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CAPITOLO I: ASPETTI GIURIDICI DELL’IMPRESA AGRICOLA. Profili civilistici La definizione giuridica di impresa agricola si ritrova nel Titolo II del Libro V del codice civile, il quale si divide in tre capi: il primo che riguarda l’impresa in generale (artt. 2082-2134), il secondo, relativo all’impresa agricola (artt. 2135-2187), ed il terzo che tratta “delle imprese commerciali e delle altre imprese soggette a registrazione” (artt. 2188-2221). Il Legislatore, quindi prima di definire l’imprenditore agricolo, ha ritenuto opportuno delineare la disciplina dell’impresa in generale, della quale quella agricola costituisce una fattispecie particolare distinta ad esempio dai piccoli imprenditori (art. 2083) o dagli imprenditori commerciali (art. 2195). Tale struttura sottolinea il carattere imprenditoriale dell’attività agricola professionale e distingue nettamente la figura dell’imprenditore agricolo da altri soggetti che svolgono un’attivtà di coltivazione o di allevamento a fini diversi (ad esempio per autoconsumo). In questa dispensa, seguendo l’impostazione del nostro ordinamento, si procederà dapprima ad analizzare brevemente la categoria generale dell’impresa per poi specificare le caratteristiche specifiche dell’impresa agricola. Definizione civilistica di impresa L’articolo 2082 c.c. non definisce direttamente l’istituto giuridico dell’impresa, ma si limita a caratterizzare la figura dell’imprenditore, stabilendo che: “È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Dalla definizione del Legislatore emerge che la figura dell’imprenditore è caratterizzata da tre elementi: 1. l’organizzazione 2. la professionalità 3. la produzione o lo scambio di beni o servizi L’organizzazione dell’attività economica consiste nella combinazione finalizzata dei fattori produttivi relavi al capitale ed al lavoro. Ne consegue che un atto economico unico ed isolato non è espressione di una organizzazione e non può assurgere ad attività imprenditoriale; ugualmente, nel caso in cui nell’ambito dell’attività lavorativa prevalga la componente individuale rispetto all’organizzazione si ricadrà in altre figure giuridiche quali ad esempio il lavoro subordinato (art. 2094) o il lavoro autonomo (Titolo II, artt. 2222-2238). La caratteristica peculiare dell’imprenditore è quindi la sua capacità di combinare (organizzare) i fattori della produzione e non il suo contributo lavorativo individuale nell’attività dell’azienda. Si deve inoltre sottolineare che il requisito dell’organizzazione non comporta necessariamente ampie e rilevanti dimensioni in termini di investimento o di forza lavoro: esistono infatti imprenditori individuali, che combinano il proprio lavoro con il capitale strettamente necessario per lo svolgimento regolare della attività. Il requisito della professionalità attiene alle caratteristiche dell’attività economica che non deve essere né occasionale né saltuaria, ovvero deve essere esercitata con continuità. Ad esempio una vendita occasionale di prodotti agricoli normalmente destinati all’autoconsumo non comporta da parte del produttore l’assunzione della veste dell’imprenditore. Nonostante ciò, non sarebbe corretto ritenere che l’attività impreditoriale debba essere necessariamente esclusiva o prevalente per il soggetto: gli agricoltori plurattivi (i cosiddetti part-time) possono essere considerati imprenditori a pieno titolo purché la loro attività economica assuma un carattere continuativo nel corso dell’anno, ancorché limitata a poche ore settimanali. Il terzo elemento che caratterizza l’attività di impresa è la sua finalità intrinseca ovvero la produzione o lo scambio di beni o servizi. L’organizzazione continuativa dei fattori della produzione, per assumere la natura di impresa deve farsi carico di uno specifico fine che consiste nell’offrire agli utenti i risultati dell’attività economica. Nello specifico, la dottrina giuridica ha da tempo chiarito che il fine dell’impresa è il rapporto con il mercato di carattere diretto - ad es.

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CAPITOLO I: ASPETTI GIURIDICI DELL’IMPRESA AGRICOLA.

Profili civilistici La definizione giuridica di impresa agricola si ritrova nel Titolo II del Libro V del codice civile, il quale si divide in tre capi: il primo che riguarda l’impresa in generale (artt. 2082-2134), il secondo, relativo all’impresa agricola (artt. 2135-2187), ed il terzo che tratta “delle imprese commerciali e delle altre imprese soggette a registrazione” (artt. 2188-2221). Il Legislatore, quindi prima di definire l’imprenditore agricolo, ha ritenuto opportuno delineare la disciplina dell’impresa in generale, della quale quella agricola costituisce una fattispecie particolare distinta ad esempio dai piccoli imprenditori (art. 2083) o dagli imprenditori commerciali (art. 2195). Tale struttura sottolinea il carattere imprenditoriale dell’attività agricola professionale e distingue nettamente la figura dell’imprenditore agricolo da altri soggetti che svolgono un’attivtà di coltivazione o di allevamento a fini diversi (ad esempio per autoconsumo). In questa dispensa, seguendo l’impostazione del nostro ordinamento, si procederà dapprima ad analizzare brevemente la categoria generale dell’impresa per poi specificare le caratteristiche specifiche dell’impresa agricola. Definizione civilistica di impresa L’articolo 2082 c.c. non definisce direttamente l’istituto giuridico dell’impresa, ma si limita a caratterizzare la figura dell’imprenditore, stabilendo che: “È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Dalla definizione del Legislatore emerge che la figura dell’imprenditore è caratterizzata da tre elementi: 1. l’organizzazione 2. la professionalità 3. la produzione o lo scambio di beni o servizi L’organizzazione dell’attività economica consiste nella combinazione finalizzata dei fattori produttivi relavi al capitale ed al lavoro. Ne consegue che un atto economico unico ed isolato non è espressione di una organizzazione e non può assurgere ad attività imprenditoriale; ugualmente, nel caso in cui nell’ambito dell’attività lavorativa prevalga la componente individuale rispetto all’organizzazione si ricadrà in altre figure giuridiche quali ad esempio il lavoro subordinato (art. 2094) o il lavoro autonomo (Titolo II, artt. 2222-2238). La caratteristica peculiare dell’imprenditore è quindi la sua capacità di combinare (organizzare) i fattori della produzione e non il suo contributo lavorativo individuale nell’attività dell’azienda. Si deve inoltre sottolineare che il requisito dell’organizzazione non comporta necessariamente ampie e rilevanti dimensioni in termini di investimento o di forza lavoro: esistono infatti imprenditori individuali, che combinano il proprio lavoro con il capitale strettamente necessario per lo svolgimento regolare della attività. Il requisito della professionalità attiene alle caratteristiche dell’attività economica che non deve essere né occasionale né saltuaria, ovvero deve essere esercitata con continuità. Ad esempio una vendita occasionale di prodotti agricoli normalmente destinati all’autoconsumo non comporta da parte del produttore l’assunzione della veste dell’imprenditore. Nonostante ciò, non sarebbe corretto ritenere che l’attività impreditoriale debba essere necessariamente esclusiva o prevalente per il soggetto: gli agricoltori plurattivi (i cosiddetti part-time) possono essere considerati imprenditori a pieno titolo purché la loro attività economica assuma un carattere continuativo nel corso dell’anno, ancorché limitata a poche ore settimanali. Il terzo elemento che caratterizza l’attività di impresa è la sua finalità intrinseca ovvero la produzione o lo scambio di beni o servizi. L’organizzazione continuativa dei fattori della produzione, per assumere la natura di impresa deve farsi carico di uno specifico fine che consiste nell’offrire agli utenti i risultati dell’attività economica. Nello specifico, la dottrina giuridica ha da tempo chiarito che il fine dell’impresa è il rapporto con il mercato di carattere diretto - ad es.

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vendita diretta - od indiretto - ad es. tramite cooperative - (Afferni 1973). Come si è già avuto modo di sottolineare, la produzione agricola per autoconsumo non rappresenti un’attività di impresa, proprio a causa della mancanza di qualsiasi relazione con il mercato. La copresenza dei tre elementi organizzazione, professionalità e finalità dà luogo all’attività imprenditoriale in senso civilistico; nel paragrafo seguente verranno esaminate le condizioni affinché un’impresa possa essere definita agricola. Imprenditore agricolo ai sensi dell’art. 2135 del cod civile L’articolo 2135 del codice civile, così come modificato dall’ art. 1, comma 1 del D. Lgs. n. 228 del 2001, non definisce direttamente l’istituto giuridico dell’impresa agricola, ma si limita a caratterizzare la figura dell’imprenditore agricolo stabilendo che: “E’ imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”. Come già anticipato, il D. Lgs. n. 228 del 2001 (c.d legge di orientamento e modernizzazione del settore agricolo) ha apportato sostanziali modifiche all’art. 2135 del c.c. Nello specifico, il primo comma dell’art. 1 del decreto in esame ha ridefinito, in linea con le tendenze evolutive dell’attività svolta in agricoltura, la figura dell’imprenditore agricolo ed ha introdotto delle novità per ciò che concerne le attività espletate dall’imprenditore stesso. In sostanza, mentre la vecchia formulazione dell’ art. 2135 si limitava ad elencare le attività dell’imprenditore agricolo, l’attuale formulazione tenta di ampliare i confini delle attività previste. Dalla lettura del nuovo art. 2135 cod. civ. emerge, infatti, che le attività considerate ai fini della qualifica dello status di imprenditore agricolo possono essere distinte in due categorie: attività essenziali o principali e attività connesse. Attività essenziali o principali Sono considerate tali la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l’allevamento di animali. Per coltivazione del fondo s’intende quell’attività rivolta allo sfruttamento delle energie naturali della terra. Il fondo assume il ruolo di fattore produttivo e non mero strumento. E’indubbio che l’art.2135 nella sua nuova formulazione, ha recepito per definire le attività essenzialmente agricole il criterio cosiddetto biologico, nel senso che ineriscono all’agricoltura le attività volte alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Questo comporta che, con riguardo all’attività di coltivazione del fondo, viene ad essere superata la precedente nozione che veniva definita come il complesso unico e inscindibile del ciclo dei lavori svolti dall’agricoltore per conseguire i prodotti immediati e diretti della terra dalla lavorazione del terreno al raccolto dei prodotti.

