparfaite, incomplète, et dépendante d'autrui, qui tend et qui aspire sans cesse à quelque chose de meilleur et de plus grand que je ne suis, mais je connais aussi, en même temps, que celui duquel je dépends, possède en soi toutes ces grandes choses auxquelles j'aspire, et dont je trouve en moi les idées, non pas indéfiniment et seulement en puissance, mais qu'il en jouit en effet, actuellement et infiniment et, ainsi qu'il est Dieu. Et toute la force de l'argument dont j'ai ici usé pour prouver l'existence de Dieu consiste en ce que je reconnais qu'il ne serait pas possible que ma nature fût telle qu'elle est, c'est-à-dire que j'eusse en moi l'idée d'un Dieu, si Dieu n'existait véritablement; ce même Dieu, dis-je, duquel l'idée est en moi, c'est-à-dire qui possède toutes ces hautes perfections, dont notre esprit peut bien avoir quelque idée sans pourtant les comprendre toutes, qui n'est sujet à aucuns défauts, et qui n'a rien de toutes les choses qui marquent quelque imperfection. D'où il est assez évident qu'il ne peut être trompeur, puisque la lumière naturelle nous enseigne que la tromperie dépend nécessairement de quelque défaut. 39. Mais, auparavant que j'examine cela plus soigneusement, et que je passe à la considération des autres vérités que l'on en peut recueillir, il me semble très à propos de m'arrêter quelque temps à la contemplation de ce Dieu tout parfait, de peser tout à loisir ses merveilleux attributs, de considérer, d'admirer et d'adorer l'incomparable beauté de

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cette immense lumière, au moins autant que la force de mon esprit, qui en demeure en quelque sorte ébloui, me le pourra permettre. Car, comme la foi nous apprend que la souveraine félicité de l'autre vie ne consiste que dans cette contemplation de la Majesté divine, ainsi expérimenterons-nous dès maintenant, qu'une semblable méditation, quoique incomparablement moins parfaite, nous fait jouir du plus grand contentement que nous soyons capables de ressentir en cette vie.

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Méditation Cinquième De l'essence des choses matérielles;

et, derechef de Dieu, qu'il existe.

1. Il me reste beaucoup d'autres choses à examiner, touchant les attributs de Dieu, et touchant ma propre nature, c'est-à-dire celle de mon esprit: mais j'en reprendrai peut-être une autre fois la recherche. Maintenant (après avoir remarqué ce qu'il faut faire ou éviter pour parvenir à la connaissance de la vérité), ce que j'ai principalement à faire, est d'essayer de sortir et de me débarrasser de tous les doutes où je suis tombé ces jours passés, et voir si l'on ne peut rien connaitre de certain touchant les choses matérielles.

2. Mais avant que j'examine s'il y a de telles choses qui existent hors de moi, je dois considérer leurs idées, en tant qu'elles sont en ma pensée, et voir quelles sont celles qui sont distinctes, et quelles sont celles qui sont confuses. 3. En premier lieu, j'imagine distinctement cette quantité que les philosophes appellent vulgairement la quantité continue, ou bien l'extension en longueur, [76] largeur et profondeur, qui est en cette quantité, ou plutôt en la chose à qui on l'attribue. De plus, je puis nombrer en elle plusieurs diverses parties, et attribuer à chacune de ces parties toutes sortes de grandeurs, de figures, de situations, et de mouvements; et enfin, je puis assigner à chacun de ces mouvements toutes sortes de durées. 4. Et je ne connais pas seulement ces choses avec distinction, lorsque je les considère en général; mais aussi, pour peu que j'y applique mon attention, je conçois une infinité de particularités touchant les nombres, les figures, les mouvements, et autres choses semblables, dont la vérité se fait paraître avec tant d'évidence et s'accorde si bien avec ma nature, que lorsque je commence à les découvrir, il ne me semble pas que j'apprenne rien de nouveau, mais plutôt que je me ressouviens de ce que je savais déjà auparavant, c'est-à-dire que j'aperçois des choses qui étaient déjà dans mon esprit, quoique je n'eusse pas encore tourné ma pensée vers elles. 5. Et ce que je trouve ici de plus considérable, est que je trouve en moi une infinité d'idées de certaines choses, qui ne peuvent pas être estimées un pur néant, quoique peut-être elles n'aient aucune existence hors de ma pensée, et qui ne sont pas feintes par moi, bien qu'il soit en ma liberté de les penser ou ne les penser pas; mais elles ont leurs natures vraies et immuables. Comme, par exemple [77], lorsque j'imagine un triangle, encore qu'il n'y ait peut-être en aucun lieu du monde hors de ma pensée une telle figure, et qu'il n'y en ait jamais eu, il ne laisse pas néanmoins d'y avoir une certaine nature, ou forme, ou essence déterminée de cette figure, laquelle est immuable et éternelle, que je n'ai point inventée, et qui ne dépend en aucune façon de mon esprit; comme il paraît de ce que l'on peut démontrer diverses propriétés de ce triangle, à savoir, que les trois angles sont égaux à deux droits, que le plus grand angle est soutenu par le plus grand côté, et autres semblables, lesquelles maintenant, soit que je le veuille ou non, je reconnais très clairement et très évidemment être en lui, encore que je n'y aie pensé auparavant en aucune façon, lorsque je me suis imaginé la première fois un triangle; et partant on ne peut pas dire que je les aie feintes et inventées. 6. Et je n'ai que faire ici de m'objecter, que peut-être cette idée du triangle est venue en mon esprit par l'entremise de mes sens, parce que j'ai vu quelquefois des corps de figure triangulaire; car le puis former en mon esprit une infinité d'autres figures, dont on ne peut avoir le moindre soupçon que jamais elles me soient tombées sous les sens, et je ne laisse pas toutefois de pouvoir démontrer diverses propriétés touchant leur nature, aussi bien que touchant celle du triangle: [78] lesquelles certes doivent être toutes vraies, puisque je les conçois clairement. Et partant elles sont quelque chose, et non pas un pur néant; car il est très évident que tout ce qui est vrai est quelque chose, et j'ai déjà amplement démontré ci-dessus que toutes les choses que je connais clairement et distinctement sont vraies. Et quoique je ne l'eusse pas démontré, toutefois la nature de mon esprit est telle, que je ne me saurais empêcher de les estimer vraies, pendant que je les conçois clairement et distinctement. Et je me ressouviens que, lors même que j'étais encore fortement attaché aux objets des sens, j'avais tenu au nombre des plus constantes vérités celles que je concevais clairement et distinctement touchant les figures, les nombres, et les autres choses qui appartiennent à l'arithmétique et a la géométrie.

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7. Or maintenant, si de cela seul que je puis tirer de ma pensée l'idée de quelque chose, il s'ensuit que tout ce que je reconnais clairement et distinctement appartenir à cette chose, lui appartient en effet, ne puis-je pas tirer de ceci un argument et une preuve démonstrative de l'existence de Dieu? Il est certain que je ne trouve pas moins en moi son idée, c'est-à-dire l'idée d'un être souverainement parfait, que celle de quelque figure [79] ou de quelque nombre que ce soit. Et je ne connais pas moins clairement et distinctement qu'une actuelle et éternelle existence appartient à sa nature, que je connais que tout ce que je puis démontrer de quelque figure ou de quelque nombre, appartient véritablement à la nature de cette figure ou de ce nombre. Et partant, encore que tout ce que j'ai conclu dans les Méditations précédentes, ne se trouvât point véritable, l'existence de Dieu doit passer en mon esprit au moins pour aussi certaine, que j'ai estimé jusques ici toutes les vérités des mathématiques, qui ne regardent que les nombres et les figures: bien qu'à la vérité. 8. Cela ne paraisse pas d'abord entièrement manifeste, mais semble avoir quelque apparence de sophisme. Car, ayant accoutumé dans toutes les autres choses de faire distinction entre l'existence et l'essence, je me persuade aisément que l'existence peut être séparée de l'essence de Dieu, et qu'ainsi on peut concevoir Dieu comme n'étant pas actuellement. Mais néanmoins, lorsque j'y pense avec plus d'attention, je trouve manifestement que l'existence ne peut non plus être séparée de l'essence de Dieu, que de l'essence d'un triangle rectiligne la grandeur de ses trois angles égaux à deux droits, ou bien de l'idée d'une montagne l'idée d'une vallée; en sorte qu'il n'y a pas moins de répugnance de concevoir un Dieu [80] (c'est-à-dire un être souverainement parfait) auquel manque l'existence (c'est-à-dire auquel manque quelque perfection), que de concevoir une montagne qui n'ait point de vallée. 9. Mais encore qu'en effet je ne puisse pas concevoir un Dieu sans existence, non plus qu'une montagne sans vallée, toutefois, comme de cela seul que je conçois une montagne avec une vallée, il ne s'ensuit pas qu'il y ait aucune montagne dans le monde, de même aussi, quoique je conçoive Dieu avec l'existence, il semble qu'il ne s'ensuit pas pour cela qu'il y en ait aucun qui existe: car ma pensée n'impose aucune nécessité aux choses; et comme il ne tient qu'à moi d'imaginer un cheval ailé, encore qu'il n'y en ait aucun qui ait des ailes, ainsi je pourrais peut-être attribuer l'existence à Dieu, encore qu'il n'y eût aucun Dieu qui existât. 10. Tant s'en faut, c'est ici qu'il y a un sophisme caché sous l'apparence de cette objection: car de ce que je ne puis concevoir une montagne sans vallée, il ne s'ensuit pas qu'il y ait au monde aucune montagne, ni aucune vallée, mais seulement que la montagne et la vallée, soit qu'il y en ait, soit qu'il n'y en ait point, ne se peuvent en aucune façon séparer l'une d'avec l'autre; au lieu que, de cela seul que je ne puis concevoir Dieu sans existence, il s'ensuit que l'existence est inséparable de lui, et partant puisse pas qu'il existe véritablement: [81] non pas que ma pensée puisse faire que cela soit de la sorte, et qu'elle impose aux choses aucune nécessité; mais, au contraire, parce que la nécessité de la chose même, à savoir de l'existence de Dieu, détermine ma pensée à le concevoir de cette façon. Car il n'est pas en ma liberté de concevoir un Dieu sans existence (c'est-à-dire un être souverainement parfait sans une souveraine perfection) , comme il m'est libre d'imaginer un cheval sans ailes ou avec des ailes. 11. Et on ne doit pas dire ici qu'il est à la vérité nécessaire que j'avoue que Dieu existe, après que j'ai supposé qu'il possède toutes sortes de perfections, puisque l'existence en est une, mais qu'en effet ma première supposition n'était pas nécessaire; de même qu'il n'est point nécessaire de penser que toutes les figures de quatre côtés se peuvent inscrire dans le cercle, mais que, supposant que j'aie cette pensée, je suis contraint d'avouer que le rhombe se peut inscrire dans le cercle, puisque c'est une figure de quatre côtés; et ainsi je serai contraint d'avouer une chose fausse. On ne doit point, dis-je, alléguer cela: car encore qu'il ne soit pas nécessaire que je tombe jamais dans aucune pensée de Dieu, néanmoins, toutes les fois qu'il m'arrive de penser à un être premier et souverain, et de tirer, pour ainsi dire, son idée du trésor de mon esprit, il est nécessaire que je lui attribue toutes sortes de perfections, quoique je ne vienne pas à les nombrer toutes [82], et à appliquer mon attention sur chacune d'elles en particulier. Et cette nécessité est suffisante pour me faire conclure (après que j'ai reconnu que l'existence est une perfection), que cet être premier et souverain existe véritablement: de même qu'il n'est pas nécessaire que j'imagine jamais aucun triangle; mais toutes les fois que je veux considérer une figure rectiligne composée seulement de trois angles, il est absolument nécessaire que je lui attribue toutes les choses qui servent à conclure que ses trois angles ne sont pas plus grands que deux droits, encore que peut-être je ne considère pas alors cela en particulier. Mais quand j'examine quelles figures sont capables d'être inscrites dans le cercle, il n'est en aucune façon nécessaire que je pense que toutes les figures de quatre côtés sont de ce nombre; au contraire, je ne puis pas même feindre

