CAPITOLO 7 - LA DIVINA COMMEDIA

80
CAPITOLO 7 - LA DIVINA COMMEDIA La Commedia è un poema in tre cantiche, Inferno, Purgatorio e Paradiso, ciascuna di trentatré canti e con numero press'a poco uguale di versi, proporzione al cui fondamento sta il numero tre. Un canto proemiale al poema forma in tutto il numero cento, multiplo di dieci, simbolo di perfezione. Metro ne è la terzina concatenata, ripresa dal sirventese popolaresco ed elaborata artisticamente. "Commedia" o "Comedia" fu originariamente il titolo generico dell'opera in rapporto al suo contenuto, che da triste principio giunge a lieto fine: “Incipit Comedia Dantis Alagherii fiorentini natione non moribus” è dichiarato nell'epistola a Cangrande della Scala. "Divina" è l'epiteto che fu aggiunto dai posteri, da Boccaccio, e che fu consacrato, come titolo dell'opera, a cominciare dall'edizione veneziana (1555) del Giolito. Le prime stampe risalgono al 1472. A quali anni se ne deve riportare la composizione e quali ne siano state le varie fasi di elaborazione, resta una questione problematica; ma l'opinione che presenta caratteri di maggiore probabilità è quella che ne pone l'inizio verso il 1307. Interrotto allora il Convivio, Dante si abbandonò all'impeto di un'ispirazione morale e religiosa che urgeva nel suo cuore, ritraendolo ai momenti più felici della sua Divina Commedia 51

Transcript of CAPITOLO 7 - LA DIVINA COMMEDIA

CAPITOLO 7 - LA DIVINA COMMEDIA

La Commedia è un poema in tre cantiche, Inferno, Purgatorio e Paradiso,

ciascuna di trentatré canti e con numero press'a poco uguale di versi, proporzione al cui

fondamento sta il numero tre. Un canto proemiale al poema forma in tutto il numero

cento, multiplo di dieci, simbolo di perfezione. Metro ne è la terzina concatenata, ripresa

dal sirventese popolaresco ed elaborata artisticamente. "Commedia" o "Comedia" fu

originariamente il titolo generico dell'opera in rapporto al suo contenuto, che da triste

principio giunge a lieto fine: “Incipit Comedia Dantis Alagherii fiorentini natione non

moribus” è dichiarato nell'epistola a Cangrande della Scala. "Divina" è l'epiteto che fu

aggiunto dai posteri, da Boccaccio, e che fu consacrato, come titolo dell'opera, a

cominciare dall'edizione veneziana (1555) del Giolito.

Le prime stampe risalgono al 1472. A quali anni se ne deve riportare la

composizione e quali ne siano state le varie fasi di elaborazione, resta una questione

problematica; ma l'opinione che presenta caratteri di maggiore probabilità è quella che ne

pone l'inizio verso il 1307. Interrotto allora il Convivio, Dante si abbandonò all'impeto di

un'ispirazione morale e religiosa che urgeva nel suo cuore, ritraendolo ai momenti più

felici della sua attività di poeta, con un ritorno al "bello stile" delle sue canzoni

filosofiche, per le quali riconosceva Virgilio suo maestro e autore (Convivio). Tale

opinione, che segue nel poema l'eco degli avvenimenti storici dai quali Dante sperava un

rinnovamento della vita civile e cristiana, e particolarmente dell'Italia, pare confermata

dal fatto che già anteriormente all'aprile del 1314 si poteva parlare di un'opera "quod

dicitur Comedia et de infernalibus inter cetera multa tractat". Indizio sicuro che le prime

due cantiche erano ormai divulgate, non sappiamo se insieme o separatamente; il che

Dante stesso ci dichiara più tardi, verso il 1319, quando in risposta a Giovanni del

Virgilio (Egloghe) si dice atteso alla composizione del Paradiso ("Cum mundi

circumflua corpora cantu - Astricoleque meo velut infera regna patebunt". Comunque, il

voto che Dante aveva espresso nell'ultimo paragrafo della Vita Nuova  ebbe compimento

perfetto. Sulla soglia dell'eterno, al conchiudersi della sua vita, Dante portò a fine il

"poema sacro"; e Dio, che è "il sire della cortesia", si compiacque di chiamare l'anima del

Divina Commedia 51

poeta "a vedere la gloria" di Beatrice beata, dopo che egli ebbe detto di lei "quello che

mai non fue detto d'alcuna".

