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CARATTERISTICHE DINAMICHE DEL TERRENO Sono state trattate le caratteristiche statiche di un terreno, cioè quei caratteri difficilmente modificabili, anche se, bisogna ricordarlo, in natura nulla esiste di immutabile e di rigorosamente stabile, secondo le dimensioni dello spazio e del tempo. In natura, il concetto di entità fissa, permanente e costante può riferirsi soltanto ad un lasso di tempo relativamente limitato. Perciò, i caratteri del suolo legati alla composizione fisica, origine, stratificazione e stratigrafia, giacitura, esposizione e costituzione, subiscono modificazioni di pochissimo rilievo le quali risultano, poi, praticamente trascurabili nel breve periodo. Al contrario, possono verificarsi grandi trasformazioni dinamiche in un periodo dell’ordine di grandezza dell’era geologica. Tali trasformazioni si realizzano sia per l’accumulo di piccole modificazioni, ognuna delle quali, singolarmente, sfugge alla percezione dei sensi ed anche alla rilevazione di strumenti molto sofisticati, sia per l’azione di grandi sconvolgimenti naturali, capaci di riportare ad una situazione di instabilità un sistema, un ecosistema, un agroecosistema che, nel tempo, aveva raggiunto un equilibrio di stabilità. Le principali caratteristiche dinamiche di un terreno sono la struttura, le condizioni chimiche e quelle biologiche. Queste caratteristiche sono facilmente modificabili dalle azioni naturali e dagli interventi antropici e le modificazioni possono avvenire anche in un intervallo molto breve. L’attività dell’uomo consiste nell’operare affinché i livelli quantitativi e qualitativi delle caratteristiche dinamiche del suolo siano mantenuti il più possibile vicino a quelli ottimali, affinché possano marcatamente agire nella determinazione della fertilità del suolo. I livelli ottimali possono essere definiti di volta in volta, in relazione alle risultanze dell’attività della ricerca e della sperimentazione. Diventa, infine, necessario conoscere e saper mettere in pratica il complesso delle conoscenze acquisite, in maniera che esse possano tradursi in applicazioni reali e nella migliore capacità di gestione del suolo e del territorio. Tutto ciò va realizzato, naturalmente, nel rispetto dei criteri ecologici della conservazione delle buone caratteristiche del terreno e dell’ambiente.

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CARATTERISTICHE DINAMICHE DEL TERRENO

Sono state trattate le caratteristiche statiche di un terreno, cioè quei caratteri difficilmente modificabili, anche se, bisogna ricordarlo, in natura nulla esiste di immutabile e di rigorosamente stabile, secondo le dimensioni dello spazio e del tempo.

In natura, il concetto di entità fissa, permanente e costante può riferirsi soltanto ad un lasso di tempo relativamente limitato. Perciò, i caratteri del suolo legati alla composizione fisica, origine, stratificazione e stratigrafia, giacitura, esposizione e costituzione, subiscono modificazioni di pochissimo rilievo le quali risultano, poi, praticamente trascurabili nel breve periodo.

Al contrario, possono verificarsi grandi trasformazioni dinamiche in un periodo dell’ordine di grandezza dell’era geologica. Tali trasformazioni si realizzano sia per l’accumulo di piccole modificazioni, ognuna delle quali, singolarmente, sfugge alla percezione dei sensi ed anche alla rilevazione di strumenti molto sofisticati, sia per l’azione di grandi sconvolgimenti naturali, capaci di riportare ad una situazione di instabilità un sistema, un ecosistema, un agroecosistema che, nel tempo, aveva raggiunto un equilibrio di stabilità.

Le principali caratteristiche dinamiche di un terreno sono la struttura, le condizioni chimiche e quelle biologiche. Queste caratteristiche sono facilmente modificabili dalle azioni naturali e dagli interventi antropici e le modificazioni possono avvenire anche in un intervallo molto breve. L’attività dell’uomo consiste nell’operare affinché i livelli quantitativi e qualitativi delle caratteristiche dinamiche del suolo siano mantenuti il più possibile vicino a quelli ottimali, affinché possano marcatamente agire nella determinazione della fertilità del suolo.

I livelli ottimali possono essere definiti di volta in volta, in relazione alle risultanze dell’attività della ricerca e della sperimentazione.

Diventa, infine, necessario conoscere e saper mettere in pratica il complesso delle conoscenze acquisite, in maniera che esse possano tradursi in applicazioni reali e nella migliore capacità di gestione del suolo e del territorio. Tutto ciò va realizzato, naturalmente, nel rispetto dei criteri ecologici della conservazione delle buone caratteristiche del terreno e dell’ambiente.

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Struttura del terreno

In linea generale, la struttura si riferisce a sistemi costituiti da più parti ed, in particolare, studia la reciproca posizione di tali parti. Si può parlare di struttura elettronica dell’atomo per riferirsi alla reciproca posizione degli elettroni intorno al nucleo e delle particelle nel nucleo, di struttura di una molecola per rappresentare la reciproca posizione degli atomi e come sono fra loro collegati, di struttura di un cristallo per indicare la reciproca ordinata e periodica posizione delle particelle (atomi, ioni, molecole) per tutto lo spazio, di struttura di una roccia per indicare quella parte che dipende dalla forma e dalla disposizione dei suoi costituenti ed, infine, di struttura del terreno per riferirsi alla disposizione reciproca delle particelle di cui esso è costituito.

Specificamente, per struttura del terreno s’intende il modo in cui le tre fasi fisiche (solida, liquida e gassosa) sono reciprocamente disposte dal punto di vista della qualità e della quantità.

Va specificato che le due fasi fluide occupano gli spazi vuoti del terreno, cioè quelli che si costituiscono tra le particelle (pori). La struttura, pertanto, è intimamente legata alla reciproca posizione delle particelle, degli aggregati di particelle e di queste ultime entro gli aggregati.

La localizzazione spaziale reciproca delle particelle elementari ed il modo con cui esse sono associate determina la distribuzione dei pori nel terreno.

La distribuzione spaziale dei pori nel suolo può sicuramente essere considerata la proprietà più importante per la definizione della struttura.

Per avere un’idea pratica di che cosa sia la struttura di un terreno, basti pensare all’effetto di un’intensa pioggia battente che colpisce un appezzamento ed all’effetto di un’aratura.

Nel primo caso la pioggia percola nel terreno, trasporta verso il basso le particelle e sfalda una buona parte di aggregati, a seguito del rigonfiamento e della dispersione dei colloidi cementanti. I singoli elementi degli aggregati verranno anch’essi assestati, con conseguente riduzione della porosità e compattamento del suolo.

Nel secondo caso il terreno è rimosso, si formano degli aggregati più o meno grossi (zolle), aumenta il volume complessivo degli spazi vuoti (porosità) ed il terreno si presenta più voluminoso. I due terreni, a seguito dei differenti eventi, un evento meteorico ed un intervento antropico, vengono a possedere, dinamicamente, una struttura differente.

Per meglio comprendere la struttura del terreno diventa necessario puntualizzare i concetti riguardanti alcuni caratteri fisici del suolo.

Essi sono trattati in questo capitolo indipendentemente dalla loro modificabilità nel tempo e, quindi, dal fatto se sono da considerarsi caratteri statici o dinamici del terreno, ma unicamente perché la loro comprensione consente la conoscenza degli aspetti fondamentali per l’acquisizione dei concetti relativi alla struttura di un terreno.

I parametri fisici che sono considerati sono: la porosità, il peso specifico o densità, la sofficità, la coesione, l’adesione o adesività, la plasticità, la permeabilità, l’aerazione, il costipamento, la capacità idrica, la contrazione ed espansione, la capillarità, la capacità d’evaporazione, l’igroscopicità, la fessurabilità o crepacciamento, il colore, la temperatura.

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POROSITÀ

Le particelle solide di cui è costituito il terreno lasciano, interposti tra loro, degli interstizi, degli spazi vuoti di forma e di dimensioni variabili, detti pori.

Il volume complessivo dei pori, rapportato al volume totale del terreno in loco, dà una frazione o percentuale che rappresenta la porosità.

Per lo studio della porosità e per la migliore comprensione del concetto di struttura del terreno ed a puro scopo dimostrativo, si può ipotizzare che le particelle di terreno siano tutte della stessa dimensione e di forma perfettamente sferica.

Esse possono assumere, le une rispetto alle altre, differenti disposizioni i cui estremi sono illustrati nella figura 14A e 14B e prendono il nome di assetto cubico, con un volume di spazi vuoti pari al 47,64% di quello occupato dal suolo, ed assetto piramidale, con un volume del 25,95%.

Anche in assenza di aggregati, la stessa disposizione reciproca delle particelle è in grado di influenzare le caratteristiche del terreno.

Tuttavia, nella realtà, le particelle sono di dimensioni variabili e quelle più piccole possono andare a riempire i vuoti rimasti fra le più grosse, causando una riduzione continua ed indefinita del volume dei pori.

Inoltre, le particelle possono riunirsi in aggregati i quali, a loro volta, possono disporsi secondo un assestamento cubico o piramidale (figura 14C e 14D) andando a costituire un volume totale di spazi vuoti superiore a quelli ottenibili per corrispondenti assetti in assenza di aggregazione poiché, in aggiunta al volume degli spazi vuoti tra gli aggregati, bisogna aggiungere quello degli spazi vuoti entro gli aggregati.

Anche in questo caso il volume degli spazi vuoti può ridursi indefinitamente perché particelle più piccole, da sole o associate, possono andare ad occupare i vuoti esistenti tra gli aggregati (figura 14E e 14F). Si assiste, allora, ad una progressiva caduta dei valori della porosità che dal 47,64% passa al 6,76% fino a ridursi al valore di 1,76%.

Tutto questo, anche se lontano dalle condizioni reali, serve a dimostrare l’importanza della reciproca posizione delle particelle, della formazione degli aggregati e del loro assestamento reciproco.

Come già accennato, la distribuzione dei pori nel terreno rappresenta il parametro più importante per la valutazione della struttura del terreno.

I pori di maggior volume, di dimensioni superiori a 0,5 mm, sono rappresentati da fessurazioni e da spazi vuoti liberati dopo la decomposizione delle radici e delle spoglie di organismi di pari dimensioni. Le fessurazioni possono interessare fino al 30% del volume del terreno e sono cavità nelle quali si svolge l’attività della mesofauna (insetti, acari, nematodi, tardigradi, rotiferi, pauropodi). Molti di questi pori sono occupati dalle radici di dimensioni sensibili. Le proprietà agronomiche collegate a questi pori sono l’assenza d’ogni azione di capillarità e l’esistenza di grandi movimenti di drenaggio di forti eccessi d’acqua ed elevata capacità per l’aria che assicura, generalmente, la realizzazione degli scambi gassosi. La porosità connessa alle dimensioni di tali spazi vuoti costituisce la porosità non capillare.

I pori di dimensioni comprese tra 0,05 e 0,5 mm sono pori di trasmissione perché permettono l’ascesa dell’acqua per capillarità. Essi sono chiamati macropori o macrovuoti ed alloggiano la cosiddetta microfauna (gastrotrichi e rizopodi) e le piccole radici.

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Fig. 14 – Disposizione reciproca delle particelle elementari del terreno: assetto cubico (A) ed assetto piramidale (B) di particelle singole ipotizzate tutte di uguale diametro; assetto cubico (C) ed assetto piramidale (D) di aggregati di particelle (glomeruli) ipotizzate di diametro differente; assetto cubico (E) ed assetto piramidale (F) di aggregati in cui particelle più piccole, singole o associate, hanno occupato gli spazi vuoti tra i glomeruli.

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Nell’ambito della porosità capillare, è possibile rilevare, in presenza di falda, l’ascensione dell’acqua per capillarità attiva, pari a 6 cm d’ascensione per pori di massime dimensioni e 60 cm per quelli di minima dimensione. In assenza della falda freatica, la forza d’ascensione capillare non riesce a vincere la forza peso dell’acqua e, pertanto, non si determina movimento idrico.

I pori di dimensioni di 0,0005-0,05 mm sono quelli della riserva idrica perché contengono l’acqua trattenuta dal terreno, non sottoposta all’azione gravitazionale. In rapporto alla relazione tra riserva idrica del terreno e dimensioni dei pori, la prima aumenta al diminuire delle dimensioni dei pori.

Quindi, la capacità di campo aumenta passando dai terreni sabbiosi (con pori di grandi dimensioni) a quelli argillosi (con pori piccoli). L’acqua contenuta in questi pori, una volta che quelli di dimensioni superiori si sono svuotati, corrisponde, all’incirca, alla cosiddetta capacità di campo.

Questi pori, pertanto, non permettono il drenaggio dell’acqua gravitazionale e, quando una buona metà e non oltre il 75% di questi essi sono vuoti, si ha la migliore umidità teorica per le lavorazioni. In particolare, il terreno va lavorato quando sono vuoti i pori di dimensioni comprese tra 0,005 e 0,025 mm. In tali condizioni il terreno non si attacca agli attrezzi di lavoro e la loro penetrazione nel suolo è agevolata. In tal caso si afferma che il terreno è in tempera.

Le forme viventi in questi pori di tali microscopiche dimensioni sono costituite da batteri, ife fungine e peli radicali.

I pori di diametro inferiore a 0,0005 mm sono i pori della riserva nutritiva poiché contengono, legati alle particelle di dimensioni colloidale, gli ioni degli elementi minerali occorrenti per la nutrizione delle piante e non sottoposti all’azione di dilavamento delle acque. In questi pori, detti criptopori o ultramicrovuoti, minipori, micropori, avvengono tutte le interazioni chimico-fisiche tra i costituenti del terreno e le reazioni che interessano gli elementi nutritivi.

L’acqua presente in questi pori, una volta svuotati quelli di dimensioni maggiori, non è disponibile per la pianta e corrisponde al cosiddetto coefficiente d’appassimento. Tale coefficiente aumenta passando dai terreni sabbiosi a quelli argillosi.

In altri termini, la forza con cui la pianta deve sottrarre acqua al terreno deve aumentare man mano che si passa dai terreni sabbiosi (per i quali la quantità d’acqua non disponibile per la pianta è minima e quindi basso è il loro coefficiente d’appassimento) a quelli argillosi (per i quali la quantità d’acqua non disponibile per la pianta è elevata e quindi elevato è il coefficiente d’appassimento).

Si può affermare che le lavorazioni aumentano, nella generalità dei casi, la porosità totale. L’incremento della porosità a seguito delle lavorazioni, tuttavia, non è molto alto e può arrivare al massimo al 6%.

I dati disponibili in letteratura non sempre sono di facile interpretazione, poiché la porosità è sottoposta a notevoli variazioni stagionali. Tuttavia, si può ritenere che l’interruzione delle lavorazioni determina una lenta, progressiva diminuzione della porosità che si arresta dopo 2-3 anni, quando le variazioni legate all’andamento stagionale diventano più piccole rispetto a quelle dei terreni lavorati.

La modificazione della porosità, provocata dai tradizionali lavori preparatori del terreno, non è uniforme lungo il profilo e tanto meno riguarda indifferentemente i pori di tutte le dimensioni. Nello strato lavorato si riscontra un netto aumento della porosità, mentre in corrispondenza del limite inferiore di tale strato si rileva una forte diminuzione della porosità, causata dall’azione di compressione del punto più basso dell’attrezzo che induce costipazione.

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Le lavorazioni, specificamente, inducono un aumento della macroporosità del terreno, mentre hanno una scarsissima influenza sui pori di piccole dimensioni e nello strato di costipazione causato dall’attrezzo di lavoro (suola di lavorazione).

La crosta compatta costituente la suola, col tempo si può arricchire di materiali a granulometria molto fine che causano un aumento dei pori di dimensioni minori, meno di 5 µ, e la corrispondente forte diminuzione di quelli più grandi, di dimensioni superiori a 50 µ.

La chiara differenza di porosità tra un terreno non lavorato ed un terreno lavorato si può rilevare dall’osservazione della figura 15.

Fig. 15 – Effetto della lavorazione del terreno sulla variazione della distribuzione dei pori, in relazione alla profondità. Si può osservare l’aumento sensibile dei pori di maggiori dimensioni (oltre 50 micron), mentre alla suola dell’attrezzo di lavoro (a circa 30 cm di profondità) è ben visibile la presenza dello strato più compatto.

I pori presentano, con riferimento alle loro dimensioni e con riguardo alla loro continuità, una maggiore omogeneità, sia nel tempo (variazioni stagionali) sia nello spazio (variazioni nel profilo), sia in un terreno non lavorato sia in un terreno lavorato. La maggiore continuità della porosità, in un terreno indisturbato, è anche legata alla presenza di lombrichi. Il numero di questi animali è molto più elevato in terreni non lavorati e la loro presenza è da considerare un ottimo indice del grado di continuità dei pori.

Il raggruppamento macro-megafaunistico degli anellidi, ma anche dei gasteropodi e di altri phyla, tra l’altro, scava gallerie e cavità ininterrotte, intercomunicanti e senza soluzione di continuità con l’atmosfera, con la conseguenza di aumentare la porosità del terreno e di favorire gli scambi gassosi all’interno del terreno e con l’aria esterna.

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Infine, tutte le proprietà del terreno connesse alla porosità, come la resistenza alla penetrazione (coesione o tenacità) ed alle deformazioni (plasticità), sono ugualmente influenzate dalle lavorazioni. Tali proprietà di porosità, a parità di contenuto di umidità, sono sensibilmente più elevate nei suoli non lavorati.

Naturalmente, tutte le azioni di costipazione del terreno, come il calpestio dell’uomo e degli animali ed il passaggio dei mezzi meccanici, agiscono negativamente sulla porosità di un terreno.

PESO SPECIFICO

Il terreno è una massa discontinua di particelle solide le quali hanno un loro peso specifico. Poiché nel terreno esistono anche degli spazi vuoti, bisogna distinguere un peso specifico assoluto ed un peso specifico apparente.

Il peso specifico assoluto corrisponde al peso specifico delle sole particelle di terreno, senza considerare gli spazi vuoti presenti. Esso è il rapporto tra il peso delle sole particelle di terreno ed il volume occupato esclusivamente da esse. Come vedremo oltre, il peso specifico assoluto si misura molto semplicemente, determinando esattamente il volume di particelle, attraverso l’incremento volumetrico che esse determinano quando sono poste in un liquido.

Con questo sistema diventa possibile misurare esattamente il volume totale delle sole particelle di terreno. La rilevazione di questo dato sarebbe stato, altrimenti, impossibile in relazione al grandissimo numero ed all’enorme variabilità delle dimensioni e della forma delle stesse particelle.

Il peso specifico apparente corrisponde al peso delle particelle per unità di volume di suolo in loco. In tale volume sono, perciò, inclusi i pori del terreno. Il peso specifico apparente si misura prelevando un campione indisturbato di terreno di volume noto, essiccandolo e pesandolo.

Il peso specifico assoluto varia con la natura delle particelle solide. Esso raggiunge i valori massimi per terreni dove la componente minerale è elevata (terreni ferruginosi) ed i minimi valori per terreni caratterizzati da elevata presenza di materia organica (terreni torbosi). Nella tabella 19 sono riportate i pesi specifici assoluti di diversi costituenti del terreno.

Tab. 19 – Peso specifico assoluto di diversi costituenti del terreno.

Costituenti del terreno Peso specifico assoluto (g/cm3)Calcare 2,6-2,8Sabbia 2,6-2,7Argilla 2,50Limo 2,65Humus 1,23Ematite 5,00

Il peso specifico apparente dipende molto dalla grandezza delle particelle del

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terreno. Tali particelle influenzano enormemente il valore del denominatore della frazione costituente il peso specifico, in altre parole il volume. Infatti, particelle molto grosse, come quelle sabbiose, danno luogo, a parità di peso, ad un volume minore di quello determinato da particelle piccole come quelle argillose. Nella tabella 20 sono indicati i pesi specifici apparenti di alcuni terreni, in relazione alla loro costituzione.

Tab. 20 – Peso specifico apparente di alcuni terreni di differente costituzione

Costituzione del terreno Peso specifico apparente (g/cm3)Terreno sabbioso 1,42Terreno limo-sabbioso 1,2-1,3Terreno argilloso 1,1-1,2Terreno organico < 1

Determinazione del peso specifico e della porosità di un terrenoLa porosità, come già detto, è un importante parametro per individuare la struttura

di un terreno. Quest’ultima, tuttavia, riguarda il terreno in un preciso momento poiché, proprio perché essa è una caratteristica dinamica, può facilmente modificarsi. Inoltre, il campione di terreno da esaminare può facilmente danneggiarsi ed un sistema poroso complesso, quale è il terreno, non può essere caratterizzato dall’impiego di un metodo singolo.

Soltanto i moderni procedimenti, fondati sull’uso di sottili sezioni e di tecniche micromorfometriche, possono dare una misura molto precisa della porosità di un terreno e consentire una vera e propria ripresa fotografica di un sottile profilo di suolo, da cui è possibile rilevare addensamenti fini d’argilla e limo, i pori di forma rotonda o a fessura, intercomunicanti o meno, canalicoli interconnessi mediante cavità e le stesse camere tra loro connesse (dovuti all’attività della fauna terricola), presenza di granuli di minerali colorati o bianchi. Le fotografie di queste sezioni, direttamente oppure al computer, mediante un analizzatore d’immagini, permettono la misura dei singoli pori, la determinazione del volume singolo e complessivo e, stabilendo delle classi di frequenza per le dimensioni, la distribuzione degli ordini di grandezza dei pori nel terreno.

La determinazione della porosità di un terreno, con metodi classici, comporta l’esecuzione di una serie di operazioni: 1) prelevamento, mediante una trivella, di un volume (V) noto di terreno, da cui si rileva

un cubo di qualche centimetro di lato, previamente inumidito;

2) determinazione del peso (P) del terreno prelevato, dopo essiccazione in stufa a 105-110 °C per almeno 5-6 ore;

3) determinazione del peso specifico (Ps) del suolo prelevato mediante l’impiego del picnometro di Schubler. Si riempie il picnometro con acqua distillata fino al segno e si pesa. Si svuota, si asciuga e poi si pesa di nuovo. La differenza tra le due pesate dà il peso dell’acqua che corrisponde, all’incirca, al valore del volume del picnometro. E’ noto che un grammo d’acqua distillata, alla temperatura di 4 °C (cui corrisponde la massima densità) ed a livello del mare, corrisponde al volume di un centimetro cubo.

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4) Poi, il picnometro si riempie per metà col terreno in esame, si pesa e si calcola il peso del terreno. Si aggiunge acqua, lentamente ed agitando in modo da scacciare tutta l’aria, fino al segno e si pesa di nuovo. Dal peso così ottenuto si sottrae il peso del picnometro vuoto: rimane il peso del terreno e dell’acqua. Da tale peso si sottrae il peso del terreno e rimane il peso della sola acqua. La differenza tra il peso dell’acqua che da sola riempiva il picnometro (corrispondente al volume del picnometro) ed il peso dell’acqua (uguale al suo volume) che occupa il picnometro insieme al terreno dà il valore del volume occupato dal terreno (escluso i pori), detto volume reale (Vp). Il rapporto tra il peso del terreno ed il volume da esso occupato dà il peso specifico;

5) calcolo del volume (Vp) occupato dalle particelle, ottenuto nel corso della determinazione del peso specifico;

6) calcolo del volume dei vuoti o porosità (Vv) dato dalla differenza tra il volume del terreno prelevato ed il volume determinato per le particelle solide:

Vv = V – Vp

Un tale procedimento consente la determinazione del valore della porosità, cioè del volume degli spazi vuoti, ma non può assolutamente fornire un dato sulla conoscenza delle dimensioni degli spazi vuoti. Il metodo precedente, che può integrarsi con questo ora descritto, dà la possibilità di conoscere un tale valore. Ulteriori idee su questo dato possono acquisirsi dai valori della costituzione meccanica (tessitura) o, ancor meglio, sulla base dei movimenti dell’acqua in seno al terreno preso in considerazione.

In un terreno di medio impasto, ben strutturato, in condizioni ottimali d’umidità, circa il 50% della sua porosità è occupata dall’acqua. Ne sono pieni i micropori (di diametro inferiore a 5 µ) che costituiscono la microporosità del terreno. I rimanenti spazi vuoti (macropori) sono occupati, come già visto, dall’aria e costituiscono la macroporosità del terreno. I valori delle due porosità devono assumere ordini di grandezza molto vicini per essere favorevoli alla vita delle piante. Va aggiunto che il rapporto tra macroporosità e microporosità varia con il contenuto d’acqua del terreno, soprattutto in suoli argillosi ed umiferi. Da ciò si deduce che è inesatto calcolare il tenore in aria del terreno (volume degli spazi vuoti) facendo la differenza tra la porosità totale, in un determinato momento, ed il tenore in acqua misurato in altre condizioni.

La porosità percentuale P del terreno si può esprimere anche nel modo seguente:

Va – VrP(%) = ——— · 100

Va

dove Va è il volume apparente o volume totale del terreno con quel determinato aspetto strutturale, Vr è il volume reale del terreno o volume della sola parte solida.

La porosità influenza il peso specifico apparente, vale a dire il peso dell’unità di volume apparente (volume reale del terreno più il volume occupato dai pori) ed il peso specifico reale, in altre parole il peso dell’unità di volume reale. Esaminando la tabella 21, che pone a confronto tipi di terreno di differente costituzione, si può notare come il peso specifico reale varia poco, a parte i terreni organici, al variare della tessitura, mentre il peso specifico apparente è soggetto a notevole variazione.

Confrontando bene i dati è possibile osservare l’imprecisione nella quale si cade quando si classificano i terreni argillosi e sabbiosi in pesanti e leggeri, rispettivamente.

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Questa terminologia, infatti, si deve collegare non tanto al peso specifico, bensì alla tendenza del terreno bagnato ad attaccarsi agli attrezzi di lavoro ed a corpi estranei che, così, si appesantiscono (tendenza molto forte per i terreni argillosi), ma anche alla resistenza che i terreni oppongono alla penetrazione degli strumenti per la lavorazione.

Tab. 21 – Peso specifico reale, peso specifico apparente e porosità in quattro terreni diversi, prima e dopo la preparazione del letto di semina.

La stessa tabella mostra come la porosità varia al cambiare della tessitura (è alta nei terreni argillosi, più bassa in quelli sabbiosi) e come le lavorazioni modificano poco la porosità dei terreni sciolti i quali, ad esempio, dopo un’aratura si gonfiano meno dei terreni argillosi. Infine, è da annotare che le particelle grossolane e la debole aggregazione favoriscono il prevalere della macroporosità sulla microporosità, mentre il contrario accade nei terreni limosi, argillosi e mal strutturati.

Le misure di porosità, comunque eseguite, non forniscono un’idea completa della struttura di un terreno, poiché non danno notizie sulla sua stabilità e sulle potenzialità di miglioramento. Se invece si considerano le caratteristiche degli aggregati, risulta possibile effettuare misure sulla loro stabilità mediante setacciamento in umido. Queste misure sono un notevole completamento delle metodiche messe in atto per determinare la porosità, mentre prese isolatamente soffrono di un elevato grado d’empirismo.

SOFFICITÀ

La sofficità è un’altra caratteristica eminentemente dinamica del terreno. La sofficità è la proprietà del suolo di permettere la circolazione dell’aria entro il proprio spessore (aria tellurica), di consentire gli scambi gassosi con l’esterno (aria atmosferica), di favorire il movimento dell’acqua ed in particolare di quella gravitazionale, di mettere le radici delle piante nelle migliori condizioni per il loro sviluppo.

Un terreno è sempre più soffice quanto più aumentano le dimensioni delle particelle di cui è costituito e, pertanto, rettamente connessa con la grandezza dei pori. Più i pori sono di elevate dimensioni, più il terreno è soffice. Quindi, mentre la porosità è in connessione con il volume complessivo degli spazi vuoti, la sofficità è correlata al numero di spazi sufficientemente grandi e quindi alla sola macroporosità.

I terreni a scheletro prevalente presentano un elevato indice di sofficità, poiché sono caratterizzati dal possedere pori molto grandi. Anche quando sono assestati, ad esempio per l’azione della pioggia battente o per il passaggio di mezzi pesanti, tendono a mantenere una buona sofficità. Altrettanto dicasi per i terreni a grana grossa. I terreni

Tipo di terreno Peso specifico Non lavorato Lavoratoreale peso specifico

apparenteporosità

(%)peso specifico

apparenteporosità

(%)Argilloso 2,5 1,2 54,0 0,9 65,0Medio impasto 2,5 1,2 51,0 1,0 60,0Sabbioso 2,6 1,4 45,0 1,3 50.0Torboso 2,0 1,1 55,0 0,6 70,0

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argillosi, soprattutto quando sono assestati, in relazione alla prevalenza della microporosità e quindi alla minore presenza di pori di grandi dimensioni, hanno un indice di sofficità relativamente basso. I terreni ricchi in colloidi organici (humus) hanno un’elevata sofficità, perché l’humus e la materia organica presentano caratteristiche spugnose e pori d’elevato volume.

I fattori che inducono sofficità in un terreno sono: la presenza di sostanza organica, le lavorazioni del terreno, gli effetti del gelo e del disgelo, l’azione dell’alternanza del caldo e del freddo, l’attività delle radici delle piante coltivate, la presenza di una fauna terricola (lombrichi), l’attività equilibrata dei microrganismi. Interventi con ammendanti e con condizionatori della struttura (coagulanti chimici in grado di agire sulla carica elettrica dei colloidi) possono migliorare la sofficità di un terreno, mentre il calpestio, il passaggio con le macchine, agiscono sempre in senso sfavorevole sulla possibilità che quel terreno possa mantenersi soffice.

Un’influenza particolare sulla sofficità del terreno è esercitata dalle lavorazioni le quali aumentano la sofficità limitatamente al solo strato soggetto alla lavorazione. Subito oltre questo strato, l’organo di lavoro dell’attrezzo comprime il terreno e viene a creare uno spessore compatto, privo di pori di grandi dimensioni o almeno che superano i 50 µm di diametro, detto, come già indicato, suola di lavorazione. Quest’ultima ostacola il drenaggio idrico del terreno, determina perdita d’acqua per ruscellamento profondo, riduce gli scambi gassosi e lo sviluppo in profondità delle radici delle piante coltivate. Un terreno non lavorato, invece, anche se si presenta meno soffice in superficie, mantiene un grado di sofficità costante per tutto lo spessore del profilo ed, a profondità superiore a quella interessata dallo strumento di lavoro, è più soffice di un terreno lavorato.

COESIONE

La coesione è una forza di tipo attrattivo che agisce tra le molecole di una sostanza. Essa si distingue dall’adesione che è invece la forza attrattiva agente tra molecole diverse. Le forze di coesione sono responsabili di stati d’addensamento delle particelle argillose o sabbiose e sono di tipo elettrostatico, di Van der Waals e d’altro tipo. La forza di coesione oppone una certa resistenza a quelle forze che tendono a separare le particelle di terreno e tale resistenza dipende dalle proprietà chimiche e mineralogiche delle particelle terrose ed è in rapporto con lo stato fisico-meccanico, la struttura ed il contenuto d’umidità di un suolo. La coesione collabora con l’attrito interno alla resistenza al taglio di una terra. In particolare, la resistenza al taglio rappresenta un indice della coesione di un terreno ed è importante, entro certi limiti, per definire la risposta del suolo all’impatto delle gocce di pioggia, al deflusso superficiale e soprattutto per la valutazione del rischio potenziale dei movimenti di massa del terreno. Le correlazioni tra la coesione e le tensioni che giocano all’interno di un blocchetto di terra sono rappresentate nell’equazione di Coulomb:

τ = c + σ · tgϕ

in cui τ e σ sono le tensioni rispettivamente tangenziale e normale, agenti su un elemento di superficie interno al blocchetto terroso nello stato di scorrimento incipiente (condizione di equilibrio limite), c rappresenta la coesione e ϕ l’angolo di attrito interno della terra. In generale, attrito e coesione sussistono simultaneamente nel terreno, ma in

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alcuni casi uno di essi ha importanza preponderante sull’altro: nelle argille l’attrito è trascurabile rispetto alla coesione, mentre nelle sabbie avviene il contrario.

La coesione di un terreno aumenta con il diminuire del diametro delle particelle (è alta per le particelle argillose, molto bassa per quelle sabbiose), tende a diminuire con l’aumento della materia organica (che, allo stato colloidale, può interporsi tra le particelle argillose, separandole) ed, entro certi limiti, cresce con la riduzione dell’umidità del suolo. Terreni argillosi molto asciutti, a parte gli interspazi che si vengono a determinare per effetto della crepacciabilità, fanno rilevare la massima coesione tra le particelle.

Bisogna, infine, rilevare che la coesione non può considerarsi come un elemento di struttura d’aggregazione. Quest’ultima si riscontra soltanto alla presenza di una qualunque sostanza legante o cementante e le forze di coesione, che si esercitano tra le particelle di terreno, rappresentano, forse, soltanto un primo meccanismo di cementazione che va invece pienamente attribuito alle particelle umiche.

ADESIVITÀ O ADESIONE

L’adesività è la proprietà che ha la terra di restare attaccata, quando è umida, ai corpi con cui viene a contatto, quindi all’aratro ed agli altri arnesi di lavoro. Si può avere un’idea del concetto di adesività di un terreno se si riempie di terra umida un recipiente di ferro o di legno e poi, con un colpo secco, si svuota del contenuto. Il peso della terra rimasta attaccata al recipiente rappresenta un indice dell’adesività.

L’adesività varia notevolmente in relazione alla natura del terreno: le più adesive sono le terre argillose, poco adesive sono quelle sabbiose. Risultati più esatti si hanno mediante l’impiego della bilancia di Schubler, detta plastimetro, che è una normale bilancia nella quale un piatto è sostituito da un disco di ferro o di legno, ben piano inferiormente, di superficie di 1 dm2 ed equilibrato con l’altro piatto. La faccia piana del disco tocca la superficie della terra da sperimentare. Sull’altro piatto si pongono tanti pesi fin quando il primo si stacca dalla superficie. Il peso impiegato per il distacco del disco dalla terra fornisce la misura dell’aderenza. Il coefficiente di adesività assume i valori più alti quando si tratta di terra umida, umosa e specialmente argillosa.

Nella tabella 22 sono indicati i pesi di alcuni tipi di materiali terrosi, trattenuti da una superficie di 1 dm2 di ferro e di legno ed esprimenti, rispettivamente, l’adesività per il ferro ed il legno.

Tab. 22 – Adesività per il ferro ed il legno di alcuni tipi di materiali terrosi.

Materiale terroso Adesività per il ferro (kg) Adesività per il legno (kg)Argilla pura 1,22 1,32Terra argillosa 0,78 0,86Humus 0,40 0,42Terra soffice 0,26 0,28Sabbia calcarea 0,19 0,20Sabbia silicea 0,17 0,19

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L’adesività ha grande importanza per le modalità delle lavorazioni e per la scelta degli attrezzi di lavoro e, come la tenacità o coesione, influisce sullo sforzo che deve compiere l’aratro. Essa è misurata in pieno campo con i dinamometri. Dalle misure di Schubler, risulta che un terreno umido è di facile lavorazione quando un decimetro quadrato non sopporta più di 150-300 g di terra, mentre è di difficile lavorazione quando bisogna impiegare almeno 700 g per vincere la resistenza dovuta all’adesività.

E’ stato misurato il limite di scorrimento del terreno più o meno umido, detto punto di aderenza, vale a dire quel limite di umidità al quale la terra non aderisce più alla mano oppure ad una spatola. Nella sabbia pura è circa il 16%, ma nel terreno agrario oscilla da 20 a 50%.

Si è anche cercato di imitare ciò che accade nel campo, facendo lavorare piccoli modelli di aratro, su terra impastata in determinati modi e dove un apparecchio registratore segna lo sforzo compiuto dal modellino di aratro. Comunque si operi, le misurazioni di laboratorio danno soltanto un’idea di quanto accade in natura, dove l’adesività si desume dalla quantità di terra che resta attaccata agli arnesi o alle scarpe. L’adesività assume particolare importanza per le operazioni di aratura del terreno perché, data l’ampia superficie di contatto tra la fetta di suolo ed il versoio, influenza fortemente la potenza richiesta per la trazione dell’aratro.

Le terre argillose e quelle ricche di calcare finissimo sono le più adesive ed, in linea generale, l’adesività aumenta con il diminuire del diametro delle particelle e diminuisce con la riduzione dell’umidità del suolo.

L’adesività del terreno è minore ai metalli che al legno. Però un suolo pesante, quando è umido, si lascia meglio lavorare con un erpice di legno che di ferro. Ciò dipende dal maggiore sforzo dell’erpice di ferro che penetra più in profondità, ma anche dalla carica elettrostatica dei componenti della terra. Gli idrati di ferro e di alluminio hanno carica positiva e perciò le terre lateritiche umide si lavorano con il ferro meglio delle terre argillose o calcaree dove l’argilla o il calcare hanno carica negativa.

Un concetto legato moltissimo a questo tipo di parametro della struttura del terreno (e non solo) è quello dello stato di tempera. Un terreno raggiunge questa condizione quando è caratterizzato, in rapporto al quantitativo di acqua presente, da valori minimali di coesione, plasticità ed adesione. In relazione a ciò ed a quanto detto, i terreni che vanno facilmente in tempera sono quelli a grana grossa, ricchi in materia organica, a medio impasto e con presenza prevalente di aggregati glomerulari. Terreni a grana fine e finissima, come quelli argillosi e con assenza di glomeruli, vanno molto difficilmente in tempera, sia in presenza sia in assenza d’acqua.

PLASTICITÀ

La plasticità è la capacità di un terreno inumidito a lasciarsi modellare in una certa forma e conservarla anche dopo l’eliminazione dell’acqua. Il semplice fatto che l’espressione delle proprietà plastiche di un terreno richieda la presenza di una certa quantità d’acqua chiarisce a sufficienza come tale prerogativa non sia un fatto elementare, ma piuttosto un comportamento complesso, legato a talune proprietà fondamentali e condizionato dall’intervento di vari fattori, tra i quali l’acqua, anche non strettamente intrinseci alla natura del terreno. Altrettanto si può dire dell’adesività, della contrazione e del rigonfiamento e, per qualche riguardo, pure di altre proprietà come il colore e la temperatura del terreno.

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Se è facile accertare sperimentalmente che, in una serie di terreni più o meno diversi, la plasticità varia, in modo abbastanza evidente, con l’aumentare della percentuale di particelle dimensionalmente assegnate all’argilla (cioè con diametro inferiore a 0,002 mm), è però necessario precisare che una definizione quantitativa di tale rapporto viene ad essere complicata da non poche interferenze, quali quelle dovute al tipo di argilla, di volta in volta presente o predominante, ed al grado di strutturalità, che è proprio di ogni terreno, in un dato momento di osservazione.

La ragione principale della plasticità è da ricercare nel potere di imbibizione proprio dei colloidi inorganici e nel fatto che, così imbibite, le micelle argillose stabiliscono dei contatti reciproci che permettono di assorbire elasticamente le deformazioni impartite dal terreno da forze esterne ad esso.

Si tratta fondamentalmente dello stesso fenomeno, l’imbibizione dei colloidi, che sta alla base del rigonfiamento e dell’adesività del terreno, al quale può essere condotto, almeno in parte, lo “stato di tempera” che è così rilevante ai fini della lavorazione dei terreni ricchi in colloidi.

Va tuttavia precisato che le sostanze organiche colloidali (humus), se pure sono dotate di elevatissima capacità di imbibizione, non intervengono apprezzabilmente nei fenomeni di plasticità, al cui riguardo, semmai, svolgono un’azione contenitiva attraverso la propria capacità strutturante.

In un terreno si può rilevare – secondo i classici principi messi in luce da Atterberg, già all’inizio del secolo – l’esistenza di un contenuto minimo di acqua, in corrispondenza del quale inizia a manifestarsi la plasticità, che è chiamato limite di plasticità minimo. Se da questo primo dato, si aumenta progressivamente la quantità di acqua a disposizione del terreno, si constata uno sviluppo più o meno marcato di questa proprietà fino ad un contenuto massimo di acqua, che si definisce, per contrapposizione al precedente, limite massimo di plasticità.

Ad un’ulteriore aggiunta di acqua, le particelle reagiscono scostandosi troppo le une dalle altre e la massa terrosa inizia una fluidificazione che annulla rapidamente la plasticità.

Se il tenore in acqua è portato al di sotto del limite di plasticità minimo, il terreno o tende a sgretolarsi, se è povero di particelle argillose, oppure diviene fortemente coerente ed assume una durezza per la quale non cambia più la forma assunta sotto l’azione di pressioni esterne, almeno entro un certo valore della forza applicata.

La manifestazione di una certa plasticità, entro i limiti minimo e massimo, è propria di tutti i tipi di terreno, con la sola esclusione delle sabbie pure, cioè totalmente prive di particelle argillose. Al variare della tessitura dal sabbioso verso l’argilloso, si va

Secondo le ricerche di Russel, fra il numero di plasticità (PN) ed il tenore di argilla nel terreno C è verificabile la seguente relazione:

PN = 0,6 C – 12

Come è già accennato, tuttavia, il sovrapporsi ad una data tessitura di un certo stato di agglomerazione, cioè il formarsi di una struttura, tende a modificare la manifestazione della plasticità, così come influenze di vario effetto derivano da numerosi fattori chimici, fisici o climatici, che possono agire sullo stato di saturazione dei colloidi inorganici. La variazione del rapporto tra macroporosità e microporosità, cui anzitutto presiede la struttura di un terreno, si riflette anche in una variazione della plasticità, risultando alterati i sistemi di forze che, nell’ambito di un macroaggregato, collegano tra loro i

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microaggregati e le singole particelle elementari, rispetto a quel più vasto ed uniforme sistema che s’instaura, nello stesso terreno, qualora le stesse particelle siano libere di stabilire reciproci contatti in modo non discontinuo, come avviene nella condizione detta di astrutturalità.

Un certo ruolo viene oggi pure assegnato alla conformazione delle particelle argillose che, se sono appiattite e possono disporsi perpendicolarmente alla direzione della forza deformante applicata al terreno, meglio contribuiscono al valore di plasticità del terreno nel suo insieme. E’ impossibile assegnare alla plasticità un significato positivo o negativo che si riferisce alla lavorabilità del terreno agrario. Sembra più logico utilizzare tale proprietà come un parametro indiretto della percentuale d’argilla di un dato terreno e da cui trarre le valutazioni opportune, con riguardo alla funzione che le argille vengono svolgendo nella dinamica della fertilità e nella lavorabilità del terreno agrario. L’abbondanza d’argilla, del resto, è la caratteristica per cui certe terre sono particolarmente adatte, appunto per la loro plasticità, ad essere impiegate nella produzione di articoli vari in terracotta, per la casa o per l’edilizia, e di oggetti artistici.

Nella pratica agricola, tuttavia, la plasticità del terreno riveste una grande importanza per gli effetti sulle lavorazioni del terreno. Con l’aumentare della plasticità, oltre un certo limite, diviene sempre più difficile l’esecuzione di un buon lavoro colturale.

Il terreno eccessivamente plastico, sotto l’effetto del calpestio, per il passaggio delle macchine e per l’azione degli organi lavoranti, si comprime e permane in uno stato di costipazione. I terreni a grana fina, perciò, ricchi in colloidi minerali, come l’argilla, sono pesanti, anche se il loro peso specifico è minore di quello dei terreni a grana grossa, come quelli sabbiosi che, all’opposto, sono chiamati leggeri.

PERMEABILITÀ

L’acqua che penetra nel terreno e lo attraversa per azione della forza di gravità produce il fenomeno dell’infiltrazione o percolazione. La velocità, con la quale si verifica l’infiltrazione nel terreno dell’acqua gravitazionale o di percolazione, esprime la permeabilità del suolo e riguarda principalmente gli strati superiori, perché la presenza di orizzonti impermeabili in profondità può non influenzare la permeabilità, se l’infiltrazione negli orizzonti superiori è maggiore dell’azione drenante operata dagli orizzonti inferiori. La permeabilità è strettamente correlata alla quantità dei pori non capillari, per cui essa è in stretto rapporto con la granulometria del terreno. Più grosse ed omogenee sono le particelle del terreno, più elevata è la permeabilità. Un terreno costituito da sabbia grossa ha una permeabilità (velocità di infiltrazione dell’acqua) superiore di quattro volte quella di un terreno di sabbia finissima, mentre un terreno, col 5% di argilla, ha una velocità di deflusso dell’acqua tripla di quella di un terreno con il 25%. La struttura del terreno influenza molto la permeabilità ed una struttura grossolana, come quella di un terreno sabbioso, o con una buona aggregazione, come quella glomerulare, ha una buona permeabilità. Piogge prolungate, che causano la distruzione degli aggregati ed il rigonfiamento di alcune argille montmorillonitiche, riducono la permeabilità del terreno e ciò accade in misura maggiore in un terreno argilloso che non sabbioso.

La velocità di infiltrazione diminuisce con l’aumentare dello spessore degli strati attraversati dall’acqua, in pratica con la profondità, a causa del maggiore attrito (legato anche al maggiore assestamento degli orizzonti più profondi) incontrato dalla colonna

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liquida, nonostante la pressione esercitata da questa sia in senso contrario. In ogni terreno, pertanto, esiste un’altezza limite della colonna di acqua al disopra o al disotto della quale la permeabilità aumenta poco e molto, rispettivamente.

La permeabilità è influenzata da grado di compressione del terreno (che aumenta all’aumentare della profondità), dalla temperatura e dall’aria del suolo. La velocità di infiltrazione dell’acqua diminuisce all’aumentare del grado di assestamento (poiché si riduce la porosità del terreno), migliora con l’incremento della temperatura (maggiore fluidità dell’acqua e cessione da parte del terreno dell’acqua di capillarità) ed assume valori nulli in un terreno gelato. L’aria al disopra dell’acqua di percolazione (atmosfera) può aumentare la velocità di deflusso dell’acqua (per l’aumento della pressione atmosferica), mentre quella al disotto si oppone alla penetrazione dell’acqua nel terreno e tale resistenza è tanto più elevata quanto maggiore è il suo contenuto e quanto più piccoli sono i pori al disotto dell’acqua gravitazionale. Un terreno previamente bagnato è più permeabile di un terreno secco e così pure un terreno drenato rispetto ad un terreno privo di drenaggio (i dreni scacciano l’aria presente al disotto dell’acqua percolante).

Determinazione della permeabilitàPer determinare l’entità dell’infiltrazione idrica, si può misurare la velocità con cui

l’acqua penetra nel terreno collocato in modo che sia impedito ogni scorrimento superficiale.

La permeabilità relativa corrisponde al volume d’acqua che in 24 ore può passare attraverso una colonna di terreno avente sezione di 10 cm2 ed altezza di 10 cm. Secondo questo metodo (metodo di Kopecky), il terreno deve, preliminarmente, contenere acqua almeno fino alla sua capacità di ritenuta. Muntz e Burger misurano il tempo di infiltrazione di un volume noto d’acqua attraverso uno spessore di terreno. All’uopo si introduce nel terreno, fino alla profondità di 10 cm, un cilindro di sezione pari a 100 cm2

e di 20 cm di altezza, versando, poi, nello stesso 1 L d’acqua e rilevando, con un cronometro, il tempo richiesto affinché si infiltri completamente nel terreno. Un altro metodo è quello di Porchet e consiste nello scavare un foro circolare di 10-15 cm di diametro, nel riempirlo d’acqua e nel misurare la profondità dei livelli successivi in funzione del tempo, tracciando una curva caratteristica della permeabilità.

La quantità di acqua che scorre attraverso un terreno in un certo intervallo si può calcolare, approssimativamente, misurando il volume di liquido che riesce a scorrere in un tubo di drenaggio.

Il movimento dell’acqua nel terreno viene però studiato con maggiore precisione mediante i lisimetri, i quali permettono anche di riconoscere le sostanze che l’acqua di percolazione asporta dal suolo.

I lisimetri sono costituiti da serbatoi metallici o in cemento, di varie dimensioni, collocati entro il terreno in modo che la sommità emerga per pochi centimetri dalla superficie ed il fondo è costruito in modo che l’acqua di percolazione possa scorrere attraverso un tubo e raccogliersi in un recipiente.

Un certo numero di serbatoi è disposto in due file separate, a distanza tale da permettere il passaggio della persona che deve misurare e raccogliere i campioni del liquido accumulato nei vari recipienti.

L’interno dei lisimetri è rivestito con asfalto o altro materiale impermeabile, innocuo alle piante.

I serbatoi sono riempiti con terreno prelevato dal campo e disposto in modo che si

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trovi il più possibile nelle condizioni naturali di giacitura. Ebermayer, per evitare le modificazioni che il campione di terreno subisce quando si preleva e lo si trasporta nel lisimetro, attua le determinazioni di permeabilità lasciando il terreno in sito. Allo scopo si apre una trincea nel terreno e da una delle pareti, alla profondità di circa 130 cm, si scava una galleria, entro la quale è collocato un recipiente capace di raccogliere l’acqua che scorre dal terreno soprastante, così da permettere lo studio del terreno nelle sue condizioni naturali e di rendere possibile la misura dell’acqua percolante attraverso i differenti orizzonti del suolo.

AERAZIONE

L’aerazione del terreno è la circolazione dell’aria attraverso gli spazi non capillari. La riduzione della porosità non capillare e, quindi, della capacità per l’aria ha come conseguenza la diminuzione del movimento della fase gassosa del suolo.

In generale, i terreni argillosi coltivati e lavorati hanno un’areazione inferiore a quella di analoghi terreni ricoperti da vegetazione spontanea, purché non troppa densa, a causa della rottura degli aggregati, operata principalmente dalle lavorazioni, e della diminuita attività degli organismi del terreno come ad esempio i lombrichi.

Al contrario, i terreni sabbiosi sono migliorati, per quanto attiene l’aerazione, dalla presenza delle coltivazioni le quali favoriscono lo stato di aggregazione delle particelle di terreno.

In terreni sabbioso-argillosi o in quelli argillosi, caratterizzati da una buona aggregazione grumosa, esistono spazi vuoti non capillari che facilitano il movimento dell’aria e consentono all’anidride carbonica, prodotta a seguito dei fenomeni respiratori delle radici e degli organismi viventi nel suolo, di essere facilmente rimossa e di agevolare la diffusione dell’ossigeno che può occupare lo spazio lasciato libero.

Terreni argillosi defloculati e compatti sono asfittici per la carenza di ossigeno. Essi sono asfittici anche per l’eccesso di anidride carbonica e mal si prestano per la coltivazione delle piante a causa dell’esistenza oggettiva di carenti condizioni di abitabilità.

Terreni sabbiosi, con caratteristiche spinte di aerazione, hanno il difetto di ossidare eccessivamente la materia organica che quasi sempre scarseggia in simili suoli.

Le caratteristiche di aerazione sono connesse con la capacità del terreno di facilitare l’infiltrazione e la distribuzione dell’acqua nella propria massa.

Terreni ben aerati presentano anche un ottimo drenaggio per l’acqua. I suoli compatti presentano spazi tra le particelle molto esigui e, generalmente, sono pieni d’acqua, con conseguente esclusione dell’aria.

In tali condizioni, i movimenti dell’acqua, entro la massa di terreno, sono molto lenti e quando l’acqua penetra nel suolo, in quantità superiore a quella capace di essere smaltita per percolazione attraverso gli strati inferiori, si verificano ristagni idrici ed asfissia delle radici.

Il colore del terreno può fornire un valido indice di valutazione del suo grado di aerazione.

Un’aerazione scarsa produce colorazioni bluastre o verdastre correlate ai processi di riduzione degli ossidi di ferro.

La profondità alla quale tale colorazione si riscontra indica il livello al disotto del

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quale le acque tendono a ristagnare.Se queste colorazioni si trovano in prossimità della superficie del terreno allora

vuol dire che tutto lo spessore è scarsamente aerato, che esiste un’insufficienza di drenaggio per l’acqua ed il terreno è inadatto alle colture, soprattutto quelle provviste di un apparato radicale profondo.

I profili del terreno con scarsa aerazione e drenaggio possono trovarsi non soltanto in zone basse e depresse, ma anche lungo i fianchi o sulla cima di una collina, a causa della presenza di strati argillosi impermeabili.

Esistono anche casi di terreni eccessivamente aerati per una forte permeabilità causata dalla presenza di potenti depositi sottostanti di sabbia grossolana, priva di materiali argillosi o limosi. Questi terreni, per il loro contenuto d’umidità troppo scarso e per la gran profondità cui si trova la falda freatica, sono inadatti alla coltivazione delle piante e sono incapaci di fornire alle stesse la quantità d’acqua necessaria durante i periodi asciutti.

I terreni sabbiosi di notevole potenza sono caratterizzati da una bassa capacità idrica, ulteriormente aggravata a causa della scarsa quantità di materia organica, di componenti umici e di sostanze nutritive necessari alla vegetazione.

L’aggiunta di materia organica in questi terreni eccessivamente aerati, allo scopo di migliorare la loro struttura, di aumentare la capacità idrica e di ridurre la notevole permeabilità, spesso non sortisce l’effetto voluto. Ciò è dovuto al fatto che, in simili condizioni, la sostanza organica viene a subire un’eccessiva ossidazione e viene completamente mineralizzata.

COSTIPAMENTO

Consiste nella compressione ed assestamento del terreno a seguito della diminuzione del volume dei pori, in rapporto alle caratteristiche costitutive, di struttura, di coesione del suolo ed alla quantità d’acqua in esso esistente.

La costipazione del terreno è spontaneamente irreversibile e permane anche quando sono cessate le forze che l’hanno prodotta. I terreni a grana grossa, dai sabbiosi a quelli tufacei e ghiaiosi, anche se disseccano per una notevole profondità, non subiscono una diminuzione di spessore, cioè non si assestano ulteriormente. Questo perché la possibilità di costipamento dipende non dal grado d’umidità posseduta, ma dalla reciproca disposizione delle particelle costitutive. I terreni limosi ed argillosi presentano particelle di piccolissime dimensioni, come quelle colloidali, le quali sono tenute ad una certa reciproca distanza per opera dell’acqua assorbita. Questi terreni, quando sono secchi, manifestano una grande coesione ma, in presenza d’acqua, subiscono enormi modificazioni e deformazioni, aumentando di volume, a causa delle maggiori dimensioni dei pori pieni d’acqua. Il costipamento dipende dalla natura delle particelle e dal modo con cui esse si sono accumulate, ma soprattutto dalla capacità che ha il terreno di svuotare rapidamente i pori dall’acqua.

Il terreno elimina l’acqua che riempie i pori, più facilmente e velocemente, quanto più abbondante è il liquido che possiede. La facile e veloce eliminazione d’acqua dal terreno causa il fenomeno del costipamento. Per tale fenomeno, il suolo passa da una fase di gran rigonfiamento (per la notevole presenza di acqua) ad una fase di gran contrazione (terreno praticamente privo di acqua).

I terreni sabbiosi alluvionali, come quelli della pianura padana, per la presenza di

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particelle non omogenee (granuli minuti e grossolani), hanno una porosità reale che non supera il 26% del volume complessivo. Ciò è sufficiente a determinare, a seguito di alluvioni sabbiose sottostanti ad altri sedimenti più recenti, una riduzione di circa un quarto del proprio volume e, quindi, costipamento ed abbassamento del suolo. In molte altre aree alluvionali quest’abbassamento raggiunge appena qualche centimetro per secolo. E’ questo il caso delle dune olandesi che, a causa dell’omogeneità delle dimensioni delle particelle e dell’uniformità della porosità (poco modificabile e sempre costante), subiscono un abbassamento del terreno di circa 10 cm per secolo.

Il contenuto idrico del terreno è molto importante nel fenomeno dell’assestamento, perché se il terreno presenta e mantiene i pori pieni d’acqua non soggiace a costipazione, ma se perde rapidamente quest’acqua, impregnante la massa di suolo, la costipazione sarà di grande entità. La costipazione del terreno può verificarsi anche per perdita di materiali solidi nella parte inferiore del profilo.

La CO2 sciolta nella soluzione circolante può solubilizzare il calcare in bicarbonato, con perdita di materiale solido, aumento della porosità sottostante e costipamento.

Nei terreni torbosi, in conseguenza del drenaggio e dell’ossidazione della sostanza organica, la quale subisce, a seguito del suo incenerimento (eremacausi), la massima diminuzione del volume, il costipamento del suolo raggiunge la massima intensità. In alcune località italiane, come nel ferrarese, il costipamento del terreno ha raggiunto, in tre secoli, il valore di 150 cm e, soltanto nell’ultimo secolo, i 110 cm.

Quanto descritto riveste particolare importanza nell’allestimento dei progetti di bonifica, quando si cerca di aumentare il franco di coltivazione (dislivello tra la superficie di terreno ed il pelo libero dell’acqua) mediante le colmate, con la conseguenza di provocare l’abbassamento del suolo per compressione, di cui bisogna tenere conto.

In alcuni casi, quando il costipamento è più accentuato del previsto, la prevalenza dell’idrovora aumenta ed i canali, dovendo raccogliere una maggiore quantità di acqua di quella calcolata, possono divenire insufficienti.

Il costipamento del terreno nelle zone paludose prosciugate è di circa 30 cm per ogni metro di spessore dalla superficie, al livello della falda freatica, dopo la bonifica. Una volta stabilito il piano del fondo dei canali di bonifica è consigliabile lasciare, tra il pelo dell’acqua ed il piano di campagna, un franco di almeno 30 cm per i prati e di 60 cm per i terreni a coltura. Spesso, la maggiore altezza del franco di coltivazione, ottenuto mediante il drenaggio (che causa l’abbassamento del livello della falda freatica), viene in parte annullata dal costipamento cui soggiace il terreno bonificato. Tale fenomeno è enormemente aggravato nei suoli torbosi.

CAPACITÀ IDRICA

La capacità idrica di un terreno è in rapporto con la quantità di acqua contenuta nel suolo. Se si somministra acqua al terreno, fino alla sua completa saturazione, vale a dire finché tutti i pori sono pieni, si dice che il terreno è alla sua capacità idrica massima o assoluta.

E’ facile capire come la capacità idrica massima sia uguale, in volume, al volume dei pori e cioè alla stessa porosità del suolo, non potendo l’acqua occupare altro spazio che quello lasciato libero dalle particelle terrose. Se si toglie il fondo al recipiente che contiene questo terreno, una certa quantità di acqua (di percolazione o gravitazionale o

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freatica o libera), quella in eccesso, sotto l’azione della gravità, defluisce ed una volta che essa è tutta percolata lascerà il terreno allo stato della sua capacità idrica minima o relativa, detta anche capacità di campo.

Quest’acqua trattenuta dal terreno – con forze superiori a quelle della gravità, con forze che fanno capo a quelle di adesione e di coesione e che operano l’adsorbimento delle molecole di H2O e che sono in relazione a fenomeni elettromagnetici ed elettrostatici – corrisponde all’acqua di adesione (acqua di membrana, quella che avvolge le particelle terrose a guisa di membrana; acqua angolare, che si trova nel punto d’incontro tra due membrane; acqua di adesione capillare o interstiziale, quella che riempie i pori del terreno tra loro comunicanti), all’acqua di capillarità (che permane nel terreno per l’azione di forze capillari), all’acqua igroscopica (l’acqua che il terreno assume dall’atmosfera, per condensazione della sua umidità e con sviluppo di calore), all’acqua di imbibizione micellare (quella legata ai colloidi, che possiede un terreno abbastanza secco e che perde alla temperatura di 110 °C), all’acqua di cristallizzazione (quella che fa parte integrante in alcuni corpi allo stato cristallino e che il terreno perde a 130-165 °C) ed infine, all’acqua di costituzione (quella legata alla molecola di alcuni composti chimici, come gli idrati di ferro e di alluminio, e che il terreno perde quando è sottoposto a calcinazione, con forte innalzamento della temperatura).

La capacità idrica assoluta riveste scarso interesse pratico, se non per i terreni sottoposti a sommersione come le marcite, per i terreni giacenti nella zona delle falde freatiche e quelli della zona immediatamente superiore toccata dai processi capillari, per i materiali terrosi degli strati più superficiali, durante le piogge prolungate o nel corso della distribuzione dell’acqua d’irrigazione.

Di grande importanza agronomica è invece la capacità idrica relativa, che praticamente si identifica con l’acqua di adesione e la cui conoscenza è di notevole valore tecnico e scientifico. L’energia con la quale l’acqua è trattenuta dalle particelle del suolo e nei pori del terreno può essere misurata con diverse tecniche.

Una delle metodiche consiste nell’esercitare sul terreno umido un’aspirazione equivalente ad una pressione che viene espressa in atmosfere.

In queste misurazioni ci si riferisce ai centimetri della colonna d’acqua e si esprime col potenziale capillare, pF, cioè all’altezza della colonna d’acqua (espressa in centimetri) equivalente alla pressione esercitata.

L’acqua della capacità di campo è quella contenuta nei micropori (di dimensioni inferiori ad 5-10 µm) ed è disponibile per le piante fino ad un certo limite di tensione, corrispondente al coefficiente di appassimento. Quando i valori di queste costanti, invece di essere espressi in misure di tensione, sono espressi in percentuale d’acqua, le differenze tra i vari terreni sono sensibili (figura 16).

Capacità di campo e coefficiente di appassimento sono strettamente dipendenti dalla costituzione (componente matriciale) e dalla concentrazione della soluzione circolante, da cui dipende la pressione osmotica. Il coefficiente di appassimento è legato alla specie coltivata ed al suo stadio vegetativo ed è convenzionalmente stabilito in 15 bar pari ad un pF = 4,18. La quantità di acqua disponibile per le piante, rappresentata dalla quota compresa tra la capacità di campo (o tensione 0,33 bar) ed il coefficiente di appassimento, è nettamente superiore nelle terre argillose pesanti rispetto a quelle leggere. Le piante possono anche utilizzare l’acqua corrispondente alla capacità idrica assoluta (acqua gravitazionale), ma di solito questa frazione non viene considerata utile perché, se l’emungimento del terreno è normale, è soltanto temporanea e, nel caso l’emungimento manca oppure è rallentato, provoca fenomeni di asfissia radicale per

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insufficiente aerazione, ritardi di molte attività batteriche favorevoli alla vegetazione (nitrificazione, fissazione dell’azoto).

Fig. 16 – Quote di acqua disponibile in un terreno limo-argilloso ed in un terreno sabbioso.