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Ora, l’introduzione del criterio del cosiddetto ciclo biologico comporta che l’attività tipicamente agraria della coltivazione del fondo sussiste anche quando si realizza un incremento necessario, sotto il profilo della qualità e della quantità, dello sviluppo vegetativo delle piante. Si può pertanto assumere che un impresa di florovivaismo, anche nell’ipotesi che si avvalga di sofisticate tecniche e di particolari accorgimenti finalizzati allo sviluppo quali-quantitativo della pianta, deve ormai qualificarsi come tipica attività agricola prevista dal nuovo art. 2135 del Codice Civile, che riconosce natura agricola alle iniziative volte alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso di carattere vegetale che utilizzano o possono utilizzare il fondo. La silvicoltura è rappresentata dalla coltivazione del bosco. Può essere considerata una forma speciale di coltivazione del fondo, nella quale non rientra la mera attività estrattiva del legname se è disgiunta dalla coltivazione del fondo. Il D. Lgs. n. 228 del 2001 equipara ora i termini bosco, foresta e selva eliminando alcune ambiguità interpretative sorte in precedenza. Le attività silvicolturali sono considerate fattore di sviluppo dell’economia nazionale, nonché di miglioramento delle condizioni economiche e sociali delle zone montane. A questo proposito degno di nota è quanto contenuto nell’ articolo 8 del decreto legislativo, secondo il quale le cooperative e i loro consorzi che forniscono in via principale, anche nell’interesse di terzi, servizi nel settore silvicolturale, ivi comprese le sistemazioni idraulico-forestali, sono equiparati agli imprenditori agricoli. Il dettato della nuova norma, sostituendo il termine “bestiame” con il termine “animali”, ha inteso superare da un lato le restrittive interpretazioni giurisprudenziali, dall’altro riconoscere a tutta una serie di tipologie di allevamento il presupposto per il riconoscimento di una attività imprenditoriale in agricoltura, indipendentemente dalla presenza o meno di un fondo. La nuova norma civilistica pone così fine a una lunga diatriba in sede dottrinale e giurisprudenziale che, fondata sul significato linguistico del termine bestiame, aveva riconosciuto al solo allevamento degli animali da carne, da lavoro, da latte e da lana, la qualifica di impresa agricola. Con l’introduzione del termine animali, dunque, anche gli allevamenti avicoli, di conigli, di api e di equini rientrano, anche se non correlati necessariamente alla titolarità di un fondo da parte dell’imprenditore, nelle attività agricole. La nuova norma risolve, altresì, un ulteriore contrasto sul significato da attribuire al termine “allevamento”: secondo alcune interpretazioni, infatti, per dar luogo ad allevamento occorre che l’accrescimento consistente nei parti sopravvenuti non possa essere separato da quello determinato dal maggiore valore intrinseco del bestiame al termine del contratto. Secondo altri, invece, la riproduzione dei capi non costituisce carattere di essenzialità ai fini dell’individuazione dell’attività di allevamento. A risolvere ogni dubbio c’e la nuova formulazione dell’art. 2135 del cod. civ. che qualifica come imprenditori agricoli anche coloro che curano anche solo una fase necessaria del ciclo biologico e non necessariamente l’intero ciclo biologico dell’animale In breve, la sola nascita o il solo ingrasso sono considerate fasi necessarie del ciclo biologico di sviluppo e come tali dunque sono da ricondursi alla tipica attività agricola. Relativamente al possesso del fondo, l’art. 1 del d.lgs n. 228 del 2001, nella parte in cui recita “le attività…utilizzano o possono utilizzare il fondo”, chiarisce che il requisito del possesso del fondo non costituisce più un elemento indispensabile per la qualificazione delle attività agricole. Questa innovazione si rivela di estrema importanza perché tiene in debito conto il processo evolutivo subito negli ultimi anni dall’impresa agricola che attraverso il progresso tecnologico è in grado di ottenere prodotti agricoli con tecniche che prescindono dallo sfruttamento della terra. In questo senso, possono essere considerate attività agricole anche la coltivazione idroponica e, in generale, tutte le colture effettuate in ambienti artificiali senza alcun tipo di legame con il fondo. Sono da considerarsi altresì attività agricole la floricoltura, l’orticoltura e la coltivazione di funghi in ambienti quali serre, vivai, ecc., peraltro già considerate agricole secondo l’ottica del ciclo biologico e commerciali secondo coloro che privilegiavano il collegamento con il fondo.

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Attività connesse Prima della modifica dell’art.2135 del Codice Civile, si distingueva fra attività connesse “tipiche” cioè quelle che il legislatore fiscale ha chiaramente indicato nell’articolo stesso e le attività connesse “atipiche” ovvero quelle non nominate che dovevano tuttavia essere collegate o comunque complementari sul piano funzionale ed economico a quelle considerate agrarie di per sé, e cioè e cioè alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura e all’allevamento del bestiame. Tale schema viene sostanzialmente ripetuto nella nuova formulazione dell’art 2135 del Codice Civile non mancando, tuttavia, di far rilevare che sono state introdotte delle sostanziali novità. Di seguito cerchiamo di illustrare come le norme sono cambiate con riferimento alle attività “connesse”, tema questo che ha dato in passato motivo per difformi interpretazioni e notevole contenzioso. Per le attività connesse “tipiche” (vendita e trasformazione del prodotto agricolo realizzato sul fondo) viene abolito il criterio della normalità che era legato all’evolversi del ciclo produttivo e non poteva pertanto assumere un significato univoco, ma era legato all’evolversi del processo produttivo agricolo. Oggi, con la nuova legge orientamento l’impresa agricola è proiettata verso il mercato. Accogliendo questa visione dinamica, sono da ritenersi connesse le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione della produzione agricola come naturale sbocco della attività agricola. Per quanto riguarda le attività appena menzionate la connessione si verifica con il concorso di questi due requisiti:

1. di natura soggettiva ovvero tali attività devono essere esercitata dallo stesso imprenditore agricolo essendo richiesta l’identità soggettiva fra chi compie una delle tre attività essenziali (coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento di animali), e l’attività connessa.

2. di natura oggettiva tali attività devono avere ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dall’attività di coltivazione del fondo o di silvicoltura o di allevamento di animali svolta dall’imprenditore agricolo.

Se l’agricoltore trasmoda questa attività perde il carattere della agrarietà per assumere natura commerciale anche se sussiste un collegamento funzionale ed economico tra le due attività. Altra importante novità scaturisce dal fatto che nella nuova formulazione del 2135 del Codice Civile per qualificare una attività connessa non rilevano i capitali investiti, le attrezzature ovvero gli impianti utilizzati che possono sotto il profilo economico essere preponderanti e superiori alle strutture ed organizzazioni produttive impiegate per l’esercizio della attività agricola principale. Importante è solo che con il processo produttivo si utilizzi come materia prima in modo prevalente il prodotto ricavato dall’azienda agricola. Qui è utile analizzare il concetto di prevalenza. Questo consente all’imprenditore agricolo il ricorso al mercato per acquistare prodotti da destinare alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione sempreché non siano prevalenti rispetto a quelli ottenuti dall’imprenditore attraverso la coltivazione del fondo o del bosco e l’allevamento di animali e integrino il prodotto originario al fine di realizzare un miglior prodotto finale. Siccome tra le attività connesse trova un giusto riconoscimento anche la commercializzazione, risulta naturale considerare il caso di un produttore di fiori che può acquistare da terzi fino al 49% del prodotto necessario e poi ricollocarlo sul mercato, unitamente al proprio, mantenendo la qualifica di imprenditore agricolo anche se ciò non modificherà l’assoggettamento fiscale che in ogni caso rimarrà diverso a seconda che il prodotto derivi dall’attività di produzione o provenga dall’esterno.