Sintesi di vita e di pensiero, la Divina Commedia è l'espressione più luminosa di

quello che fu in un'anima appassionata di credente e di poeta. Collocandosi sul piano

metafisico della natura creata, che è il piano dell'analogia e della rassomiglianza, Dante si

oggettiva come persona viva e operante in un mondo fantastico, che per similitudine di

proporzioni, di consonanze e d'armonie rispecchia l'universo creato, sensibile e

sovrasensibile, considerato in se stesso come opera d'arte. Le relazioni di analogia, che

intercorrono tra il mondo poetico di Dante e l'universo della creazione divina, conservano

intatta la loro spiritualità, anche se realizzate in modo essenzialmente diverso.

In un universo creato, dove tutto ciò che è, in quanto è, è bene, il male, di cui fu

causa lo smisurato orgoglio del primo angelo ribelle, non è che privazione di bene: il non-

essere, il baratro, il nulla. E’ il cupo abisso della disperazione e del dolore nel quale

precipita la creatura umana quando volontariamente si nega alla perfezione che già

possiede in virtù della sua stessa natura. Nel mondo dantesco questo abisso è

simboleggiato dall'inferno: un'oscura voragine, che vaneggia sotto la crosta della terra

nella parte dell'emisfero boreale abitata dall'uomo. A forma di cono rovesciato, essa si

sprofonda fino al centro della terra, che è pure il centro dell'universo e il luogo più

lontano da Dio, che è luce. E lì, precipitando dal cielo, cadde e sta confitto in eterno

Lucifero.

La terra che si ritrasse dinanzi alla sua caduta e ricorse in su, emergendo dalle

acque dell'emisfero australe, formò l'isoletta del purgatorio: una montagna alta e scoscesa

sulla cui cima, agli antipodi di Gerusalemme, frondeggia la foresta fresca e viva del

Paradiso terrestre. Questa montagna, che limita gli orizzonti sconfinati di libertà e di luce

a cui ogni anima aspira, simboleggia la materia come reale possibilità di essere: un non-

essere che esiste, un non-essere relativo, che ogni anima deve colmare con la propria

attività, per darsi la perfezione che le compete, in ragione della sua costituzione specifica.

Solo così essa potrà salire al Paradiso terrestre, che si trova al limite estremo di

due mondi: al di sotto, quello della materia che lì si sublima; al di sopra, il mondo della

pura immaterialità, che si fa sempre più vasto e luminoso in se stesso. E’ questo il

Paradiso della fede cristiana come frutto dello Spirito Santo: ascensione spirituale, che

Divina Commedia 52

per gradi sempre più vivi d'illuminazione e d'amore attraversa, figuratamente, i nove cieli

del sistema tolemaico, giranti attorno alla terra immobile con movimento e orbite sempre

maggiori.

A questi cieli sovrasta infinito il cielo della divina fiamma: l'Empireo, il cielo

della carità, sede di Dio e dei suoi angeli e dei suoi santi. Il viaggio di Dante nei tre regni

dell'oltretomba è raffigurato come una continua discesa: giù, dall'emisfero boreale fino al

centro dell'Universo; giù nell'emisfero australe fino alla vetta del Purgatorio; giù, nelle

profondità abissali dei cieli fino all'Empireo. Ma è una discesa che si risolve per Dante in

una continua salita: vita del suo spirito, che si fa causa delle proprie perfezioni e che si

edifica su se stesso attraverso se stesso e si mette tutto in luce; a guisa di un albero che si

sprofonda sempre più con le sue radici nell'oscurità della terra, mentre sempre più si

protende verso l'alto e sale e frondeggia e fiorisce nella radiante libertà del sole.

Ma il viaggio di Dante nella Divina Commedia non è che la traduzione in termini

fantastici di quella che in ogni uomo è l'azione poetica per eccellenza: l'attività vitale e

immanente del pensiero e dell'amore; un'attività, che nell'atto di conoscere e in quello di

amare si perfeziona soprannaturalmente nella contemplazione e nella carità divina.

Poiché il fine pratico, a cui Dante tende in questo viaggio, è la conoscenza di Dio, come

bene supremo e beatitudine eterna: un Dio sovranamente personale e trascendente, in

quanto è l'essere che in sé sussiste, essendo in se stesso la sua bontà e la sua verità e la

sua bellezza. E tuttavia tale che la sua essenza può essere conosciuta non già in se stessa,

ma per analogia, attraverso una partecipazione creata di se stessa a ciò che essa non è.

E’ una conoscenza reale, una conoscenza di fatto, che è poi la conoscenza poetica

del mistero che agita dal profondo tutta la creazione, e che traluce in tutte le cose come

loro vita segreta, come segno invisibile della spiritualità che ciascuna di esse detiene.