Le misure dirette della quantità di acqua trattenuta dal terreno sono spesso imprecise e non ripetitive per le note variazioni verticali dell’acqua nel terreno bagnato per eccesso. Infatti, negli strati superiori della colonna di terra, le particelle sono circondate da pellicole liquide meno spesse di quelle degli strati inferiori, dove può anche raggiungersi la capacità assoluta o di saturazione.

Le differenze sono cospicue nei terreni sabbiosi (come si può osservare nella tabella 23) e lievi in quelli argillosi.

Tab. 23 – Percentuale di acqua trattenuta da colonne di terreno, di varia altezza, nella loro parte alta e bassa.

Altezza della colonna di terreno (m) In alto In basso0,33 29,0 45,00,26 32,0 45,00,19 37,0 45,0

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127 Il terreno

La quota ottimale di acqua nel terreno per lo sviluppo delle piante può ritenersi pari al 40-50% della capacità idrica assoluta.

CONTRAZIONE ED ESPANSIONE O RIGONFIAMENTO

E’ la proprietà fisica per la quale un terreno manifesta l’attitudine a contrarsi ed espandersi a seguito della perdita ed assunzione di acqua, rispettivamente.

Più un terreno ha attitudine a ritenere e, conseguentemente, a perdere le più grandi quantità di acqua, più esso è in grado di subire forti espansioni e contrazioni.

Ciò avviene a seguito della rottura dei legami fra le particelle terrose e successivo loro distanziamento (espansione) o dell’instaurarsi di stretti legami tra gli elementi del suolo (contrazione).

I legami tra le particelle di terreno possono essere spezzati e determinare espansione, non solo per via fisica, come accade quando l’acqua penetra nel suolo, ma anche meccanicamente.

Le lavorazioni del terreno, infatti, causano espansione. Anche forze interne al suolo, come le tensioni che insorgono quando l’acqua giunge non uniformemente, la dilatazione termica e la solidificazione dei liquidi contenuti sono in grado di allontanare le particelle terrose e causare grandi espansioni volumiche.

Esaminando la costituzione del suolo, più le particelle sono di piccolo diametro, fino alle dimensioni ultramicroscopiche, come quelle degli elementi colloidali, più elevata è la quantità di acqua che esse sono in grado di assumere e, quindi, di perdere.

Tali particelle elementari (ad esempio le particelle argillose) sono costituite da un doppio strato superficiale, detto doppio strato elettrico.

Questo doppio strato è formato da un primo strato di cationi a diretto contatto con la superficie argillosa, detto strato di Stern, e da un secondo strato di altri cationi, più distanti, formanti lo strato diffuso o di Gouy.

Il doppio strato elettrico è costituito da cationi che si circondano di membrane acquose, di spessore più elevato quanto più ridotto è il loro diametro e più elevata è la loro carica. Tali cationi sono in grado di condensare vapore quando esposti in ambiente umido.

Da qui deriva la capacità delle particelle elementari ad assumere acqua in quantità dipendente dalla natura dello strato cationico esterno e tale idratazione decresce passando dal litio, al sodio, al potassio, al rubidio ed al cesio, per quanto attiene gli ioni di metalli alcalini, e dal magnesio, al calcio, allo stronzio ed al bario, per gli ioni dei metalli terroso-alcalini.

Se si prepara, mediante un procedimento opportuno, un terreno saturato con un solo catione, si può avere un Na-terreno, un K-terreno, un Mg-terreno, un Ca-terreno ed un H-terreno, aventi ciascuno un’affinità decrescente per l’acqua. In il meno idratato di tutti gli altri suoli saturati con gli altri ioni monovalenti e bivalenti. Ne consegue che i terreni che manifestano il maggiore rigonfiamento ed espansione sono quelli argillosi, in particolare quelli le cui argille sono la montmorillonite e l’illite, che sono riccamente dotati anche di ioni sodio i quali, insieme agli ioni idrogeno, tendono a subire la più elevata idratazione.

Studiando più nel dettaglio la dinamica di rigonfiamento dei colloidi del suolo, si rileva che le particelle del terreno secco sono neutre, poiché le loro superfici sono

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neutralizzate dallo strato di cationi adsorbiti e sono fra loro a contatto e tenute insieme dalle forze di coesione.

Se nel terreno secco e coesivo s’immette acqua, le molecole acquose sono attirate dalle pareti solide delle particelle per l’azione di campi elettrostatici (i cui legami, più intensi di quelli di van der Waals, tengono uniti, ad esempio, i foglietti di montmorillonite), la costante dielettrica dell’acqua riduce l’intensità dei legami ionici tra facce e spigoli di cristalli argillosi e la stessa acqua può solubilizzare i materiali di cementazione che tengono uniti gli elementi di argilla (sali solubili in acqua, carbonato di calcio per opera della CO2 disciolta).

Tutte queste variazioni di legame, di tipo statistico e non statico, perché la loro frequenza varia con continuità, riducono la coesione della massa colloidale ed il terreno si presenta meno rigido e più plastico.

Le prime quantità di acqua che giungono sul terreno vengono subito adsorbite alla superficie delle particelle terrose, con maggiore velocità ed intensità laddove più intense sono le cariche elettriche. Le particelle del suolo vengono, così, avvolte con una pellicola di liquido entro la quale si instaura un doppio strato elettrico.

Le ulteriori aggiunte idriche causano un graduale ispessimento della pellicola liquida e permettono l’estendersi del doppio strato elettrico, fin quando si costituisce un piano di slittamento (un piano ideale che separa il liquido aderente al solido dal liquido trascinato dalla corrente idrica) dotato di un potenziale zeta (corrispondente al potenziale della superficie solida, fatto uguale a zero quello all’interno del liquido) oltre il quale l’acqua che si accumula è libera di migrare ed allontanarsi.

Abbondanti quantità d’acqua consentono lo sviluppo completo del doppio strato elettrico e le pellicole liquide di due particelle argillose vicine confluiscono e riempiono tutto lo spazio disponibile, venendo ad esercitare una pressione che tende ad allontanare le stesse particelle. Inoltre, i campi di forza dei doppi strati elettrici, riguardanti le due particelle, interferiscono reciprocamente a causa della variazione della concentrazione dei cationi al centro tra le due particelle.

La concentrazione cationica, inoltre, diminuisce sempre più, man mano che le particelle si allontanano (figura 17).

I cationi e gli anioni hanno concentrazioni dipendenti dalla distanza delle pareti delle particelle argillose. La legge d’azione di massa di Guldberg e Waage stabilisce che il rapporto tra il prodotto delle concentrazioni di cationi (c) ed anioni (a) e la concentrazione delle molecole indissociate (m) è una costante (costante di dissociazione K) dipendente dalla sostanza chimica e dalla temperatura. La relazione che definisce questa legge è la seguente:

[c] ⋅ [a] = K ⋅ [m]

Le molecole indissociate non subiscono l’influenza dei campi elettrici delle pareti e la loro concentrazione è uguale in tutti i punti del liquido. Le concentrazioni, in peso equivalente, degli anioni e dei cationi sono uguali tra loro soltanto lontano dalle pareti dove è verificata la relazione:

[c] = [a] = [i]

dove i sono gli ioni di un dato segno lontano da ogni interfaccia.

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129 Il terreno

Fig. 17 – Schema dell’interazione tra doppi strati di particelle, sufficientemente ravvicinate tra loro.

Presso una parete negativa si avrà un aumento di cationi (∆c) ed una diminuzione di anioni (-∆a), ossia:

[c] = [i] + ∆c

e

[a] = [i] – ∆a

ed applicando la precedente equazione nelle vicinanze della parete si ottiene:

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Fiume Francesco 130

([i] + ∆c) ([i] – ∆a) = K ⋅ [m]

e lontano dalla parete, dove le concentrazioni anioniche e cationiche sono uguali in tutti i punti e, pertanto, l’aumento o la diminuzione di cationi ed anioni è nulla (∆c = ∆a = 0), si ha:

[i]2 = K ⋅ [m]

perciò complessivamente si ottiene:

([i] + ∆c) ([i] – ∆a) = K ⋅ [m]

[i]2 = K ⋅ [m]

([i] + ∆c) ([i] – ∆a) = [i]2

e risolvendo:

[i]2 – [i] ⋅∆a + [i] ⋅∆c – ∆c ⋅ ∆a = [i]2

[i] ⋅∆c – [i] ⋅∆a = ∆c ⋅ ∆a

[i] ⋅(∆c – ∆a) = ∆c ⋅ ∆a

si ricava:

∆c ⋅ ∆a∆c – ∆a = > 0

[i]

La differenza di concentrazione complessiva ∆Σ tra un punto entro il doppio strato elettrico ed uno all’interno dell’acqua circolante è data dalla differenza tra le concentrazioni delle molecole indissociate, più la somma delle concentrazioni dei cationi ed anioni nei due punti, ricordando che nella soluzione circolante ∆c = ∆a = 0.

Pertanto:

∆Σ = ( [m] + [c] + [a] ) – ( [m] + [c] + [a] )

∆Σ = {[m] + ( [i] + ∆c ) + ( [i] – ∆a)} – {[m] + ( [i] + 0 ) + ( [i] - 0 )}

∆Σ = {[m] + ( [i] + ∆c ) + ( [i] – ∆a)} – {[m] + [i] + [i]}

∆Σ = ∆c – ∆a

e siccome

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131 Il terreno

(∆c – ∆a) > 0

anche

∆Σ > 0

e, pertanto, la concentrazione complessiva, entro il doppio strato elettrico, è maggiore di quella all’interno della soluzione circolante.

Tale differenza di concentrazione dovrebbe richiamare acqua verso il doppio strato, per pressione osmotica (l’acqua si porta dai punti a minore concentrazione verso quelli a maggiore concentrazione, fino all’isotonicità), ma ciò non avviene per l’opposizione del campo elettrico e perché ciò comporterebbe una diluizione degli ioni del doppio strato ed il loro allontanamento dalla parete della particella terrosa. Invece, nella parte centrale tra i doppi strati di due particelle vicine, l’intensità del campo elettrico si annulla, perciò nulla si oppone al richiamo osmotico dell’acqua che esercita, così, una pressione contro le due pareti.

E’ possibile anche calcolare il valore di questa pressione π0, espressa in bar, in base alla seguente relazione:

Kπ0 = RTC = ————

z2 ⋅ s2

dove R è la costante dei gas, T la temperatura assoluta, C la concentrazione del liquido al punto di mezzo tra le particelle, K una costante pari a 0,88 ⋅ 10–12, z la valenza degli ioni ed s la distanza tra le pareti in centimetri.

In conformità a quanto esposto, l’acqua, che assorbe un corpo poroso non rigido come il terreno, fa aumentare sempre più la distanza fra le particelle del suolo, man mano che procede l’assorbimento.

Ciò è tanto più evidente quanto più piccole sono le particelle (maggiore superficie della massa), a parità di qualità delle superfici, degli ioni e delle soluzioni, realizzandosi, così, il fenomeno del rigonfiamento e dell’espansione del suolo. Il fenomeno inverso, per perdita d’acqua, è la contrazione, la quale si rende evidente in un campo con la crepacciatura fine e grossolana.

L’entità della contrazione, che subisce un terreno argilloso per perdita d’acqua, dipende dalla quantità di liquido che ha rigonfiato le argille del suolo all’inizio del fenomeno e dallo stato d’aggregazione. La contrazione raggiunge i massimi valori quando il contenuto d’acqua è massimo e quando le particelle elementari sono singole, o formanti aggregati molto piccoli.

La contrazione totale del volume del terreno comprende una contrazione principale ed una contrazione residuale.

La prima, d’entità molto evidente, si manifesta con lo stesso andamento della perdita d’acqua, fino alla comparsa degli spazi interstiziali.

La seconda si manifesta successivamente, avviene fino all’essiccamento del terreno ed è connessa allo stato (gel e sol) delle particelle colloidali.

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Fiume Francesco 132

Tali particelle, se si trovano allo stato di gel, oppongono notevole resistenza alla contrazione.

In terreni con materiali privi di colloidi allo stato di gel, la contrazione accade mentre avviene la perdita d’acqua, fino al momento in cui le particelle vengono reciprocamente a contatto.

Dall’esame della tabella 24 risulta che la contrazione residuale è nulla nel caolino ed è massima nei terreni torbosi.

Tab. 24 – Contrazione totale e residuale di alcuni terreni e substrati.

Terreni e substrati Contrazione (%)Totale Residuale

Argilla pura 130,0 8,6Caolino 30,0 0,0Terreno argilloso 67,5 7,5Terreno argilloso (strato inerte) 34,0 2,0Terreno comune 37,0 10,3Terreno limoso 21,0 2,2Terreno sabbioso 9,5 2,6Terreno torboso 85,5 18,2

Un terreno che si rigonfia e si contrae eccessivamente ha scarso valore agronomico a causa della ridotta tendenza ad andare in tempera e, quindi, della difficoltà ad essere lavorato, della facilità con cui si formano pantani ed acquitrini, delle caratteristiche asfittiche, legate al fatto che gli spazi vuoti sono, di solito, pieni d’acqua e poveri d’aria, della mancanza d’acqua al sopraggiungere delle prime giornate asciutte primaverili.

Infine, la contrazione ed il rigonfiamento del terreno inducono il fenomeno del crepacciamento che può causare danni per lacerazione alle radici delle piante ed aumentare le perdite d’acqua per evaporazione profonda. La modificazione e la periodica variazione del volume del suolo, tuttavia, come già riferito, migliorano la circolazione dell’aria e l’infiltrazione dell’acqua, attenuando le conseguenze dell’impermeabilità, tipica caratteristica dei terreni molto argillosi.

Per evitare o ridurre la formazione dei crepacci basta mettere in atto quelle tecniche che riducono l’evaporazione di un terreno, prime fra tutte le lavorazioni superficiali del terreno (sarchiature).

CAPILLARITÀ

Nel terreno è possibile distinguere l’acqua gravitazionale, soggetta alla forza di gravità, l’acqua igroscopica legata fisicamente ai colloidi o appartenente ai reticoli cristallini dell’argilla, e l’acqua capillare che aderisce alle particelle di maggiore finezza

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133 Il terreno

e si sottrae, in virtù delle azioni capillari o superficiali, all’azione dei campi gravitazionali normali ma non di quelli più intensi.

Naturalmente, la distinzione ha carattere sperimentale ed approssimato ed è molto utile ai fini pratici, anche se non del tutto rigorosa da un punto di vista fisico.

I rapporti fisici tra il terreno e l’acqua capillare sono correlati alle azioni di capillarità, in relazione al fatto che il sistema poroso dello stesso terreno si può assimilare ad un fascio di tubi capillari, nei quali l’acqua è contenuta e si muove secondo le leggi della fisica.

Tuttavia, questi ipotetici tubi capillari assumono forme e dimensioni molto diverse, in rapporto alla grandezza delle particelle di terreno ed al contenuto d’acqua . In dipendenza di questa variabilità molto dinamica, si viene a determinare la forma, lo stato ed il movimento dell’acqua nel terreno.

Un liquido, che possiede una tensione superficiale s, che è posto in un tubo capillare di raggio r, la cui aderenza alle pareti dello stesso tubo si realizza con un angolo di contatto α, presenta un’ascensione capillare C, determinata dalla seguente espressione:

2 s C = —— cos α

r

L’ascensione capillare può essere positiva o negativa a seconda che il liquido bagni il tubo (menisco concavo, in cui α è maggiore di zero), come nel caso dell’acqua, oppure non bagni il tubo (menisco convesso, in cui α è minore di zero), come nel caso del mercurio.

Nei rapporti fra acqua e terreno, l’angolo α è, in pratica, uguale a zero e, pertanto, cos α = 1.

Il valore 2s, nel caso dell’acqua a temperatura ordinaria, è pari a 0,15. Perciò, l’ascensione capillare è data dalla seguente relazione semplificata:

0,15C = ——

r

In base a questa espressione, l’ascensione capillare dell’acqua, in un tubo capillare di 0,01 cm, nelle condizioni standardizzate sopra definite, è dell’ordine di 15 cm.

Se si opera su un terreno convenzionale, con particelle tutte dello stesso diametro, l’espressione precedente è verificata con sufficiente approssimazione.

La stessa relazione può offrire un indice o una misura approssimata del diametro degli spazi interstiziali del terreno, quando dello stesso è stata misurata l’ascensione capillare.

Nella realtà le cose non vanno proprio in questo modo, sia per la variabilità della forma e misura degli spazi vuoti, sia per il contenuto in acqua del terreno, poiché l’acqua capillare occupa una parte dei pori ed il diametro e la curvatura dei menischi concavi mutano col variare del contenuto idrico nella zona capillare (figura 18).

La reale risalita capillare, che si riscontra in un terreno, può essere calcolata col metodo termodinamico quando è nota l’isoterma di tensione del vapore acqueo nel suolo, per differenti livelli quantitativi d’acqua.

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Fiume Francesco 134

Fig. 18 – Rappresentazione schematica della variazione della curvatura dei menischi al variare dell’acqua capillare, nell’ambito della zona di capillarità del terreno.

Si ottengono valori d’ascensione capillare che indicano, ad un certo livello d’acqua nel terreno, il diametro effettivo dei meati responsabili del movimento capillare dell’acqua e la curvatura concava dei menischi negli stessi meati costituenti ipotetici tubi capillari.

Normalmente, si pone l’ascesa capillare unicamente in rapporto con il diametro dei pori della zona capillare del terreno e si trascura l’azione della curvatura dei menischi. In relazione a ciò, è facile comprendere che il movimento dell’acqua, dovuto alla capillarità, è un fenomeno che nella realtà è quantitativamente superiore a quello che risulta dalla formula prima riportata e che, dalle considerazioni sulla dinamica dei fluidi, il fatto fisico qui esaminato, non è pari, per importanza, ad i reali eventi che avvengono nel terreno.

Se il modo di comportamento dell’acqua nei confronti dei capillari si pone in rapporto con alcuni parametri fisici del liquido – come la tensione di vapore, il punto crioscopico, la curvatura dei menischi – diventa possibile evidenziare una rappresentazione più completa e meglio adeguata alla realtà dei fenomeni di capillarità del terreno.

E’ possibile, pertanto, definire un potenziale capillare dell’acqua nel suolo con una funzione le cui variazioni possono esprimere i cambiamenti di energia libera, in conseguenza delle modificazioni di risalita capillare dell’acqua nel terreno.

Il potenziale capillare e le variazioni di energia libera relative non sono misurati direttamente, poiché sono note le correlazioni tra queste funzioni e la tensione di vapore acqueo nel terreno, per differenti quote di umidità, ed il punto di congelamento dell’acqua nel terreno. E’ sufficiente, in pratica, osservare che dall’isoterma delle tensioni del vapore acqueo sul terreno e dalla curva dei punti crioscopici si può risalire ai potenziali capillari ed ai potenziali delle variazioni di energia libera corrispondenti.

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135 Il terreno

Il logaritmo del potenziale capillare, indicato come pF, coincide praticamente, nella maggior parte dei casi, con la variazione di energia libera espressa in centimetri di acqua. L’adozione di questa scala, pur senza avere vantaggi sostanziali, consente di misurare, su una scala numerica più ravvicinata, le variazioni dell’ascensione capillare nei diversi terreni e per diversi tenori di umidità. Un terreno seccato in stufa fa registrare un’ascensione capillare di 1 · 107 cm (pari a 100 km), cui corrisponde il valore 7 di pF, mentre il terreno con il 50% di umidità relativa presenta un valore 10 volte inferiore (pari a 1 · 106 cm), cui corrisponde il valore 6 della funzione pF. Al punto di appassimento corrisponde un valore di pF intorno a 4,2. Nel terreno saturo d’acqua si registra pF = 0.

Nella figura 19 sono indicate le correlazioni tra il contenuto idrico, i valori di pF e la distribuzione dell’acqua, nelle sue diverse forme, in un terreno sabbioso ed in un terreno argilloso.

Una tecnica che permette di misurare l’energia, con la quale l’acqua è trattenuta dalle particelle del terreno e nei suoi pori, consiste nell’esercitare sul terreno umido un’aspirazione equivalente ad una pressione che è espressa in atmosfere. Un’atmosfera corrisponde alla pressione in equilibrio con una colonna d’acqua alta circa 10 m, precisamente pari a 1033 cm.

Fig. 19 – Correlazioni tra il contenuto di acqua, nelle sue diverse forme (igroscopica, capillare e gravitazionale), i valori del pF ed il tenore in acqua in un terreno sabbioso ed argilloso.

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Fiume Francesco 136

In tali misurazioni è uso riferirsi ai centimetri della colonna d’acqua e, per semplificarne l’espressione, si esprime il logaritmo di questa tensione, o potenziale capillare (pF), che si riferisce all’altezza in centimetri della colonna d’acqua equivalente alla pressione esercitata. Ne consegue che ad un’altezza di 10 cm (uguale a 101 cm) corrisponde un pF 1, pari ad 1/100 di atmosfera; a 100 cm (uguale a 102 cm) corrisponde un pF 2, pari a 1/10 di atmosfera; a 1000 cm (103 cm ), pF 3 uguale a 1 atmosfera; a 10000 cm (104 ), pF 4, 10 atm; a 100000 (105 ), pF 5, 100 atm e così via.

Il volume V di acqua (o di un qualunque liquido) che defluisce, nell’unità di tempo (portata), attraverso un capillare di raggio r è dato dalla seguente relazione:

πpr4

V = ——— 8lz

dove l è la lunghezza del capillare, p è la pressione del liquido e z la sua vischiosità. Dalla formula emerge che la portata, cioè la velocità d’efflusso dell’acqua, è

proporzionale alla quarta potenza del raggio del capillare. Si desume che l’acqua si muove nel terreno con velocità più elevata quanto più il terreno (intriso di acqua) può offrire, al passaggio del liquido, i pori di maggiori dimensioni. Man mano che la quantità di acqua nel terreno, riducendosi, va ad occupare i pori sempre più piccoli, la velocità di movimento dell’acqua capillare residua assume valori sempre più piccoli, fino a diventare trascurabili. Nella tabella 25 sono riportati i valori di ascensione capillare e di velocità di deflusso dell’acqua.

Tab. 25 – Ascensione capillare e velocità di deflusso dell’acqua capillare in alcuni tipi di terreno, con differenti quote di umidità.

Tipo di terreno Umidità del terreno riferita al secco (%)

Ascensione capillare (cm di acqua)

Velocità di deflusso (conduttività / 1011 s) *

Terreno sabbioso 13,0 20,3 930,006,3 138,0 16,405,4 243,3 6,96

Limo 34,0 32,1 342,0022,4 161,0 310,0019,9 248,0 257,0017,2 393,0 178,0015,4 597,0 72,70

Argilla 63,3 14,3 460,0059,0 27,1 135,0042,0 149,0 3,29

* La conduttività capillare unitaria è l’acqua che passa attraverso una sezione di terreno di 1 cm2, in un secondo, sotto la pressione di una dina.

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137 Il terreno

Da un punto di vista idrostatico, la risalita capillare dell’acqua può raggiungere centinaia di metri. Sotto l’aspetto idrodinamico, i movimenti dell’acqua nel terreno, che diventa sempre più asciutto, sono talmente lenti da risultare quasi inapprezzabili.

La granulometria del terreno gioca un ruolo molto importante nella determinazione dei valori di ascesa capillare e della corrispondente velocità di questo tipo di movimenti dell’acqua.

La figura 20 completa i dati della tabella 25 ed offre un’immagine assai chiara delle correlazioni tra le dimensioni delle particelle del suolo e la capillarità di un terreno.

Fig. 20 – Relazioni tra le dimensioni delle particelle di terreno, i valori delle ascensioni capillari e la velocità del movimento idrico di capillarità.

In particolare, l’esame della tabella 25 e della figura 20 consente di comprendere perché uno strato di sabbia, interposto tra due strati di terreno, interrompe la continuità

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capillare ed il motivo per il quale, un leggero strato superficiale di terreno secco si oppone all’evaporazione dell’acqua contenuta negli strati sottostanti, unicamente per un fenomeno di discontinuità capillare.

La capillarità rappresenta un’importante caratteristica di un terreno ai fini dell’alimentazione idrica delle piante, poiché le falde freatiche sotterranee, quando si trovano alla profondità di qualche metro, rappresentano una fonte di acqua che – per ascensione capillare, dalla falda muove verso la superficie, attraverso i meati maggiori –riesce a muoversi ed a circolare con sufficiente velocità. Per maggiori profondità della falda acquifera, il flusso idrico capillare è in grado di raggiungere la rizosfera delle piante soltanto attraverso i pori di dimensioni minori ed in momenti di aridità, essendo del tutto inadeguato alle necessità della coltura e, pertanto, di scarsa importanza da un punto di vista agronomico, particolarmente quando le piante presentano un apparato radicale superficiale. Colture arboree ed anche piante erbacee, con apparato radicale profondo, possono spingere le proprie radici fino a raggiungere lo strato di terreno interessato da una più intensa e veloce ascesa capillare dell’acqua di falda.

La capillarità di un terreno ha effetti anche sulle acque di percolazione. Infatti, se un terreno viene saturato d’acqua, a seguito di copiose irrigazioni o per piogge intense e prolungate, il deflusso dell’acqua di drenaggio attraverso i pori capillari di maggior dimensione, espressa in misura dell’altezza, è dell’ordine di un centimetro nelle prime 20-24 ore. Poi, la quantità di acqua di percolazione si riduce a frazioni di millimetro per giorno e per più giorni successivi, con un enorme rallentamento del movimento idrico, in relazione al fatto che l’acqua capillare è costretta a circolare nei pori più piccoli e di minima dimensione.

Nei terreni argillosi e compatti, l’eccesso idrico, determinato dall’acqua che si sottrae all’azione della forza di gravità e persiste nel terreno per diversi giorni, causa asfissia e marciumi radicali delle piante coltivate e riduce, pertanto, la produttività di siffatti terreni.

Nei terreni ricchi in materia organica, meno argillosi, più soffici e sciolti, l’acqua sottratta alla percolazione rappresenta una riserva idrica utile alle colture e migliora la produttività dei terreni in maniera soddisfacente.

La capillarità influenza anche le perdite di acqua del terreno per evaporazione. Il processo evaporativo, com’è noto, è regolato dal margine di saturazione dell’aria atmosferica e dalla quantità di calore che affluisce sulla superficie d’evaporazione. Lo strato di terreno secco, che si forma sulla superficie, causa un notevole rallentamento del flusso dell’acqua di capillarità proveniente dagli strati sottostanti e le perdite di evaporazione si riducono notevolmente, per difetto d’alimentazione dello strato secco superficiale. Così, nei periodi piovosi, il terreno risulta bagnato in superficie ed in profondità e le perdite giornaliere per evaporazione sono costanti e continue e dipendono soltanto dal grado di saturazione dell’atmosfera. Durante l’estate ed in generale nei periodi siccitosi, le perdite giornaliere per evaporazione dipendono, principalmente, dall’andamento pluviometrico che induce il terreno a perdere, o meno, acqua per evaporazione.

L’acqua capillare determina riflessi agronomici d’ampia portata e la forza, con la quale essa è trattenuta dal terreno, è valutata fra 1/3 di atmosfera e 31 atmosfere, corrispondenti a valori di pF di circa 2,7, terreno al limite della saturazione capillare, e di 4,2, terreno nel quale l’acqua capillare resiste alla gravità e che ha raggiunto il punto d’appassimento delle piante. Fra questi due limiti si colloca l’umidità ottimale di un terreno agrario. Valori del pF, che si collocano intorno a 2,7, comportano una presenza d’acqua nel terreno eccedente rispetto ai bisogni fisiologici delle piante, perché viene

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esclusa l’aria e, quindi, l’ossigeno, con conseguente instaurazione nel terreno di caratteristiche asfittiche. Valori del pF dell’ordine di grandezza di 4,2 corrispondono al punto d’appassimento delle piante e fanno attribuire all’acqua capillare un valore fisiologico praticamente ininfluente, con possibilità d’appassimento prima e d’avvizzimento poi delle piante coltivate.

Le azioni capillari, che si stabiliscono tra l’acqua ed il terreno, rallentano i movimenti idrici poco prima di giungere al punto d’appassimento. Risulta, pertanto, evidente il contributo prezioso che la capillarità fornisce al terreno nella conservazione della riserva idrica stagionale o annuale.

Il confronto del comportamento agronomico, rispetto all’acqua di una sabbia grossolana e di un limo fine (figura 21), conferma l’importanza della capillarità del terreno. Questa arreca un gran beneficio all’alimentazione idrica delle piante ed alla conservazione e regolamentazione del patrimonio d’acqua del suolo.

Fig. 21 – Dimostrazione dell’effetto della granulometria sull’ascensione idrica capillare. Si riempiono tubi di vetro, ognuno con terra costituita da particelle di diametro omogeneo, ma differente dagli altri. I tubi s’immergono, capovolti e per le loro estremità, in un recipiente pieno d’acqua. Si osserva, col tempo, la massima risalita d’acqua nel tubo provvisto di particelle terrose di minori dimensioni.

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L’effetto della capillarità aumenta col diminuire delle dimensioni delle particelle terrose. In terreni argillosi, pertanto, si hanno notevoli spostamenti ma molto lenti, mentre in terreni sabbiosi gli spostamenti sono piccoli ma molto rapidi. I componenti colloidali del terreno intervengono ad alterare profondamente il fenomeno, ulteriormente complicato ed ostacolato dalla tessitura eterogenea dei terreni e dalle screpolature o fessurazioni che li attraversano.

Ciò accade, con tanto maggiore frequenza, quanto più i suoli sono compatti ed aridi.

Cosicché, nella realtà, in un terreno argilloso, in cui l’ascensione capillare può teoricamente raggiungere i due metri di spostamento, le acque poste anche ad un solo metro di profondità non recano alcun reale vantaggio, in relazione alla gran lentezza del movimento.

Infine, va ricordato che, sulla base dei concetti esposti, l’azione capillare si riscontra anche in direzione laterale come nel caso del drenaggio e dell’irrigazione per infiltrazione.

CAPACITÀ D’EVAPORAZIONE O EVAPORABILITÀ

Per evaporazione s’intende il passaggio di un liquido allo stato di vapore, al disotto della temperatura d’ebollizione.

Il valore medio dell’evaporazione dell’acqua sulla terra, per effetto del calore radiante del sole, è valutato intorno all’ordine di grandezza di 75 cm per anno, corrispondente a 2 mm circa per giorno.

Il valore medio, però, presenta una forte deviazione in rapporto alle regioni territoriali e per l’azione di fattori molto diversi.

Così, nei climi caldo-aridi raggiunge il valore di 6 m l’anno (Egitto, Sudan), nei mari tropicali scende a 2 m, in quelli italiani 0,4-0,6 m, con un massimo di 8 mm giornalieri. La concentrazione salina dell’acqua attenua notevolmente il fenomeno dell’evaporazione.

L’acqua caduta sul terreno nudo, privo di vegetazione, ritorna in buona parte nell’atmosfera, passando allo stato di vapore. Il fenomeno dell’evaporazione è tanto più cospicuo quanto più alta è la temperatura e più basso il grado igrometrico dell’aria, più intensa è l’agitazione dell’aria (vento) e quindi la nitidezza del cielo, minore è la pressione atmosferica.

La capacità d’evaporazione in un terreno è legata al contenuto d’acqua di capillarità ed igroscopica, poiché entrambe le quote d’acqua subiscono gli effetti della tensione superficiale, e non tanto all’acqua gravitazionale o di percolazione, salvo che quest’ultima non ristagni a causa di un drenaggio del terreno inadeguato.

Il grado di secchezza dell’aria gioca un ruolo importante nell’evaporazione dei primi 12-13 mm d’acqua.

L’evaporazione di tale quota d’acqua avviene con gran rapidità e si può ottenere, in estate, in circa 5 giorni.

Si è calcolato che in 6 settimane si ottiene una perdita d’acqua di 25 mm fino ad oltre 30 mm, dal mese di giugno ad agosto.

Poi l’evaporazione diminuisce rapidamente. Tuttavia, se si forma uno strato superficiale di terreno secco, anche di soli 1-2 mm di spessore, la capacità

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d’evaporazione del suolo si riduce fortemente. Ciò non si verifica in laboratorio e di qui le differenze dei risultati ottenuti dalle prove sperimentali condotte in pieno campo.

L’evaporazione di un terreno dipende dal grado di riscaldamento, determinato dalla radiazione solare, e dalla frequenza delle piogge. Nel periodo invernale, l’intensità d’evaporazione dipende dalla quantità d’irraggiamento solare che riceve il terreno e sarà tanto più elevata quanto maggiore è l’insolazione del suolo. Durante l’estate, l’evaporazione è legata alla frequenza ed all’intensità delle piogge, le quali, se sono frequenti ma scarse, subiscono una rapida evaporazione, in relazione al potere disseccante dell’aria. Si è calcolato che piogge di 25 mm, che cadono in un sol giorno, restano nel terreno per oltre il 30% (pari a 7,5 mm) e per dieci giorni dopo l’evento piovoso. Della stessa quantità di pioggia, distribuita in 5 giorni consecutivi (pari a 5 mm giornalieri), ne rimane nel terreno, dopo 10 giorni dall’ultima precipitazione, soltanto 8-9 mm, pari al 32-36%.

Nella tabella 26 sono riportati i valori misurati dell’evaporazione dell’acqua, in funzione della temperatura media, con un’umidità dell’aria di 85%, ed in funzione dell’umidità dell’aria, alla temperatura di 17 °C.

Tab. 26 – Evaporazione dell’acqua in funzione della temperatura media e dell’umidità dell’aria.

Temperatura media (°C)

Evaporazione mm

Umidità dell’aria (%)

Evaporazione mm

11 0,24 75 0,9312 0,40 79 0,6217 0,50 89 0,3822 0,58 91 0,25

I movimenti dell’aria influiscono sull’evaporazione del suolo, in rapporto alla velocità. All’aumentare della velocità del vento si ha un incremento dell’evaporazione. Anche l’illuminazione che riceve il terreno, le caratteristiche fondamentali del suolo, come la granulometria, la struttura, il colore ed alcuni interventi antropici, come le lavorazioni, agiscono sull’evaporazione che si verifica in un terreno (tabella 27).

Tab. 27 – Capacità d’evaporazione dell’acqua, in alcuni tipi di terreno, in funzione della velocità del vento.

Tipi di terreno Velocità del vento0 m/s 3 m/s 6 m/s 9 m/s 12 m/s

Sabbioso 0,23 3,03 4,57 5,50 6,43Limoso (limo in grumi) 0,31 2,70 4,50 6,23 7,80Limoso (limo in polvere) 0,49 2,93 4,83 6,27 7,90

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Anche l’inclinazione con cui il vento colpisce il terreno influenza la quantità d’acqua in grado d’evaporare. Infatti, il flusso d’evaporazione s’incrementa man mano che la direzione del vento è meno parallela alla superficie del terreno (tabella 28).

Tab. 28 – Evaporazione dell’acqua, in funzione della velocità del vento e della inclinazione con cui impatta su una colonna di sabbia alta 10 cm, della superficie di 10 cm2 e mantenuta alla temperatura di 16-17 °C.

Inclinazione del vento Velocità del vento 3 m/s 6 m/s 9 m/s 13 m/s

0° (vento orizzontale) 3,93 6,07 7,77 9,0330° (vento inclinato) 5,00 7,37 9,50 11,87

Il grado d’umidità del vento influenza l’evaporazione del terreno: passando dall’esposizione ad un vento umido a quella ad un vento secco, la capacità evaporante del suolo aumenta. Nella tabella 29 è riportata la quantità d’acqua evaporata, espressa in grammi per 100 cm2 di terreno e per un’ora, in funzione dell’umidità dell’aria (vento umido e secco), per tre tipi di terreno. I valori più alti si riscontrano per il terreno sabbioso. Dei due terreni limosi, quello con limo in polvere mostra valori più elevati e le differenze sarebbero state ancora più marcate se le temperature, alle quali i rilievi sono stati eseguiti, avessero avuto gli stessi valori del terreno con limo in grumi.

Tab. 29 – Evaporazione dell’acqua, in funzione dell’umidità del vento, in tre tipi di terreno.

Tipo di terreno Temperatura dell’aria( °C)

Evaporazione dell’acqua (g/100 cm2/h)

Vento umido Vento secco Vento umido Vento seccoSabbioso 18,4 18,0 5,7 9,7Limoso (limo in grumi) 20,4 20,0 4,7 9,0Limoso (limo in polvere) 16,8 16,8 4,8 9,2

L’evaporazione del terreno viene condizionata anche dalla temperatura dell’aria, nel senso che essa subisce degli incrementi all’aumentare dei valori termici del vento (vento freddo e vento caldo).

La tabella 30 riporta la misura della quantità d’evaporato idrico, espresso in grammi per 100 cm2 e per un’ora, in due tipi di terreno, in funzione della temperatura del vento. I valori più elevati dell’evaporazione sono evidenti per il terreno con sabbia quarzosa.

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Tab. 30 – Evaporazione dell’acqua, in funzione della temperatura dell’aria, in due tipi di terreno.

Tipo di terreno Temperatura dell’aria (°C) Evaporazione dell’acqua (g/100 cm2/h)Vento freddo Vento caldo Vento freddo Vento caldo

Sabbia quarzosa 12,1 40,0 6,8 21,4Sabbia calcarea 14,0 40,2 6,2 20,3

L’illuminazione solare influenza significativamente l’evaporazione del terreno. Nella tabella 31 sono riportati i valori d’evaporato d’acqua, espressi in grammi per 100 cm2 di superficie del terreno provvisto di un contenuto d’umidità pari al 20%, 40% e 60% della completa saturazione idrica. La tabella mostra che quando un terreno riceve un incremento d’intensità luminosa, l’evaporazione aumenta, a parità di contenuto d’umidità del suolo.

Tab. 31 – Evaporazione dell’acqua, espressa in g/100cm2, in funzione dell’intensità d’illuminazione solare di tre terreni, con differente saturazione idrica.

In suoli con elevata salinità si verifica una minore evaporazione, poiché questa diminuisce con l’aumentare della concentrazione salina nel liquido.

Nei terreni argillosi, per l’esistenza di fessurazione, l’evaporazione tende ad aumentare e ad interessare anche gli strati più profondi.

La rottura della crosta superficiale (operata mediante zappature e sarchiature) determina la chiusura delle crepe e realizza la difesa dell’umidità del suolo, anche in rapporto al fatto che la creazione dello strato incoerente superficiale, per la rottura dei sottilissimi canali (capillari), riduce notevolmente l’ascesa dell’acqua per capillarità, dagli strati più profondi. Ciò è valido anche per quelle fessure non molto profonde che si determinano in terreni non spiccatamente argillosi, dopo gli interventi d’irrigazione.

Sull’evaporazione del terreno influisce la natura delle rocce, l’inclinazione e l’orientamento. Un terreno argilloso, con forte inclinazione e male esposto, è soggetto ad una più ridotta evaporazione, rispetto ad un terreno pianeggiante, permeabile e sabbioso, a meno dell’esistenza di profonde e vaste spaccature e fessurazioni.

La sabbia perde più facilmente acqua per evaporazione, mentre, al contrario, la

Umidità del terreno Evaporazione dell’acqua (g/100 cm2 )(% della saturazione idrica) Illuminazione

elevataIlluminazione

intermediaIlluminazione

bassa20 293 239 22040 478 415 33860 793 667 542

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torba ne perde con gran difficoltà. Nella tabella 32 sono indicate le perdite d’acqua per evaporazione, espresse in grammi per 100 cm2 di superficie e per giorno (g/100 cm2/d), da parte di terreni con due differenti inclinazioni e con esposizione variabile.

Tab. 32 – Effetto dell’inclinazione e dell’esposizione del terreno sulla quantità d’acqua evaporata.

La perdita idrica per evaporazione di un terreno è più cospicua di quella di una stessa superficie libera d’acqua, a causa della maggiore area evaporante. Il mancato beneficio per la vegetazione a seguito di tale perdita è molto grave, al punto che, se non è efficacemente contrastata, l’evaporazione equivale, per i suoi effetti, ad una diminuzione dell’altezza pluviometrica e, quindi, ad un declassamento climatico.

Per la stessa altezza pluviometrica annuale, pertanto, una regione può essere considerata, da un punto di vista agrario, come arida, se l’evaporazione assume valori eccessivamente alti, oppure persino umida se l’evaporazione è piuttosto ridotta o debole.

L’impiego di tecniche e di metodiche aventi lo scopo di contrastare l’evaporazione del terreno è oggetto di studio dell’aridocoltura, che è una vera e propria disciplina, una branca della scienza agronomica tra le più interessanti e vitali, la cui conoscenza ed applicazione può agevolare la sopravvivenza di alcune popolazioni della terra.

Le lavorazioni del terreno hanno anch’esse un effetto notevole sull’evaporazione di un terreno. Arature profonde di terreni che poggiano su sottosuoli impermeabili inducono un incremento della dotazione idrica del suolo, mentre le lavorazioni superficiali conseguono l’effetto di tamponare l’evaporazione, poiché interrompono la continuità capillare e, quindi, la risalita dell’acqua di capillarità. Le operazioni di sarchiatura e di diserbo, eliminando le erbe infestanti, riducono efficacemente le perdite idriche del terreno. Nella tabella 33 è riportato l’effetto dell’aratura sulla quantità d’acqua evaporata, espressa in grammi per 100 cm2 di superficie e per giorno, in due terreni che si differenziano per la quantità della materia organica e che sono stati abbondantemente inumiditi prima della lavorazione.

Tab. 33 – Effetto della lavorazione sulla perdita d’acqua per evaporazione di due terreni, diversi per la quantità di materia organica.

Perdita di acqua per evaporazione

Terreno sabbioso-calcareo-organico Terreno sabbioso-calcareoNon arato Arato Non arato Arato

g/100 per cm2/d 15,45 12,69 16,81 14,19

Valori relativi 100,00 82,10 100,00 84,30

Perdita d’acqua per evaporazione

Inclinazione del terreno di 15° Inclinazione del terreno di 30°Sud Est Ovest Nord Sud Est Ovest Nord

g/100 per cm2/d 5,00 4,31 4,20 3,55 5,47 4,41 4,00 2,88

Valori relativi 100,00 86,20 84,10 70,90 100,00 80,70 73,20 52,70

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145 Il terreno

L’intensità dell’evaporazione subisce un notevole incremento se il terreno è coperto da vegetazione spontanea o coltivata. In tal caso, bisogna aggiungere, alla quota d’acqua evaporata dal terreno, quella di traspirazione emessa dalle piante.

Grande ed imponente è il fenomeno della perdita d’acqua per traspirazione delle piante. E’ stato calcolato che, se si fa uguale a 100 l’acqua evaporata da un terreno senza vegetazione, un suolo coperto da lussureggiante vegetazione dà luogo ad una quantità d’acqua evaporata pari a 242,2.

Spesse volte si attribuisce al potere evaporante dell’aria ed alla forza di traspirazione delle piante lo stesso significato. Questo è un errore perché l’intensità dell’evaporazione non può essere assunta per indicare l’intensità della traspirazione, poiché quest’ultima è in stretto rapporto con le caratteristiche anatomiche e fisiologiche delle piante ed è fortemente influenzata dalla luce.

In presenza d’acqua nel terreno, l’andamento della traspirazione segue quello dell’evaporazione, poiché gli stomi fogliari delle piante sono aperti. Ma quando si determina una carenza idrica, le aperture stomatiche si riducono e la capacità traspirante delle piante diminuisce. Quando gli stomi sono quasi completamente chiusi, non esiste più alcun rapporto fra traspirazione ed evaporazione, essendo la prima controllata quasi completamente dall’apertura stomatica ed avvenendo soltanto in quantità trascurabile attraverso l’epidermide fogliare.

Sulla traspirazione delle piante ed evaporazione del terreno coperto dalla vegetazione, la luce ed il vento agiscono in maniera contraria. La luce aumenta più la traspirazione che l’evaporazione, mentre il movimento dell’aria incrementa maggiormente la perdita d’acqua per evaporazione.

Una popolazione di piante, come quella di un campo coltivato, influenza l’evaporazione in maniera diversa, a seconda dell’altezza raggiunta dalle foglie.

Quando un terreno nudo si ricopre di vegetazione, si verifica una riduzione dell’evaporazione, sia perché si determina una diminuzione della temperatura del terreno per la diminuita insolazione diretta, sia perché si realizza un minor movimento dell’aria a livello della superficie del suolo.

Queste condizioni di prevalenza della traspirazione sull’evaporazione si accentuano sempre più, sia in lungo periodo, perché col passare del tempo s’incrementa l’altezza e lo sviluppo delle piante, ma anche durante il corso della giornata quando il sole, raggiungendo l’altezza zenitale, induce la temperatura a portarsi verso i valori più elevati della giornata e la luce a raggiungere la massima intensità, con la conseguenza che la traspirazione prevale sempre più sull’evaporazione.

Bisogna, tuttavia, tener anche presente che la secchezza dell’atmosfera è molto meno importante dell’aridità del suolo, così come dimostrano quelle piante che, portandosi con le proprie profonde radici nell’intorno umido della falda freatica od assorbendo acqua d’irrigazione, riescono a vivere benissimo anche in condizioni di bassissima umidità dell’aria.

Misura dell’evaporazioneLe misure dell’evaporazione riguardano l’evaporazione delle superfici liquide ed il

potere evaporante dell’atmosfera.L’evaporazione di superfici liquide si misura mediante le vasche evaporimetriche,

vale a dire speciali recipienti che possono essere collocati sopra terra, interrate o galleggianti.

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La vasca normale sopra terra consta di un recipiente di ferro galvanizzato, del diametro di 1,22 m, profondo 0,254 m ed appoggiato su un sostegno di legno in modo che il fondo rimanga a 0,15 m dal suolo. L’acqua riempie la vasca fino a 5 cm dall’orlo ed è immessa non appena il livello diminuisce di 0,025 m. Per la misura dell’evaporazione è usata una vite micrometrica montata su un piccolo supporto.

La vasca interrata è anch’essa in ferro galvanizzato, ha un diametro di 1,83 m ed è profonda 0,610 m, con l’orlo che sporge 0,102 m dal terreno. L’acqua è mantenuta all’incirca al livello del terreno circostante e se il livello differisce per più di 1,27 cm per evaporazione o per precipitazione, si aggiunge o si toglie quest’eccesso per ripristinare il livello voluto. L’evaporazione è misurata con una vite micrometrica montata su un supporto disposto all’esterno della vasca.

La vasca galleggiante è portata da due tubi cilindrici metallici, cosicché galleggia sull’acqua con l’orlo sporgente di 7,6 cm. L’acqua, internamente, è mantenuta allo stesso livello esterno e le onde della vasca sono ridotte mediante diaframmi diagonali in prossimità della superficie, perforati con fori di 2,5 cm. Per proteggerla dalle onde, la vasca è circondata da una zattera su barili, allo scopo di evitarne l’abbassamento nel caso avvenissero delle oscillazioni. L’evaporazione è rilevata misurando la quantità d’acqua necessaria per portare il livello ad un punto fisso, segnato sull’intersezione dei due diaframmi.

L’intensità dell’evaporazione sopra una superficie d’acqua, liberamente esposta, aumenta con la temperatura dell’acqua e con la velocità del vento; al contrario diminuisce quando aumentano l’umidità dell’aria e la pressione barometrica.

La legge di Dalton afferma che la quantità d’acqua evaporata da una superficie unitaria di liquido è proporzionale a F – f, dove F è la tensione massima del vapore d’acqua, corrispondente alla temperatura dell’acqua, e f la tensione del vapore d’acqua esistente sugli strati atmosferici a contatto con il liquido.

Fig. 22 – Atmometro con valvola a mercurio.

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147 Il terreno

Numerosi sono gli esperimenti effettuati nel tentativo di giungere alla determinazione dell’evaporazione mediante formule empiriche, con l’intervento dell’entità di alcuni elementi meteorologici o almeno di quelli che esplicano un’azione preponderante sull’evaporazione.

Il potere evaporante dell’atmosfera è misurato con gli evaporimetri, detti anche atmometri o atmidometri. Il più semplice di questi è costituito da un tubo graduato, in modo che, guardando ad intervalli il livello dell’acqua del tubo, si può dedurre l’intensità dell’evaporazione espressa in millimetri di altezza, analogamente a quanto si ha nelle precipitazioni (figura 22).

Tuttavia, il volume di acqua nel tubo, l’altezza del bordo soprastante alla superficie dell’acqua ed il diametro del tubo esercitano grande influenza sui risultati ottenuti.

Per avere un valore reale, tutti questi apparecchi dovrebbero essere costruiti, installati ed impiegati nell’identica maniera, ciò che raramente avviene.

Un altro apparecchio è l’atmometro di Livingston. Esso è costituito da una sottile sfera di porcellana non verniciata, riempita di acqua

distillata la quale filtra facilmente attraverso le pareti porose ed evapora all’aria. Per mezzo di un tubo di vetro e di un tappo di gomma, la sfera è connessa con un

recipiente e la quantità di liquido perduta per evaporazione è determinata di tanto in tanto, misurando la quantità di acqua necessaria per riempire il recipiente fino ad una linea di riferimento tracciata sul collo, oppure mediante la perdita di peso dell’apparecchio.

L’evaporazione fa risalire facilmente l’acqua dal recipiente entro la sfera, ma quando la superficie esterna di questa è bagnata dalla pioggia, la gravità spingerebbe l’acqua della sfera entro il recipiente e la misura dell’evaporazione, verificatasi in precedenza, sarebbe resa impossibile, se non vi fosse nel tubo di vetro, che pone in comunicazione la sfera di porcellana con il recipiente, uno strato di 5-8 mm di mercurio tenuto in posto da due tamponi di lana.

L’acqua può, così, risalire verso l’alto, tra il mercurio e la parete interna del tubo, ma non riesce a scendere verso il basso, in modo che lo strato di mercurio funziona da valvola regolatrice.

Per determinare i valori dell’evaporazione durante brevi intervalli, l’atmometro può essere connesso ad una buretta che permette di fare le letture ad 1/100 di millimetro.

I dati dell’atmometro sono espressi come perdita d’acqua in millimetri per unità di tempo. Sono quindi utilizzati per paragonare il potere evaporante dell’aria in differenti località ed in diverse epoche.

Dal momento che il potere evaporante dell’aria varia con il variare dell’altezza dalla superficie del suolo, la posizione dello strumento deve essere scelto con cura, avendo riguardo agli obiettivi del problema da risolvere.

IGROSCOPICITÀ

Il terreno presenta la capacità di resistere all’essiccamento ed è in grado di riassorbire dall’aria, dotata di un certo grado igrometrico, l’umidità perduta.

Questo fenomeno è indicato come igroscopicità del terreno ed è comune ad alcuni

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Fiume Francesco 148

sistemi che hanno, con il suolo, analoga costituzione.L’acqua che soggiace a tale comportamento del terreno è, come già riferito in

precedenza, l’acqua igroscopica, cioè la quantità d’acqua riassorbita dal terreno previamente essiccato, a spese dell’umidità dell’atmosfera.

L’acqua igroscopica può facilmente misurarsi, prima essiccando il terreno in stufa e pesandolo e poi ripesandolo, dopo averlo esposto ad un’atmosfera umida. La differenza tra i valori delle due pesate fornisce il valore cercato.

La capacità igroscopica è una proprietà comune a molti colloidi organici ed inorganici, alle fibre cellulosiche ed ad alcune scleroproteine lineari, come le fibre sericee e cheratiniche (capelli, crini). Tali fibre hanno una tale sensibilità nel variare di lunghezza al variare dell’umidità dell’aria, che sono usate proprio per la misura dell’umidità atmosferica negli igrometri a capello.

La capacità igroscopica di un terreno dipende dalla tensione del vapore acqueo che su esso si verifica e dal suo contenuto idrico.

Procedendo all’essiccazione graduale di un terreno umido, la tensione di vapore acqueo, che agisce sullo stesso, non evidenzia variazioni significative, fin quando l’acqua che riempie i pori del terreno non sia esaurita.

Successivamente l’evaporazione del terreno avviene a carico dell’acqua capillare, cioè di quell’acqua che costituisce i veli liquidi avvolgenti le particelle di terreno (menischi convessi), con il predominio delle tensioni superficiali e dei fenomeni di assorbimento igroscopico e di ascensione capillare.

Poi, con il proseguimento dell’essiccazione, il terreno si comporta non più come un sistema di tubi capillari, ma come un sistema cellulare in cui l’evaporazione è alimentata da menischi concavi, la cui curvatura aumenta a misura che progredisce il processo di evaporazione.

Quando i veli liquidi interni sono ridotti a spessori molecolari, le interazioni tra l’acqua e le particelle di terreno perdono il carattere di semplice aderenza, entrano in azione valenze secondarie e legami idrogeno ed i rapporti assumono carattere chimico. Infatti, alle valenze secondarie ed ai legami idrogeno debbono essere attribuite qualità chimiche, anche se hanno un valore energetico inferiore alle valenze chimiche ordinarie.

Infine, in alcuni minerali componenti le particelle argillose del terreno, formati dalla sovrapposizione di diversi foglietti cristallini (cristalliti), l’acqua s’inserisce nello spazio che intercorre tra i cristalliti e tra i gruppi atomici e gli atomi del reticolo cristallino.

Man mano che l’acqua presente nel terreno tende ad esaurirsi, la risultante di tutte le azioni e le interazioni ora descritte è la diminuzione graduale della tensione di vapore sullo stesso terreno.

La figura 23 riporta le curve (isoterme) di tensione del vapore acqueo su alcuni terreni di differente granulometria, durante l’essiccazione.

La proprietà igroscopica del terreno assume una notevole importanza nei riguardi del bilancio idrico del suolo e dell’economia dell’acqua, in relazione al fatto che, in linea di massima, il terreno resiste all’essiccamento, poiché la tensione di vapore acqueo su di esso si attenua man mano che la sua riserva idrica si esaurisce.

Inoltre, l’andamento dei valori di tensione di vapore su un terreno, durante la disidratazione, non coincide con quello che si verifica durante il processo inverso di disidratazione.

Si verifica, pertanto, un fenomeno d’isteresi, a seguito di una modificazione

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temporanea o permanente insorta nel sistema, durante il compiersi dei due processi. Il fenomeno può paragonarsi alla modificazione che subisce una molla quando, dopo essere stata sottoposta ad una compressione, oppure ad una tensione, cioè ad uno sforzo di trazione, essa non sarà più uguale (per dimensioni ed elasticità) a com’era prima di subire la sollecitazione (isteresi elastica).

Fig. 23 – Isoterme delle tensioni di vapore acqueo su terreni di varia costituzione.

I differenti valori delle tensioni di vapore, che si verificano nel corso della disidratazione e reidratazione del terreno, inducono l’insorgere di correlazioni che sono utilizzate per la misura dell’igroscopicità.

Man mano che il terreno si essicca, l’acqua rimasta in esso abbassa il proprio punto di congelamento e poi, se è inumidito, subisce un aumento di temperatura con produzione di calore di umettazione. E’ questo il calore che si avverte sprigionarsi dal terreno subito dopo una pioggia improvvisa, dopo un periodo di siccità.

Con riferimento alle piante, l’acqua igroscopica presente nel terreno non ha alcun valore fisiologico. Sia che il terreno resista al disseccamento, sia riassuma l’umidità igroscopica iniziale, esso permane sempre arido ed incompatibile con la vita della vegetazione.

Il limite inferiore di umidità compatibile con la vita delle piante può facilmente

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essere determinato per ogni tipo di terreno e, quantunque ogni pianta ed ogni specie vegetale abbia una propria capacità di resistere all’aridità, può essere considerato una peculiare caratteristica di un terreno.

In ogni terreno possiamo distinguere, come già detto, l’acqua gravitazionale o di percolazione che, soggiacendo alla forza di gravità, non è trattenuta dal terreno e può essere liberamente utilizzata dalle piante, l’acqua capillare che è sottoposta alla capillarità del terreno e che solo in parte può essere utilizzata dalle piante, fino al punto in cui la forza di assorbimento delle radici riesce a sottrarla alla capacità del terreno di trattenerla (coefficiente o limite di appassimento) ed, infine, l’acqua igroscopica che non può essere utilizzata dalle piante ma che svolge un ruolo importante sulla riserva idrica del terreno ed un’azione riparatrice indiretta dei danni iniziali causati dall’aridità.

Un terreno profondamente essiccato e privo di acqua sotto ogni forma ha una capacità termica o calore specifico inferiore a quella dell’acqua e perciò si riscalda, sotto l’azione dei raggi solari, velocemente e fortemente.

Per effetto del riscaldamento diurno, la condensazione notturna dell’acqua (rugiada), che nulla ha a che fare con l’igroscopicità, è molto ridotta e non riesce a ricostituire neppure quel minimo di umidità utile per la vita delle piante (precipitazione occulta).

Al contrario, un terreno ricco di acqua igroscopica, ha un calore specifico più elevato rispetto ad un terreno completamente disidratato, si riscalda meno velocemente e meno intensamente durante il giorno e per questo, durante la notte, può rifornirsi più copiosamente di rugiada per la condensazione al suolo dell’umidità atmosferica.

D’altra parte, il disseccamento del terreno, all’inizio, riguarda soltanto gli strati più superficiali. Quelli sottostanti più umidi, anche se al limite dell’umidità igroscopica, si riscaldano più lentamente e proteggono gli strati ancora più bassi dalla perdita d’acqua.

Ciò significa che l’acqua igroscopica contenuta negli strati più superficiali di terreno, anche se non ha un significato fisiologico per le piante, poiché non può da queste essere utilizzata, può influire favorevolmente sulla riserva idrica del suolo, giacché ne rallenta il riscaldamento e, quindi, riduce la perdita di acqua ed evita l’essiccazione degli strati più profondi.

Tutto ciò è in grado di modificare il profilo dell’umidità negli strati sempre più profondi, almeno per l’intervallo di tempo necessario al ripristino dello stato d’equilibrio.

La proprietà d’igroscopicità del terreno, pertanto, gioca un ruolo importante e manifesta effetti benefici reali sul bilancio idrico del suolo quando essa è studiata sotto l’aspetto termico e dinamico, anziché sotto un profilo meramente statico e fotografico.

Come già detto, il valore limite di acqua nel terreno al disotto del quale si verifica prima l’appassimento, (danno da carenza idrica ancora reversibile, qualora il terreno è reidratato) e poi l’avvizzimento (danno irreversibile, perché causa la morte della pianta) è il coefficiente di appassimento. L’avvizzimento può verificarsi quando il terreno contiene ancora il 3-4% di umidità in un terreno sabbioso, 8-10% in un terreno moderatamente argilloso ed il 12-15% in un terreno molto argilloso. Il coefficiente di appassimento, pertanto, aumenta quasi proporzionalmente con l’incremento del tenore di argilla e di particelle colloidali. Sono proprio queste ultime che inducono nei terreni l’incremento della forza di ritenzione dell’acqua.

Il coefficiente igroscopico, che è l’incremento percentuale di umidità del terreno essiccato (peso dell’acqua riassorbita riferito al peso del terreno secco), esposto poi all’aria umida, è pari a circa i 2/5 del tenore in costituenti argillosi ed a circa i 2/3 del coefficiente di appassimento.

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In prossimità del valore di appassimento la pianta non ha più forza sufficiente per assorbire l’acqua rimasta nel terreno e quest’ultimo trattiene con tutte le sue forze (in parte quelle legate alla capillarità e tutte quelle legate all’acqua igroscopica) l’umidità residuale che resta.

La figura 24 riporta schematicamente tutti i rapporti che intercorrono tra pianta e terreno ai fini della competizione per l’acqua, in rapporto al tenore di argilla e costituenti colloidali.

Fig. 24 – Frazioni dell’acqua e andamenti dei coefficienti igroscopico, di appassimento e di saturazione capillare e della capacità idrica massima del suolo, in funzione del tenore di argilla e del contenuto idrico percentuale del terreno.

All’aumentare della percentuale d’argilla nel terreno s’incrementa, anche se in misura sempre meno intensa, il valore del contenuto idrico percentuale in corrispondenza

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del coefficiente igroscopico, del limite d’appassimento e di saturazione capillare ed, infine, della capacità idrica massima.

L’essiccamento progressivo del terreno inizia con l’evaporazione dell’acqua gravitazionale fino all’esaurimento di tale riserva, corrispondente alle sorgenti idriche superficiali.

L’essiccamento ulteriore intacca l’acqua di imbibizione capillare e, prima che questa sia esaurita, ha inizio l’appassimento delle piante ed il terreno contende alla vegetazione le ultime frazioni dell’acqua di capillarità.

Quando l’umidità del terreno è ridotta alla frazione igroscopica, il processo di avvizzimento delle piante è avvenuto e queste ultime si trovano nella fase di morte.

Gli effetti benefici ulteriori sull’economia idrica del terreno, che in passato erano attribuiti alla capacità igroscopica del suolo, sono invece da imputare ai costituenti colloidali inorganici ed organici del substrato (particelle argillose ed umifere), dai quali dipendono, principalmente, la struttura e la gran parte delle caratteristiche fisiche e dinamiche del terreno.

Misura dell’igroscopicità

Le curve di tensione del vapore acqueo sul terreno, in fase di essiccazione, offrono l’immagine e la misura precisa dell’igroscopicità di un terreno. Si pone un campione di terreno di 2-3 g in successivi essiccatori (2-3), nei quali la tensione di vapore acqueo è regolata e mantenuta a valori fissi, rimanendo in ciascun recipiente fino a peso costante, il che significa fino ad umidità costante. Si fa corrispondere, a ciascuna tensione del vapore acqueo, un tenore di umidità del terreno che si può determinare durante l’essiccamento con successive pesate, che sono sottratte da quella iniziale (rilevata sul campione, prima di iniziare la disidratazione). Si calcola così il coefficiente igroscopico .

I coefficienti igroscopici assumono valori che dipendono dalla struttura, dalla costituzione e dalla ricchezza in costituenti colloidali organici ed inorganici del suolo.

Per una sabbia grossolana il coefficiente igroscopico è praticamente nullo e sale intorno al 5-6% se essa contiene un decimo di materiali argillosi. In un terreno moderatamente argilloso, il coefficiente di igroscopicità assume valori di 8-10% fino al 12-15%, mentre in un terreno molto argilloso o riccamente organico, i valori superano nettamente il 15%.