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Per quanto si riferisce alle cooperative agricole e ai loro consorzi il requisito dell’identità soggettiva fra una delle tre attività essenziali e le attività connesse viene normalmente derogato in quanto l’art.2135 nell’attuale formulazione prevede che le cooperative di imprenditori agricoli e loro consorzi, quando utilizzano per lo svolgimento delle attività essenzialmente agricole prevalentemente i prodotti dei soci, sono da considerarsi imprenditori agricoli a ogni effetto. Come risulta già evidente dall’analisi fatta fino ad ora si tratta di interventi finalizzati a tenere conto delle profonde trasformazioni registratesi nell’agricoltura italiana soprattutto per la costante apertura dei mercati. Per questo motivo è necessario favorire la riduzione dei costi di produzione nel settore, e per potenziare i collegamenti con settori limitrofi. Vanno inoltre considerate quelle che potrebbero essere le conseguenze di una interpretazione estensiva del criterio di prevalenza. Infatti conseguenza diretta di ciò potrebbe consentire alle piccole imprese agricole di trasformarsi in imprese agricole ed a molte imprese agricole di dilatare la propria attività perdendo il carattere di “agrarietà”. Un effetto collaterale di ciò sarebbe, tra l’altro, il differente regime fiscale e contributivo applicabile a medesime attività con palesi ripercussioni sul piano della concorrenza. Natura giuridica dell’imprenditore agricolo Il Codice civile., relativamente alla natura giuridica del soggetto che esercita l’attività agricola, non prevede alcuna limitazione. La qualifica di imprenditore agricolo, ai sensi del novellato art. 2135 c.c., può dunque spettare sia a persone fisiche che a persone diverse da quelle fisiche (società di persone, società di capitali, società cooperativa, ente pubblico o privato). Il secondo comma dell’art.1 estende la figura dell’imprenditore agricolo, nella sua nuova ridefinizione, alle cooperative di imprenditori agricoli e ai loro consorzi “quando utilizzano per lo svolgimento dell’attività” prevalentemente prodotti dei soci ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico. Quindi nei confronti delle cooperative e consorzi di imprenditori agricoli il richiamo dell’art.2135 del codice civile, ovviamente così come rideterminato dal D.Lgs. 228/2001, è omnicomprensivo di beni e servizi offerti ai soci come ad esempio la definizione di adeguati piani colturali, i mezzi necessari per la conduzione dell’azienda, la fornitura di assistenza tecnica e la utilizzazione di nuove tecnologie, nonché tutti i servizi legati alla raccolta, trasformazione, manipolazione e commercializzazione dei prodotti conferiti dai soci stessi. Questa codifica recepisce le consolidate indicazioni giurisprudenziali secondo le quali si debbono considerare assoggettate allo statuto dell’impresa agricola, ad esempio, le cantine sociali, le latterie sociali ed in genere le cooperative che trasformano prodotti dei soci. Imprenditore agricolo professionale (IAP) L'articolo 1 del decreto legislativo n. 99 del 2004 al primo comma ha integralmente ridefinito la figura dell'imprenditore agricolo. In particolare è stato abrogato l'articolo 12 della legge 9 maggio 1975, n. 153. La vecchia norma considerava imprenditore a titolo principale (IATP) colui che dedica all'attività agricola almeno due terzi del proprio tempo di lavoro complessivo e ricava dall'attività medesima almeno due terzi del proprio reddito globale da lavoro. La nuova figura dell'imprenditore agricolo professionale prevede, invece, che egli debba rispettare i seguenti requisiti:

1. possesso di conoscenze e competenze professionali definite ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999

2. almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo deve essere dedicato alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del c.c., direttamente o in qualità di socio di società

3. almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro deve essere ricavato dalle attività agricole

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Per effetto di quanto disposto dall'articolo 1, comma 4, del decreto legislativo n. 99/2004, qualunque riferimento della vigente legislazione all'imprenditore agricolo a titolo principale (IATP) si intende riferito all'imprenditore agricolo professionale (IAP). Definiti i requisiti, l’art 1 al comma 2 definisce le competenze relative all’accertamento dei requisiti richiesti per la figura dello IAP. Il suddetto articolo recita infatti:“Le Regioni accertano ad ogni effetto il possesso dei requisiti di cui al comma 1. E’ fatta salva la facoltà dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) di svolgere, ai fini previdenziali, le verifiche ritenute necessarie ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 7 dicembre 2001, n. 476”. Da quanto detto emerge che il legislatore, nell’intento di semplificare la questione, ha previsto che il possesso della qualifica di IAP risulti valida anche ai fini previdenziali, riservando all’INPS la facoltà di successive ed ulteriori verifiche nelle fasi del procedimento di iscrizione, variazione e cancellazione dei soggetti tenuti all’obbligo assicurativo, a norma del citato D.P.R. n. 476/2001. Relativamente all’accertamento del reddito, nell’ambito dell’ articolo in questione, è stata introdotta una importante precisazione circa il calcolo globale dello stesso. Al secondo capoverso infatti è sancito che: “le pensioni di ogni genere, gli assegni ad esse equiparati, le indennità e le somme percepite per l’espletamento di cariche pubbliche , ovvero in società, associazioni ed altri enti operanti nel settore agricolo, sono escluse dal computo del reddito globale da lavoro.” Questa precisazione si è rivelata di estrema importanza per diramare qualsiasi dubbio relativamente a quei soggetti che avevano sollecitato il ricorso al contenzioso amministrativo e/o giudiziario per essersi visti negare l’iscrizione alla gestione previdenziale. Società agricole equiparate all’imprenditore agricolo professionale (Soc. agr. IAP) La figura della società agricola Iap è desumibile dalla lettura dell’ art. 1, comma 3, del d. Lgs. n.99 del 2004 (così come modificato dal d. lgs. n. 101 del 2005). Infatti, come nel caso dell’art 10 del D. Lgs. n. 228 del 2001 che, superando le precedenti interpretazioni che restringevano il riconoscimento della qualifica di imprenditore agricolo, di cui all’art. 12 della legge n. 153/1975, alla sola persona fisica, ha esteso tale riconoscimento alle altre persone giuridiche (società di persone, di capitali e cooperative), anche la norma novellata all’art. 1, comma 3, del D. Lgs. in esame (così come modificata dal D. Lgs. n. 101 del 2005), viene incontro alla necessità di favorire lo sviluppo delle forme societarie in agricoltura, riconoscendo oltre alle persone fisiche anche alle società di persone, di capitali e cooperative la qualifica di IAP. La norma prevede, infatti, che possano considerarsi IAP anche le società di persone, di capitali e le cooperative purchè possiedano i seguenti requisiti:

1. la ragione o denominazione sociale deve contenere l’indicazione “società agricola”; 2. l’oggetto sociale deve essere costituito dall’esercizio esclusivo di attività agricola, così come

definita dall’art. 2135 del codice civile; 3. la compagine sociale deve essere costituita da un determinato numero di soggetti in possesso

della qualifica in imprenditore agricolo professionale. In particolare, nelle società di persone almeno un socio deve essere in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale, in quelle di capitali o nelle cooperative almeno un amministratore deve possedere tale qualifica.

Coltivatore diretto La definizione più sintetica, tra quelle contenute nelle leggi che disciplinano il coltivatore diretto, qualificato come piccolo imprenditore dall’art. 2083 del cod.civ., è quella che considera tale il soggetto che “svolga abitualmente e manualmente la propria attività in agricoltura, semprechè, con la forza lavoro propria e del nucleo familiare, sia in grado di fornire almeno un terzo della forza lavoro complessiva richiesta dalla normale conduzione dell’azienda agricola. In altre parole un soggetto può essere considerato coltivatore diretto se rispetta le seguenti condizioni:

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deve dedicarsi all’attività agricola in modo abituale e diretto ed in modo esclusivo e permanente il fondo coltivato deve richiedere un fabbisogno annuo di lavoro non inferiore a 104 giornate la complessiva forza lavorativa del nucleo familiare non deve risultare inferiore a 1/3 di quella occorrente per le normali attività aziendali. Giovane imprenditore La definizione di “giovane imprenditore agricolo” viene introdotta, in attuazione del punto 1 della legge delega n. 38 del 2003, dall’ art. 3 del decreto legislativo n. 99 del 2004 per qualificare, ai fini dell’applicazione della normativa statale in materia fiscale e previdenziale, una serie di interventi atti a favorire l’insediamento e la permanenza nel settore dell’agricoltura dei giovani in età inferiore ai quarant’anni. Secondo la normativa, infatti, è considerato giovane imprenditore agricolo l'imprenditore avente una età non superiore a 40 anni. L'articolo 3 del D. Lgs. n.99 del 2004, poi, prevede agevolazioni fiscali a favore dell'imprenditorialità giovanile in agricoltura. E' prevista, infatti, l'attivazione di un credito di imposta, a titolo di premio relativo al primo insediamento produttivo, per un massimo di 5 mila euro tra il 2004 e il 2008. Ai fini delle imposte sui redditi, il credito non concorre alla formazione del valore della produzione netta, nè dell'imponibile per gli effetti delle imposte sul reddito.