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que cela soit, tant que je ne voudrai rien recevoir en ma pensée, que ce que je pourrai concevoir clairement et distinctement. Et par conséquent il y a une grande différence entre les fausses suppositions, comme est celle-ci, et les véritables idées qui sont nées avec moi, dont la première et principale est celle de Dieu. Car en effet je reconnais en plusieurs façons que cette idée n'est point quelque chose de feint ou d'inventé, dépendant seulement de ma pensée, mais que c'est l'image d'une vraie et immuable nature. Premièrement, [83] à cause que je ne saurais concevoir autre chose que Dieu seul, à l'essence de laquelle l'existence appartienne avec nécessité. Puis aussi, parce qu'il ne m'est pas possible de concevoir deux ou plusieurs Dieux de même façon. Et, posé qu'il y en ait un maintenant qui existe, je vois clairement qu'il est nécessaire qu'il ait été auparavant de toute éternité, et qu'il soit éternellement à l'avenir. Et enfin, parce que je connais une infinité d'autres choses en Dieu, desquelles je ne puis rien diminuer ni changer. 12. Au reste, de quelque preuve et argument que je me serve, il en faut toujours revenir là, qu'il n'y a que les choses que je conçois clairement et distinctement, qui aient la force de me persuader entièrement. Et quoique entre les choses que je conçois de cette sorte, il y en ait à la vérité quelques-unes manifestement connues d'un chacun, et qu'il y en ait d'autres aussi qui ne se découvrent qu'à ceux qui les considèrent de plus près et qui les examinent plus exactement; toutefois, après qu'elles sont une fois découvertes, elles ne sont pas estimées moins certaines les unes que les autres. Comme, par exemple, en tout triangle rectangle, encore qu'il ne paraisse pas d'abord si facilement que le carré de la base est égal aux carrés des deux autres côtés, comme il est évident que cette base est opposée au plus grand angle, néanmoins, depuis que cela a été une fois reconnu, on est autant persuadé de la vérité de l'un que de l'autre. Et pour ce qui est de Dieu [84], certes, si mon esprit n'était prévenu d'aucuns préjugés, et que ma pensée ne se trouvât point divertie par la présence continuelle des images des choses sensibles , il n'y aurait aucune chose que je connusse plutôt ni plus facilement que lui. Car y a-t-il rien de soi plus clair et plus manifeste, que de penser qu'il y a un Dieu, c'est-à-dire un être souverain et parfait, en l'idée duquel seul l'existence nécessaire ou éternelle est comprise, et par conséquent qui existe? 13. Et quoique pour bien concevoir cette vérité, j'aie eu besoin d'une grande application d'esprit, toutefois à présent je ne m'en tiens pas seulement aussi assuré que de tout ce qui me semble le plus certain: mais, outre cela, je remarque que la certitude de toutes les autres choses en dépend si absolument, que sans cette connaissance il est impossible de pouvoir jamais rien savoir parfaitement. 14. Car encore que je sois d'une telle nature, que, dès aussitôt que je comprends quelque chose fort clairement et fort distinctement, je suis naturellement porté à la croire vraie; néanmoins, parce que je suis aussi d'une telle nature, que je ne puis pas avoir l'esprit toujours attaché à une même chose, et que souvent je me ressouviens d'avoir jugé une chose être vraie; lorsque je cesse de considérer les raisons qui m'ont oblige à la juger telle, il peut arriver pendant ce temps-là que d'autres raisons se présentent à moi, lesquelles me feraient aisément changer d'opinion, si j'ignorais qu'il y eût un Dieu [85]. Et ainsi je n'aurais jamais une vraie et certaine science d'aucune chose que ce soit, mais seulement de vagues et inconstantes opinions. Comme, par exemple, lorsque je considère la nature du triangle, je connais évidemment, moi qui suis un peu versé dans la géométrie, que ses trois angles sont égaux à deux droits, et il ne m'est pas possible de ne le point croire, pendant que j 'applique ma pensée à sa démonstration; mais aussitôt que je l'en détourne, encore que je me ressouvienne de l'avoir clairement comprise, toutefois il se peut faire aisément que je doute de sa vérité, si j'ignore qu'il y ait un Dieu. Car je puis me persuader d'avoir été fait tel par la nature, que je me puisse aisément tromper, même dans les choses que je crois comprendre avec le plus d'évidence et de certitude; vu principalement que je me ressouviens d'avoir souvent estimé beaucoup de choses pour vraies et certaines, lesquelles par après d'autres raisons m'ont porté à juger absolument fausses. 15. Mais après que j'ai reconnu qu'il y a un Dieu, parce qu'en même temps j'ai reconnu aussi que toutes choses [86] dépendent de lui, et qu'il n'est point trompeur, et qu'en suite de cela j'ai jugé que tout ce que je conçois clairement et distinctement ne peut manquer d'être vrai: encore que je ne pense plus aux raisons pour lesquelles j'ai jugé cela être véritable, pourvu que je me ressouvienne de l'avoir clairement et distinctement compris, on ne me peut apporter aucune raison contraire, qui me le fasse jamais révoquer en doute; et ainsi j'en ai une vraie et certaine science. Et cette même science s'étend aussi à toutes les autres choses que je me ressouviens d'avoir autrefois démontrées, comme aux vérités de la géométrie, et autres semblables: car qu'est-ce que l'on me peut objecter, pour m'obliger à les révoquer en doute? Me dira-t-on que ma nature est telle que je suis fort sujet à me méprendre? Mais je sais déjà que je ne puis me tromper dans les jugements dont je connais clairement les raisons. Me dirat-on que j'ai tenu autrefois beaucoup de

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choses pour vraies et certaines, lesquelles j'ai reconnues par après être fausses? Mais je n'avais connu clairement ni distinctement aucune de ces choses-là, et, ne sachant point encore cette règle par laquelle je m'assure de la vérité, j'avais été porté à les croire par des raisons que j'ai reconnues depuis être moins fortes que je ne me les étais pour lors imaginées. Que me pourra-t-on donc objectier davantage? Que peut-être je dors (comme je me l'étais moi-même objecté ci-devant), ou bien que toutes les pensées que j'ai maintenant ne sont pas plus vraies que les rêveries que nous imaginons étant endormis? Mais quand bien même je dormirais [87] , tout ce qui se présente à mon esprit avec évidence, est absolument véritable. 16. Et ainsi je reconnais très clairement que la certitude et la vérité de toute science dépend de la seule connaissance du vrai Dieu: en sorte qu'avant que je le connusse, je ne pouvais savoir parfaitement aucune autre chose. Et à présent que je le connais, j'ai le moyen d'acquérir une science parfaite touchant une infinité de choses, non seulement de celles qui sont en lui, mais aussi de celles qui appartiennent à la nature corporelle, en tant qu'elle peut servir d'objet aux démonstrations des géomètres, lesquels n'ont point d'égard à son existence.

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René Descartes

Les principes de la philosophie

Première Partie Des principes de la connaissance humaine

1. Que pour examiner la vérité il est besoin, une fois en sa vie, de mettre toutes choses en doute autant qu'il se peut. Comme nous avons été enfants avant que d'être hommes et que nous avons jugé tantôt bien et tantôt mal des choses qui se sont présentées à nos sens lorsque nous n'avions pas encore l'usage entier de notre raison, plusieurs jugements ainsi précipités nous empêchent de parvenir à la connaissance de la vérité, et nous préviennent de telle sorte qu'il n'y a point d'apparence que nous puissions nous en délivrer, si nous n'entreprenons de douter une fois en notre vie de toutes les choses où nous trouverons le moindre soupçon d'incertitude.

2. Qu'il est utile aussi de considérer comme fausses toutes les choses dont on peut douter. Il sera même fort utile que nous fausses toutes celles où nous pourrons imaginer le moindre doute, afin que si nous en découvrons quelques-unes qui, nonobstant cette précaution, nous semblent manifestement vraies, nous fassions état qu'elles sont aussi très certaines et les plus aisées qu'il est possible de connaître.

(26) 3. Que nous ne devons point user de ce doute pour la conduite de nos actions. Cependant il est à remarquer que je n'entends point que nous nous servions d'une façon de douter si générale, sinon lorsque nous commençons à nous appliquer à la contemplation de la vérité. Car il est certain qu'en ce qui regarde la conduite de notre vie nous sommes obligés de suivre bien souvent des opinions qui ne sont que vraisemblables, à cause que les occasions d'agir en nos affaires se passeraient presque toujours avant que nous pussions nous délivrer de tous nos doutes; et lorsqu'il s'en rencontre plusieurs de telles sur un même sujet, encore que nous n'apercevions peut-être pas davantage de vraisemblance aux unes qu'aux autres, si l'action ne souffre aucun délai, la raison veut que nous en choisissions une, et qu'après l'avoir choisie nous la suivions constamment, de même que si nous l'avions jugée très certaine.

4. Pourquoi on peut douter de la vérité des choses sensibles. Mais, parce que nous n'avons point d'autre dessein maintenant que de vaquer à la recherche de la vérité, nous douterons en premier lieu si, de toutes les choses qui sont tombées sous nos sens ou que nous avons jamais imaginées, il y en a quelques-unes qui soient véritablement dans le monde, tant à cause que nous savons par expérience que nos sens nous ont trompés en plusieurs rencontres, et qu'il y aurait de l'imprudence de nous trop fier à ceux qui nous ont trompés, quand même ce n'aurait été qu'une fois, comme aussi à cause que nous songeons presque toujours en dormant, et que pour lors il nous semble que nous sentons vivement et que nous imaginons clairement une infinité de choses qui ne sont point ailleurs, et que lorsqu'on est ainsi résolu à douter de tout, il ne reste plus de marque par où on puisse savoir si les pensées qui viennent en songe sont plutôt fausses que les autres.

5. Pourquoi on peut aussi douter des démonstrations de mathématique. Nous douterons aussi de toutes les autres choses qui nous ont semblé autrefois très certaines, même des démonstrations de mathématique et de ses principes, encore que d'eux-mêmes ils soient assez manifestes, (27) parce qu'il y a des hommes qui se sont mépris en raisonnant sur de telles matières; mais principalement parce que nous avons ouï dire que Dieu, qui nous a créés, peut faire tout ce qui lui plaît, et que nous ne savons pas encore s'il a voulu nous faire tels que nous soyons toujours trompés, même aux choses que nous pensons mieux connaître; car, puisqu'il a bien permis que nous nous soyons trompés quelquefois, ainsi qu'il a été déjà remarqué, pourquoi ne pourrait-il pas permettre que nous nous trompions toujours ? Et si nous voulons feindre qu'un Dieu tout-puissant n'est point auteur

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de notre être, et que nous subsistons par nous-mêmes ou par quelque autre moyen, de ce que nous supposerons cet auteur moins puissant, nous aurons toujours d'autant plus de sujet de croire que nous ne sommes pas si parfaits que nous ne puissions être continuellement abusés.

6. Que nous avons un libre arbitre qui fait que nous pouvons nous abstenir de croire les choses douteuses, et ainsi nous empêcher d'être trompés. Mais quand celui qui nous a créés serait tout-puissant, et quand même il prendrait plaisir à nous tromper , nous ne laissons pas d'éprouver en nous une liberté qui est telle que, toutes les fois qu'il nous plaît, nous pouvons nous abstenir de recevoir en notre croyance les choses que nous ne connaissons pas bien, et ainsi nous empêcher d'être jamais trompés.

7. Que nous ne saurions douter sans être, et que cela est la première connaissance certaine qu'on peut acquérir. Pendant que nous rejetons en cette sorte tout ce dont nous pouvons douter, et que nous feignons même qu'il est faux, nous supposons facilement qu'il n'y a point de Dieu, ni de ciel, ni de terre, et que nous n'avons point de corps; mais nous ne saurions supposer de même que nous ne sommes point pendant que nous doutons de La vérité de toutes ces choses; car nous avons tant de répugnance à concevoir que ce qui pense n'est pas véritablement au même temps qu'il pense, que, nonobstant toutes les plus extravagantes suppositions, nous ne saurions nous empêcher de croire que cette conclusion: Je pense, donc je suis, ne soit vraie, et par conséquent la première et la plus certaine qui se présente à celui qui conduit ses pensées par ordre.

(28) 8. Qu'on connaît aussi ensuite la distinction qui est entre l'âme et le corps. Il me semble aussi que ce biais est tout le meilleur que nous puissions choisir pour connaître la nature de l'âme et qu'elle est une substance entièrement distincte du corps; car, examinant ce que nous sommes, nous qui pensons maintenant qu'il n'y a rien hors de notre pensée qui soit véritablement ou qui existe, nous connaissons manifestement que, pour être, nous n'avons pas besoin d'extension, de figure, d'être en aucun lieu, ni d'aucune autre telle chose qu'on peut attribuer au corps, et que nous sommes par cela seul que nous pensons; et par conséquent que la notion que nous avons de notre âme ou de notre pensée précède celle que nous avons du corps, et qu'elle est plus certaine, vu que nous doutons encore qu'il y ait au monde aucun corps, et que nous savons certainement que nous pensons.