Praticamente il coefficiente igroscopico cresce in proporzione quasi lineare con il contenuto in costituenti colloidali.

Un valore convenzionale ma significativo dell’igroscopicità può essere desunto dai punti di congelamento dell’acqua nel terreno preso a tenori di umidità sufficientemente bassi. Analogo valore indicativo fornisce il calore di umettamento del terreno secco, che in passato serviva a dosare i colloidi argillosi del terreno.

FESSURABILITÀ O CREPACCIABILITÀ

E’ un fenomeno tipico dei terreni argillosi, consistente nella formazione di fessure e crepe (figura 25), a cui si dà spesso un valore negativo, perché rappresentano per le colture una condizione sfavorevole, poiché strappano le radici capillari ed arieggiano in profondità il terreno, attivando l’evaporazione proprio quando sarebbe utile chiudere all’acqua tutte le vie d’uscita.

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Il fenomeno della capillarità è evidentemente disturbato dalle crepe e lo è tanto più quanto maggiore è la profondità delle fessure.

Tuttavia la fessurabilità del terreno non presenta soltanto aspetti negativi, poiché le crepe costituiscono una fitta rete di spaccature attraverso cui il terreno argilloso si arieggia e riceve rapidamente l’acqua, anche in profondità.

Un terreno argilloso, per la sua compattezza, in assenza di fessure, perderebbe tutta l’acqua piovana per ruscellamento e quella poca che riuscirebbe a penetrare attraverserebbe il terreno con grande difficoltà e molto lentamente.

Il crepacciamento del terreno è irregolare, tanto nell’andamento superficiale che in quello a notevole profondità, e consente la circolazione dell’aria che avviene per le differenti temperature che le spaccature manifestano lungo il profilo verticale e per le correnti laterali, favorite dalla giacitura del campo e da altre caratteristiche di morfologia del suolo. Quest’aria, attraversando le crepe, dalle più grandi fino a quelle capillari, terreno per la caduta, attraverso esse, di terreno di superficie e di materiale organico ed organizzato (fauna del terreno).

Fig. 25 – Tipico crepacciamento dei terreni ad elevato contenuto in argilla e ricco in particelle colloidali.

Le crepe rappresentano una discontinuità del suolo che le lavorazioni possono rompere e disperdere, ma non sempre per l’intera profondità.

Un’aratura elimina temporaneamente le crepe soltanto nello strato di terreno da essa interessato, lasciandole intatte a maggiore profondità; qui, l’acqua, saturando e gonfiando lo strato inerte ed eventualmente il sottosuolo, cancellerà le crepe, ma soltanto apparentemente.

Per effetto dell’evaporazione, le crepe ritorneranno quali erano, più o meno

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profonde e più o meno larghe, in relazione all’intensità dell’evaporazione. Le crepe si stabiliscono nel terreno secondo linee di minore resistenza, con soluzioni di continuità causate dalla contrazione della massa terricola. L’aratura distrugge le crepe per appena il 20-30% della loro profondità e non può bilanciare lo sforzo che compie la massa di terreno non lavorato.

Tale sforzo è in relazione alla quantità d’acqua contenuta nel suolo e può essere minimo o nullo se le piogge sono scarse, ma diventa enorme se le piogge sono abbondanti e se l’argilla costituisce in profondità strati di notevole spessore.

Il crepacciamento, in relazione alla perdita d’acqua per evaporazione, procede dall’alto verso il basso ed è tanto più attivo quanto più il terreno dissecca in profondità, raggiungendo la massima espressione nelle annate più siccitose.

Le crepe costituiscono un indice rivelatore della struttura e della fertilità.L’assenza di crepe è tipica di un terreno tendente allo sciolto, equilibrato nei

rapporti granulometrici, con specifico riferimento ai costituenti colloidali, che non si espande eccessivamente all’acqua, che ha struttura lacunare e medio peso specifico apparente.

Un terreno non soggetto a fessurarsi, ad esclusione di quelli sabbiosi, poveri di costituenti colloidali, è agronomicamente buono od ottimo.

Tuttavia, la presenza di crepe non è un elemento sufficiente per considerare non buono un terreno.

Le crepe indicano un lento processo di miglioramento strutturale del suolo a cui esse stesse cooperano.

Tale miglioramento, affinché possa decorrere normalmente, necessita che il terreno rimanga in sito, non subisca dilavamenti o asportazioni violente per effetto del ruscellamento, tragga beneficio dalle lavorazioni profonde e da quelle superficiali, legate alle esigenze colturali, si arricchisca di sostanza organica, non abbia continuo bisogno di reintegrazioni dal sottosuolo.

Per i terreni collinari, bisogna favorire il mantenimento della struttura lacunosa in luogo di quella compatta ed attuare adeguate sistemazioni del suolo, da determinare caso per caso, in relazione alla natura dell’argilla, onde regimentare l’acqua piovana.

Così, un forte strato d’argilla, che si trova al disotto del terreno lavorato (intorno ai 70 cm di profondità), ricevendo e trattenendo molta acqua ed intercettando quella di percolazione, non si fessura e frena l’approfondirsi e l’accentuarsi delle crepe dell’orizzonte superiore.

La terra ed i residui organici delle colture che cadono nelle crepe e raggiungono lo strato d’argilla influiscono, insieme all’aria e all’acqua, su quest’ultimo e più l’argilla riuscirà a ricevere acqua e più facili saranno gli slittamenti di strato, più lo spesso orizzonte argilloso sottostante si manterrà umido e meno subirà i benefici effetti del contatto con l’esterno attraverso le crepe.

Uno stesso strato argilloso, ma di minore spessore, posto su orizzonti di sabbia e di ghiaia, che a loro volta poggiano su un altro strato d’argilla, tutti ad andamento parallelo alla superficie, può essere causa di azioni sfavorevoli per la sua impermeabilità che impedisce l’approfondimento delle acque, determina scivolamenti di strato, rende i campi troppo umidi d’inverno ed è causa di acquitrini.

Potrebbe essere conveniente, in tal caso, interrompere la continuità dello strato argilloso, ed effettuare delle fosse drenanti che attraversino per intero lo strato argilloso o rimangono in esso (per regolare e modulare l’intensità dello sgrondo, che non deve essere troppo attivo), per aumentare le possibilità di ricezione dell’acqua da parte del terreno e

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consentirne lo smaltimento in profondità, nell’ambito della sabbia e della ghiaia (figura 26).

Fig. 26 – Crepacciamento del terreno, in relazione alla natura dello strato inerte (A) o del sottosuolo (B) ed alle lavorazioni (C).

L’osservazione di un terreno argilloso, in particolare di quelli in cui l’eventuale falda acquifera è lontana dalla superficie, come si può riscontrare nei terreni collinari, evidenzia la presenza di crepe e di fessure che persistono anche quando l’umidità si mantiene alta, fino al raggiungimento della capacità di campo. Si può notare che le crepe rimangono aperte per quasi tutto l’anno e sulla superficie si possono osservare tutti i fenomeni della cristallizzazione salina, della decomposizione dei minerali e dell’attività biologica che, invece, non si riscontrano all’interno delle zolle di argilla. Si possono rilevare zone di discontinuità che impediscono la chiusura completa delle fessure, anche durante la stagione delle piogge, pronte a riaprirsi vistosamente, nella stessa posizione, con la riduzione dell’umidità. E neppure le lavorazioni superficiali del terreno cambiano l’aspetto di questi terreni, anche se possono modificare l’incidenza del fenomeno.

La frazione argillosa di un terreno crepacciato può essere poco interessata dalle caratteristiche di permeabilità, poiché il drenaggio dell’acqua avviene principalmente attraverso le fessurazioni. La permeabilità massima dell’argilla può essere stimata intorno ad 1 mm di acqua per ora e, se due crepe distano tra loro 20 cm, devono rimanere piene per oltre quattro giorni affinché la loro acqua si congiunga. Inoltre, la permeabilità di alcune argille sature può essere inferiore a 0,1 mm/h e l’acqua può impiegare, per percorrere uno spazio di 10 cm, in presenza continua di umidità, oltre un anno. Ciò significa che le parte argillosa è stata praticamente esclusa dagli scambi idrici e, perciò, si è comportata alla stessa stregua dei materiali più grossolani del suolo. Pensare che un

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terreno argilloso sia poco permeabile, con perdita di acqua di scorrimento superficiale del 50-60%, potrebbe condurre ad errore, come dimostrano i bilanci idrici dei terreni fessurati di collina in cui le crepe costituiscono il sistema drenante e non solo in condizioni di siccità. La dimostrazione di ciò si ottiene anche osservando i terreni collinari fortemente argillosi ed apparentemente impermeabili, anche rivestiti da cotiche erbose, che hanno dato luogo a cospicui fenomeni franosi dovuti alle profonde infiltrazioni idriche, avvenuta attraverso le crepe e le fessurazioni presenti. E’ stato sperimentalmente studiato che in alcune aree, dove le precipitazioni superano i 1000 mm per anno, solamente alcune piogge di circa 300 mm causano un limitato scorrimento superficiale, pari a 12,5 mm, su terreni arati coltivati a frumento, e meno di 2 mm su terreni a prato, pari allo 0,1-1% delle precipitazioni totali.

COLORE

Il colore del terreno è un carattere molto variabile ed è strettamente correlato a molti fattori ed altre proprietà del suolo.

Il colore dipende dal contenuto di sostanze organiche, dal grado di porosità e di aerazione ed, in definitiva, dalla struttura. Il colore del suolo, inoltre, rappresenta un elemento assai utile per il riconoscimento dei vari gruppi in cui sono classificati i terreni naturali.

Il colore è altresì importante per la determinazione dei minerali costituenti il terreno, in relazione ai processi pedogenetici ed all’ambiente climatico. Il colore della maggior parte dei terreni naturali è in rapporto con la quantità di materiale umifero e con la natura dei minerali presenti.

I composti umiferi tendono a dare al terreno un colore bruno più o meno intenso. E’ il caso delle terre nere della steppa, dei rendzina, dei terreni organici di alta montagna e di alcuni terreni tropicali, anche se particolarmente ricchi in calcare. Nelle regioni equatoriali, la materia organica può assumere un colore tendente al chiaro, in relazione ai forti processi di ossidazione ai quali è sottoposta, che conducono ad una completa mineralizzazione (eremacausi). Nelle stesse regioni, le colorazioni brune del terreno possono essere dovute a composti minerali finemente frantumati (pirite, magnetite, sali di manganese), oppure alla presenza di sostanze bituminose.

Il colore del terreno è molto influenzato dalla struttura, le cui diverse tipologie possono profondamente modificare la colorazione impartita dalla sostanza organica. Infatti, un terreno sabbioso con soltanto lo 0,2-0,5% di composti umiferi può essere scuro, mentre un terreno argilloso, per assumere lo stesso colore scuro, deve avere almeno il 5-15% di humus.

I minerali inalterati più abbondanti di un terreno, come quarzo, feldspati, feldspatoidi, sono di colore chiaro e contribuiscono poco alla determinazione del colore. Il complesso di alterazione inorganico svolge, al contrario, un ruolo importante nella determinazione del colore del suolo. Infatti, i colori gialli, bruni, rossi sono molto spesso da attribuire alla presenza di ossidi di ferro con un decrescente stato di idratazione.

L’intensità del colore è maggiormente influenzata dallo stato di aggregazione dell’idrossido di ferro e dalla superficie specifica del terreno. In un terreno sabbioso è sufficiente un contenuto di 1-2% di ossido ferrico per indurre un colore rosso, d’intensità pari a quella di un terreno argilloso con il 5-10% di ossido ferrico. I materiali sabbiosi hanno una superficie totale meno estesa di quelli argillosi e quindi basta una minore

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quantità di ossido ferrico per indurre la stessa intensità di colore.Quando l’ossido ferrico presenta un elevato grado di idratazione (limonite,

goethite), i terreni tendono ad assumere un colore giallo e bruno. Queste colorazioni si riscontrano nelle terre gialle e nelle terre brune delle regioni temperate ed umide.

I colori rossi e gialli sono tanto più vivaci quanto più bassa è la quantità di materia organica. Nei climi caldi e secchi, dove la sostanza organica tende ad ossidarsi rapidamente fino alla completa mineralizzazione (eremacausi) è possibile rilevare queste colorazioni con intensità più vivaci.

La composizione del complesso colloidale argilloso influenza abbastanza il colore del terreno. I suoli, con un complesso argilloso che si è originato in presenza di calcio (cernosèm e terre castane) e di molto materiale siliceo, presentano colori grigi o grigio-bruni. In tali terreni si può ritenere che i sesquiossidi di ferro esistano solo in combinazione con la silice e non allo stato libero.

I terreni podzolici presentano l’orizzonte A2 di colore grigio. Ciò è dovuto all’asportazione dei sesquiossidi di ferro e di alluminio ed alla notevole presenza di sabbia silicea. Una simile colorazione è evidente dopo l’eliminazione della sostanza organica. Anche l’orizzonte A dei terreni alcalini degradati (solodi) presenta un colore grigio per effetto della rimozione del ferro, operata da soluzioni alcaline, e per il fatto che il complesso argilloso si presenta particolarmente ricco di silice.

Un terreno palustre presenta prevalentemente colori grigi, per il semplice motivo che il ferro si presenta allo stato di minore ossidazione, per mancanza o ridotta quantità di ossigeno. Infatti, in presenza di ossigeno l’ossido ferroso è instabile e si trasforma in ossido ferrico di colore rosso e, per questo, i terreni rossi sono molto permeabili e bene aerati. La prevalenza di colori gialli è dovuti alla presenza di idrossidi di ferro in terreni con un minor grado di permeabilità, tendenti al ristagno idrico ed inducenti asfissia radicale. La presenza di colorazioni bluastre o verdastre sono dovute alla riduzione dei composti ferrici in composti ferrosi e si riscontrano in ambienti pedologici che denotano una scarsa circolazione d’aria e condizioni asfittiche.

Il contenuto in acqua può modificare notevolmente il colore di un terreno. In linea di massima, ogni terreno tende progressivamente a scolorire man mano che secca e ciò è da attribuire agli spazi vuoti che si creano con l’essiccamento ed alla disidratazione delle materie colloidali. Si può senz’altro affermare che più elevata è la percentuale di colloidi presenti nel terreno, tanto più elevato è l’incremento di pori privi di acqua conseguenti la perdita idrica, tanto più accentuata è la variabilità di colore.

Il colore del terreno, soprattutto quando è ai primi stadi di evoluzione, può prendere origine dal colore del substrato pedogenetico o dalla roccia madre. Questi terreni si chiamano litocromici, per distinguerli da quelli il cui colore è dovuto all’azione dei fattori climatici ed ambientali.

Le impurità insolubili, costituite in prevalenza da ossidi ferrici presenti nelle terre rosse che si sono formate su substrati calcarei, sono la causa del colore di questi terreni. Tuttavia, molto spesso, questi composti insolubili del ferro si trovano disseminati nella massa calcarea in minima quantità, tanto che non sempre riescono ad indurre colorazione rossa nel terreno se non dopo l’eliminazione, per dissoluzione, dello stesso calcare. Le terre rosse provenienti dalla solubilizzazione del calcare possono essere riferite ad un gruppo di terreni che sono detti criptolitocromici. A questo gruppo devono essere assegnati anche alcuni terreni di colore nero, che si sono originati su rocce calcaree o dolomitiche biancastre o grigio-chiare, nei quali il colore non deriva dalla materia umica, ma dalle sostanze bituminose contenute, come impurità, nel substrato di difficile

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ossidazione.Il colore influisce sulla temperatura del terreno per la diversa albedo. Per questo

motivo i terreni scuri si riscaldano di più di quelli chiari e da questa evidenza derivano le numerose applicazioni pratiche, rappresentate dall’inscurimento della superficie. L’applicazione della sostanza organica o di film plastici neri o di apposite emulsioni catramose hanno lo scopo di aumentare la temperatura del suolo ed ottenere, così, un certo anticipo di maturazione dei prodotti.

Legata alla temperatura c’è anche la perdita d’acqua per evaporazione. Questa decorre in funzione del colore del terreno, così come riportato nella tabella 34.

Tab. 34 – Evaporazione dell’acqua (espressa in g/cm2 di superficie) in funzione del colore del terreno.

Limo Sabbia TorbaBianco Nero Bianco Nero Bianco Nero

1,79 2,07 1,74 1,99 1,79 1,99

Osservando la tabella, nei tre tipi di terreno a confronto, la maggiore evaporazione dell’acqua si rileva nei terreni scuri. Ciò è in rapporto alla temperatura più elevata, raggiunta con l’insolazione, che si verifica in questi terreni.

La valutazione oggettiva del colore del terreno può assumere notevole importanza, in relazione al fatto che tale valore rappresenta un indizio di certe condizioni fisiche e chimiche presenti nel terreno. Così, per esempio, la valutazione del colore di un terreno può fornire ottimi indici per la conoscenza di come procede il drenaggio. Questi criteri possono essere utilizzati nell’allestimento della cartografia pedologica, essendo i confini di un terreno spesso indicati da un cambiamento avvenuto nel colore della superficie o degli orizzonti sottostanti.

Nelle carte pedologiche sono state allestite delle scale di colore con tanti piccoli rettangoli di varia colorazione. Il colore del terreno è dedotto dal suo confronto con i singoli colori della scala ed è precisato, secondo la tinta fondamentale, dalla lunghezza d’onda dei raggi luminosi che lo determina, dalla vivacità (brillante, opaco) e dall’intensità (chiaro, scuro).

TEMPERATURA

Il terreno ha una temperatura influenzata da numerosi fattori. La quantità di radiazione solare assorbita, la capacità termica determinata dal calore specifico dei suoi costituenti e la conducibilità termica, che induce movimento di calore, interagiscono con la temperatura del suolo.

Sui valori termici del terreno è praticamente ininfluente la temperatura interna del globo terrestre che cresce, nelle immediate vicinanze della superficie, mediamente, di 3 °C ogni 100 m di profondità.

Dagli studi geotermici risulta che quest’aumento, detto gradiente geotermico, è quasi costante fino a 10-15 km di profondità, per poi attenuarsi sensibilmente. Si ricorda

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159 Il terreno

che la temperatura massima raggiunta all’interno del nostro pianeta è stimata intorno ai 5500 °C.

Il calore terrestre in alcuni casi è impiegato per aumentare la temperatura del terreno, allo scopo di rendere più rapido ed intenso lo sviluppo della vegetazione. In Islanda, oltre ai geysers, esistono numerose sorgenti calde, la cui temperatura spesso raggiunge i 100 °C, e piccoli stagni termali, detti langar, nonché terreni che manifestano temperature comprese tra 20 °C e 50 °C, per alcuni metri di profondità. Le acque calde (con temperature comprese tra 15 °C e 30 °C) sono immesse in dreni di pietra, distanti l’uno dall’altro 3 m, e servono ottimamente per riscaldare il terreno, oppure sono largamente impiegate per riscaldare serre, dove si coltivano ortaggi e fiori. Anche ad Amèlie-Bains, nei Pirenei orientali, ed a Dax, le acque termali sono utilizzate, fin dallo scorso secolo, per la produzione forzata di frutta, ortaggi e fiori.

In Italia, è possibile utilizzare per il riscaldamento dei terreni le acque termali dopo essere state utilizzate dagli stabilimenti di cura. In altri casi le acque reflue calde, provenienti dagli impianti di raffreddamento di centrali termoelettriche, immesse in apposite tubazioni, possono servire per il riscaldamento del terreno o delle serre.

Altre sorgenti di calore per il terreno sono rappresentate dalle attività biologiche che avvengono nel suolo (la fermentazione delle sostanze organiche e la respirazione degli organismi viventi che si manifestano con produzione di calore), dai fenomeni chimici determinati dai processi ossidativi e da tutte quelle reazioni a carattere esotermico che producono calore, dai fenomeni fisici (la condensazione del vapore che avviene con produzione di calore, in opposizione all’evaporazione, che è un passaggio di stato endotermico che avviene con assorbimento di calore) e dai fenomeni fisico-chimici, dal calore di umettamento che si produce quando un terreno arido e caldo viene bagnato.

L’importanza delle caratteristiche termiche del suolo è notevole per l’influenza che tali proprietà hanno sulla fertilità.

La temperatura del terreno, infatti, influenza la struttura ed i processi di pedogenesi, inducendo variazioni dei rapporti fra la fase fluida e quella solida. In particolare, la temperatura del suolo e gli effetti dell’alternanza del gelo e disgelo condizionano i rapporti tra acqua ed aria, nell’ambito della fase fluida del suolo.

Il fattore più importante che influenza la temperatura del terreno è la radiazione solare assorbita. La quantità, l’intensità e le variazioni nello spazio e nel tempo della radiazione solare che raggiunge il nostro pianeta sono regolate da fattori astronomici (distanza dal sole della terra, inclinazione dell’asse terrestre) e dalle caratteristiche dell'atmosfera (gas presenti, contenuto d’umidità, presenza di particelle sospese).

Per comprendere chiaramente l’effetto e la distribuzione della radiazione solare sul terreno, bisogna conoscere i termini del bilancio termico della biosfera ed i fattori che lo influenzano.

Le caratteristiche della radiazione solare, determinate dalla natura stessa del sole e dalla sua temperatura superficiale, sono costanti al di fuori dell’atmosfera, ma sono profondamente modificate quando gli stessi raggi solari attraversano la sfera d’aria che avvolge il globo. Tali caratteristiche possono essere studiate sulla base delle leggi che regolano l’emissione di un corpo nero cui il sole può, con sufficiente approssimazione, essere equiparato.

Il corpo nero è un concetto della fisica che fa riferimento ad un ipotetico corpo, emettitore ed assorbitore perfetto di radiazioni, che serve per l’interpretazione e lo studio della radiazione emessa o assorbita dai corpi reali, terrestri o celesti.

La legge di Stefan stabilisce che l’irraggiamento di un corpo nero è proporzionale

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Fiume Francesco 160

alla quarta potenza della sua temperatura assoluta:

R = σ T4

dove σ è la costante di Stefan-Boltzmann, T è la temperatura assoluta e R la radiazione emessa.

La legge dello spostamento di Wien enuncia che la lunghezza d’onda corrispondente alla massima emissione di un corpo nero (λmax) è correlata alla sua temperatura, secondo la seguente relazione:

2898 ⋅ 106

λmax = T

dove T è la temperatura assoluta in °K e λmax la lunghezza d’onda a cui si ha la massima emissione (figura 27).

Fig. 27 – Distribuzione dell’energia di emissione di un corpo nero a differenti temperature. All’aumentare della temperatura del corpo nero, lo spettro d’emissione di energia radiante presenta il massimo in corrispondenza di lunghezze d’onda decrescenti.

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161 Il terreno

In base alle due equazioni, tenendo presente che la temperatura del sole è di circa 6000 °K, si calcola la sua emissione e la lunghezza d’onda a cui si ha la massima emissione, pari a 483 nm .

Considerando la distanza media tra la terra ed il sole di 150 ⋅ 106 km, si avrà che la quantità di radiazione che perviene su una superficie normale ai raggi del sole ed alla distanza della terra sarà pari a 1,95 cal⋅cm-2⋅min-1. Questo valore è chiamato costante solare.

L’emissione è continua in un ampio campo dello spettro. La radiazione solare al di fuori dell’atmosfera ha lunghezze d’onda comprese tra 150 e 4000 nm.

Le lunghezze d’onda dello spettro solare sono convenzionalmente divise in tre parti: ultravioletto (150-380 nm), visibile (380-700 nm) ed infrarosso (700-3000 nm). Esiste, poi, un’ulteriore frazione di 3000-4000 nm che si può considerare del tutto trascurabile.

La quantità percentuale d’energia nei tre campi è il 5% della radiazione globale nell’ultravioletto, il 40% nel visibile ed il 55% nell’infrarosso.

Se invece di considerare una superficie perpendicolare ai raggi solari, si considera una superficie parallela ad un punto qualunque della superficie terrestre, ma all’esterno dell’atmosfera, la composizione della radiazione che la colpisce è costante, ma la sua intensità varia secondo la legge di Lambert.

Tale legge stabilisce che l’intensità è pari alla costante solare moltiplicata per il seno dell’angolo d’incidenza:

I = I0 senβ

dove I è la radiazione che colpisce la superficie, I0 la costante solare e β l’angolo d’incidenza.I valori di I variano con la stagione e l’ora del giorno e possono essere utilizzati nella stima diretta della radiazione che perviene al suolo.

La radiazione solare che raggiunge il suolo, dopo aver attraversato l’atmosfera, cambia di composizione e d’intensità. Una parte di essa è riflessa dall’atmosfera e dalle nuvole.

Queste ultime riflettono diversamente secondo le loro caratteristiche. Inoltre, i gas dell’atmosfera estinguono una considerevole porzione della radiazione solare attraverso due differenti meccanismi rappresentati dalla diffusione e dall’assorbimento.

La diffusione è il processo per il quale le molecole di un mezzo gassoso e le piccole particelle in sospensione diffondono una frazione della radiazione incidente in tutte le direzioni.

Il fenomeno è regolato dalla legge di Rayleigh la quale stabilisce che la diffusione è inversamente proporzionale alla quarta potenza della lunghezza d’onda. Ciò spiega il colore azzurro del cielo.

Negli strati più bassi, poiché le dimensioni e la densità delle particelle in sospensione aumentano, sono diffuse anche le radiazioni a maggior lunghezza d’onda le quali conferiscono al cielo una colorazione rossastra.

La radiazione diffusa rappresenta una porzione importante dell’energia che raggiunge il suolo, influenzando la temperatura del terreno alle alte latitudini ed a quelle medie nei mesi invernali.

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Fiume Francesco 162

L’altro meccanismo, l’assorbimento, è il processo per il quale l’energia radiante è ceduta alla struttura molecolare dei gas dell’atmosfera.

Tali gas assorbono, preferibilmente, alcune lunghezze d’onda. Alcuni dei più importanti gas, in grado di assorbire con grande efficacia

determinate lunghezze d’onda dell’energia radiante del sole, sono l’anidride carbonica, il vapore d’acqua e l’ozono (figura 28).

Fig. 28 – Bande d’assorbimento di alcuni gas, limitatamente al campo dello spettro della radiazione solare.

Azoto, ossigeno ed argon hanno bande d’assorbimento molto deboli. L’ozono assorbe praticamente tutta la radiazione ultravioletta e ciò è molto importante per la sopravvivenza di tutta la biosfera, i cui organismi non sopportano alti livelli di tale banda di radiazione.

L’anidride carbonica ha una banda di assorbimento a circa 270 nm, mentre il vapore d’acqua ne ha quattro a 1380, 1870, 2700 e 3200 nm.

In conseguenza di ciò, la composizione della radiazione solare che giunge al suolo è notevolmente modificata.

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163 Il terreno

Una rappresentazione schematica dello spettro della radiazione solare, al di fuori dell’atmosfera ed alla superficie del terreno, è riportata nella figura 29.

Fig. 29 – Spettro teorico (corpo nero) ed effettivo della radiazione solare fuori dell’atmosfera ed a livello del suolo. E’ possibile notare che la curva della radiazione solare fuori dell’atmosfera è molto simile alla curva della radiazione di un corpo nero (sole) a 6000 °K.

La presenza di nuvole determina variazioni della radiazione solare che sono prevalentemente quantitative, non essendo la composizione spettrale sostanzialmente modificata dalla nuvolosità. Le variazioni dell’intensità della radiazione che perviene al suolo non sono facilmente quantificabili, dipendendo dalla qualità e quantità di nubi presenti e dalla loro permanenza nel cielo.

La stima della radiazione solare che perviene al suolo può essere fatta attraverso misure di nuvolosità, mediante formule empiriche, su periodi superiori a 10 giorni, tenuto conto delle ore effettive e teoriche di sole e del valore dell’intensità della radiazione I della precedente relazione.

La radiazione solare che colpisce il terreno raggiunge i massimi valori nelle zone desertiche delle medie latitudini (nel deserto del Sahara, tra 27° e 24° di latitudine nord, i valori annuali sono compresi tra 2⋅105-2,2⋅105 cal⋅cm-2) mentre ai poli si registrano i minimi valori annuali. In inverno, tuttavia, i valori della radiazione che giunge al suolo diminuiscono all’aumentare della latitudine, mentre in estate essi sono influenzati dall’elevazione del sole, dalla lunghezza del giorno e dalla nuvolosità. Pertanto, per una larga fascia di latitudini (tra 20° e 45° di latitudine nord), in estate, i valori medi di radiazione giornaliera sono relativamente vicini, collocandosi tra 300 e 700 cal⋅cm-2 per

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Fiume Francesco 164

giorno. La nuvolosità riduce di molto la quantità di radiazione al suolo, alle latitudini basse (0°-20°) ed alte (oltre 45°), influenzando enormemente la potenzialità produttiva dei diversi ambienti.

Il calcolo della radiazione solare è molto importante in agricoltura perché consente di determinare, fra l’altro, i fabbisogni idrici delle colture.

La radiazione solare diretta e diffusa che giunge al suolo in parte è riflessa, in parte è assorbita dalla superficie, in parte è riemessa come radiazione termica e solo una piccola quota, non superiore a 3%, viene utilizzata dagli organismi fotosintetici (figura 30).

Figura 30 – Rappresentazione schematica degli scambi termici in una giornata estiva. L’ampiezza delle frecce corrisponde alla quantità di calore scambiato.

La somma algebrica di queste diverse quote fornisce il bilancio di radiazione o radiazione netta (quella assorbita dal terreno), rappresentato dalle seguenti relazioni:

Rg = Rs + Rd

dove Rg è la radiazione globale al suolo, Rs la radiazione diretta e Rd la radiazione

Radiazione solare al di

fuori dell’atmosfera

Radiazione diffusa verso lo spazio

Assorbimento da parte dell’atmosfera

Riflessione da parte delle

nuvole Diffusione da parte

dell’atmosfera Radiazione uscente

effettiva a lunga lunghezza d’onda

Radiazione diffusa verso

il suolo Evaporazione

Convezione Conduzione del calore

Radiazione assorbita dalla vegetazione (fotosintesi)

S s =

KA(1 - e -KA)

Da parte della terra

Suolo Radiazione netta

↓ Conduzione del calore molecolare

(flusso di calore al suolo)

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165 Il terreno

diffusa dall’atmosfera;

Rns = Rg ( 1- α)

dove Rns è la radiazione netta di corta lunghezza d’onda ed α è l’albedo, cioè il rapporto tra la radiazione riflessa e quella incidente;

Rnl = Rli - Re

dove Rnl è la radiazione netta di lunga lunghezza d’onda, Rli la radiazione incidente di lunga lunghezza d’onda e Re la radiazione emessa dal suolo. La radiazione netta o bilancio della radiazione (Rn) è dato dalla relazione

Rn = Rns - Rnl

L’albedo influenza l’energia disponibile e l’attività degli organismi viventi ed i suoi valori sono influenzati dal tipo di copertura del terreno (tabella 35).

Tab. 35 – Valori dell’albedo in funzione di alcune coperture del terreno.

Tipo di copertura del terreno Valori dell’albedoMare 0,03-0,10Neve fresca 0,75-0,85Superficie ghiacciata 0,89-0,95Dune sabbiose 0,30-0,60Praterie 0,12-0,30Foresta 0,13-0,16Tipi di terreno:

Terreno nudo 0,15Terreno secco 0,11Terreno umido 0,07Sabbia bianca delle spiagge 0,27Sabbia asciutta 0,18Sabbia bagnata 0,09Ghiaia 0,13

Coltivazioni:Prato verde 0,06Frumento 0,26Mais 0,22Sorgo 0,20

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Fiume Francesco 166

L’albedo di una superficie a luce naturale indica il rapporto percentuale tra la quantità di radiazione riflessa e diffusa – che un corpo non brillante di luce propria, colpito da un fascio di raggi paralleli, emana in tutte le direzioni – e la quantità di radiazione incidente. Anche le nubi hanno la loro albedo che varia a seconda il tipo di nube e lo spessore.

L’albedo delle nuvole diventa massimo allo spessore di 200 m, purché la condensazione dell’acqua sia progredita. Tali valori medi sono relativi ai raggi visibili, pertanto, alle altre regioni dello spettro corrispondono valori diversi.

Angstrom osservò che l’albedo dei prati è più grande nell’infrarosso e nel rosso che nello spettro visibile.

L’albedo media complessiva della terra è costituita dall’energia solare riflessa dall’atmosfera, dalle nubi e dal suolo terrestre ed è compresa tra 0,35 e 0,43. Tale valore è stato dedotto dagli studi climatologici ed è oggi confermato dall’impiego dei satelliti meteorologici.

I valori dell’albedo possono essere artificialmente modificati per rendere la radiazione netta più favorevole allo sviluppo delle piante coltivate. Così, ricorrendo alla pacciamatura del terreno con film plastici di colore nero è possibile ridurre l’albedo, indurre un aumento dell’assorbimento della radiazione solare da parte dei primi strati del suolo e, quindi, causare un incremento della radiazione netta.

Il risultato è un congruo innalzamento della temperatura del terreno che favorisce la germinazione dei semi e migliora lo sviluppo e l’attività delle radici delle piante coltivate.

Un’applicazione di questi concetti è stata attuata nella pratica della solarizzazione del suolo, attraverso la copertura del terreno con film nero, in modo da ottenere un accettabile riscaldamento ai fini della disinfestione del suolo e riduzione della carica dei patogeni delle radici delle piante.

Altri studi hanno cercato di aumentare i valori dell’albedo mediante l’uso di sostanze riflettenti distribuiti sulle colture, onde ridurre la quantità di radiazione assorbita dalle piante, la radiazione netta, la traspirazione e, quindi, il fabbisogno idrico delle piante.

Altre volte, sono le stesse piante che mettono in atto dei meccanismi morfologici per aumentare l’albedo ed, in zone aride, le foglie rivestono la loro superficie con peli o spine o pigmenti chiari che riducono la radiazione assorbita, diminuiscono il riscaldamento dei tessuti ed il flusso della traspirazione.

Tutti i corpi a temperatura superiore allo zero assoluto emettono radiazione, secondo le leggi di Stefan e Wien. Anche il globo terrestre, riscaldandosi per effetto dei raggi solari, emette radiazione (detta radiazione termica) a lunghezza d’onda maggiore della radiazione assorbita, in relazione al fatto che la sua temperatura è più bassa di quella del sole.

La quantità di radiazione che giunge sulla terra e quella che viene riemessa e dispersa nello spazio cosmico sono uguali, poiché la temperatura media annuale della terra è costante.

La temperatura media reale della terra è di + 15 °C, molto superiore a quella che si ottiene teoricamente applicando la legge di Stefan, in assenza d’atmosfera (- 27 °C). Tale differenza è dovuta al fatto che la radiazione di lunga lunghezza d’onda, emessa dalla superficie terrestre, non viene immediatamente perduta nello spazio cosmico ma, in parte

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167 Il terreno

è assorbita dalla CO2 e dal vapore acqueo dell’atmosfera e, poi, rinviata verso terra (controradiazione dell’atmosfera) ed in parte, la più considerevole, è fissata come calore latente di evaporazione dell’acqua.

Il fenomeno per il quale la temperatura della terra è nettamente superiore a quella teorica si definisce effetto serra dell’atmosfera ed ha un ruolo molto importante sulla vita di tutti gli esseri viventi. Ciò avviene su scala planetaria, ma anche a livello locale, e variazioni del bilancio di radiazione a lunga lunghezza d’onda spiegano l’andamento dell’escursione termica.

Sul riscaldamento del terreno è importante la radiazione solare utilizzata dalla copertura vegetale.

Le piante agiscono regolando la fotosintesi, la traspirazione, le funzioni fotoperiodiche ed, indirettamente, riscaldando l’ambiente. Inoltre, la luce non colpisce ugualmente tutte le foglie di una coltura e si potrà osservare che le più alte riceveranno le maggiori quantità ed ombreggeranno le foglie sottostanti.

Grande importanza assume, quindi, la conoscenza dei profili di radiazione all’interno delle piante per valutare la quantità di luce che colpisce mediamente i vari strati della vegetazione e calcolare il bilancio energetico e l’efficienza della conversione a vari livelli. Misure eseguite all’interno di colture di mais ad alto investimento indicano che la quantità di radiazione che perviene al suolo è dell’ordine del 5-10% della radiazione incidente e che la composizione dello spettro è modificata con una diminuzione percentuale considerevole della radiazione visibile sul totale.

La temperatura del terreno dipende, come si è visto, oltre che dalla radiazione solare, di cui soltanto una frazione molto modesta è assunta dal terreno, dal calore specifico e dalla conducibilità termica del suolo, dalla copertura vegetale, dalla giacitura (in particolare l’angolo di incidenza tra la superficie del suolo ed i raggi solari), dal colore e dalla presenza di strati coibenti.

Grande influenza sulla temperatura del terreno ha la capacità termica, ossia il calore specifico dei suoi costituenti. Si ricorda che il calore specifico è la quantità di calore, espresso in calorie, occorrente per innalzare la temperatura di un corpo, del peso di 1 g, di 1 °C (precisamente da 14,5 a 15,5 °C).

L’aumento della temperatura è in relazione inversa al valore del calore specifico. L’acqua ha un calore specifico uguale ad 1, un terreno minerale intorno a 0,2, ossia occorre 1 caloria per innalzare di 1 °C la temperatura 1 g d’acqua e 0,2 calorie per 1 g di terreno, rispettivamente. Per innalzare la temperatura di un terreno con il 30% d’acqua occorre una quantità di calore quasi doppia rispetto a quella necessaria per un suolo secco. Per far passare allo stato di vapore 1 g d’acqua occorrono oltre 500 calorie.

I dati ora riportati dimostrano la grande importanza dell’effetto dell’acqua sulle proprietà termiche del suolo. Il terreno cede all’acqua grandi quantità di calore per soddisfare le richieste legate all’elevato valore del calore specifico e del calore di evaporazione e che, soltanto in parte, sono fronteggiate dall’irraggiamento solare.

Per questi motivi, i terreni molto umidi sono classificati come terreni freddi. Per gli stessi motivi un terreno di colore nero (quando tale colore è dovuto all’abbondanza di materia organica), che dovrebbe riscaldarsi più di un terreno chiaro, al contrario è più freddo. I terreni organici, infatti, trattengono forti quantitativi di umidità e si oppongono al rapido riscaldamento sotto l’azione dei raggi solari.

Quando il colore scuro o nero non è legato alla presenza di sostanza organica o di componenti igrofili o igroscopici, i terreni con tale caratteristica, sotto l’azione dei raggi solari, si riscaldano molto più dei terreni di colore chiaro e sono caratterizzati da forti

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Fiume Francesco 168

oscillazioni termiche. Nella tabella 36 sono riportati i calori specifici di alcuni tipi di terreno, fatto uguale a 1 quello dell’acqua.

Tab. 36 – Calore specifico di alcuni terreni, assunto come unitario quello dell’acqua.

Tipo di terreno Calore specifico in rapporto all’acquaSabbioso asciutto 0,30Sabbioso umido 0,70Argilloso asciutto 0,25Argilloso umido 0,80Umifero asciutto 0,15Umifero umido 0,90

Un’importante proprietà che condiziona la temperatura e determina la propagazione del calore per conduzione è la conducibilità o conduttività termica del terreno. Questa dipende dai coefficienti termici dei singoli costituenti pedologici ed è funzione della struttura.

D’analoga importanza è la diffusività termica o coefficiente di diffusione termica che è proporzionale direttamente alla conduttività termica ed inversamente alla capacità termica volumica del terreno, a pressione costante.

In generale, il calore passa facilmente dalla fase solida a quella liquida del terreno e si trasmette con molta difficoltà alla fase gassosa. I coefficienti termici dei costituenti del terreno, inoltre, sono molto bassi a confronto di quello dell’acqua. Ed ancora, se l’umidità è presente in quantità tale da tenere unite le singole particelle, essa è anche in grado di captare e conservare la maggior parte del calore contenuta negli stessi elementi solidi. In relazione a ciò, un terreno con aggregazione grumosa immagazzina più calore di un terreno compatto privo d’aggregazione. Infatti, nel primo caso, le varie particelle sono riunite in complessi porosi, separati gli uni dagli altri da uno strato d’aria, cattiva conduttrice del calore, mentre nel secondo caso, venendo a diminuire il volume dell’aria ed essendo le particelle terrose strettamente ravvicinate, queste sono più conduttrici.

La composizione mineralogica e chimica ha una relativa importanza sulla capacità calorifica rispetto a quella derivante dalla struttura e dallo stato d’aggregazione. La conducibilità termica del terreno è piuttosto modesta e, pertanto, gli orizzonti superficiali, rispetto agli strati sottostanti, sono più caldi di giorno e d’estate, ma più freddi di notte e d’inverno, spiegando, con ciò, il motivo per il quale la fauna utile (lombrichi ed altri demolitori di materia organica), ma anche quella fitopatologica (nematodi) possono approfondirsi nel terreno durante la notte e le stagioni sfavorevoli, alla ricerca di una temperatura ottimale.

Alla profondità di 60 cm e durante l’inverno, il sottosuolo ha una temperatura media più elevata di quella del terreno superficiale e risulta quasi costante durante l’estate. Ad 8 cm di profondità e durante l’inverno, il terreno è più caldo verso le ore 14,30 e più freddo verso le ore 7,30. A 60 cm di profondità, le fluttuazioni termiche giornaliere sono molto più piccole e nel pomeriggio il terreno è lievemente più caldo che

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169 Il terreno

durante la notte, ma questo massimo del pomeriggio ritarda esattamente di 24 ore. Ciò significa che la risalita della temperatura è il risultato di un precedente giorno caldo e che il flusso del calore richiede 24 ore per raggiungere la profondità di 60 cm.

Risulta chiaro, quindi, come la temperatura del terreno varia nel corso della giornata e con l’alternarsi delle stagioni e tali variazioni sono più lente ma più pronunciate nel terreno, almeno negli orizzonti superficiali, rispetto a quelle dell’atmosfera.

Durante e poco dopo una pioggia, tuttavia, tutti gli orizzonti del terreno, fin dove penetra l’acqua, hanno la stessa temperatura. Le variazioni diurne ed annuali della temperatura dell’aria si attenuano rapidamente entro il terreno, fin quando, con la profondità, esse diventano ininfluenti. L’orizzonte di terreno, dal quale non si osserva più una variazione periodica dei valori termici, è lo strato a temperatura costante, la cui profondità dipende dalla natura del suolo e dall’intervallo della variazione periodica della temperatura alla superficie. Nei paesi tropicali, dove tale intervallo è ridotto (la temperatura dell’aria è abbastanza costante), lo strato a temperatura costante (la cui temperatura corrisponde alla temperatura media dell’atmosfera) si trova più in superficie che nelle zone di media latitudine e, mentre all’Equatore esso si trova alla profondità di circa 90-120 cm, a 40° di latitudine si posiziona a circa 15 m sotto la superficie.

Il calore come tale, detto anche calore sensibile, si propaga nel terreno, ad esempio, dalla superficie e tende a raggiungere una temperatura uniforme riguardante tutto il volume.

La propagazione del calore nel terreno può avvenire per conduzione e cioè con il passaggio di energia cinetica da molecola o ione ad altra molecola o ione, per effetto dei reciproci urti che si verificano a causa dell’agitazione termica nell’ambito di in ogni fase del terreno. La propagazione del calore può ancora realizzarsi per convezione nelle fasi fluide e cioè per circolazione entro ciascun poro, oppure per moto fluido in tutto il sistema di pori. Il calore può propagarsi per radiazione all’interno dei pori a seguito d’irradiamento, dalla superficie dei corpi, delle onde elettromagnetiche di bassa frequenza che sono catturate dalla superficie d’altri corpi. Nel terreno, infine, il calore può diffondersi per propagazione realizzata per l’azione combinata dell’evaporazione, della diffusione di vapore e della condensazione che, entro il terreno, si compensano energeticamente e possono essere considerati un particolare meccanismo di propagazione del calore (calore latente).

Nel terreno agrario, in particolare, la propagazione del calore avviene: 1) per conduzione entro le particelle solide (ciottoli, sabbia, limo e argilla); 2) per conduzione attraverso i punti di contatto delle stesse particelle solide; 3) per conduzione attraverso la fase liquida; 4) per conduzione attraverso la fase gassosa; 5) per convezione entro la fase liquida, a causa di differenze di temperatura che si

stabiliscono per variazioni di tensione superficiale, di dilatazione termica dell’acqua o di volume. Tali variazioni sono legate ad instabilità e turbolenza e sono correlate, a loro volta, a differenze di viscosità e ad interazioni tra la fase liquida, solida e gassosa. Le interazioni tra le tre fasi del terreno sono dipendenti da una differente dilatazione tra liquidi e solidi, oppure da variazioni del potenziale pneumatico dell’acqua. Ma possono intervenire anche cause diverse da quelle termiche, con spostamento dell’acqua tra punti del terreno che si trovano a differente temperatura ed inducenti un conseguente scambio di calore, fungendo il liquido da scambiatore termico;

6) per convenzione entro la fase gassosa, determinata da differenze termiche e

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conseguenti variazioni di volume e viscosità per effetti d’instabilità e turbolenza. Ma possono intervenire anche cause diverse da quelle termiche come le variazioni di pressione, di volume e di viscosità dei gas;

7 per radiazione tra le superfici solide che si affacciano sui pori e conseguente propagazione del calore entro i fluidi che riempiono gli stessi pori;

8) per propagazione a seguito della combinazione dell’evaporazione dell’acqua nei pori, del trasporto convettivo del vapore e condensazione del vapore in acqua liquida nella zona dove il calore è trasportato per movimento di materia capace di restituire come calore quell’energia che, in realtà, non è più termica (trasporto di calore latente, in altre parole, di quel calore speso per l’evaporazione dell’acqua).

Fra tutte le modalità di propagazione del calore nel terreno, in generale, la conduzione termica, che avviene complessivamente a carico delle tre fasi principali del suolo, cioè tra la fase solida, liquida e gassosa, è quella che ha importanza prevalente.

I raggi solari riscaldano dapprima la superficie del terreno. Il calore, successivamente, si propaga, per conducibilità, verso gli strati inferiori. Più lunga è la durata del riscaldamento e più profondamente penetra l’azione del calore. Durante la notte, la superficie perde calore per irraggiamento ed avviene un ritorno di calore dalle regioni profonde del suolo verso la superficie.

La conducibilità termica è molto accentuata nei terreni minerali, mentre assume scarsissimo valore in quelli ricchi di materia organica.

Nei terreni poveri di materia organica, il calore accumulato durante il giorno può ritornare alla superficie con maggiore velocità. In tal modo lo strato superficiale è mantenuto ad una temperatura più alta nei terreni minerali che in quelli d’origine prevalentemente organica, dove rimane più elevata la temperatura degli orizzonti profondi.

La parte dell’atmosfera a contatto con il terreno e quest’ultimo s’influenzano reciprocamente da un punto di vista termico. Così, l’aria a contatto con un terreno minerale si riscalda di più di quella che grava al disopra di un terreno organico e ciò spiega il motivo per il quale, nelle gelate, le piante coltivate in terreni umiferi o torbosi possono morire, mentre quelle adiacenti su terreni minerali riescono a resistere al gelo senza danni rilevanti.

D’altra parte, durante la notte, l’aria al disopra del terreno, irradiando calore verso l’alta atmosfera, diventa più fredda dello stesso terreno il quale perde, a sua volta, calore per irraggiamento verso l’aria più fredda; a loro volta, gli strati di terreno profondi, più caldi di quelli superficiali, durante le ultime ore della notte, propagano calore verso la superficie, in direzione opposta a quello che avviene durante le calde ore diurne. Qualsiasi fattore che tende a ridurre il raffreddamento dell’aria sovrastante (immobilità dell’aria, cielo nuvoloso, pacciamatura del terreno, tunnel di plastica e serre che riducono la perdita dell’infrarosso) ridurrà la perdita di calore del terreno.

In generale, la superficie del terreno è sempre più calda dell’atmosfera (un suolo a grana fina ha una temperatura media di circa due decimi di grado in più rispetto a quella dell’atmosfera) e la temperatura media annua del suolo aumenta con l’incedere della profondità, poiché gli strati sottostanti subiscono meno le escursioni termiche dell’atmosfera e tendono a mantenere la temperatura intorno a valori costanti.

La latitudine e la morfologia terrestre svolgono un ruolo importante nel modificare la temperatura del suolo. Naturalmente, la temperatura dei terreni diminuisce procedendo dall’equatore verso i poli e nelle regioni comprese tra i 20° di latitudine nord e sud la temperatura del suolo, alla profondità di 1,5 m si mantiene costante per tutto l’anno su

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valori di 25-26 °C. In Inghilterra, la temperatura media del suolo, alla stessa profondità, è di circa 10 °C.

La giacitura, l’inclinazione e l’esposizione del terreno esercitano, come già detto, un’influenza notevole sulla temperatura del terreno.

L’intensità della radiazione solare ricevuta dal suolo dipende dall’inclinazione di questo ed è proporzionale al coseno dell’angolo formato dalla perpendicolare alla superficie con la direzione dei raggi solari.

L’orientamento a sud di un pendio induce temperature più alte del terreno, ma con una maggiore oscillazione rispetto ad altre esposizioni. I terreni delle pendici esposte ad est sono soggetti ad una lunga irradiazione notturna, mentre i terreni dei versanti esposti ad ovest si conservano più caldi durante la notte.

L’altitudine non determina nel terreno una diminuzione della temperatura così rapida come, invece, accade nell’aria sovrastante. Anzi, con l’aumentare dell’altitudine, le oscillazioni annue della temperatura del terreno tendono a diminuire.

La vegetazione interagisce anch’essa con il terreno e ne influenza le condizioni termiche. Le piante, sotto un certo punto di vista, contribuiscono al mantenimento della temperatura del suolo perché riflettono verso il basso la radiazione calorifica che il terreno emana.

D’altra parte, le piante ombreggiano il terreno che riceve meno calore per radiazione solare diretta e si riscalda meno di un terreno nudo (in particolare quando le temperature diurne sono più elevate) ma in compenso, per il motivo prima esposto, si raffredda assai meno.

Le differenze nelle temperature massime di un terreno ricoperto dalla vegetazione e di un suolo nudo sono particolarmente accentuate nei giorni sereni e durante l’estate, quando i valori termici della superficie del primo sono appena poco più alti di quelli dell’aria e quelli del secondo possono superare di 25-32 °C la temperatura dell’aria sovrastante.

La presenza di strati coibenti sul terreno ha una certa influenza sulla temperatura del suolo. La neve, per la sofficità e presenza d’aria, ha un effetto isolante del terreno rispetto all’atmosfera più fredda. L’acqua che si stratifica sul terreno, quando la sua temperatura è superiore a quella dell’aria sovrastante (un tipico esempio sono le marcite che, per il potere riscaldante dell’acqua che circola alla superficie del terreno, ad una temperatura di 13-14 °C, consentono la coltivazione anche durante l’inverno) ha, altrettanto, un effetto riscaldante. Uno strato superficiale di terreno incoerente (mulch), ottenuto mediante la sarchiatura, riducendo l’evaporazione e quindi il raffreddamento, è in grado di condizionare la temperatura del suolo.

La temperatura esercita anche un’influenza indiretta. Ad esempio influenza la gestione dell’acqua in agricoltura: se la temperatura è molto bassa (al di sotto o in prossimità del punto crioscopico) può esserne compromessa ed ostacolata l’utilizzazione, mentre se troppo alta, a causa dell’eccessiva evaporazione, possono aversi ingenti perdite d’acqua nell’atmosfera.

L’agricoltore può modificare ben poco la temperatura del terreno. Ricorrendo alla pacciamatura oppure all’impiego di apprestamenti protettivi, come le serre ed i tunnel di plastica, è possibile ottenere qualche risultato favorevole. Con le serre ed i tunnel è possibile mitigare più la temperatura dell’aria che non quella del terreno e spesse volte si assiste al congelamento delle radici e, poi, alla morte della pianta, senza che la parte epigea abbia particolarmente risentito l’abbassamento termico.

A volte, abbondanti dosi di letame in fase di fermentazione possono migliorare la

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temperatura del terreno per l’assunzione di calore che si sprigiona durante i processi fermentativi e che consentono di raggiungere anche i 70-80 °C. Va anche specificato che solamente nel caso di processi zimotermici a carico della sostanza organica del terreno può realizzarsi un incremento di temperatura. Spesso, tuttavia, un orizzonte organico contribuisce a dare al terreno una temperatura più uniforme, ma in certi momenti più bassa.

Per aumentare la temperatura di un terreno, il letame in fermentazione è spesso usato per l’allestimento dei cosiddetti letti caldi. Questi sono preparati in appositi cassoni di legno e servono per la germinazione dei semi ed il primo allevamento delle piantine.

Altri mezzi tecnici per aumentare la temperatura del suolo sono le lavorazioni e lo smaltimento delle acque superflue. L’aumento dell’areazione e la riduzione dell’acqua nel terreno, ottenuti con le lavorazioni e con il drenaggio, inducono un aumento della temperatura di circa 5 °C, rispetto ad un terreno non lavorato e drenato.

Anche la tecnica della solarizzazione o del riscaldamento solare del terreno è una via interessante per aumentare la temperatura del suolo oltre certi limiti naturali. Ad essa si ricorre per mantenere sotto controllo lo sviluppo e la diffusione di alcune fitopatie, di origine pedologica, ma anche per il contenimento delle malerbe. Naturalmente è possibile ricorrere a questa tecnica soprattutto in quelle aree caratterizzate da estati con elevati valori delle massime temperature e dei dati eliofanografici, ma con scarsa piovosità.

La solarizzazione rappresenta una possibile alternativa ai tradizionali mezzi d’intervento chimico (geodisinfestanti), particolarmente per le colture di pregio come quelle orticole, per le quali ogni residuo di antiparassitario può costituire un problema.

La solarizzazione è basata sull’utilizzazione del calore solare allo scopo di ottenere un incremento della temperatura degli strati superficiali di terreno, mediante preliminare bagnatura e copertura del suolo con un film plastico, nero o trasparente, durante il periodo estivo, prima delle operazioni di trapianto o di messa a dimora delle piante.

L’aumento della temperatura del terreno produce degli effetti di ordine fisico, chimico e biologico che migliorano le condizioni di abitabilità e di nutrizione del terreno e sono in grado di produrre un evidente contenimento di alcuni patogeni e dello sviluppo delle cattive erbe. Questa tecnica, soprattutto se realizzata in serra, ha fatto registrare una temperatura massima di 56 °C, nei primi 10 cm di profondità, a fronte di una temperatura massima di 37 °C rilevata, alla stessa profondità, nel terreno nudo in pieno campo, ed ha permesso il controllo dei nematodi galligeni, dei funghi fitopatogeni terricoli e delle malerbe, con lo stesso risultato ottenuto mediante l’impiego dei prodotti chimici fumiganti e diserbanti.

I fattori più importanti che agiscono sulla temperatura del terreno sono rappresentati dai caratteri della località (morfologia terrestre ed esposizione), dalla struttura e dallo stato di aggregazione del terreno, dalle condizioni di umidità ed, in generale, dalle condizioni climatiche.

La temperatura del terreno può essere misurata con termometri a mercurio o ad alcool in grado di rilevare i valori minimi, massimi ed attuali. I geotermografi consentono di misurare in continuo la temperatura del suolo, durante tutto il giorno e per tutto l’anno ed i dati possono essere cumulati ed elaborati mediante un PC.

POTENZIALI DEL TERRENO

La nozione di potenziale fu introdotta in meccanica, in stretta connessione al

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173 Il terreno

concetto di lavoro e quindi a quello di energia.Quando il lavoro L compiuto da un campo su un punto che percorre un arco OP

dipende non dalla traiettoria ma soltanto dai punti O e P, una volta fissato O, tale lavoro L risulta una funzione delle sole coordinate di P e tale funzione è il potenziale U del campo. In queste condizioni, le componenti cartesiane della forza coincidono con le derivate parziali di U e l’energia meccanica totale di una particella che si muove nel campo conserva inalterato, durante il moto, il suo valore iniziale. Questo è il motivo per il quale si chiamano conservativi quei campi che derivano da un potenziale.

Conservativo è il campo gravitazionale terrestre (il più importante di tutti, se non altro per essere stato il primo di cui fu accertata la dipendenza da un potenziale), in cui un qualunque spostamento di una certa massa sino a riportarla nella posizione iniziale, non permette di ricavarne, né di fare assorbire, lavoro. Non è conservativo il campo delle velocità di un fluido in moto vorticoso.

Si è parlato di campo ed è il caso di ricordare questo concetto. Il campo è uno spazio ogni punto del quale è definito da una variabile che può essere uno scalare (campo delle temperature delle singole particelle di un corpo, campo delle concentrazioni di un soluto) o un vettore (campo delle velocità delle singole particelle di un fluido, campo di forza) o un tensore (campo del tensore di deformazione o di quello degli sforzi in un mezzo continuo), per cui si ha un campo scalare, un campo vettoriale ed un campo tensoriale, rispettivamente.

Il valore della variabile in un dato punto del campo è detto intensità del campo in quel punto.

Se l’intensità del campo è costante, in ogni punto si dice che quel campo è uniforme e le sue linee di flusso sono rettilinee, parallele, equidistanti. Così, ad esempio, un campo elettrico è uno spazio in cui vi sono delle cariche elettriche (ioni). Se si sposta una carica elettrica (uno ione) dal punto A al punto B, entro il campo, si può far compiere od assorbire (a seconda del segno delle cariche) un lavoro che dipende solo dalle posizioni dei punti A e B nel campo. Ad ogni punto dello spazio corrisponde una determinata energia da spendere o da ricavare. Questa energia, riferita all’unità di carica elettrica, è il potenziale elettrico del punto in esame, relativamente ad un punto di riferimento ed è il lavoro (l’energia potenziale dell’unità di carica) che si deve spendere o si ricava (a seconda del segno delle cariche) per portare la carica dal punto di riferimento (ad esempio, nella soluzione molto lontano dalla superficie della particella argillosa) al punto in considerazione (ad esempio, a distanza molto ravvicinata dalla superficie della particella).

Il potenziale può essere ottenuto da relazioni in cui le quantità di componente sono espresse differentemente. Così, se la quantità di componente è espressa come massa si ha il potenziale parziale massico, se è espresso in mole si parla di potenziale parziale molare, se la quantità è espressa in peso si ha il potenziale parziale ponderale, se in volume il potenziale parziale volumico.

L’aver richiamato questi concetti può rendere più facile la trattazione dei tanti potenziali che generano altrettanti campi, principalmente conservativi, nell’ambito delle diverse fasi del terreno, la cui conoscenza assume una notevole importanza per un’intima comprensione dei tanti fenomeni che si verificano all’interno di quel complesso sistema polifasico che è, per l’appunto, il suolo.

Si è parlato di potenziale elettrico, cioè il lavoro che si genera, ad esempio, per portare uno ione (carica elettrica) da un punto distante da un colloide (una particella argillosa) ad un punto vicino ad esso. Questo trasporto può verificarsi quando si mette in moto la fase liquida rispetto alla parete solida del colloide, a seguito d’infiltrazione

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d’acqua nel terreno. Naturalmente non tutto il liquido è trascinato, poiché una porzione di esso (di un

certo spessore) rimane aderente al colloide, per le note forze di adesione. Il piano di separazione compreso tra la parte di liquido che rimane aderente alla particella argillosa e quella che è trascinata dalla corrente idrica, è detto piano di slittamento (figura 31).

Il potenziale elettrico in questo piano, di valore compreso tra quello alla superficie del colloide e quello all’interno della soluzione (uguale a zero), si chiama potenziale zeta ed è indicato con la lettera dell'alfabeto greco ζ.

Fig. 31 – Andamento del potenziale elettrico nel doppio strato elettrico e valore del potenziale zeta in corrispondenza del piano di slittamento. Notare la disposizione delle cariche elettriche negative sulla superficie della particella colloidale argillosa, lo strato di cationi a diretto contatto con la superficie argillosa (strato di Stern), lo strato di cationi entro lo strato d’acqua inamovibile rispetto alla superficie del colloide (strato aderente), lo strato di cationi con concentrazione decrescente e tendente asintoticamente a quella esistente all’interno della soluzione (strato diffuso o di Gouy-Chapman).

Si supponga ancora infiltrazione di acqua nel terreno, nel corso della quale il liquido trascina con sé tanto i soluti, in essa in equilibrio, quanto i controioni (cationi, nel caso specifico, in quanto la particella colloidale è elettronegativa) del doppio strato che si trovano nello strato diffuso, oltre lo strato aderente.

Intanto entra nel terreno, a seguito dell’infiltrazione di acqua, una soluzione neutra senza controioni. Il sistema risulterà carico negativamente all’origine, rispetto al punto dove si trova la particella argillosa che si sta considerando (esistono soltanto le cariche

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negative dell’argilla, senza i controioni, in quanto si è supposta la neutralità della soluzione che s’infiltra) e carico positivamente, per eccesso di controioni, a valle della stessa particella. Nel complesso, il sistema risulterà sede di un campo elettrico e la differenza di potenziale tra i due estremi (il primo negativo ed il secondo positivo) si chiama potenziale di scorrimento.

Si genera, invece, il potenziale di migrazione quando le particelle colloidali argillose, disperse nel liquido, sono sottoposte ad un campo gravitazionale o, più efficacemente, ad un campo centrifugo che determina, come visto nel caso precedente, un moto relativo delle particelle solide rispetto al liquido, originando una differenza di potenziale elettrico.

Questi ora trattati, sono dei potenziali elettrici che generano dei campi elettrici. I campi elettrici sono dovuti alle particelle colloidali del terreno, di natura minerale (come quelle argillose, con carica elettrica negativa) oppure organica (con carica elettrica positiva), ed ai controioni (cationi ed anioni, rispettivamente).

Ma nel terreno, come già accennato, si originano anche dei potenziali termodinamici, in relazione al fatto che il terreno è un sistema tipicamente termodinamico.

Con i potenziali termodinamici comunemente si indicano quelle grandezze estensive che sono funzioni dello stato del sistema ed hanno le dimensioni di un’energia. Servono per sviluppare delle formulazioni alternative dei principi della termodinamica, espressi in termini di temperatura, di energia interna ed entropia, allo scopo di semplificare la trattazione di alcuni problemi. La scelta della formulazione più opportuna dipende dalle caratteristiche dei sistemi e dei processi studiati e dai dati sperimentati disponibili.