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Profili fiscali

Introduzione L’insieme dei tributi esistenti in uno Stato costituisce un sistema tributario. I tipi più importanti di tributi sono rappresentati dalle imposte e dalle tasse. Le imposte costituiscono prelievi generici effettuati dallo Stato a fronte della spesa pubblica nel suo complesso. Le tasse, invece, costituiscono pagamenti eseguiti da coloro che fanno richiesta di un servizio tipicamente pubblico (scuola, giustizia, ecc.) Il sistema tributario italiano prevede imposte di vario tipo che possono essere raggruppate in due categorie: dirette e indirette. Le imposte dirette colpiscono il reddito o il patrimonio, i segni più evidenti e diretti, cioè, della ricchezza di un soggetto. Le imposte indirette colpiscono il consumo o i trasferimenti di ricchezza, segnali indiretti, cioè, del fatto che l’individuo possiede un reddito o un patrimonio. Nel nostro sistema tributario la principale imposta diretta è l’imposta sui redditi, la quale si suddivide in Imposta sui Redditi delle Persone Fisiche (IRPEF) ed Imposta sui Redditi delle Persone Giuridiche (IRPEG), a seconda della natura dei soggetti passivi del prelievo.La principale imposta indiretta è costituita dall’Iva (imposta sul valore aggiunto). In queste dispense verranno considerate esclusivamente le imposte che riguardano la specifità dell’azienda agraria, rimandando al corso di Diritto Tributario per una trattazione più esaustiva. Nel dettaglio, la trattazione riguarderà – per quanto riguarda l’IRPEF – la tassazione dei redditi fondiari (ed in particolare il reddito agricolo) e – per quanto attiene alle imposte indirette – la cosiddetta “IVA agricola”. L’IRPEF L’IRPEF è un’imposta che va a colpire direttamente il reddito delle persone fisiche. Ai fini dell’applicazione del tributo, il presupposto individuato dal legislatore è rappresentato appunto dal possesso, in denaro o in natura, dei seguenti redditi:

• redditi fondiari; • redditi di capitale; • redditi di lavoro dipendente (o assimilati); • redditi di lavoro autonomo; • redditi di impresa; • redditi diversi.

In questa sede ci soffermeremo esclusivamente sul reddito fondiario data l’importanza che esso riveste per gli imprenditori agricoli. Tuttavia, prima di analizzare nel dettaglio tale argomento, è opportuno ricordare alcune nozioni fondamentali a proposito del meccanismo impositivo. La base imponibile. La base imponibile è data dalla somma dei redditi attribuibili al soggetto di imposta (ovvero il contribuente) al netto degli oneri deducibili (si veda la definizione in seguito). La base imponibile rappresenta quindi una determinazione convenzionale del reddito prodotto dall’individuo nell’esercizio tributario. L’aliquota. L’aliquota è una percentuale da moltiplicare alla base imponibile al fine di ottenere l’importo a carico del contribuente. Poiché l’IRPEF è un’imposta progressiva (ovvero che colpisce maggiormente i redditi più elevati), il valore dell’aliquota da applicare dipende dall’entità della base imponibile (più elevata la base imponibile, più elevata l’aliquota). L’imposta. L’imposta è la somma che il contribuente deve corrispondere all’amministrazione pubblica. Essa è data dall’aliquota moltiplicata per la base imponibile al netto delle deduzioni di imposta.

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Oneri deducibili. Gli oneri deducibili sono tutte le spese sopportati dal contribuente che l’amministrazione pubblica riconosce “a deduzione” della base imponibile. Tali oneri riducono solo la base imponibile e non si sottraggono direttamente all’imposta. Ad esempio, immaginiamo che un contribuente con un reddito da lavoro dipendente pari a €40.000 lordi ed un’aliquota del 35% abbia spese mediche deducibili pari a €5.000. In questo caso l’imposta sarà così determinata (40.000-5.000)*0,35 = €12.250. Detrazioni di imposta. Le detrazioni di imposta sono somme che il contribuente può portare direttamente a riduzione dell’imposta dovuta. Si immagini che il contribuente dell’esempio precedente ottenga i €5.000 a titolo di detrazione di imposta, anziché a titolo di onere deducibile (ad esempio come detrazione per figli a carico, anziché come spese mediche). In questo caso l’imposta sarebbe determinata come segue: 40.000*0,35-5.000 = € 9.000. L’esempio mostra il vantaggio per il contribuente rispetto agli oneri deducibili. Il reddito fondiario In via di prima approssimazione, possiamo affermare che il reddito fondiario, rappresentando i redditi relativi “ai terreni e fabbricati situati nel territorio dello Stato” costituisce un reddito tipico dell’imprenditore agricolo (persona fisica). I redditi prodotti dal possesso di terreni e dalle attività agricole, qualora essi siano in capo ad imprenditori agricoli persone fisiche in possesso di specifiche caratteristiche, sono tassati mediante la determinazione del cosiddetto reddito fondiario. Come vedremo nel seguito, il reddito fondiario è una determinazione “convenzionale” (ovvero presuntiva) del reddito prodotto attraverso il possesso e l’utilizzo di terreni agricoli e fabbricati, e non è calcolato (come invece nel caso delle imprese commerciali) attraverso il calcolo analitico di costi e ricavi.

Esempio: Determinazione del reddito imponibile per imprese agrarie e commerciali

Impresa agraria (Euro)

Impresa commerciale (Euro)

A Ricavi 100.000 100.000 B Costi 85.000 85.000 C = A-B Reddito contabile (ad es. bilancio) 15.000 15.000 D Costi non deducibili Non applicabile 2.000 E Reddito fondiario 10.000 Non applicabile F Reddito Imponibile 10.000 ( E ) 17.000 (C+D)

Dall’esempio si rileva come il reddito imponibile dell’impresa agricola prescinda dalla determinazione analitica dei costi e ricavi, ma sia basata esclusivamente sul valore convenzionale del reddito fondiario. Le nozioni fondamentali relative ai redditi fondiari, approfondite nei paragrafi seguenti, sono:

• la natura convenzionale del reddito fondiario • le tipologie di redditi fondiari (reddito dominicale, agricolo e da fabbricati) • la definizione delle attività che generano reddito agrario (la cosiddetta nozione di

imprenditore agricolo ai fini fiscali) • la determinazione del convenzionale del reddito fondiario

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Definizione di reddito fondiario. La determinazione del reddito delle imprese agricole gestite da persone fisiche (ai fini fiscali) viene effettuata attraverso la nozione di reddito fondiario e non tramite il confronto fra ricavi e costi, come per le imprese commerciali. Secondo l’art. 25, comma 1,del TUIR sono considerati redditi fondiari “quelli inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano”. Da quanto detto emerge che la determinazione del reddito fondiario è una determinazione presuntiva del reddito dell’agricoltore ottenuta applicando tariffe d’estimo stabilite, secondo le norme della legge catastale (art. 25 e 31 del TUIR). In pratica, il reddito imponibile degli imprenditori agricoli non viene determinato sottraendo i costi deducibili ai ricavi ma attraverso l’applicazione di tariffe prestabilite, calcolate sulla base della tipologia dei terreni e dell’attività dichiarata. Il titolare del fondo dichiara quale attività agricola viene svolta sul terreno e gli uffici catastali provvedono a determinare il reddito netto presuntivo ottenibile da tale appezzamento. Ai fini IRPEF, il reddito catastale (e non quello effettivamente conseguito) concorre a formare la base imponibile. Nel dettaglio, il reddito fondiario viene diviso dal legislatore in tre componenti (art. 25 TUIR, comma 2):

1. Reddito dominicale dei terreni (art. 27-31) 2. Reddito agrario (art. 32-35) 3. Reddito dei fabbricati (art. 36-43)

I primi due sono inerenti ai terreni, il terzo, come ovvio, ai fabbricati; il motivo dell’esistenza di due diversi tipi di reddito dei terreni va ravvisato nella possibilità che, su questi beni, venga svolta dell’attività agricola e nella conseguente necessità di distinguere il reddito derivante dal semplice possesso dell’immobile (il reddito dominicale) da quello derivante dall’esercizio della predetta attività ad opera anche di un soggetto diverso dal possessore a titolo di proprietà od altro diritto reale (il reddito agario). Reddito dominicale dei terreni Definizione Per utilizzare la terminologia del legislatore, il reddito dominicale è costituito “dalla parte dominicale del reddito medio ordinario ritraibile dal terreno attraverso l’esercizio delle attività agricole di cui all’art. 32”. Il reddito dominicale è, dunque, quello costituito dalla rendita attribuibile alla mera proprietà del fondo; è il reddito derivante dalla terra nel suo stato naturale e dai capitali in essa stabilmente investiti. Determinazione del reddito dominicale Conformemente a quanto già esposto, il reddito dominicale viene determinato mediante l’applicazione delle tariffe d’estimo stabilite dalla legge catastale per ciascuna qualità e classe di terreno. Ai fini della determinazione del reddito dominicale, quindi, non si fa riferimento a quanto effettivamente percepito, bensì ad un valore catastale stimato sulla base dell’estensione del terreno, della zona in cui si trova e della coltura praticata. Dal 1 gennaio 1997 vige una nuova disposizione secondo cui la tariffa d’estimo, che esprime il reddito dominicale, deve essere rivalutata dell’80%. Per quanto riguarda il reddito dominicale derivante dalle superfici adibite a colture prodotte in serra o alla funghicoltura, mancando la corrispondente qualità nel quadro di qualificazione catastale, il suo valore viene determinato mediante l’applicazione della tariffa d’estimo più alta in vigore nella provincia.

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Imputazione del reddito dominicale Il reddito dominicale viene imputato al proprietario del terreno o a colui che possiede un diritto reale su di esso. Pertanto i soggetti passivi d’imposta ovvero i soggetti tenuti a dichiarare il reddito dominicale sono i titolari di uno dei seguenti diritti sul terreno:

• proprietà; • enfiteusi; • superficie; • usufrutto; • uso; • oneri reali (censi, livelli, colonie perpetue, ecc.).