9. Ce que c'est que penser. Par le mot de penser, j'entends tout ce qui se fait en nous de telle sorte que nous l'apercevons immédiatement par nous-mêmes; c'est pourquoi non seulement entendre, vouloir, imaginer, mais aussi sentir, est la même chose ici que penser. Car si je dis que je vois ou que je marche, et que j'infère de là que je suis; si j'entends parler de l'action qui se fait avec mes yeux ou avec mes jambes, cette conclusion n'est pas tellement infaillible, que je n'aie quelque sujet d'en douter, à cause qu'il se peut faire que je pense voir ou marcher, encore que je n'ouvre point les yeux et que je ne bouge de ma place; car cela m'arrive quelquefois en dormant, et le même pourrait peut-être arriver si je n'avais point de corps; au lieu que si j'entends parler seulement de l'action de ma pensée ou du sentiment, c'est-à-dire de la connaissance qui est en moi, qui fait qu'il me semble que je vois ou que je marche, cette même conclusion est si absolument vraie que je n'en puis douter, à cause qu'elle se rapporte à l'âme, qui seule a la faculté de sentir ou bien de penser en quelque autre façon que ce soit.

10. Qu'il y a des notions d'elles-mêmes si claires qu'on les obscurcit en les voulant définir à la façon de l'École, et qu'elles ne s'acquièrent point par étude, mais naissent avec nous. Je n'explique pas ici plusieurs autres termes dont je me suis déjà servi et dont je fais état de me servir (29) ci-après; car je ne pense pas que, parmi ceux qui liront mes écrits, il s'en rencontre de si stupides qu'ils ne puissent entendre d'eux-mêmes ce que ces termes signifient. Outre que j'ai remarqué que les philosophes, en tâchant d'expliquer par les règles de leur logique des choses qui sont manifestes d'elles-mêmes, n'ont rien fait que les obscurcir; et lorsque j'ai dit que cette proposition: Je pense, donc je suis, est la première et la plus certaine qui se présente à celui qui conduit ses pensées par ordre, je n'ai pas pour cela nié qu'il ne fallût savoir auparavant ce que c'est que pensée, certitude, existence, et que pour penser il faut être, et autres choses semblables; mais, à cause que ce sont là des notions si simples que d'elles-mêmes elles ne nous font avoir la connaissance d'aucune chose qui existe, je n'ai pas jugé qu'elles dussent être mises ici en compte.

11. Comment nous pouvons plus clairement connaître notre âme que notre corps. Or, afin de savoir comment la connaissance que nous avons de notre pensée précède celle que nous avons du corps, et qu'elle est incomparablement plus évidente, et telle qu'encore qu'il ne fût point nous aurions raison de conclure

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qu'elle ne laisserait pas d'être tout ce qu'elle est, nous remarquerons qu'il est manifeste, par une lumière qui est naturellement en nos âmes, que le néant n'a aucunes qualités ni propriétés qui lui soient affectées, et qu'où nous en apercevons quelques-unes il se doit trouver nécessairement une chose ou substance dont elles dépendent. Cette même lumière nous montre aussi que nous connaissons d'autant mieux une chose ou substance, que nous remarquons en elle davantage de propriétés; or, il est certain que nous en remarquons beaucoup plus en notre pensée qu'en aucune autre chose, d'autant qu'il n'y a rien qui nous excite à connaître quoi que ce soit, qui ne nous porte encore plus certainement à connaître notre pensée. Par exemple, si je me persuade qu'il y a une terre à cause que je la touche ou que je la vois: de cela même, par une raison encore plus forte, je dois être persuadé que ma pensée est ou existe, à cause qu'il se peut faire que je pense toucher la terre, encore qu'il n'y ait peut-être aucune terre au monde; et qu'il n'est pas possible que moi, c'est-à-dire mon âme, ne soit rien pendant qu'elle a cette pensée; nous pouvons conclure le même de toutes les autres choses qui nous viennent en la pensée, à savoir, que nous, qui les pensons, existons, encore qu'elles soient peut-être fausses ou qu'elles n'aient aucune existence.

(30) 12. D'où vient que tout le monde ne la connaît pas en cette façon. Ceux qui n'ont pas philosophé par ordre ont eu d'autres opinions sur ce sujet, parce qu'ils n'ont jamais distingué assez soigneusement leur âme, ou ce qui pense, d'avec le corps, ou ce qui est étendu en longueur, largeur et profondeur. Car, encore qu'ils ne fassent point difficulté de croire qu'ils étaient dans le monde, et qu'ils en eussent une assurance plus grande que d'aucune autre chose, néanmoins, comme ils n'ont pas pris garde que par eux, lorsqu'il était question d'une certitude métaphysique, ils devaient entendre seulement leur pensée, et qu'au contraire ils ont mieux aimé croire que c'était leur corps qu'ils voyaient de leurs yeux qu'ils touchaient de leurs mains, et auquel ils attribuaient mal à propos la faculté de sentir, ils n'ont pas connu distinctement la nature de leur âme.

13. En quel sens on peut dire que si on ignore Dieu, on ne peut avoir de connaissance certaine d'aucune autre chose. Mais lorsque la pensée, qui se connaît soi-même en cette façon, nonobstant qu'elle persiste encore à douter des autres choses, use de circonspection pour tâcher d'étendre sa connaissance plus avant, elle trouve en soi premièrement les idées de plusieurs choses; et pendant qu'elle les contemple simplement, et qu'elle n'assure pas qu'il y ait rien hors de soi qui soit semblable à ces idées, et qu'aussi elle ne le nie pas, elle est hors de danger de se méprendre. Elle rencontre aussi quelques notions communes dont elle compose des démonstrations qui la persuadent si absolument qu'elle ne saurait douter de leur vérité pendant qu'elle s'y applique. Par exemple, elle a en soi les idées des nombres et des figures; elle a aussi entre ses communes notions que, “ si on ajoute des quantités égales à d'autres quantités égales, les touts seront égaux ”, et beaucoup d'autres aussi évidentes que celle-ci, par lesquelles il est aisé de démontrer que les trois angles d'un triangle sont égaux à deux droits, etc. Tant qu'elle aperçoit ces notions et l'ordre dont elle a déduit cette conclusion ou d'autres semblables elle est très assurée de leur vérité: mais, comme elle ne saurait y penser toujours avec tant d'attention lorsqu'il arrive qu'elle se souvient de quelque (31) conclusion sans prendre garde à l'ordre dont elle peut être démontrée, et que cependant elle pense que l'Auteur de son être aurait pu la créer de telle nature qu'elle se méprît en tout ce qui lui semble très évident elle voit bien qu'elle a un juste sujet de se défier de la vérité de tout ce qu'elle n'aperçoit pas distinctement, et qu'elle ne saurait avoir aucune science certaine jusques à ce qu'elle ait connu celui qui l'a créée.

14. Qu'on peut démontrer qu'il y a un Dieu de cela seul que la nécessité d'être ou d'exister est comprise en la notion que nous avons de lui. Lorsque par après, elle fait une revue sur les diverses idées ou notions qui sont en soi, et qu'elle y trouve celle d'un être tout-connaissant, tout-puissant et extrêmement parfait, elle juge facilement, par ce qu'elle aperçoit en cette idée, que Dieu, qui est cet être tout parfait, est ou existe: car encore qu'elle ait des idées distinctes de plusieurs autres choses, elle n'y remarque rien qui l'assure de l'existence de leur objet; au lieu qu'elle aperçoit en celle-ci, non pas seulement comme dans les autres, une existence possible, mais une absolument nécessaire et éternelle. Et comme de ce qu'elle voit qu'il est nécessairement compris dans l'idée qu'elle a du triangle que ses trois angles soient égaux à deux droits elle se persuade absolument que le triangle a trois angles égaux à deux droits; de même, de cela seul qu'elle aperçoit que l'existence nécessaire et éternelle est comprise dans l'idée qu'elle a d'un être tout parfait elle doit conclure que cet être tout parfait est ou existe.

15. Que la nécessité d'être n'est pas ainsi comprise en la notion que nous avons des autres choses, mais seulement le pouvoir d'être. Elle pourra s'assurer encore mieux de la vérité de cette conclusion, si elle prend garde qu'elle n'a point en soi l'idée ou la notion d'aucune autre chose où elle puisse reconnaître une existence qui soit ainsi absolument nécessaire; car de cela seul elle saura que l'idée d'un être tout parfait n'est point en elle par une fiction, comme celle qui représente une

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chimère, mais qu'au contraire, elle y est empreinte par une nature immuable et vraie, et qui doit nécessairement exister, parce qu'elle ne peut être conçue qu'avec une existence nécessaire.

(32) 16. Que les préjugés empêchent que plusieurs ne connaissent clairement cette nécessité d'être qui est en Dieu. Notre âme ou notre pensée n'aurait pas de peine à se persuader cette vérité si elle était libre de ses préjugés mais, d'autant que nous sommes accoutumés à distinguer en toutes les autres choses l'essence de l'existence, et que nous pouvons feindre à plaisir plusieurs idées de choses qui, peut-être, n'ont jamais été et qui ne seront peut-être jamais, lorsque nous n'élevons pas comme il faut notre esprit à la contemplation de cet être tout parfait, il se peut faire que nous doutions si l'idée que nous avons de lui n'est pas l'une de celles que nous feignons quand bon nous semble, ou qui sont possibles, encore que l'existence ne soit pas nécessairement comprise en leur nature.

17. Que, d'autant que nous concevons plus de perfection en une chose, d'autant devons-nous croire que sa cause doit aussi être plus parfaite. De plus, lorsque nous faisons réflexion sur les diverses idées qui sont en nous, il est aisé d'apercevoir qu'il n'y a pas beaucoup de différence entre elles, en tant que nous les considérons simplement comme les dépendances de notre âme ou de notre pensée, mais qu'il y en a beaucoup en tant que l'une représente une chose, et l'autre une autre; et même que leur cause doit être d'autant plus parfaite que ce qu'elles représentent de leur objet a plus de perfection. Car tout ainsi que lorsqu'on nous dit que quelqu'un a l'idée d'une machine où il y a beaucoup d'artifice, nous avons raison de nous enquérir comment il a pu avoir cette idée, à savoir, s'il a vu quelque part une telle machine faite par un autre, ou s'il a si bien appris la science des mécaniques, ou s'il est avantagé d'une telle vivacité d'esprit que de lui-même il ait pu l'inventer sans avoir rien vu de semblable ailleurs, à cause de tout l'artifice qui est représenté dans l'idée qu'a cet homme, ainsi que dans un tableau, doit être en sa première et principale cause, non pas seulement par imitation, mais en effet de la même sorte ou d'une façon encore plus éminente qu'il n'est représenté.

(33) 18. Qu'on peut derechef démontrer par cela qu'il y a un Dieu. De même, parce que nous trouvons en nous l'idée d'un Dieu, ou d'un être tout parfait, nous pouvons rechercher la cause qui fait que cette idée est en nous; mais, après avoir considéré avec attention combien sont immenses les perfections qu'elle nous représente, nous sommes contraints d'avouer que nous ne saurions la tenir que d'un être très parfait, c'est-à-dire d'un Dieu qui est véritablement ou qui existe, parce qu'il est non seulement manifeste par la lumière naturelle que le néant ne peut être auteur de quoi que ce soit, et que le plus parfait ne saurait être une suite et une dépendance du moins parfait, mais aussi parce que nous voyons par le moyen de cette même lumière qu'il est impossible que nous ayons l'idée ou l'image de quoi que ce soit, s'il n'y a en nous ou ailleurs un original qui comprenne en effet toutes les perfections qui nous sont ainsi représentées: mais comme nous savons que nous sommes sujets à beaucoup de défauts, et que nous ne possédons pas ces extrêmes perfections dont nous avons l'idée, nous devons conclure qu'elles sont en quelque nature qui est différente de la nôtre, et en effet très parfaite, c'est-à-dire qui est Dieu, ou du moins qu'elles ont été autrefois en cette chose, et il suit de ce qu'elles étaient infinies qu'elles y sont encore.

19. Qu'encore que nous ne comprenions pas tout ce qui est en Dieu, il n'y a rien toutefois que nous ne connaissions si clairement comme ses perfections. Je ne vois point en cela de difficulté pour ceux qui ont accoutumé leur esprit à la contemplation de la Divinité, et qui ont pris garde à ses perfections infinies: car encore que nous ne les comprenions pas, parce que la nature de l'infini est telle que des pensées finies ne le sauraient comprendre, nous les concevons néanmoins plus clairement et plus distinctement que les choses matérielles, à cause qu'étant plus simples et n'étant point limitées, ce que nous en concevons est beaucoup moins confus. Aussi il n'y a point de spéculation qui puisse plus aider à perfectionner notre entendement, et qui soit plus importante que celle-ci, d'autant que la considération d'un objet qui n'a point de bornes en ses perfections nous comble de satisfaction et d'assurance.