Questa conoscenza analogica di Dio, autore della natura, ordinatore e legislatore

supremo, e di Dio, autore della grazia, provvidenza che governa il mondo, è il fine ultimo

dell'attività che Dante dispiega, di mano in mano che si sprofonda in seno all'esistente,

che è il "luogo eterno" delle anime. Conoscenza di Dio "per speculum et in aenigmate":

cioè Dio conosciuto nel mistero dell'esistenza che ciascuna anima esercita: un mistero che

Dante conosce per connaturalità affettiva nella misura stessa che poeticamente lo vive e

lo incorpora con la fantasia e lo fa presente a se stesso.

Divina Commedia 53

Nell'ordine della natura, per analogia ascendente che dagli effetti risale alla causa

prima, Dante conosce Dio come giustizia (Inferno) e come misericordia (Purgatorio).

Nell'ordine soprannaturale della grazia e della carità, per analogia discendente della fede,

egli conosce Dio secondo la sua propria essenza: oggetto di un amore infinito, che è poi il

desiderio di vederlo in se stesso come egli stesso si vede. Questa conoscenza "quasi

sperimentale" di Dio, Dante la pone a fondamento della sua azione concreta.

Attraverso costanti rettificazioni e purificazioni e un'ascesi continua

dell'intelligenza e del cuore, Dante invera progressivamente in se stesso, nella pura

immanenza delle sue operazioni, la saggezza morale metafisica (Virgilio), come scienza

degli atti umani e della libertà, e la saggezza umana e divina dei libri sacri (Matelda), e

quindi, dentro la luce della rivelazione, la saggezza cristiana dei santi (Beatrice) e la

saggezza mistica (raffigurata da san Bernardo).

Il principio dinamico che informa la Divina Commedia, e che dà ragione del

viaggio di Dante - che è poi il viaggio di ogni anima pellegrina nel tempo e sempre in

cerca di un bene infinito - è l'amore umano come partecipazione finita dell'amore che Dio

ha per se stesso in virtù della sua propria perfezione. Pur nelle sue miserie e nei suoi

errori e nei suoi smarrimenti, l'amore umano è un amore naturale di Dio, essendone Dio

contemporaneamente e la causa e il fine. Amando nelle cose la bellezza che vi risplende,

l'uomo ama Dio anche senza conoscerlo: perfezione di ogni amore creato, che gioisce di

se stesso come verità che vive e bontà che si comunica e si espande.

E’ questa esperienza d'amore che Dante conobbe nel periodo felice della sua "vita

nuova", quando esaltò in Beatrice lo splendore dell'essere spirituale e la amò in se stessa

come un bene analogo al Bene supremo (Vita Nuova). Ma questa rettitudine della

volontà, che ci fa amare nelle cose il divino e che fa del nostro amore un analogo

dell'Amore increato che crea, Dante la perdette, perdendo nel tempo stesso la perfezione

della sua somiglianza a Dio e la conformità alla sua propria natura.

Travolto dal turbine delle passioni politiche e accecato dagli odi di parte, Dante,

"nel mezzo del cammin di nostra vita", si ritrovò smarrito in quella "selva selvaggia"

dove ogni uomo, chiuso nella sua propria individualità, è natura incolta, la cui vita è

simile a quella delle bestie, delle piante e delle pietre. Svegliatosi dal sonno del suo

spirito, Dante tenta subito di salire il colle della felicità irradiato dal sole; ma ne lo

Divina Commedia 54

ricacciano al fondo le tre passioni che ribollono nel cuore di ogni uomo avanti l'opera

della ragione: l'invidia del bene altrui (Lonza), la superbia (Leone), frutto dell'antico

orgoglio ereditario, e la cupidigia o avarizia (Lupa), desiderio smodato di chi si pone a

centro di tutto. Dante è già lì per disperarsi, quando gli si fa sentire, dopo lungo silenzio,

la voce di quella ragione poetica (Virgilio) che ci ispira, portandoci a vagheggiare un

paradiso di felicità da conquistarsi sulla terra.

Nel dominio della conoscenza pratica del singolare e del contingente questa

ragione poetica, che è poi la voce della nostra coscienza, è quella che ci fa volere

direttamente i nostri fini particolari e concreti, mettendo la nostra ragione in grado di

cercare, di giudicare e di comandare convenientemente i mezzi. Essa fonda in noi il

dovere morale ed esige l'amore: amore della nostra vita e della vita dei nostri simili,

amore della nostra famiglia e della nostra patria e di tutta la società; poiché la società,

come formazione vitalmente operata dalla ragione nelle cose umane, è da amarsi come un

bene coessenziale all'uomo.