Il ricorso ai potenziali termodinamici facilita l’identificazione delle condizioni di equilibrio di un sistema (in rapporto ai vincoli cui è soggetto ed ai tipi di lavoro che può scambiare con l’ambiente) e facilita altresì l’analisi dell’equilibrio termodinamico. Consente, inoltre, la valutazione del lavoro ottenibile da un sistema secondo le modalità del processo cui è sottoposto (l’espressione potenziale termodinamico deriva appunto dall’analogia con un campo conservativo di forze meccaniche) e permette l’esplicitazione delle relazioni tra le proprietà empiriche di un sistema e, quindi, di ricondurre la misura di certe grandezze a quella di altre più facilmente misurabili o controllabili. Ogni potenziale termodinamico è definito come funzione di un insieme specifico di altre grandezze del sistema, che sono le variabili caratteristiche di quel potenziale termodinamico.

L’energia libera di un sistema semplice, per esempio costituito da un unico componente, è funzione della temperatura e del volume, mentre l’entalpia ha come variabili caratteristiche l’entropia e la pressione.

La relazione funzionale tra potenziale termodinamico e le sue variabili caratteristiche contiene una descrizione termodinamica completa del sistema. Essa è, infatti, equivalente alla cosiddetta relazione fondamentale tra l’energia interna e le altre proprietà estensive del sistema (entropia, volume, numero di moli dei componenti chimici), da cui può essere ricavata matematicamente con una trasformazione di Legendre, che sostituisce nella relazione fondamentale una o più proprietà estensive con le corrispondenti proprietà intensive (temperatura, pressione, potenziali chimici).

Detto ciò e ritornando specificamente al terreno, tra i potenziali termodinamici, quelli che rivestono una certa importanza sono i potenziali di pressione. L’acqua che s’infiltra nel terreno, per esempio, può premere contro l’aria intrappolata entro alcuni punti (aria entro i pori che non riesce a sboccare nell’atmosfera), causando un aumento di

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pressione della stessa aria in quel punto, oppure può operare un’aspirazione di quell’aria, determinando, in tal caso, una diminuzione di pressione (depressione).

La differenza fra la pressione che si viene a determinare, a carico della fase gassosa a temperatura costante, in un punto del terreno (che comunque si trasmette alla fase liquida contribuendo così al potenziale di questa) e la pressione dell’atmosfera dicesi potenziale pneumatico dell’acqua ed è indicato col simbolo ψpa (figura 32).

Fig. 32 – Aria, rimasta intrappolata in un poro del terreno, messa in pressione dalla superficie curva liquido-gas. La differenza tra la pressione dell’aria entro il poro e quella dell’atmosfera è uguale ad un valore ∆P, detto potenziale pneumatico.

Un altro importante potenziale termodinamico è il potenziale matriciale (Ψpm). Esso rappresenta la quantità minima di lavoro, per quantità unitaria d’acqua, necessaria per estrarre dal terreno, in condizioni isoterme, una quantità infinitesima di liquido, vincendo le sole forze attrattive tra acqua e particelle solide di terreno. E’ questo un valore negativo, perché il lavoro non si ottiene ma è da spendere. Tale lavoro si misura in joule/kg, oppure in joule/m3, in bar, in m (S.I.), oppure in erg/g, o in cm (C.G.S.), oppure in atm.

Tali forze attrattive, come già visto e richiamandole ora in sintesi, sono in rapporto a fenomeni di capillarità, di adsorbimento superficiale e di adesione. I fenomeni di adesione, in particolare, sono dovuti all’attrazione delle molecole d’acqua alla superficie delle particelle colloidali minerali (argilla) ed organiche (humus) per l’effetto di forze di natura elettrica. Tali sono i campi generati da cariche elettriche libere, i legami idrogeno, le forze di van der Waals, gli ioni adsorbiti o quelli del doppio strato elettrico.

Queste forze si estendono, a partire dalla superficie solida della particella colloidale di terreno, per una distanza corrispondente a parecchi strati di molecole d’acqua, tanto che uno strato di circa 4 molecole d’acqua è trattenuto ad un potenziale di circa –15 bar. Quest’acqua è in pressione, premuta contro la parete della particella di terreno ed ha maggiore viscosità dell’acqua libera. Il potenziale, che esprime unicamente la componente di pressione nella fase liquida ed è derivante dall’attrazione tra acqua e superficie delle particelle di terreno (non sottoposte a sforzi influenzanti il potenziale dell’acqua), è detto potenziale d’umidità (Ψwp, wetness potential). Il potenziale

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177 Il terreno

d’umidità è funzione empirica dell’umidità del terreno ed è caratteristica di questo. Il potenziale d’umidità, in un terreno le cui particelle non sono sottoposte a sforzi

efficaci, in valore assoluto, corrisponde al potenziale matriciale.Superfici curve d’acqua (menischi) delimitano la stessa acqua (abbastanza lontana

dalle particelle solide di terreno) dall’aria del terreno e, quando incontrano le superfici delle particelle terrose, formano angoli di contatto normalmente inferiori a 90°.

Quando l’attrazione tra la superficie della particella di terreno e le molecole d’acqua è uguale all’attrazione delle molecole d’acqua tra loro, l’angolo di contatto è zero ed i menischi sono concavi (superfici perfettamente bagnabili). Tali menischi esercitano una trazione sulla retrostante massa d’acqua che viene perciò sottoposta a pressione negativa (tensione dell’acqua nel terreno). La tensione dell’acqua nel terreno è tanto maggiore (in valore assoluto, senza segno algebrico) quanto più ricurve (più concave) sono le superfici aria-acqua. Per estrarre acqua dai pori, in cui il liquido è in tensione, occorre spendere un lavoro che, riferito alla quantità unitaria d’acqua, è detto potenziale capillare e di cui si è già accennato a proposito delle proprietà di capillarità del terreno.

Le forze attrattive, che da una parte mantengono l’acqua in pressione contro la superficie delle particelle di terreno (adsorbimento dell’acqua alla superficie delle particelle) e dall’altra parte mantengono l’acqua in tensione (concavità dei menischi), sono uguali in valore assoluto e trattengono l’acqua nel terreno per effetto del potenziale matriciale. Pertanto, il potenziale matriciale decresce (cresce in valore assoluto) con il diminuire dell’umidità del terreno, perché più elevate sono le forze di attrazione dell’acqua alla matrice solida. Aumentando l’acqua nel terreno, il potenziale matriciale aumenta (diminuisce in valore assoluto), perché diminuisce l’intensità delle forze di attrazione dell’acqua alla matrice solida.

Se il terreno è sottoposto a sforzi operanti sulla sola fase solida (sforzi efficaci), si viene a determinare una differenza tra il potenziale matriciale dell’acqua di questo terreno ed il potenziale matriciale dell’acqua dello stesso terreno non soggetto a tali sforzi e con la stessa umidità. Tale differenza, a temperatura costante, rappresenta il potenziale di pressione d’inviluppo (Ψpe, envelope-pressure potential) e, nel caso in cui gli sforzi efficaci operanti sono diretti verticalmente verso il basso, esso prende il nome di potenziale di sovraccarico (Ψob, over-burden potential).

Al di sotto del pelo libero di una falda freatica, il terreno è talmente inzuppato d’acqua che le particelle solide sono isolate, libere, sospese e pertanto la pressione nell’acqua diventa positiva ed il potenziale matriciale, per sua natura negativo, perde di significato ed è chiamato potenziale di sommersione o di pressione idraulica (Ψpi). Tale potenziale non è funzione dell’umidità del terreno, né di alcun’altra proprietà di questo ed è considerato ai fini del moto dell’acqua di falda. Va chiarito che il potenziale matriciale, il potenziale di capillarità ed il potenziale di sommersione sono potenziali di pressione e, in una massa porosa come il terreno, si passa senza discontinuità dall’uno all’altro.

Il totale di potenziale matriciale e di potenziale della pressione d’inviluppo è il potenziale matriciale di quei terreni, le cui parti solide sono sottoposte a sforzi efficaci ed è chiamato, in alcune nomenclature, potenziale tensiometrico perché è quello misurato dai comuni tensiometri, se riferito a livello della coppa porosa.

Il terreno al di sotto del pelo libero di una falda è saturo d’acqua. Se si abbassa la falda, il potenziale matriciale comincia a diminuire ed il terreno rimane saturo sino a quando il potenziale non scende tanto da permettere lo svuotamento dei primi pori.

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Questo è il potenziale d'entrata d'aria (Ψ(f) ) che rappresenta una caratteristica limitante del campo di funzionamento dei tensiometri.

Sommando il potenziale d’umidità (che nei terreni non sottoposti a sforzi operanti sulla fase solida corrisponde, in valore assoluto, al potenziale matriciale), con il potenziale di pressione d’inviluppo (che sommato al potenziale d’umidità dà il potenziale matriciale nei terreni le cui particelle sono sottoposte a sforzi efficaci influenzanti, cioè, il potenziale dell’acqua), con il potenziale pneumatico si ottiene il potenziale di pressione (Ψp).

Il lavoro per lo spostamento di masse costituenti i terreni in campo gravitazionale terrestre (pari a m·g·dz, dove m è la massa del materiale del terreno spostato, g è l’accelerazione di gravità e dz è il differenziale della distanza, cioè la distanza infinitesima lungo le linee di forza del campo gravitazionale) è detto potenziale gravitazionale (Ψg).

Il totale del potenziale di pressione e del potenziale gravitazionale costituisce il potenziale piezometrico generalizzato (Ψpz).

Il lavoro chimico, ossia il lavoro che si manifesta in modificazioni della composizione chimica dei costituenti del terreno e cioè dell’energia potenziale che gli atomi possiedono, in relazione alla loro posizione nei campi delle forze attrattive che tengono gli stessi atomi legati insieme nelle varie specie chimiche, costituisce il potenziale chimico (Ψc’), a temperatura costante.

Il lavoro osmotico, cioè il lavoro da impiegare per l’estrazione di acqua (solvente puro) dalla fase liquida del terreno (soluzione circolante), rappresenta il potenziale osmotico (Ψo).

In sintesi, la somma del potenziale matriciale (potenziale d’umidità più potenziale di pressione d’inviluppo), del potenziale pneumatico (bisogna ricordare che la somma del potenziale d’umidità, del potenziale di pressione d’inviluppo e del potenziale pneumatico dà il potenziale di pressione), del potenziale gravitazionale (è da sottolineare che questo potenziale gravitazionale più il potenziale di pressione è uguale al potenziale piezometrico generalizzato) e del potenziale osmotico (non va dimenticato che tale potenziale osmotico sommato con il potenziale di pressione è pari al potenziale chimico a temperatura costante) dà luogo al potenziale totale (Ψt), a temperatura costante.

Il potenziale termodinamico totale (ΨΣ) dell’acqua nel terreno, nel senso più ampio, è un’espressione analitica ancora sconosciuta, ma è certamente una funzione di un valore simbolico, indicato come ΨT, usato per esprimere l’influenza di tutti i fattori che entrano in gioco con i cambiamenti di temperatura e del potenziale totale (Ψt). Possiamo, pertanto, scrivere:

ΨΣ = f (ΨT , Ψt)

Si è già visto la grande attrazione tra le molecole della superficie delle particelle terrose (colloidi) e le molecole d’acqua. Questa forza d’attrazione può essere molto forte e può tradursi in un vero adsorbimento di molecole del liquido alla superficie della particella solida, tanto che le molecole d’acqua possono essere adsorbite anche direttamente dalla fase di vapore. E’ perciò comprensibile che le superfici solide, non a diretto a contatto con i menischi, non siano asciutte, ma siano ricoperte da una pellicola

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179 Il terreno

d’acqua (presa per scorrimento sui menischi o condensata dal vapore o trattenuta per precedente sommersione in acqua).

Le molecole d’acqua di questa pellicola sono premute contro la parete della particella solida e tale pressione diminuisce all’aumentare della distanza dalla parete della particella di terreno, tendendo asintoticamente a zero, secondo la legge della proporzionalità inversa alla potenza n della distanza (con n >2). Ora, preso come zero di riferimento il potenziale totale dell’acqua non soggetta all’attrazione delle particelle di terreno, diventa possibile definire, per l’acqua adsorbita alla parete solida delle stesse particelle, un potenziale totale di adesione o meglio un potenziale di adsorbimento (Ψad), uniforme entro la pellicola, per ciascun spessore dato della pellicola stessa. Se questa si assottiglia (partendo da uno stato di riferimento), il potenziale di pressione del suo strato esterno resta zero, ma decresce (cresce in valore assoluto) il suo potenziale di posizione (energia potenziale dello strato più superficiale della pellicola d’acqua che è maggiore di quella del campo d’attrazione generato dalla parete), che è un valore negativo coincidente col potenziale totale di tutta la pellicola. Col diminuire della quantità d’acqua e con l’assottigliarsi della pellicola diminuisce il suo potenziale, ossia occorre spendere maggior lavoro per estrarre la successiva quantità unitaria d’acqua.

Prima di concludere questa parte relativa ai potenziali idrici del terreno, giova ricordare e descrivere un interessante strumento di misura del potenziale tensiometrico e quindi del potenziale matriciale dell’acqua nel suolo, che è il tensiometro. Esso è costituito da un tubo alle cui estremità è inserita, rispettivamente, una capsula di materiale poroso ed un vacuometro. Il tubo è riempito d’acqua ed infisso nel terreno in modo che la capsula raggiunga la profondità voluta. L’acqua presente nel tubo, se nel terreno è presente umidità minore dell’umidità massima, esce attraverso la capsula fino a quando la tensione dell’acqua nel suolo non è in equilibrio con quella all’interno del tubo, rilevata dal vacuometro. Il campo di misura teorico va da 0 a 1 atm, quello pratico non supera 0,8-0,85 atm, perché con tensioni superiori l’aria tende ad entrare dalla capsula ed a ripristinare, quindi, la pressione atmosferica. Un tensiometro predisposto in modo da aprire o chiudere un circuito elettrico secondo l’umidità del terreno prende il nome di tensiostato, spesso utilizzato nelle serre dove comanda le elettrovalvole che provvedono all’erogazione dell’acqua, così da assicurare automaticamente un livello idrico ottimale per le piante.

CONDUCIBILITÀ

La conducibilità è uno dei fenomeni fisici di trasporto. Esiste un trasporto della quantità di moto, di energia e di materia. La conducibilità implica modificazioni locali nello stato della materia attraverso cui avviene la propagazione.

Lo stato fisico della materia può modificarsi per il variare di alcuni dei parametri che definiscono lo stesso stato fisico. Tra questi parametri si ricorda la temperatura oppure, per la migrazione di particelle costituenti la materia stessa, gli elettroni.

Se localmente si ammette la proporzionalità tra il fattore agente ed il trasporto che ne consegue, il coefficiente che la esprime assume nomi diversi secondo la natura del fenomeno. Abbiamo, quindi, una conducibilità termica, una conducibilità elettrica e così di seguito.

La conduzione termica entro i corpi avviene perché il calore si propaga mediante le vibrazioni delle particelle atomiche o molecolari costituenti il corpo, senza che queste

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migrino in seno alla massa dello stesso corpo. Se la temperatura raggiunge il valore in cui avviene il cambiamento di stato fisico,

ulteriore somministrazione di calore sarà impiegata unicamente per realizzare tale cambiamento (liquefazione, sublimazione, evaporazione), senza provocare mutamenti dell’energia interna del corpo e pertanto non può essere incluso nella quantità di calore trasmesso, perché serve unicamente a determinare il cambiamento di stato (calore latente). Per temperature inferiori a quelle che determinano cambiamenti di stato, gli atomi costituenti un corpo solido possono muoversi intorno alla propria posizione di equilibrio con vibrazioni longitudinali o trasversali, oscillazioni o rotazioni.

Le molecole possono essere aggregate in cristalli, gli atomi si trovano in determinati punti del reticolo cristallino elementare ed hanno spazio disponibile per potersi muovere secondo moti vibratori ed oscillatori, secondo la forma spaziale del reticolo e la sua simmetria.

La somma delle energie cinetiche relative ai diversi movimenti e delle energie potenziali relative alle forze in gioco costituisce l’energia interna del corpo. Comunicando calore al corpo, i movimenti anzidetti diventano più ampi, si ha dilatazione e l’energia interna e la temperatura aumentano.

Nel terreno, la trasmissione del calore per conduzione riguarda le tre fasi. I valori più alti di conducibilità si riscontrano per la fase liquida o dove è presente più acqua, come risulta chiaramente dal confronto delle tre seguenti tabelle: la tabella 37, con i valori di conducibilità termica di materiali solidi non metallici a temperatura ambiente, la tabella 38, con i dati di conducibilità termica dell’acqua a diverse temperature, la terza, la tabella 39, con le misure di conducibilità termica di alcuni gas alle temperature di 0 e 100 °C.

Tab. 37 - Conducibilità termica di materiali solidi non metallici a temperatura ambiente.

Materiale Conducibilità espressa in kcal/m h °C (*)Cellulosa 0,12 - 0,16Legno 0,05 - 0,20Argilla secca 0,20 - 0,60Argilla umida 0,80 - 1,00Silice 0,60 - 0,70

Tab. 38 - Conducibilità termica dell’acqua a diverse temperature.

Temperatura (°C) Conducibilità espressa in kcal/m h °C (*)0 0,4830 0,5350 0,55100 0,59

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Tab. 39 - Conducibilità termica di alcuni gas a 0 e 100 °C

Gas Conducibilità espressa in kcal/m h °C (*)a 0 °C a 100 °C

Aria 0,020 0,026Azoto 0,021 0,026Ossigeno 0,026 0,039Anidride carbonica 0,013 0,020Vapore d'acqua - 0,021

* 1 caloria = 4,184 joule 1 watt = joule/secondo

La quantità di calore ∆Q che, nell’intervallo di tempo ∆τ, passa attraverso una superficie S, di spessore δ, è data dalla seguente relazione:

S (t2 - t1)∆Q = λ ∆τ

δ

dove t2 e t1 sono le temperature dei due punti fra i quali avviene il movimento di calore (il calore va dal punto più caldo a quello più freddo) e λ il coefficiente di conducibilità termica. Si ricorda che tale coefficiente λ esprime la quantità di calore (misurata in calorie) che in 1 secondo attraversa uno strato di sostanza di superficie di 1 cm2 e di spessore di 1 cm, quando tra i due punti esiste una differenza di temperatura di 1 °C.

Le altre forme di trasmissione del calore sono la convezione e l’irraggiamento. La convezione riguarda i fluidi e consiste nella propagazione del calore, accompagnata da movimento di materia, per l’azione di correnti convettive generate da variazioni di densità. Quest’ultima tende ad assumere i più bassi valori nei punti più vicini alla sorgente di calore. L’irraggiamento è il passaggio di calore da un corpo caldo ad uno freddo, distanti tra loro, per emissione di radiazioni infrarosse e di onde hertziane da parte dello stesso corpo caldo.

La conducibilità termica del suolo dipende dalla densità apparente e dal contenuto in acqua, sabbia e materia organica.

La conducibilità termica si misura in kcal/m · h· °C (in unità CGS) oppure, in unità SI, in watt per metro e per grado kelvin (kcal/1000 = 1 cal = 4,184 joule =1 watt · sec.; quindi 1 watt = 1 cal/sec.; 1 kw = 1000 w = 1W = 1kcal/h; inoltre, per la misura della temperatura, °C = °K – 273,15).

Se invece di riferirsi ad un corpo tridimensionale come l’intera massa di terreno, avente cioè uno spessore, ci si riferisce ad un teorico strato limite di terreno, non provvisto di spessore, si ottiene la conduttanza termica, espressa in watt per metro quadrato e per grado kelvin e che rappresenta la densità del flusso di calore. In termini dimensionali, ricordando la prima formula, nel concetto di conducibilità il ∆Q è direttamente proporzionale alla superficie, alla temperatura ed al tempo ed inversamente proporzionale ad una lunghezza, per cui, semplificando la dimensione della superficie (al

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numeratore) per quella della lunghezza (al denominatore), si ha una lunghezza ed il valore è in watt per metro e per °K. Nel concetto di conduttanza il termine al denominatore δ è inesistente e la misura che ne deriva è watt per m2 e per °K.

Nella figura 33 vengono riportate delle tipiche funzioni di conduttività termica per terreni di differente densità apparente. Dall’esame della figura è evidente che, allorquando il contenuto d’umidità è basso, i pori del terreno contengono soltanto aria tellurica. L’aria del suolo limita l’aumento dei valori di conduttività termica ed i tre differenti substrati, cui fa riferimento il grafico, hanno una conduttività simile. Quando il contenuto d’acqua aumenta, la conduttività termica della fase solida del terreno diventa elevata nei tre tipi di suolo, ma in maniera differente in rapporto alla densità del suolo ed alla composizione granulometrica. Il terreno sabbioso, che possiede particelle che, a parità di volume, hanno un maggior peso di quelle del terreno argilloso, evidenzia una più elevata conduttività termica. Il terreno argilloso, per lo stesso motivo, ha una conduttività termica maggiore di quella del terreno organico di foresta.

Fig. 33 – Andamento della conduttività termica in un terreno sabbioso, argilloso ed organico di foresta, in relazione al contenuto d’acqua (m3 di liquido per m3 di terreno).

Queste relazioni, che sono qualitativamente evidenti dall’esame della figura 33, possono diventare di tipo quantitativo se esse sono usate come modello. Le tre curve

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sono state ottenute ricorrendo all’equazione di McInnes:

λ = A + Bθ – (A – D) esp [– (Cθ)E]

dove λ è la conduttività termica e θ il contenuto volumetrico d’acqua, A, B, C, D ed E sono coefficienti ottenuti da McInnes. Essi sarebbero più utili se fossero correlati alle proprietà del suolo. Al limite, se θ = 0 (terreno senz’acqua), λ = D.

De Vries, per materiali secchi accertò che D = 0,03 + 0,7 φs2, dove φs è il volume

della frazione solida.

Per suoli minerali con una densità di particelle di 26,6 Kg m− 3 lo stesso De Vries accertò i seguenti valori dei coefficienti:

D = 0,03 + 0,1 ρb2

B = 1,06 ρbθ

A = 0,65 – 0,78 ρb + 0,60 ρb2

C = 1 + 2,6 mc-1/2

dove ρb è la densità apparente del terreno e mc è la massa della frazione argillosa.

La costante C determina il contenuto idrico, dove la conduttività termica rapidamente aumenta ed è altamente correlata con il contenuto in argilla. Alla costante E può essere assegnato il valore 4.

Le conduttività termiche, ottenute con l’impiego delle diverse costanti indicate, rappresentano la conduttività totale. Quest’ultima comprende ambedue le componenti del calore, quella del calore sensibile (che cambia la quantità d’energia interna del sistema) e quella del calore latente (che è impiegato per operare il cambiamento di stato fisico dell’acqua che, passando dallo stato liquido a quello aeriforme, ha bisogno d’energia. Quest’ultima non è utilizzata dal sistema per aumentare la propria quantità d’energia interna).

La conducibilità del calore sensibile è indipendente dalla temperatura, mentre il calore latente dipende dalla temperatura, nel senso che soltanto se è raggiunta la temperatura di cambiamento di stato si avrà calore latente. Per elevata quantità d’acqua presente nel terreno ed una temperatura di 25 °C, il 10-25% della conducibilità può attribuirsi a trasporto di calore latente. A temperature basse ed a ridotti livelli d’umidità, la componente del calore latente è trascurabile.

Trattando della conduttività del terreno si è preso in considerazione la conduttività termica, riguardante il trasporto del calore da un punto ad un altro.

Ma lo studio della conduttività del suolo è molto legato al precedente capitolo riguardante il potenziale del terreno.

Si può senz’altro affermare che laddove esiste un potenziale di qualunque tipo ed allorquando fra due punti del terreno si genera una differenza di valore del potenziale, fra i due punti si determina una conduttività e quindi un trasporto d’acqua, di gas, di nutrienti. Tale trasporto cessa quando la differenza di potenziale tra i due punti diventa

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uguale a zero.In generale, ogni problema di trasporto costante può essere descritto (secondo una

sola dimensione) mediante un’equazione differenziale del tipo:

J = -k dC/dx

dove J è la densità di flusso di energia (calore, elettroni) o di materia (acqua, aria, nutrienti), k è la conducibilità e dC/dx è un gradiente in concentrazione o potenziale.

Il gradiente di potenziale è la forza di conduzione per un determinato flusso. Si dice che tra due punti A e B di una massa di terreno, comunque collegati, esiste un flusso termico se A e B hanno una diversa temperatura e quindi tra loro c’è un gradiente di potenziale di calore, un flusso elettrico se A e B hanno un differente potenziale elettrico, un flusso di un elemento o composto chimico se tra A e B, collegati da acqua, si rileva una differente concentrazione di quell’elemento o composto, un flusso idrico se tra i due punti esiste un diverso potenziale di pressione.

Si ricorda che il verso di tale flusso va dal punto a più elevato valore di potenziale o di concentrazione a quello con tali valori più bassi. Se k e J sono costanti, la precedente relazione viene facilmente integrata per ottenere una differente equazione, nella quale la separazione delle variabili ed integrazione danno:

J = –k (C2 – C1)/ (z2 – z1)

dove C2 e C1 indicano i potenziali o le concentrazioni nelle rispettive posizioni z2 e z1. Se J e k non sono costanti, è possibile integrare la stessa precedente equazione sostituendo k con un’appropriata media di valori, in aggiunta alla distanza z2 – z1.

L’ultima equazione riportata è una semplice equazione algebrica che può essere applicata per descrivere la densità di flusso costante di materia (acqua, aria) o d’energia (calore) del terreno.

Se si suddivide una colonna di terreno in numerosi strati, ciascuno dei quali di spessore infinitesimo (dz), e si conosce la conduttanza (k/dz) di ciascuno di essi (lo spessore di uno strato tende a zero e per questo si parla di conduttanza), nonché la densità di flusso di materia o d’energia attraverso la colonna, è possibile applicare l’ultima equazione per trovare il valore di C (concentrazione o potenziale) del suolo, per ciascuna profondità.

Per ogni strato di terreno è possibile impostare un’equazione a due incognite, ma una di queste incognite può essere eliminata mediante tanti sistemi a due equazioni, ognuna delle equazioni riguardante uno strato, eccetto quella riguardante lo strato posto alla sommità della colonna e quella relativa allo strato posto in fondo. Questi valori di C sono impiegati per determinare la densità di flusso di materia o d’energia, sono chiamati valori di condizione di limite di confine e consentono la connessione tra le condizioni ambientali di ogni punto della colonna di terreno.

La stessa equazione può essere applicata per cercare la densità di flusso J, se i valori di potenziale o di concentrazione sono noti. In tal caso la conduttanza è sperimentalmente rilevata, i potenziali o le concentrazioni sono misurati, così il flusso può essere calcolato.

Quanto è stato visto riguarda lo studio della conducibilità in termini unidimensionali, indipendente dal tempo, mentre le risoluzioni in più dimensioni

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185 Il terreno

comprendono più equazioni e più incognite le quali, in termini di principio, non sono più complicate di quanto finora studiato.

Tuttavia, ogni forma di conduzione, sia riguardi la materia e sia riguardi l’energia, è legata al tempo e le determinazioni delle quantità di flusso e della conduttività comprendono l’accumulo e la conservazione di energia e di materia, che avvengono un po’ dappertutto nel terreno.

La trattazione dell’accumulo e della conservazione di energia (calore) e di materia (acqua, aria) mediante un modello numerico discreto può avvenire supponendo che tale immagazzinamento avvenga nel limite di confine fra gli strati di terreno, cosicché entro ogni strato (assunto di spessore infinitesimo) il flusso è costante. Tale limite di confine tra gli strati di terreno è detto nodo.

Il tasso di accumulazione di energia o di materia è dato dalla capacità del nodo moltiplicata per la variazione della concentrazione o del potenziale e divisa per il periodo di tempo oltre il quale avviene l’accumulo di energia o materia.

I nodi debbono essere distanti tra loro ad intervalli abbastanza serrati, soprattutto in punti del terreno dove avvengono rapidi cambiamenti di potenziale o di concentrazioni, come in corrispondenza della superficie.

Una volta che sono stati formulati i modelli numerici, sarà analizzata l’adeguatezza delle approssimazioni numeriche mediante confronti con soluzioni analitiche di problemi più semplici, oppure modificando lo spazio tra i nodi o il periodo di tempo oltre il quale avviene l’accumulazione ed osservando l’effetto che si ottiene sulla soluzione.

L’approccio ora abbozzato per risolvere equazioni di flusso differisce un poco dagli approcci riguardanti la differenza o l’elemento circoscritto che sono normalmente usati per risolvere queste equazioni.

Quest’approccio è più simile ad un’analisi attuata con una rete di resistori, condensatori e circuiti integrati dove i nodi sono collegati mediante conduttori e l’accumulazione di energia o di materia è rappresentata dai condensatori.

I risultati ottenuti mediante questo tipo di approccio sono buoni quanto quelli ottenuti ricorrendo ad applicazioni matematiche, le quali, bisogna ricordarlo, a volte possono ingannare e portare a risultati non aderenti alla realtà.

E’ auspicabile la comprensione ed il confronto di metodi matematici con sistemi basati sull’impiego di apparecchiature elettroniche ed informatiche.

SUSCETTIVITÀ MAGNETICA

La suscettività magnetica indica il grado di magnetizzazione di un corpo per induzione.

Il terreno presenta questa proprietà che si manifesta con valori molto variabili. I valori di suscettività magnetica possono raggiungere valori considerevoli, dell’ordine di grandezza delle rocce tipicamente magnetiche.

La conoscenza dei valori di suscettività magnetica di un terreno è importante per avere informazioni sull’evoluzione pedogenetica dello stesso terreno.

La variabilità dei dati circa l’attitudine del terreno a magnetizzare avviene in primo luogo lungo il profilo. La suscettività magnetica è molto elevata nell’orizzonte superficiale umifero e decresce via via che ci si approfondisce verso gli orizzonti sottostanti, anche quando il loro valore in ferro è molto elevato.

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La frazione argillosa è la parte del terreno che presenta la maggiore suscettività magnetica, a parte i terreni con sabbie ricche in minerali magnetici.

Il materiale argilloso, tuttavia, quando è trattato con composti chimici in grado di sottrarre tutto il ferro in esso contenuto, assume valori molto bassi di suscettività e ciò fa ritenere che tale proprietà è connessa alla presenza di un ossido di ferro magnetico, esistente allo stato di particelle di dimensioni microscopiche.

Le caratteristiche magnetiche di tale ossido di ferro sono importanti per l’induzione di suscettività magnetiche del materiale argilloso, poiché alcuni neoliti ed altre concrezioni ferrose compatte, pur contenendo fino al 15-20% d’ossido ferrico non presentano, in sostanza, suscettività magnetica.

Alcuni autori ritengono che, nel caso in cui il ferro precipiti in assenza di sostanze organiche, l’ossido ferrico insolubilizzato non presenta proprietà magnetiche ed, analogamente, terreni molto umidi presentano una suscettività magnetica debolissima a causa del dilavamento dell’ossido ferroso magnetico.

E’, pertanto, chiaro che le proprietà magnetiche della frazione argillosa sono in stretta relazione alla presenza di un ossido ferroso magnetico che si produce in presenza di sostanza organica. Il potere riducente della materia organica impedisce, poi, la massima ossidazione dell’ossido ferroso magnetico.

STRUTTURA DEL TERRENO IN RELAZIONE ALLO STATO DI AGGREGAZIONE DELLE PARTICELLE

Come già accennato, la struttura è una complessa proprietà del terreno che riguarda le particelle solide, in particolare quelle costituenti la terra fina, le quali sono reciprocamente disposte in un dato modo e collegate mediante legami di una certa intensità.

La struttura è una caratteristica dinamica, cioè mutevole nel tempo, e pertanto può riferirsi soltanto allo stato variamente durevole del momento in cui il terreno è esaminato.

La struttura del terreno può subire trasformazioni lentissime, della durata di decenni, oppure lente, nel corso del ciclo annuale, oppure molto rapide, come quando intervengono, ad esempio, azioni naturali come una pioggia di varia intensità e durata, oppure azioni antropiche rappresentate dalle lavorazioni, dalle irrigazioni ed altre pratiche agronomiche.

La struttura del terreno è distinguibile, nel senso che, esaminando il volume del suolo o anche semplicemente la superficie, è possibile evidenziare la presenza di porzioni di materia, dette agglomerati o aggregati, le cui particelle costitutive sono collegate tra loro da legami d’intensità più elevata di quelli che tengono insieme, ad esempio, due aggregati contigui.

Possiamo qui ricordare e sintetizzare le principali cause che tengono in collegamento fra loro le particelle solide del terreno:1) adesione tra le particelle più fini del terreno:

le lamelle e le micelle argillose, in un primo momento, proprio perché abbondantemente bagnate, si orientano e si avvicinano e, successivamente, per l’effetto dell’essiccamento, si aggregano. Tra le larghe facce dei foglietti e dei cristalli dei minerali argillosi i legami che si creano sono del tipo di van der Waals, o ponti ad idrogeno, o di tipo ionico dovuti all’interposizione di cationi. Altre attrazioni si

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esercitano tra le cariche positive di facce laterali, spigoli e vertici dei foglietti argillosi e le cariche negative delle loro larghe facce. Nel complesso, l’insieme dei cristalli di argilla si presenta come una struttura compresa tra quella a castello di carte e quella a pacchetti di cristalli indicati col termine di domini. Una rappresentazione schematica di quanto descritto è riportata nella figura 34.

Fig. 34 – Fenomeni di adesione tra le pareti di particelle minerali cubiche (A), tra le larghe facce di foglietti o cristalli di micelle argilloidi (B), schema di collegamento tra lamelle di argilla disposte “in domini”, colloidi organici e particelle quarzose (C), modalità di aggregazione di due cristalli adiacenti di argilla collegati e tenuti insieme da una molecola lineare flessibile di polimero neutro formata da tanti monomeri (D).

2) azione cementante di alcuni precipitati chimici nella soluzione circolante del terreno:

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il Ca(HCO3)2 può precipitare come CaCO3, per perdita di CO2, sulle superfici delle particelle di terreno su cui aderisce fortemente. Se tali particelle sono molto vicine tra loro, la precipitazione del CaCO3 determina la saldatura e la cementazione tra loro. I sesquiossidi idrati di alluminio e di ferro (Al2O3·nH2O e Fe2O3·nH2O), che all’atto della loro formazione sono colloidi positivi, a causa della liberazione di OH¯ conseguente la parziale dissociazione elettrolitica, possono collegarsi direttamente con i colloidi negativi del terreno come l’argilla. Questi cementi inorganici danno luogo a noduli, concrezioni e persino estesi strati lapidei (crosta, cappellaccio) che vanno a costituire determinati orizzonti del profilo del terreno;

3) azione cementante di sostanze organiche derivanti dalla decomposizione di materiali vegetali ed animali o direttamente prodotte dal metabolismo microbico: fra le sostanze organiche derivanti dalla decomposizione di materiali vegetali ed animali, l’humus (acidi umici, a lunga molecola, e gli acidi fulvici, a corta molecola) è il principale rappresentante.Fra i composti organici derivati dall’attività vitale degli organismi viventi nel terreno, le mucillagini, di varia composizione e secrete dai batteri, sono la tipica espressione. Tutte queste sostanze sono di natura colloidale, a superficie massica di gran lunga maggiore di quella delle argille, a carica generalmente negativa e sono capaci di fissare nel loro reticolo, in forma di chelati, gli ioni polivalenti (Ca2+, Fe2+ e, soprattutto, Fe3+ e Al3+), che stabilizzano la struttura reticolare dell’humus (che così acquista una maggiore resistenza all’azione disperdente dell’acqua) e riducono fortemente la velocità di reazione con l’ambiente esterno degli ioni chelati. L’humus, così ben stabilizzato, costituisce uno dei più efficienti e più importanti legami tra le particelle argillose. Lo schema che esprime tale stabilizzazione è il seguente:

argilla-Ca-COO-humus-COO-Ca-argilla

Va anche detto che i legami entro il reticolo umico non sono rigidi e consentono rotazioni attorno al proprio asse, permettendo ampie deformazioni del reticolo, senza rotture. Molto interessanti sono i condizionatori della struttura. Questi composti sono resine poliviniliche artificiali, con pesi molecolari compresi tra 10.000 e 100.000, che agiscono, proprio perché si fissano per alcuni tratti della loro lunghezza, come efficacissimi flocculanti delle particelle terrose e come stabilizzanti delle relazioni spaziali tra le stesse. La loro fissazione alle particelle terrose avviene mediante legami di van der Waals, o ponti idrogeno (polimeri neutri), o con legame ionico.Tra questi ultimi si ricordano alcuni policationi, i più efficaci, o polianioni che si legano solo lungo gli spigoli dei cristalli argillosi.L’azione dei condizionatori dipende dalla loro composizione chimica, dalla dimensione, dalla forma e flessibilità della loro molecola, dalle caratteristiche della superficie delle particelle da legare, incluse i cationi adsorbiti. Quando i condizionatori sono incorporati nel terreno è importante che avvenga la loro

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penetrazione nel volume del terreno, tra le particelle;4) inglobamento ed imbrigliamento di particelle più grosse all’interno del reticolo

colloidale di masse argillose e mucillaginose organiche:le particelle si legano a tutta la massa terrosa, anche indipendentemente da legami diretti tra le superfici di contatto. Nel terreno, per questo meccanismo, le particelle più grosse di limo e di sabbia sono tenute insieme dal materiale argilloso. Le mucillagini, secrete dai batteri dopo l’interramento di materiali organici (ad esempio la paglia dei cereali), inglobano materiale terroso. Il risultato è la formazione di agglomerati generalmente più grossi di quelli costituiti dagli acidi umici. Inoltre, molti condizionatori artificiali della struttura del terreno (emulsioni bituminose, resine poliviniliche) sono in grado anch’essi di inglobare le particelle di terreno. I materiali inglobanti e quelli inglobati vengono così a costituire agglomerati tendenzialmente grossi, come le grosse zolle, instabili all’acqua.Tali agglomerati sono quelli che si formano in seguito all’aratura di terreni argillosi asciutti;

5) azione imbrigliante su materiale già aggregato:quest’azione è operata da strutture macroreticolari molto stabili. Tali strutture sono principalmente costituite da ife fungine, di cui sono ricchi i terreni subacidi per la notevole presenza di materia organica, e dalle radici di piante, soprattutto quelle fascicolate di molte graminacee da prato. Questi tipi di legami, operanti entro la massa terrosa ed accompagnati da efficienti legami entro aggregati di minor ordine di grandezza, come quelli che si stabiliscono in terreni a prati permanenti e pascoli, svolgono un ruolo fondamentale nel contenimento dell’erosione idrica delle masse di terreno;

6) pressione negativa esistente nella fase liquida del terreno quando la sua umidità tende a diminuire (figura 35):l’acqua esistente tra le particelle, nel diminuire, si assottiglia e causa in quel punto una pressione negativa. Per questo motivo, sulle pareti di queste particelle, a cui l’acqua fortemente aderisce, si viene ad esercitare una forza che tende ad avvicinarle l’una all’altra. Queste forze collegano tra loro le particelle solide e danno coesione alla massa di terreno. L’intensità di queste forze è massima per valori intermedi d’umidità. Tali forze diminuiscono notevolmente quando l’acqua si porta verso i livelli estremi, cioè verso livelli di saturazione del terreno che causano ristagno idrico oppure verso bassi livelli quantitativi, come quelli che si riscontrano nei terreni secchi a seguito di persistenti condizioni di aridità.La pressione dell’acqua è, in valore assoluto, troppo debole quando si va verso la saturazione, mentre l’area utile dell’interfaccia solido-liquida diviene troppo piccola quando si tende verso condizioni di siccità.E’ quello che succede sulla spiaggia quando si vuol dar forma alla sabbia e vi si riesce soltanto quando questa ha un giusto grado d’umidità, diventando ciò impossibile quando essa è pregna d’acqua oppure è troppo asciutta.

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Fig. 35 – A seguito della compressione del terreno, le due particelle si avvicinano, col risultato di far avanzare i menischi entro i pori, far diminuire la loro curvatura (per cui il raggio aumenta da r1 a r2), far aumentare il potenziale matriciale. A questo punto, se si sottrae acqua al sistema fino a riportare il raggio di curvatura dei menischi dal valore r2 a r1, tenendo ferme le due particelle o, il che è lo stesso, tenendo costante il volume del terreno così contratto, diminuisce il potenziale matriciale e si stabilisce, entro il liquido tra le due particelle, una pressione negativa ed una forza σ che continua a mantenere le particelle avvicinate anche quando si rimuovono i vincoli che le tenevano ferme e viene a cessare la compressione del terreno. La depressione instaurata nel liquido a seguito della sua asportazione, ad esempio mediante aspirazione con siringa, fa permanere ferme e vicine le sfere e compresso il terreno. L’avvicinamento delle particelle si verifica fin quando le forze attrattive, derivanti dalla pressione negativa (depressione) nella fase liquida, si uguagliano, in valore assoluto, con le forze repulsive del doppio strato elettrico, ottenendosi equilibrio.

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191 Il terreno

Quanto detto fa comprendere come il terreno agrario, da un punto di vista della struttura, sia materia che, a qualsiasi ordine di grandezza, dal livello atomico a quello macroscopico di campo, si presenta eterogenea ed irregolarmente distribuita nello spazio, secondo aggregati che vanno dalle strutture molecolari alle grandi zolle. Tali aggregati sono distinguibili tra loro in quanto evidenziano tutti i casi intermedi, dai reticoli ionici alle vere molecole, da un lato, e dalle sabbie incoerenti degli arenili ai grumi di un terreno secco argilloso, dall’altro. Questi aggregati sono di stabilità molto variabile, perché costituiti da strutture cristalline della roccia madre e grumi dei terreni argillosi a prato o pascolo permanente pressoché immutabili, da labili isole tetraedriche di molecole d’acqua associate a reticoli cristallini, da instabili aggregati dei terreni limosi poveri di materia organica. Simili aggregati possono dar luogo a livelli gerarchici di aggregazione che vanno dal più piccolo, rappresentato da cristalli aventi ai nodi molecole intere (come accade per il ghiaccio), a quelli più grandi, come quegli aggregati costituiti da poche particelle argillose tenute insieme da cariche superficiali e legami con l’humus. Questi, a loro volta, possono essere inglobati da mucillagini o da masse d’argilla gonfie d’acqua, oppure secche, per andare a formare zollette e zolle che sono anch’esse ulteriormente imbrigliate dalle radici delle piante. Con l’analisi granulometrica del terreno s’interrompe quest’intricata serie gerarchica, fermandosi allo stato d’aggregazione della materia più stabile per qualsiasi condizione di campo e corrispondente alle particelle elementari del terreno. Ogni manifestazione d’aggregazione della materia, costituente il terreno agrario di livello gerarchicamente superiore a quello della composizione granulometrica, rappresenta la struttura del terreno agrario.

La struttura del terreno agrario è indistinguibile, cioè non risulta possibile riconoscere alcun tipo di struttura, nel caso di terreni costituiti da sabbie grossolane e di terreni argillosi, a granulometria finissima, molto bagnati e fortemente impregnati d’acqua. In questo secondo caso si verifica uno stato di forte dispersione delle particelle colloidali che risulta particolarmente accentuata nei terreni alcalino-sodici molto bagnati, dove la salinità favorisce ed incrementa lo stato di flocculazione dell’argilla. Ad esclusione delle formazioni sabbiose molto grossolane, la distinguibilità della struttura aumenta col diminuire dell’umidità ed è massima quando il terreno è completamente secco. La struttura è molto ben evidente nei terreni ben provvisti di materia organica, con un valore del pH intorno alla neutralità e soprattutto nei terreni arati o lavorati da poco tempo, in cui i legami tra i singoli aggregati sono praticamente nulli. Si afferma che tale terreno agrario possiede una struttura ad aggregati slegati.

In generale, un buon terreno agrario allo stato bagnato deve avere una struttura tanto più distinguibile quanto più fine è la sua granulometria. Non esiste un soddisfacente indice numerico del grado di distinguibilità della struttura di un terreno agrario e di norma la valutazione è fatta a vista, si descrive o si fotografa. Si possono distinguere accenni di aggregazione in sabbie fini rappresentati da fessurazioni lineari, da aggregati a faccia superiore poligonale concava, da aggregati a struttura lamellare, da aggregati prismatici, da aggregati poliedrici, da aggregati a margine frastagliato, da aggregati cordoniformi, da una struttura a zollette ed a grumi.

Un altro aspetto molto importante della struttura del terreno agrario è la distribuzione di frequenza degli aggregati. In un terreno a struttura sufficientemente distinguibile gli aggregati possono essere classificati in base al loro diametro e, come già visto a proposito della composizione granulometrica, si possono distinguere con nomi diversi certe classi di aggregati.

Nella tabella 40 è riportata una pratica classificazione degli aggregati anche se va detto, a tal proposito, che non esistono convenzioni nazionali od internazionali.

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Tab. 40 – Classifica degli aggregati in funzione del loro diametro, in un terreno a struttura distinguibile.

Nome dell’aggregato Diametro medio dell’aggregato (cm)Zolle > 10Zollette <10 e > 1Grumi >1 e > 0,1Microaggregati < 0,1

Quando l’umidità aumenta, con la profondità, è possibile che la struttura sia distinguibile soltanto in superficie. In tal caso, invece degli aggregati, che possono essere non ben definiti negli strati più profondi, si possono misurare le maglie del reticolo di crepacciature del terreno, con il rilievo della misura (espressa in centimetri) della larghezza delle spaccature e la delimitazione del perimetro (se aperto o chiuso).

In concreto, in un terreno agrario si possono distinguere delle particelle elementari allo stato singolo (elementi dello scheletro, granuli di sabbia grossa o fina e, se il terreno è molto bagnato, anche particelle singole di limo e d’argilla) ed aggregati di varie classi.

Esaminando la struttura reale di un terreno, si è sottolineato, a proposito della tessitura, la grande importanza che hanno i costituenti più sottili e dalle dimensioni colloidali, principalmente per il loro alto potere cementante.

Tale potere di cementazione gioca un ruolo fondamentale nella determinazione della struttura del terreno agrario, perché per esso si riescono a riunire le particelle più sottili di sabbia e di roccia indecomposta ed a fabbricare degli aggregati di un certo volume che vanno comunemente indicati con il nome di glomeruli. Una volta originatisi, i glomeruli diventano essi stessi elementi di struttura e la porosità viene a risultare dai vuoti lasciati tra i glomeruli e non più tra le singole particelle elementari costituenti il terreno agrario. Questo tipo di struttura va sotto il nome di struttura glomerulare, in opposizione alle strutture a particelle singole.

Nella pratica è possibile distinguere vari tipi di struttura, in relazione allo stato d’aggregazione ed all’assestamento delle particelle.

Si possono avere terreni zollosi, terreni a zollette, terreni grumosi quando prevalgono rispettivamente le zolle, le zollette o i grumi. Se prevalgono particelle isolate dalla sabbia fine in giù, eventualmente misti a microaggregati, si hanno i terreni polverulenti. Lo stato zolloso si riscontra a seguito di arature di terreni argillosi allo stato molto secco, specialmente se a struttura poco stabile. Una struttura a zollette si verifica se tali terreni vengono ripetutamente ed energicamente trattati con erpice a dischi, mentre i terreni a grana fine risultano più polverulenti, soprattutto se sono ripetutamente lavorati mediante le macchine fresatrici.

La struttura a particelle singole e la struttura granulare è determinata da elementi terrosi fini, incoerenti e senza una forma di aggregazione, per la mancanza di una qualunque sostanza legante o cementante. Essa dipende soltanto dai componenti della tessitura del terreno. La prevalenza d’argilla o di sabbia, ma anche la presenza dello scheletro, infatti, influenzano l’efficacia degli aggregati strutturali nel mantenimento delle proporzioni tra le diverse fasi del terreno. Anche i residui vegetali e la materia organica in generale svolgono un’azione di grande importanza, attraverso la creazione di

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innumerevoli cavità, canaletti e soluzioni di continuità.Una singola particella può ritenersi stabile se non si muove rispetto alle altre che le

stanno vicine e la risultante delle forze che su di esse interagiscono è un vettore di intensità pari a zero. Le forze attive in equilibrio tra loro sono la forza peso della particella considerata, le forze trasmesse dalla fase solida, le forze trasmesse dal mezzo nello spazio dei pori e le forze che si originano dal contatto delle superfici solide.

La prima forza, quella di gravità, contribuisce in modo preponderante a determinare la struttura di un terreno, senza aver niente in comune con i meccanismi che causano aggregazione. Terreni sabbiosi con bassissimo tenore in sostanza organica, tale da non consentire la formazione di aggregati, riescono a stabilizzare la propria struttura in virtù del fatto che la stessa minima quantità di sostanza organica aumenta la forza dei menischi della soluzione del terreno. Ciò è di grande importanza pratica perché la stabilità della struttura, causata da un simile meccanismo, può verificarsi soltanto in presenza di un certo contenuto d’acqua. Un terreno sabbioso costituito da dune, caratterizzate da grande mobilità per l’instabilità della struttura, può migliorare le proprie caratteristiche con minimi apporti di sostanza organica e programmando opportunamente l’irrigazione. L’apporto di sostanza organica e la presenza di un certo contenuto d’acqua consentono la realizzazione di pratiche agronomiche che comportano l’impiego di macchine pesanti su questo tipo di terreni.

Le interazioni tra la fase liquida e quella gassosa sono importanti nello studio delle strutture dei terreni. Una colonna d’aria può rimanere intrappolata tra due menischi d’acqua, così come una cavità piena d’acqua può essere bloccata da bolle di gas. Orbene, un semplice aumento della temperatura ambiente può sbloccare le sacche d’aria, a seguito della loro dilatazione e causarne l’emissione dalla fase liquida, a seguito di pressioni che spaccano i menischi d’acqua. Anche un evento piovoso, per il raffreddamento che causa nel terreno, può indurre l’incorporazione di bolle d’aria nella fase liquida, con conseguente nuova interruzione della continuità dell’acqua nel terreno.

La capacità delle argille di soggiacere al fenomeno della coesione non rappresenta un modello di cementazione. Un’architettura strutturale costituita esclusivamente di particelle argillose o limose è da considerarsi una struttura a particelle singole, vale a dire con assenza di aggregati. In relazione a ciò, la contrazione ed il rigonfiamento delle argille sono un esempio evidente di struttura in assenza d’aggregazione. La contrazione ed il rigonfiamento possono determinare forti pressioni, influenzare le fasi fluide del terreno ed indurre la formazione di crepe. Questi fenomeni sono anche in relazione all’alternativa dello stato di sol e di gel delle strutture argillose, caratterizzate da un definito reticolo cristallino, ed all’espansione e contrazione dei minerali del terreno. Le forze di coesione che si esercitano tra le particelle argillose, infatti, sono le stesse che conferiscono all’argilla le proprietà plastiche e sono simili a quelle che inducono caratteristiche di adesione, proprie di quei terreni che rimangono aderenti agli attrezzi di lavoro in presenza di acqua.

L’argilla passa, in rapporto al contenuto d’umidità, da una forma solida, dura e compatta ad uno stato di dispersione e ciò dipende da proprietà statiche della tessitura del suolo quali il tipo d’argilla, i cationi di sostituzione ed i siti specifici del loro adsorbimento nel complesso di scambio. In presenza di una certa quota d’acqua, definito limite liquido, l’argilla non subisce dispersione e per provocarla bisogna sgretolarla e disturbarla meccanicamente, così da rompere i legami che tengono insieme le particelle. Tali legami non derivano dall’argilla, bensì dalla sostanza organica cui è da imputare l’azione cementante, con la formazione dell’aggregato argilloso. L’infiltrazione dell’acqua nell’argilla, infatti, è inibita proprio dalla presenza della sostanza organica,

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dimostrando, così, che in assenza di quest’ultima, è soltanto grazie alle forze di coesione e di adesione che si verifica formazione di un addensato argilloso e non alla cementazione (provocata, si ripete, soltanto dalla materia organica), in grado di indurre aggregati di struttura.

Un’altra caratteristica dei terreni argillosi è la loro crepacciabilità e la loro permeabilità, perciò l’argilla, o almeno parte di essa, può non essere mai compartecipe agli scambi idrici e comportarsi, da un punto di vista pedologico, quasi come scheletro, cioè come singole particelle non aggregate.

L’osservazione di un terreno argilloso, in particolare di quelli in cui l’eventuale falda acquifera è lontana dalla superficie, come accade nei terreni collinari, evidenzia la presenza di crepe e fessure che persistono anche quando l’umidità si mantiene alta e finanche al raggiungimento della capacità di campo. A tal proposito si ricorda che la capacità di campo indica un valore di umidità prossimo al limite di saturazione capillare, in corrispondenza del quale il terreno trattiene il massimo contenuto d’acqua ed ha drenato tutta quella gravitazionale, cioè quell’acqua percolata verso il basso ad opera della forza di gravità. Si può notare che le crepe rimangono aperte per quasi tutto l’anno e sulla superficie si possono osservare tutti i fenomeni di cristallizzazione salina, di decomposizione dei minerali e dell’attività biologica. Tali fenomeni, invece, non si riscontrano all’interno delle zolle d’argilla dove si possono rilevare zone di discontinuità che impediscono la chiusura completa delle fessure, anche durante la stagione delle piogge, pronte a riaprirsi vistosamente, nella stessa posizione, con la riduzione dell’umidità. Neppure le lavorazioni superficiali del terreno cambiano l’aspetto di questi terreni anche se possono modificare l’incidenza del fenomeno.

La frazione argillosa di un terreno crepacciato può essere poco interessata dalle caratteristiche di permeabilità, poiché il drenaggio dell’acqua avviene principalmente attraverso le fessurazioni. La permeabilità massima dell’argilla può essere stimata intorno ad 1 mm di acqua per ora e, se due crepe distano tra loro 20 cm, devono rimanere piene per oltre quattro giorni affinché la loro acqua si congiunga. Inoltre, la permeabilità di alcune argille sature può essere inferiore a 0,1 mm/h e l’acqua può impiegare, per percorrere uno spazio di 10 cm, in presenza continua di umidità, oltre un anno, il che significa che la parte argillosa praticamente è stata esclusa dagli scambi idrici e si è comportata alla stessa stregua dei materiali più grossolani del terreno. Pensare che un terreno argilloso sia poco permeabile, con perdita di acqua di scorrimento superficiale del 50-60%, potrebbe condurre ad errore, come dimostrano i bilanci idrici dei terreni fessurati di collina in cui le crepe costituiscono il sistema drenante, e non solo, in condizioni di siccità. La dimostrazione di ciò si ottiene dai cospicui fenomeni franosi dei terreni collinari, molto argillosi ed apparentemente impermeabili, anche rivestiti da cotiche erbose, dovuti alle profonde infiltrazioni idriche avvenute attraverso le crepe e le fessurazioni presenti. In alcune aree appenniniche italiane, dove le precipitazioni superano i 1000 mm per anno, alcune piogge, di circa 300 mm, causano un limitato scorrimento superficiale. Questo è pari a 12,5 mm su terreni arati coltivati a frumento e meno di 2 mm su terreni a prato, pari allo 0,1-1% delle precipitazioni totali.

La struttura glomerulare, detta anche grumosa, è costituita da aggregati porosi, irregolari, capaci di consentire buone condizioni di abitabilità anche ad un terreno bagnato e che, per varie cause, si è costipato. Questa è una struttura ottima da un punto di vista agronomico, per la presenza di glomeruli formati da particelle elementari che si sono cementate e soprattutto per l’azione di colloidi organici costituenti l’humus. La struttura glomerulare si riscontra in terreni a tessitura equilibrata, ben dotati di sostanza organica e di calcio, con reazione vicina alla neutralità. I meccanismi che conducono alla

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formazione di aggregati strutturali nel terreno sono di natura molto varia e dipendono da un complesso di fattori. Tra questi si annoverano la proporzione tra le diverse frazioni granulometriche, la natura chimica delle particelle elementari, l’attività biologica, gli interventi antropici e climatici.

La struttura granulare deriva dalla flocculazione (coagulazione) dei colloidi minerali che danno origine a glomeruli di forma rotondeggiante o prismatica irregolare.

Il meccanismo di flocculazione consiste nel riavvicinamento delle particelle di terreno che si sono allontanate per azione dell’acqua e per fenomeni di rigonfiamento. Bisogna anche precisare che, nel rigonfiamento del terreno, mai si verifica la dispersione illimitata nell’acqua delle micelle colloidali. Il riavvicinamento delle micelle è ostacolato dall’azione repulsiva del doppio strato elettrico, perciò, affinché esso avvenga, è necessario che le particelle ricevano una certa quantità d’energia, detta energia d’attivazione della flocculazione. In presenza di abbondante acqua, l’agitazione termica del mezzo, che si manifesta come moto browniano delle particelle colloidali, permette ad un certo numero di queste ultime di oltrepassare la barriera dell’energia di attivazione della flocculazione. Se una particella colloidale a velocità sufficientemente alta urta contro un’altra particella colloidale, l’interazione tra i loro doppi strati elettrici causa un’azione di rallentamento in grado di avvicinare le pareti solide delle stesse particelle, così che, per l’entrata in gioco di forze attrattive (le forze di van der Waals e le forze elettrostatiche in certi punti), le due particelle rimangono collegate. La stessa agitazione termica potrebbe di nuovo separare le due particelle, ma la probabilità che questo si verifichi è minore. La velocità di flocculazione è fortemente condizionata dalle caratteristiche della curva del potenziale elettrico e quindi dal tipo di catione, perciò il Fe3+, il Ca2+ ed il Na+ danno, nell’ordine, valori di repulsione crescenti. In condizioni di campo aperto, tuttavia, la disidratazione del terreno è il fattore più importante nel favorire il periodico ripristino dello stato di flocculazione, poiché in tal guisa si obbligano le particelle a riavvicinarsi a spese dell’energia dell’acqua del terreno o dei fattori esterni che fanno variare l’umidità.

Prima di concludere questa parte, va detto che esistono sostanze chiamate flocculanti le quali sono capaci di provocare processi di flocculazione nei sistemi colloidali.

Dal punto di vista agronomico, i flocculanti hanno grande importanza nel mantenere il terreno in buone condizioni fisico-strutturali, poiché tendono a ridurre il colloidismo del suolo, agendo principalmente sui componenti argillosi. Tali componenti argillosi sono dei colloidi elettronegativi, mentre i loro flocculanti sono i colloidi elettropositivi, come gli idrossidi di ferro e di alluminio, e soprattutto i cationi polivalenti, in particolare Ca2+ e Fe3+. Alcuni polielettroliti organici sintetici agiscono efficacemente sull’aggregazione dei colloidi argillosi.

Azione opposta ai flocculanti è esercitata nel terreno da alcuni ioni alcalini, sodio in particolare, i quali, insediandosi sul complesso assorbente, provocano la deflocculazione dell’argilla e dell’humus ed esaltano le proprietà colloidali del suolo a scapito della fertilità fisica e della stabilità della struttura.

I condizionatori o correttivi della struttura del terreno che s’impiegano in suoli argillosi sono sempre dei flocculanti. A tal proposito si citano il “Flotal”, a base di composti ferrici ed il “Krilium”, a base di polielettroliti organici sintetici.

La struttura di disgregazione è formata da elementi poliedrici, prismatici o d’altra forma. Tali elementi si sono originati dalla frammentazione d’entità più grossolane, in seguito all’azione d’agenti esterni come la temperatura, l’umidità e le lavorazioni.

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Di norma l’agricoltore attribuisce grande importanza alla struttura del terreno in quanto essa è in grado d’influenzare direttamente sia la fertilità del suolo in senso lato, sia la tecnica agronomica. In generale si desidera che in un buon terreno agrario vi siano tanto meno particelle isolate e tanto più grumi e microaggregati e ciò quanto più fine è la composizione granulometrica. Lo stato zolloso è accettabile solo come stato di transizione nella preparazione del terreno. Quello a zollette prevalenti è normalmente sfavorevole come letto di semina, ma è utile per ridurre l’evaporazione dagli strati sottostanti e l’erosione eolica.

Con specifico riferimento allo studio dell’aggregazione delle particelle, per poter ben valutare la struttura del terreno, soprattutto in pedologia, come carattere diagnostico di certi terreni naturali, ma anche in agronomia, in alcuni casi, un’importanza notevole è rappresentata dalla forma degli aggregati di particelle terrose.

Nel terreno è possibile individuare forme caratteristiche di aggregati, presenti in un determinato strato o orizzonte ed in un determinato stato, cioè dopo l’essiccamento o dopo una lavorazione. Le forme di aggregazione più facilmente osservabili sono gli aggregati isodiametrici (nuciformi, pisiformi, zollosi, subglobosi), i quali sono i più frequenti nei buoni terreni agrari, gli aggregati ovoidali o allungati, colonnari o prismatici (quelli dell’orizzonte B dei soloniez, terreni alcalino-sodici), lamellari e vescicolari (nell’orizzonte più superficiale dei soloniez, nei depositi fangosi di terreni alcalini), a spigoli vivi, a spigoli e facce arrotondati, a margini molto frastagliati e superfici irregolari, tipici dei migliori terreni agrari. Tipiche strutture sono quella cordoniforme, con superficie superiore prevalentemente lisciata degli aggregati zollosi e risultanti dall’aratura di un terreno troppo bagnato, quella grumosa o glomerulare, già citata, a grumi raggruppati tra loro e rivestiti di materiale mucoso, così come sono modellati dai lombrichi, riscontrabile frequentemente nei climi umidi ed in terreni ricchi di materia organica. Altra tipica struttura, molto instabile e nettamente definita in superficie, ma mal distinguibile nella parte sottostante, è quella costituita da aggregati che si formano per essiccamento di terreni sottoposti ad un prolungato ristagno idrico. Tali aggregati hanno la faccia superiore liscia e piana o lievemente concava, il perimetro poligonale a spigoli vivi, angoli netti e rare fessurazioni incomplete sulle facce, mentre nella parte inferiore l’aggregato può apparire di buona struttura.