(34) 20. Que nous ne sommes pas la cause de nous-mêmes, mais que c'est Dieu, et que par conséquent il y a un Dieu. Mais tout le monde n'y prend pas garde comme il faut, et parce que nous savons assez, lorsque nous avons une idée de quelque machine où il y a beaucoup d'artifice, la façon dont nous l'avons eue, et que nous ne saurions nous souvenir de même quand l'idée que nous avons d'un Dieu nous a été communiquée de Dieu, à cause qu'elle a toujours été en nous, il faut que nous fassions encore cette revue, et que nous recherchions quel est donc l'auteur de notre âme ou de notre pensée qui a en soi l'idée des perfections infinies qui sont en Dieu, parce qu'il est évident que ce qui connaît quelque chose de plus parfait que soi ne s'est point donné l'être , à cause que par même moyen il se serait donné toutes les perfections dont il aurait eu connaissance, et par conséquent qu'il ne saurait subsister par aucun

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autre que par celui qui possède en effet toutes ces perfections, c'est-à-dire qui est Dieu.

21. Que la seule durée de notre vie suffit pour démontrer que Dieu est. Je ne crois pas qu'on doute de la vérité de cette démonstration, pourvu qu'on prenne garde à la nature du temps ou de la durée de notre vie; car, étant telle que ses parties ne dépendent point les unes des autres et n'existent jamais ensemble, de ce que nous sommes maintenant, il ne s'ensuit pas nécessairement que nous soyons un moment après, si quelque cause, à savoir la même qui nous a produits, ne continue à nous produire, c'est-à-dire ne nous conserve. Et nous connaissons aisément qu'il n'y a point de force en nous par laquelle nous puissions subsister ou nous conserver un seul moment, et que celui qui a tant de puissance qu'il nous fait subsister hors de lui et qui nous conserve, doit se conserver soi-même, ou plutôt n'a besoin d'être conservé par qui que ce soit, et enfin qu'il est Dieu.

22. Qu'en connaissant qu'il y a un Dieu en la façon ici expliquée, on connaît aussi tous ses attributs, autant qu'ils peuvent être connus par la seule lumière naturelle. Nous recevons encore cet avantage, en prouvant de cette sorte l'existence de Dieu, que nous connaissons (35) par même moyen ce qu'il est, autant que le permet la faiblesse de notre nature. Car, faisant réflexion sur l'idée que nous avons naturellement de lui, nous voyons qu'il est éternel, tout-connaissant, tout-puissant, source de toute bonté et vérité, créateur de toutes choses, et qu'enfin il a en soi tout ce en quoi nous pouvons reconnaître quelque perfection infinie ou bien qui n'est bornée d'aucune imperfection.

23. Que Dieu n'est point corporel, et ne connaît point par l'aide des sens comme nous, et n'est point auteur du péché. Car il y a des choses dans le monde qui sont limitées, et en quelque façon imparfaites, encore que nous remarquions en elles quelques perfections; mais nous concevons aisément qu'il n'est pas possible qu'aucunes de celles-là soient en Dieu: ainsi, parce que l'extension constitue la nature du corps, et que ce qui est étendu peut être divisé en plusieurs parties, et que cela marque du défaut, nous concluons que Dieu n'est point un corps. Et bien que ce soit un avantage aux hommes d'avoir des sens, néanmoins, à cause que les sentiments se font en nous par des impressions qui viennent d'ailleurs, et que cela témoigne de la dépendance, nous concluons aussi que Dieu n'en a point, mais qu'il entend et veut, non pas encore comme nous par des opérations aucunement différentes, mais que toujours par une même et très simple action, il entend, veut et fait tout, c'est-à-dire toutes les choses qui sont en effet; car il ne veut point la malice du péché, parce qu'elle n'est rien.

24. Qu'après avoir connu que Dieu est, pour passer à la connaissance des créatures, il se faut souvenir que notre entendement est fini, et la puissance de Dieu, infinie. Après avoir ainsi connu que Dieu existe et qu'il est l'auteur de tout ce qui est ou qui peut être, nous suivrons sans doute la meilleure méthode dont on se puisse servir pour découvrir la vérité, si, de la connaissance que nous avons de sa nature, nous passons à l'explication des choses qu'il a créées, et si nous essayons de la déduire en telle sorte des notions qui sont naturellement en nos âmes, que nous ayons une science parfaite, c'est-à-dire que nous connaissions les effets par leurs causes. Mais, afin que nous puissions (36) l'entreprendre avec plus de sûreté, nous nous souviendrons toutes les fois que nous voudrons examiner la nature de quelque chose, que Dieu, qui en est l'auteur est infini, et que nous sommes entièrement finis.

25. Et il faut croire tout ce que Dieu a révélé, encore qu'il soit au-dessus de la portée de notre esprit. Tellement que s'il nous fait la grâce de nous révéler, ou bien à quelques autres, des choses qui surpassent la portée ordinaire de notre esprit, telles que sont les mystères de l'Incarnation et de la Trinité, nous ne ferons point difficulté de les croire, encore que nous ne les entendions peut-être pas bien clairement. Car nous ne devons point trouver étrange qu'il y ait en sa nature, qui est immense, et en ce qu'il a fait, beaucoup de choses qui surpassent la capacité de notre esprit.

26. Qu'il ne faut point tâcher de comprendre l'infini mais seulement penser que tout ce en quoi nous ne trouvons aucunes bornes est indéfini. Ainsi nous ne nous embarrasserons jamais dans les disputes de l'infini; d'autant qu'il serait ridicule que nous, qui sommes finis, entreprissions d'en déterminer quelque chose, et par ce moyen le supposer ni en tâchant de le comprendre; c'est pourquoi nous ne nous soucierons pas de répondre à ceux qui demandent si la moitié d'une ligne infinie est infinie, et si le nombre infini est pair ou non pair, et autres choses semblables, à cause qu'il n'y a que ceux qui s'imaginent que leur esprit est infini qui semblent devoir examiner telles difficultés. Et, pour nous, en voyant des choses dans lesquelles, selon certains sens, nous ne remarquons point de limites, nous n'assurerons pas pour cela qu'elle soient infinies, mais nous les estimerons seulement indéfinies. Ainsi, parce que nous ne saurions imaginer une

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étendue si grande que nous ne concevions en même temps qu'il y en peut avoir une plus grande, nous dirons que l'étendue des choses possibles est indéfinie; et parce qu'on ne saurait diviser un corps en des parties si petites que chacune de ses parties ne puisse être divisée en d'autres plus petites, nous penserons que la quantité peut être divisée en des parties dont le nombre est indéfini; et parce que nous ne saurions imaginer tant d'étoiles que Dieu n'en puisse créer davantage, nous supposerons que leur nombre est indéfini, et ainsi du reste.

(37) 27. Quelle différence il y a entre indéfini et infini. Et nous appellerons ces choses indéfinies plutôt qu'infinies, afin de réserver à Dieu seul le nom d'infini; tant à cause que nous ne remarquons point de bornes en ses perfections, comme aussi à cause que nous sommes très assurés qu'il n y en peut avoir. Pour ce qui est des autres choses, nous savons qu'elles ne sont pas ainsi absolument parfaites, parce qu'encore que nous y remarquions quelquefois des propriétés qui nous semblent n'avoir point de limites, nous ne laissons pas de connaître que cela procède du défaut de notre entendement, et non point de leur nature.

28. Qu'il ne faut point examiner pour quelle fin Dieu a fait chaque chose, mais seulement par quel moyen il a voulu qu'elle fut produite. Nous ne nous arrêterons pas aussi à examiner les fins que Dieu s'est proposées en créant le monde, et nous rejetterons entièrement de notre philosophie la recherche des causes finales; car nous ne devons pas tant présumer de nous-mêmes, que de croire que Dieu nous ait voulu faire part de ses conseils: mais, le considérant comme l'auteur de toutes choses, nous tâcherons seulement de trouver par la faculté de raisonner qu'il a mise en nous, comment celles que nous apercevons par l'entremise de nos sens ont pu être produites; et nous serons assurés, par ceux de ses attributs dont il a voulu que nous ayons quelque connaissance, que ce que nous aurons une fois aperçu clairement et distinctement appartenir à la nature de ces choses, a la perfection d'être vrai.

29. Que Dieu n'est point la cause de nos erreurs. Et le premier de ses attributs qui semble devoir être ici considéré, consiste en ce qu'il est très véritable et la source de toute lumière, de sorte qu'il n'est pas possible qu'il nous trompe, c'est-à-dire qu'il soit directement la cause des erreurs auxquelles nous sommes sujets, et que nous expérimentons en nous-mêmes; car encore que l'adresse à pouvoir tromper semble être une marque de subtilité d'esprit entre les hommes, néanmoins jamais (38) la volonté de tromper ne procède que de malice ou de crainte et de faiblesse, et par conséquent ne peut être attribuée à Dieu.

30. Et que par conséquent tout cela est vrai que nous connaissons clairement être vrai, ce qui nous délivre des doutes ci-dessus proposés. D'où il suit que la faculté de connaître qu'il nous a donnée, que nous appelons lumière naturelle, n'aperçoit jamais aucun objet qui ne soit vrai en ce qu'elle l'aperçoit, c'est-à-dire en ce qu'elle connaît clairement et distinctement; parce que nous aurions sujet de croire que Dieu serait trompeur, s'il nous l'avait donnée telle que nous prissions le faux pour le vrai lorsque nous en usons bien. Et cette considération seule nous doit délivrer de ce doute hyperbolique où nous avons été pendant que nous ne savions pas encore si celui qui nous a créés avait pris plaisir à nous faire tels, que nous fussions trompés en toutes les choses qui nous semblent très claires. Elle doit nous servir aussi contre toutes les autres raisons que nous avions de douter, et que j'ai alléguées ci-dessus; même les vérités de mathématique ne nous seront plus suspectes, à cause qu'elles sont très évidentes; et si nous apercevons quelque chose par nos sens, soit en veillant, soit en dormant, pourvu que nous séparions ce qu'il y aura de clair et de distinct en la notion que nous aurons de cette chose de ce qui sera obscur et confus, nous pourrons facilement nous assurer de ce qui sera vrai. Je ne m'étends pas ici davantage sur ce sujet, parce que j'en ai amplement traité dans les Méditations de ma métaphysique, et ce qui suivra tantôt servira encore à l'expliquer mieux.

31. Que nos erreurs au regard de Dieu ne sont que des négations, mais au regard de nous sont des privations ou des défauts. Mais parce qu'il arrive que nous nous méprenons souvent, quoique Dieu ne soit pas trompeur, si nous désirons rechercher la cause de nos erreurs, et en découvrir la source, afin de les corriger; il faut que nous prenions garde qu'elles ne dépendent pas tant de notre entendement comme de notre volonté, et qu'elles ne sont pas des choses ou substances qui aient besoin du concours actuel de Dieu pour être produites; en sorte (39) qu'elles ne sont à son égard que des négations, c'est-à-dire qu'il ne nous a pas donné tout ce qu'il pouvait nous donner, et que nous voyons par même moyen qu'il n'était point tenu de nous donner; au lieu qu'à notre égard elles sont des défauts et des imperfections.

32. Qu'il n'y a en nous que deux sortes de pensées, à savoir la perception de l'entendement et l'action de la volonté.

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Car toutes les façons de penser que nous remarquons en nous peuvent être rapportées à deux générales, dont l'une consiste à apercevoir par l'entendement, et l'autre à se déterminer par la volonté. Ainsi sentir, imaginer et même concevoir des choses purement intelligibles, ne sont que des façons différentes d'apercevoir; mais désirer, avoir de l'aversion, assurer, nier, douter, sont des façons différentes de vouloir.

33. Que nous ne nous trompons que lorsque nous jugeons de quelque chose qui ne nous est pas assez connue. Lorsque nous apercevons quelque chose, nous ne sommes point en danger de nous méprendre si nous n'en jugeons en aucune façon; et quand même nous en jugerions, pourvu que nous ne donnions notre consentement qu'à ce que nous connaissons clairement et distinctement devoir être compris en ce dont nous jugeons, nous ne saurions non plus faillir; mais ce qui fait que nous nous trompons ordinairement est que nous jugeons bien souvent, encore que nous n'ayons pas une connaissance bien exacte de ce dont nous jugeons.