Virgilio, il poeta che cantò gli ideali di pace e di giustizia ai quali s'informò la vita

politica di Roma sotto Augusto - ideali eterni, immanenti alla storia umana nel suo

perpetuo divenire, perché eterne aspirazioni dell'anima -, simboleggia questa ragione

poetica, che è in noi una partecipazione creata della ragione eterna, creatrice e direttrice

dell'universo. Virgilio si offre a Dante come guida. Egli lo condurrà giù nell'inferno,

salirà con lui la montagna del purgatorio fino alla cima; e di lì, sotto altra guida

(Beatrice), Dante potrà ascendere al cielo di Dio.

Intanto Virgilio conforta Dante. Voce della sua coscienza, egli lo fa certo che non

potrà mancare, per la salvezza dell'Italia travagliata dalle discordie civili, un ordinatore

supremo (il "Veltro"); il quale, dotato di "sapienza e amore e virtù", riporterà tra gli

uomini la giustizia e la pace. Il viaggio di Dante, come esperienza reale strettamente

legata agli avvenimenti storici che la condizionano e dentro ai quali egli dovrà

conquistarsi la sua verità e la sua luce, s'inizia così in spirito di profezia, che è fede

ancora ingenua nella Provvidenza divina. Ma la Provvidenza divina, che in sé unisce la

giustizia, la misericordia e l'amore che Dio ha per tutte le sue creature, è la causa prima

dell'esperienza di Dante nel mondo delle anime. Una causa, che Dante conosce in se

stessa soltanto di riflesso, nello specchio delle perfezioni divine incarnate nelle "tre donne

Divina Commedia 55

benedette", che si curano di lui nell'alto dei cieli: la misericordia di Maria Vergine, la

"giustizia" di Lucia, che è la verità da lei conosciuta con gli occhi spenti, e l'amore, o

bellezza luminosa dell'essere spirituale, che Dante amò ed esaltò nella sua Beatrice.

Amando in Dante la realizzazione dell'idea divina che presiede al suo destino, le

tre donne beate pregano Dio per lui, smarrito, e si fanno mediatrici della divina grazia. E

Beatrice discende allora dal suo seggio di gloria e si presenta, luminosa in se stessa, ma

con gli occhi in lagrime, a Virgilio, che si trova nel Limbo, pregandolo di correre in

soccorso di Dante. E subito Virgilio ne esaudisce la preghiera per amore di quella

bellezza che rifulge in lei, una bellezza divina che non può non amarsi, perché è la

beatitudine e il bene supremo a cui tende ogni anima per impulso della sua stessa natura.

E Dante, per amore di questa bellezza, il cui ricordo gli è sempre vivo nell'animo, si fa

volontario discepolo di Virgilio ed esce con lui dall'universo dei corpi per entrare nel

mondo eterno dell'esistente.

Arte di Dio, che provvidenzialmente ci guida, suscitando in noi l'amore di quella

bellezza dell'essere, analogica e trascendentale, che di sé continuamente ci asseta e che

porta la nostra anima sempre al di là. Per questo amore, non solo noi ci sottomettiamo

con gioia alla legge o ragione naturale, che si esprime in noi come voce della nostra

coscienza, ma l'abbracciamo con amore e vi ci obblighiamo con una ragione, che,

assoluta in se stessa, è universalmente valida nelle stesse condizioni di esistenza per ogni

ragione.

La coscienza morale e religiosa di Dante, la cui voce ispirata conferisce alla

Divina Commedia una salda unità di tono e di accento, poggia su queste basi che si

materiano di scienza e di fede. Dante si avvia, dietro la guida di Virgilio, entro l'ordine

della vita morale, dove il mondo della natura e il mondo della grazia, pur essendo due

universi eterogenei, s'incontrano e si compenetrano; e si fa così giudice dei vivi e dei

morti, con una ragione illuminata dalla verità della fede. Ogni suo giudizio è perciò,

contemporaneamente, un giudizio morale e religioso, che si colora diversamente secondo

le prospettive spirituali a cui mira.