La forma degli aggregati è in relazione ai tipi di legami che s’instaurano tra le varie parti di terreno (legami diretti tra particelle minerali, legami a mezzo di materia umica, concrezioni) ed, in parte, alle modalità d’azione dell’agente esterno sul terreno allo stato plastico (azioni meccaniche connesse alle lavorazioni, all’attività di organismi viventi come i lombrichi, all’accrescimento di grosse radici). In generale, i terreni nei quali prevale l’azione legante della materia organica possiedono aggregati con superfici più irregolari e senza spigoli vivi. Tali aggregati, insieme a quelli isodiametrici, sono rappresentati nei migliori terreni agrari.

Le tecniche di rilevamento della forma degli aggregati del terreno consistono in misure di carattere geometrico o ricorrendo alla fotografia.

La struttura del terreno è una caratteristica eminentemente dinamica e perciò mutevole nel tempo. Di qui la necessità di studiare la stabilità degli aggregati rispetto agli agenti meccanici e, soprattutto, nei confronti dell’azione dell’acqua. La stabilità degli aggregati dipende dalla coesione del materiale terroso, dall’intensità dei legami in esso operanti o almeno da come tali legami sono distribuiti, dalla composizione granulometrica (è nulla per le incoerenti sabbie di un arenile ed è massima per i compatti terreni argillosi), dall’umidità del terreno (più è secco, più elevata è la stabilità dell’aggregazione), dai vari tipi di materiali cementanti e soprattutto dal contenuto in

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materia organica che attenua molto la stabilità degli aggregati più grossi mentre aumenta quella degli aggregati minori, se allo stato umido. Ciò riveste una notevole importanza per il raggiungimento delle condizioni di tempera del terreno e quindi per il miglior funzionamento delle macchine per la lavorazione del suolo, soprattutto di quelli argillosi. In generale, è desiderabile che gli aggregati più grossi (zolle e zollette) siano più friabili, mentre quelli di minori dimensioni (glomeruli e microaggregati) siano il più resistenti possibile. La stabilità della struttura agli agenti meccanici si misura determinando il carico di rottura e lo sforzo di taglio e di torsione dei singoli aggregati, mediante apposite attrezzature (presse, per la determinazione del carico di rottura per schiacciamento; ganasce che impartiscono al grumo taglio e torsione) piuttosto complesse, soprattutto per quanto attiene la preparazione del campione, che rendono questo tipo di determinazioni tutt’altro che routinarie. La stabilità all’azione dell’acqua è uno dei più importanti aspetti della struttura, da un punto di vista agronomico. Va chiarito che si dice stabile un colloide che resta permanentemente disperso, mentre si dice stabile una struttura del terreno i cui colloidi sono stabilmente flocculati.

I legami – che ai vari livelli tengono insieme le particelle di un aggregato e che sono in grado di resistere alle forze di rigonfiamento e di dispersione dei colloidi contenuti nell’aggregato stesso, impedendo che questo si sgretoli – determinano la stabilità all’acqua del grumo di terra. Ciò dipende dalla quantità e dalla qualità dei colloidi minerali del terreno (si ha maggiore stabilità se abbondano i sesquiossidi d’alluminio e ferro, mentre la stabilità si riduce se le argille sono di tipo montmorillonitico), dalla qualità dei cationi di scambio (è preferibile il calcio, mentre il sodio induce instabilità), dalla quantità e qualità dei cementi organici, i quali possono essere sostituiti soltanto dai condizionatori sintetici della struttura (peraltro antieconomici), e ricordando che le migliori e più favorevoli condizioni si realizzano quando la materia organica è poco bagnabile. Così, la stabilità della struttura diminuisce significativamente quando il terreno rimane a lungo abbondantemente bagnato e ciò è in relazione all’azione sfavorevole dell’acqua sulla materia organica. Sulla stabilità della struttura, una certa importanza è esercitata dalle dimensioni dell’aggregato, risultando molto più instabili all’acqua le zolle e le zollette, mentre i grumi ed i microaggregati si comportano in modo diverso.

Le azioni meccaniche operate in seno all’acqua o dall’acqua, oltre alle relazioni chimico-fisiche tra acqua e terreno, influenzano la disgregazione dei grumi.

Tali azioni meccaniche sono: le tensioni che insorgono entro l’aggregato (principalmente zolle e zollette), per la variazione della pressione di rigonfiamento durante la bagnatura, graduale o brusca, che si riscontra, ad esempio, dopo l’aratura, nel corso delle prime piogge; le notevoli pressioni esercitate dall’aria bloccata entro gli aggregati, per effetto della penetrazione dell’acqua attraverso l’intera superficie dello stesso aggregato; l’azione idrodinamica di urto e rimescolamento effettuata dall’acqua, ad esempio, come energia cinetica delle gocce di pioggia e dell’acqua di ruscellamento superficiale.

La stabilità della struttura all’azione dell’acqua dipende dall’andamento pluviometrico stagionale (è meno stabile quando le stagioni sono umide), dal tipo di copertura vegetale del terreno (la stabilità strutturale diminuisce passando dai pascoli ricchi di graminacee cespitose, ai boschi, ai prati avvicendati, alle colture foraggere annuali, alle colture erbacee a semina fitta, meglio se a spaglio, alle colture a file distanziate, peggio se sarchiate, alle coltivazioni arboree, peggio se con terreno frequentemente lavorato, fino al maggese nudo), dalla frequenza delle concimazioni organiche (l’azione favorevole della materia organica dipende anche dal fatto che le

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particelle, proprio perché rivestite di sostanze organiche, aumentano l’angolo di contatto con l’acqua, per cui si genera un minor effetto dirompente sui grumi), dalle lavorazioni del terreno (la cui azione è sempre negativa e lo è tanto più quanto più esse sono profonde e più esse sono frequenti, anche perché favoriscono la decomposizione della sostanza organica) ed, infine, dall’irrigazione che favorisce l’accumulo di materia organica nei climi desertici, mentre la riduce negli altri climi con conseguente peggioramento della struttura.

La struttura del terreno, più precisamente la sua stabilità all’acqua, può modificarsi in tempi brevi, come nel caso di un rapido essiccamento del suolo, oppure in un medio periodo, quando si attuano cicli colturali annuali, o anche in tempi lunghi, fino a diversi decenni, quando determinate tecniche ed ordinamenti colturali sono applicati per molti anni consecutivi. Inoltre, se le sabbie grossolane hanno una resistenza strutturale all’acqua inesistente e di scarso interesse pratico, tale resistenza è importantissima per i terreni argillosi ed è molto legata alla tecnica agronomica. Gli interventi di tecnica colturale debbono favorire la formazione di grumi e microaggregati dotati di una significativa stabilità all’azione dell’acqua.

Una notevole importanza, ai fini della stabilità della struttura di un terreno agrario, assume la cedevolezza degli aggregati. S’intende con ciò, la caratteristica che hanno le aggregazioni terrose di deformarsi (prevalentemente per plasticità) e di permettere a corpi estranei più o meno rigidi di farsi largo durante la penetrazione nel terreno, come nel caso degli attrezzi di lavoro, paletti, lombrichi, o di consentire il loro accrescimento ed il loro sviluppo, qualora trattasi di organi di vegetali come radici, tuberi, bulbi, e rizomi. Tale aspetto coincide con la sofficità del terreno, dipende dalla porosità e dall’esistenza di piccoli aggregati (grumi e microaggregati) ed è connessa con il tipo di legami operanti entro gli stessi aggregati (la materia organica ha la migliore azione legante).

Non esiste un esatto e corretto metodo di misura della stabilità della struttura del terreno.

Spesso la struttura del suolo manifesta un comportamento anomalo agli agenti meccanici e, durante le misure di stabilità, gli aggregati si deformano anziché rompersi.

Nel complesso, l’insieme di struttura e di composizione granulometrica consente la completa descrizione dello stato di dispersione del terreno.

La struttura rappresenta l’aspetto dinamico e variabile di questo stato e perciò essa è meno oggetto di precise misure, pur potendo svolgere in certi casi un ruolo decisivo ed insostituibile nel controllo della fertilità del terreno.

La natura dinamica della struttura è dimostrata dalla continua demolizione e ricostruzione degli aggregati di vario ordine, che si realizza per l’azione di agenti atmosferici (l’andamento pluviometrico, l’azione battente delle piogge, l’abbondante e prolungata umidità, il secco, il gelo e le escursioni termiche), per cause antropiche (lavorazioni, concimazioni, irrigazione, copertura vegetale) e per l’azione combinata delle cause naturali ed artificiali (lavorazione di un terreno troppo umido o troppo secco o in tempera).

La struttura del terreno è una caratteristica talmente complessa che uno stesso agente (ad esempio la pioggia oppure le lavorazioni del terreno) può operare in un senso oppure in quello opposto, in modo favorevole oppure sfavorevole sui molteplici aspetti componenti le caratteristiche strutturali del suolo.

La composizione granulometrica, caratteristica statica del terreno, assume un ruolo fondamentale nella determinazione della struttura, tanto che la dinamicità della stessa ed i vari aspetti e problemi connessi sono tanto più importanti quanto più ricche di particelle

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fini sono i terreni.L’aerazione e le caratteristiche idrologiche (la conducibilità idrica, la velocità

d’infiltrazione dell’acqua, la capacità idrica) sono le proprietà del terreno più direttamente collegate alla struttura. Questa, a sua volta, ha conseguenze su certe proprietà meccaniche del suolo (la lavorabilità, l’agibilità verso le macchine) e sullo sviluppo degli esseri viventi (l’attività microbiologica, quella degli organismi macroscopici animali e vegetali, lo sviluppo radicale delle piante) i quali, a loro volta, sono tutti fattori decisivi della produttività.

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Condizioni chimicheLe condizioni chimiche del terreno influiscono sulle caratteristiche di abitabilità del

suolo e ne determinano le condizioni di nutrizione. I caratteri chimici del terreno sono di natura statica soltanto per quella parte riguardante la composizione dei detriti, da cui ha avuto origine il suolo. Tutte le altre caratteristiche chimiche sono invece tipicamente dinamiche e svolgono un ruolo importantissimo, anche se meno appariscente rispetto alle proprietà fisiche del suolo, di cui è stato trattato a proposito della struttura e della circolazione dell’acqua.

Le reazioni chimiche che si verificano tra il terreno e le sostanze in soluzione nell’acqua, così come le azioni chimiche che intercorrono tra il suolo e l’acqua, assumono un ruolo fondamentale. Il terreno, lungi dal rivelarsi un sistema inerte, si dimostra invece estremamente attivo dal punto di vista chimico, in continuo gioco di azioni e reazioni con le sostanze in soluzione che giungono nel suo ambito.

Le condizioni chimiche del terreno, quelle altamente dinamiche, sono determinate dalle caratteristiche delle tre fasi che lo costituiscono: la fase solida, la fase liquida e la fase gassosa.

Le interazioni, le azioni sinergiche e le contrapposizioni che si determinano tra i diversi fenomeni chimici che si realizzano nel suolo giocano un ruolo altrettanto importante nella caratterizzazione delle condizioni chimiche del terreno.

FASE SOLIDA DEL TERRENO

La fase solida del terreno è rappresentata da composti minerali o inorganici e da composti organici che influenzano, direttamente, le condizioni di abitabilità del terreno ed indirettamente quelle di nutrizione, in rapporto alla loro solubilità ed alla forma di combinazione nella quale essi si trovano.

La chimica della fase solida è ampiamente determinata dallo sviluppo e dalla carica elettrica delle superfici. Le dimensioni colloidali sono quindi le più reattive e sono in grado di stabilire interazioni di diversa natura ed entità tra loro e con le specie molecolari ed ioniche presenti nella fase liquida.

Nello studio delle condizioni chimiche del terreno, in rapporto alla fase solida, si prenderanno in esame i costituenti inorganici del suolo ed i costituenti organici, quindi l’attività superficiale delle particelle terrose che è molto dipendente dalla fase liquida, nel senso che non può esistere uno scambio cationico, un adsorbimento anionico ed un pH del terreno fin quando la fase liquida è mancante nel suolo.

Costituenti inorganici del suolo

I costituenti inorganici del terreno sono molto numerosi e sono rappresentati da prodotti naturali, principalmente dai minerali, vale a dire composti che hanno una struttura cristallina definita, e da altri materiali tipicamente amorfi, in quantità generalmente più ridotte.

Solidi cristallini e solidi amorfi presentano grandi differenze di comportamento: i

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primi hanno proprietà fisiche ben definite ed i loro costituenti si trovano sempre ad un livello energetico inferiore a quello che gli stessi costituenti assumerebbero se presenti in un solido amorfo; i secondi hanno proprietà fisiche i cui valori oscillano entro un intervallo più o meno ampio ed hanno costituenti ad un più elevato livello energetico.

I primi costituenti inorganici del suolo sono i silicati. Essi si distinguono nelle seguenti classi, in rapporto alla struttura cristallina caratteristica, alla disposizione delle unità tetraedriche, al rapporto tra silicio ed ossigeno, al minerale presente tipico della classe: neosilicati, sorosilicati, ciclosilicati, inosilicati, fillosilicati, tettosilicati.

Si ricorda che la classe più importante è quella dei fillosilicati (formati da fogli continui) con numerosi tipi che si differenziano per il numero ed ordine di successione dei fogli tetraedrici e ottaedrici (che concorrono alla formazione dello strato), per la carica elettrica dello strato, per gli ioni presenti nei fogli, per la natura dei legami tra strati, per il tipo di cationi presenti negli spazi interstrato, per la forma macroscopica di cristallizzazione.

Si rammenta ancora che i fillosilicati sono caoliniti o caolini, pirofillite e talco, smectiti o montmorilloniti, vermiculiti, miche, cloriti, argille del suolo. In queste ultime, la mineralogia dei fillosilicati del suolo è complicata ancor più dai rivestimenti di sostanza organica e di ossidi di ferro ed alluminio, che possono variare la capacità di scambio cationico, l’estensione dell’area superficiale, la possibilità di rigonfiamento e di contrazione dei minerali espandibili.

Altri costituenti inorganici del terreno, come si ricorderà, sono gli ossidi e gli idrossidi di ferro, alluminio, titanio, manganese e silicio. Questi composti si differenziano fra loro perché alcuni (i composti del silicio) possono essere progressivamente lisciviati, mentre altri tendono ad accumularsi nella frazione colloidale del terreno. Caratteristica comune a tutti questi composti è la loro organizzazione strutturale, potendo passare dallo stato amorfo, metastabile e di massimo disordine, a quello di elevato ordine, lo stato cristallino, di massima stabilità.

Tali composti, ed in particolare i fillosilicati che sono quelli più diffusi nel terreno, si trovano allo stato colloidale.

Le particelle, proprio perché sono provviste di carica elettrica, in relazione al loro stato colloidale, interagiscono continuamente con la fase fluida. Tale interazione avviene mediante meccanismi di ordine chimico, fisico e chimico-fisico.

La carica elettrica di tali particelle comprende una carica permanente ed una carica variabile.

La carica permanente è legata a fenomeni di sostituzione isomorfa, quando all’interno della struttura tetraedrica ed ottaedrica si ha la comparsa casuale di Al3+ al posto di Si4+ e di Mg2+, Fe2+, Fe3+ al posto di Al3+.

La carica variabile è funzione del pH del mezzo. La somma algebrica della carica permanente (negativa) e della carica variabile (generalmente positiva) si chiama carica netta ed è, per queste particelle, per lo più negativa (la carica permanente è maggiore della carica variabile, in valore assoluto).

Si è detto che la carica variabile dipende dal pH del mezzo e se questo aumenta (quindi diminuisce la concentrazione idrogenionica), i gruppi donatori di protoni, sempre presenti sulle particelle colloidali, cedono protoni ed assumono così una carica negativa che va a sommarsi alla carica permanente, anch’essa negativa.

Se il pH del sistema diminuisce, pertanto aumenta la concentrazione idrogenionica, i gruppi accettori di protoni, anch’essi sempre presenti sulle particelle colloidali, assumono protoni, con la conseguenza di ridurre il valore negativo della carica netta delle

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particelle. Può accadere che, se il pH diminuisce sufficientemente, la carica variabile positiva

diventi in valore assoluto pari a quello della carica permanente, con il risultato che la carica netta assume un valore pari a zero. Il valore di pH al quale tale evento potrebbe verificarsi si chiama punto a carica zero.

Analogamente, gli ossidi di ferro, alluminio, titanio, manganese, sempre presenti in quantità più o meno rilevanti nel terreno, possono subire, a livello della superficie del reticolo cristallino, fenomeni di protonazione e deprotonazione collegati, rispettivamente, a diminuzioni ed aumenti del pH del mezzo, proprio perché nell’interfacies cristallo-acqua si sono costituiti gruppi (–OH e –OH2) che sono sede di carica variabile.

I componenti colloidali minerali, pertanto, hanno un’azione preponderante sulle condizioni fisiche e chimiche del terreno e sono determinanti per le condizioni di abitabilità e di nutrizione.

L’argilla è formata da un gran numero di composti cristallini, di dimensioni submacroscopiche ed appartenenti al gruppo della caolinite e della montmorillonite.

La silice colloidale (SiO2), elettronegativa, è enormemente diffusa e presente in tutti i terreni e deriva dalla decomposizione, per l’azione idrolizzante dell’acqua, dei feldspati e feldspatoidi.

L’allumina, 2Al(OH)3, si trova presente in tutti i terreni ed in grandi quantità nelle terre rosse ed in quelle lateritiche ed ha un carattere tipicamente elettropositivo.

L’idrato ferrico, Fe(OH)3, è presente in tutti i terreni, in quantità minori rispetto all’allumina, da solo o in complessi omoferrici con l’humus e la silice, è di colore rosso ed ha carattere elettropositivo.

Costituenti organici del suolo

La prima fonte dei costituenti organici del suolo è rappresentata dai residui vegetali, costituiti da radici, foglie, frutti, rami più o meno grossolani e che vanno incontro a disfacimento e decomposizione. La seconda fonte è data dalle spoglie di organismi terricoli animali e vegetali (batteri, funghi, alghe, muschi, protozoi, lombrichi e vermi, insetti ed acari ed altri) a cui carico s’innescano i processi demolitivi. Infine, la terza fonte è costituita dall’attività antropica che si concretizza nell’esercizio dell’agricoltura e che comporta, tra l’altro, un apporto di letame e di altri materiali organici (ad esempio il sovescio). I terreni più ricchi in materia organica sono i boschi, i prati, i terreni incolti (dove la vegetazione compie tutto il ciclo vitale nello stesso posto), i terreni lacustri (terreni torbosi) e di montagna (torba di montagna). Altri terreni ricchi di materia organica sono quelli degli orti familiari che sono spesso concimati con spazzature, pollina ed altri concimi organici di varia natura.

Nello studio dei costituenti organici del terreno vanno distinti i materiali che ancora conservano, più o meno accentuatamente, l’aspetto o i segni dell’originaria organizzazione cellulare, dai prodotti che hanno perduto ogni carattere in virtù del quale è possibile il riconoscimento della loro matrice, proprio perché hanno subito trasformazioni chimiche profonde.

Il primo tipo di materiali ha grande importanza su alcune caratteristiche fisiche (dal peso specifico alla porosità, dalla struttura alla capacità idrica e termica) e biologiche del suolo, mentre il secondo tipo di materiali influenza le caratteristiche chimiche e chimico-

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fisiche del terreno. Questi ultimi materiali organici sono in grado di influenzare la capacità di scambio, la formazione di complessi metallorganici ed organominerali, la ritenzione molecolare, l’inattivazione di residui di fitofarmaci e di pesticidi.

Tutti i residui e le spoglie di origine vegetale ed animale sono costituiti principalmente dai seguenti elementi: carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, zolfo, fosforo, potassio, calcio, magnesio, ferro ed altri che sono indicati col nome di microelementi perché presenti in piccole quantità.

I composti organici sono costituiti da zuccheri o carboidrati, amminoacidi e proteine, lipidi o grassi, acidi nucleici, lignine, cere, resine ed altre sostanze di minor diffusione.

I carboidrati o zuccheri sono strutturalmente derivati di alcoli polivalenti, in cui un gruppo alcolico primario (–CH2OH) oppure secondario (=CHOH) è stato, rispettivamente, sostituito con una funzione aldeidica (–CHO) o chetonica (=CO) e, pertanto, sono detti, rispettivamente, aldosi e chetosi. In rapporto al numero di unità strutturali di cui sono costituiti, essi possono distinguersi in monosaccaridi, oligosaccaridi e polisaccaridi.

I monosaccaridi sono costituiti da un minimo di tre (triosi), di sei (esosi), fino a nove atomi di carbonio (nonosi).

Gli oligosaccaridi sono quelli che per idrolisi forniscono da due (i disaccaridi) a sei molecole di monosaccaridi. I polisaccaridi danno, sempre per idrolisi, numerose molecole (da 600 a diverse migliaia) di monosaccaridi ed ai fini dello studio dei costituenti organici del suolo sono quelli che rivestono la maggiore importanza.

I polisaccaridi sono di solito amorfi, insolubili in acqua ed insapori. Fra quelli di origine vegetali, vanno ricordati l’amido e la cellulosa, ambedue ottenuti dalla condensazione anidritica di un monosaccaride, il glucosio. Va sottolineato che quanto più il polisaccaride ha numerosi tipi di legame e quanto più ramificata è la sua molecola, tanto più essa offre resistenza alla degradazione enzimatica. Per tale motivo, la materia organica del terreno è ricca in polisaccaridi i quali vanno incontro a reazioni con i colloidi inorganici, per formare dei complessi organo-minerali che influenzano molto positivamente la struttura del terreno.

Gli aminoacidi sono acidi organici caratterizzati dalla presenza di un gruppo amminico –NH2 in posizione α rispetto al carbossile –COOH. La contemporanea presenza di –NH2 e –COOH conferisce a questi composti la possibilità di comportarsi da acido e da base, caratteristica, questa, tipica dei composti anfoteri.

La proprietà anfotera degli aminoacidi è dovuta al valore del pKa del gruppo amminico, che è circa 9,5, ed a quello del gruppo carbossilico che è circa 2,2. In condizioni di neutralità ambedue le estremità della molecola risultano ionizzate. Prende origine uno ione ibrido, detto zwitterion, che può così schematizzarsi:

R

+H3N C COO¯

H

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Le proteine si ottengono per polimerizzazione degli amminoacidi, perdita di H2O e formazione del legame peptidico NH=. Lo schema della polimerizzazione delle proteine può essere così rappresentato:

R1 R2 R1 H R2

H2NC COOH + H2N CCOO H ➜ H2N C C NC COOH + H2O H H H O H

I lipidi sono composti organici insolubili in acqua ed estraibili da cellule vegetali od animali mediante etere, benzene o solventi non polari. Molto scarsa è la loro importanza quali componenti della materia organica del terreno.

Gli acidi nucleinici, costituenti essenziali e caratteristici del nucleo cellulare, sono polimeri ad elevato peso molecolare, costituiti da unità strutturali dette mononucleotidi. Importantissimo è il ruolo che svolgono nella biologia e fisiologia della cellula vivente. Coniugati con le proteine formano le nucleoproteine. In generale, se contengono RNA regolano e condizionano la sintesi proteica, se sono provviste di DNA assicurano la trasmissione dei caratteri ereditabili. Gli acidi nucleici, presenti nella materia organica del terreno, provengono dai processi demolitivi cui sono sottoposte le spoglie ed i residui d’origine vegetale ed animale.

Le lignine sono polimeri a configurazione spaziale, rappresentano i composti più importanti della sostanza organica del terreno e sono presenti solo nei residui vegetali. Esse sono chimicamente diverse in rapporto al tipo di legno e quindi si hanno lignine da legni teneri (gimnosperme), lignine da legni duri (angiosperme dicodiledoni) e lignine da tessuti erbacei (angiosperme monocotiledoni). Le unità basali dei tre tipi di lignine sono, rispettivamente: 4-idrossi-3-metossifenilpropano; 4-idrossi-3,5-dimetossifenilpro pano; 4-idrossi-mefenilpropano. Le lignine formano polimeri con molti gruppi –OH fenolici e sono presenti nella parete secondaria delle cellule vegetali in quantità proporzionale all’età dei tessuti d’origine. Questi composti organici sono presenti nella materia organica del suolo in rapporto variabile e costituiscono i composti non umici.

I composti umici sono tutti i costituenti della sostanza organica del terreno, con caratteristiche ben definite ed in grado di subire sempre ulteriori modificazioni, in rapporto alle condizioni ambientali.

In condizioni di aerobiosi e di temperature elevate, l’evoluzione dei composti umici è ossidativa ed avviene con rapida e diretta formazione di CO2 ed H2O. Tale processo d’incenerimento, di mineralizzazione e di rapida demolizione della sostanza organica è detta eremacausi, come più volte riferito.

In condizioni di anaerobiosi (terreni paludosi e sommersi dall’acqua) e per temperature basse si realizza un processo riduttivo (torbificazione e carbonificazione).

In condizioni intermedie si realizzano fenomeni evolutivi da cui, nel corso del tempo e per tappe intermedie non sempre chiare, prendono origine i composti umici, originati a seguito del complesso processo d’umificazione.

I composti umici sono costituiti da acidi umici (con il 50,1% di carbonio, 41,0% di ossigeno, 5,5% di idrogeno, 3,0% di azoto e 0-2% di zolfo) ed acidi fulvici (con il 47,5% di carbonio, 46,5% di ossigeno, 4,3% di idrogeno, 1,7% di azoto e 0-2% di zolfo).

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Gli acidi umici hanno una struttura polimerica, con un nucleo aromatico al quale sono legati proteine, amminoacidi, amminozuccheri, polisaccaridi, fenoli, chinoni e metalli, mediante legami che rendono stabile la struttura e la preservano da processi demolitivi di tipo enzimatico. L’acidità è determinata da gruppi carbossilici e gruppi fenolici disposti lungo la catena polimerica ed è in ogni caso più bassa di quella degli acidi fulvici.

Il colore dei composti umici varia dal giallo, al marrone, al nero. Indagini spettrofotometriche, condotte ad una lunghezza d’onda intorno all’UV-visibile (λ = 300-800 nm), hanno consentito di stabilire l’esistenza di una correlazione lineare tra i logaritmi dei valori dell’assorbanza ed i corrispondenti valori di λ.

La pendenza delle rette di correlazione ha permesso di differenziare gli acidi umici dagli acidi fulvici, per il fatto che il valore E4/E6 è più elevato per gli acidi fulvici. Si ricorda, a tal proposito, che la pendenza delle rette di correlazione è espressa numericamente facendo riferimento al rapporto fra i valori di assorbanza (estinzione o densità ottica) a 465 e 665 nm (E4 ed E6, rispettivamente) e che tale valore, noto con la sigla E4/E6, è di 7-8 ed oltre nel caso degli acidi fulvici e di frazioni a basso peso molecolare e di 3-5 per acidi umici o frazioni ad alto peso molecolare (in generale, è inversamente proporzionale al peso molecolare).

La spettroscopia infrarossa (IR) permette di ottenere spettri delle sostanze umiche che consentono di valutare il tipo, la reattività e l’intorno chimico dei gruppi funzionali, la presenza di proteine e di polisaccaridi, l’esistenza di impurezze inorganiche. Le molecole sono in costante vibrazione perché i legami tra gli atomi si allungano e si accorciano (vibrazioni di valenza o stretching) o si piegano gli uni verso gli altri (vibrazioni di deformazione o bending).

Quando la radiazione infrarossa colpisce una molecola con una frequenza uguale a quella di alcune sue vibrazioni, la molecola assorbe energia e l’ampiezza di quella vibrazione viene aumentata. In spettroscopia IR, le frequenze vengono espresse in numeri d’onda per centimetro (numeri d’onda·cm-1), corrispondenti numericamente al reciproco della lunghezza d’onda in centimetro.

Le vibrazioni di bending richiedono minore energia ed assorbono a frequenze inferiori rispetto alle vibrazioni di stretching.

Lo stretching del triplo legame (C≡C) richiede più energia di quello del doppio legame (C=C) e questo, a sua volta, ne richiede più dei legami semplici (C−C; C−O; C−N).

Le conoscenze di questi segnali hanno permesso di individuare negli acidi fulvici gruppi funzionali −OH, alifatici C−H, carbonili C=O, ionici COO-, etilici –C2H5, vinilici –CH=CH–, solfidrilici –SH, di gruppi aldeidici aromatici, amminici.

Gli acidi umici presentano spettri IR molto simili a quelli degli acidi fulvici, con segnali più intensi riferibili ad anelli aromatici e gruppi corrispondenti.

Le sostanze umiche contengono gruppi funzionali chinonici, idrossichinonici, carbonili coniugati ed altri gruppi chimici che possono presentare elettroni spaiati e costituire così dei radicali liberi.

Questi elettroni, essendo dotati di elevata energia, possiedono elevata reattività e sono in grado di indurla alle sostanze umiche che la manifestano intensamente nello svolgimento di reazioni che prevedono lo scambio di un elettrone. Reazioni di questo tipo sono di ossido-riduzione (redox), fotochimiche e biologiche.

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L’enorme reattività delle sostanze umiche si evidenzia, fra l’altro, nell’azione di fotosensibilizzazione.

L’azione fotosensibilizzante facilita la degradazione dei composti organici. Questa azione è evidente negli effetti fisiologici diretti, osservati sui microrganismi e sulle piante, nella formazione dei complessi chimici accettori-donatori di elettroni con composti organici, nell’interazione redox o di complessazione con ioni metallici e con enzimi.

I radicali liberi nelle molecole umiche sono inoltre responsabili della stessa sintesi e degradazione delle sostanze umiche e sono capaci di interagire con un campo magnetico vicino, permettendo così il loro rilevamento mediante la tecnica della risonanza elettronica di spin (ESR).

Lo spin è il movimento rotatorio su se stessi degli elettroni di un atomo. I due elettroni opposti dell’orbitale esterno di un atomo, essendo dotati ciascuno di un movimento di segno opposto, ma di uguale intensità, danno una risultante nulla al movimento di spin.

In un radicale libero, lo spin del singolo elettrone non è annullato (per la mancanza dell’elettrone opposto) ma genera un momento magnetico netto. L’elettrone spaiato si comporta come se fosse un piccolo magnete e se viene immerso in un campo magnetico esterno (intorno ai 104 Gauss) ha solo due orientazioni possibili: parallela o antiparallela al campo magnetico applicato.

Tali orientazioni corrispondono a due livelli di energia distinti, la cui differenza (∆E) dipende dal campo magnetico ed è data dalla seguente relazione:

∆E = gBH

dove g è il fattore di divisione (splitting) spettroscopico (detto valore-g), B è il valore del magnetone di Bohr ed H è il campo magnetico applicato. Applicando una radiazione elettromagnetica intorno a 103 MHz, normale al campo magnetico, si può ottenere un certo valore del campo magnetico per cui vi siano le condizioni di risonanza. In altre parole, gli elettroni acquistano sufficiente energia per passare al livello energetico superiore di spin.

L’energia assorbita per il passaggio ad un’orientazione ad energia superiore viene rilevata e rappresenta lo spettro ESR della molecola. La risonanza elettronica di spin misura, quindi, un assorbimento d’energia.

Lo spettro ESR è presentato, però, come la derivata prima dello spettro d’assorbimento ed un segnale ESR è caratterizzato da quattro parametri: intensità, larghezza di linea, valore-g, struttura iperfina.

L’intensità è data dall’integrazione dell’area sotto il segnale, proporzionale alla concentrazione degli spin degli elettroni spaiati che producono lo spettro.

La larghezza di linea è proporzionale al tempo necessario alla popolazione di spin per tornare ad avere l’energia originale antecedente l’applicazione della radiazione elettromagnetica.

Il valore-g è il valore del campo magnetico sentito dall’elettrone, quindi la misura dell’intorno chimico dell’elettrone, e serve per identificare un segnale sconosciuto, tenuto conto che il valore-g di un elettrone libero (pari a quello di un radicale libero) è di 2,0023 e che la deviazione di un elettrone libero dal valore-g fornisce la misura dell’intorno chimico di un radicale libero.

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207 Il terreno

La struttura iperfina è data dall’interazione tra gli spin degli elettroni spaiati con gli spin del nucleo.

Senza entrare ulteriormente nei dettagli, è sufficiente evidenziare che la spettroscopia ESR ha consentito di rilevare che i composti umici (sia gli acidi umici sia gli acidi fulvici) presentano elevate concentrazioni di radicali liberi di natura prevalentemente idrochinonica e semichinonica.

Gli spettri ESR di soluzioni di sostanze umiche presentano normalmente una singola linea, senza struttura iperfina, un valore-g che va da 2,0031 a 2,0045, una larghezza di linea compresa tra 2 e 3,6 Gauss ed una concentrazione di radicali liberi da 1,4 · 1017 a 37,4 · 1017 spin/g.

Uno schema a blocchi semplificato di come può essere costituito uno spettrometro ESR è riportato nella figura 36.

Fig. 36 – Schema a blocchi semplificato di uno spettrometro ESR per il rilievo dell’assorbimento d’energia, che ha luogo quando si raggiunge l’assorbimento di risonanza ottenuto variando linearmente il campo magnetico e contemporaneamente sovrapponendo un campo magnetico oscillante ad alte frequenze (0,1 Mhz) e di piccola ampiezza. Le microonde, prodotte da un klystron, attraverso una guida d’onda, raggiungono la cavità, posta tra due espansioni di un elettromagnete e dove si trova il campione da esaminare. L’eccitazione degli elettroni degli atomi del campione inducono risonanza che avviene con assorbimento di energia. Tale assorbimento è rilevato, amplificato e trasmesso ad un registratore.

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Le sostanze umiche possono possedere un tipo di elettroni spaiati il quale dà luogo a radicali liberi permanenti, con un lungo periodo di esistenza, e ad un tipo di elettroni spaiati che produce radicali liberi temporanei, ma in grande concentrazione in rapporto a certi trattamenti. I trattamenti che producono radicali liberi temporanei sono, in ordine

decrescente di efficienza: reazioni di riduzione chimica > irradiazione UV > aumento del pH. I composti umici hanno, pertanto, un alto contenuto in radicali liberi e ciò da un lato presenta utili vantaggi per la grande reattività che essi hanno nei confronti di composti organici tossici.

La grande capacità di reazione dei composti umici porta alla degradazione e detossificazione di una grande quantità di composti organici ad azione tossica sulla materia vivente del terreno.

L’impiego della spettroscopia ESR presenta, tuttavia, delle limitazioni ed è più utile per lo studio della reattività ambientale delle sostanze umiche.

Pertanto, può essere necessario ricorrere, soprattutto per lo studio della struttura e delle proprietà delle molecole dei composti umici, sia in soluzione sia allo stato solido, alla risonanza magnetica nucleare (NMR).

Il fenomeno della risonanza magnetica nucleare consiste nell’assorbimento di energia dovuto all’interazione di un nucleo atomico, dotato di un momento magnetico e posto in un intenso campo magnetico statico, con il campo magnetico oscillante di un’onda elettromagnetica, di opportuna frequenza (solitamente nel campo delle onde radio). Tale assorbimento di energia avviene ad una determinata frequenza ed è detta, appunto, frequenza di risonanza.

I segnali che i nuclei atomici interessati ritrasmettono modulati al dispositivo ricevente e che costituiscono lo spettro di NMR, non solo rivelano la presenza dei nuclei, ma portano con sé anche informazioni sulla natura dell’ambiente elettronico in cui i nuclei stessi si trovano.

La tipicità di questa metodica d’indagine è data dal fatto che vi operano solo quei nuclei che possiedono un momento magnetico, mentre il resto della molecola non interferisce affatto.

L’intenso campo magnetico statico ed omogeneo di 14.000 Gauss, entro cui si pone il campione da analizzare, è creato da un elettromagnete altamente stabilizzato.

La sorgente a radiofrequenza fissa (ν = 60 MHz) può essere data da un oscillatore a cristallo ed il campo magnetico dell’onda deve oscillare in un piano perpendicolare al campo magnetico statico.

Per indurre le risonanze dei nuclei degli atomi del campione da analizzare, bisogna creare piccole variazioni del campo magnetico statico (prodotto dal magnete stabilizzato) e ciò si realizza con solenoidi alimentati in corrente continua.

Raggiunta la risonanza, vi è un assorbimento di energia nello spazio interno al solenoide dove si trova il campione e ciò provoca una caduta di tensione che viene amplificata e trasmessa al registratore.

Il tubicino contenente il campione è tenuto in rotazione alla velocità di 20-30 giri/s, allo scopo di eliminare le inevitabili disomogeneità del campo magnetico.

L’oscillatore a bande laterali di 5 kHz opera da modulatore di campo e serve a compensare le possibili piccole variazioni dell’intensità del campo magnetico provocando delle variazioni di compensazione della frequenza dell’onda radio usata

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(ancoraggio dell’intensità di campo). Per queste compensazioni delle variazioni di campo s’impiega un secondo tubicino,

con un campione di controllo del tutto uguale al campione da analizzare. Nella figura 37 è riportato lo schema a blocchi di un tipico spettrofotometro per

NMR.

Fig. 37 – Rappresentazione schematica a blocchi di uno spettroscopio per NMR.

Nell’ambito della spettroscopia NMR numerose sono le tecniche note e che si possono adottare nello studio delle sostanze umiche. Così, la tecnica FT-NMR, applicabile solo su molecole in soluzione, ha permesso l’individuazione delle differenze strutturali di sostanze umiche d’origine diversa, ha consentito la conferma della presenza di catene polimetileniche, di segnali relativi a carboni legati ad alcoli ed esteri e quindi la presenza di carboidrati e proteine nelle sostanze umiche, ha dato modo di rilevare i segnali dei carboni in strutture aromatiche a diverso grado di sostituzione e dei carboni carbossilici e chetonici. La tecnica CP-MASS (Cross Polarization Magic Angle Spinning, ossia la polarizzazione trasversale ad angolo magico) è una tecnica NMR che consente l’analisi di un campione solido, però quando questo è posto ad un angolo di 54° 44’ rispetto alla direzione del campo magnetico applicato, ed ha già fornito importanti informazioni sulle origini geochimiche delle sostanze umiche e sui meccanismi preposti alla loro formazione.

La spettroscopia di fluorescenza consente di determinare nelle sostanze umiche la

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presenza di gruppi cromofori (sistemi aromatici condensati e catene alifatiche) che conferiscono proprietà fluorescenti.

Tali proprietà sono in relazione all’origine delle sostanze umiche, al peso molecolare, alla loro concentrazione, al pH, alla forza ionica, al potenziale redox del sistema, all’interazione con ioni metallici e con composti organici semplici. Va anche detto che i gruppi chimici, in grado di dare fluorescenza nelle sostanze umiche, sono relativamente pochi e tale fatto può ridurre l’interesse nell’applicazione di questa tecnica.

Come è noto, nella spettroscopia UV-Vis, l’assorbimento di una radiazione luminosa porta una molecola ad uno stato energetico elettronico e vibrazionale eccitato. Poi la maggior parte delle molecole ritorna allo stato normale e dissipa la maggiore energia acquistata sotto forma di calore. Nelle molecole con gruppi cromofori, solo una frazione di quest’energia è dissipata come calore. La restante parte d’energia residua è emessa come radiazione elettromagnetica, con un λ maggiore di quello della radiazione incidente. Pertanto, si ha fluorescenza quando il passaggio da uno stato eccitato allo stato normale è accompagnato dall’emissione di un fotone. La fluorescenza è l’inverso dell’assorbimento di radiazione ed avviene con l’emissione di un fotone, a minore energia (e quindi a maggiore lunghezza d’onda) del fotone assorbito, per arrivare allo stato eccitato.

La fluorescenza è fornita da pochi composti alifatici ed aliciclici, da doppi legami (C=C) e da anelli aromatici. Le sostituzioni con gruppi donatori d’elettroni (–OH e –NH2) aumentano la fluorescenza, mentre i gruppi che attraggono elettroni (–COOH) la diminuiscono. Spesso l’interpretazione degli spettri di fluorescenza presenta difficoltà operative ed è assodato che i massimi di lunghezza d’onda di fluorescenza sono più bassi negli acidi fulvici, rispetto agli acidi umici. Ciò sembra indicare la presenza negli acidi fulvici di componenti strutturali più semplici, con minor contenuto di gruppi aromatici sostituiti e policondensati a basso grado di coniugazione.

La spettroscopia di fluorescenza è il mezzo più importante ed ancora poco sfruttato per studiare la reattività dei materiali umici. La capacità reattiva dei materiali umici può essere evidenziata attraverso lo studio delle modificazioni dello spettro dovute alle interazioni con altre componenti molecolari dell’ambiente, come i metalli pesanti o i composti organici tossici.

I polimeri umici hanno pesi molecolari oscillanti tra 1.000 e 30.000, hanno molecole di forma sferica, di diametro di 100-150 Å e sono formati da strutture fenoliche (acido benzoico, acido benzen-dicarbossilico, acido benzen-tricarbossilico, acido benzen-tetracarbossilico, acido benzen-pentacarbossilico) unite tra loro tramite legami idrogeno e da nuclei chinonici condensati con amminoacidi e polisaccaridi.

L’humus ha, come si è visto, una composizione molto complessa, data da composti che non hanno adesione, coesione e plasticità.

Una delle principali proprietà dell’humus è la grande capacità di assorbire l’acqua (fino al 209,2%), l’aria, le sostanze nutritive e di possedere naturalmente sostanze azotate in quantità maggiori nei terreni delle zone meridionali, rispetto a quelli delle aree settentrionali.

Giova ricordare, infine, che l’humus aumenta la compattezza, la porosità, la sofficità di un terreno sciolto ed a grana grossa, proprio perché va ad occupare i grossi pori esistenti. In un terreno argilloso, l’aggiunta di humus ne aumenta la scioltezza, la permeabilità, la sofficità e ne diminuisce la plasticità, la coesione e l’adesione. L’incremento di humus in un terreno argilloso, per le caratteristiche spugnose dello stesso materiale umifero, ne migliora sempre la capacità idrica.

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211 Il terreno

L’humus cede nutrimento alle piante, direttamente attraverso i suoi elementi costitutivi ed indirettamente perché ritiene elementi nutritivi come il potassio o l’azoto ammoniacale e li cede gradualmente alle piante, quando queste ne hanno bisogno. L’humus rappresenta il miglior substrato per gli organismi viventi nel terreno e per la vita microbica. L’humus riscalda il terreno sia per i processi zimotermici che si verificano a carico dei composti organici costitutivi e fondati su di una serie di reazioni biologiche esotermiche, sia per il suo colore tendente allo scuro che riduce al minimo la riflessione e la dispersione della radiazione luminosa solare.

Attività delle particelle terrose

Il potere assorbente del terreno è la proprietà di trattenere e fissare alcune sostanze della soluzione circolante.

Il terreno può trattenere le particelle grossolane in modo puramente meccanico, comportandosi come un filtro vero e proprio. Va, tuttavia, precisato che il terreno può trattenere meccanicamente solo quelle particelle di diametro superiore a quello dei pori. Quanto più compatta è la struttura del terreno e, quindi, quanto più piccole sono le particelle di cui è costituito, cioè quanto più piccoli sono i pori, tanto più elevato è l’assorbimento meccanico di quel terreno. Soltanto le sostanze in sospensione sono oggetto d’assorbimento meccanico da parte del terreno e mai le sostanze in soluzione. Queste ultime attraversano sempre il terreno, fin quando questo si lascia attraversare dall’acqua.

Ma il terreno assorbe molte altre sostanze presenti nell’ambiente per il solo fatto che esistono organismi viventi, microrganismi ed organismi superiori, che sono parte integrante del terreno stesso.

Gli esseri viventi sono caratterizzati dalla capacità di organizzazione, per la quale essi sono capaci di trasformare le sostanze che sottraggono dal terreno in sostanza vivente. Questa trasformazione può avvenire da elementi e composti minerali, i quali sono trasformati in sostanza organica. E’ questa la capacità di organicazione che è tipicamente espletata dagli organismi autotrofi.

Ma il processo di organizzazione degli organismi viventi può anche partire più semplicemente dalla materia organica, direttamente assimilata dall’ambiente. Ciò accade per gli organismi eterotrofi i quali non sono in grado di trasformare le sostanze minerali.

Le sostanze somministrate al terreno, riccamente popolato di microrganismi e coperto da vegetazione, sono utilizzate dagli esseri viventi e scompaiono naturalmente dalla circolazione per diventare parte integrante del complesso polifasico suolo.

Legato anche al potere assorbente del terreno è l’adsorbimento. Il concetto si basa sul teorema di Gibbs per il quale sulle superfici di separazione tra fase dispersa e mezzo disperdente, la fase liquida, esiste una concentrazione di sostanze in soluzione che è diversa da quella che si riscontra in altri punti del sistema. Le sostanze che abbassano la tensione superficiale dell’acqua si concentrano sulla superficie, mentre le sostanze che provocano l’aumento della tensione superficiale dell’acqua riducono la loro concentrazione sulla superficie. Una soluzione acquosa, a contatto con materiale terroso, presenta strati dove le sostanze disciolte si concentrano o si diluiscono a seconda che tali sostanze abbassano o innalzano la tensione superficiale. Ciò accade per un effetto meramente fisico, di tipo apolare, perché partecipano tutte le sostanze solubili, elettroliti e non, attraverso le loro molecole od i loro ioni di entrambe le polarità, positiva e negativa.

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Fiume Francesco 212

Esiste un’attività tipica delle particelle più piccole del terreno, quelle allo stato colloidale, di dimensioni ultramicroscopiche, legata allo sviluppo ed alla carica elettrica delle loro superfici. In rapporto al principio generale dell’elettroneutralità, l’eccesso di carica negativa o positiva che caratterizza la frazione colloidale del terreno è neutralizzato, rispettivamente, da cationi o anioni, venendosi a stabilire delle forze attrattive di tipo coulombiano. Ad esempio, i cationi adsorbiti possono essere sostituiti da altri cationi ed in questo scambio possono essere coinvolti anche idrogenioni H+.

I concetti di scambio cationico, di adsorbimento anionico e di pH del suolo e corrispondente regolazione assumono grande importanza nello studio dell’attività chimica e fisico-chimica delle superfici delle particelle terrose.

SCAMBIO CATIONICO

Way e Thompson, intorno alla metà del secolo scorso, lisciviando una colonna di terreno con una soluzione di cloruro d’ammonio, rilevarono che la soluzione ottenuta presentava una concentrazione più bassa in NH4

+ e più alta in Ca2+.

Alla luce delle attuali conoscenze si può affermare che i cationi legati alle particelle di terreno erano sostituiti da quantità equivalenti di ioni NH4

+. Tale sostituzione si chiama scambio cationico, i cationi sostituiti sono detti cationi scambiabili e la particella di terreno, sede di scambio, è detta scambiatore. Non fanno parte dei cationi scambiabili i cationi ottenuti dalla solubilizzazione di sali presenti nel terreno (nitrati, cloruri, solfati, carbonati). La differenza tra il contenuto totale di cationi del terreno e la somma dei cationi scambiabili e dei cationi provenienti dai sali solubili è uguale ai cationi non scambiabili (i cationi presenti tra gli strati dei fillosilicati e quelli di un reticolo cristallino).

La capacità di scambio cationico dello scambiatore è la somma dei cationi scambiabili presenti sulla superficie di uno scambiatore e si esprime in milligrammiequivalenti per cento grammi di materiale (m.e./100 g).

Le basi di scambio sono i cationi Na+, K+, Ca2+ e Mg2+. Il rapporto percentuale tra le basi di scambio e la capacità di scambio cationico è detto grado di saturazione in basi.

Un ruolo importante giocano nel terreno le reazioni di scambio per le quali, quando un suolo monosaturato con un catione è messo in contatto con una soluzione in cui è presente un altro catione, si ha una reazione di scambio cationico. Per questo, sullo scambiatore (la particella terrosa colloidale), il secondo catione prende tutto o in parte il posto del primo e quest’ultimo (tutto o la parte sostituita) passa nella soluzione:

K-micella + Na+ ↔ Na-micella + K+

La reazione di scambio è una reazione in equilibrio e, pertanto, lo scambio può non essere completo. La stessa reazione è stechiometrica, cioè avviene tra quantità ioniche equivalenti, per cui la somma dei cationi adsorbiti, in equivalenti, è uguale alla capacità di scambio cationico dello scambiatore.

Nel caso in cui uno dei due cationi è bivalente, la stechiometria della reazione impone che per ogni ione bivalente scambiato vengano adsorbiti due ioni monovalenti:

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213 Il terreno

Ca-micella + 2Na+ ↔ 2Na-micella + Ca2+

Se c’è un anione associato al catione scambiante e si ha la formazione di specie poco dissociate o poco solubili, la reazione di scambio procede in modo completo ed è tutta spostata a destra:

H-argilla + Na+ + OH- → Na-argilla + H2O

2H-argilla + CaCO3 → Ca-argilla + H2CO3 → Ca-argilla + H2O + CO2

Quest’ultima reazione di scambio dimostra il meccanismo chimico che sta alla base della correzione dei terreni acidi.

Circa la rimozione e sostituzione degli ioni dallo scambiatore è stato dimostrato che esse dipendono dalla forza dei legami esistenti tra ione e scambiatore. Tale forza è del tipo delle forze di Coulomb e, pertanto, per lo stesso scambiatore, sarà più intensa quanto più alta è la carica del catione:

Catione+ < Catione2+ < Catione3+ < Catione4+

Tuttavia, cationi diversi ma di uguale carica hanno diversa forza di adsorbimento e ciò è in relazione con le dimensioni e l’energia di idratazione del catione (quest’ultima espressa in Kcal/mole). A parità di carica, gli ioni più piccoli presentano una maggiore energia d’idratazione, in rapporto alla loro maggiore densità di carica ed al fatto che essi sono in grado di interagire più fortemente con le molecole d’acqua, formando un guscio d’idratazione di maggiori dimensioni. Ora, i cationi a più bassa energia di idratazione possono avvicinarsi di più alla superficie della micella e stabilire legami elettrostatici più intensi e perciò meno scambiabili. Pertanto, a parità di carica, più gli ioni sono grandi, più piccola è la loro energia di idratazione e maggiore è l’intensità delle forze elettrostatiche. L’intensità delle forze che si vengono a stabilire tra i cationi alcalini o cationi alcalino-terrosi ed uno scambiatore varia secondo le seguenti sequenze che sono dette serie liotropiche:

Li+ < Na+ < K+ < Rb+ < Cs+

Mg2+ < Ca2+ < Sr2+ < Ba2+

Il valore del pH influenza notevolmente la capacità di scambio cationico ed il grado di saturazione in basi, tanto che, ad esempio, 20 m.e./100 g di basi di scambio, a seguito di un aumento del pH da 5 ad 8, fanno registrare un aumento della capacità di scambio cationico da 30 a 50 m.e./100 g ed una diminuzione del grado di saturazioni in basi dal 67% al 40%.

Il principio dell’elettroneutralità non definisce la disposizione dei cationi rispetto alla superficie dello scambiatore. Teoricamente tutti i cationi dovrebbero disporsi sulla superficie di carica negativa dello scambiatore, secondo un unico strato noto come distribuzione di Helmholtz. Nella realtà, come si è detto trattando delle caratteristiche fisiche e dei potenziali del terreno, i cationi tendono, da un lato, a diffondere nell’acqua in modo da uniformare il valore della loro concentrazione in ogni punto della soluzione

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Fiume Francesco 214

e, dall’altro, risentono sempre dell’azione attrattiva esercitata dalle cariche negative superficiali dello scambiatore.

La risultante di queste opposte tendenze dà luogo ad un tipo di distribuzione dei cationi (modello di Gouy e Chapman o modello dello strato diffuso) per cui la loro concentrazione diminuisce esponenzialmente man mano ci si allontana dalla superficie dello scambiatore (equazione di Boltzmann). Però, a partire da una certa distanza dallo scambiatore (dove la differenza tra il potenziale dello scambiatore ed il potenziale in quel punto, stabilito dalla concentrazione dello ione, è uguale a zero), la concentrazione in tutti i punti della fase liquida assume lo stesso valore.

Il modello ora descritto è stato ulteriormente modificato da Stern il quale ha proposto il modello del doppio strato.

Secondo questo modello, i cationi scambiabili non possono avvicinarsi alla superficie dello scambiatore più di quanto non consente il loro raggio. Poi i cationi più prossimi alla superficie dello scambiatore non assumono una distribuzione diffusa, ma costituiscono un monostrato ordinato e parallelo alla superficie stessa, simile a quello ipotizzato da Helmholtz, che è detto strato di Stern e che racchiude la stessa particella in una nuvola cationica.

Infine, i cationi all’esterno di tale strato ne costituiscono un altro detto strato di Gouy. La distribuzione dei cationi tra i due strati dipende principalmente dalla loro carica e dalla loro energia di idratazione. Più l’energia di idratazione di un catione è bassa, più facilmente le molecole di H2O, costituenti la sua nube d’idratazione, vengono allontanate quando esso si avvicina alla superficie dello scambiatore.

Per questo motivo i cationi presenti nello strato di Stern, a diretto contatto con la superficie dello scambiatore, perdono almeno una delle molecole di H2O appartenenti alla sua nube di idratazione primaria.

Fig. 38 – Distribuzione dei cationi sulla superficie e nell’intorno di uno scambiatore elettronegativo (micella colloidale), secondo il modello di Helmholtz, il modello di Gouy e Chapman (con l’andamento delle concentrazioni cationica ed anionica nello strato diffuso) ed il modello di Stern (con la curva del potenziale nello strato di Stern e nello strato di Gouy).

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215 Il terreno

Uno schema del modello di Helmholtz, di Gouy e Chapman e di Stern è sinteticamente riportato nella figura 38.

Lo spessore del doppio strato non è costante, ma varia in funzione della concentrazione della fase liquida all’equilibrio e della carica del catione, in accordo con le leggi sull’osmosi.

Se la fase liquida esterna al doppio strato si concentra di più, acqua passerà dall’interno del doppio strato verso l’esterno (con assottigliamento dello spessore del doppio strato), mentre i cationi scambiabili non tenderanno a diffondere dall’interno del doppio strato verso l’esterno.

Viceversa, se la fase liquida esterna al doppio strato si diluisce, acqua passerà dall’esterno verso l’interno del doppio strato (con aumento del suo spessore), mentre i cationi scambiabili diffonderanno dall’interno del doppio strato verso l’esterno.

L’applicazione pratica dei concetti espressi determina importanti effetti agronomici, poiché, secondo il modello del doppio strato di Stern, un aumento della concentrazione della fase liquida esterna al doppio strato provoca un assottigliamento di quest’ultimo e causa una migrazione di cationi, dalla zona a più bassi potenziali (strato diffuso esterno) verso la zona a potenziali più alti (strato interno di Stern, addossato alla particella di terreno scambiatrice).

In altri termini, la diminuzione dell’acqua nel terreno (vale a dire aumento della concentrazione della soluzione circolante) determina ritenzione di cationi da parte del terreno (strato di Stern, quello verso le particelle terrose) e, quindi, indisponibilità dei cationi per le piante.

Il modello del doppio strato consente, altresì, di spiegare sia gli effetti apparentemente positivi indotti sulle proprietà fisiche del terreno dall’impiego irriguo delle acque salmastre, sia gli effetti negativi causati dalla sostituzione dello ione calcio da parte dello ione sodio.

Circa le proprietà di uno scambiatore va detto che la sua densità di carica misura il numero di cariche presenti sull’unità della sua superficie. Tale valore si esprime in m.e./cm2.

Più elevata è la densità di carica di uno scambiatore più sono intense le forze elettrostatiche che si stabiliscono tra la particella colloidale elettronegativa ed i cationi, tanto che l’andamento di una serie liotropica può, in qualche caso, diversificarsi.

Ora, sperimentalmente si è trovato che una vermiculite adsorbe più calcio di una montmorillonite e la stessa vermiculite e le idromiche o illiti manifestano un adsorbimento preferenziale per i cationi NH4

+ e K+ perché questi tendono a penetrare negli spazi interstrato, con perdita dell’acqua d’idratazione.

Anche la sostanza organica può manifestare degli adsorbimenti preferenziali d’alcuni cationi polivalenti, tendendo a costituire legami parzialmente covalenti e complessi.

Da un punto di vista pratico va detto che l’assorbimento da parte di un terreno naturale è dominato dal fatto che sono maggiormente assorbiti i cationi meno rappresentati nei complessi assorbenti.

Inoltre, le soluzioni che vengono a contatto col suolo danno luogo a processi di scambio di rilevante entità, proprio perché elevatissime sono le quantità di terreno (scambiatore) e sempre spoglie d’elettroliti.

Il terreno adsorbe con avidità i sali ammoniacali somministrati attraverso le

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Fiume Francesco 216

concimazioni o che si liberano dalla demolizione della sostanza organica, proprio perché il complesso assorbente non contiene o quasi ammonio di scambio.

Il terreno trattiene in misura elevata il potassio che gli arriva dai concimi potassici o dalla demolizione del letame, poiché sul complesso assorbente è generalmente scarso il contenuto in potassio.

Un’altra dimostrazione del bisogno di cationi da parte del terreno viene data dai terreni acidi.

Questi dovrebbero avere i complessi assorbenti completamente saturati da H+ e quindi dovrebbero prestarsi poco allo scambio.

Al contrario, i suoli acidi sono i più idonei per lo scambio proprio perché, essendo gli scambiatori di tali terreni ricchi d’idrogeno, hanno poche basi o ne sono del tutto privi.

Si è visto come i cationi di scambio esercitano grande influenza sui rapporti tra acqua e terreno.

Ciò comporta un’attenta sorveglianza dei cambiamenti che gli stessi cationi possono determinare, così da non permettere lo stabilirsi di cattive condizioni.

Per esempio, si cercherà di usare acque salse, ricche in sodio, soltanto nei terreni sabbiosi e non in quelli argillosi, dove il sodio prenderebbe ad insediarsi in gran quantità sui complessi di scambio ed una volta raggiunta la propria sede manifesterebbe le azioni sfavorevoli (flocculazione dell’argilla).

ADSORBIMENTO ANIONICO

Anche gli anioni possono essere adsorbiti dalle particelle di terreno. Evidentemente tali particelle devono avere una carica positiva. La positività della carica può stabilirsi, quando il pH assume valori inferiori a 7, su idrossidi d’alluminio e ferro e sui fillosilicati, in corrispondenza delle superfici laterali o di bordo, a seguito di protonazione della funzione negativa ossidrilica superficiale. Tale adsorbimento, molto inferiore in quantità allo scambio cationico, riguarda solo alcuni elementi nutritivi delle piante ed alcuni fitofarmaci che possono ritrovarsi nel terreno come anioni, ma non riguarda i nitrati ed i cloruri, molto rappresentati nei terreni, che sono invece sottoposti, come vedremo, all’allontanamento dal sistema.

L’adsorbimento anionico avviene per chemioadsorbimento, cioè l’anione sposta e sostituisce dei gruppi atomici delle sfere di coordinazione dello ione metallico superficiale, secondo un meccanismo detto di scambio del legante.

A differenza dell’adsorbimento cationico, di tipo aspecifico, quello anionico è molto specifico e l’anione viene trattenuto stabilmente alla superficie mediante un legame parzialmente covalente. Si realizza così un adsorbimento attivato dalla presenza di una carica positiva.

Un idrossido, per le sue caratteristiche anfotere, può modificare la sua carica elettrica superficiale in funzione del pH. Se aumentano gli idrogenioni assume carica elettrica positiva, se diminuiscono (ed aumentano gli ioni ossidrili) assume carica negativa, se entrano in un certo equilibrio sarà privo di carica. Nel primo caso l’anione viene attirato dal sito protonato, viene adsorbito specificamente e stabilmente con spostamento di una molecola d’acqua ed induce neutralizzazione della carica superficiale dell’idrossido.

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217 Il terreno

Qualcosa d’analogo avviene nel caso in cui la superficie dell’idrossido sia priva di carica. L’anione sposta e libera una molecola d’acqua e la carica della superficie dell’idrossido da neutra diventa negativa. Nel caso in cui la superficie dell’idrossido è di carica negativa, lo scambio di legante avviene con maggiore difficoltà rispetto ai casi precedenti e, quando avviene, non si modifica la carica della superficie dell’idrossido, ma, anziché liberarsi acqua, come nei casi precedenti, si libera un OH¯ che porterà all’innalzamento del pH. Di seguito sono riportati gli schemi dei vari casi:

1) Comportamento anfotero dell’idrossido in funzione del pH e compresenza di un complesso con carica elettrica superficiale positiva, neutra e negativa in equilibrio:

Acqua 1+ ← H+ Acqua 0 ← H+ OH 1-

Metallo ↔ Metallo ↔ MetalloAcqua OH- → OH OH- → OH

2) Idrossido positivo: avvicinamento dell’anione al sito protonato, adsorbimento specifico e spostamento di acqua, perdita della carica elettrica alla superficie:

Acqua 1+ Anione 0

Metallo + Anione- ↔ Metallo + H2O

Acqua Acqua

3) Idrossido neutro: adsorbimento dell’anione e spostamento di acqua, acquisizione di carica elettrica negativa alla superficie:

Acqua 1+ Anione 0

Metallo + Anione- ↔ Metallo + H2O

OH OH

4) Idrossido negativo: adsorbimento dell’anione con spostamento di ossidrili che innalzano il pH, senza alcuna modificazione della carica superficiale:

OH 1- Anione 1-

Metallo + Anione- ↔ Metallo + OH-

OH OH

Quest’ultima forma d’adsorbimento anionico è fondata su ipotesi ancora molto discusse, anche perché la produzione di ossidrili induce aumento del valore del pH del mezzo e ciò aumenta la carica netta negativa della superficie del metallo che tende ancor più a respingere l’anione.

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Fiume Francesco 218

Gli anioni sono sottoposti a adsorbimento negativo. A seguito di questo tipo di adsorbimento essi sono respinti dalla carica negativa degli scambiatori, che nel terreno prevale nettamente su quella positiva. L’adsorbimento negativo interessa gli anioni Cl¯, NO3¯ ed SO4

2¯ e dipende dalla concentrazione e valenza dell’anione e dalla carica dello scambiatore (aumentando incrementano la repulsione anionica).

Tuttavia, se il pH del terreno diminuisce, anche la carica negativa del suolo diminuisce, con conseguente riduzione dell’adsorbimento negativo e con successivi vantaggi pratici, nel senso che, per questo, avviene il condizionamento del trasporto di elementi che hanno grande importanza nella nutrizione delle piante (azoto nitrico).