34. Que la volonté aussi bien que l'entendement est requise pour juger. J'avoue que nous ne saurions juger de rien, si notre entendement n'y intervient, parce qu'il n'y a pas d'apparence que notre volonté se détermine sur ce que notre entendement n'aperçoit en aucune façon; mais comme la volonté est absolument nécessaire, afin que nous donnions notre consentement à ce que nous avons aucunement aperçu, et qu'il n'est pas nécessaire pour faire un jugement tel quel que nous ayons une connaissance entière et parfaite; de là vient que bien souvent nous donnons notre consentement à des choses dont nous n'avons jamais eu qu'une connaissance fort confuse.

(40) 35. Qu'elle a plus d'étendue que lui, et que de là viennent nos erreurs. De plus, l'entendement ne s'étend qu'à ce peu d'objets qui se présentent à lui, et sa connaissance est toujours fort limitée: au lieu que la volonté en quelque sens peut sembler infinie, parce que nous n'apercevons rien qui puisse être l'objet de quelque autre volonté, même de cette immense qui est en Dieu, à quoi la nôtre ne puisse aussi s'étendre; ce qui est cause que nous la portons ordinairement au delà de ce que nous connaissons clairement et distinctement; et lorsque nous en abusons de la sorte, ce n'est pas merveille s'il nous arrive de nous méprendre.

36. Lesquelles ne peuvent être imputées à Dieu. Or, quoique Dieu ne nous ait pas donné un entendement tout-connaissant, nous ne devons pas croire pour cela qu'il soit l'auteur de nos erreurs, parce que tout entendement créé est fini, et qu'il est de la nature de l'entendement fini de n'être pas tout-connaissant.

37. Que la principale perfection de l'homme est d'avoir un libre arbitre, et que c'est ce qui le rend digne de louange ou de blâme. Au contraire, la volonté étant, de sa nature, très étendue, ce nous est un avantage très grand de pouvoir agir par son moyen, c'est-à-dire librement; en sorte que nous soyons tellement les maîtres de nos actions, que nous sommes dignes de louange lorsque nous les conduisons bien: car, tout ainsi qu'on ne donne point aux machines qu'on voit se mouvoir en plusieurs façons diverses, aussi justement qu'on saurait désirer, des louanges qui se rapportent véritablement à elles, parce que ces machines ne représentent aucune action qu'elles ne doivent faire par le moyen de leurs ressorts, et qu'on en donne à l'ouvrier qui les a faites, parce qu'il a eu le pouvoir et la volonté de les composer avec tant d'artifice; de même on doit nous attribuer quelque chose de plus, de ce que nous choisissons ce qui est vrai, lorsque nous le distinguons d'avec le faux, par une détermination de notre volonté, que si nous y étions déterminés et contraints par un principe étranger.

(41) 38. Que nos erreurs sont des défauts de notre façon d'agir, mais non point de notre nature; et que les fautes des sujets peuvent souvent être attribuées aux autres maîtres, mais non point à Dieu. Il est bien vrai que toutes les fois que nous faillons, il y a du défaut en notre façon d'agir ou en l'usage de notre liberté; mais il n'y a point pour cela de défaut en notre nature, à cause qu'elle est toujours la même quoique nos jugements soient vrais ou faux. Et quand Dieu aurait pu nous donner une connaissance si grande que nous n'eussions jamais été sujets à faillir, nous n'avons aucun droit pour cela de nous plaindre de lui; car encore que parmi nous celui qui a pu empêcher un mal et ne l'a pas empêché en soit blâmé et jugé comme coupable, il n'en est pas de même à l'égard de Dieu, d'autant que le pouvoir que les hommes ont les uns sur les autres est institué afin qu'ils empêchent de mal faire ceux qui leur sont inférieurs, et que la toute-puissance que Dieu a sur l'univers est très absolue et très libre. C'est pourquoi nous devons le remercier des biens qu'il nous a faits, et non point nous plaindre de ce qu'il ne nous a pas avantagés de ceux que nous connaissons qui nous manquent et qu'il aurait peut-être pu nous départir.

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39. Que la liberté de notre volonté se connaît sans preuve, par la seule expérience que nous en avons. Au reste il est si évident que nous avons une volonté libre, qui peut donner son consentement ou ne le pas donner quand bon lui semble, que cela peut être compté pour une de nos plus communes notions. Nous en avons eu ci-devant une preuve bien claire; car, au même temps que nous doutions de tout, et que nous supposions même que celui qui nous a créés employait son pouvoir à nous tromper en toutes façons, nous apercevions en nous une liberté si grande, que nous pouvions nous empêcher de croire ce que nous ne connaissions pas encore parfaitement bien. Or, ce que nous apercevions distinctement, et dont nous ne pouvions douter pendant une suspension si générale, est aussi certain qu'aucune autre chose que nous puissions jamais connaître.

(42) 40. Que nous savons aussi très certainement que Dieu a préordonné toutes choses. Mais, à cause que ce que nous avons depuis connu de Dieu nous assure que sa puissance est si grande que nous ferions un crime de penser que nous eussions jamais été capables de faire aucune chose qu'il ne l'eût auparavant ordonnée, nous pourrions aisément nous embarrasser en des difficultés très grandes si nous entreprenions d'accorder la liberté de notre volonté avec ses ordonnances, et si nous tâchions de comprendre, c'est-à-dire d'embrasser et comme limiter avec notre entendement, toute l'étendue de notre libre arbitre et l'ordre de la Providence éternelle.

41. Comment on peut accorder notre libre arbitre avec la préordination divine. Au lieu que nous n'aurons point du tout de peine à nous en délivrer, si nous remarquons que notre pensée est finie, et que la toute-puissance de Dieu, par laquelle il a non seulement connu de toute éternité ce qui est ou qui peut être, mais il l'a aussi voulu, est infinie. Ce qui fait que nous avons bien assez d'intelligence pour connaître clairement et distinctement que cette puissance est en Dieu; mais que nous n'en avons pas assez pour comprendre tellement son étendue que nous puissions savoir comment elle laisse les actions des hommes entièrement libres et indéterminées; et que d'autre côté nous sommes aussi tellement assurés de la liberté et de l'indifférence qui est en nous, qu'il n'y a rien que nous connaissions plus clairement; de façon que la toute-puissance de Dieu ne nous doit point empêcher de la croire. Car nous aurions tort de douter de ce que nous apercevons intérieurement et que nous savons par expérience être en nous, parce que nous ne comprenons pas une autre chose que nous savons être incompréhensible de sa nature.

42. Comment, encore que nous ne voulions jamais faillir, c'est néanmoins par notre volonté que nous faillons. Mais, parce que nous savons que l'erreur dépend de notre volonté, et que personne n'a la volonté de se tromper, on s'étonnera peut-être qu'il y ait de l'erreur en nos jugements. Mais il faut remarquer qu'il y a bien (43) de la différence entre vouloir être trompé et vouloir donner son consentement à des opinions qui sont cause que nous nous trompons quelquefois. Car encore qu'il n'y ait personne qui veuille expressément se méprendre, il ne s'en trouve presque pas un qui ne veuille donner son consentement à des choses qu'il ne connaît pas distinctement: et même il arrive souvent que c'est le désir de connaître la vérité qui fait que ceux qui ne savent pas l'ordre qu'il faut tenir pour la rechercher manquent de la trouver et se trompent, à cause qu'il les incite à précipiter leurs jugements, et à prendre des choses pour vraies, desquelles ils n'ont pas assez de connaissance.

43. Que nous ne saurions faillir en ne jugeant que des choses que nous apercevons clairement et distinctement. Mais il est certain que nous ne prendrons jamais le faux pour le vrai tant que nous ne jugerons que de ce que nous apercevons clairement et distinctement, parce que Dieu n'étant point trompeur, la faculté de connaître qu'il nous a donnée ne saurait faillir, ni même la faculté de vouloir, lorsque nous ne l'étendons point au delà de ce que nous connaissons. Et quand même cette vérité n'aurait pas été démontrée, nous sommes naturellement si enclins à donner notre consentement aux choses que nous apercevons manifestement, que nous n'en saurions douter pendant que nous les apercevons de la sorte.

44. Que nous ne saurions que mal juger de ce que nous n'apercevons pas clairement, bien que notre jugement puisse être vrai, et que c'est souvent notre mémoire qui nous trompe. Il est aussi très certain que toutes les fois que nous approuvons quelque raison dont nous n'avons pas une connaissance bien exacte, ou nous nous trompons, ou, si nous trouvons la vérité, comme ce n'est que par hasard, nous ne saurions être assurés de l'avoir rencontrée et ne saurions savoir certainement que nous ne nous trompons point. J'avoue qu'il arrive rarement que nous jugions d'une chose en même temps que nous remarquons que nous ne la connaissons pas assez distinctement à cause que la raison naturellement nous dicte que nous ne devons jamais juger de rien que de ce que nous connaissons distinctement auparavant que de juger. Mais nous nous trompons souvent parce que nous présumons avoir autrefois connu plusieurs choses,(44) et que tout aussitôt qu'il nous en souvient nous y donnons notre consentement, de même que si nous les avions suffisamment examinées, bien qu'en

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effet nous n'en ayons jamais eu une connaissance bien exacte.

45 Ce que c'est qu'une perception claire et distincte. Il y a même des personnes qui en toute leur vie n'aperçoivent rien comme il faut pour en bien juger; car la connaissance sur laquelle on peut établir un jugement indubitable doit être non seulement claire, mais aussi distincte. J'appelle claire celle qui est présente et manifeste à un esprit attentif; de même que nous disons voir clairement les objets lorsque étant présents ils agissent assez fort, et que nos yeux sont disposés à les regarder; et distincte, celle qui est tellement précise et différente de toutes les autres, qu'elle ne comprend en soi que ce qui paraît manifestement à celui qui la considère comme il faut.

46. Qu'elle peut être claire sans être distincte, mais non au contraire. Par exemple, lorsque quelqu'un sent une douleur cuisante, la connaissance qu'il a de cette douleur est claire à son égard, et n'est pas pour cela toujours distincte, parce qu'il la confond ordinairement avec le faux jugement qu'il fait sur la nature de ce qu'il pense être en la partie blessée, qu'il croit être semblable à l'idée ou au sentiment de la douleur qui est en sa pensée, encore qu'il n'aperçoive rien clairement que le sentiment ou la pensée confuse qui est en lui. Ainsi la connaissance peut être claire sans être distincte, et ne peut être distincte qu'elle ne soit claire par même moyen.

47. Que pour ôter les préjugés de notre enfance, il faut considérer ce qu'il y a de clair en chacune de nos premières notions. Or, pendant nos premières années, notre âme ou notre pensée était si fort offusquée du corps, qu'elle ne connaissait rien distinctement, bien qu'elle aperçût plusieurs choses assez clairement; et parce qu'elle ne laissait pas de faire cependant une réflexion telle quelle sur les choses qui se présentaient, nous avons rempli notre mémoire de beaucoup de préjugés, dont nous n'entreprenons presque jamais de nous délivrer, encore (45) qu'il soit très certain que nous ne saurions autrement les bien examiner. Mais afin que nous le puissions maintenant sans beaucoup de peine, je ferai ici un dénombrement de toutes les notions simples qui composent nos pensées, et séparerai ce qu'il y a de clair en chacune d'elles, et ce qu'il y a d'obscur ou en quoi nous pouvons faillir.

48. Que tout ce dont nous avons quelque notion est considéré comme une chose ou comme une vérité; et le dénombrement des choses. Je distingue tout ce qui tombe sous notre connaissance en deux genres: le premier contient toutes les choses qui ont quelque existence, et l'autre toutes les vérités qui ne sont rien hors de notre pensée. Touchant les choses, nous avons premièrement certaines notions générales qui se peuvent rapporter à toutes, à savoir celles que nous avons de la substance, de la durée, de l'ordre et du nombre, et peut-être aussi quelques autres. Puis nous en avons aussi de plus particulières, qui servent à les distinguer. Et la principale distinction que je remarque entre toutes les choses créées est que les unes sont intellectuelles, c'est-à-dire sont des substances intelligentes, ou bien des propriétés qui appartiennent à ces substances; et les autres sont corporelles c'est-à-dire sont des corps, ou bien des propriétés qui appartiennent au corps. Ainsi l'entendement, la volonté et toutes les façons de connaître et de vouloir, appartiennent à la substance qui pense; la grandeur, ou l'étendue en longueur, largeur et profondeur, la figure, le mouvement, la situation des parties et la disposition qu'elles ont à être divisées, et telles autres propriétés, se rapportent au corps. Il y a encore outre cela certaines choses que nous expérimentons en nous-mêmes, qui ne doivent point être attribuées à l'âme seule, ni aussi au corps seul, mais à l'étroite union qui est entre eux, ainsi que j'expliquerai ci-après: tels sont les appétits de boire, de manger, et les émotions ou les passions de l'âme, qui ne dépendent pas de la pensée seule, comme l'émotion à la colère, à la joie, à la tristesse, à l'amour, etc.; tels sont tous les sentiments, comme la lumière, les couleurs, les sons, les odeurs, le goût, la chaleur, la dureté, et toutes les autres qualités qui ne tombent que sous le sens de l'attouchement.