Nell'Inferno e nel Purgatorio il giudizio s'incentra sul mistero dell'uomo, e sul

dramma della sua vita di creatura di carne e spirito ordinata a fini temporali e spirituali,

ma con riferimento al fine eterno e soprannaturale. Nel Paradiso invece il giudizio

Divina Commedia 56

s'incentra sulla vita dell'uomo con i suoi fini naturali e temporali, ma ordinato

essenzialmente al fine soprannaturale e alla perfetta conoscenza di Dio. In tal modo

l'esperienza di Dante, dentro l'ordine della ragione naturale e delle virtù morali che

perfezionano l'amore e lo volgono al suo vero fine, è un'esperienza analoga a quella di

Enea, provvidenzialmente disceso agli Averni per trarne norme pratiche di vita civile, che

indirettamente si riferiscono al fine supremo. E dentro all'ordine soprannaturale della

carità e della grazia, che già sulla terra, con il corteggio armonico delle virtù acquisite e

delle virtù infuse, ci fa cittadini del cielo, l'esperienza di Dante è analoga a quella di san

Paolo, che ne trasse conforto alla vera fede.

Duplice esperienza, che Dante vive in quanto la prima è subordinata alla seconda,

e che gli fa conoscere i due fini a cui l'uomo è ordinato (Monarchia): la perfezione

terrestre e temporale dell'uomo come animale ragionevole, che nella vita politica o civile

ha la sua piena realizzazione, purché la viva, questa sua vita, in subordinazione essenziale

al bene spirituale ed eterno, che è il vero ultimo fine della persona umana.

L’Inferno. L’inferno è il regno delle tenebre, la "valle d'abisso dolorosa", dove

precipita la creatura umana, che negandosi alla vita della ragione e delle virtù ("vita

civile") si nega alla sua propria luce. Perduta la nozione dell'essere, che è il bene

dell'intelletto, e chiuso per sempre nella sua individualità materiale, l'uomo s'interna nella

vita egoistica delle sue passioni. Ma così esso non è più che un frammento, per quanto

distinto, dell'universo dei corpi, e ne subisce le leggi. Punto di intersezione di tutte le

influenze fisiche e cosmiche, vegetative e animali, l'uomo, come individuo, è un corpo

battuto dalla pioggia, travolto dal turbine della tempesta, martoriato dal fuoco. Le

immagini dantesche, che incorporano lo spirituale nel sensibile, ce ne rappresentano la

condizione. La natura umana si sprofonda sempre più nella materia, senza però sfuggire

alla legge dell'essenza. Negata in vita, questa legge riprende di là dal tempo i suoi diritti,

e si rivela in ogni anima come naturale inclinazione al bene, come amore di sé e della

propria vita, come amore della famiglia e della patria e della propria fama, come anelito

di pace e di giustizia e ricordo nostalgico del dolce mondo rallegrato dal sole.

Nell'Inferno il dolore scaturisce così dall'interna contraddizione che ogni anima vive nella

propria intimità, senza potersene dar ragione.

Divina Commedia 57

L'essenza universale della natura umana, le cui inclinazioni tendono al bene, si

trova in contrasto con la natura singolare di ogni individuo, tormentata dal fuoco

dell'antica concupiscenza, oppressa dal peso ereditario della prima colpa e agitata da tutte

le altre tendenze difettose e viziate. Mistero dell'essere umano che si contraddice e che

nelle varie fasi della sua situazione esistenziale, tipiche per i diversi momenti di civiltà,

Dante raffigura nel Veglio di Creta: immagine dell'uomo, il quale, per essenza, è ordinato

alla vita civile come a suo fine temporale, mentre, come stato di fatto, poggia su un

fragile piede di argilla. Di qui le miserie e le illusioni e le inevitabili cadute e il dolore

senza fine amaro, che si esprimono in lagrime silenziose di cui si alimentano, da secoli, i

fiumi infernali: Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito.

Poiché l'uomo, senza l'opera della ragione e delle virtù, che lo modellino

dall'interno e diano un volto alla discorde indeterminazione della sua vita passionale e

istintiva, rimane "terra incolta": quella terra selvaggia, a sterili lande di secca arena, a

selve nude di vegetazione, a rocce alpestri, brulle e discoscese, che costituiscono, in

un'atmosfera senza tempo tinta, il paesaggio dell'inferno dantesco. Dove manca l'azione

dell'uomo non ci può essere che natura selvaggia; e l'azione propria dell'uomo, ossia la

sua vera vita, è di far uso della ragione. Nell'inferno di Dante l'azione dei dannati è

sempre un'azione a vuoto, un'azione eternamente priva di ragione, che è il loro perenne

tormento. L'inferno è perciò il regno della morta gente. Dante e Virgilio ne varcano la

porta e, nell'oscura pianura che vi sta a vestibolo, scorgono gli "sciagurati che mai non fur

vivi": gli ignavi e gli angeli neutrali, costretti a correre dietro un'insegna, stimolati da

mosconi e da vespe. Disdegnati dalla misericordia e dalla giustizia divina, Dante li

guarda e passa. E subito s'apre al suo sguardo la "trista riviera d'Acheronte", sulle cui

rive, entro un lividore di luce autunnale, le anime cadono come foglie morte che si

staccano dall'albero, portate dal loro peso.