L’adsorbimento degli anioni avviene, quindi, fondamentalmente, a seguito di meccanismi di scambio di legante per cui, ad esempio, grandi quantità di anioni fosforici sono immobilizzate sulla fase solida, ma possono ritornare in soluzione ed essere utilizzate dalle piante.

Questo processo avviene molto velocemente, anche in 24 ore, e la sua entità dipende dall’estensione delle superfici reattive, dalla densità dei siti reattivi e dalla stechiometria della reazione.

Il successivo meccanismo cinetico è molto più lento del precedente e consiste nella precipitazione, nell’incorporazione dei precipitati nelle strutture minerali del terreno e nella loro trasformazione da composti insolubili fisicamente adsorbiti, in composti insolubili chimicamente adsorbiti.

E’ possibile, pertanto, distinguere tra adsorbimento fisico e chimico. L’adsorbimento fisico è reversibile ed è causato dalle sole forze fisiche (tra adsorbente ed adsorbito non avviene alcuna reazione chimica), con produzione di calore di adsorbimento fisico che non supera di solito le 15-20 kcal/mol.

L’adsorbimento chimico o chemioadsorbimento o chemisorzione è di tipo irreversibile ed è causato da forze chimiche e fisico-chimiche che provocano una reazione avente luogo tra la superficie dell’adsorbente e la superficie dell’adsorbito, con calore di chemioadsorbimento che supera le 20-30 kcal/mol.

Va anche detto che tale distinzione spesso è soltanto teorica e che l’adsorbimento avviene per azioni fisiche, chimiche e fisico-chimiche le quali non consentono di effettuare nette differenze e di individuare dove finisce l’una e dove comincia l’altra.

Gli anioni che si trovano nella soluzione circolante sono l’anione cloridrico, solforico, nitrico, fosforico.

Questi possono formare, con i cationi, composti insolubili o poco solubili. Con il calcio della micella colloidale, ad esempio, danno luogo a CaSO4, Ca3(PO4)2, CaCO3, tutti poco o pochissimo solubili.

Gli anioni Cl¯ e NO3¯ non danno composti insolubili con nessun catione della micella.

Ciò consente di comprendere perché nei terreni, la cui soluzione circolante è ricca in calcio di scambio, le acque di drenaggio sono sempre ricche di ioni Cl¯ e povere di ioni SO4

2¯ e PO43¯, perché gli ioni SO4

2¯ siano in larga misura presenti in terreni minerali aventi complessi assorbenti poveri di calcio di scambio ed, infine, perché le acque del mare siano ricche in cloruri e contengano pochi solfati e pochissimi fosfati. Ciò consente anche di comprendere perché le concimazioni con nitrati si effettuano in copertura, in presenza delle piante, mentre gli altri fertilizzanti chimici si somministrano con le concimazioni di fondo, alla semina.

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219 Il terreno

Gli ioni PO43¯, K+, NH4

+ vengono fissati dal terreno, sottratti al potere dilavante delle acque meteoriche e lentamente possono giungere alle colture. Gli ioni NO3¯ non sono trattenuti dal terreno, sono rimossi dalle acque di pioggia e vanno perduti per le coltivazioni e per tali motivi essi vanno somministrati con concimazioni in copertura ed a piccole dosi.

Sull’adsorbimento chimico degli anioni, fosforico in particolare, grande importanza riveste il calcio e non solo quello del complesso assorbente, ma tutte le forme di calcio del terreno, sia allo stato di ione, sia insolubile, come carbonato di calcio. L’adsorbimento chimico prevede, infatti, anche l’insolubilizzazione degli anioni. Nel CaCO3 gli ioni Ca2+ superficiali possono presentare posizioni di coordinazione vacanti, che possono essere occupate da ioni OH¯ o H2O o da HCO3¯. Questi gruppi possono

essere sostituiti da anioni, ad esempio PO43¯, dando luogo ad adsorbimento chimico con

successiva insolubilizzazione (fosfato tricalcico, ad esempio) attraverso cristallizzazione a partire dai nuclei rappresentati dai siti occupati dai composti adsorbiti.

Non soltanto il calcio è importante nell’adsorbimento degli anioni, ma anche gli altri cationi che si trovano nell’argilla (alluminio). In tal caso i livelli dell’adsorbimento dipendono dal pH (aumentano se questo diminuisce), dalla valenza (aumentano se questa aumenta), dall’energia d’idratazione (aumentano se questa diminuisce) e dalla forza ionica (aumentano se questa aumenta) dei cationi nella fase liquida.

Circa il ruolo della sostanza organica nell’adsorbimento degli anioni (fosfati), le idee ancora non sono chiare, anche se appare molto probabile che, alla base del meccanismo, grande importanza assumono l’alluminio ed il ferro presenti nell’architettura della sostanza umica.

Quest’ultima, tuttavia, sembra ostacolare la ritenzione degli anioni ed in particolare dei fosfati. In particolare, i composti organici (citrati, tartrati, ossalati ed acidi umici e fulvici) possono inattivare le superfici di adsorbimento ed influenzarne la disponibilità per le colture.

I concetti ora espressi vanno tenuti sempre presente nella razionalizzazione delle concimazioni.

Spesse volte, soprattutto nelle agricolture più progredite, sono stati apportati nel terreno livelli eccessivi di elementi nutritivi per le piante. Il risultato è stato un grande spreco di fertilizzante che ha determinato, fra l’altro, un duro impatto ambientale nell’esercizio delle coltivazioni. Ad esempio, molti interventi di concimazione a base di fosforo sono sicuramente da considerare sprecati e molto probabilmente, in questi terreni, saranno dannose le ulteriori somministrazioni nei prossimi anni.

E’ necessario, pertanto, fare molta attenzione al dosaggio dei fertilizzanti. Nello stabilire la quantità di concime da somministrare si deve tenere in debita considerazione il potere adsorbente del terreno.

La quantità di concime deve essere calcolata in relazione ai risultati analitici che derivano dallo studio del terreno ed al concetto che, nella soluzione circolante, i valori di concentrazione di quell’elemento (anione fosfato, per esempio) non debbono superare i livelli per i quali la produzione agricola sia ottimale, in relazione alla specie coltivata, da un punto di vista della quantità e dei parametri qualitativi.

Esistono numerose altre proposte, ma molto spesso esse hanno dei gravi limiti, perché non considerano l’incorporazione e le precipitazioni che intervengono alle elevate concentrazioni, le quali spesse volte rendono non realistiche le analisi di laboratorio

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miranti a determinare i livelli degli elementi realmente disponibili per le piante. Studi approfonditi andrebbero condotti sul sistema terreno-anione-pianta e

terreno-catione-pianta, con l’analisi delle corrispondenti interazioni tra i due sistemi, le cui conoscenze sono ancora piuttosto scarse.

REAZIONE DEL TERRENO

E’ una caratteristica dinamica del terreno fornita dal valore di pH della soluzione circolante.

Giova ricordare che il pH è il logaritmo negativo della concentrazione idrogenionica di una soluzione, ottenuto dal valore della costante di dissociazione dell’acqua, data dalle seguente relazione:

K = [H+] · [OH— ] / [H2O] = 10-14

Considerando l’acqua completamente indissociata avviene che:

[H2O] = 1

e quindi:

[H+] · [OH— ] = 10-14

Si ha neutralità quando

[H+] = [OH— ] = 10-7

il cui logaritmo negativo è:

-log [H+] = -log 10-7 = 7

per cui ad un pH = 7 corrisponde la neutralità della reazione, mentre i valori di pH inferiori ([H+] > [OH—]) o superiori ([H+] < [OH—]) a sette corrispondono ad una reazione acida o basica, rispettivamente.

La carica elettrica negativa delle particelle solide del terreno è neutralizzata da cationi di scambio ed ioni H+.

La condizione, satura o insatura, delle superfici delle particelle di un terreno influenza la concentrazione idrogenionica della soluzione circolante e, quindi, il grado di reazione del complesso fase solida-fase liquida.

I terreni acidi sono quelli nei quali la lisciviazione prevale sull’evapotraspirazione (climi umidi) e nei quali si instaura una graduale insaturazione, con conseguente abbassamento del pH, a seguito del dilavamento di sali solubili e delle basi di scambio. Al contrario, i terreni alcalini sono quelli dei climi aridi, nei quali la demolizione dei minerali ed il conseguente accumulo garantiscono la saturazione del complesso assorbente.

La classificazione dei terreni, in rapporto al valore del pH, è riportata nella tabella

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221 Il terreno

41. Normalmente il pH di un terreno è compreso tra 4,0 e 8,5.

Tab. 41 – Classificazione dei terreni in base ai valori di pH, secondo la proposta europea ed americana.

Classificazione europea

Classificazione U.S.A. (USDA)

Terreno pH Terreno pH

Tipo di terreno e sue

caratteristiche

- - Estremamente acidi < 4,5 Terreni di brughiera, ricchi in acqua,

Peracido < 5,3 Molto fortemente acidi 4,5-5,0 diffusi nei climi del settentrione.

Acido 5,4-5,9 Moderatamente acidi 5,1-6,0 Terreni torbosi, terreni organici e

Subacido 6,0-6,7 Debolmente acidi 6,1-6,5 terricci di bosco, umidi e freddi.

Neutro 6,7-7,2 Neutri 6,6-7,3 Sono i normali terreni agrari.

Subalcalino 7,3-8,1 Debolmente alcalini 7,4-7,8 Terreni calcarei, ricchi in sali di

Moderatamente alcalini 7,9-8,4 calcio con un acido debole (CaCO3).

Alcalino 8,2-8,8 Fortemente alcalini 8,5-9,0 Terreni salsi, ricchi in sali di sodio

Peralcalino > 8,8 Molto fortemente alcalini >9,0 con un acido debole (Na2CO3).

Il pH di un terreno è determinato su una sospensione acquosa di suolo preparata con un rapporto peso terreno/volume d’acqua distillata di 1:2,5 e nella quale sono immersi gli elettrodi di un pHmetro (determinazione potenziometrica). Il valore del pH sarà diverso secondo la modalità del rilevamento, cioè se gli elettrodi sono piazzati nell’estratto acquoso o nel liquido surnatante o nella sospensione o nel sedimento, in relazione all’attività esercitata, durante la determinazione, dalle particelle di terreno.

Il terreno, come la maggior parte dei liquidi biologici, presenta un potere tampone, cioè tende ad opporsi a variazioni di pH causate dall’aggiunta di acidi e di alcali. Ciò è causato soprattutto dai colloidi minerali ed organici e riveste una grande importanza. Le molte reazioni chimiche ed attività vitali potrebbero interrompersi a seguito di una brusca variazione del pH.

Un sistema tamponato, in generale, è costituito dalla miscela di un acido debole e di un suo sale con una base forte oppure dalla miscela di un acido forte e di un suo sale con una base debole.

In un terreno, il potere tampone è esercitato dal carattere acido dell’argilla e della sostanza organica. Nell’argilla, l’acidità è dovuta a differenti forme di alluminio presenti. Le forme di alluminio vanno da semplici cationi Al3+ a forme via via più complesse, prima polinucleari e poi con gruppi atomici laterali, che entrano in equilibrio tra loro e vanno a costituire un sistema tampone. Il sistema tampone ha la capacità di neutralizzare l’aggiunta di ioni idrogeno (spostando l’equilibrio verso forme meno complesse, fino allo ione Al3+) o di ossidrili (con spostamento dell’equilibrio verso le forme più complesse, cioè l’alluminio più polimerizzato).

Nella materia organica l’acidità è dovuta a gruppi carbossili –COOH e gruppi –OH fenolici che determinano in questa frazione un elevato potere tampone a qualsiasi valore

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di pH. Cercando di semplificare, quando un acido è portato a contatto con un terreno, gli idrogenioni si scambiano con i cationi presenti sulle particelle terrose. Gli ioni idrogeno, pertanto, lasciano la soluzione circolante e si fissano sul terreno, inducendo una diminuzione del pH minore a quella che si avrebbe in assenza di terreno:

Scambiatore –Na + H+ + Cl— → Scambiatore –H + NaCl

Se una base viene messa in contatto con il terreno, i cationi della base si scambiano con gli H+ presenti sullo scambiatore. Gli ioni idrogeno passano nella soluzione circolante dove trovano gli ioni ossidrili della base con cui formano acqua:

Scambiatore –H + Na+ + OH— → Scambiatore –Na + H2O

Parte dell’alcalinità rimane neutralizzata e la base provoca un grado alcalino inferiore a quello che avrebbe provocato in assenza di terreno.

E’ chiaro che un terreno può esercitare il potere tampone verso gli acidi se il suo complesso assorbente è ricco in basi. Altrettanto, un terreno completamente saturato in basi non può esercitare il potere tampone verso le basi perché, affinché ciò avvenga, deve essere parzialmente saturato. E’ stato sperimentalmente osservato che un terreno, per manifestare il proprio potere tampone, sia verso gli acidi, sia verso le basi, deve avere il proprio complesso assorbente saturato per l’80% con basi e per il 20% con ioni idrogeno. Inoltre, è ovvio che il potere tampone del terreno è tanto più elevato quanto più alta è la capacità di scambio delle particelle terrose, vale a dire quanto più alta sarà la quantità di cationi capaci di lasciare il posto agli ioni H+ o di andare a neutralizzare gli ioni OH¯. In questi termini, però, il concetto di potere tampone del terreno subisce una limitazione perché riguarda soltanto il potere tampone della soluzione circolante che, nella realtà, tende a mantenere costante la reazione. Invece, se il terreno viene considerato come un complesso di adsorbenti solidi e di soluzione circolante, allora il potere tampone non porta all’allontanamento degli ioni H+ od OH¯ (che continuano a rimanere in quell’ambito), ma soltanto alla loro mancata evidenziazione analitica che persisterà fin quando permangono quei prodotti che rendono possibile l’occultamento degli ioni H+ ed OH¯. Infatti, nei terreni acidi non si rileva il potere tampone contro l’acidità, così come nei terreni alcalini non si osserva alcun potere tampone verso le basi.

Enorme è l’importanza pratica del potere tampone del suolo. Esso consente l’allontanamento degli ioni H+ dalla soluzione circolante, i quali sono quelli che possono arrecare i maggiori danni all’apparato radicale delle colture.

I concimi che si usano in agricoltura possono essere a base di KCl, K2SO4,

(NH4)2SO4. Di questi le piante assimilano prevalentemente K+ e NH4+ lasciando nel

terreno, rispettivamente, H+ e Cl— , 2H+ e SO42— che dovrebbero acidificare il terreno.

Per tal motivo questi fertilizzanti sono chiamati concimi fisiologicamente acidi, perché, pur essendo neutri, rendono acido il terreno a seguito dell’assorbimento fisiologico nutrizionale delle piante coltivate.

I microrganismi nitrificanti producono H+ e NO3¯ e dei due, il primo dovrebbe

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223 Il terreno

incrementare l’acidità. Tuttavia, gli ioni H+ abbandonano la soluzione circolante per essere adsorbiti dalle particelle colloidali del terreno, con la conseguenza pratica, di grande importanza, che la stessa soluzione circolante non modifica il pH e gli ioni H+

non possono danneggiare le radici delle piante. Analogamente, l’impiego di un concime a base di NaNO3, comporta la loro

dissociazione nella soluzione circolante in Na+ e NO3¯. Dei due ioni, prevalentemente l’anione viene assorbito dalle piante, mentre il catione forma NaOH (dissociato in soluzione in Na+ ed OH¯). Quindi il catione Na+ viene scambiato contro lo ione H+ del complesso assorbente, cosicché i due ioni OH¯ ed H+ possono andare a formare H2O. Anche in questo caso il terreno ha fatto in modo che non si modificasse bruscamente e dannosamente la propria reazione.

Come si è visto i complessi assorbenti sono la sede del potere tampone. Ma anche alcuni sali possono contribuire a manifestare il potere assorbente del terreno. Nella seguente reazione si può dimostrare perché HCl immesso in un terreno ricco di carbonato di calcio non determina un abbassamento della reazione:

CaCO3 + HCl ➜ CaCl2 + H2O + CO2

Ogni forma di acidità viene perfettamente tamponata ed in questo caso neutralizzata. La neutralizzazione è sempre molto efficiente fin quando nel terreno vi sono abbondanti quantità di carbonato di calcio. Il terreno pone sempre su se stesso il carico di H+ ed OH—, dimostrando che non esistono barriere tra la fase solida e quella liquida, se non soltanto da un punto di vista fisico, poiché la prima è dispersa nella soluzione circolante, mentre la seconda, sempre nella stessa, è allo stato solubile.

A volte, nonostante il potere tampone del terreno, avviene una reazione anomala, con formazione di suoli acidi, alcalini e salsi. Ciò sta a dimostrare l’esistenza di uno stato di insaturazione o di cattiva saturazione del complesso assorbente e sul quale è necessario indagare.

Terreni acidi

Sono definiti acidi quei terreni che hanno i siti di scambio dei colloidi occupati prevalentemente da ioni idrogeno e da composti dell’alluminio e del ferro. In questi terreni, conseguentemente, la soluzione circolante manifesta valori di pH che oscillano in un campo nettamente acido.

Gli ioni idrogeno presenti preponderantemente sul complesso assorbente indicano che il terreno è povero di basi pronte allo scambio ed a passare nella soluzione circolante a favore della nutrizione delle piante coltivate. In altre parole, un terreno acido è un terreno povero.

L’acidità di un terreno può essere in stretta relazione con l’acidità della roccia madre (terreni vulcanici, granitici, silicei), ma la causa principale è il dilavamento delle basi scambiabili (Ca2+, Mg2+, K+, Na+), determinata dall’elevata piovosità ed associata all’inclinazione del terreno.

Quest’ultimo aspetto, legato alla morfologia del suolo, è anch’esso importante, tant’è che spesso i terreni acidi si trovano in montagna, dove è frequente il ruscellamento

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Fiume Francesco 224

e lo scorrimento profondo delle acque meteoriche.La sistematica, continua pratica dell’irrigazione ha anche un’azione favorente

l’acidificazione del suolo. La velocità dell’acidificazione è strettamente connessa con la quantità d’acqua che percola lungo il profilo, in relazione alla lisciviazione dei cationi, inizialmente presenti sui minerali argillosi o nella soluzione circolante, e neutralizzazione dei siti negativi dei colloidi da parte degli ioni idrogeno, alluminio e ferro.

Se possiamo facilmente comprendere come gli ioni idrogeno sono la causa di acidificazione del sistema, più difficile risulta comprendere come l’alluminio ed il ferro siano responsabili di ciò. Si cercherà di spiegarlo partendo dalla considerazione che nella fase liquida del terreno sono presenti acidi organici a basso peso molecolare (amminoacidi, H–COOH, CH3–COOH, COOH–COOH, acido malonico, malico e citrico) prodotti dalle piante, come essudato radicale o derivati dalla decomposizione di organismi viventi.

Questi composti sono in grado di attaccare il reticolo cristallino degli allumino-silicati e poi solubilizzare, mobilizzare ed idratare i cationi Al3+, Fe2+ e Fe 3+. Specificamente, l’atomo di alluminio, al centro di un ottaedro, è idratato con 6 molecole di acqua poste ai vertici, dando luogo allo ione Al(OH2)6

3+. Il corrispondente schema viene indicato nella figura 39.

Fig. 39 – Struttura del catione alluminio trivalente ed esaidrato.

Tale ione è abbastanza acido, è capace di cedere protoni all’acqua ed ha un pK di 4,98, simile a quello dell’acido acetico (pK = 4,76). Le reazioni idrolitiche possono così rappresentarsi:

Al(OH2)63+ + H2O ↔ Al(OH)(OH2)5

2+ + H3O+

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225 Il terreno

AlOH(OH2)52+ + H2O ↔ Al(OH)2(OH2)4

+ + H3O+

Al(OH)2(OH2)4+ + H2O ↔ Al(OH)3(OH2)3

0 + H3O+

Al(OH)3(OH2)30 + H2O ↔ Al(OH)4(OH2)2

— + H3O+

e vanno verso destra se sono consumati protoni e verso sinistra se esiste apporto di protoni. La saturazione parziale o completa dei siti di scambio, con tali ioni acidi dell’alluminio, è una delle tante cause dell’acidità del terreno. Va anche detto che tali prodotti monomerici, ottenuti dalle reazioni idrolitiche dell’alluminio, non sono i soli, ma contemporaneamente si costituiscono specie polimeriche dovute all’unione di due (dimeri) o più monomeri e la loro formazione è tanto più veloce quanto più elevato è il pH del sistema.

I polimeri dell’alluminio sono fortemente fissati alle argille e non sono scambiati, a differenza dei monomeri che invece sono scambiabili. Per pH molto acidi, l’alluminio è presente in forme solubili o scambiabili tanto da poter esercitare tossicità sulle piante coltivate. Quando la carica netta degli ioni alluminio è neutralizzata si ha precipitazione d’idrossido di alluminio in forma di macromolecola e non come Al(OH)3.

Un’altra importante causa di acidificazione del terreno è rappresentata dalla solubilizzazione nell’acqua della CO2 proveniente dall’ossidazione della sostanza organica, dalla respirazione delle radici delle piante e dei microrganismi aerobi, con la formazione dell’anione bicarbonato e dello ione idrogeno:

CO2 + H2O ➜ HCO3— + H+

Altra causa d’acidificazione è l’ossidazione biologica (nitrificazione) dell’ammoniaca, con formazione prima di nitrito e poi di nitrato per opera di batteri Gram negativi, chemiosintetici ed autotrofi.

Questi microrganismi utilizzano l’energia derivata dal processo di fissazione della CO2 attraverso il ciclo riduttivo dei pentosi. Il nitrito si ottiene con formazione intermedia d’idrossilammina, in presenza dell’enzima ossigenasi. L’idrossilammina è a sua volta trasformata in presenza dell’enzima idrossilammina ossidoreduttasi, previa probabile formazione di nitrossile, instabile e la cui presenza non è stata ancora dimostrata, con produzione totale di due ioni idrogeno:

NH4+ + ½ O2 + 2e— ➜ NH2OH + H+

NH2OH + ½ O2 + 2e— ➜ HNO + H2O

HNO + ½ O2 + 2e— ➜ NO2— + H+

Complessivamente la formazione del nitrito avviene con assorbimento di energia e, pertanto, le tre reazioni possono, semplicemente e sinteticamente, così rappresentarsi:

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Fiume Francesco 226

NH4+ + 3/2 O2 + 6e— ➜ NO2

— + 2H+ - 65 Kcal

Il nitrossile serve a giustificare il salto di 4 e— nel passaggio da idrossilammina a nitrito, troppo alto per reazioni di tipo biologico. Si ritiene, pertanto, probabile l’esistenza di un intermedio e poi di nitrito, in presenza di una catena di trasporto di elettroni che include il citocromo a2 ed al quale è accoppiata la sintesi di ATP:

NO2— + ½ O2 ➜ NO3

— - 17,8 Kcal

La reazione avviene in presenza dell’enzima nitrito ossidasi ed è molto veloce e, pertanto, i nitriti sono presenti nel terreno soltanto in tracce.

L’ossidazione chimica e biochimica dei solfuri, dei polisolfuri e dello zolfo fino ad ottenere H2SO4 è un’altra causa di acidificazione del terreno. Le reazioni sono di seguito indicate:

2S + 3O2 + 2H2O ➜ 2SO42— + 4H+

2FeS2 + 15O2 + 2H2O ➜ 2Fe2(SO4)3 + 2H2SO4

L’ossidazione della pirite, come nella reazione sopra indicata, nei suoli ottenuti da sedimenti marini ed in zone costiere sottoposte a bonifica, ha causato valori enormemente anomali dell’acidità, con valori del pH finanche inferiori a 2.

La decomposizione della sostanza organica per opera di microrganismi con produzione di CO2, NO2, H2S è un’altra causa d’acidificazione.

Anche lo scambio di cationi nutritivi con ioni idrogeno, rilasciati dalle radici delle piante, è causa d’acidità, così come dimostra il valore del pH, misurato in prossimità delle radici, che è di circa un’unità inferiore a quello misurato più in lontananza.

Le piogge acide, causate dall’incremento delle emissioni di composti solforati ed azotati nell’atmosfera, rappresentano un’altra causa d’acidità del terreno. In un terreno già di per sé acido e poco profondo, una pioggia acida può mobilizzare notevolmente gli ioni d’alluminio e ferro e tale attività può essere rilevata analizzando le acque superficiali di scorrimento. Tuttavia, l’azione delle piogge acide è irrilevante nei confronti dei processi naturali d’acidificazione del suolo, anche se, spesse volte, sono state chiamate in causa per dare spiegazioni dei danni alla vegetazione.

Il rilievo dell’acidità dei terreni comporta la distinzione in acidità attiva o attuale ed acidità potenziale, a seconda che la determinazione del pH sia eseguita in acqua oppure in soluzioni di sali neutri come KCl o CaCl2.

Va tenuto presente che i valori più bassi sono quelli che si rilevano per determinazioni in soluzioni di sali neutri. Infatti, gli ioni acidi d’alluminio e quelli di ferro, insieme con gli ioni idrogeno presenti sui colloidi argillosi, sono scambiati con K+

o Ca2+ dei sali neutri, contribuendo ad aumentare la concentrazione di H+. Il processo non è completo, nel senso che non tutte le specie acide d’alluminio e di ferro sono sostituite da K+ o Ca2+ in corrispondenza dei siti di scambio dei colloidi minerali. Ad esempio, i polimeri non sono scambiabili anche dopo trattamenti ripetuti con soluzioni di sali neutri.

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227 Il terreno

Gli ioni dei sali neutri utilizzati, inoltre, possono reagire con lo ione d’alluminio idrato e rilasciare in soluzione idrogenioni od ossidrilioni, con modificazioni della reazione:

OH O\ / \ / \

Al + Ca2+ → Al Ca + 2H+

/ \ / \ / OH O

OH Cl\ / \ /

Al + Cl— → Al + OH—

/ \ / \ OH2 OH2

I valori della reazione del terreno forniscono l’indice delle condizioni generali del suolo.

L’acidità sta ad indicare buone proprietà fisiche del suolo, ma condizioni molto svantaggiose per la vita delle piante che prediligono terreni con pH intorno alla neutralità.

E’ importante valutare il grado di saturazione basica del complesso di scambio. Esso si modifica con il variare del pH e perciò con il variare di ioni idrogeno, alluminio e ferro presenti sullo stesso complesso di scambio. Terreni con uguale saturazione in basi non manifestano obbligatoriamente lo stesso pH, poiché i cationi acidi idrogeno, alluminio e ferro non sono ugualmente scambiati da colloidi diversi e perché non sempre uguale è la velocità delle reazioni idrolitiche dell’alluminio e del ferro.

L’acidità del terreno influisce sulla solubilità di alcuni composti nel terreno e quindi sulla disponibilità degli elementi nutritivi per le piante. In ambiente acido, i fosfati assolutamente insolubili (per esempio il fosfato tricalcico) possono solubilizzarsi parzialmente (come il fosfato bicalcico bisostituito, nella cui formula due atomi di idrogeno dell’acido fosforico sono stati sostituiti da un atomo di calcio) o totalmente (fosfato monocalcico monosostituito, in cui un solo atomo di idrogeno dell’acido fosforico e stato sostituito con l’atomo di calcio) diventando per poco tempo disponibili per le piante. I fosfati insolubili possono anche dare luogo ad ioni che possono reagire con i monomeri ed i polimeri dell’alluminio e del ferro, fortemente rappresentati nei terreni acidi, e formare composti poco solubili ed amorfi e tuttavia più solubili e disponibili delle corrispondenti forme cristalline (da 10 a 100 volte in più), tanto che sono da considerarsi del tutto inutili per la nutrizione delle piante. Gli anioni fosfato monosostituiti, H2PO4

— e bisostituiti, HPO42— si fissano sulle superfici colloidali

argillose, scambiando gruppi –OH2 ed –OH, e sono trattenuti dal potere assorbente del

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terreno in misura tanto maggiore quanto più l’ambiente è acido, con valori massimi per pH = 4,5.

Il molibdeno, presente nel terreno come anione molibdato, diminuisce la disponibilità per le piante con l’aumentare dell’acidità del suolo e spesso i terreni acidi sono poco adatti per le coltivazioni, non tanto per la tossicità dell’alluminio (monomerico o polimerico) che passa in soluzione, quanto per la carenza di molibdeno.

L’azoto nitrico NO3— e gli anioni SO4

2— e Cl— sono più disponibili per le piante quando il pH tende ad aumentare, in relazione allo scarso adsorbimento sulle particelle terrose ed alla scarsa affinità per il ferro e l’alluminio.

Nei terreni acidi, le piante utilizzano più azoto ammoniacale che non nitrico, poiché i processi di nitrificazione sono lenti a pH basso. I cationi NH4

+ si accumulano in maggiore quantità nei terreni acidi, perché i microrganismi responsabili dell’ammonizzazione dell’azoto organico sono meno sensibili all’acidità dei microrganismi nitrificanti.

Un altro valore importante per monitorare e correggere un terreno acido è l’acidità titolabile, espressa in millequivalenti di alcale per 100 g di suolo. Il rilievo si effettua aggiungendo ad una sospensione di acqua-terreno la quantità di base titolata necessaria per raggiungere un pH = 7. Questo valore si chiama anche fabbisogno in calce e misura la quantità di H+ che debbono essere rimossi per riportare il terreno allo stato di saturazione completo. L’operazione colturale con la quale si vuole modificare la reazione del terreno è detta correzione e correttivo è il prodotto che si usa allo scopo.

Nel caso della correzione di un terreno acido, il correttivo che si aggiunge al terreno è il calcare e ciò comporta la liberazione di ossidrilioni che vanno a neutralizzare l’acidità del suolo, secondo la seguente reazione:

CaCO3 + H2O → Ca2+ + HCO3— + OH —

Il fabbisogno in calce di un terreno acido esprime la quantità di calce (equivalenti in CaCO3) necessaria per aumentare il pH del suolo ad un certo valore.

Il fabbisogno in calce si può determinare neutralizzando con Ca(OH)2 una sospensione di terreno. Dopo ogni aggiunta di Ca(OH)2 si attende tanto da consentire una reazione di neutralizzazione più completa possibile, si rileva il pH della sospensione così da ottenere una relazione tra pH e millequivalenti di idrossido aggiunto. Un millequivalente di base, consumato per 100 g di suolo durante la titolazione, equivale a 2,25 tonnellate di CaCO3 puro, per ettaro e per 30 cm di profondità e per un peso specifico apparente uguale a 1,25.

E’ questo un dato prevalentemente di laboratorio, teorico, perché in pieno campo, in pratica, il quantitativo di calcare necessario per ottenere lo stesso risultato è senz’altro superiore. Ciò è in rapporto alle difficoltà legate all’incorporamento nel terreno ed alla granulometria del correttivo, tenendo presente che più la grana è fine, più veloci sono le reazioni di neutralizzazione e più rapidamente diventano disponibili per le piante i cationi ed in particolare il calcio. La correzione dell’acidità del terreno (calcitazione) è più efficiente se si usa un correttivo il più sminuzzato possibile e se applicata annualmente (anziché una volta tanto) o, comunque, periodicamente, poiché le cause che determinano l’acidità non possono essere rimosse.

Bisogna anche tenere presente che una calcitazione troppo spinta può essere

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229 Il terreno

dannosa al terreno ed alle piante, può causare insolubilizzazione del ferro, con conseguenti fenomeni di clorosi ferrica alle coltivazioni, può provocare precipitazione di manganese, rame e zinco, con corrispondenti sintomi di carenza per le piante, può indurre antagonismo ionico nell’assorbimento di altri cationi come K+. I benefici che si annoverano, a seguito della calcitazione del terreno, sono numerosi e sono in relazione all’eliminazione della tossicità delle forme solubili dell’alluminio e del manganese (presenti in grandi quantità nei terreni acidi prevalentemente minerali), forme che si sono ottenute a causa della costituzione d’idrossidi pochissimo solubili. I vantaggi che si conseguono sono anche in rapporto alla saturazione dei colloidi di scambio con Ca2+. Il calcio, oltre ad andare a sostituire gli ioni idrogeno ed alluminio, è un elemento essenziale per la nutrizione vegetale.

Altri benefici della calcitazione sono connessi alla maggiore disponibilità per le piante degli ioni fosfato (massimamente disponibili a pH = 6,5), i quali sono meno adsorbiti sui prodotti idrolitici dell’alluminio. I vantaggi che si ottengono sono conseguenti alla migliore degradazione della sostanza organica che tende verso l’umificazione e non verso la torbificazione, tipica dei terreni acidi e dei climi freddi ed umidi. I buoni risultati della calcitazione del terreno sono correlati all’aumento della disponibilità dell’azoto a seguito dell’ottimale decomposizione della materia organica e dell’attività dei batteri nitrificanti ed azotofissatori, i quali funzionano meglio in terreni a pH neutro o subalcalino. Infine, i benefici dell’apporto di calcio sono legati alla possibilità delle piante di utilizzare più elevate quantità di molibdeno e di altri microelementi che, dopo le calcitazioni, sono più disponibili.

Prima di concludere, giova ricordare altre pratiche colturali correttive dell’acidità e che possono essere messe in atto dall’agricoltore per aumentare il pH del terreno.

L’impiego di acque molto dure, ricche di bicarbonati, somministrate abbondantemente, possono attenuare sufficientemente l’acidità attuale di terreni subacidi. Il debbio, antica pratica non del tutto abbandonata, consistente nel bruciare la cotica erbosa e nell’estendere la combustione a tutta la terra che, così scottata, è sparsa, determina la perdita dell’eccesso di acidità e migliora il terreno in molte altre sue proprietà. La razionale sistemazione superficiale del terreno, la buon’aerazione dello strato superficiale, le concimazioni razionali e tutti gli accorgimenti di buona pratica agronomica giovano per la correzione di un’eccessiva acidità del suolo.

Va ancora detto che l’acidità eccessiva, tipica dei terreni torbosi e di bosco, è una caratteristica anomala del suolo, in relazione all’impiego agricolo. Le azioni antropiche, rappresentate da un ampio impiego di materia organica e da irrigazioni troppo abbondanti, possono essere causa di acidità del terreno, soprattutto di quelli declivi. Un terreno sabbioso, con scarso potere assorbente, può manifestare acidità, in particolare quando eccessivamente irrigato, a causa dei processi di lisciviazione delle basi che intervengono. Le concimazioni possono aumentare l’acidità del terreno, in maniera diretta (impiego di perfosfati acidi per i trattamenti delle fosforiti con H2SO4) oppure indiretta (uso di concimi fisiologicamente acidi). I terreni troppo acidi ostacolano l’umificazione della sostanza organica, la nitrificazione e la fissazione dell’azoto atmosferico e, pertanto, sono poveri in azoto e non solo, poiché o sono privi di molti altri elementi nutritivi o, se presenti, non sono resi disponibili. L’acidità anomala del terreno contrasta con la sopravvivenza delle radici delle piante coltivate, direttamente ed indirettamente (mobilizzazione di elementi tossici come l’alluminio) ed ha effetti negativi sull’assorbimento radicale. Un terreno troppo acido sicuramente si deve definire come un terreno povero. L’acidità in un terreno argilloso ostacola la flocculazione dell’argilla e rende il terreno melmoso alla presenza di eccessiva umidità, oppure di

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consistenza lapidea quando eccessivamente secco.In Italia i terreni acidi si possono incontrare specialmente fra le terre vulcaniche

antiche, fra le terre rosse e nere (ferrettizzate), fra le terre di origine granitiche ai piedi delle Alpi occidentali (brughiere, baragge, vaude), sugli altipiani calabresi, in Sardegna nel territorio della Gallura, fra le arenarie eoceniche profondamente alterate in alcuni tratti dell’Appennino, fra le terre di origine palustre.

Terreni salini, salsi ed alcalini

Sono tutti quei terreni che contengono un eccesso di sali facilmente solubili in acqua, oppure eccessive quantità di sodio adsorbito, raramente di potassio, tanto da determinare condizioni sfavorevoli allo sviluppo delle coltivazioni.

Conviene precisare, anche per concordare il linguaggio, che salinità e salino sono termini di carattere generico che si riferiscono al complesso dei sali solubili contenuti nel terreno e nelle acque. Salsedine, salmastro e salso sono termini specifici che si riferiscono ai sali delle acque marine o d’origine marina. Terreno alcalino ed alcalinizzato sono termini che esprimono concetti correlati alla reazione del suolo ed in particolare alla concentrazione ossidrilionica. Terreno alcalizzato è un termine che esprime un concetto connesso con lo stato di saturazione ionica del complesso assorbente del terreno e con il forte contenuto di cationi alcalini allo stato di adsorbimento sul complesso colloidale. Quando tra i cationi, quello fortemente prevalente è Na+, allora si parla di terreni sodio-alcalinizzati. Un terreno sodico è quello nel quale prevale soda, cioè Na2CO3. Pertanto, si parla di argille sodiche contenenti carbonato di sodio (soda) e sodio-argille quelle saturate con cationi sodio derivati, ad esempio, dal cloruro di sodio del mare.

I sali del terreno sono autoctoni quando si formano in posto ed alloctoni quando provengono da altri luoghi.

Nella salinità alloctona, i sali del terreno sono portati con le acque di scorrimento superficiali o con quelle freatiche. In tal caso, l’innalzamento del livello della falda acquifera può apportare sali al terreno direttamente o per risalita capillare e può impedire la lisciviazione dell’eccesso di sali. I sali sono portati al terreno con le correnti aeree che trasportano il pulviscolo salino (aerosol marino), ma anche mediante trasporto eolico, quando essi sono provenienti da depositi incoerenti ricoprenti la superficie di terreni limitrofi. I sali possono giungere al terreno con le acque di pioggia che dilavano l’atmosfera (cloruri, nitrati, solfati, carbonati ed altri sali del pulviscolo atmosferico), con l’acqua di mare, come nel caso dei terreni di origine marina o influenzati dalla vicinanza del mare. L'apporto di materiali salini al terreno può avvenire, in casi particolari, a causa di sorgenti salate, di presenza di strati salsi sottostanti (strato tossico), di esalazioni o emanazioni vulcaniche, di fattori antropici (uso di concimi salini, irrigazione dei terreni con acque dure).

L’origine dei singoli sali è primaria e secondaria. E’ primaria se si formano a seguito della normale pedogenesi (dalle rocce ignee della litosfera) o se vi giungono già formati come tali da altri posti. E’ secondaria quando i sali derivano da reazioni fra sali primari o fra sali e terreno. Un esempio di salinizzazione secondaria si riscontra nei terreni assoggettati ad irrigazione irrazionale, con acque non idonee ed in grado di causare accumulo di sali ed indurre nel terreno sterilità. Forti accumuli di sali nei terreni delle serre sono altresì provocati dall’impiego di elevate dosi di concimi minerali e di

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231 Il terreno

bassi volumi di irrigazione. I sali sono preformati se si trovano nella roccia madre (biancane di Lorenzana con

lo 0,3% di NaCl e crete senesi con 0,4-0,5% di Na2SO4), sono neoformati quando si formano a seguito di processi d’alterazione e sono neoderivati quando provengono da normali fasi pedogenetiche.

Il tipo di sali dipende dalle condizioni climatiche, morfologiche e pedologiche del territorio. Così i carbonati alcalino-terrosi si accumulano nel suolo e nel sottosuolo; il gesso e frequente nelle zone aride e subaride; i solfati, cloruri, bicarbonati, borati e, in qualche caso, i nitrati di sodio, di potassio, di calcio e di magnesio sono tipici dei terreni salini ed alcalini.

L’abbondanza dei sali dipende dalla facilità con la quale possono circolare sulla litosfera e, quindi, dalla loro mobilità.

Normalmente è considerato salino un terreno con 0,1-0,2% di sali, ma questo criterio è molto impreciso perché non viene indicato il tipo di sale e perché la concentrazione della soluzione circolante dipende dalla quantità d’acqua nel suolo (terreno saturo d’acqua ed asciutto). Un metodo ritenuto soddisfacente consiste nel saturare d’acqua il terreno (fino alla capacità idrica massima) in modo da ottenere, per aspirazione, una quantità di soluzione (detta estratto della pasta satura) sufficiente per le analisi. Su tale soluzione viene misurata la conducibilità elettrica (espressa in millimhos/cm a 25 °C) che fornisce il valore di concentrazione salina. Nella tabella 42 sono riportati i valori di conducibilità elettrica e di pH dell’estratto di un terreno normale, salino, alcalino, salso alcalino.

Tab. 42 – Valori di conducibilità elettrica dell’estratto di un terreno normale, alcalino e salso alcalino.

Tipo di terreno Conducibilità elettrica (mmhos/cm)

pH

Terreno normale 0,6 6,4Terreno salino > 4 < 8,5Terreno alcalino < 4 > 8,5Terreno salso alcalino > 4 < 8,5

I terreni salini presentano un pH neutro o subalcalino e qualche volta addirittura acido. Poi fanno sempre rilevare una conducibilità elettrica molto alta e possono presentare efflorescenze saline. Nei terreni salini, le condizioni della struttura non sono del tutto sfavorevoli poiché la presenza d’elettroliti mantiene i colloidi stabilmente allo stato flocculato e ciò avviene non soltanto per i cationi Ca2+ e Mg2+, ma anche quando predomina Na+, purché in concentrazione sufficientemente elevata. I terreni salini presentano, inoltre, la permeabilità, lo stato d’aerazione e le altre proprietà fisiche relativamente buone, almeno quando il terreno non è eccessivamente argilloso.

I terreni alcalini, quando la salinità è bassa, possono presentare una bassa

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conducibilità elettrica ed hanno un’elevata percentuale di sodio scambiabile per la presenza di Na2CO3 e NaHCO3, sali che sono in quantità mai superiore a 0,1% e che in assenza di calcio e magnesio non possono precipitare come carbonati.

Il carbonato ed il bicarbonato di sodio si formano durante il processo di alcalinizzazione, a partire da carbonato di calcio e cloruro o solfato di sodio, secondo le seguenti reazioni:

Ca CO3 + 2NaCl ↔ CaCl2 + Na2CO3

Ca CO3 + Na2SO4 ↔ Ca SO4 + Na2CO3

Tuttavia, questo processo riveste scarsa importanza nell’alcalinizzazione, giacché l’equilibrio è spostato verso sinistra, con formazione di carbonato di calcio, in pratica insolubile.

Il calcare, però, influenza nettamente il pH poiché è un sale oggetto d’idrolisi alcalina, con produzione di ossidriolioni, secondo lo schema seguente:

Ca CO3 + H2O → Ca2+ + HCO3— + OH—

Così, una soluzione di carbonato di calcio in acqua pura ha un pH superiore ad 9, ma l’andamento dell’idrolisi è influenzato dalla pressione parziale dell’anidride carbonica, perciò il pH dei terreni calcarei, nei quali la CO2 è sempre presente, è compreso tra 7,5 ed 8,5 e tali terreni si dicono ad alcalinità costituzionale.

Più imponente è l’alcalinizzazione che si ottiene quando i terreni salini subiscono un’intensa lisciviazione e fra i sali solubili abbondano non quelli di calcio e magnesio (che portano alla formazione, dopo lisciviazione, di un terreno normale con i complessi assorbenti saturati con Ca2+ e Mg2+) che, invece, sono scarsi, bensì quelli di sodio (per questo i complessi assorbenti sono saturati in gran parte da Na+), i quali insieme all’acqua danno origine al carbonato di sodio, secondo la seguente reazione:

Argilla–2Na + H2O + CO2 ↔ Na2CO3 + Argilla–2H

Naturalmente, questo processo di alcalinizzazione è tanto più imponente quanto più elevata è la quantità di colloidi argillosi presente nel terreno.

In terreni molto umidi ed in presenza di solfobatteri e di sostanza organica alterabile (fonte di carbonio), la formazione di carbonato di sodio si ottiene a partire da solfato di sodio.

Si ha prima produzione di solfuro di sodio e poi trasformazione di questo in acido solfidrico, molto effimero, perché immediatamente precipita come solfuro insieme a ferro o altri metalli pesanti, secondo il seguente schema:

Na2SO4 + 2C → Na2S + 2CO2

Na2S + H2O + CO2 → H2S + Na2CO3

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233 Il terreno

H2S + FeO → FeS + H2O

Il solfuro ferroso si trasforma poi, in caso di prosciugamento del terreno ed in presenza d’ossigeno, in solfato ferroso, decisamente acido, che porta alla decomposizione del carbonato di sodio che si era formato e, ricostituendo il solfato di sodio iniziale, all’acidificazione del terreno:

FeS + 2O2 → FeSO4

FeSO4 + Na2CO3 → Na2SO4 + CO2 + FeO

Alcune piante accumulatrici di sodio possono alcalinizzare il terreno quando, con la morte, rimettono in circolo il sodio accumulato nei tessuti. Infine, azioni antropiche come la concimazione e l’irrigazione possono contribuire ad alcalinizzare il terreno.

L’alcalinità e la salinità dei suoli, spesso associata, influiscono negativamente su un adeguato equilibrio della composizione delle diverse specie di microrganismi e, pertanto, ostacola lo svolgersi dei normali cicli di alcuni elementi nutritivi delle piante come l’azoto ed il fosforo. Ciò perché l’eccessiva concentrazione della soluzione circolante può ostacolare l’assorbimento radicale. S’instaura quella che si chiama clorosi alcalina, spesso riscontrabile anche nei terreni calcarei, alla quale si può porre rimedio attuando trattamenti fogliari alle piante mediante una soluzione di solfato ferroso.

Le piante possono manifestare anche carenza da fosforo perché, in ambienti eccessivamente alcalini, può verificarsi l’insolubilizzazione permanente di questo macroelemento.

L’alcalinità può ostacolare la flocculazione dei colloidi argillosi, per questo, in terreni con simili anomalie, è molto difficile che s’instauri una struttura glomerulare, con tutti i vantaggi ad essa correlati.

Bisogna, inoltre, tener presente che questi caratteri anomali del terreno sono di tipo fortemente dinamico e, pertanto, la concentrazione salina può subire forti variazioni, direttamente o indirettamente, permanentemente o transitoriamente. E’ necessario concepire la salinità di un terreno in funzione del suo dinamismo e sotto tale aspetto giudicare i suoi effetti sulle colture.

L’influenza dell’andamento climatico sulla concentrazione salina del terreno è un aspetto fondamentale. Spesso, terreni bonificati possono palesare, in determinati periodi di tempo, condizioni normali di salinità così da permettere lo sviluppo rigoglioso delle colture, mentre, in altri momenti, caldi e siccitosi, arricchendosi progressivamente di sali, evidenziano gravi compromissioni delle coltivazioni.

Se è facile determinare il grado di salinità del terreno o di una falda acquifera ed è pure agevole stabilire sperimentalmente il limite al quale la salinità diventa nociva alle piante, non altrettanto facile è giudicare le potenzialità e le attitudini del terreno riguardo a tali aspetti. La granulometria (gli effetti del sale sono più sentiti nei terreni argillosi che non in quelli sabbiosi) e la composizione chimica del terreno, la piovosità e la siccità sono tutte cause che influiscono sulla salinità di un suolo e di cui bisogna tenere conto nelle operazioni di bonifica. I terreni salini possono essere bonificati e normalizzati procedendo alla rimozione dei sali con abbondanti lisciviazioni. I terreni argillosi e quelli

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Fiume Francesco 234

con scarso drenaggio devono prima essere migliorati nella percolazione dell’acqua con interventi agronomici ed idraulici. Nel caso in cui la salinità è dovuta all’innalzamento del livello della falda acquifera è necessario abbassarne il livello, aumentando il franco di coltivazione, favorire l’allontanamento delle acque di drenaggio e consentire il dilavamento meteorico dei sali, anche con adeguata baulatura del terreno.

La lisciviazione dei sali si ottiene somministrando al terreno una quantità di acqua in eccesso rispetto a quella necessaria alle piante. Tale eccesso è detto fabbisogno di lisciviazione e si calcola con la seguente formula:

Conducibilità elettrica acqua d’irrigazione (in mmhos)Fabbisogno lisciviazione = —————————————————————— · 100

Conducibilità elettrica acqua di drenaggio (in mmhos)

Per piante sensibili alla salinità, la conducibilità elettrica dell’acqua di drenaggio e

quella dell’acqua di lisciviazione non deve superare il valore di 4 mmhos. Anche la quantità di sale presente nel terreno e che deve essere rimossa ha notevole

influenza nella lisciviazione e bonifica del terreno.La correzione dei terreni alcalini è fondata sulla decomposizione del carbonato di

sodio e successivo allontanamento del sodio scambiabile. Questo risultato si ottiene aggiungendo al terreno del gesso. Nonostante la scarsa solubilità di questo minerale, esso dà luogo ad una reazione di doppio scambio. Il calcio in eccesso in tale reazione si sostituisce al sodio sul complesso di scambio argilloso, secondo le seguenti reazioni:

Na2CO3 + CaSO4 ↔ Na2SO4 + CaCO3

Argilla–2Na + CaSO4 ↔ Na2SO4 + Argilla–Ca

La trasformazione di carbonato di sodio (sale stechiometricamente neutro, ma chimicamente alcalino perché costituito da una base forte ed un acido debole), in solfato di sodio (sale stechiometricamente e chimicamente neutro) provoca un forte abbassamento del pH che assume, così, valori tipici dei terreni calcarei, mentre la sostituzione del sodio con il calcio sulle particelle colloidali migliora la fertilità chimica e la struttura del terreno.

Per la correzione dell’alcalinità di un terreno si può usare anche lo zolfo le cui particelle quanto più sono fini tanto agiscono più velocemente, anche per l’azione microbica. Le seguenti reazioni sono quelle che si verificano nella realtà:

S + 1,5O2 + H2O + Na2CO3 ↔ Na2SO4 + H2O + CO2

Argilla–2Na + S + 1,5O2 + H2O ↔ Argilla–2H + Na2SO4

Naturalmente, queste reazioni, proprio perché hanno bisogno dell’intervento microbico, conducono alla correzione della basicità del terreno più lentamente del gesso. Tuttavia, dosi elevate di zolfo possono portare alla completa neutralizzazione della reazione del terreno e finanche all’acidificazione.

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235 Il terreno

La quantità di correttivo da usare per la neutralizzazione del terreno è detto fabbisogno in gesso e si esprime in quintali per ettaro di gesso. Il fabbisogno in gesso rappresenta la quantità di calcio necessaria per sostituire il sodio scambiabile ed è dato dalla differenza tra il titolo iniziale e quello finale di una soluzione titolata di CaSO4 con la quale è stato trattato, in eccesso, un campione di terreno e determinando, dopo filtrazione, il calcio rimasto in soluzione.

I terreni cui si aggiungono correttivi per la neutralizzazione della reazione alcalina debbono anche essere concimati con fertilizzanti chimicamente o fisiologicamente acidi (ad esempio, perfosfato nel primo caso, con solfato di potassio, solfato ammonico nel secondo) e debbono ricevere abbondante acqua, sia per portare in soluzione il correttivo stesso, sia per consentire lo svolgimento delle reazioni descritte, sia per favorire la lisciviazione dei sali che si formano e di quelli presenti naturalmente nel terreno.

In conclusione va ancora detto che la rimozione dell’alcalinità e della salinità di un terreno è un problema di difficile soluzione per il costo molto elevato delle operazioni di

correzione, perché spesso non si riesce ad eliminare le cause che provocano le anomali condizioni del terreno e perché occorrono tempi molto lunghi. Dopo poco tempo, infatti, è molto facile assistere al ripristino delle condizioni anomali del suolo.

Tali terreni anomali sono spesso scarsamente permeabili, presentano falde acquifere superficiali, vanno soggetti ad intensi e prolungati ristagni idrici.

Questi terreni si trovano in numerose zone della superficie terrestre ed occupano grandi estensioni dove le colture non possono svilupparsi o forniscono produzioni veramente scarse, convenendo, in alcuni casi, destinarli a coltivazioni estensive (pascolo) ed in altri, a profondi miglioramenti fondati su interventi idraulici ed agronomici, sull’impiego di correttivi chimici e cercando di adattare il terreno alle caratteristiche biologiche, fisiologiche e genetiche delle piante.

L’impiego di piante resistenti o tolleranti ottenute a seguito di un intenso lavoro di miglioramento genetico, spesse volte, consente l’utilizzazione di questi terreni caratterizzati, per l’appunto, da estreme condizioni d’abitabilità.

FASE LIQUIDA DEL TERRENO

E’ stata trattata finora, nell’ambito delle condizioni chimiche del suolo, la fase solida del terreno e più volte è stata sottolineata la grande importanza dell’acqua, tanto che il terreno, inteso come unica fase solida, non può manifestare nessuna delle proprie caratteristiche chimiche in assenza del più prezioso composto presente sul globo terrestre, che è appunto l’acqua. I costituenti inorganici ed organici sono stati studiati nei loro effetti in funzione della presenza o della carenza idrica, l’attività delle particelle terrose, vale a dire lo scambio cationico, l’adsorbimento anionico, la reazione del terreno e la sua correzione, sono possibili soltanto in relazione alla presenza dell’acqua.

La fase liquida è stata anche studiata a proposito delle condizioni fisiche del terreno. Non si poteva parlare dei potenziali del terreno, oppure della conducibilità del suolo senza far riferimento all’acqua presente.

E’ molto difficile, se non impossibile, trattare un qualunque argomento, riferito allo studio del terreno, senza considerarlo nella sua interezza, vale a dire come un sistema trifasico dove la parte solida, liquida e gassosa sono tra loro intimamente collegate da scambi che avvengono in tutte le direzioni.

In questo capitolo sono considerate alcune peculiarità della fase liquida del terreno,

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Fiume Francesco 236

con particolare riferimento ad alcuni aspetti del rapporto acqua-terreno, da quando l’acqua giunge nel suolo, attraverso le precipitazioni o mediante l’irrigazione, ed in esso s’infiltra e si diffonde.

Si cercherà di comprendere e di spiegare cosa accade nel terreno quando si verifica un eccesso idrico e come si valuta la quantità e la qualità dell’acqua presente nel suolo ed in che modo l’irrigazione può influenzare le condizioni chimiche di un terreno e quelle della soluzione circolante.

Infiltrazione dell’acqua nel terreno

L’acqua allo stato liquido, che giunge dall’atmosfera attraverso le precipitazioni oppure è immessa sul terreno per azioni antropiche (irrigazione) e secondo varie modalità, penetra nel suolo attraverso i pori presenti nello strato superficiale. Questo processo si chiama infiltrazione.

Uno degli scopi più importanti, riguardanti la gestione del territorio e la pratica dell’agricoltura, è che il processo d’infiltrazione dell’acqua nel terreno si compia normalmente per evitare tutti i fenomeni di ruscellamento e di ristagno idrico che sono di solito causa di gravi danni, soprattutto quando non sono adeguatamente regimentati e decisi dalla volontà e dalla professionalità dell’uomo.

La porosità del terreno svolge un ruolo importante nell’infiltrazione dell’acqua. Essa è fortemente legata, come si è già visto, alla granulometria, alla struttura, alla stabilità degli aggregati, al contenuto di sostanza organica, al tipo di lavorazioni attuate ed alla quantità d’aria presente nel suolo. Questi aspetti condizionano notevolmente l’infiltrazione dell’acqua nel terreno e possono giocare un ruolo fondamentale nella regimentazione delle acque.

La velocità d’infiltrazione, cioè la quantità d’acqua che s’infiltra nell’unità di tempo, non è costante nel tempo, ma presenta valori iniziali molto alti che diminuiscono man mano che il terreno si satura d’acqua. Man mano ci si avvicina ai valori della capacità di campo, la variazione della velocità d’infiltrazione diminuisce sempre più e la velocità tende a diventare costante.

A parità di tutte le altre condizioni, la velocità d’infiltrazione dell’acqua è maggiore in un terreno secco rispetto ad un terreno umido, in un terreno in buono stato di aggregazione rispetto ad un terreno con superficie indurita, in un terreno coperto di vegetazione o residui rispetto ad un terreno nudo.

Nel caso in cui la velocità con cui l’acqua affluisce sul terreno diventi maggiore di quella d’infiltrazione, rapidamente si osserveranno fenomeni di ristagno idrico, se il terreno è piano, oppure fenomeni di ruscellamento, se il terreno è in pendenza.

In un terreno bagnato, in relazione al fatto che il gradiente di tensione tra l’acqua di superficie e la matrice del terreno è minore di quello di un terreno secco, l’infiltrazione idrica sarà più limitata di quella di un terreno asciutto. In altri termini, se un terreno presenta i pori già pieni d’acqua, l’infiltrazione è impossibile e tanto maggiore è lo spessore dello strato di terreno bagnato, tanto più ridotta è l’infiltrazione idrica.

La granulometria del terreno influisce sensibilmente sull’infiltrazione dell’acqua, in relazione alla dimensione dei pori.

Per questo motivo i terreni sabbiosi, caratterizzati dalla presenza di macropori, presentano una gran velocità d’infiltrazione. Man mano che diminuiscono le dimensioni dei pori, andando verso i terreni limosi ed argillosi, si riscontra una diminuzione progressiva della velocità d’infiltrazione. Tuttavia, nei terreni argillosi, la presenza di

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237 Il terreno

aggregati di grande stabilità induce elevata velocità iniziale d’infiltrazione.La struttura che favorisce i rapporti aria-terreno ed acqua-terreno è quella

glomerulare e qualsiasi altra struttura che agevola la formazione di aggregati ed induce la loro stabilità è da auspicare in un terreno agrario. La resistenza degli aggregati si può valutare con l’indice di stabilità di struttura e quando questo indice è basso nello strato superficiale di terreno, l’affluenza d’acqua induce disgregazione e conseguente occlusione dei pori da parte delle singole particelle disaggregate, con formazione di uno strato impermeabile, compatto e continuo, con conseguente difficoltà di infiltrazione idrica.

La materia organica nel terreno migliora l’infiltrazione dell’acqua, poiché favorisce l’attività microbica da cui prendono origine i metaboliti che funzionano da cemento nella creazione e stabilizzazione degli aggregati.

Le lavorazioni aumentano la macroporosità del terreno e facilitano, così, l’infiltrazione dell’acqua. Le lavorazioni del suolo, tuttavia, a lungo andare possono anche destabilizzare gli aggregati, con effetti negativi sul processo d’infiltrazione. La presenza delle colture attenua l’effetto negativo della pioggia battente e determina un graduale afflusso d’acqua sul terreno che tende in parte a stazionare sulle piante e poi a gocciolare, con conseguente riduzione del ristagno idrico e del ruscellamento.

Soluzione circolante

Il terreno naturale e quello agrario devono contenere, oltre ad una fase solida minerale ed organica, una fase liquida. Questa, da un punto di vista fisico costituisce l’acqua del terreno e da un punto di vista chimico rappresenta la soluzione del terreno.

L’acqua di pioggia, prima del contatto con il suolo, può contenere una piccola quantità di ioni H+ e d’anioni HCO3

—, NO3—, SO4

2— ed è invece priva di cationi metallici, a meno di gravi inquinamenti dell’atmosfera. Una volta a contatto con il terreno s’infiltra e porta in soluzione i vari composti minerali, in quantità dipendenti da parametri chimici (prodotto di solubilità, grado d’idrolisi) e da fattori fisici, come ad esempio la temperatura.

La soluzione circolante nel terreno è costituita dall’acqua e dalle sostanze disciolte, con alcune caratteristiche peculiari. Queste sono la forte diluizione, il continuo movimento nel terreno, in relazione ai valori dei diversi potenziali, la capacità di trasportare ioni per la nutrizione delle piante.

In relazione al fatto che la nutrizione delle piante è essenzialmente minerale, a base di cationi ed anioni, semplici o complessi, esistenti nella soluzione del terreno, è necessario condurre analisi delle soluzioni estratte in laboratorio, sottoponendo a forti pressioni il terreno prelevato in campo sotto diverse condizioni d’umidità, oppure spostando la soluzione del suolo con acqua o con altro liquido, come ad esempio la glicerina, ed adottando, eventualmente, tecniche particolari.

I dati di laboratorio ricavati mediante queste metodiche hanno evidenziato che pur ottenendosi, da suoli normalmente esenti da sali solubili, soluzioni molto diluite, queste mostrano una notevole variabilità di composizione, anche per uno stesso terreno, in differenti momenti stagionali di prelievo e dell’andamento climatico.

L’attività microbiologica del terreno, sempre condizionata dalla disponibilità idrica e dalle condizioni termiche, contribuisce notevolmente alla solubilizzazione di numerosi costituenti litologici che vanno ad arricchire, relativamente, in determinati periodi

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Fiume Francesco 238

stagionali, la soluzione circolante. Le sostanze presenti nella soluzione circolante derivano da composti minerali solubili, dalla CO2, da acidi organici (prodotti dalla decomposizione della sostanza organica, dall’escrezione radicale delle piante e dal metabolismo microbico), dalla decomposizione della sostanza organica, dai concimi e dall’acqua d’irrigazione.

Spesso si è parlato di solubilizzazione. Con questo termine, in ambienti naturali e sempre con riferimento all’acqua, ci si vuole riferire ai processi chimici, coadiuvati da quelli fisici, per i quali una sostanza, quasi o per nulla solubile, viene convertita in forme più solubili, spesso con l’intervento di alcuni processi biochimici, a seguito dei quali prendono origine nuove forme molecolari capaci di passare in soluzione. I processi di solubilizzazione e di insolubilizzazione sono di grande importanza nel determinare nel terreno adeguati equilibri di disponibilità e di riserva di molti elementi nutritivi presenti nel suolo in forme insolubili e veicolati alle radici delle piante sotto forma di ioni solubili.

Mentre per alcuni ioni presenti in composti praticamente insolubili, come per esempio il CaCO3, la pianta, con la CO2 emessa a seguito del processo di respirazione

radicale, riesce ad arricchire la soluzione circolante della rizosfera di ioni HCO3—, che

trasformano il calcare insolubile in bicarbonato di calcio solubile, per altri ioni come quelli fosforici, H2PO4

— e HPO42—, le cose sono più complesse e difficili, in relazione

all’elevata insolubilità dei fosfati stechiometricamente neutri presenti nel suolo, come Ca3(PO4)2, FePO4, Al PO4, dai quali essi derivano. In questi casi la solubilizzazione dei fosfati neutri è favorita da alcuni microrganismi batterici (Pseudomonas spp., Mycobacterium spp.) e fungini (Sclerotium spp, Fusarium spp). L’attività di tali microrganismi porta alla formazione di sostanze metaboliche ed in particolare di acidi organici che inducono la trasformazione in fosfati acidi sempre più solubili e disponibili per le piante.