Nel caso di terreni concessi in affitto per uso agricolo, il proprietario/dichiarante dovrà dichiarare esclusivamente il reddito dominicale senza alcun riferimento al canone di locazione percepito. L’unico caso in cui deve essere dichiarato il canone percepito si verifica allorquando esso risulti inferiore all’80% della rendita catastale. Se i terreni vengono concessi in locazione per altri usi (svolgimento di attività, esposizioni commerciali, ecc.), il canone riscosso rientrerà nella categoria dei redditi diversi. Variazioni del reddito dominicale. Il reddito dominicale può variare (in aumento o in diminuizione) per effetto del verificarsi di particolari eventi, indicati nell’art. 29, i quali, qualora non siano riconducibili a circostanze transitorie o a deterioramenti intenzionali, comportano revisioni del classamento dei terreni e della relativa rendita catastale. In particolare, costituisce variazione in aumento la sostituzione di una coltura con un’ altra di qualità superiore. Sono considerate invece variazioni in diminuizione la sostituzione di una coltura allibrata in catasto con altra di qualità inferiore e la riduzione della capacità produttiva del terreno per naturale esaurimento o per eventi fitopatologici o entomologici interessanti le piantaggioni, a condizione, però, che ciò non avvenga a causa di deterioramenti intenzionali o di circostanze transitorie. A proposito della transitorietà, il legislatore ha previsto e disciplinato anche i casi in cui il reddito dominicale possa subire a causa di circostanze transitorie, delle variazioni in diminuizione. In particolare, se un fondo rustico, costituito per almeno due terzi da terreni qualificati come coltivabili a prodotto annuale, non sia stato coltivato, neppure in parte, per un’intera annata agraria e per cause dipendenti dalla tecnica agraria, il reddito dominicale viene imputato al possessore del fondo nella misura del 30% per l’anno in cui si è chiusa l’annata agraria (art. 31, comma 1); in caso, invece, di perdita per eventi naturali (autocombustione, fulmine, ecc.) di almeno il 30% del prodotto ordinario del fondo, il reddito dominicale non concorre a formare il reddito del possessore per l’anno in cui si è verificata la perdita. Sia nel caso delle variazioni permanenti indicate dall’art. 29 che in quello delle perdite transitorie del prodotto appena indicate, il legislatore ha stabilito l’obbligo di denunciare l’evento entro particolari termini e secondo specifiche modalità. Reddito agrario Definizione Il reddito agrario è costituito “dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati, nei limiti della potenzialità del terreno, nell’esercizio di attività agricole su di esso”. Il reddito agrario è, dunque, quello dell’agricoltore, quello di colui che coltiva il fondo, direttamente o mediante l’opera di terzi; esso, pertanto, deriva dallo sfruttamento del fondo, dalla combinazione tra il capitale d’esercizio ed il lavoro di organizzazione per lo svolgimento di attività agricole sullo stesso fondo.

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Determinazione del reddito agrario Anche il reddito agrario è determinato sulla base delle risultanze catastali. Nei casi in cui, cioè, si svolgano attività atte a produrre reddito agrario, la determinazione del reddito avviene per via forfetaria, in quanto effettuata mediante l’applicazione delle tariffe d’estimo, indicate dalla legge catastale per ogni qualità e classe di coltura, che tengono in considerazione il totale delle spese di conservazione del capitale e i costi di produzione, compresi i compensi di lavoro, intellettuale e manuale, e i contributi assicurativi. In particolare, fino all’entrata in vigore delle nuove tariffe d’estimo, il reddito agrario così definito, deve essere rivalutato con l’applicazione di un coefficiente pari al 70%. Per la determinazione del reddito agrario relativo alle superfici adibite a colture protette in serra o alla funghicoltura si applica quanto già menzionato a proposito del reddito dominicale. Attività che producono reddito agrario Affinché l’attività imprenditoriale venga tassata come reddito agrario (anziché come reddito di impresa, che costituisce un regime più oneroso) non è sufficiente essere imprenditore agricolo ai sensi dell’art. 2135 del c.c. Poiché il reddito agricolo usufruisce di una tassazione convenzionale, mediamente più favorevole per il contribuente, il Legislatore ha voluto individuare i potenziali destinatari della norma in maniera restrittiva, affinché solo specifiche categorie di agricoltori potessero beneficiare del regime. Esistono quindi imprenditori agricoli che pagano l’imposta sui redditi di impresa anziché sul reddito agricolo. La prima (e più ampia) categoria è costituita dagli imprenditori agricoli organizzati in forma societaria, quali, ad esempio, le cooperative o altre società assimilate agli imprenditori agricoli professionali. Tali enti sono assoggettati all’IRPEG e tale imposta prevede esclusivamente il reddito di impresa. Per quanto attiene le persone fisiche, la qualificazione del reddito come agrario dipende esclusivamente dall’attività svolta. Seguendo la definizione civilistica, sono considerate attività generatrici di reddito agrario la coltivazione del fondo, la silvicoltura, l’allevamento degli animali, la produzione di vegetali e le attività connesse, ma solo se sono rispettate le seguenti due condizioni.

1. L’allevamento di animali da luogo ad attività agricola solo se esso viene espletato con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno.

2. La coltivazione del fondo e la silvicoltura sono generalmente considerate attività agricole. Tuttavia, le attività dirette alla produzione di vegetali, tramite l’utilizzo di strutture fisse o mobili (ad esempio serre o colture idroponiche), anche provvisorie, sono considerate agricole se la superficie adibita alla produzione non eccede il doppio di quella del terreno su cui la produzione stessa insiste.

Le attività connesse, previste dall’art. 2135 del cod. civ., inerenti la manipolazione, la conservazione, la trasformazione, la commercializzazione e la valorizzazione, anche se non svolte sul terreno, di prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo, del bosco o dall’allevamento di animali, devono riferirsi ai beni individuati ogni due anni con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze su proposta del Ministro per le politiche agricole e forestali. Relativamente, dunque, all’allevamento degli animali, alla produzione di vegetali e alle attività connesse esistono dei limiti circa la loro attitudine a produrre reddito agrario. Qualora tali attività dovessero superare i limiti previsti, nello specifico se l’allevamento degli animali viene espletato con mangimi ottenuti utilizzando meno di un quarto del terreno, se la superficie adibita alla produzione di vegetali supera il doppio di quella del terreno su cui la produzione insiste e se le attività di conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti ottenuti dalla coltivazione del fondo, del bosco o dall’allevamento degli animali non si riferiscono ai beni individuati con decreto ministeriale, l’attività viene considerata commerciale e produttiva di reddito d’impresa. Pertanto, ai fini del calcolo del reddito agrario, il reddito relativo all’eccedenza viene assoggettato a tassazione non sulla base di tariffe d’estimo catastale, bensì secondo le regole

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previste per i redditi d’impresa. A tal proposito, va segnalato che la Finanziaria 2004 ha introdotto una nuova disposizione, confluita nell’art. 56 bis del nuovo Tuir, che prevede una specifica disciplina per le attività agricole che eccedono i limiti suddetti. Imputazione del reddito agrario I soggetti tenuti a dichiarare il reddito agrario sono i contribuenti che esercitano su un fondo un’attività agricola di coltivazione, di silvicoltura o di allevamento, a prescindere dal presupposto giuridico che li lega al fondo, sia esso un diritto di proprietà, un altro diritto reale, oppure lo conducano sulla base di un contratto di locazione. In quest’ultimo caso, l’obbligo di dichiarare il reddito decorre dalla di effetto del contratto. Nei casi di conduzione associata del fondo (mezzadria, colonia parziaria e soccida) il reddito agrario concorre a formare il reddito complessivo di ciascun associato per la quota di sua spettanza. La quota di reddito agrario da indicare è quella relativa alla percentuale di partecipazione e al periodo di durata del contratto. Tale percentuale deve risultare da un apposito atto sottoscritto da tutti gli associati. In mancanza di tale atto la partecipazione si presume ripartita in parti uguali. Perdite per mancata coltivazione e per eventi naturali Nel caso di mancate coltivazioni e di perdite, determinate da eventi naturali, di almeno il 30% del prodotto ordinario, il reddito agrario si considera inesistente e dunque non viene sottoposto a tassazione. Redditi dei fabbricati Il reddito dei fabbricati è costituito dal reddito medio ordinario ritraibile dalle unità immobiliari urbane dove per unità immobiliari urbane si intendono i fabbricati e le altre costruzioni stabili o le loro porzioni suscettibili di reddito autonomo. Ed è proprio alla stregua della mancanza di tale ultimo requisito che devono considerarsi non produttivi di reddito da fabbricati:

• le unità immobiliari destinati esclusivamente all’esercizio del culto; • le unità immobiliari per le quali sono state rilasciate licenze, concessioni o autorizzazioni

per restauro, risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia, limitatamente al periodo di validità del provvedimento durante il quale l’unità immobiliare non è comunque utilizzabile.

• le unità immobiliari destinate alla abitazione delle persone addette alla coltivazione della terra, alla custodia dei fondi, del bestiame e degli edifici rurali e alla vigilanza dei lavoratori agricoli;

• le unità immobiliari destinati al ricovero di animali, alla custodia delle macchine, degli attrezzi, alla protezione delle piante, ecc.