Passato il fiume sulla barca di Caronte, i due pellegrini approdano al primo

cerchio: il Limbo, da dove Cristo trasse i Patriarchi. Qui non pianto, ma sospiri. E’ il

luogo dei bimbi morti senza il battesimo; ed è pure la dimora, entro un nobile e luminoso

castello, di quanti onorarono scienza e arte, pur essendo privi della vera fede. Vi si

trovano i grandi poeti antichi (tra i quali Virgilio), che amarono la bellezza dell'essere e

furono già cristiani in speranza se non in possesso; e con loro sono gli altri "spiriti

Divina Commedia 58

magni", la cui perfezione di ragione, fuor dalla sfera delle verità rivelate d'ordine

naturale, fu luce che diradava le tenebre, ove il pensiero s'arrestava con l'ansia di

conoscere ancor più. Con il secondo cerchio comincia l'inferno propriamente detto: un

baratro, che si va restringendo di cerchio in cerchio fino alle dieci fosse di Malebolge, nel

cui diritto mezzo vaneggia un pozzo.

Al suo ingresso sta Minosse, terribile voce della coscienza, che giudica e

condanna. I peccatori sono perciò distribuiti nei singoli cerchi in ragione dell'interno

ordinamento dinamico delle loro facoltà vitali ("disposizioni"): incontinenza, malizia e

matta bestialità. Nei cerchi superiori, dal secondo al quinto, si trovano gli incontinenti,

nei quali l'essere spirituale, impotente a contenersi tutto, trasmodò e s'appoggiò alle

potenze della vita sensitiva. Nei cerchi inferiori, dentro la città di Dite, sono i "maliziosi":

libere volontà, che violando l'ordine della ragione e della natura, passarono al servizio

delle potenze affettive inferiori e dell'istinto. E dopo i maliziosi, sono i bestiali:

intelligenza posta al servizio di una volontà perversa, che si fece centro di tutto fino a

recidere, in una solitudine selvaggia, ogni legame spirituale con le altre volontà.

A governo dell'inferno, e quindi entro un piano provvidenziale, sono le forze

cieche della natura: le potenze oscure della materia, simboleggiate in mostri, e gli spiriti

del male, i diavoli.

Nel suo viaggio Dante vede le cose e le rappresenta con una fantasia la cui misura

è data dalla realtà empirica nelle sue note sensibili e materiali; ma è una realtà che serve a

introdurci nell'ordine dell'essere spirituale, che lì dentro si incorpora e lì dentro traluce e

si fa manifesto. Nel secondo cerchio i lussuriosi, anime vinte dalla passione carnale,

travolti da una bufera incessante; nel cerchio seguente i golosi, flagellati a terra da una

pioggia eterna, maledetta e greve, squartati e scuoiati da Cerbero, mostro dalle tre gole;

nel quarto cerchio i prodighi e gli avari, riuniti "per dritta opposizione", rotolano pesi e si

scherniscono a vicenda quando s'incontrano; nel cerchio seguente gli iracondi, immersi

nel fango della palude Stige, si percuotono bestialmente "troncandosi coi denti a brano a

brano", mentre gli accidiosi dal fondo del limo gorgogliano parole nell'acqua, sospirando

all'"aer dolce che del sol s'allegra".

Visioni penose, contemplate con occhi attenti, quasi dinanzi alla rivelazione di un

prodigio; ma di là dalla pura intuizione dei sensi, Dante poeta corre all'esistenza, e si

Divina Commedia 59

trova al contatto di anime che la esercitano e che gliela fanno conoscere nella sua verità

vissuta e nel suo mistero. E’ cioè l'essere umano, con i suoi segreti della conoscenza e

dell'amore, che Dante viene a conoscere par connaturalità nella misura stessa che egli

poeticamente lo vive e lo oggettiva in se stesso.

Nel cerchio dei lussuriosi Dante si commuove dinanzi a Francesca, una creatura

di bontà, che sospira invano alla sua pace, mentre si stringe appassionatamente al suo

Paolo e afferma ineluttabile quell'amore che pur l'ha condotta alla morte e all'eterno

affanno. Per amore di patria Dante si arresta, nel cerchio dei golosi, dinanzi a Ciacco, suo

concittadino, che gli parla, sdegnato e cruccioso, delle fazioni da cui è travagliata Firenze

e gli predice non lontano l'esilio. Ma contro l'orgoglioso Filippo Argenti, che vorrebbe

risollevarsi dal fango dello Stige, Dante scatta con ira e ve lo ricaccia dentro con aspra

fermezza.