Ma oltre alle solubilizzazioni per carbonatazione, un ruolo molto importante è svolto dalle solubilizzazioni per chelazione, per le quali, anziché considerare una quantità di ioni nutritivi nella soluzione del terreno a disposizione delle piante, lo stesso organismo vegetale, con i metaboliti secreti dalle radici, può formare dei complessi chelati in grado di cedere cationi, come il Fe3+, ed anioni, come quelli fosforici, che altrimenti non potrebbero essere disponibili per le piante.

Le solubilizzazioni per carbonatazione e per chelazione rientrano nei processi riguardanti la dinamica ed il movimento degli ioni attraverso il terreno, così come succede con il dilavamento meteorico dei cationi metallici (Ca, Mg, K, Na) presenti sul complesso assorbente del terreno, in seguito al loro scambio con ioni H+ (provenienti dalla dissociazione di H2CO3 e successiva formazione di carbonati o bicarbonati solubili) e così come si verifica quando il ferro ferrico è mobilizzato (nei suoli acidi dei climi freddi ed umidi) in seguito a chelazione per opera di acidi policarbossilici prodotti durante l’umificazione dei residui vegetali.

In relazione a quanto detto, le piante, oltre che nutrirsi attraverso l’assunzione, mediante le radici, della soluzione circolante, possono prelevare, direttamente dal complesso assorbente della frazione solida del terreno, gli elementi minerali indispensabili alla nutrizione. Ciò ha fatto perdere alla soluzione circolante un poco del suo primitivo importantissimo significato, per il quale essa è più una conseguenza che non una condizione del processo nutrizionale delle piante.

Le caratteristiche della soluzione circolante sono rappresentate dalla sua

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239 Il terreno

composizione e concentrazione.La prima varia con la composizione e struttura del terreno, con la profondità, con la

temperatura, con le lavorazioni del terreno, con le concimazioni, con gli ammendamenti e correttivi, con il tipo di specie vegetale coltivata.

La concentrazione della soluzione circolante è molto variabile e dipende principalmente dalla quantità d’acqua presente nel terreno. Il valore ottimale è intorno allo 0,1%.

Un’eccessiva concentrazione della soluzione circolante è indice di anomalie del terreno, per quanto attiene la salinità e la reazione, e può causare la morte delle piante per plasmolisi, vale a dire processi di esosmosi a livello delle cellule delle radici che portano alla fuoriuscita dell’acqua dai vacuoli e dal citoplasma, con contrazione del volume cellulare e necrosi tissutale.

Indipendentemente dal tenore in materia organica solubile, analizzando chimicamente la soluzione circolante, è possibile rilevare che la maggior parte delle sostanze sciolte è rappresentata dall’acido carbonico e dall’acido nitrico, cioè calce e azoto sotto forma di bicarbonato e nitrato, mentre il magnesio è presente in misura più limitata.

Specificamente, per quanto riguarda la parte cationica, la soluzione che si origina da terreni neutri o subalcalini contiene in maggior quantità sali di calcio, seguiti da sali di magnesio, sodio, potassio ed ammonio, mentre nei suoli acidi si ritrovano principalmente i sali d’alluminio e di manganese. La quantità di cationi è variabile: per il calcio è compresa tra 0,002 e 0,16% (in peso di soluzione), per il magnesio 0,0008-0,02%, per il sodio 0,001-0,02%, per il potassio 0,0004-0,03%, per l’ammonio 0,0002-0,007%.

Specificamente per gli anioni, il radicale nitrico, in un terreno neutro o subalcalino, è quello maggiormente rappresentato con 0,0967-0,403%, seguito dal radicale solforico con 0,0336-0,7258% e da quello cloridrico con 0,00781-0,01988%.

L’anione carbonico è presente intorno a 0,00671-0,02562%, fino a 0,1-1,0% ed oltre, dipendendo la sua concentrazione molto dalla pressione parziale di CO2.

Mentre la silice è quasi sempre ben rappresentata, con valori intorno allo 0,004% di SiO2, l’anione fosforico è presente in piccole quantità e spesse volte non si riesce ad individuare e può oscillare da 0,001-0,002% fino a 0,02-0,1%.

I fertilizzanti organici e minerali modificano profondamente la composizione e la concentrazione della soluzione circolante, come pure il disseccamento del terreno al sole, che impartisce una maggiore solubilità ai composti insolubili azotati e fosfatici del terreno, il clima, l’andamento stagionale e le precipitazioni innanzi tutto.

I valori relativi alla composizione della soluzione del terreno hanno valore indicativo e non possono essere presi come indici del contenuto di elementi nutritivi per le piante, non fosse altro perché la concentrazione non è sempre la stessa nel tempo, ma si rinnova incessantemente con un ritmo che dipende da molti fattori. Per questo, come per il pH, è possibile esprimere un livello e non una disponibilità quantizzabile.

Come già accennato, il fatto che molti cationi nutritivi si trovano nel terreno sotto forma di cationi scambiabili, che non sono solubili ma prontamente utilizzabili da parte delle piante, svuota molto di significato la conoscenza degli ioni solubili nel suolo, i quali rappresentano una piccolissima parte degli stessi ioni in forma scambiabile.

Lo stesso vale anche per gli anioni, in particolare per i fosfati, che sono nel terreno in forma di composti pochissimo solubili, ma che alcune piante riescono ad utilizzare.

Il discorso cambia nettamente quando nel terreno si trovano sali solubili, i quali

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Fiume Francesco 240

possono fortemente incrementare la concentrazione della soluzione circolante che può addirittura diventare dannosa e tossica per la vegetazione.

In questi casi, l’analisi della soluzione circolante e delle acque percolate riveste sempre un’importanza fondamentale e sicuramente porterà a rilevare la presenza di grandi quantità di sodio, fra i cationi, e di radicali cloridrici e solforici, tra gli anioni.

Valutazione della quantità d’acqua nel terreno

La valutazione del contenuto in acqua di un terreno è un dato analitico di grande importanza perché è fortemente correlato alle condizioni di fertilità e la cui conoscenza consente di effettuare adeguate scelte colturali e di destinazione del terreno. La quantità di acqua presente nel terreno può misurarsi come contenuto percentuale di acqua in peso. Ciò esprime il peso in grammi dell’acqua presente in 100 grammi di terreno secco, secondo la relazione seguente:

peso acquaP% = ———————— · 100

peso terreno secco

La quantità d’acqua può essere misurata come contenuto percentuale di acqua in volume, cioè come volume di acqua presente in un volume noto di terreno, secondo la seguente relazione:

volume acquaV% = ———————— · 100

volume terreno

E’ possibile effettuare conversioni tra percentuale in peso e percentuale in volume. La percentuale in volume d’acqua si discosta dalla percentuale in peso per un fattore costituito dal peso specifico (Psp), ricordando, però, che le misure di peso specifico sono sempre difficoltose e soggette ad errori di campionamento. La relazione che lega i due termini è:

V% = P% · Psp

Circa la conversione della percentuale in peso o in volume in termini di potenziale non è disponibile alcuna formula, poiché sono numerose le proprietà del terreno dalle quali tale correlazione è condizionata. I metodi ai quali si ricorre per valutare il contenuto idrico del suolo sono l’analisi gravimetrica, la determinazione tensiometrica, conduttometrica, termoelettronica e tramite la sonda neutronica.

ANALISI GRAVIMETRICA

L’analisi gravimetrica è il metodo tradizionalmente seguito per rilevare la quantità d’acqua di un campione di terreno, determinando prima il peso del campione umido e poi il peso dello stesso campione essiccato in stufa a 105 °C, sino a peso costante ed

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241 Il terreno

applicando la seguente espressione:

peso campione umido – peso campione secco% di acqua in peso = ——————————————————— · 100

peso del campione secco

Il campione essiccato in stufa non è più utilizzabile per altre analisi. Per essiccare un campione di 200 g di terreno occorrono 24-36 ore con una stufa ad aria calda e 30 minuti se si usa una stufa a microonde.

Le metodo gravimetrico presenta alcuni svantaggi come quello di essere distruttivo, di non poter essere seguito nel tempo e di non essere tempestivo, soprattutto quando l’informazione sul contenuto idrico del terreno deve essere immediata, in rapporto all’intervento.

DETERMINAZIONE TENSIOMETRICA

Si è già accennato a questo tipo di determinazione e dello strumento con il quale si effettua, il tensiometro, quando è stato trattato lo studio dei potenziali del terreno (nell’ambito delle caratteristiche dinamiche del suolo e della struttura) e specificamente del potenziale tensiometrico.

Si ricorda che quando il tensiometro è infilato nel suolo, l’acqua presente nel terreno tende a porsi in equilibrio con l’acqua contenuta nel tensiometro, attraverso la porosità della parte in ceramica dello strumento. Man mano che il terreno perde acqua il suo potenziale tensiometrico e quello matriciale aumenta, perciò anche l’acqua contenuta nel tensiometro tende a diffondere all’esterno, causando un abbassamento di tensione che è registrato da un apposito vacuometro. Se il terreno si arricchisce d’acqua, il potenziale matriciale del terreno si abbassa e l’acqua penetra nel tensiometro. Il vacuometro registrerà, così, valori più bassi di depressione.

Il tensiometro fornisce valori di potenziale in un campo assai ristretto, compresi tra 0 e – 0,8 bar, per questo è possibile rilevare soltanto una piccola parte dei potenziali che si sviluppano in un terreno. Il tensiometro, tuttavia, misurando i valori alti di contenuto idrico del terreno, consente di identificare, con buona approssimazione, i dati corrispondenti alla capacità di campo. La lunghezza del tensiometro può anche variare e ciò consente la misura tensiometrica alla profondità massima raggiungibile dalle radici, in modo da poter intervenire con l’irrigazione, portando alla capacità di campo soltanto lo strato di terreno sovrastante, interessato dagli apparati radicali, ed evitare sprechi d’acqua.

La determinazione tensiometrica presenta alcuni limiti. I valori tensiometrici sono riferibili soltanto ad un limitato intervallo di contenuti idrici e, aspetto anch’esso molto importante, la strumentazione necessita di frequenti interventi di manutenzione.

DETERMINAZIONE CONDUTTIMETRICA

La determinazione conduttimetrica è fondata sulla capacità dell’acqua contenente elettroliti a condurre corrente elettrica e sul fatto che il terreno secco è un cattivo conduttore di corrente e, pertanto, offre una grande resistenza al passaggio d’elettricità.

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Se nel terreno c’è acqua, la conducibilità del terreno è alta (la resistenza è, al contrario, bassa), se il terreno è asciutto, la conducibilità è bassa e la resistenza è alta.

Si può stabilire una relazione tra contenuto in acqua del terreno e valori di resistenza elettrica, procedendo alla misura di questa relazione mediante l’impiego di blocchetti di gesso nei quali sono stati previamente immersi due elettrodi, collegati ad un ohmetro, posti a distanza nota tra loro. Interrando questi blocchetti, essi tenderanno a mettersi in equilibrio con la fase liquida esistente nel suolo, perdendo o acquistando acqua in modo del tutto analogo al terreno e dall’ohmetro si possono rilevare i valori di resistenza. I valori saranno bassi se il terreno è bagnato e tenderanno ad innalzarsi man mano che il terreno perde acqua. La soluzione satura di CaSO4, naturalmente presente all’interno dei blocchetti, rende indipendente la lettura del valore ohmico dello strumento da ogni variazione di concentrazione di sali della fase liquida, dovuta, ad esempio, ad una concimazione minerale.

Per tale motivo è sconsigliabile usare materiali diversi dal gesso, come nylon o fibra di vetro. Questi, se assicurano tempi di funzionamento più lunghi, non consentono di schermare gli effetti di eventuali variazioni della concentrazione d’elettroliti della soluzione circolante.

Se interessa il monitoraggio del contenuto idrico di tutto lo strato di terreno interessato dalle radici è possibile impiegare numerosi blocchetti di gesso, sistemati a profondità diversa e costituenti ciascuno un’unità di rilevamento.

DETERMINAZIONE TERMOELETTRONICA

La determinazione termoelettronica è fondata sulla proprietà di conduzione termica del terreno che è fortemente dipendente dal contenuto in acqua. Pertanto, più elevato è il contenuto idrico del terreno, più alto è il valore di conducibilità termica che si registra.

Un blocchetto di ceramica, nel quale sono contenuti la fonte di calore ed il sensore di temperatura, è interrato e posto in equilibrio con la fase liquida del terreno. La risposta termica è proporzionale al contenuto idrico del terreno ed un’opportuna calibrazione dei sensori consentirà la lettura diretta del potenziale matriciale. La precisione di un sensore termoelettronico è molto elevata entro un intervallo di valori compresi tra 0 e 2 bar e diminuisce sensibilmente per valori superiori.

DETERMINAZIONE CON SONDA NEUTRONICA

La sonda neutronica è costituita da una sorgente di neutroni veloci, da un rilevatore di neutroni lenti e da un contatore del numero di tali neutroni lenti nell’unità di tempo.

La determinazione analitica si basa sul concetto che una sorgente di neutroni veloci, inserita nel terreno, emette particelle in tutte le direzioni ed ogni volta che entrano in collisione con qualsiasi nucleo atomico presente nel terreno perdono di velocità e rallentano.

Orbene, se un neutrone collide con una particella la cui massa è molto vicina alla propria – come potrebbe essere un nucleo di idrogeno contenente, come è noto, un unico protone ed avente massa molto vicina a quella del neutrone, perché a sua volta costituito da un neutrone ed un positrone (antiparticella dell’elettrone, a carica positiva) di massa trascurabile – avviene la massima perdita di energia cinetica e quindi il più elevato

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243 Il terreno

rallentamento dello stesso neutrone. L’idrogeno è quello che causa il massimo rallentamento dei neutroni e poiché la

quantità di idrogeno costituente la molecola dell’acqua presente nel terreno è maggiore di quella contenuta in ogni altra sostanza, si può ammettere che la quantità di neutroni lenti che raggiungono la sonda, dove il rilevatore ne registra la presenza e ne consente il conteggio, sia proporzionale al contenuto di acqua di un volume noto di terreno, pari ad una sfera di circa 15 cm di diametro, nei terreni umidi e di circa 50 cm di diametro, nei terreni asciutti.

La determinazione con sonda neutronica, tuttavia, presenta alcune difficoltà operative rappresentate dai rischi e dalle necessità di adempimenti burocratici e sanitari connessi alla detenzione ed all’uso di una sorgente di radioattività. Inoltre, richiede una puntuale ed attenta calibrazione e non consente la misura negli strati superficiali ed in piccoli volumi di terreno.

DETERMINAZIONE MEDIANTE RIFLETTOMETRIA NEL DOMINIO DEL TEMPO

La determinazione mediante riflettometria nel dominio del tempo (TDR, acronimo di time domain reflectometry) è una metodica adattabile alla misura non distruttiva della misura dell’umidità volumetrica del terreno attraverso la determinazione della sua costante dielettrica.

Il suolo è un sistema polifasico le cui proprietà dielettriche dipendono da quelle dei suoi costituenti.

I valori della costante dielettrica dei vari componenti del suolo sono per l’aria uguale ad 1, per i diversi componenti minerali circa 2-3, per l’acqua a 25 °C circa 78.

Il valore predominante è quello da attribuire all’acqua. La costante dielettrica è 2-3 per un suolo completamente secco e intorno a 30 per un suolo in condizioni di saturazione.

La costante dielettrica di un mezzo è stabilita dalla legge di Coulomb e si esprime con la seguente relazione:

→ 1 q · q’

| F | = —— · ———

4 Π K r2

dove F è la forza che agisce tra le due cariche elettriche q e q’ poste alla distanza r e K è la costante dielettrica del mezzo.

La costante dielettrica dell’acqua dipende dalla frequenza del campo applicato e dalla temperatura.

Nell’intervallo di frequenze (1MHz-1GHz) impiegato nella TDR il valore di K non è influenzato, mentre esso è fortemente dipendente dalla temperatura. Il valore di K, infatti, assume per il ghiaccio un valore di 92 a 0 °C; per l’acqua alla temperatura di 0 °C un valore di 88, a 25 °C un valore di 78, a 60 °C un valore di 67 ed a 100 °C un valore di 55.

La determinazione è basata su un impulso a radiofrequenza inviato lungo un cavo, riflesso poi in corrispondenza di una discontinuità e nella misura del tempo impiegato

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Fiume Francesco 244

dall’impulso riflesso a ritornare verso lo strumento (detto testa-cavo) se è conosciuta la velocità di propagazione lungo il cavo, dipendente dalla costante dielettrica dello stesso cavo. Le caratteristiche di propagazione del segnale elettromagnetico lungo la linea sono visualizzate su uno schermo mediante una traccia.

Le variazioni di impedenza, causate da una discontinuità, determinano una deviazione della stessa traccia sullo schermo che è verso l’alto o verso il basso, a seconda che l’impedenza sia più alta o più bassa rispetto alla linea.

Se il cavo viene sostituito da una coppia di conduttori metallici immersi nel terreno (dielettrico) se ne potrà misurare K, nota la lunghezza dei conduttori.

Le deviazioni della traccia verso il basso e verso l’alto corrispondono alle discontinuità di inizio e fine della linea di trasmissione del terreno.

La parte di traccia compresa tra le due deviazioni corrisponde al tratto di linea di trasmissione immerso nel terreno. In base alla lunghezza di tale porzione orizzontale di traccia si può determinare la velocità di propagazione del segnale nel terreno e la sua costante dielettrica.

Diversi ricercatori hanno studiato la relazione tra le proprietà dielettriche alle alte frequenze di materiali diversi ed il loro contenuto idrico volumetrico. E’ stata proposta la seguente relazione empirica tra costante dielettrica K e contenuto d’acqua, espresso come volume θ d’acqua in un volume noto di terreno:

θ = –5,3 · 10-2 + 2,9 · 10-2 · K – 5,5 · 10-4 · K2 + 4,3 · 10-6 · K3

Questa relazione tra costante dielettrica del terreno ed il suo contenuto d’acqua, valida per gran parte dei suoli minerali, è stata ottenuta da esperimenti condotti in laboratorio, con linee di trasmissione coassiali o parallele, in cui il campione di terreno è contenuto nell’intercapedine tra i due conduttori. La relazione, però, non è valida per materiali organici e substrati quali vermiculite o sferette di vetro.

Questa metodica può essere usata sia in laboratorio sia in pieno campo, per la misura del contenuto idrico degli strati superficiali del suolo, per ottenere profili idrici e per seguire la formazione e la fusione di strati di ghiaccio nel terreno.

Tra i vantaggi della TDR si annoverano la sicurezza e la possibilità d’acquisizione continua ed automatica delle misure che la rendono adatta al pilotaggio di un sistema d’irrigazione computerizzato.

Altri vantaggi sono rappresentati dal fatto che per un gran numero di terreni minerali non è necessaria la calibrazione.

La misura del contenuto idrico si fonda principalmente sull’interpretazione della traccia fornita dal segnale elettromagnetico che appare sullo schermo dello strumento. Tale interpretazione può presentare delle difficoltà che sono in relazione allo strumento, alla geometria della linea di trasmissione ed alle caratteristiche del terreno (salinità, contenuto idrico) che possono attenuare l’ampiezza del segnale riflesso e limitare lo spessore dello strato nel quale si possono effettuare le misure.

In particolare, le caratteristiche della linea di trasmissione nel terreno (tipo, dimensioni, distanza tra le guide ed il numero delle guide d’onda per determinare i vari profili d’umidità, modalità d’installazione) giocano un ruolo fondamentale sulla precisione dell’analisi.

Studi condotti in Italia evidenziano che misurazioni fino ad 1 m di profondità hanno dato buoni risultati nella sabbia, ma nel terreno argillo-limoso la profondità massima alla quale sono stati ottenuti valori di costante dielettrica è diminuita

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245 Il terreno

all’aumentare dell’umidità, a causa dell’attenuazione del segnale. Inoltre, nei casi in cui il terreno presenti strati d’umidità più bassa alla fine della

linea di trasmissione (nel caso di guide d’onda verticali), subito dopo un intervento irriguo od un evento piovoso, è importante che la riflessione del segnale alla fine della linea di trasmissione sia individuata correttamente, altrimenti gli errori della misura dei volumi d’acqua sono notevoli e d’entità dipendente dallo spessore e contenuto idrico negli strati.

Possibili errori d’interpretazione della traccia sono stati messi in evidenza nei campioni di terreno con strati inferiori ad umidità più bassa e sono state quantificate le conseguenti deviazioni dall’umidità volumetrica determinata con il metodo gravimetrico. Tali deviazioni sono state notevoli (da 0,026 a 0,213 m3 m-3), a seconda lo spessore ed il contenuto idrico degli strati.

L’affidabilità delle misure in ogni situazione reale è ancora lontana dall’essere raggiunta ed occorrono ancora diversi studi per ottenerla, soprattutto per quanto riguarda la geometria delle guide d’onda e l’interpretazione della traccia.

La conoscenza del dato relativo al contenuto d’acqua nel terreno è di grande importanza poiché consente, dove è possibile, la realizzazione di adeguati piani d’irrigazione che permettono la coltivazione dei terreni laddove la sola acqua meteorica non è in grado, da sola, di soddisfare le esigenze idriche delle piante.

Se è molto importante la conoscenza della quantità d’acqua presente nel terreno per programmare, in relazione all’andamento pluviometrico, l’intervento irriguo, non meno importante è la conoscenza delle caratteristiche qualitative dell’acqua d’irrigazione, in relazione al fatto che l’uso ripetuto nel tempo di acque non idonee, ad esempio molto dure o salmastre, può arrecare veri e propri disastri ecologici, come la salinizzazione e la sodicizzazione di estese aree di terreno coltivabile.

Qualità dell’acqua irrigua

Le acque naturali (meteoriche, superficiali e sotterranee) contengono in sospensione o in soluzione numerose sostanze gassose, inorganiche ed organiche le quali influiscono sul valore del pH e su molti parametri fisici, chimici e biologici del terreno.

Le acque irrigue vanno valutate per i loro caratteri fisici e chimici. Questi devono essere tali da non arrecare alcun tipo di danno allorquando si attua la pratica dell’irrigazione.

Inoltre, non sempre è facile stabilire i valori ottimali dei parametri che identificano un’acqua idonea per l’irrigazione e spesse volte è possibile osservare effetti negativi sulle piante e sul terreno, legati non tanto alla qualità dell’acqua, bensì all’irrazionale applicazione della pratica irrigua.

CARATTERI FISICI

Numerosi sono i caratteri fisici che riguardano l’acqua irrigua ma, da un punto di vista pratico, la temperatura e la torbidezza sono quelli più importanti.

La temperatura dell’acqua è in rapporto ai valori termici del suolo, dell’aria ed alla specie coltivata.

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Fiume Francesco 246

Le acque eccessivamente fredde possono causare danni alle colture, soprattutto erbacee. La temperatura dell’acqua è inoltre un parametro molto relativo, tanto che acque considerate fredde potrebbero non esserlo per determinate coltivazioni. Specificamente, una temperatura di 5-10 °C non danneggia le piante dei pascoli alpini, mentre nella pianura lombarda e nella stagione estiva si considerano fredde le acque con temperatura inferiore a 12 °C. Negli agrumeti siciliani le acque sono fredde a temperatura inferiore a 15-20 °C, a seconda la stagione. Altrettanto, in una serra di peperoni o di pomodori, durante il periodo primaverile-estivo o estivo-autunnale, l’irrigazione effettuata con acqua ad una temperatura inferiore a 10 °C potrebbe gravemente danneggiare il colletto delle piante.

Le escursioni stagionali della temperatura del terreno e dell’aria sono attenuate nelle acque sotterranee.

Queste acque hanno in genere temperature superiori a quelle dell’aria e del suolo nel periodo invernale ed inferiori durante il periodo estivo.

Le acque superficiali, ad una certa distanza dalla sorgente, hanno una temperatura media poco diversa da quella atmosferica.

Le irrigazioni termiche utilizzano le acque calde di risorgive come, per esempio, i fontanili.

La torbidezza delle acque è data dal contenuto di sostanze in sospensione, rappresentate spesso da frazioni più fini del terreno.

La torbidità specifica o coefficiente di torbida è la quantità di sostanze in sospensione per unità di volume e si esprime in grammi per metro cubo (g/m3).

La torbidezza può essere esigua (qualche grammo per metro cubo) o d’entità maggiore (qualche decina di grammi per metro cubo). In quest’ultimo caso la torbidezza delle acque può essere dannosa per i sedimenti che si formano nei canali. Di conseguenza, le canalizzazioni idriche risultano alterate nella quota, nel profilo e quindi nell’efficienza e spesso si è obbligati ad onerosi espurghi. In altri casi un’acqua torbida può risultare utile per l’azione ammendante che manifesta nei terreni, qualora il materiale in sospensione è costituito da argilla o sabbia fine. Gravissimo è il danno che può arrecare un’acqua torbida se il materiale in sospensione è rappresentato da sostanze tossiche in fase solida. Alcuni metalli pesanti che sono presenti sotto forma di precipitati, quali ossidi, idrossidi, carbonati, fosfati ed, in ambiente riducente, come solfuri, ma anche come vicarianti di elementi maggiori nelle strutture cristalline di minerali, possono essere fonte di grave inquinamento del terreno.

Anche una torbidità delle acque di origine biologica, legata a precipitati biologici facenti parte del citoplasma delle cellule di radici, di microrganismi e di animali in genere, può creare dei gravi problemi di impatto ambientale. Acque di questo tipo non devono essere usate per l’irrigazione o devono essere preliminarmente sottoposte a processi di depurazione. In linea di massima, le acque limpide per uso irriguo sono da preferire.

CARATTERI CHIMICI

I caratteri chimici delle acque per uso irriguo sono legati principalmente alle sostanze che portano in soluzione.

Queste sostanze possono derivare da inquinanti dell’atmosfera oppure dal dilavamento del terreno, superficiale o profondo.

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247 Il terreno

Le acque di pioggia, come le acque di fusione dei ghiacciai, sono quasi esenti da sostanze in sospensione all’infuori degli inquinanti atmosferici. In quest’ultimo caso si può avere, ad esempio, apporto di acidità al terreno nel caso in cui c'è presenza nell’atmosfera di notevoli quantità di composti solforati ed azotati dovuta ad emissioni correlate ad attività industriali.

In Italia sono state spesso segnalate piogge con pH inferiore a 4,7 e sembra che tale fenomeno sia in espansione verso settentrione.

Tuttavia, le piogge acide appaiono ininfluenti sulle caratteristiche chimiche del terreno.

Le acque superficiali e sotterranee, che hanno attraversato strati di una certa ampiezza di terreno, recano in soluzione quantità più o meno rilevanti di sali che sono stati sottratti ai terreni dilavati.

Il totale dei sali disciolti nelle acque di irrigazione costituisce il residuo secco. Il valore del residuo secco può essere compreso tra poche decine di milligrammi per litro fino a 2-3 g/L.

Le sostanze disciolte sono solfati e bicarbonati di calcio e di magnesio, cloruri e nitrati di sodio, ma anche di potassio, di ammonio, di alluminio e di ferro, insieme a silice, in quantità modestissime.

La quantità di CaSO4 e MgSO4 disciolta nell'acqua costituisce la durezza permanente.

La quantità di Ca(HCO3)2 e di Mg(HCO3)2 contenuti nell’acqua rappresenta la durezza temporanea.

La quantità complessiva di solfati e di bicarbonati di calcio e di magnesio è la durezza totale. Tutte le misure sono normalmente riferite all’unità di volume.

Le acque molto dure, ricche in solfati di calcio e magnesio possono manifestare azioni dannose sulla vegetazione e sul terreno, in rapporto al quantitativo idrico impiegato.

Le acque di minima durezza, con valori di 10-50 mg/L di residuo secco, sono dette acque molli e spesso sono la causa dell’accentuazione degli effetti del dilavamento meteorico, con risultati dannosi per i terreni soggetti ai processi d’acidificazione naturale.

Fra le caratteristiche chimiche dell’acqua d’irrigazione, la salinità può evidenziare un ruolo negativo nei confronti del suolo e delle piante, particolarmente nei climi aridi e semiaridi.

La salinità, legata principalmente alla presenza di NaCl, è apprezzabile solo nelle acque cloacali, o comunque non esenti da inquinamenti organici, e nelle acque superficiali o sotterranee dilavanti terreni più o meno salsi.

L’eccessiva concentrazione salina delle acque irrigue causa la degradazione della struttura e la diminuzione della permeabilità e dell’aerazione del terreno.

Ciò è causato principalmente dal catione Na+ che, andando a saturare i siti del complesso di scambio delle micelle argillose, ne provoca l’idratazione e quindi il forte rigonfiamento.

L’eccesso di salinità dell’acqua, inoltre, induce nelle piante difficoltà di rifornimento idrico per il maggiore impiego d’energia nell’assunzione dell’acqua per vincere la maggiore componente osmotica che va ad aggiungersi alla componente rappresentata dal potenziale matriciale.

La concentrazione troppo alta in sali dell’acqua irrigua agisce negativamente su

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Fiume Francesco 248

alcuni processi fisiologici delle piante, quali la traspirazione, che diminuisce, la respirazione, che s’incrementa, la produzione d’ormoni radicali e la sintesi di alcune proteine, che si riducono, l’attività dei cloroplasti e dei mitocondri delle foglie che può essere menomata per il danneggiamento degli stessi.

La salinità dell’acqua può essere espressa, come già detto, in residuo secco, detto, in questo caso, residuo salino. Il suo valore non deve superare la soglia di 1-3%, oltre la quale si ha un’acqua salina il cui impiego in agricoltura è assolutamente sconsigliato.

Tuttavia, il solo peso del residuo secco non è sufficiente, perché rappresenta una valutazione del tutto approssimativa dell’effetto osmotico che, invece, dipende dalla molarità della soluzione e dal grado di dissociazione dei sali.

Per tale motivo è preferibile riferirsi, per la valutazione della salinità totale dell’acqua per uso irriguo, ad un altro parametro rappresentato dalla conducibilità elettrica della soluzione, espressa, come si ricorderà, in millimhos/cm e misurata alla temperatura di 25 °C.

Questa grandezza, a parità di valenza degli ioni, dipende dalla concentrazione. Per i sali completamente dissociati, fornisce una stima molto attendibile del valore della pressione osmotica.

Approssimativamente si ha C/EC = 10 e C/EC = 12, rispettivamente per alte e basse concentrazioni. C ed EC sono, nell’ordine, la concentrazione, in millequivalenti per litro (meq/L), e la conducibilità elettrica, in mmho/cm.

Per tener conto della grande importanza che il rapporto tra i diversi ioni assume nei riguardi della struttura del suolo e della sua stabilità, sono stati studiati due importanti indici denominati SAR (Sodium Absorption Ratio) e SP (Sodium Percentage). Questi parametri sono rispettivamente il rapporto di assorbimento del sodio e la percentuale di sodio e sono dati dalle seguenti espressioni. Va sottolineato che la concentrazione di ogni catione è espressa in meq/L e bisogna ricordare che il peso equivalente è il rapporto tra peso atomico e la valenza.

[Na+]SP% = ———————————

[Ca2+ + Mg2+ + K+ + Na+]

Il SAR, inoltre, rappresentando un rapporto tra le concentrazioni di un’acqua irrigua in specie ioniche indicate (da una parte il catione sodio e dall’altra i cationi calcio e magnesio) è anche un indice importante della misura del rischio di sostituzione, sul complesso di scambio del terreno irrigato, dei cationi bivalenti con il catione sodio e quindi del possibile danno che potrà derivare al terreno irrigato con acqua salina, ricca in Na+.

I parametri introdotti possono essere utilizzati mediante i due diagrammi

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249 Il terreno

predisposti dall’United States Salinity Laboratory ed indicati nella figura 40.L’anione bicarbonato ha tendenza a precipitare come CaCO3 o MgCO3 e ciò

determina l’aumento del SAR e della SP per sottrazione dalla soluzione idrica di cationi Ca2+ e Mg2+. Di qui la necessità di considerare un altro indice, indicato come RSC (Residual Sodium Carbonate), definito dalla seguente relazione:

RSC = (CO32— + HCO3

—) - (Ca2+ + Mg2+)

Valori di RSC > 2,5 meq/L sono pericolosi, specialmente quando bisogna irrigare terreni alcalini.

Fig. 40 - Classificazione delle acque irrigue in base alla conducibilità elettrica, alla percentuale di sodio (SP) ed al rapporto di assorbimento del sodio (SAR).

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Fiume Francesco 250

La formula SAR, in rapporto a quanto ora detto, è stata ripetutamente corretta e l’ultima delle correzioni fa riferimento all’uso dell’abaco secondo Suarez per il calcolo del termine [Ca2+].

La convenienza dell’impiego irriguo dell’acqua salina non è facile da stabilire. Essa dipende, oltre dalla quantità e dal tipo di salinità, anche dal terreno, dal clima, dalla specie coltivata, dalle modalità d’irrigazione, dalla situazione economica nella quale si svolge l’attività agricola. L’aspetto fondamentale è quello di evitare l’accumulo dei sali e ciò si può ottenere soltanto se il terreno è molto permeabile e se vi sono condizioni ottimali di drenaggio, naturale o artificiale.

Per monitorare efficientemente il regime salino bisogna attentamente controllare la quantità e la qualità dell’acqua irrigua, considerare le caratteristiche idrogeologiche del suolo (permeabilità, drenaggio, acqua disponibile), prevedere l’andamento pluviometrico sulla base della conoscenza di medie storiche, conoscere i valori dell’evapotraspirazione.

I mezzi d’intervento consistono nella determinazione della quantità d’acqua necessaria, nella realizzazione di opere di drenaggio, nella scelta di idonee specie e varietà da coltivare, nell’eventuale adozione ed impiego di ammendanti.

Ricorrendo a questi provvedimenti è possibile controllare la salinità nella rizosfera delle piante fino a raggiungere una soglia in corrispondenza della quale la salinità della soluzione circolante, in condizioni di capacità di campo, sia di poco superiore, od al massimo uguale, alla salinità dell’acqua irrigua.

E’ assolutamente da raccomandare il non superamento di questa soglia, oltre al fatto che la composizione chimica naturale della soluzione circolante sia la stessa dell’acqua da usare per l’irrigazione del terreno.

Per calcolare il fabbisogno di dilavamento (il termine anglosassone è leaching requirement) si applica il cosiddetto bilancio salino.

Per un certo spessore di suolo e per un determinato intervallo di tempo si scrive il bilancio idrologico:

Hi + Hp + Hs - ET- Hd = ∆H

dove Hi è l’altezza dell’acqua irrigua, Hp è l’altezza efficace di pioggia, Hs è l’acqua entrante per via sotterranea, ET è l’altezza evapotraspirata, Hd è l’altezza d’acqua drenata, ∆H è la variazione dell’altezza d’acqua contenuta nel suolo. Introducendo le rispettive concentrazioni saline si ottiene l’equazione del bilancio salino, dal quale sono escluse l’eventuale precipitazione di sali e la soluzione di sali d’origine pedologica. L’equazione del bilancio salino può così essere rappresentata:

HiCi + HpCp + HsCs - ETCET - HdCd = ∆(HC)

In ambiente arido si ammette che Hp = 0 e, se la zona è idraulicamente isolata, Hs = 0 ed, infine, si può considerare la concentrazione salina dell’evapotraspirato praticamente nulla e pertanto CET = 0. Si ottiene pertanto:

HiCi - HdCd= ∆(HC)

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251 Il terreno

Se si suppone di fare il bilancio tra due istanti ad uguale contenuto idrico, la variazione dell’altezza d’acqua diventa nulla (∆H = 0) e se si vuol mantenere costante la salinità della soluzione circolante (e pertanto ∆C = 0), si deve avere:

HiCi = HdCd

da cui:

CiHd = ——— Hi

Cd

che rappresenta l’altezza dell’acqua da drenare, ossia il surplus d’acqua irrigua, con Hi = Hd + ET (bilancio idrologico nelle medesime condizioni), mentre Cd è la concentrazione limite della soluzione circolante per la coltura in atto, in condizioni prossime alla capacità di campo.

La scelta del metodo d’irrigazione è di grande importanza nell’uso di un’acqua tendente alla salinità.

L’irrigazione per sommersione ed immersione (quando appezzamenti di terreno, opportunamente sistemati con argini sul bordo, sono riempiti d’acqua), per scorrimento (quando l’acqua tracimante o defluente dal bordo di un’adacquatrice scorre sottilmente sul terreno da irrigare) e per aspersione o a pioggia (l’acqua è somministrata sotto forma di pioggia mediante apposito impianto di tubi fissi e mobili e d’irrigatori) determinano uniformità del contenuto salino nel suolo.

L’irrigazione per infiltrazione laterale (quando l’acqua penetra nel terreno infiltrandosi attraverso solchi scavati parallelamente) e l’irrigazione a goccia (mediante gocciolatori, opportunamente distanziati, attraverso i quali l’acqua è parsimoniosamente distribuita sul terreno) inducono disformità del contenuto salino, di cui bisogna tener conto.

Le irrigazioni per sommersione e scorrimento causano una più rapida lisciviazione. L’irrigazione a pioggia (ad intensità inferiore alla velocità d’infiltrazione) dà luogo

ad una lisciviazione più efficiente, in relazione alla minor quantità d’acqua impiegata, anche se il ricorso a questo metodo irriguo deve tener conto della vegetazione in atto che, assorbendo ioni attraverso le foglie, può subire ustioni e defogliazioni.

L’irrigazione per infiltrazione laterale, causando disformità nel contenuto salino, può avere effetti negativi sulla crescita delle piante e può provocare grande variabilità nello sviluppo della vegetazione.

L’irrigazione a goccia potrebbe consentire l’impiego di acque con un maggior grado di salinità a patto che l’umidità sia mantenuta costantemente alta e, quindi, bassi devono essere la concentrazione ed il potenziale osmotico. I sali lisciviati dal pane di terra umido si accumulano sul fronte di bagnamento e, dopo il completamento delle operazioni di raccolta di una coltura irrigata per aspersione, è necessario, in mancanza di piogge naturali, attuare un’irrigazione (a pioggia, a scorrimento od a sommersione) che rimuova l’alta concentrazione dei sali nei vecchi fronti di bagnamento.

Le acque per uso irriguo possono contenere in soluzione altre sostanze,

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Fiume Francesco 252

indipendenti da quelle che causano salinità e sodicizzazione, di cui si è ora fatta una rassegna. Così, è possibile usare in agricoltura acque reflue urbane ed industriali, purché siano rispettati i limiti stabiliti dalla legislazione. Queste limitazioni sono sinteticamente indicate nella tabella 43.

Tab. 43 - Massime concentrazioni di microelementi ed elementi tossici tollerabili nelle acque di irrigazione, secondo la vigente legislazione.

Elemento Concentrazione massima (mg/L)

Elemento Concentrazione massima (mg/L)

Elemento Concentrazione massima (mg/L)

Alluminio 5,00 Fluoro 1,00 Rame 0,20Arsenico 1,10 Ferro 5,00 Selenio 0,02Berillio 0,10 Litio 2,50 Stagno 0,01Boro 0,50 Manganese 0,20 Titanio 0,05Cadmio 0,01 Molibdeno 0,01 Tungsteno 0,01Cobalto 0,05 Nichel 0,20 Vanadio 0,01Cromo 0,10 Piombo 5,00 Zinco 2,00

L’irrigazione con acque reflue può causare fenomeni d’inquinamento microbico anche a carico dell’aria, del terreno e delle piante che si trovano nelle vicinanze del punto dove è stato effettuato questo tipo d’intervento.

L’entità di tale inquinamento è in relazione al tipo di trattamento al quale le acque reflue sono state preventivamente sottoposte, alle condizioni climatiche, alla specie coltivata, al tipo d’impianto irriguo impiegato.

E’ preferibile ricorrere all’irrigazione a solco che consente di ridurre il più possibile eventuali inquinamenti a carico dell’aria e delle parti epigee delle piante.

Nonostante i quantitativi volumetrici di acque reflue disponibili per l’agricoltura siano molto limitati, l’impatto potenziale ambientale, economico e sociale potrebbe assumere livelli tali da sconsigliare l’impiego di tali acque per uso irriguo oppure, in caso d’assoluta necessità, è necessario ricorrere a tutte le indagini preliminari del caso per tenere sotto controllo la problematica e nulla sia affidato al caso.

Gli effetti degli elementi contenuti nelle acque reflue sulle piante e sui microrganismi del terreno saranno esaminati più avanti, quando si tratterà delle condizioni biologiche del terreno.

Tra i caratteri chimici delle acque di irrigazione si deve considerare anche il contenuto in gas, che è espresso in volume e che oscilla comunemente sui 30-50 cm3/L.

Qualitativamente il contenuto in gas è rappresentato da azoto, anidride carbonica ed ossigeno. Nelle acque superficiali le proporzioni più frequenti sono: 40% di azoto, 40% di anidride carbonica e 20% di ossigeno. Nelle acque sotterranee e di colatura diminuisce il contenuto in ossigeno, aumenta quello in anidride carbonica, mentre il contenuto in azoto rimane invariato.

Nelle acque superficiali il contenuto in ossigeno è di 8-12 mg/L, nelle acque di

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253 Il terreno

colatura di 7-12 mg/L e nelle acque del sottosuolo di 7-14 mg/L. Il contenuto in CO2 libera e semicombinata (anidride dei bicarbonati) varia da

pochi milligrammi per litro fino a circa 200 mg/L, in relazione alla temperatura ed alla natura dei suoli attraversati o percorsi. Nel dettaglio, le acque vive superficiali contengono 8-170 mg/L, quelle di colatura 45-180 mg/L, quelle di sorgenti 120-180 mg/L e quelle freatiche 100-160 mg/L.

L’uso di acque povere di ossigeno in agricoltura può esporre le piante a danni per asfissia radicale. Esse sono dannose e qualche volta mortali se del tutto prive di ossigeno o dotate di potere riducente, per la presenza di idrogeno solforato o di sali ferrosi ed altri composti riducenti.

L’assenza d’ossigeno e di composti riducenti è una caratteristica normale quando riferita alle acque del sottosuolo. Queste possono essere ricche di sostanze organiche e, pertanto, come tali, sono del tutto inutilizzabili, anche se situate a lieve profondità. Allo stesso modo, molte acque industriali di rifiuto, che sono state smaltite allo stato riducente (industrie fermentative, distillerie) o che abbiano acquisito caratteri riducenti successivamente, a causa di ristagno, non possono e non debbono essere impiegate per l’irrigazione dei terreni.

In ogni caso le acque prive d’ossigeno e, peggio, quelle con potere riducente, non possono trovare alcun impiego in agricoltura se non previo ripristino del potenziale ossidoriducente normale, il che si ottiene, di regola, con forte sbattimento ed agitazione delle stesse, anche per semplice deflusso e con piccole cascate aventi la funzione di creare un arricchimento in aria e quindi in ossigeno.

Apporto ed asportazione di alcuni elementi chimici

La fase liquida del terreno riceve un apporto continuo, naturale od antropico, di elementi minerali, essenziali per la nutrizione delle piante coltivate e per le produzioni vegetali.

Nel terreno esiste un’enorme riserva di elementi minerali che provvedono, se in forma disponibile ed assimilabile, alla nutrizione delle piante. Gli elementi nutritivi, che si distinguono in macroelementi e microelementi in rapporto alla quantità minima di cui la pianta ha bisogno, possono considerarsi naturalmente disponibili ed in modo continuo nel tempo, almeno qualitativamente.

Gli elementi che si trovano legati alla parte solida minerale del terreno a formare composti insolubili, oppure che entrano nella costituzione di molecole organiche complesse, possono divenire utili alla nutrizione minerale delle piante soltanto in tempi molto lunghi e, pertanto, possono considerarsi una riserva inalterata.

Gli elementi che si trovano in molti minerali secondari, oppure in formulazioni organiche più o meno instabili, costituiscono un’altra riserva di forme che possono, in tempi non lunghi, mobilizzarsi e passare nella fase liquida del terreno e rendersi disponibili ed assimilabili. Infine, gli elementi che sono adsorbiti sul complesso di scambio rappresentano un’ulteriore riserva disponibile ed assorbibile dall’apparato radicale delle piante a brevissimo termine, subito dopo lo scambio ed il loro passaggio nella soluzione circolante.

Con riferimento ai macroelementi minerali più importanti per la nutrizione delle piante, l’apporto di azoto al suolo può realizzarsi attraverso vie naturali e per l’intervento programmato dall’agricoltore.

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Fiume Francesco 254

Le vie naturali sono la fissazione biologica dell’azoto atmosferico, per opera di microrganismi viventi liberamente nel terreno od in simbiosi con le radici di alcune piante (leguminose) e di cui si tratterà nella parte riguardante le condizioni biologiche del suolo, e gli apporti che hanno origine dall’atmosfera.

Nell’atmosfera sono presenti nitrati, nitriti, ioni ammoniacali e composti organici azotati. Questi passano nel terreno o nella sua fase liquida attraverso la deposizione di particelle solide o mediante le precipitazioni. Il quantitativo di azoto che è depositato per valore unitario di superficie dipende dalla concentrazione dei composti azotati contenuti nell’acqua di pioggia e da fattori locali e regionali, quali la fascia climatica, il regime pluviometrico, il grado di inquinamento dell’atmosfera. Quest’ultima contiene ioni NH4

+

ed ossidi di azoto (NO e NO2) che si sono formati in maniera naturale. Oggi i contenuti di azoto nell’atmosfera sono aumentati, non soltanto per l’incremento delle perdite di ammoniaca dai terreni abbondantemente concimati, ma anche per le perdite di ammoniaca dai rifiuti degli allevamenti zootecnici e dai depuratori delle acque, nonché per le emissioni di varie forme combinate di azoto che si sviluppano dalla trasformazione dei combustibili fossili e per perdite di altra natura e di varia entità.

In Italia, l’apporto di azoto proveniente dall’atmosfera è stimato intorno a 5-15 kg per ettaro e per anno, cifre che, nelle zone industriali ed urbane, possono salire fino a 50-60 kg/ettaro/anno. Le asportazioni di azoto dal suolo avvengono per via biologica, soprattutto per opera delle piante, e per via microbiologica.

Le perdite di azoto che avvengono per dilavamento e per erosione sono molto meno importanti delle precedenti da un punto di vista quantitativo. Le perdite d’azoto per dilavamento riguardano soprattutto l’azoto nella forma nitrica. Le perdite d’azoto nitrico possono raggiungere il 99% dei nitrati presenti, mentre le perdite per dilavamento di azoto nella forma ammoniacale non raggiungono l’1%. La perdita dei nitrati per dilavamento dipende dalla concentrazione di anione nitrico nella soluzione circolante, dal volume di acqua drenata, dalla tessitura e struttura del suolo e dall’andamento pluviometrico. Nei terreni coltivati il dilavamento determina ogni anno una perdita di nitrati stimata intorno a 10-50 kg/ha. Durante l’inverno, nei nostri climi, si hanno le maggiori perdite, in relazione alla maggiore umidità del terreno, al diminuito assorbimento da parte delle piante, che spesso sono in riposo vegetativo, ed al rallentamento dei processi di denitrificazione.

La denitrificazione è un processo microbiologico che sarà trattato quando si parlerà del ciclo dell’azoto in natura, a proposito delle condizioni biologiche del suolo. Qui si dirà della perdita di azoto dovuta alla volatilizzazione dell’ammoniaca, processo di natura fisico-chimica che avviene tanto più intensamente quanto più il pH aumenta al disopra della neutralità, particolarmente in terreni poveri di minerali argillosi. Infatti, in terreni non calcarei si realizza il seguente equilibrio tra il catione ammonio e l’ammoniaca disciolta nella fase liquida:

NH4+ ↔ NH3 + H+

Ora, all’aumentare del pH la reazione si sposta sempre di più verso destra, per cui aumenta la quantità di ammoniaca presente nella soluzione circolante. Ad un pH = 5, lo 0,0036% della quantità totale di ammoniaca si trova come NH3 nella soluzione circolante del terreno. Ad un pH = 7 tale quantità sale a 0,36% e per un pH = 9 il valore raggiunge il 36%.

La velocità di volatilizzazione dell’ammoniaca, cioè la velocità con cui essa passa

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255 Il terreno

dalla soluzione circolante, in cui è sciolta, all’atmosfera dipende dalla differenza di pressione parziale tra l’ammoniaca disciolta nella soluzione circolante del terreno e l’ammoniaca presente nell’aria, essendo tale ultimo valore molto basso per l’assenza quasi totale di tale composto nell’atmosfera. Così, per esempio, aumentando la concentrazione di ammoniaca nella fase liquida del terreno (per un aumento del pH), aumenta anche la concentrazione di ammoniaca nell’atmosfera, a seguito del suo passaggio dalla soluzione circolante all’aria. Osservando l’equilibrio di reazione sopra riportato, si può osservare che la formazione di ioni idrogeno fa diminuire il pH e provoca lo spostamento della reazione verso sinistra, con diminuzione di ammoniaca nella soluzione circolante, con minore volatilizzazione e ridotta perdita di azoto.

Considerando il seguente equilibrio nella soluzione circolante del terreno:

CO2 + H2O ↔ H+ + HCO3—

si può osservare la produzione di ioni idrogeno quando la reazione va verso destra, con conseguente diminuzione del pH della stessa fase liquida. Orbene, un aumento della concentrazione di ioni idrogeno nella soluzione causa un aumento di CO2 nell’aria. Nel caso di terreni calcarei, alla somministrazione di concimi contenenti il gruppo ammonio (ad esempio solfato ammonico) segue la formazione di carbonato d’ammonio, secondo il seguente equilibrio:

(NH4)2SO4 + CaCO3 ↔ (NH4)2CO3 + Ca SO4

Ora, tanto più è insolubile il nuovo composto che si è formato con il calcio (in questo caso gesso), tanto più l’equilibrio è spostato verso destra, cioè verso la formazione di carbonato ammonico. Man mano che il carbonato d’ammonio si forma esso è decomposto secondo il seguente equilibrio:

(NH4)2CO3 ↔ 2NH3 + H2O + CO2

Come si è visto, l’azoto ed in particolare quello nitrico non è ben trattenuto dal terreno, passa rapidamente nella fase liquida e quindi prontamente utilizzato dalle piante o dilavato per smaltimento dell’eccesso idrico. Per questo, si ripete, nel terreno agrario bisogna intervenire con le concimazioni azotate ripetutamente e con bassi dosaggi per consentire alle piante un’adeguata nutrizione azotata, in relazione al loro stadio fenologico. E’ importante, tuttavia, non eccedere nella somministrazione di composti azotati alle piante poiché, come si vedrà poi, la via metabolica dell’azoto nelle piante non porta soltanto alla formazione d’aminoacidi e quindi di proteine, ma anche, per un percorso secondo una via riducente, a composti tossici e cancerogeni per l’uomo, come i nitriti e le nitrosammine. Un altro macroelemento da prendere in considerazione per che l’importanza che riveste nel terreno agrario è il fosforo. Esso è presente nel suolo in parte in forma organica ed in parte in forme minerali, le più diffuse delle quali sono quelle di ferro, alluminio e calcio. Queste forme sono tutte difficilmente solubili in acqua e non sono presenti nella fase liquida del terreno. Allora dove si trova il fosforo in grado di passare nella fase liquida del terreno e rendersi disponibile per le coltivazioni ?

Gli apporti naturali di fosforo disponibile derivano dai processi di dissoluzione dei fosfati insolubili e dalla mineralizzazione del fosforo organico. Tali processi dipendono fortemente dalla reazione del terreno e quando si registrano valori del pH compresi tra 5

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Fiume Francesco 256

e 7 si verifica la possibilità di un maggior apporto di fosforo. Il fosforo può mobilizzarsi e passare nella fase liquida del terreno per l’idrolisi dei fosfati di ferro o d’alluminio promossa, ad esempio, dalla correzione dell’acidità mediante calcitazione. In tal caso si stabiliscono degli equilibri tra il minerale fosfatico altamente insolubile, facente parte della fase solida, e gli anioni solubili solo in acidi organici deboli (HPO4

2—) o totalmente

solubili in acqua (H2PO4—) che passano nella soluzione circolante.

Gli equilibri tra il fosforo insolubile e quello solubile possono così essere rappresentati, secondo i seguenti schemi:

OH2 0

/ OH22+

Fe /\ Fe

O O \ \ // OH2

P + 2H2O + H+ ↔ + H2PO4—

/ \ OH2

O OH // Fe

Fe \\ OH2

OH2

OH2 1-

/ OH20

Fe /\ Fe

O O \ \ // OH P + 2H2O ↔ + H2PO4

/ \ OH2

O OH // Fe

Fe \ \ OH OH

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257 Il terreno

OH2 0

/ OH22+

Fe /\ FeO O \ \ // OH2

P + 2H2O ↔ + HPO42—

/ \ OH2

O OH // Fe

Fe \\ OH2

OH2

OH2 1-

/ OH2 0

Fe /\ FeO O \ \ // OH2

P + H2O + OH— ↔ + HPO42—

/ \ OH2

O OH // Fe

Fe \\ OH2

OH

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Fiume Francesco 258

OH 2-

/ OH 2-

Fe /\ FeO O \ \ // OH P + 2OH— ↔ + HPO4

2—

/ \ OHO OH // Fe

Fe \\ OH OH

La mobilizzazione del fosforo può avvenire, quindi, a seguito della correzione dei terreni acidi mediante la calcitazione del suolo, ma può anche verificarsi attraverso la correzione dei terreni calcarei ed alcalini, quando s’impiegano concimi fisiologicamente acidi come il solfato di potassio. I due cationi potassio sono assorbiti dalle piante, mentre l’anione solforico con i due ioni idrogeno induce acidità. I due idrogenioni causano il passaggio di fosfato tricalcico insolubile, prima in fosfato di calcio bisostituito – detto anche fosfato bicalcico perché possiede due atomi di calcio, cioè Ca2(HPO4)2 = 2CaHPO4, non solubile in acqua ma solo in acidi deboli come l’acido citrico – e poi, per

azione di altri due H+, in fosfato di calcio monosostituito, detto anche fosfato monocalcico, solubile in acqua. La prima reazione è la seguente:

Ca3(PO4)2 + SO42— + 2H+ ➜ 2CaHPO4 + CaSO4

La seconda reazione trasforma il fosfato bicalcico in fosfato monocalcico, solubile in acqua che, pertanto, passa subito nella soluzione circolante del terreno:

2CaHPO4 + SO42— + 2H+ ➜ Ca(H2PO4)2 + CaSO4

Un ulteriore passaggio di fosforo nella fase liquida del terreno avviene in condizioni asfittiche e riducenti, come quelle che si riscontrano nei terreni sommersi. In simili terreni, privi d’ossigeno, i fosfati ferrici (poco solubili) passano a fosfati ferrosi (molto più solubili), secondo la seguente reazione:

2FePO4 + H2O ➜ 2FeHPO4 + ½O2

Il terreno come si è visto tende a trattenere intensamente l’elemento fosforo. Nel terreno agrario, raramente è possibile rilevare una buona disponibilità naturale di fosforo per le coltivazioni, tanto che nella soluzione circolante spesso è presente in quantità irrilevanti o risulta addirittura assente. In questo caso è necessario l’intervento della

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259 Il terreno

concimazione che deve essere attuato con molta saggezza, scegliendo opportunamente il tipo di concime fosfatico, per creare nel terreno le condizioni idonee ad evitare le perdite che avvengono con i processi di insolubilizzazione del fosforo e per favorire quelle che determinano la disponibilità. Ciò proprio in relazione al fatto che, in generale, i terreni agrari e quelli italiani in particolare, sono molto dotati di composti fosfatici, insolubili e non disponibili per le coltivazioni. Ogni ulteriore apporto, attraverso la concimazione fosfatica, a cui spesso seguono i processi di insolubilizzazione della porzione residuale non assimilata dalla pianta, risulta un inutile spreco, senza considerare gli eventuali effetti collaterali molti dei quali sono ancora ignoti.

Circa le asportazioni di fosforo dal terreno, essendo assolutamente ininfluenti quelle che avvengono attraverso l’acqua per lisciviazione (meno di 1 kg per ettaro e per anno), esse sono da imputare principalmente alle piante coltivate e dipendono dalle esigenze della coltura e dal tipo di organo vegetale che l’uomo utilizza.

Una perdita più significativa di fosforo potrebbe imputarsi ai processi di erosione, causati dalle acque di ruscellamento che agiscono negli strati più superficiali di terreno. In tali strati il fosforo è presente nelle maggiori quantità, in rapporto alla sua scarsissima mobilità. A tal proposito va detto che la discesa in profondità del fosforo solubile (quello apportato con la concimazione) dipende dalla natura e dalla reazione del terreno. Il movimento verso il basso appare lento nei terreni ricchi di argilla, rispetto a quelli sabbiosi, e nei terreni a reazione acida ed alcalina, rispetto a quelli subacidi, neutri e subalcalini. La migrazione in profondità del fosforo solubile assume valori massimi nelle terre incoerenti, dotate di scarso potere assorbente, molto povere in calcare e con un pH di 6,5.

Sotto il punto di vista della disponibilità di fosforo per le piante, lo stesso terreno può “bloccare” tale elemento macronutriente attraverso le varie forme di fissazione sulle particelle terrose, inorganiche ed organiche, ed attraverso quel processo detto di retrogradazione dei fosfati. In virtù di questo processo i sali fosfatici disponibili, somministrati con la concimazione, si insolubilizzano come fosfato tricalcico, specialmente ad opera del calcare, secondo due successivi passaggi. Attraverso il primo, partendo dal fosfato monocalcico (solubile in acqua) si ha produzione di fosfato bicalcico (poco solubile in acqua e solubile in acidi organici deboli). Con il secondo passaggio si ottiene fosfato tricalcico, insolubile in acqua ed indisponibile. Il processo è rappresentato con le seguenti reazioni:

Ca(H2PO4)2 + CaCO3 ➜ 2CaHPO4 + CO2 + H2O

2CaHPO4 + CaCO3 ➜ Ca3(PO4)2 + CO2 + H2O

Il processo di retrogradazione dei fosfati è abbastanza veloce, tanto che in circa un mese la metà dell’anidride fosforica (si ricorda che la percentuale d’anidride fosforica, vale a dire di fosforo solubile, misura il titolo di un concime fosfatico) diventa insolubile in acqua. Infine, l’assorbimento del fosforo da parte d’organismi viventi è un’altra causa d’immobilizzazione di quest’elemento.

In relazione a quanto detto – ed in particolare al fatto che l’adsorbimento del fosforo da parte del terreno e l’indisponibilità per le piante per insolubilizzazione avviene tanto più massicciamente quanto più lungo è il tempo di contatto del concime con le particelle terrose – è consigliabile somministrare ed interrare il fertilizzante frazionatamente, in parte con i lavori preparatori, in parte poco prima della semina ed in

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Fiume Francesco 260

parte in copertura con le lavorazioni superficiali del terreno. L’impiego di concimi ad alta solubilità, somministrati in fase liquida con la fertirrigazione, con la coltura in atto e quindi distribuiti localmente, in rapporto alle esigenze della specifica fase fenologica delle piante, consente di rendere massimamente efficiente l’intervento fertilizzante e di operare un risparmio riguardante i quantitativi da impiegare.

Un altro macroelemento importante nel terreno agrario è lo zolfo per il ruolo che svolge nel metabolismo delle piante a livello di produzione d’amminoacidi (cistina, cisteina, metionina), proteine solforate, vitamine, enzimi (ad esempio gruppi prostetici come il glutatione). Lo zolfo è presente nella soluzione circolante del terreno come anione SO4

2—. Esso penetra nelle radici delle piante, subisce riduzioni e si lega poi a raggruppamenti chimici ad alta energia. Lo zolfo giunge al terreno con le precipitazioni atmosferiche perché è contenuto nell’aria, ma il maggior apporto deriva dalle acque marine, ricche di solfati, direttamente, lungo i litorali ed indirettamente per opera dell’aerosol derivante dal mare. In prossimità dei centri urbani ed industriali, con un certo grado d’inquinamento dell’aria, e delle zone vulcaniche (solfatara di Pozzuoli), l’acqua meteorica solubilizza l’anidride solforosa dilavandola dall’atmosfera ed apporta zolfo al terreno, dove la SO2 è rapidamente ossidata ad anione solforico:

SO2 + ½ O2 ➜ SO3

SO3 + H2O ➜ H2SO4

L’apporto di zolfo al terreno è assai variabile e molto dipende dall’inquinamento dell’atmosfera e dall’ubicazione del terreno, in prossimità o meno a zone urbane ed industriali.

Va anche detto che tale situazione, anche se determina l’apporto al terreno di un elemento molto importante per la vita delle piante, non sempre è favorevole alla vegetazione, perché concentrazioni di SO2 superiori a 0,1-0,3 ppm possono causare gravi fenomeni di fitotossicità. Altri apporti di zolfo sono determinati dalla pratica della correzione dell’alcalinità del suolo (aggiunta di gesso, solfato ferroso, zolfo elementare), dall’aggiunta al terreno di concimi il cui catione nutritivo è legato al radicale solforico, come (NH4)2SO4 e K2SO4, dall’impiego di fertilizzanti la cui produzione industriale comporta aggiunta di H2SO4, come ad esempio il perfosfato, ed, infine, dall’uso di alcuni fitofarmaci (zolfo differentemente micronizzato per uso antioidico, ditiocarbammati, tiocianati e tanti altri).

Le perdite di zolfo dal terreno sono da imputare all’assimilazione da parte delle piante, alla lisciviazione, all’erosione ed alla volatilizzazione sotto forma di vari composti.

L’assimilazione da parte delle piante di zolfo è in relazione alla specie coltivata. A tal proposito basti pensare che famiglie di piante coltivate come le brassicacee producono glucosidi solforati (senfoli) e così pure l’aglio (diallilsolfuro) e la cipolla (ossido di tiolpropano). I cereali asportano 10-30 kg di zolfo per ettaro, le leguminose 25-30 kg/ha, le brassicacee 30-45 kg/ha. In terreni naturali le asportazioni sono dell’ordine di grandezza di 1 kg per ettaro e per anno.