Anche i redditi dei fabbricati sono determinati catastalmente mediante l’applicazione di tariffe d’estimo stabilite secondo le norme della legge catastale per ciascuna categoria e classe o, nel caso di fabbricati a destinazione speciale o particolare, mediante stima diretta. La stima censuaria per la determinazione dei redditi dominicali ed agricoli La stima censuaria è l’insieme delle operazioni necessarie per determinare le tariffe d’estimo al fine di stabilire il censo, cioè l’imposta fondiaria. I diversi criteri estimativi, contenuti negli appositi “quaderni di stima”, adottati dal 1887 sino ad oggi sono riassunti nella tabella seguente, che riassume l’evoluzione storica della normativa:

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Legge in forza Periodo di vigenza Criteri adottati Legge fondamentale 1° Marzo 1886, n° 3682 e Reg. 2 Agosto 1887 n° 4871)

Dal 1887 al 1905 vennero prese in esame le particelle tipo, Comune per Comune, assumendo nelle stime, per i prodotti le quantità medie del dodicennio 1874/1895 e per i prezzi la media dei tre anni di minimo prezzo registratisi nel periodo medesimo

Legge 26 Gennaio 1905 n° 5 dal 1905 al 1923 vennero prese in esame le particelle tipo scelte nei comuni ed assunti prodotti e prezzi come sopra

R.D.L. 7 Gennaio 1923 n° 17 dal 1923 al 1939 si considerarono le particelle tipo scelte nei Comuni tipo, però furono assunte le medie dei prodotti e prezzi del decennio 1904/1913, salvo i prezzi con notevole tendenza al rialzo o al ribasso, per i quali si prese la media del triennio 1911/1913

Legge 29 Giugno 1939 n° 976 (seconda revisione generale degli estimi)

nel 1939 vennero prese in esame le aziende tipo scelte nei comuni tipo ed applicati, alle medie dei prodotti e spese, i prezzi nel triennio del triennio 1937/1939

D.M. Finanze 13/12/1979 (terza revisione generale degli estimi)

Conclusasi nel 1988 alle medie ordinarie dei prodotti e spese sono stati applicati i prezzi medi del biennio 1978/1979

D.M. 20 gennaio 1990 (quarta revisione generale degli estimi)

conclusasi nel 1992 revisione basata sui prezzi medi dei prodotti e delle spese correnti nel biennio 1988/1992

Il territorio nazionale è stato suddiviso in 21 zone censuarie, aree molto omogenee sotto il profilo dell’ordinamento colturale e delle aziende agrarie, ognuna delle quali, a sua volta, viene suddivisa in sezioni comprendenti Comuni che presentino una certa uniformità topografica ed agronomica. A sua volta in ciascuna sezione (attualmente sono state individuate 300 sezioni) viene identificato e scelto il Comune tipo o Comune di studio. Tale comune riunisce in sé le colture tipiche, le caratteristiche e le condizioni medie degli altri comuni della medesima sezione. Infine, in ciascun comune tipo viene scelto un numero sufficiente di aziende agrarie tipo, ordinarie (aziende di studio). L’azienda tipo deve riunire i sistemi di conduzione e lavorazione dei prodotti che siano rappresentativi di tutte le aziende della stessa sezione. Di norma, e quando è possibile, viene preferita l’azienda semplice cioè di classe e qualità uniforme (formata, ad esempio, da solo seminativo di classe prima o seconda) evitando, a causa della maggiore complessità nell’elaborazione della ripartizione dei redditi e per i conseguenti risultati meno precisi, l’azienda complessa, formata cioè da particelle con qualità e classe diverse. Lo stesso legislatore ha sancito nel punto III dell’art. 109 R.D. 12/10/1933 n° 1539 che “fra i differenti metodi di stima applicabili, dovrà preferirsi in ogni caso il più semplice.” Una volta effettuata la scelta dell’azienda tipo, dai documenti catastali si rilevano:

• il proprietario dell’azienda; • superficie, qualità e classe delle singole particelle; • i numeri di mappa indicanti le particelle che formano l’azienda.

Le particelle catastali della medesima qualità e classe vengono raggruppate indicandone l’estensione complessiva mentre le tariffe d’estimo dei boschi vengono determinate a parte cioè non sono incluse nel bilancio aziendale. Infine vanno ricercate tutte le notizie utili ai fini del bilancio aziendale e più specificatamente:

• sistema di conduzione aziendale prevalente nei Comuni della sezione censuaria; • la produzione lorda vendibile, secondo la media degli ultimi 5-6 anni, al netto degli infortuni

ordinari quali ad esempio inondazioni, grandine, malattia. Vanno quindi rilevate la qualità delle colture praticate nelle rotazioni, la quantità media dei prodotti zootecnici vendibili. I prodotti da considerare sono quelli venduti in misura maggiore nella località;

• spese medie annue • i prezzi medi dei prodotti, materiali manodopera nel periodo 1978-1979.

Infine viene calcolato il reddito dominicale (sottraendo ai proventi di spettanza padronale i relativi costi) e quello agrario (sottraendo ai proventi di spettanza del coltivatore i relativi costi).

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Una volta determinati il reddito dominicale e agricolo dell’azienda di studio si passa alla fase successiva che consiste nella determinazione delle relative tariffe unitarie. Quest’operazione consiste nel ripartire ognuno dei suddetti redditi fra le particelle che formano l’azienda al fine di calcolarne l’incidenza per ha di quella determinata qualità e classe. Si riporta, a titolo di esempio la modalità di determinazione delle tariffe per una azienda semplice, essendo quest’ultimo il metodo più semplice e sicuro a cui viene dato preferenza. Le tariffe si determinano dividendo la somma dei redditi dominicali e quella dei redditi agricoli per la somma totale delle superfici delle aziende di studio, escludendo le aree dei fabbricati rurali. ESEMPIO AZIENDA

QUALITA’ SUPERFICIE Ha A

CLASSE RD EURO

RA EURO

1 VIGNETO 10 15 2 4.904,49 1.471,35 2 VIGNETO 30 35 2 15.487,87 4.904,49 TOTALI 40 50 20.392,36 6.375,84 Tariffa RD 20.392,36 : 40,50 = 503,51 Euro/ha Tariffa RA 6.375,84 : 40,50 = 157,43 Euro/ha Le tariffe stabilite tramite l’esame delle qualità e classi di terreno delle aziende di studio vengono applicate agli altri comuni del circolo censuario mediante scale di merito e collegamento, ossia una serie di coefficienti di merito che rappresentano il merito di ciascuna qualità e classe rispetto a quelle del comune tipo. Una volta assegnati i coefficienti di merito a ciascuna qualità e classe, tramite paragone con quelle omogenee del comune tipo a cui viene assegnato il valore 100 di coefficiente, si determinano le tariffe della qualità e classi degli altri comuni del circolo censuario. Ex art. 56, legge n° 549/1995 anche i Comuni possono concorrere alla formazione delle tariffe d’estimo.

COMUNE TIPO COMUNE DI………. Qualità Classe Coeff. Tariffa Coeff. Tariffa Semin. Irr. Sem. Arb. Vigneto

1a

2 a 3 a

100 100 100

361 Euro 336 Euro 620 Euro

1,00 0,90 1,10

361 336 x 0,90 = 302 620 x 1,10 = 682

L’Imposta Comunale Immobili (ici) L’ICI è una imposta comunale annua che colpisce i beni immobili ( fondi rustici, suoli edificatori e fabbricati urbani), in funzione del loro valore. Tale imposta è entrata in vigore il 01/01/1993, istituita dal d.lgs 504/92, in attuazione della legge delega 421/92. Il legislatore ha previsto tre aliquote, 4 0/00- 5 0/00-6 0/00 (eccezionalmente il 70/00) che i Comuni potranno adottare a seconda delle loro esigenze di bilancio. Il valore imponibile degli immobili, cioè il valore sul quale va poi calcolato l’aliquota, si ottiene moltiplicando i redditi imponibili catastali per dei coefficienti stabiliti dal legislatore. In particolare, per quanto concerne i terreni agricoli e relativi fabbricati rurali, compresi gli alloggi dei coltivatori (sono esclusi i suoli edificatori per i quali il valore imponibile è quello determinato dall’incontro della domanda e dell’offerta), il coefficiente è pari a 75 e viene moltiplicato per il reddito dominicale, assunto come valore imponibile ICI ( in forza dell’art. 3 commi 48-51 legge 662/1996, ai coefficienti RD è stato applicato un coefficiente di rivalutazione pari a 1.25 per tener conto degli andamenti del mercato). Per quanto concerne i terreni posseduti e direttamente condotti da imprenditori a titolo principale (inclusi i coltivatori diretti a titolo principale) essi sono soggetti ad ICI esclusivamente per la parte del loro valore imponibile che supera i 50 milioni (se non superano tale valore si è esenti dall’imposta). Per il valore imponibile eccedente i 50 milioni sono previsti (ex art. 9 d.lgs 504/92) i seguenti scaglioni:

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fino al valore imponibile di 50 milioni esente da 50 a 120 milioni – cioè su 70 milioni riduzione del 70% da 120 a 200 milioni, cioè su 80 milioni riduzione del 50% da 200 a 250 milioni- cioè su 50 milioni riduzione del 25% Oltre 250 milioni di valore- nessuna riduzione