(46)49. Que les vérités ne peuvent ainsi être dénombrées, et qu'il n'en est pas besoin. Jusques ici j'ai dénombré tout ce que nous connaissons comme des choses, il reste à parler de ce que nous connaissons comme des vérités. Par exemple, lorsque nous pensons qu'on ne saurait faire quelque chose de rien, nous ne croyons point que cette proposition soit une chose qui existe ou la propriété de quelque chose, mais nous la prenons pour une certaine vérité éternelle qui a son siège en notre pensée, et que l'on nomme une notion commune ou une maxime: tout de même quand on dit qu'il est impossible qu'une même chose en même temps soit et ne soit pas, que ce qui a été fait ne peut n'être pas fait, que celui qui pense ne peut manquer d'être ou d'exister pendant qu'il pense et quantité d'autres semblables, ce sont seulement des vérités, et non pas des choses qui soient hors de notre pensée, et il y en a si grand nombre de telles qu'il serait malaisé de les dénombrer, mais aussi n'est-il pas nécessaire,

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parce que nous ne saurions manquer de les savoir lorsque l'occasion se présente de penser à elles, et que nous n'avons point de préjugés qui nous aveuglent.

50. Que toutes ces vérités peuvent être clairement aperçues, mais non pas de tous, à cause des préjugés. Pour ce qui est des vérités qu'on nomme des notions communes, il est certain qu'elles peuvent être connues de plusieurs très clairement et très distinctement; car autrement elles ne mériteraient pas d'avoir ce nom; mais il est vrai aussi qu'il y en a qui le méritent au regard de quelques personnes, qui ne le méritent point au regard des autres, à cause qu'elles ne leur sont pas assez évidentes. Non pas que je croie que la faculté de connaître qui est en quelques hommes s'étende plus loin que celle qui est communément en tous, mais c'est plutôt qu'il y en a lesquels ont imprimé de longue main des opinions en leur créance qui, étant contraires à quelques-unes de ces vérités, empêchent qu'ils ne les puissent apercevoir, bien qu'elles soient fort manifestes à ceux qui ne sont point ainsi préoccupés.

51. Ce que c'est que la substance; et que c'est un nom qu'on ne peut attribuer à Dieu et aux créatures en même sens. Pour ce qui est des choses que nous considérons (47) comme ayant quelque existence, il est besoin que nous les examinions ici l'une après l'autre, afin de distinguer ce qui est obscur d'avec ce qui est évident en la notion que nous avons de chacune. Lorsque nous concevons la substance, nous concevons seulement une chose qui existe en telle façon qu'elle n'a besoin que de soi-même pour exister. En quoi il peut y avoir de l'obscurité touchant l'explication de ce mot, n'avoir besoin que de soi-même; car, à proprement parler, il n'y a que Dieu qui soit tel, et il n'y a aucune chose créée qui puisse exister un seul moment sans être soutenue et conservée par sa puissance. C'est pourquoi on a raison dans l'École de dire que le nom de substance n'est pas univoque au regard de Dieu et des créatures, c'est-à-dire qu'il n'y a aucune signification de ce mot que nous concevions distinctement, laquelle convienne à lui et à elles: mais parce qu'entre les choses créées quelques-unes sont de telle nature qu'elles ne peuvent exister sans quelques autres, nous les distinguons d'avec celles qui n'ont besoin que du concours ordinaire de Dieu, en nommant celles-ci des substances, et celles-là des qualités ou des attributs de ces substances.

52. Qu'il peut être attribué à l'âme et au corps en même sens; et comment on connaît la substance. Et la notion que nous avons ainsi de la substance créée se rapporte en même façon à toutes, c'est-à-dire à celles qui sont immatérielles comme à celles qui sont matérielles ou corporelles; car il faut seulement, pour entendre que ce sont des substances, que nous apercevions qu'elles peuvent exister sans l'aide d'aucune chose créée. Mais lorsqu'il est question de savoir si quelqu'une de ces substances existe véritablement, c'est-à-dire si elle est à présent dans le monde, ce n'est pas assez qu'elle existe en cette façon pour faire que nous l'apercevions: car cela seul ne nous découvre rien qui excite quelque connaissance particulière en notre pensée; il faut outre cela qu'elle ait quelques attributs que nous puissions remarquer; et il n'y en a aucun qui ne suffise pour cet effet, à cause que l'une de nos notions communes est que le néant ne peut avoir aucuns attributs, ni propriétés ou qualités: c'est pourquoi, lorsqu'on en rencontre quelqu'un, on a raison de conclure qu'il est l'attribut de quelque substance, et que cette substance existe.

(48) 53. Que chaque substance a un attribut principal, et que celui de l'âme est la pensée, comme l'extension est celui du corps. Mais encore que chaque attribut soit suffisant pour faire connaître la substance, il y en a toutefois un en chacune qui constitue sa nature et son essence, et de qui tous les autres dépendent. A savoir, l'étendue en longueur, largeur et profondeur, constitue la nature de la substance corporelle; et la pensée constitue la nature de la substance qui pense. Car tout ce que d'ailleurs on peut attribuer au corps présuppose de l'étendue, et n'est qu'une dépendance de ce qui est étendu; de même, toutes les propriétés que nous trouvons en la chose qui pense ne sont que des façons différentes de penser. Ainsi nous ne saurions concevoir, par exemple, de figure, si ce n'est en une chose étendue, ni de mouvement qu'en un espace qui est étendu; ainsi l'imagination, le sentiment et la volonté dépendent tellement d'une chose qui pense que nous ne les pouvons concevoir sans elle. Mais, au contraire, nous pouvons concevoir l'étendue sans figure ou sans mouvement; et la chose qui pense sans imagination ou sans sentiment, et ainsi du reste.

54. Comment nous pouvons avoir des pensées distinctes de la substance qui pense, de celle qui est corporelle, et de Dieu. Nous pouvons donc avoir deux notions ou idées claires et distinctes, l'une d'une substance créée qui pense, et l'autre d'une substance étendue, pourvu que nous séparions soigneusement tous les attributs de la pensée d'avec les attributs de l'étendue. Nous pouvons avoir aussi une idée claire et distincte d'une substance incréée qui pense et qui est indépendante, c'est-à-dire d'un Dieu, pourvu que nous ne pensions pas que cette idée nous représente tout ce qui

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est en lui, et que nous n'y mêlions rien par une fiction de notre entendement; mais que nous prenions garde seulement à ce qui est compris véritablement en la notion distincte que nous avons de lui et que nous savons appartenir à la nature d'un être tout parfait. Car il n'y a personne qui puisse nier qu'une telle idée de Dieu soit en nous, s'il ne veut croire sans raison que l'entendement humain ne saurait avoir aucune connaissance de la Divinité.

(49) 55. Comment nous en pouvons aussi avoir de la durée, de l'ordre et du nombre. Nous concevons aussi très distinctement ce que c'est que la durée, l'ordre et le nombre, si, au lieu de mêler dans l'idée que nous en avons ce qui appartient proprement à l'idée de la substance, nous pensons seulement que la durée de chaque chose est un mode ou une façon dont nous considérons cette chose en tant qu'elle continue d'être; et que pareillement l'ordre et le nombre ne diffèrent pas en effet des choses ordonnées et nombrées, mais qu'ils sont seulement des façons sous lesquelles nous considérons diversement ces choses.

56. Ce que c'est que qualité et attribut, et façon ou mode. Lorsque je dis ici façon ou mode, je n'entends rien que ce que je nomme ailleurs attribut ou qualité. Mais lorsque je considère que la substance en est autrement disposée ou diversifiée, je me sers particulièrement du nom de mode ou façon; et lorsque, de cette disposition ou changement, elle peut être appelée telle, je nomme qualité les diverses façons qui font qu'elle est ainsi nommée; enfin, lorsque je pense plus généralement que ces modes ou qualités sont en la substance, sans les considérer autrement que comme les dépendances de cette substance, je les nomme attributs. Et, parce que je ne dois concevoir en Dieu aucune variété ni changement, je ne dis pas qu'il y ait en lui des modes ou des qualités, mais plutôt des attributs; et même dans les choses créées, ce qui se trouve en elles toujours de même sorte, comme l'existence et la durée en la chose qui existe et qui dure, je le nomme attribut, et non pas mode ou qualité.

57. Qu'il y a des attributs qui appartiennent aux choses auxquelles ils sont attribués, et d'autres qui dépendent de notre pensée. De ces qualités ou attributs, il y en a quelques-uns qui sont dans les choses mêmes, et d'autres qui ne sont qu'en notre pensée; ainsi le temps, par exemple, que nous distinguons de la durée prise en général, et que nous disons être le nombre du mouvement, n'est rien qu'une certaine façon dont nous pensons à cette durée, parce que nous ne concevons point que la durée des choses (50) qui sont mues soit autre que celle des choses qui ne le sont point; comme il est évident de ce que si deux corps sont mus pendant une heure, l'un vite et l'autre lentement, nous ne comptons pas plus de temps en l'un qu'en l'autre, encore que nous supposions plus de mouvement en l'un de ces deux corps. Mais afin de comprendre la durée de toutes les choses sous une même mesure, nous nous servons ordinairement de la durée de certains mouvements réguliers qui font les jours et les années, et la nommons temps, après l'avoir ainsi comparée; bien qu'en effet ce que nous nommons ainsi ne soit rien, hors de la véritable durée des choses, qu'une façon de penser.

58. Que les nombres et les universaux dépendent de notre pensée. De même le nombre que nous considérons en général, sans faire réflexion sur aucune chose créée, n'est point hors de notre pensée, non plus que toutes ces autres idées générales que dans l'École on comprend sous le nom d'universaux.

59. Quels sont les universaux. Qui se font de cela seul que nous nous servons d'une même idée pour penser à plusieurs choses particulières qui ont entre elles un certain rapport. Et lorsque nous comprenons sous un même nom les choses qui sont représentées par cette idée, ce nom aussi est universel. Par exemple, quand nous voyons deux pierres et que, sans penser autrement à ce qui est de leur nature, nous remarquons seulement qu'il y en a deux, nous formons en nous l'idée d'un certain nombre que nous nommons le nombre de deux. Si, voyant ensuite deux oiseaux ou deux arbres, nous remarquons (sans penser aussi à ce qui est de leur nature) qu'il y en a deux, nous reprenons par ce moyen la même idée que nous avions auparavant formée, et la rendons universelle, et le nombre aussi que nous nommons d'un nom universel le nombre de deux. De même, lorsque nous considérons une figure de trois côtés, nous formons une certaine idée que nous nommons l'idée du triangle, et nous en servons ensuite à nous représenter généralement toutes les figures qui n'ont que trois côtés. Mais quand nous remarquons plus particulièrement que, des figures de trois côtés, les unes ont un angle droit et que les autres n'en ont point, nous formons en nous une idée universelle du triangle rectangle, qui, étant rapportée à la précédente qui est générale et plus universelle, peut être nommée espèce;(51) et l'angle droit, la différence universelle par où les triangles rectangles diffèrent de tous les autres; de plus, si nous remarquons que le carré du côté qui sous-tend l'angle droit est égal aux carrés des deux autres côtés, et que cette propriété convient

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seulement à cette espèce de triangles, nous la pourrons nommer propriété universelle des triangles rectangles. Enfin, si nous supposons que de ces triangles les uns se meuvent et que les autres ne se meuvent point, nous prendrons cela pour un accident universel en ces triangles; et c'est ainsi qu'on compte ordinairement cinq universaux, à savoir le genre, l'espèce, la différence, le propre et l'accident.