La lisciviazione del terreno da parte dell’acqua è di notevole entità, anche perché

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261 Il terreno

molti solfati sono più o meno solubili e l’anione SO42— è scarsamente trattenuto dalla

maggior parte dei suoli. Lo si ritrova, pertanto, abbondantemente nella fase liquida e ciò può causare grossi accumuli di zolfo negli orizzonti profondi e nella falda freatica.

L’erosione della roccia, inoltre, rimuovendo e trasportando materiale solido, causa anche grandi asportazioni di zolfo, accompagnate da un’azione solubilizzante delle acque superficiali.

La volatilizzazione dello zolfo sotto forma di acido solfidrico, di dimetilsolfuro e di metilmercaptano rappresenta una perdita di zolfo dalla fase liquida e dal terreno. Questi composti si producono e si svolgono abbondantemente dai terreni che hanno subito concimazioni organiche con rifiuti derivati dagli allevamenti di animali.

Un altro macroelemento di notevole importanza per la quantità contenuta nel terreno e la grande importanza che riveste nello sviluppo e nel metabolismo delle piante è il potassio.

Si vedrà poi il ruolo e l’importanza che ha su alcuni processi fisiologici, sul metabolismo dei carboidrati, sul bilancio idrico della pianta e sullo sviluppo dei tessuti meristematici giovanili. Con riferimento al solo terreno ed alla sua fase liquida va detto che nel terreno agrario il contenuto medio di potassio è intorno a 1,5-4 %, potendo superare, nei terreni salini, il valore del 6-7%.

Il potassio, nella maggior parte, si trova nel terreno all’interno dei reticoli cristallini (potassio reticolare) di alcuni minerali primari, come i feldspati e le miche, nella quantità del 90-98%. Un’altra parte di potassio si trova quasi totalmente negli spazi interstrato (potassio fissato) dei minerali secondari, come le vermiculiti e le idromiche (illiti), nella quantità del 1-8%.

Un’altra frazione di potassio si trova adsorbita sul complesso di scambio ed in soluzione nella fase liquida e rappresenta quella parte di potassio, pari ad 1-2% del potassio totale, prontamente disponibile per le piante e da loro assimilabile. Il potassio fissato non è scambiabile ed è pochissimo disponibile per le piante, anche se meno difficilmente disponibile del potassio reticolare. Il potassio reticolare diventa scambiabile molto lentamente ed altrettanto lentamente, nel corso dei processi di disgregazione e decomposizione della roccia madre, si renderà disponibile per le piante. Il potassio del complesso di scambio e quello in soluzione (pari ad 1% del potassio scambiabile) è disponibile per le piante e più o meno prontamente assimilabile. Tra il potassio in soluzione, quello scambiabile del terreno, quello fissato e quello reticolare si stabilisce una sorta di equilibrio per il quale, ogni qual volta le piante sottraggono cationi K+ dalla soluzione circolante, il potassio viene ripristinato a spese di quello del complesso di scambio, il quale a sua volta è ricostituito partendo dal potassio fissato, il quale, alla fine, ripristinerà la quantità persa a spese del potassio reticolare (processo di rigenerazione del potassio). In quest’equilibrio, la direzione della via sarà esattamente opposta allorquando s’interviene con un apporto al terreno di potassio solubile, come nel caso della concimazione e buona parte del potassio solubile potrà essere resa indisponibile per la pianta perché fissato dal terreno (processo di retrogradazione o perdita di assimilabilità del potassio).

Lo schema semplificativo dei due processi potrebbe essere così rappresentato:

K+ ↔ argilla K+ ↔ potassio fissato ↔ potassio reticolare

rigenerazione del potassio ← → retrogradazione del potassio

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Va anche detto che il processo di retrogradazione del potassio può essere fortemente attenuato o impedito dalla sostanza organica umificata la quale, andandosi ad inserire negli spazi interstrato e rivestendo il cristalletto di argilla, può rendere più efficace, ai fini dell’assorbimento da parte delle piante, una concimazione potassica.

L’apporto naturale di potassio nella fase liquida del terreno è in relazione agli equilibri ora descritti, ai processi di alterazione dei minerali primari, al rilascio del potassio fissato, al ritorno al suolo dei residui vegetali con l’azione favorevole dei batteri nitrificanti e dei solfobatteri, insieme con altre attività biologiche.

Le asportazioni di potassio sono dovute all’assorbimento radicale da parte delle piante coltivate, assorbimento che avviene ad libitum nel senso che va anche oltre le reali esigenze delle piante, allorquando il potassio assimilabile è molto abbondante. Questa quota eccedente di potassio, rispetto alle reali esigenze, è detta consumo di lusso, proprio perché in apparenza non si traduce in un incremento della resa produttiva.

L’asportazione di potassio è altresì da addebitare al dilavamento, in particolare in quei terreni con scarsa capacità di scambio (quelli sabbiosi) e fortemente arricchiti in potassio solubile con le concimazioni, ed all’erosione, la cui intensità è legata alla forza delle acque di ruscellamento, alla pendenza, alla tessitura ed al diverso contenuto di potassio nelle frazioni granulometriche.

Il calcio è un altro macroelemento molto diffuso nel terreno agrario dove si trova sotto forma di carbonato, nei terreni calcarei, dolomitici, marnosi, sotto forma di solfato, nei terreni gessosi, sotto forma di silicati, nei terreni plagioclasici (ricchi in albite ed anortite). Ciò è in relazione alla gran diffusione dei minerali del calcio, contenuti nelle rocce eruttive (plagioclasi, feldspati) e nelle rocce sedimentarie (apatiti, calcite, dolomite, gesso).

La fase liquida del terreno contiene cationi Ca2+ in relazione alla presenza di CO2 disciolta. Ciò causa profonde variazioni del tenore in calcio lungo il profilo. Nelle zone umide esso si accumula negli orizzonti profondi e in quelle aride si ha accumulo in superficie per ascesa capillare.

Il calcio evidenzia un contenuto molto variabile, con valori medi intorno a 0,1-1,5 %, valori molto alti nei terreni calcarei e gessosi, molto bassi in quelli sabbiosi, sciolti e fortemente lisciviati. In terreni con una reazione normale, i cationi Ca2+ trattenuti dal complesso di scambio rappresentano il 60-70% di tutti i cationi scambiabili. In terreni acidi prevalgono i cationi H+ e Al3+, mentre in quelli alcalini predominano i cationi Na+

e K+. Il calcare del terreno rappresenta la più importante fonte di Ca2+ nella soluzione

circolante in presenza di CO2. Infatti, il carbonato insolubile si trasforma in bicarbonato solubile secondo il solito schema e la velocità di reazione e tanto più elevata quanto più finemente polverizzato risulta il calcare (calcare attivo):

CaCO3 + CO2 + H2O ↔ Ca(HCO3)2

Ca(HCO3)2 ↔ Ca2+ + 2HCO3—

Altri apporti di calcio nel terreno sono dati dai residui vegetali, dalle pratiche di correzione dei terreni acidi, dall’irrigazione con acque dure e dalle concimazioni con prodotti contenenti quest’elemento (perfosfato).

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263 Il terreno

Le asportazioni di calcio dal terreno avvengono in conseguenza dell’assorbimento di quest’elemento da parte delle piante, a causa dei processi di lisciviazione che sono molto attivi nei terreni sciolti e poveri di complesso assorbente, con l’irrigazione effettuata con acque ricche in CO2 ed, infine, per i processi d’erosione.

Il magnesio è un macroelemento che è presente nelle piante, sia pure in percentuale inferiore a quella del calcio, ma non negli organi di riserva, dove può essere uguale o superiore, combinato nella clorofilla, nella fitina, nelle sostanze pectiche ed è un importante attivatore di sistemi enzimatici. Normalmente il contenuto nel terreno è di 0,05-0,5% e, come il calcio, è presente alle massime quantità nei terreni argillosi ed alle minime in quelli sabbiosi.

Il magnesio arriva nella soluzione circolante come catione Mg2+, a partire dalla lenta disgregazione e decomposizione di alcuni componenti della litosfera come silicati primari e secondari, carbonati, solfati, cloruri. Il magnesio solubile e quello adsorbito sul complesso di scambio è meno del 5% del magnesio totale e tale valore scende di molto nei terreni acidi e dilavati.

L’apporto naturale di magnesio al terreno avviene attraverso i residui vegetali. Gli interventi antropici che apportano magnesio sono rappresentati dalle calcitazioni mediante materiali dolomitici e da letamazioni. E’ noto che il letame contiene 0,4-0,5% di magnesio.

Le perdite di magnesio dal terreno sono causate da lisciviazione ed erosione, molto attive in presenza di acqua carbonicata, dall’assorbimento da parte delle piante, dalla raccolta dei prodotti agricoli.

Tra i microelementi presenti nel terreno si ricorda il ferro, il rame, il manganese, lo zinco (tutti assunti dalle piante in forma cationica), il boro ed il molibdeno (assorbiti dalle piante in forma anionica, rispettivamente come anione borato e molibdato).

Il ferro è di grande importanza nel metabolismo ossido-riduttivo delle piante (fotosintesi e respirazione) e nella sintesi proteica. Il contenuto ottimale di ferro nelle piante è di 30-150 ppm, anche se concentrazioni superiori non inducono problemi di fitotossicità. Il ferro si trova molto rappresentato nel terreno come silicato (olivina, biotite, clorite), solfuro (pirite, marcassite), sesquiossido (ematite, limonite, goethite) e fosfato (vivianite). Sono queste tutte forme insolubili non disponibili per le piante le quali, per questi motivi, possono andare incontro a fenomeni di carenza per mancanza di cationi Fe2+ nella soluzione circolante.

La disponibilità di ferro per le piante è molto legata al pH, la cui diminuzione porta ad un aumento della solubilità.

Bisogna tener presente che sintomi di carenza ferrica nelle piante possono manifestarsi già a pH intorno a 5 e che forti percentuali di calcare possono indurre clorosi ferrica per il pH troppo elevato. Cationi bivalenti come Ca2+, Mg2+, Zn2+, Cu2+ possono dar luogo a fenomeni d’antagonismo nei confronti del ferro per la competizione nella formazione di complessi. Anche una presenza troppo alta di ioni fosfato può insolubilizzare il ferro.

Il ferro, ma anche i cationi d’altri metalli (rame, manganese), controlla e regola le reazioni d’ossidoriduzione ed il potenziale redox del terreno:

+ e— → riduzione Fe3+ ←→ Fe2+

ossidazione ← - e—

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Fiume Francesco 264

L’ossidoriduzione, com’è noto, è una reazione chimica nella quale si ha contemporaneamente trasferimento d’elettroni da un donatore ad un accettore, mentre il potenziale redox è una misura quantitativa della tendenza di un sistema ad ossidare o ridurre determinate sostanze. Alti potenziali redox significano che elementi o ioni hanno una gran tendenza ad accettare elettroni, mentre bassi potenziali redox significano che gli elementi o gli ioni cedono facilmente elettroni.

Il rame è presente nel terreno sul complesso di scambio e nella soluzione circolante come catione in tracce. Esso assolve nei vegetali, soltanto a tali concentrazioni, un ruolo importante nella costituzione d’alcune proteine e dei citocromi, nella sintesi di vari pigmenti e nel metabolismo dei carboidrati.

Le coltivazioni hanno bisogno di piccolissime quantità di rame, perché il contenuto ottimale nelle piante è di 4-15 ppm sulla sostanza secca e valori che superano 20 ppm possono indurre fitotossicità.

L’apporto di rame al terreno si realizza per decomposizione dei residui vegetali e con la pratica fitoiatrica allorquando s’impiegano anticrittogamici cuprici. Il rame è sottratto dal terreno a seguito delle esigenze nutritive delle colture e diviene indisponibile per le piante a seguito della precipitazione sotto forma d’idrossido insolubile a seguito di aumento del pH. La sostanza organica del terreno può impedire tale precipitazione, in virtù di gruppi funzionali che instaurano legami di coordinazione con il rame, andando a costituire complessi (quelli in cui i gruppi elettrondonatori sono uniti soltanto al metallo e non tra loro) e chelati (quelli in cui i gruppi elettrondonatori sono uniti al metallo ed anche tra loro). Da tali complessi e chelati, le secrezioni delle radici, proprio perché provviste di chelanti, i quali hanno costanti di chelazione per i metalli più elevate di quelle della sostanza organica, riescono a sottrarre rame per chelazione, con formazione di chelati solubili di rame, disponibili per le piante.

Altre cause di sottrazione dal terreno di rame disponibile sono legate alle concimazioni azotate e fosfatiche.

Un eccesso di azoto induce forte sviluppo vegetativo e di conseguenza grande sottrazione di rame da parte delle piante e formazione di complessi organici di rame. Un elevato apporto di fosfati solubili determina la reazione di questi con il rame e formazione di fosfati insolubili.

Il manganese è un altro microelemento molto rappresentato nel suolo e nelle piante. Esso occupa, in pratica, il secondo posto dopo il ferro. Nella fase solida del terreno, il manganese si trova come ossido, carbonato, fosfato, silicato, legato in composti umici e come catione di scambio sul complesso adsorbente, mentre nella fase liquida si ritrova prontamente disponibile per le piante come catione Mn2+.

Il manganese attivo, cioè prontamente disponibile o disponibile a breve scadenza per le piante, è quello cationico della soluzione circolante, quello scambiabile e quello riducibile.

Nelle piante, il manganese è presente in complessi tra enzimi e metalli, agisce come ione attivatore, ha la funzione legata alla sintesi della clorofilla e di trasportatore d’elettroni, passando facilmente dalla fase ossidata a quella ridotta e viceversa:

Mn2+ ↔ Mn3+ + e–

Il biossido di manganese, MnO2, rappresenta una forma indirettamente disponibile per le piante perché in ambiente acido ed anaerobico si riduce dando luogo al catione ed

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265 Il terreno

acqua:

→ riduzione 4H+ + 2e—

MnO2 ←→ Mn2+ + 2H2O ossidazione ←

La disponibilità per le piante di questo microelemento è regolata dal pH e dal potenziale redox. In ambiente aerato, ossidativo e pH elevato, la disponibilità di manganese per le piante diminuisce, perché la reazione procede da destra verso sinistra. D’altra parte, in anaerobiosi, in condizioni d’acidità e di scarsità di sostanza organica (per questo non può verificarsi chelazione), il biossido di manganese passa nella forma Mn2+

e corre il rischio di essere lisciviato (con conseguente possibile insorgenza di sintomi da carenza nelle piante), ma anche di manifestare fitotossicità per l’elevata concentrazione nella fase liquida.

A questo proposito va detto che i contenuti ottimali di manganese nella pianta sono di 15-100 ppm sulla sostanza secca e che tale microelemento può diventare fitotossico quando i suoi valori superano le 1000 ppm. Nella realtà, tuttavia, il valore di tale soglia è piuttosto variabile e dipende dal rapporto tra i contenuti di ferro e di manganese (Fe/Mn). Tale rapporto non deve scendere al di sotto di 2 perché altrimenti possono comparire sintomi di carenza ferrica (clorosi) legati non soltanto alla diminuzione del ferro, per il più basso valore del rapporto, ma anche all’ossidazione del ferro residuo (che così diviene meno solubile e quindi meno disponibile per le piante) ad opera del manganese:

Mn3+ + e– ↔ Mn2+

Se la reazione procede verso destra si crea un ambiente ossidante perché Mn3+ è un accettore d’elettroni ed in tale ambiente il ferro ferroso, più disponibile per le piante, è ossidato a ferro ferrico, meno utilizzabile dalle piante:

Fe2+ ↔ Fe3+ + e–

Un altro microelemento importante nella fisiologia delle piante è lo zinco, il cui contenuto totale nei terreni agrari è di 10-300 ppm. Meno dell’1% di tale valore è contenuto in parte come catione Zn2+ nella fase liquida del terreno, in parte come catione di scambio sul complesso adsorbente ed in parte in forma chelata.

Nei terreni acidi e poco aerati tutto lo zinco può passare come catione nella fase liquida ed assoggettato a dilavamento.

Nei suoli neutri o alcalini e ben aerati si verifica ossidazione dello zinco e sua insolubilizzazione. La presenza di fosfati nel terreno può dar luogo a fenomeni di precipitazione dello zinco ed indisponibilità per le piante.

In tutti questi casi si possono originare fenomeni di carenza nelle piante che fanno rilevare un contenuto di 5-8 ppm sulla sostanza secca, nettamente inferiore ai valori ottimali di 8-100 ppm.

Lo zinco è un metallo pesante è come tale diventa tossico quando la sua concentrazione nel terreno raggiunge valori di 8-100 ppm.

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Fiume Francesco 266

I microelementi che sono assorbiti in forma anionica sono il boro ed il molibdeno. Il primo è presente nel terreno agrario in quantità pari a 20-200 kg/ha, di cui soltanto il 5% è disponibile per le piante che lo assorbono come ione borato e nelle quali svolge funzioni connesse alla traslocazione ed al metabolismo degli zuccheri. Il boro si trova nel terreno in forme fortemente fissate come nelle tormaline e nei borosilicati (che contengono anche alluminio, magnesio, ferro, sodio e litio) ma anche in composti molto solubili, come acido borico e borati. La dissociazione del primo può così essere rappresentata:

H3BO3 ↔ H+ + BO2 + H2O

La parte di boro disponibile reagisce con costituenti organici del terreno e dà origine ad un nucleo fondamentale che possiede grande reattività per l’acqua. Tale nucleo di boro, reagendo ancora con l’acqua o con altri composti organici, dà luogo ad acidi monobasici che vengono di seguito indicati:

– C – OH – C – O \ + H3BO3 → B – OH + 2H2O / – C – OH – C – O

questo nucleo reagisce ancora con l’acqua e dà luogo ad un radicale acido monobasico e monomerico:

– C – O – C – O —

\ \ B – OH + H2O → B – (OH)2 + H+

/ / – C – O – C – O

oppure reagisce con un altro costituente organico del terreno e dà luogo ad un radicale acido monobasico e dimerico:

– C – O OH – C – – C – O O– C – —

\ \ / B – OH + → B + 3H+

/ / \– C – O OH – C – – C – O O– C –

Idrossidi di ferro e d’alluminio, liberi o bloccati sulla superficie di colloidi argillosi, possono adsorbire l’anione BO2

— con una reazione di scambio:

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267 Il terreno

O=Fe–OH + BO2— ↔ O=Fe–BO2 + OH—

O=Al–OH + BO2— ↔ O=Al–BO2 + OH—

oppure con la formazione di un complesso borato-diolo:

OH O / / \

OH–Fe + H+ + BO2— → HO–Fe B + H2O

\ \ / OH O

OH O / / \ OH–Al + H+ + BO2

— → HO–Al B + H2O \ \ / OH O

La mancanza di boro nel terreno può indurre la comparsa nelle piante di una sintomatologia da carenza. Anche l’eccessiva concentrazione e disponibilità per le piante può causare fenomeni di fitotossicità. Il contenuto di boro nelle piante è considerato carente quando si riscontrano 2-15 ppm sulla sostanza secca, ottimale quando i valori sono 15-50 ppm e tossici quando raggiungono e superano 75-300 ppm.

Infine, il molibdeno è uno dei microelementi presenti nelle piante in minore quantità, trovandosi in concentrazioni mai superiori a 1 ppm. Il molibdeno entra nella costituzione di alcuni enzimi delle piante come la nitrogenasi e la nitrato reduttasi. Anche nel suolo è poco rappresentato, con valori di 0,1-2 ppm e si trova nella fase liquida come anione molibdato (MoO4

2—), adsorbito o occluso dagli ossidi di ferro e di alluminio, complessato o chelato dalla materia organica. La solubilità del molibdeno aumenta con l’aumentare del pH e perciò la correzione dei terreni acidi può determinare gravi perdite per lisciviazione, ma può anche causare fenomeni di fitotossicità in relazione all’immissione nella soluzione circolante di grandi quantità di anione molibdato. I quantitativi ottimali di molibdeno nelle piante sono di 1-10 ppm, mentre valori che superano 100 ppm possono diventare tossici.

I microelementi pervengono naturalmente al terreno dal substrato pedologico e dalla sostanza organica dove formano complessi e chelati che le piante, ad opera degli essudati radicali, riescono ad utilizzare. Gli apporti non naturali sono di tipo antropico quando si effettuano specificamente concimazioni con i microelementi, in rapporto a fenomeni di carenza riscontrati. Ma gli apporti di microelementi possono essere legati ad altre pratiche colturali, come l’irrigazione, le cui acque possono contenere microelementi, la concimazione, in rapporto alle impurità presenti nei concimi, i trattamenti antiparassitari, per la presenza nei principi attivi dei fitofarmaci cuprici di rame e degli anticrittogamici acuprici di manganese e zinco.

Le asportazioni dei microelementi dal terreno sono dovute alla nutrizione vegetale ed alle perdite per dilavamento dei sali. Queste ultime dipendono dall’andamento

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Fiume Francesco 268

pluviometrico e dalla frequenza delle irrigazioni, ma anche dalle caratteristiche fisiche e chimiche del terreno: la composizione granulometrica (un terreno sabbioso è più dilavabile di un terreno argilloso), la struttura (un terreno sciolto perde più facilmente sali di un terreno a struttura glomerulare o compatta), il pH (l’aumento del pH induce solubilizzazione dei microelementi, perdita per lisciviazione e pericolo di fitotossicità, mentre la diminuzione del pH provoca insolubilizzazione e precipitazione dei microelementi che diventano meno disponibili per le piante, con pericolo di insorgenza di fenomeni di carenza), la materia organica (che impedisce i processi di insolubilizzazione dei microelementi per la presenza di sostanze chelanti e complessanti inducenti solubilità e conseguente possibile allontanamento per lisciviazione), lo stato di ossidoriduzione (i processi di ossidazione riducono la solubilità, mentre quelli di riduzione favoriscono la solubilizzazione dei microelementi) ed il potenziale redox (elevata aerazione riduce la solubilità e quindi la perdita per lisciviazione, mentre un ambiente asfittico favorisce i processi di solubilizzazione).

FASE GASSOSA DEL TERRENO

L’importanza della fase gassosa del terreno è spesso sottovalutata, mentre, al contrario, nella realtà, essa assume un valore che non è assolutamente inferiore a quello delle altre due fasi finora esaminate. La fase gassosa concorre a determinare le condizioni di abitabilità del suolo in generale e la fertilità, la nutrizione delle piante, l’attività di tutti gli organismi del terreno, specificamente. La presenza di aria nel terreno è comunque in relazione alle fase solida ed alla fase liquida. La fase gassosa del terreno dipende in modo particolare dalla fase liquida, nel senso che un terreno perfettamente saturo non contiene aria, se non quella disciolta nell’acqua, mentre qualsiasi grado di umidità inferiore alla perfetta saturazione idrica comporta la presenza di aria tellurica. Le principali caratteristiche fisiche e fisico-chimiche della fase gassosa del terreno sono, per la maggior parte, le stesse dei gas in generale e specificamente sono elencate di seguito: 1) la non miscibilità rispetto alla fase liquida, che non va confusa con la solubilità di un

gas in un liquido; 2) la compressibilità, per cui un gas tende ad occupare tutto il volume disponibile, in

virtù dell’equazione generale dei gas; 3) la bassa viscosità che è circa 1/50 di quella dell’acqua e consente di trascurare le

perdite di carico durante il moto convettivo. Ciò è in relazione al fatto che quando la macroporosità del terreno è elevata, l’umidità è bassa e la velocità ed il percorso dell’aria sono minimi;

4) la massa volumica che assume valori trascurabili e così pure, conseguentemente, la capacità termica e la conduttività termica;

5) l’assenza d’interazioni tra i gas che la compongono; 6) la possibilità di subire adsorbimento da parte delle particelle del terreno. Ciò con

particolare riferimento al vapor d’acqua, che è adsorbito in strati polimolecolari, ed all’azoto che è adsorbito in strati monomolecolari;

7) diversa solubilità nella fase liquida dei costituenti gassosi. Ogni gas componente l’aria tellurica si scioglie fino a concentrazioni proporzionali alla sua pressione parziale, tenuto conto di equilibri diversi che possono instaurarsi e della legge dell’azione di massa che li regola;

8) la prevalenza del potenziale di pressione e, più precisamente, del potenziale di

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269 Il terreno

pressione totale se interessa tutta la fase, oppure del solo potenziale di pressione parziale se il riferimento è un solo gas componente;

9) assenza pratica di potenziale matriciale;10) composizione chimica molto vicina a quella dell’aria atmosferica;11) continua tendenza a che la composizione dell’aria tellurica diventi simile a quella

dell’atmosfera. Quest’ultima caratteristica interessa soprattutto gli strati superficiali di terreno, quelli interessati alla coltivazione delle piante, sempre che non si verifichino ristagni idrici, che scacciano la maggior parte dell’aria del terreno e causano asfissia radicale, o ci si riferisca a volumi di terreno isolati rispetto all’aria atmosferica, non ad essa collegati, e dove la stessa fase gassosa può modificare la propria composizione (aria confinata).

Il volume d’aria nel suolo varia non soltanto in rapporto inverso alla quota d’acqua presente, ma anche in funzione del grado di compressione o di costipazione del terreno. Il volume d’aria diminuisce con la profondità ed all’aumentare della dispersione delle particelle colloidali. In quest’ultimo caso, aumentando la dispersione dei colloidi aumenta soltanto la microporosità, cioè la porosità capillare i cui pori sono inferiori a 0,5 mm di diametro, ma non il volume dei pori più grandi, costituenti la porosità per l’aria, ai quali è devoluto il compito di conservare l’aria tellurica.

Composizione della fase gassosa

Come si è già accennato, la composizione dell’aria del terreno è molto simile a quella dell’aria atmosferica al livello del suolo.

Tutti i componenti gassosi, come ad esempio i gas nobili, che non rientrano nei processi metabolici delle piante e dei macro e microrganismi presenti nel terreno possono essere considerati presenti nelle stesse proporzioni percentuali presenti nell’aria dell’atmosfera.

L’ossigeno e l’anidride carbonica in totale rappresentano il 20% della composizione dell’aria del terreno, così come nell’atmosfera, ma i valori relativi ai due gas, presi singolarmente, se ne differenziano e non sono costanti nel tempo e nello spazio.

Il contenuto di CO2 dell’aria tellurica è superiore a quello dell’atmosfera (in questa è circa lo 0,03%) con valori di 0,1-5%, fino al 20%, con sostituzione completa dell’ossigeno, come accade in alcuni terreni asfittici dove diventa possibile l’attività dei soli microrganismi anaerobici. La percentuale di CO2 più elevata si registra in generale d’estate (quando l’attività microbica è più intensa), in terreni ricchi di materia organica, in quelli ricoperti da una fitta vegetazione, in terreni a granulometria più fine e di pessima struttura. Molto variabile è l’effetto delle lavorazioni del terreno sui tenori di CO2.

L’ossigeno entra nella composizione dell’aria tellurica in percentuale molto variabile e la soglia, al di sotto della quale le piante cessano del tutto l’accrescimento (siccità fisiologica), è stimabile intorno al 2%. Man mano che si scende nel terreno in profondità, le variazioni inverse del contenuto in CO2 ed in O2 diventano molto più elevate e sempre più diverse da un caso all’altro. I valori possono facilmente scendere fino all’1% di O2, almeno in certi periodi dell’anno ed in certi terreni dove si può avere, praticamente, la scomparsa di ossigeno (suoli sommersi completamente e per molto

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Fiume Francesco 270

tempo). La concentrazione di O2 più bassa si riscontra nei periodi più piovosi dell’anno e nei terreni limoso-argillosi con pessima struttura.

Per quanto concerne la concentrazione di azoto nell’aria tellurica il valore percentuale (in media il 75%) non differisce molto da quello dell’aria atmosferica (intorno all’80%), nonostante l’attività di molti batteri, autotrofi ed eterotrofi, simbiontici e non, aerobi ed anaerobi che sono in grado di fissare, liberamente od obbligatoriamente, l’azoto dell’aria.

Il vapor d’acqua è presente altresì in quantità superiore rispetto all’aria atmosferica, spesso fino alla completa saturazione, con un’umidità relativa del 100%.

La presenza di altre sostanze gassose, come il metano, l’acido solfidrico, l’ammoniaca, si può riscontrare nell’aria tellurica dei terreni le cui condizioni sono fortemente riducenti e dove prevalgono i processi anaerobici. Queste sostanze, ad eccezione dell’ammoniaca, mancano nei normali terreni agrari ben aerati dove la stessa ammoniaca è presente in quantità minore che non nell’atmosfera a causa dei vari processi di nitrificazione e di adsorbimento (per il catione NH4

+) a cui è soggetta.

Un’ultima notazione riguarda i gas nobili, la cui composizione percentuale nell’aria del terreno, in generale, è la stessa di quella dell’aria atmosferica. Limitatamente agli strati più profondi del suolo, tuttavia, la percentuale di argon nell’aria tellurica sembra sia lievemente inferiore ed, in termini quantitativi, essa è 0,90%, contro lo 0,94% dell’aria dell’atmosfera.

Come si è visto, la composizione dell’aria del terreno è assai variabile ed è abbastanza diversa da quella dell’aria atmosferica. Ciò è dovuto a numerose cause ed alcune di esse sono l’attività respiratoria delle radici delle piante e di tutti gli organismi aerobici, l’attività di fermentazione degli organismi anaerobici, la presenza di prodotti chimici capaci di reagire con alcuni componenti gassosi o di svolgerli (carbonati che si trasformano, reversibilmente, in bicarbonati e conseguente assunzione o cessione di CO2, ossidazione e riduzione di sali del ferro e dell’alluminio e di altri elementi e conseguente modificazione della quantità di ossigeno ambientale), la quantità di materia organica nella quale avvengono processi zimotermici (che determinano, per esempio, svolgimento diretto di CO2, ma anche modificazioni nella concentrazione degli altri gas a causa dell’aumento termico che si verifica e conseguente variazione delle pressioni,

con espansione dei gas verso zone in cui essi sono più rarefatti) ed infine, ma non meno importante, la solubilità dei diversi componenti gassosi dell’aria tellurica nella soluzione circolante.

In quest’ultimo caso, in acqua, si riscontra bassa solubilità dell’O2, pari a 34 cm3/L

a 20 °C, di fronte all’alta solubilità della CO2, pari a 900 cm3/L nelle stesse condizioni di temperatura e di pressione.

Entro il terreno, i moti convettivi e di rimescolamento dell’aria ed i processi di diffusione dei singoli componenti gassosi tendono a riportare, soprattutto negli strati più superficiali, la composizione dell’aria nel terreno a quella dell’aria atmosferica.

Scambi tra aria del terreno ed aria dell’atmosfera

Come è stato ripetutamente accennato, le differenze della composizione dell’aria tellurica, rispetto a quella dell’aria atmosferica, tendono ad equilibrarsi o a ridursi con la

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271 Il terreno

rapidità stabilita dallo scambio gassoso. La riduzione o l’annullamento di tali differenze è dovuto ad un vero e proprio

ricambio dell’aria tellurica da parte dell’aria dell’atmosfera, consistente nel movimento di O2 verso il basso ed in quello di CO2 e di H2O allo stato di vapore verso l’alto. Tale movimento avviene a livello della porosità non capillare del terreno, interdetta all’acqua capillare, ma solo interessata, occasionalmente ed in concomitanza di forti eccessi idrici, dall’acqua gravitazionale o di drenaggio e dotata di forte capacità per l’aria.

Il ricambio dell’aria del terreno assicura normalmente un sufficiente approvvigionamento di ossigeno al terreno e, affinché le piante non abbiano a soffrire di asfissia radicale, esso è stato stimato pari ad almeno 3·10-7 g/cm al minuto. Inoltre, è stato calcolato che tali condizioni possono verificarsi solo se la porosità non capillare è superiore al 10% del volume del terreno.

Lo scambio gassoso e la rapidità con cui esso avviene è dovuto ai fenomeni di diffusione molecolare ed all’azione di flusso di massa dei gas (moto per convezione), con effetti più imponenti da parte dei primi, rispetto ai secondi.

Il moto di diffusione molecolare dei singoli gas dell’aria tellurica è un movimento operante permanentemente, sia pure con intensità variabile e dipende dal fatto che ogni molecola in un fluido dà luogo a movimenti casuali che portano ad una condizione di omogeneità, qualora si sia partiti da una situazione di squilibrio ed eterogenea. Ad esempio, se due recipienti intercomunicanti sono riempiti, uno con un liquido incolore e l’altro con un liquido rosso, dopo un certo tempo i due recipienti conterranno liquido dello stesso colore e cioè rosso, forse meno intenso di quello di partenza, in relazione a un lento rimescolamento e ad una completa miscelazione finale dei due colori. Le ragioni di questi movimenti sono dovute all’agitazione termica delle particelle di colore che tendono a distribuirsi in media uniformemente in tutto il liquido di cui possono disporre (tendenza all’aumento dell’entropia).

Nel caso dei gas, il processo è molto più veloce (da 6.000 a 10.000 volte superiore) rispetto a quello dei liquidi e se si riempiono due recipienti intercomunicanti con due gas di diversa composizione, ad esempio O2 e CO2, aventi in un recipiente una proporzione differente da quella dell’altro recipiente, anche se la pressione nei due recipienti è uguale si avrà che la diffusione avverrà in funzione delle pressioni parziali dei due componenti.

Negli scambi gassosi tra l’aria atmosferica e quella tellurica si verifica un moto analogo per cui, ad esempio, in un certo punto di terreno, man mano che le radici delle piante consumano ossigeno dall’aria del terreno durante la respirazione, quantità analoghe si ossigeno diffonderanno dall’atmosfera verso quel punto.

Analogamente, via via che l’anidride carbonica è prodotta dalle radici durante il processo respiratorio e man mano che aumenta la concentrazione della CO2 in quel punto di terreno, la CO2 diffonderà verso l’atmosfera tendendo ad annullare le differenze di concentrazioni del gas tra le due arie, quella interna e quella esterna al terreno. E’ questa la pratica realizzazione della legge di Dalton, per la quale, per i gas perfetti, la pressione esercitata da un miscuglio gassoso sulle pareti del recipiente, nel quale esso è contenuto, è uguale alla somma delle pressioni esercitate dai singoli gas, come se ciascuno da solo occupasse il volume totale.

La seguente relazione esprime matematicamente il concetto:

pv = v(p1 + p2 + p3 +…..+ pn)

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Fiume Francesco 272

dove p è la pressione totale di tutto il miscuglio di gas, p1, p2, p3, pn è la pressione esercitata da ogni singolo gas componente il miscuglio e v è il volume occupato. L’equazione di stato dei gas perfetti è:

PV = nRT

dove P è la pressione, V è il volume, n è il numero di molecole del gas contenute in quel volume, R è la costante generale dei gas (pari a 0,08203), T è la temperatura assoluta nella scala Kelvin (cioè T = t + 273,1). La stessa relazione, sapendo il numero n di molecole del gas in un certo volume V, che la concentrazione C dello stesso gas è espressa dalla relazione C = n/V e che il prodotto RT è una costante (RT = k), si può così rappresentare:

P = kC

In un miscuglio di gas perfetti, secondo la legge di Dalton, il valore P diventa la pressione parziale di un dato componente gassoso e C la sua concentrazione nel miscuglio, riferita al volume totale.

Orbene, per quanto riguarda il movimento dei singoli componenti gassosi del terreno, per i processi di diffusione bisogna considerare la legge di Fick. Questa legge regola il movimento di diffusione dei soluti nel solvente ed analogamente il moto di diffusione di un gas.

La legge di Fick afferma che il flusso di diffusione di un soluto (qsol) che si stabilisce tra un punto A ed un punto B, in corrispondenza dei quali esiste una differenza di concentrazione del soluto (se tale differenza è zero non si può avere diffusione) è direttamente proporzionale a tale differenza di concentrazione dC ed inversamente proporzionale alla distanza tra i due punti dS, secondo un coefficiente di proporzionalità diretta D detto coefficiente di diffusione di un certo soluto, in un dato solvente, in determinate condizioni di temperatura e di pressione. Tale flusso di diffusione è sempre uguale in tutte le direzioni (liquidi isotropi). La relazione che rappresenta questa legge è la seguente:

dCqsol = D ——

ds

Dimensionalmente, la relazione indica la massa m di soluto che attraversa una certa sezione, cioè una superficie l2, in un certo tempo t. Essa è una portata che viene così espressa, in termini di dimensione:

flusso di diffusione di un solvente = m · l-2 · t-1

E’ sottinteso che la legge di Fick si riferisce alla diffusione che avviene in una direzione qualsiasi, in rapporto al moto disordinato di agitazione termica delle particelle del soluto.

Ritornando ai gas dell’aria tellurica ed atmosferica, se si sostituisce nella relazione della legge di Fick la C con quella ottenuta dalla legge di Dalton, riferita ad un singolo

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273 Il terreno

gas del miscuglio (P = kC; C = P/k) si può esprimere la stessa legge di Fick in termini di gradiente di pressione parziale:

1 dP qgas = D · —— · —— k ds

dove qgas è la quantità di un gas del miscuglio che diffonde attraverso una superficie unitaria ed in un tempo unitario, D è il coefficiente di diffusione, dP è la differenza di pressione parziale (ad esempio la differenza fra la pressione esercitata dalla CO2 nell’aria tellurica e la pressione esercitata sempre dalla CO2 ma nell’aria atmosferica, sempre che le due arie siano intercomunicanti) e ds è la distanza tra le due arie, interna ed esterna al terreno; k è la costante pari a 22,4 ottenuta dal prodotto fra la temperatura assoluta e la costante generale dei gas.

Per i gas reali (non perfetti), tutte le relazioni indicate sono pienamente valide se si sostituisce alla concentrazione od alla pressione parziale la fugacità dei gas, anche se ciò normalmente non è necessario per la risoluzione dei comuni problemi e per la precisione normalmente richiesta.

La differenza tra gas perfetti e gas reali è molto significativa soltanto per pressioni molto elevate e per temperature prossime al punto d’ebollizione, mentre è praticamente inesistente in condizioni ordinarie pedologiche, cioè quando l’aria tellurica si trova a pressioni intorno al valore di un’atmosfera e temperature relativamente basse, lontane da quella di ebollizione.

Bisogna anche ricordare che il coefficiente di diffusione D di ciascun gas componente il miscuglio gassoso dipende dalla composizione chimica del miscuglio entro il quale lo stesso gas diffonde ed è proporzionale alla radice quadrata della temperatura assoluta. Alla temperatura di 20 °C, per l’ossigeno dell’aria D = 0,184 cm2/s e per l’anidride carbonica dell’aria D = 0,144 cm2/s.

In considerazione del fatto che il terreno è un mezzo poroso, la diffusione dei gas può avvenire soltanto entro la parte dei pori occupata dall’aria.

La diffusione dell’aria entro il terreno avviene con maggiore difficoltà rispetto alla diffusione che avviene entro l’aria dell’atmosfera. Nel terreno essa è costretta ad

attraversare tanti canalicoli e, pertanto, è obbligata a seguire percorsi tortuosi legati alle caratteristiche geometriche dei pori stessi. Perciò, indicando con D la diffusività nel terreno e con Da la diffusività nell’aria, si ha, per quanto detto, che D<Da e tale minor valore è funzione di un coefficiente γ minore dell’unità e ricavabile sperimentalmente. Pertanto:

D = γDa

Il coefficiente γ dipende dalle caratteristiche geometriche dei pori, dall’umidità del suolo, dalla struttura del terreno ed ha il valore di 0,66 come media di svariati rilievi sperimentali.

Il coefficiente γ viene anche messo in rapporto ad un altro parametro indicato come λ2, tale che λ = γ--1/2. Questo parametro è chiamato impedenza di diffusione in quanto rappresenta l’ostacolo che il terreno oppone alla diffusione dei gas, rispetto a ciò che

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Fiume Francesco 274

accadrebbe nell’aria dell’atmosfera.Circa il movimento del vapore acqueo dell’aria del terreno, quasi sempre allo stato

di saturazione, come già detto, esso è dovuto alle differenze di pressione cui è sottoposto (come accade per gli altri gas) e si verifica dalle zone di più alta pressione verso quelle di pressione più bassa. Tali differenze di pressione sono determinate dal diverso contenuto d’umidità e dalle variazioni di temperatura. Il movimento del vapore acqueo causato da variazioni del contenuto d’umidità si realizza solo quando quest’ultimo si trova al di sotto del coefficiente igroscopico corrispondente ad un pF uguale o superiore a 4,5. Piccole quantità di vapore possono spostarsi per vaporizzazione (dove i veli liquidi sono più spessi) e per successiva condensazione (dove i veli liquidi sono più sottili). Il movimento del vapore acqueo dovuto a variazioni della temperatura è in grado di raggiungere valori notevoli anche per piccoli gradienti termici, purché i terreni abbiano un contenuto di umidità relativa del 99% ed un equivalente di umidità del 50%.

Quando gli strati superficiali del suolo subiscono forti raffreddamenti (in inverno o durante la notte), la tensione del vapore assume un valore inferiore a quello degli strati sottostanti più caldi. Si verifica, allora, spostamento di vapore acqueo verso l’alto dove si condensa. La maggiore temperatura degli strati superficiali (in estate o durante il giorno), rispetto a quelli inferiori, causa al contrario uno spostamento di vapore in senso opposto e cioè verso il basso.

In pratica, il processo di diffusione rappresenta il fattore più importante di aerazione del terreno, cioè di tendenza dell’aria tellurica ad uniformare la propria composizione con quella dell’aria atmosferica.

La velocità di diffusione dipende dallo spazio effettivo dei pori rappresentato da quella parte della porosità del terreno che non risulta occupata dall’acqua o bloccata da altre porosità (pori di minore diametro, come quelli capillari, interessati unicamente dall’acqua). La velocità di diffusione e di ricambio dell’aria tellurica è in stretta relazione con il contenuto d’umidità e con la struttura del terreno.

Grande influenza sulla diffusione è esercitata dalla tortuosità dei pori, ma non dalle loro dimensioni, in quanto le molecole di gas compiono movimenti di traslazione di dimensioni che non vanno oltre 0,1-0,5 mm e che, pertanto, risultano di valore inferiore al diametro dei pori facenti parte della porosità per l’aria del terreno.

I movimenti dell’aria tellurica, dovuti a processi per flusso di massa, possono essere originati dalle seguenti cause:a) il vento determina sul terreno un aumento di pressione dell’aria contenuta nei pori,

ma anche una depressione che risucchia l’aria contenuta negli stessi pori. Si ottiene, perciò, un rimescolamento dell’aria tellurica e di quella atmosferica. Le due arie tendono, così, ad uniformare le loro composizioni. L’intensità con cui questo accade dipende dalla velocità del vento, dal gradiente verticale della velocità in prossimità del suolo, dall’angolo che si forma tra la direzione del vento e la superficie del terreno. Va anche detto che se da un lato il vento rappresenta un fattore degno di nota nel determinare il ricambio dell’aria tellurica secondo i processi di flusso di massa, dall’altro la sua azione è in ogni caso di difficile determinazione e diviene trascurabile se sul terreno vi sono molti ostacoli, primo fra tutti la folta copertura delle piante;

b) l’escursione termica tra il giorno e la notte causa la dilatazione termica e l'espansione elastica dell’aria del terreno, in maniera ciclica e regolare e ciò può comportare una certa aerazione del suolo. La stessa fluttuazione giornaliera della temperatura causa una variazione della pressione barometrica che può avere un certo effetto sul movimento dell’aria tellurica. Va anche detto che tali effetti sono molto modesti se si

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275 Il terreno

considera che una variazione di 5 °C, ad una certa profondità, è piuttosto rara e dà luogo ad effetti che spesse volte sono insignificanti;

c) i movimenti dell’acqua nel terreno provocano spostamenti d’aria tellurica. Così l’evapotraspirazione provoca ingresso di aria nel terreno che va ad occupare la porosità lasciata libera dall’acqua. Lo stesso effetto provoca la percolazione dell’acqua di pioggia e quella d’irrigazione, nonché l’assorbimento dell’acqua da parte delle radici. Anche le lavorazioni del terreno e successivi costipamenti possono causare un certo movimento dell’aria tellurica. Si è calcolato che il ricambio completo dell’aria così ottenuto, in un ciclo annuale, avvenga da 30 a 100 volte, valore che appare abbastanza trascurabile;

d) la diffusione differenziale dei componenti gassosi entro l’aria tellurica e tra questa e l’aria atmosferica può determinare variazioni della pressione totale, con conseguenti movimenti e rimescolamenti;

e) la produzione o l’utilizzazione dei singoli gas costituenti l’aria tellurica da parte delle radici delle piante e degli organismi del suolo può causare effetti analoghi a quelli ora detti, con movimenti e rimescolamenti;

f) variazione della solubilità dei gas disciolti nella fase liquida, in dipendenza dell’andamento termico;

g) apporto di gas da parte dell’acqua di pioggia. Le acque del regime pluviometrico, giungendo al suolo, sono ricche di ossigeno e di azoto ma molto povere di anidride carbonica e provocano una forte modificazione della composizione dei gas nel suolo. L’acqua della soluzione circolante del terreno, al contrario, è satura di CO2 e particolarmente povera di O2. La profonda differenza di concentrazione di gas disciolti tra l’acqua di pioggia e quella della soluzione circolante determina un attivo movimento gassoso causata dalla tendenza al raggiungimento dell’equilibrio.

h) influenza dell’acqua di irrigazione. Va sottolineato che l’acqua di irrigazione è meno fredda e più ricca di organismi viventi dell’acqua di pioggia e contiene, di norma, meno ossigeno ed è più ricca di anidride carbonica e per tali motivi è in grado di influenzare i movimenti dei gas nel terreno.

Praticamente, nessuna di queste cause, prese singolarmente, è in grado di assicurare un soddisfacente ricambio dell’aria tellurica.

Affinché ciò si verifichi pienamente, il ricambio dovrebbe avvenire, in maniera completa, ogni ora ed interessare tutta l’aria contenuta nel terreno, fino alla profondità di almeno 20 cm. Sicuramente l’azione concomitante di tutti gli effetti indicati potrebbe essere tutt’altro che trascurabile e provocare un adeguato ricambio dell’aria del terreno.

Interessante risulta esaminare i meccanismi che entrano in gioco in una sacca d’aria rimasta occlusa od intrappolata nel terreno, la cosiddetta aria confinata.

I gas che rimangono imprigionati nel terreno, anche quando l’acqua non è in movimento, sono soggetti ad una pressione Poc la quale è determinata dalla pressione esercitata dalla superficie curva acqua-gas diminuita dal potenziale di pressione Ψp entro la fase liquida.

La pressione Poc può essere superiore, uguale o inferiore alla pressione atmosferica Patm. Ora, secondo la legge di Henry, la solubilità dei gas nei liquidi è proporzionale alla pressione nella fase gassosa, indipendentemente dalla pressione del liquido. Pertanto, nella fase liquida, quasi vicini alla superficie di separazione dell’aria occlusa, la concentrazione dei vari componenti gassosi disciolti tende ad essere diversa da quella che

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Fiume Francesco 276

tende ad instaurarsi presso l’interfaccia tra liquido ed aria atmosferica o comunque aria non occlusa. Quindi, entro la fase liquida che determina la sacca entro cui è inclusa l’aria tellurica, se Poc > Patm si ottiene trasporto dei gas in soluzione verso l’interfaccia a contatto con l’atmosfera, il che promuove il passaggio in soluzione dei gas occlusi (da un lato) e la loro liberazione nell’atmosfera (dall’altro), fino alla completa scomparsa dell’aria confinata. Nel caso in cui Poc < Patm si ha il processo opposto per il quale l’aria atmosferica entra nella tasca d’aria che tende così ad ingrandirsi fino ad una condizione d’equilibrio stabile.

Va detto che è impossibile che si formino bolle d’aria stabili in frangia capillare ed in falda, che le bolle più piccole dei pori sono trascinate dal flusso liquido o si separano dall’acqua per galleggiamento, che le bolle instabili scompaiono dopo un intervallo di tempo che va da un quarto d’ora fino a 28 ore.

Queste situazioni possono indurre liberazione nel tubo di un tensiometro di aria atmosferica o di aria tellurica (che si scioglie prima nell’acqua del terreno e poi passa per diffusione nell’acqua del tensiometro dove si libera in bolle), rendendo vano il riempimento dei tensiometri con acqua bollita e quindi privata dell’aria. Possono altresì favorire la diffusione dei gas componenti l’aria (atmosferica e tellurica) dalle cellule dei tessuti delle radici (ma anche entro le cellule stesse) le quali ultime sono sempre praticamente avvolte da un velo idrico.

Da quanto ora detto, si evince, che in un medesimo volume, stabilito dai pori del terreno, esiste una forte interdipendenza tra la fase gassosa e la fase liquida, in conseguenza della quale i componenti della fase gassosa si sciolgono nella fase liquida ed in questa possono muoversi.

Questo movimento avviene in relazione alla diffusività di un certo componente nelle due fasi liquida e gassosa, in funzione del rapporto di solubilità del gas nel liquido, in dipendenza della continuità di ciascuna delle due fasi.

Tutti questi aspetti rivestono fondamentale importanza ed interesse nel trasporto di certi erbicidi e fumiganti che vengono somministrati al terreno per la lotta alle malerbe e per il controllo delle malattie delle piante che hanno origine tellurica.

Analisi della fase gassosa

I rilievi principali che riguardano la fase gassosa del terreno sono la determinazione della permeabilità all’aria del terreno, la misura della diffusività di un determinato gas componente l’aria tellurica, il rilievo della concentrazione di un gas costituente l’aria tellurica.

Il rilevamento del contenuto d’aria è stato trattato a proposito della porosità. La misura di questo parametro, come si ricorderà, è data dal rapporto percentuale tra due valori. Il primo è ottenuto dalla differenza tra la densità reale e quell’apparente. Il secondo è la densità reale che si ottiene dal rapporto tra la massa di terreno ed il volume della sola parte solida.

Giova ricordare che la densità apparente è il rapporto tra la massa della parte solida ed il volume totale e che quest’ultimo è il volume occupato dal solido sommato agli spazi vuoti.

Nel ricordare alcune delle principali determinazioni analitiche del terreno, riguardanti la fase gassosa, bisogna premettere che i risultati di queste analisi sono delle

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277 Il terreno

variabili dipendenti da numerosi parametri come il grado d’umidità, la porosità ed altri ancora.

DETERMINAZIONE DELLA PERMEABILITÀ DEL TERRENO ALL’ARIA

La permeabilità del terreno all’aria è una proprietà strettamente connessa al diametro dei pori, al loro numero ed alla loro continuità.

Le misure della permeabilità del terreno all’aria si riferiscono al movimento della fase gassosa per processi di flusso di massa (moti convettivi) ed esprimono l’attitudine del terreno ad aerarsi, cioè a che avvenga il ricambio dell’aria tellurica con quella atmosferica.

Il volume o la massa d’aria (qa) che attraversa l’unità di superficie porosa del terreno, in un tempo unitario, rappresenta l’indice da calcolare per ottenere questa determinazione.

La portata d’aria è data dalla seguente relazione, in cui il potenziale pneumatico è stato separato dal potenziale gravitazionale:

qa = - K · ψpa / z - K·g·ρ· z

qa = - K · (ψpa - gρz)· z

dove qa è la massa d’aria per unità di superficie porosa e per unità di tempo, K è il coefficiente di conducibilità del terreno per l’aria, ψpa è la variazione del potenziale pneumatico per l’aria fra due punti posti a distanza z e di cui uno potrebbe essere il fronte di bagnamento, g è la costante gravitazionale pari a 9,81 m/s2, ρ è la densità dell’aria tellurica che può variare con la distanza z raggiunta dal fronte di bagnamento per effetto di differenze di pressione ed a causa della compressibilità dell’aria.

Dimensionalmente, ricordando che l esprime le lunghezze (metro, chilometro), t il tempo (secondo, ora), m la massa, il valore di qa è espresso in l·t-1 (volume per unità di sezione ed unità di tempo), allo stesso modo di come sono espressi i due termini del secondo membro:

primo termine:

K · ψpa / z = t · l2 t-2 · l-1 = l·t-1

secondo termine:

K·g·ρ·z/ z = l3tm-1 · lt-2 · ml-3 · l · l-1 = l·t-1

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Fiume Francesco 278

Il coefficiente di proporzionalità K, detto coefficiente di conducibilità del mezzo poroso (il terreno), ha dimensioni che cambiano secondo il modo in cui sono espressi i flussi (la portata areica) ed i potenziali (tabella 44) e si determina sperimentalmente come rapporto tra velocità di flusso e gradiente del potenziale totale.

Tab. 44 – Dimensioni della conducibilità del mezzo poroso (K).

Espressione dimensionale del potenzialeEspressione dimensionale della portata areica

Volume per unità di sezione

e per tempo unitario: lt-1

Massa per unità di sezione e per tempo unitario:

ml-2t-2

Peso per unità di sezione e per tempo unitario:

ml-1t

Potenziale massico: l2t-2 T mtl-3 ml-2t-1

Potenziale volumico (pressione): ml-1t-2 l3tm-1 t lt-1

Potenziale ponderale (carico): l lt-1 ml-2t-1 ml-1t-3

Il valore di K dipende dalla densità e dalla viscosità dell’aria tellurica e dalle proprietà del terreno che includono le caratteristiche geometriche dei pori entro cui l’aria si muove e la qualità delle loro superfici. A questo punto il valore di K diviene funzione di un’altra costante, detta permeabilità intrinseca del sistema poroso. Per qualunque fluido (liquido o gassoso) il valore K risulta praticamente identico purché la presenza del fluido non alteri la porosità o la distribuzione dei pori e la geometria del sistema (cosa che invece accade nei terreni rigonfiabili, fortemente bagnati).

Quindi, determinando per via sperimentale il valore della conducibilità K e del potenziale pneumatico ψpa, come differenza tra la pressione dell’aria tellurica sul menisco e la pressione atmosferica (ambedue rilevabili strumentalmente), nota la densità dell’aria tellurica, risulta teoricamente possibile determinare la portata d’aria del terreno in una data sezione e quindi la permeabilità dello stesso.

Vi sono, inoltre, metodi di laboratorio e metodi di pieno campo, a carico costante od a carico variabile che danno, i primi, risultati molto rigorosi ma non molto pratici, i secondi, invece, riflettenti meglio tutte le situazioni pratiche e reali.

DETERMINAZIONE DELLA DIFFUSIVITÀ DEL TERRENO

La diffusività è l’attitudine del terreno a lasciare diffondere un gas come l’ossigeno, l’anidride carbonica, l’acqua allo stato di vapore.

Tale attitudine viene però espressa come diffusività relativa e si utilizza un parametro di diffusività relativo già visto (D/Da = γ), dato dal rapporto tra la diffusività di un gas nel terreno e la diffusività dello stesso gas nell’aria. Altri parametri di valore comparativo possono essere usati. Per queste determinazioni vi sono metodi a regime permanente e metodi a regime transitorio. Come gas si può usare l’O2, la CO2 od un altro

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gas opportunamente scelto come il CS2 o CH3COCH3. Le misure possono riguardare le perdite di peso, le determinazioni di concentrazione di O2 o di CO2 per via chimica o per radioattività (impiego di CO2 marcata) o mediante misure di corrente elettrica (metodo dell’elettrodo di platino).

In una serie di metodi di laboratorio realizzati da vari ricercatori, sovrapponendo il campione di terreno, messo in un adatto contenitore, su una camera contenente liquido molto volatile e poco adsorbito dal terreno, si può conoscere la pressione di vapore ad un estremo del percorso nel terreno e quella all’estremo opposto (che è assunta praticamente uguale a zero nell’aria). Dalla perdita in peso per evaporazione del liquido volatile e ripetendo la prova con terreno per ottenere il valore di D e senza terreno, vale a dire nell’aria, per ottenere il valore di Da si può ricavare il valore di D/Da = γ. In altre prove di laboratorio il moto è transitorio, per cui si lascia diffondere l’O2 dell’aria, a concentrazione costante, attraverso il terreno per avere D e senza terreno per avere Da, in una camera contenente inizialmente solo N2 e poi si misurano in questa gli aumenti di O2 in funzione del tempo, per ottenere il valore di D/Da = γ.

Altri metodi consistono nel lasciare interdiffondere O2 e N2 inizialmente costituenti gli unici gas contenuti rispettivamente in due campioni uguali di terreno, posti a contatto fra loro, e si misura il contenuto medio dell’O2 nei due campioni dopo un certo intervallo. Quindi si ricava il valore di D per i due gas.

I metodi proposti per le misure in campo sono prevalentemente derivati dai precedenti, ma sono caratterizzati da una tridimensionalità ed incerta definizione delle condizioni al contorno ed hanno per lo più valore comparativo, oltre a sembrare correlati con la risposta delle piante.

Un altro metodo si basa sulla perdita in peso, dopo un certo tempo, di una capsula di porcellana porosa piena di liquido volatile, interrata alla profondità di circa 30 cm e proteggendola dal contatto diretto con il terreno ad opera di un’apposita griglia.

DETERMINAZIONE DELLA CONCENTRAZIONE DI UN GAS COMPONENTE L’ARIA TELLURICA

Consiste nella determinazione della quantità di un gas componente l’aria tellurica nel volume unitario di quest’ultima.

Uno dei problemi più importanti da affrontare è il prelevamento del campione d’aria del suolo. Tale prelevamento può realizzarsi secondo diversi metodi, come l’aspirazione del terreno in situ, la diffusione di un corpo poroso standard interrato, il prelevamento di una zolla immediatamente rivestita di vernice impermeabile all’aria. Da questi campioni, differentemente prelevati, si effettua, in laboratorio, la successiva liberazione del gas in un apposito campione oppure per dissoluzione in acqua. Dopo si procede alla determinazione del gas, scegliendo il metodo analitico: per la determinazione della CO2 si procede all’assorbimento della stessa in soluzione di KOH, per la determinazione dell’O2 si effettua l’assorbimento in soluzione alcalina di pirogallolo. Ulteriori metodi consistono nel ricorso all’analisi ai raggi infrarossi di CO2 e di O2 su aria disidratata, nell’impiego della gascromatografia di O2 e CO2, nello studio

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della polarimetria di O2 disciolto in acqua. Queste sono le principali determinazioni analitiche che riguardano la composizione dell’aria del terreno e lo studio del suolo in rapporto alla fase gassosa.

Grande importanza riveste la composizione dell’aria tellurica ai fini dell’evoluzione del terreno nei processi pedogenetici, con effetti che si manifestano molto lentamente, a lungo termine, attraverso azioni chimiche mediate dalla fase liquida che interagisce continuamente con quella gassosa.

Queste azioni ed interazioni sono controllate dai gas dell’aria, soprattutto dalla CO2, ma anche dallo stato di aerazione del terreno e dalla microflora. Un incremento dei microrganismi del suolo produce un aumento della velocità di mineralizzazione della materia organica, in rapporto alla più elevata concentrazione di O2.

La composizione della fase gassosa del terreno esercita una grande influenza anche sulla vegetazione e su tutte le condizioni biologiche del terreno.

In definitiva bisogna puntualizzare che non esiste un limite ottimale di aria nel terreno. Anzi, il concetto, ribadito varie volte, che un terreno tanto più è aerato, tanto migliori sono le sue condizioni di abitabilità, non sempre risulta valido.

Per aerazione del terreno si deve intendere la presenza nell’aria tellurica di una giusta quantità di O2 e un difetto di questo gas nell’aria del terreno pregiudica enormemente i processi respiratori delle radici, causa un eccessivo accumulo di CO2 e produce un ambiente asfittico che compromette tutti gli altri processi biologici. In generale, si considera un contenuto del 5% di CO2 nell’aria del terreno quale limite al di sopra del quale la respirazione delle radici avviene con difficoltà, causando un rallentamento della crescita delle piante. Stessi fenomeni vengono osservati quando si registra che la concentrazione di O2 nella fase gassosa del terreno scende al di sotto del 10%.

Qualche altro dato che è possibile citare riguarda la capacità per l’aria del terreno. Teoricamente il volume complessivo medio dei pori del terreno viene valutato intorno al 50% del volume del terreno.

Questo valore diminuisce al 40% nei terreni sabbiosi ed aumenta fino al 75-85% nei terreni argillosi o ricchi in sostanza organica e con particelle molto fini. Va anche ricordato che non tutti i pori disponibili del terreno sono pienamente utili ai fini dell’aerazione, in quanto, ad esempio, la porosità capillare è interessata soltanto all’acqua e non all’aria tellurica.

Così, quando il terreno si trova, rispetto all’acqua, saturato fino allo stato della capacità di campo (capacità minima per l’acqua), il volume rimasto a disposizione dell’aria si valuta intorno al 30-40% nei terreni sabbiosi, al 10-25% in quelli limosi ed a meno del 5-15% nei terreni argillosi.

In generale, una porosità del 50%, occupata per il 50-70% da acqua e per il 30-50% dall’aria rappresenta uno stato abbastanza prossimo a quello ottimale per lo sviluppo delle piante e per ottenere una buona resa dalle coltivazioni.

Naturalmente, com’è facile intuire, è difficile che questa situazione del terreno sia raggiunta o comunque diventi permanente. La pioggia e l’irrigazione (non a goccia) causano inizialmente degli eccessi idrici colmando o stracolmando i vuoti del suolo, fino a scacciare completamente l’aria dal terreno.

Poi l’eccedenza d’acqua viene più o meno lentamente smaltita, per ruscellamento e percolazione, l’aria nel terreno viene ripristinata fin quando si raggiunge l’equilibrio

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corrispondente alla capacità minima per l’acqua. Periodi aridi fanno scendere ulteriormente il contenuto di acqua del terreno ed

incrementano il contenuto in aria, con conseguente distanziamento dei valori ottimali, fin quando una nuova pioggia o un intervento irriguo produce il ritorno alle iniziali condizioni.

Si ottiene, quindi, un’oscillazione ciclica del contenuto d’aria tellurica che raggiunge quel 50% ritenuto ottimale per poi discostarsene, con tutta una serie di valori intermedi.

L’agricoltore può intervenire su questo ciclo naturale, tentando di mantenere quel 50% della porosità occupata per metà dall’acqua e per metà dall’aria, con una serie di interventi rappresentati dalle irrigazioni e dalle lavorazioni del suolo, ma anche da altre applicazioni tecniche come gli ammendamenti, la pacciamatura ed altri ancora.