Ad esempio, si immagini il caso di un imprenditore agricolo proprietario1 di fondi rustici, ricadenti tutti nel territorio di uno stesso Comune, che abbia un Reddito Dominicale pari a £ 6.400.000 e si veda applicare un’aliquota pari al 60/00. Il valore imponibile dei terreni sarà pari a £6.400.000 × 75 = 480.000.000 e l’imposta che il soggetto dovrà versare è indicata nel sottostante specchietto illustrativo:

fino a £ 50.000.000 esenzione 30% di 70.000.000 = £ 21.000.000 il 6 0/00 126.000 £ 50% di 80.000.000 = 40.000.000 il 6 0/00 240.000 £ 75% di 50.000.000 = 37.500.000 il 6 0/00 225.000 £ sui 230.000.000 il 6 0/00 1.380.000£ 480.000.000 totale imposta 1.971.000 £

IVA in agricoltura Profili generali L’imposta sul valore aggiunto è un’imposta indiretta sui consumi che si applica solo sul valore aggiunto, sull’incremento, cioè, di valore che si realizza nei vari passaggi di beni e servizi. L’imposta si applica sulla cessione dei beni e sulla prestazione dei servizi allorquando si verifichino i presupposti seguenti:

• si deve trattare di una cessione di beni o di una prestazione di servizi cosi come risultanti dalla normativa vigente;

• le suddette cessioni e prestazioni devono essere effettuate nell’esercizio di impresa o di arti e professioni, non sono dunque soggette ad Iva le cessioni e le prestazioni effettuate da privati;

• le operazioni devono essere effettuate all’interno del territorio dello Stato italiano. La tassazione è articolata sulla base di un meccanismo di compensazione fra debiti e crediti verso l’Erario, che derivano dalla funzione di sostituto di imposta svolta di volta in volta dagli operatori. Il meccanismo di base è molto semplice e può essere illustrato con un esempio. Si immagini un dettagliante che acquista un prodotto per €100 da un fornitore e lo rivende ad un consumatore per €200. Il valore aggiunto in questo caso è dato dalla differenza fra il volume di affari (200) ed i costi (100) ovvero: Valore aggiunto = 200 - 100 = 100. Il dettagliante dovrebbe pagare un’imposta ottenuta moltiplicando il valore aggiunto per l’aliquota. Se applichiamo un’aliquota IVA del 20% otteniamo 100*0,2 = 20. Tuttavia il Legislatore anziché tassare direttamente il valore aggiunto ha applicato il seguente meccanismo:

1 Se il soggetto non ha la qualifica di imprenditore agricolo o di coltivatore diretto non si operano le riduzioni di cui sopra.

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1. Il fornitore riscuote dal dettagliante i €100 di costo del prodotto più €20 di tasse (ovvero 100*0,2 , il prezzo per l’aliquota). In tal modo il dettagliante ottiene un credito verso l’erario di €20, poiché ha anticipato l’imposta. Ugualmente il fornitore ha un debito verso l’amministrazione finanziaria di €20, poiché ha riscosso la tassazione dovuta all’Erario.

2. Il dettagliante riscuote dal consumatore €200 “più IVA”, ovvero 200+200*0,2 = €240. I €40 costituiscono un debito del dettagliante verso l’erario in quanto somme riscosse come sostituto di imposta.

3. Gli operatori commerciali compensano i debiti con i crediti e pagano all’Erario l’eventuale differenza. Il dettagliante sottrae ai €40 di debito i €20 di credito e versa €20 (pari esattamente alla tassazione sul valore aggiunto). Il fornitore paga i €20 poiché nel nostro esempio non ha crediti.

Si noti che:

a) L’IVA non è un costo per le imprese. Infatti sia il dettagliante che il fornitore si limitano a versare le somme riscosse dai loro clienti.

b) L’IVA è un costo solo per il consumatore, il quale non recupera l’incremento nel prezzo pagato al dettagliante.

c) La somma delle imposte pagate dagli operatore è esattamente pari al valore che si ottiene moltiplicando il prezzo finale del bene (€200) per l’aliquota. Il valore complessivo dell’imposta non dipende dal numero di intermediari.

Regimi IVA in agricoltura L’art. 5 del D.Lgs. n. 313 del 1997 ha profondamente modificato, a partire dal 1° gennaio 1998, il regime speciale Iva per l’agricoltura disciplinato dall’ art. 34 del D.P.R. n. 633 del 1972. Attualmente, la disciplina Iva valida per gli imprenditori agricoli contenuta nel nuovo art. 34 prevede i seguenti regimi:

• regime speciale; • regime semplificato; • regime di esonero; • regime ordinario.

Regime speciale E’ considerato speciale quel regime di detrazione dell’Iva in cui essa viene calcolata in via forfetaria attraverso l’applicazione di percentuali di compensazione sull’ammontare delle cessioni dei prodotti agricoli. I soggetti che possono avvalersi di tale regime sono i seguenti:

• produttori agricoli che esercitano, sia individualmente che in forma associata, le attività di cui all’art. 2135 del cod.civ.;

• organismi di intervento in agricoltura – A.G.E.A.- a prescindere dal volume di affari; • cooperative di produttori agricoli ed i loro consorzi che, per conto dei soci, effettuano la

vendita dei prodotti conferiti.2 Inoltre, in seguito alle modifiche apportate dal D. Lgs. n. 228 del 2001, il regime speciale può essere applicato anche:

• alla manipolazione, conservazione, trasformazione e commercializzazione diretta dei propri prodotti;

• alla manipolazione, conservazione, trasformazione e commercializzazione diretta di prodotti acquisiti da terzi, rispettando, però, il principio di prevalenza; l’ammontare, cioè, di questi ultimi prodotti non deve essere superiore a quello proveniente dal proprio fondo.

2 Per i soggetti sopra elencati, il regime speciale si applica solo alla cessione di prodotti agricoli ed ittici elencati nella tabella A, parte I allegata al D.P.R. n. 633 a patto che il loro acquisto sia stato assoggettato ad Iva.

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Come già visto, il regime speciale costituisce un regime di detrazione dell’Iva. Prevede, cioè, con riferimento al calcolo dell’Iva dovuta, la possibilità di detrarre dall’Iva relativa alle operazioni normalmente imponibili un ammontare calcolato in base a delle percentuali di compensazione stabilite da appositi D.M.. In altre parole, cioè, l’Iva dovuta è ottenuta per differenza tra l’Iva sulle vendite, calcolata in base alle aliquote ordinarie, e l’Iva sugli acquisti, calcolata applicando sull’ammontare delle vendite le percentuali di compensazione.

ESEMPIO:

Si prenda un imprenditore agricolo che ha prodotto e ceduto piante da esterni per un totale di euro 7.000 esclusa Iva. In tal caso le percentuali da applicare sono le seguenti: • aliquota ordinaria Iva: 10% • percentuale di compensazione: 4% Il calcolo dell’Iva è il seguente: • Iva relativa sulle vendite: 7.000 x 10% = euro 700 • Iva relativa agli acqusti: 7.000 x 4% = euro 280 • Iva dovuta: 700 – 280 = euro 420

Fino al 31 dicembre 2004 il regime speciale è stato applicato a tutti gli agricoltori indipendentemente dal volume d’affari realizzato; dal 1 gennaio 2005, invece, solo agli agricoltori che nell’anno precedente avevano realizzato un volume d’affari non superiore a 20.658,28 euro e rappresentato per almeno due terzi da cessione di prodotti agricoli e ittici di cui alla Parte I della tabella A allegata al D.P.R. n. 633 del 1972. Il regime speciale non si applica alle seguenti operazioni:

• cessioni di prodotti agricoli di cui alla Parte I della Tabella A, qualora l’acquisto derivi da atto non assoggettato ad Iva;

• cessioni di beni diversi da quelli inclusi nella Tabella A, Parte I; • prestazioni di servizi; • cessioni di beni inclusi nella Tabella A, Parte I, acquisiti da terzi, qualora i prodotti acquisiti

da terzi siano superiori a quelli di produzione propria. Le operazioni in questione devono essere registrate distintamente ed essere indicate separatamente nella liquidazione e dichiarazione annuale. I produttori agricoli possono optare per il regime ordinario in luogo di quello speciale solo se hanno un volume d’affari superiore a 20.658, 28. Il passaggio dal regime speciale a quello ordinario comporta la necessità di procedere alla rettifica della detrazione soltanto per i beni presenti in azienda e non ancora ceduti. Nel caso, invece, di passaggio dal regime ordinario a quello speciale sui beni giacenti e non ancora ceduti deve essere determinata l’Iva detratta nel regime ordinario. A tal fine, il calcolo dell’Iva si effettua applicando le percentuali di compensazione vigenti al momento della rettifica. Regime semplificato Il regime Iva semplificato si applica agli imprenditori agricoli che possiedono determinati requisiti e differisce da quello speciale soprattutto per i ridotti adempimenti contabili I soggetti in regime semplificato, infatti, dovendo versare l’Iva in una unica soluzione annuale, sono esonerati