60. Des distinctions, et premièrement de celle qui est réelle. Pour ce qui est du nombre que nous remarquons dans les choses mêmes, il vient de la distinction qui est entre elles; et il y a des distinctions de trois sortes: à savoir, réelle, modale, et de raison, ou bien qui se fait de la pensée. La réelle se trouve proprement entre deux ou plusieurs substances. Car nous pouvons conclure que deux substances sont réellement distinctes l'une de l'autre, de cela seul que nous en pouvons concevoir une clairement et distinctement sans penser à l'autre; parce que, suivant ce que nous connaissons de Dieu, nous sommes assurés qu'il peut faire tout ce dont nous avons une idée claire et distincte. C'est pourquoi, de ce que nous avons maintenant l'idée, par exemple, d'une substance étendue ou corporelle, bien que nous ne sachions pas encore certainement si une telle chose est à présent dans le monde, néanmoins, parce que nous en avons l'idée, nous pouvons conclure qu'elle peut être, et qu'en cas qu'elle existe, quelque partie que nous puissions déterminer de la pensée doit être distincte réellement de ses autres parties. De même, parce qu'un chacun de nous aperçoit en soi qu'il pense, et qu'il peut en pensant exclure de soi ou de son âme toute autre substance ou qui pense ou qui est étendue, nous pouvons conclure aussi qu'un chacun de nous ainsi considéré est réellement distinct de toute autre substance qui pense, et de toute substance corporelle. Et quand Dieu même joindrait si étroitement un corps à une âme qu'il fût impossible de les unir davantage, et ferait un composé de ces deux substances ainsi unies, nous concevons aussi qu'elles demeureraient toutes deux réellement distinctes, nonobstant cette union, parce que, quelque liaison que Dieu ait mise entre elles, (52) il n'a pu se défaire de la puissance qu'il avait de les séparer, ou bien de les conserver l'une sans l'autre, et que les choses que Dieu peut séparer ou conserver séparément les unes des autres sont réellement distinctes.

61. De la distinction modale. Il y a deux sortes de distinction modale, à savoir, l'une entre le mode que nous avons appelé façon et la substance dont il dépend et qu'il diversifie; et l'autre entre deux différentes façons d'une même substance. La première est remarquable en ce que nous pouvons apercevoir clairement la substance sans la façon qui diffère d'elle en cette sorte, mais que réciproquement nous ne pouvons avoir une idée distincte d'une telle façon sans penser à une telle substance. Il y a, par exemple, une distinction modale entre la figure ou le mouvement et la substance corporelle dont ils dépendent tous deux; il y en a aussi entre assurer ou se ressouvenir et la chose qui pense. Pour l'autre sorte de distinction, qui est entre deux différentes façons d'une même substance, elle est remarquable en ce que nous pouvons connaître l'une de ces façons sans l'autre, comme la figure sans le mouvement, et le mouvement sans la figure; mais que nous ne pouvons penser distinctement ni à l'une ni à l'autre que nous ne sachions qu'elles dépendent toutes deux d'une même substance. Par exemple, si une pierre est mue, et avec cela carrée, nous pouvons connaître sa figure carrée sans savoir qu'elle soit mue, et réciproquement nous pouvons savoir qu'elle est mue sans savoir si elle est carrée; mais nous ne pouvons avoir une connaissance distincte de ce mouvement et de cette figure si nous ne connaissons qu'ils sont tous deux en une même chose, à savoir en la substance de cette pierre. Pour ce qui est de la distinction dont la façon d'une substance est différente d'une autre substance ou bien de la façon d'une autre substance, comme le mouvement d'un corps est différent d'un autre corps ou d'une chose qui pense, ou bien comme le mouvement est différent du doute, il me semble qu'on la doit nommer réelle plutôt que modale, à cause que nous ne saurions connaître les modes sans les substances dont ils dépendent, et que les substances sont réellement distinctes les unes des autres.

(53) 62. De la distinction qui se fait par la pensée. Enfin, la distinction qui se fait par la pensée consiste en ce que nous distinguons quelquefois une substance de quelqu'un de ses attributs sans lequel néanmoins il n'est pas possible que nous en ayons une connaissance distincte; ou bien en ce que nous tâchons de séparer d'une même substance deux tels attributs, en pensant à l'un sans penser à l'autre. Cette distinction est remarquable en ce que nous ne saurions avoir une idée claire et distincte d'une telle substance si nous lui ôtons un tel attribut; ou bien en ce que nous ne saurions avoir une idée claire et distincte de l'un de deux ou plusieurs tels attributs si nous le séparons des autres. Par exemple, à cause qu'il n'y a point de substance qui ne cesse d'exister lorsqu'elle cesse de durer, la durée n'est distincte de la substance que par la pensée; et généralement tous les attributs qui font que nous avons des pensées diverses d'une même chose, tels que sont par exemple l'étendue du corps et sa propriété d'être divisé en plusieurs parties, ne diffèrent du corps qui nous sert d'objet, et réciproquement l'un de l'autre, qu'à cause que nous pensons quelquefois confusément à l'un sans penser à l'autre. Il me souvient d'avoir mêlé la distinction qui se fait par la pensée avec la modale, sur la fin des réponses que j'ai faites aux premières objections qui m'ont été envoyées sur les Méditations de ma métaphysique; mais cela ne

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répugne point à ce que j'écris en cet endroit, parce que, n'ayant pas dessein de traiter pour lors fort amplement de cette matière, il me suffisait de les distinguer toutes deux de la réelle.

63. Comment on peut avoir des notions distinctes de l'extension et de la pensée, en tant que l'une constitue la nature du corps et l'autre celle de l'âme. Nous pouvons aussi considérer la pensée et l'étendue comme les choses principales qui constituent la nature de la substance intelligente et corporelle, et alors nous ne devons point les concevoir autrement que comme la substance même qui pense et qui est étendue; c'est-à-dire comme l'âme et le corps; car nous les connaissons en cette sorte très clairement et très distinctement. Il est même plus aisé de connaître une substance qui pense ou une substance étendue que la (54) substance toute seule, laissant à part si elle pense ou si elle est étendue; parce qu'il y a quelque difficulté à séparer la notion que nous avons de la substance de celle que nous avons de la pensée et de l'étendue: car elles ne diffèrent de la substance que par cela seul que nous considérons quelquefois la pensée ou l'étendue sans faire réflexion sur la chose même qui pense ou qui est étendue. Et notre conception n'est pas plus distincte parce qu'elle comprend peu de choses, mais parce que nous discernons soigneusement ce qu'elle comprend, et que nous prenons garde à ne le point confondre avec d'autres notions qui la rendraient plus obscure.

64. Comment on peut aussi les concevoir distinctement en les prenant pour des modes ou attributs de ces substances. Nous pouvons considérer aussi la pensée et l'étendue comme les modes ou différentes façons qui se trouvent en la substance; c'est-à-dire que lorsque nous considérons qu'une même âme peut avoir plusieurs pensées diverses et qu'un même corps avec sa même grandeur peut être étendu en plusieurs façons, tantôt plus en longueur et moins en largeur ou en profondeur, et quelquefois au contraire plus en largeur et moins en longueur; et que nous ne distinguons la pensée et l'étendue de ce qui pense et de ce qui est étendu que comme les dépendances d'une chose, de la chose même dont elles dépendent; nous les connaissons aussi clairement et aussi distinctement que leurs substances, pourvu que nous ne pensions point qu'elles subsistent d'elles-mêmes, mais qu'elles sont seulement les façons ou dépendances de quelques substances. Parce que, quand nous les considérons comme les propriétés des substances dont elles dépendent, nous les distinguons aisément de ces substances, et les prenons pour telles qu'elles sont véritablement; au lieu que si nous voulions les considérer sans substance, cela pourrait être cause que nous les prendrions pour des choses qui subsistent d'elles-mêmes; en sorte que nous confondrions l'idée que nous devons avoir de la substance avec celle que nous devons avoir de ses propriétés.

65. Comment on conçoit aussi leurs diverses propriétés ou attributs. Nous pouvons aussi concevoir fort distinctement diverses façons de penser, comme entendre, imaginer, se souvenir, vouloir, etc.; et diverses façons d'étendue, (55) ou qui appartiennent à l'étendue, comme généralement toutes les figures, la situation des parties et leurs mouvements pourvu que nous les considérions simplement comme les dépendances des substances où elles sont; et quant à ce qui est du mouvement, pourvu que nous pensions seulement à celui qui se fait d'un lieu en autre, sans rechercher la force qui le produit, laquelle toutefois j'essayerai de faire connaître lorsqu'il en sera temps.

66. Que nous avons aussi des notions distinctes de nos sentiments, de nos affections et de nos appétits, bien que souvent nous nous trompions aux jugements que nous en faisons. Il ne reste plus que les sentiments, les affections et les appétits, desquels nous pouvons avoir aussi une connaissance claire et distincte, pourvu que nous prenions garde à ne comprendre dans les jugements que nous en ferons que ce que nous connaîtrons précisément par le moyen de notre entendement et dont nous serons assurés par la raison. Mais il est malaisé d'user continuellement d'une telle précaution, au moins à l'égard de nos sens, à cause que nous avons cru dès le commencement de notre vie que toutes les choses que nous sentions avaient une existence hors de notre pensée et qu'elles étaient entièrement semblables aux sentiments ou aux idées que nous avions à leur occasion. Ainsi, lorsque nous avons vu, par exemple, une certaine couleur, nous avons cru voir une chose qui subsistait hors de nous, et qui était semblable à l'idée que nous avions. Or nous avons ainsi jugé en tant de rencontres, et il nous a semblé voir cela si clairement et si distinctement, à cause que nous étions accoutumés à juger de la sorte, qu'on ne doit pas trouver étrange que quelques-uns demeurent ensuite tellement persuadés de ce faux préjugé qu'ils ne puissent pas même se résoudre à en douter.

67. Que souvent même nous nous trompons en jugeant que nous sentons de la douleur en quelque partie de notre corps. La même prévention a eu lieu en tous nos autres sentiments, même en ce qui est du chatouillement et de la douleur. Car encore que nous n'ayons pas cru qu'il y eût hors de nous, dans les objets extérieurs, des choses qui fussent

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semblables au chatouillement ou à la douleur qu'ils nous faisaient sentir, nous n'avons pourtant (56) pas considéré ces sentiments comme des idées qui étaient seulement en notre âme; mais nous avons cru qu'ils étaient dans nos mains, dans nos pieds et dans les autres parties de notre corps, sans que toutefois il y ait aucune raison qui nous oblige à croire que la douleur que nous sentons, par exemple au pied, soit quelque chose hors de notre pensée qui soit dans notre pied, ni que la lumière que nous pensons voir dans le soleil soit dans le soleil ainsi qu'elle est en nous. Et si quelques-uns se laissent encore persuader à une si fausse opinion, ce n'est qu'à cause qu'ils font si grand cas des jugements qu'ils ont faits lorsqu'ils étaient enfants, qu'ils ne sauraient les oublier pour en faire d'autres plus solides, comme il paraîtra encore plus manifestement par ce qui suit.

68. Comment on doit distinguer en telles choses ce en quoi on peut se tromper d'avec ce qu'on conçoit clairement. Mais afin que nous puissions distinguer ici ce qu'il y a de clair en nos sentiments d'avec ce qui est obscur, nous remarquerons en premier lieu que nous connaissons clairement et distinctement la douleur, la couleur et les autres sentiments, lorsque nous les considérons simplement comme des pensées; mais que quand nous voulons juger que la couleur, que la douleur, etc., sont des choses qui subsistent hors de notre pensée, nous ne concevons en aucune façon quelle chose c'est que cette couleur, cette douleur, etc. Et il en est de même lorsque quelqu'un nous dit qu'il voit de la couleur dans un corps, ou qu'il sent de la douleur en quelqu'un de ses membres; comme s'il nous disait qu'il voit ou qu'il sent quelque chose, mais qu'il ignore entièrement quelle est la nature de cette chose, ou bien qu'il n'a pas une connaissance distincte de ce qu'il voit et de ce qu'il sent. Car encore que, lorsqu'il n'examine pas ses pensées avec attention, il se persuade peut-être qu'il en a quelque connaissance, à cause qu'il suppose que la couleur qu'il croit voir dans l'objet a de la ressemblance avec le sentiment qu'il éprouve en soi, néanmoins, s'il fait réflexion sur ce qui lui est représenté par la couleur ou par la douleur, en tant qu'elles existent dans un corps coloré ou bien dans une partie blessée, il trouvera sans doute qu'il n'en a pas de connaissance.