La pena egli la desidera e la vuole e ne gode quanto più detesta nel peccatore il

male, e in ciò lo approva e lo benedice la voce della sua coscienza, Virgilio. Ma la

coscienza agisce solo come causa seconda, la quale presuppone la causa prima, che è

Dio. E Dio si fa presente a Dante, quando, varcato lo Stige sulla barca di Flegiàs, giunge

sotto le mura infuocate della città di Dite. I demoni stizzosi e tracotanti si oppongono a

Virgilio e gli vietano l'ingresso. E tuttavia Dante passerà. Un messo celeste arriva

infrangendo ogni ostacolo e con una verghetta apre meravigliosamente la porta, mentre

gli spiriti del male fuggono da ogni parte. L'esperienza di Dante nel basso inferno Dio

stesso la sollecita e la favorisce attivamente, perché necessaria e salutare.

Solo gettandosi sempre più a fondo nell'esistenza, con una conoscenza

sperimentale o poetica del dolore e della sofferenza e dei conflitti esistenziali, Dante

potrà, nella sfera dell'attività pratica, determinarsi meglio ai mezzi e agire in armonia con

se stesso. Nel sesto cerchio Dante costeggia una landa sparsa di tombe infuocate, dentro

le quali giacciono gli eretici. Credendo morta l'anima col corpo, essi s'affidarono

esclusivamente alla loro volontà e ne fecero la misura di tutte le cose. Soggettivismo

inconsapevole, cha si nega alla piena intelligenza della realtà e le si sovrappone con

violenza. Tra costoro è il magnanimo Farinata degli Uberti. Uomo di parte, egli amò

appassionatamente la sua patria e la difese a viso aperto; ma praticamente, con un'azione

che fu l'azione della sua parte, lasciò dietro di sé un solco incolmabile di odi e di

Divina Commedia 60

vendette. Di qui nasce lo scontro violento con Dante, che vive pure lui come uomo di

parte la stessa contraddizione e che ne esperimenterà le conseguenze con la pena d'esilio

che Farinata stesso gli predice. Senza la carità non c'è né vero amore di patria né vero

amore per i figli: poiché è soltanto orgoglio l'affetto che Cavalcante dei Cavalcanti, un

altro eretico, nutre per suo figlio Guido. Senza la carità, che perfeziona l'amore naturale

di noi stessi e lo indirizza al suo vero fine che è Dio, la volontà umana non può stabilirsi

saldamente nel bene a cui tende. Fatalmente essa degrada dal suo ordine e passa al

servizio delle potenze affettive inferiori dell'istinto.

L'unificazione completa della vita umana, come ragione e senso, resta così

preclusa e nell'uomo, accanto all'animale ragionevole, si pone il bruto. Ne è figura

esemplare il Minotauro, preposto al cerchio settimo, dove sono puniti i ribelli a Dio,

creatore dell'ordine naturale e legislatore supremo. Dante vi cala per un'alpestre ruina e lo

attraversa nei tre gironi concentrici in cui esso si distingue. I violenti contro il prossimo e

le sue cose, tiranni e omicidi, sono tuffati nel sangue bollente del Flegetonte, lungo le cui

rive corrono, fiere agili e snelle, i Centauri. Simboli di quella ragione naturale che

l'animale subisce, ma a cui l'uomo partecipa per modo di conoscenza razionale, i Centauri

saettano chiunque "si svelle dal sangue" più che non gli consenta la sua colpa. Di là dal

Flegetonte si stende un bosco selvaggio, nudo di foglie e scheletrito, dimora delle Arpie

che ne dirompono i rami: desolata e gemente germinazione delle anime dei suicidi, le

quali, strappandosi al corpo, s'incarcerarono come piante nella loro propria natura.

Inseguiti da cagne fameliche e veloci, fuggono per il bosco gli scialacquatori, che

giocando rischiosamente si affidarono alla sorte e al caso. Insieme con i loro averi essi

dissiparono la sostanza della loro persona morale e divennero facile preda delle

discordanti postulazioni dell'istinto. Più oltre ancora si apre una landa arenosa, sulla quale

grava un'atmosfera immobile e scende dal cielo il fuoco a larghe falde. Qui, supini a terra,

giacciono i bestemmiatori di Dio; corrono precipitosamente senza posa coloro che

nell'ordine dell'agire operarono contro natura (sodomiti); stanno seduti, e si schermiscono

dal fuoco come i cani dalle vespe, coloro che nell'ordine del fare non misero luce se stessi

con quell'arte che s'ispira alla natura nelle loro operazioni (usurai). Paesaggi d'orrore:

scene luttuose di tormenti e di tormentati; miserie e dolori della nostra natura inferma e

decaduta si presentano allo sguardo di Dante. La volontà, che di sua natura è ordinata al

Divina Commedia 61

bene, è quella ancora che, sotto l'influsso di una passione dominante o di un vizio,

travolge l'uomo e lo atterra, si fa in lui motivo di eterno dolore.