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dall’obbligo delle liquidazioni periodiche e dei relativi versamenti.. Anche in questo caso l’Iva dovuta si calcola per differenza tra l’Iva sulle vendite, calcolata in base alle aliquote ordinarie, e l’Iva sugli acquisti, calcolata applicando sull’ammontare delle vendite le percentuali di compensazione. Il regime semplificato si applica alle imprese agricole che nell’anno precedente hanno realizzato un volume d’affari compreso fra 2.582,28 euro ( 7.746,85 euro per i comuni montani) e 20.658,28 e il cui volume d’affari sia costituito per almeno due terzi da cessione di prodotti agricoli e ittici compresi nella Parte I della Tabella A allegata al D.P.R. n. 633 del 1972. Se viene superato il limite del volume d’affari di 20.658,28 euro, il regime semplificato cessa di avere applicazione dall’anno successivo a quello di superamento. Qualora, invece, nel corso dell’anno venga superato il limite di un terzo del volume d’affari, mediante cessioni di prodotti non agricoli o di prestazioni di servizi, il regime semplificato cessa immediatamente. Regime di esonero Il regime in questione riguarda essenzialmente gli agricoltori che esercitano attività di piccolissime dimensioni e consiste in un esonero completo dagli obblighi documentali e contabili (registrazione, fatturazione, liquidazione periodica, versamento e dichiarazione annuale). Il regime di esonero riguarda i produttori con volume d’affari, costituito per 2/3 da cessioni di prodotti inclusi nella Parte I della Tabella A, non superiore a 2.582,28 euro indipendentemente dal luogo in cui esercitano l’attività e non superiore a 7.746,85 se l’attività è esercitata nei comuni montani con meno di 1.000 abitanti. Il regime di esonero si applica anche ai produttori con volume d’affari pari a zero. Gli agricoltori assoggettati a tale regime dunque sono esonerati dal versamento dell’imposta, dagli obblighi di fatturazione, registrazione e liquidazione periodica e dall’obbligo di presentazione della comunicazione e dichiarazione annuali. Relativamente al volume d’affari, se viene superato il limite di 2.582,28 (sempre che risulti composto per almeno 2/3 da prodotti agricoli), il regime di esonero cessa a partire dall’anno solare successivo a quello in cui viene superato il limite. Se viene superato, invece, il limite di un terzo delle cessioni di beni non agricoli, il regime di esonero cessa nel corso dello stesso anno. Regime ordinario Il regime ordinario permette agli imprenditori agricoli, in materia di Iva, di comportarsi come tutti gli altri contribuenti. In tale ipotesi, infatti, la determinazione dell’imposta avviene applicando le normali regole valide per tutti i soggetti Iva. L’Iva dovuta, cioè, si determina per differenza tra l’Iva sulle vendite, calcolata applicando le aliquote ordinarie, e l’Iva sugli acquisti, calcolata applicando le aliquote ordinarie. I contribuenti soggetti a regime ordinario sono:

• tutti i produttori agricoli con volume d’affari superiore a 20.658,28 euro che dal 1° gennaio 2005 non possono più optare per il regime speciale;

• gli altri agricoltori per opzione. Gli agricoltori in regime ordinario sono assoggettati a tutti gli adempimenti relativi all’Iva e previsti per gli altri contribuenti (tenuta dei registri, liquidazioni periodiche, presentazione della dichiarazione annuale ecc.) Come già accennato, gli agricoltori in regime speciale possono optare in qualsiasi istante per il regime ordinario fermo restando l’obbligo di esercitare l’opzione nei modi e nei tempi previsti dalla normativa.

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ESEMPIO: confronto fra i regimi di IVA agricola acquisti 10.000 vendite 20.000 aliquota IVA ordinaria 20% aliquota IVA di compensazione 15% regime ordinario regime speciale regime semplificato regime di esonero IVA Debito 20.000*0,2= 4.000 20.000*0,2= 4.000 20.000*0,2= 4.000 esonero 0 IVA Credito 10.000*0,2= 2.000 20.000*0,15= 3.000 20.000*0,15= 3.000 esonero 0 Imposta 4.000-2.000= 2.000 4.000-3.000 = 1.000 4.000-3.000 = 1.000 esonero 0 versamenti trimestrali da € 500 trimestrali da € 250 annuale da € 1000 esonero 0

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Profili previdenziali

Il lavoro agricolo pur essendo regolato, in via generale, dai normali istituti giuridici deputati alla disciplina dei rapporti di lavoro, presenta alcune peculiarità riconducibili alla particolarità dell’attività e alle connotazioni localistiche che la stessa ha tradizionalmente assunto. La condizione del lavoratore agricolo si presenta sicuramente più flessibile rispetto agli altri comparti sia perché più di altre legata agli eventi climatici, sia perché la lunga tradizione del comparto, caratterizzata da usi e consuetudini radicate, ha sviluppato forme contrattuali legate alla evoluzione della proprietà contadina. I rapporti di lavoro all’interno del comparto agricolo sono regolati su due livelli, uno nazionale ed uno provinciale. Il contratto nazionale ha la funzione di regolare il sistema di relazioni tra datori di lavoro e prestatori d’opera, le condizioni normative ed economiche relative alle diverse prestazioni, nonché il ruolo e le competenze attribuibili alla contrattazione provinciale. Quest’ultima solitamente è chiamata a disciplinare i livelli salariali territoriali, gli orari di lavoro, e altri contenuti variabili in relazione alla delega stabilita dalla regolamentazione contrattuale nazionale. Quindi abbiamo una disciplina generale ed una legata al livello territoriale che trova giustificazione nel fatto che le tradizioni in materia di lavori e prestazioni agricole risultano ampiamente diversificate sul territorio nazionale. Le tipologie contrattuali presenti in agricoltura sono del tutto identiche a quelle presenti negli altri settori; è quindi prevista la possibilità di contratti di formazione, di apprendistato, ed è regolata la figura del part-time e dei contratti di lavoro temporaneo. I lavoratori del comparto agricolo sono classificati sulla base di “aree professionali”, per le quali la contrattazione nazionale stabilisce il profilo generale, demandando alla contrattazione provinciale l’esatta individuazione delle mansioni, dei relativi profili professionali, e dei parametri retributivi. Le aree individuate dall’ultimo contratto nazionale del comparto (1998) sono tre: 1^ area: lavoratori in possesso di titoli e conoscenze per lo svolgimento di lavori complessi e richiedenti specializzazione; 2^ area: lavoratori adibiti allo svolgimento di compiti esecutivi per l’esecuzione dei quali è però necessario il possesso di capacità professionali che possono essere state acquisite anche attraverso l’esperienza; 3^ area: lavoratori utilizzati per lo svolgimento di mansioni generiche non richiedenti specifici requisiti professionali L’orario di lavoro dei dipendenti agricoli si svolge di norma in 39 ore settimanali, con un monte ordinario di ore giornaliere pari a 6,30. E’ prevista, in relazione alla natura dell’attività agricola, la possibilità che i contratti provinciali possano stabilire particolari periodi dell’anno nei quali il monte ore settimanale ordinario è aumentato. Gli elementi che costituiscono la retribuzione dei lavoratori agricoli, risultano differenti rispetto a quelli normalmente riscontrabili negli altri settori. Infatti la retribuzione si compone nel seguente modo:

- salario contrattuale definito provincialmente (incluso TFR) - possibilità di prevedere generi in natura o valore corrispettivo, anche in relazione alle

consuetudini del luogo in cui viene effettuata la prestazione - cosiddetto terzo elemento per concerne esclusivamente i lavoratori che prestano la loro

opera con contratti a tempo determinato e che trova giustificazione nel fatto che spesso l’esigenza di dotarsi temporaneamente di manodopera è dovuta ad eventi o periodi straordinari (es. raccolti) durante i quali può essere necessario avvalersi di manodopera

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anche nei giorni festivi. Non potendo, per sua natura, il contratto temporaneo prevedere recuperi di orario, questi insieme alle ferie, vengono computati come compenso aggiuntivo

La previdenza e l’assistenza dei lavoratori del comparto agricolo sono regolate dalla normativa generale in materia di previdenza, assistenza e tutela della salute. Quindi il versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro viene effettuato presso le sezioni territoriali dell’INPS che a partire dal 1994 ha assunto quelle che erano le competenze del Servizio Contributi Agricoli Unificati (SCAU), che prima di quella data era assoggettato ad una gestione separata. Con il Decreto Legislativo 124/1993 è stata prevista anche per i lavoratori di questo settore la possibilità di istituire fondi di previdenza complementare volontaria con quote dell’1% a carico del lavoratore e del datore di lavoro e la restante parte a carico del trattamento di fine rapporto (TFR). I casi di malattia e infortunio sono regolati dagli articoli 56, 57 e 58 contratto collettivo nazionale del comparto (la cui durata è stabilita in quattro anni). La disciplina prevede che in caso di malattia o infortunio indipendenti dallo svolgimento dell’attività subordinata il lavoratore abbia diritto alla conservazione del posto per un periodo pari a 180 giorni. Mentre nel caso in cui l’evento dannoso sia attribuibile allo svolgimento dell’attività lavorativa si applicano le norme generali in materie di malattia e infortunio sul lavoro per un periodo di dodici mesi, decorsi i quali, se lo stato di infermità perdura, sorge il reciproco diritto di risolvere il rapporto dietro corresponsione dei trattamenti economici spettanti (TFR, indennità sostitutive etc.) Un elemento caratterizzante la disciplina dell’infortunio e della malattia è costituito dal fatto che durante il periodo di conservazione del posto (6 mesi o 12 mesi a seconda dei casi) il lavoratore agricolo può continuare ad usufruire gratuitamente della casa, dell’orto e di quant’altro goduto all’atto dell’insorgenza della malattia o dell’infortunio. Inoltre se il lavoratore coltiva un appezzamento di terreno in compartecipazione conserva il diritto a continuarne la coltivazione sino alla realizzazione dei raccolti in corso al momento in cui ha subito l’infortunio o è insorta la malattia.