(57) 69. Qu'on connaît tout autrement les grandeurs, les figures, etc., que les couleurs, les douleurs, etc. Principalement, s'il considère qu'il connaît bien d'une autre façon ce que c'est que la grandeur dans le corps qu'il aperçoit, ou la figure, ou le mouvement, au moins celui qui se fait d'un lieu en un autre (car les philosophes, en feignant d'autres mouvements que celui-ci, n'ont pas connu si facilement sa vraie nature), ou la situation des parties, ou la durée, ou le nombre, et les autres propriétés que nous apercevons clairement en tous les corps comme il a été déjà remarqué, que non pas ce que c'est que la couleur dans le même corps, ou la douleur, l'odeur, le goût, la saveur et tout ce que j'ai dit devoir être attribué au sens. Car encore que voyant un corps nous ne soyons pas moins assurés de son existence par la couleur que nous apercevons à son occasion que par la figure qui le termine, toutefois il est certain que nous connaissons tout autrement en lui cette propriété qui est cause que nous disons qu'il est figuré, que celle qui fait qu'il nous semble coloré.

70. Que nous pouvons juger en deux façons des choses sensibles, par l'une desquelles nous tombons en l'erreur, et par l'autre nous l'évitons. Il est donc évident, lorsque nous disons à quelqu'un que nous apercevons des couleurs dans les objets, qu'il en est de même que si nous lui disions que nous apercevons en ces objets je ne sais quoi dont nous ignorons la nature, mais qui cause pourtant en nous un certain sentiment fort clair et manifeste qu'on nomme le sentiment des couleurs. Mais il y a bien de la différence en nos jugements. Car, tant que nous nous contentons de croire qu'il y a je ne sais quoi dans les objets (c'est-à-dire dans les choses telles qu'elles soient) qui cause en nous ces pensées confuses qu'on nomme sentiments, tant s'en faut que nous nous méprenions, qu'au contraire nous évitons la surprise qui nous pourrait faire méprendre, à cause que nous ne nous emportons pas sitôt à juger témérairement d'une chose que nous remarquons ne pas bien connaître. Mais lorsque nous croyons apercevoir une certaine couleur dans un objet, bien que nous n'ayons aucune connaissance distincte (58) de ce que nous appelons d'un tel nom, et que notre raison ne nous fasse apercevoir aucune ressemblance entre la couleur que nous supposons être en cet objet et celle qui est en notre sens; néanmoins, parce que nous ne prenons pas garde à cela, et que nous remarquons en ces mêmes objets plusieurs propriétés, comme la grandeur, la figure, le nombre, etc.. qui existent en eux de même sorte que nos sens ou plutôt notre entendement nous les fait apercevoir, nous nous laissons persuader aisément que ce qu'on nomme couleur dans un objet est quelque chose qui existe en cet objet, qui ressemble entièrement à la douleur qui est en notre pensée; et ensuite nous pensons apercevoir clairement en cette chose ce que nous n'apercevons en aucune façon appartenir à sa nature.

71. Que la première et principale cause de nos erreurs sont les préjugés de notre enfance. C'est ainsi que nous avons reçu la plupart de nos erreurs. A savoir, pendant les premières années de notre vie, que notre âme était si étroitement liée au corps, qu'elle ne s'appliquait à autre chose qu'à ce qui causait en lui quelques

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impressions, elle ne considérait pas encore si ces impressions étaient causées par des choses qui existassent hors de soi, mais seulement elle sentait de la douleur lorsque le corps en était offensé ou du plaisir lorsqu'il en recevait de l'utilité, ou bien, si elles étaient si légères que le corps n'en reçût point de commodité, ni aussi d'incommodité qui fût importante à sa conservation, elle avait des sentiments tels que sont ceux qu'on nomme goût, odeur, son, chaleur, froid, lumière, couleur, et autres semblables, qui véritablement ne nous représentent rien qui existe hors de notre pensée, mais qui sont divers selon les diversités qui se rencontrent dans les mouvements qui passent de tous les endroits de notre corps jusques à l'endroit du cerveau auquel elle est étroitement jointe et unie. Elle apercevait aussi des grandeurs, des figures et des mouvements qu'elle ne prenait pas pour des sentiments, mais pour des choses ou des propriétés de certaines choses qui lui semblaient exister ou du moins pouvoir exister hors de soi, bien qu'elle n'y remarquât pas encore cette différence. Mais lorsque nous avons été quelque peu plus avancés en âge et que notre corps, se tournant fortuitement de part et d'autre par la disposition de ses organes, a rencontré des choses utiles ou en a évité de nuisibles, l'âme, qui lui était étroitement unie, faisant réflexion sur les choses qu'il rencontrait (59) ou évitait, a remarqué premièrement qu'elles existaient au dehors, et ne leur a pas attribué seulement les grandeurs, les figures, les mouvements et les autres propriétés qui appartiennent véritablement au corps, et qu'elle concevait fort bien ou comme des choses ou comme les dépendances de quelques choses, mais encore les couleurs, les odeurs, et toutes les autres idées de ce genre qu'elle apercevait aussi à leur occasion; et comme elle était si fort offusquée du corps qu'elle ne considérait les autres choses qu'autant qu'elles servaient à son usage, elle jugeait qu'il y avait plus ou moins de réalité en chaque objet, selon que les impressions qu'il causait lui semblaient plus ou moins fortes. De là vient qu'elle a cru qu'il y avait beaucoup plus de substance ou de corps dans les pierres et dans les métaux que dans l'air ou dans l'eau, parce qu'elle y sentait plus de dureté et de pesanteur; et qu'elle n'a considéré l'air non plus que rien lorsqu'il n'était agité d'aucun vent, et qu'il ne lui semblait ni chaud ni froid. Et parce que les étoiles ne lui faisaient guère plus sentir de lumière que des chandelles allumées, elle n'imaginait pas que chaque étoile fût plus grande que la flamme qui paraît au bout d'une chandelle qui brûle. Et parce qu'elle ne considérait pas encore si la terre peut tourner sur son essieu, et si sa superficie est courbée comme celle d'une boule, elle a jugé d'abord qu'elle est immobile, et que sa superficie est plate. Et nous avons été par ce moyen si fort prévenus de mille autres préjugés que lors même que nous étions capables de bien user de notre raison, nous les avons reçus en notre créance; et au lieu de penser que nous avions fait ces jugements en un temps que nous n'étions pas capables de bien juger, et par conséquent qu'ils pouvaient être plutôt faux que vrais, nous les avons reçus pour aussi certains que si nous en avions eu une connaissance distincte par l'entremise de nos sens, et n'en avons non plus douté que s'ils eussent été des notions communes.

72. Que la seconde est que nous ne pouvons oublier ces préjugés. Enfin, lorsque nous avons atteint l'usage entier de notre raison, et que notre âme, n'étant plus si sujette au corps, tâche à bien juger des choses, et à connaître leur nature, bien que nous remarquions que les jugements que nous avons faits lorsque nous étions enfants sont pleins d'erreurs, nous avons assez de peine à nous en délivrer entièrement, et néanmoins il est certain que (60) Si nous manquons à nous souvenir qu'ils sont douteux, nous sommes toujours en danger de retomber en quelque fausse prévention. Cela est tellement vrai qu'à cause que dès notre enfance, nous avons imaginé, par exemple, les étoiles fort petites, nous ne saurions nous défaire encore de cette imagination, bien que nous connaissions par les raisons de l'astronomie qu'elles sont très grandes: tant a de pouvoir sur nous une opinion déjà reçue.

73. La troisième, que notre esprit se fatigue quand il se rend attentif à toutes les choses dont nous jugeons. De plus, comme notre âme ne saurait s'arrêter à considérer longtemps une même chose avec attention sans se peiner et même sans se fatiguer, et qu'elle ne s'applique à rien avec tant de peine qu'aux choses purement intelligibles, qui ne sont présentes ni aux sens ni à l'imagination, soit que naturellement elle ait été faite ainsi à cause qu'elle est unie au corps, ou que pendant les premières années de notre vie nous nous soyons si fort accoutumés à sentir et imaginer, que nous ayons acquis une facilité plus grande à penser de cette sorte, de là vient que beaucoup de personnes ne sauraient croire qu'il y ait de substance si elle n'est imaginable et corporelle, et même sensible; car on ne prend pas garde ordinairement qu'il n'y a que les choses qui consistent en étendue, en mouvement et en figure, qui soient imaginables, et qu'il y en a quantité d'autres que celles-là qui sont intelligibles: de là vient aussi que la plupart du monde se persuade qu'il n'y a rien qui puisse subsister sans corps, et même qu'il n'y a point de corps qui ne soit sensible. Et d'autant que ce ne sont point nos sens qui nous font découvrir la nature de quoi que ce soit, mais seulement notre raison lorsqu'elle y intervient, on ne doit pas trouver étrange que la plupart des hommes n'aperçoivent les choses que fort confusément, vu qu'il n'y en a que très peu qui s'étudient à la bien conduire.

74. La quatrième, que nous attachons nos pensées à des paroles qui ne les expriment pas exactement. Au reste, parce que nous attachons nos conceptions à certaines paroles afin de les exprimer de bouche, et que nous

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nous souvenons plutôt des paroles que des choses, (61) à peine saurions-nous concevoir aucune chose si distinctement que nous séparions entièrement ce que nous concevons d'avec les paroles qui avaient été choisies pour l'exprimer. Ainsi tous les hommes donnent leur attention aux paroles plutôt qu'aux choses; ce qui est cause qu'ils donnent bien souvent leur consentement à des termes qu'ils n'entendent point, et qu'ils ne se soucient pas beaucoup d'entendre, ou parce qu'ils croient les avoir entendus autrefois, ou parce qu'il leur a semblé que ceux qui les leur ont enseignés en connaissaient la signification, et qu'ils l'ont apprise par même moyen. Et, bien que ce ne soit pas ici l'endroit où je dois traiter de cette matière, à cause que je n'ai pas enseigné quelle est la nature du corps humain et que je n'ai pas même encore prouvé qu'il y ait au monde aucun corps, il me semble néanmoins que ce que j'en ait dit nous pourra servir à discerner celles de nos conceptions qui sont claires et distinctes d'avec celles où il y a de la confusion et qui nous sont inconnues.

75. Abrégé de tout ce qu'on doit observer pour bien philosopher. C'est pourquoi, si nous désirons vaquer sérieusement à l'étude de la philosophie et à la recherche de toutes les vérités que nous sommes capables de connaître, nous nous délivrerons en premier lieu de nos préjugés, et ferons état de rejeter toutes les opinions que nous avons autrefois reçues en notre créance, jusques à ce que nous les ayons derechef examinées; nous ferons ensuite une revue sur les notions qui sont en nous, et ne recevrons pour vraies que celles qui se présenteront clairement et distinctement à notre entendement. Par ce moyen, nous connaîtrons premièrement que nous sommes, en tant que notre nature est de penser, et qu'il y a un Dieu duquel nous dépendons; et après avoir considéré ses attributs nous pourrons rechercher la vérité de toutes les autres choses, parce qu'il en est la cause. Outre les notions que nous avons de Dieu et de notre pensée, nous trouverons aussi en nous la connaissance de beaucoup de propositions qui sont perpétuellement vraies, comme par exemple, que le néant ne peut être l'auteur de quoi que ce soit, etc. Nous y trouverons l'idée d'une nature corporelle ou étendue, qui peut être mue, divisée, etc., et des sentiments qui causent en nous certaines dispositions, comme la douleur, les couleurs (62) etc.; et comparant ce que nous venons d'apprendre en examinant ces choses par ordre, avec ce que nous en pensions avant que de les avoir ainsi examinées, nous nous accoutumerons à former des conceptions claires et distinctes sur tout ce que nous sommes capables de connaître. C'est en ce peu de préceptes que je pense avoir compris tous les principes plus généraux et plus importants de la connaissance humaine.

76. Que nous devons préférer l'autorité divine à nos raisonnements, et ne rien croire de ce qui n'est pas révélé que nous ne le connaissions fort clairement. Surtout, nous tiendrons pour règle infaillible que ce que Dieu a révélé est incomparablement plus certain que le reste, afin que, si quelque étincelle de raison semblait nous suggérer quelque chose au contraire, nous soyons toujours prêts à soumettre notre jugement à ce qui vient de sa part; mais pour ce qui est des vérités dont la théologie ne se mêle point, il n'y aurait pas d'apparence qu'un homme qui veut être philosophe reçût pour vrai ce qu'il n'a point connu être tel, et qu'il aimât mieux se fier à ses sens, c'est-à-dire aux jugements inconsidérés de son enfance, qu'à sa raison, lorsqu'il est en état de la bien conduire.

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Russel B. Storia della filosofia occidentale Tea

Severino E. La filosofia dai Greci al nostro tempo - La Filosofia moderna

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Timossi R. G. Prove logiche dell'esistenza di Dio da Anselmo d'Aosta a Kurt Gödel

Marietti