Così è l'amore della giustizia nel suicida passionale Pier della Vigna; così è

l'amore di se stesso, accecato dalla superbia, in Capaneo, il quale bestemmia Dio, fine

naturale di questo suo amore; così è l'amore del bene morale in Brunetto Latini, che tra i

sodomiti si vergogna di fronte al suo discepolo Dante, ma solo per tornare a esaltarsi,

esaltando idealmente in lui questo bene, ed essergli ancora maestro; così è l'amore di

patria nei tre nobili fiorentini, i quali, macchiati dello stesso peccato, ascoltano con dolore

Dante che parla loro della decadenza morale di Firenze.

In groppa di Gerione, il mostro alato che è simbolo della frode, Dante cala

nell'ottavo cerchio di Malebolge: dieci bolge o fosse circolari, concentriche, dove sono

dannati i frodolenti, coloro che usarono la frode con chi non aveva particolare ragione di

fidarsi di loro. Vi si trovano i seduttori e i mezzani, frustati terribilmente dai diavoli; gli

adulatori, ravvolti nello sterco; i simoniaci, capofitti in fori di pietra dalle cui aperture

agitano solo le gambe con i piedi accesi; gli indovini e i maghi, che camminano a ritroso

con la faccia dalla parte delle reni; i barattieri, tuffati nella pece bollente e vigilati dai

demoni; gli ipocriti, rivestiti di cappe di piombo dorate di sopra, gravi e stremanti nel loro

incedere; ladri, morsicati e legati da serpenti nei quali si tramutano, mentre i serpenti si

tramutano a loro volta in figure umane; i consiglieri frodolenti, chiusi in fiamme dentro le

quali si muovono; i seminatori di scandali e di scismi, lacerati e mutilati da una spada del

demonio; i falsari di metalli, di persona, di moneta e di parola, che si presentano come

figure di rognosi e di arrabbiati, di idropici e di assetati febbricitanti.

E’ questo il mondo inumano dell'intelligenza, che nell'ordine dell'agire si pone al

servizio di una volontà perversa, sempre pronta all'offesa e alla difesa. Intelligenza

pratica, che al contatto dell'azione giudica immediatamente il da farsi, secondo le cattive

intenzioni o disposizioni della volontà. E’ l'intelligenza di papa Niccolò III, che nella

bolgia dei simoniaci pensa sia giunto Bonifazio VIII a occupare il suo posto; è la pronta

intelligenza di Ciampolo di Navarra, che nella bolgia dei barattieri inganna i diavoli e li

fa azzuffare tra loro; è l'intelligenza maligna dei Malebranche, che insidiano Dante e lo

fanno tremare di paura; è l'intelligenza bestiale di Vanni Fucci, che, scoperto da Dante fra

i ladri, si dipinge in volto di triste vergogna e per dispetto gli predice oscuramente i danni

Divina Commedia 62

della sua fazione. Dante osserva e si compiace di cogliere gli aspetti comici e triviali di

questa intelligenza pratica, che fa l'uomo simile al serpente, e di qui la figura di Gerione.

Ma nella bolgia dei consiglieri frodolenti egli ascolta attento il racconto dell'ultimo

viaggio di Ulisse, l'eroe che nell'ordine della volontà trascura gli interessi della sua anima

per darsi alla gioia del puro conoscere: intelligenza aperta alla conoscenza delle cose, ma

per la quale le cose diventano uno spettacolo che la assorbe e l'attira e la travolge.

E’ la sorte di Guido da Montefeltro, che racconta le astuzie di papa Bonifazio VIII

e se ne dice la vittima inconsapevole, mentre di quelle astuzie intellettualmente gioisce e

se ne serve ai suoi propri fini. Ma l'intelligenza volta verso l'altro in quanto è l'altro, come

puro oggetto di conoscenza, è l'anima degli insulti che si scambiano tra loro i dannati di

queste bolge, smascherandosi con una sincerità cinica e triviale. E’ il deforme e l'informe

della materia che affiora. E’ la sincerità che risolve l'essere umano nelle discordanti

richieste dell'istinto, una sincerità della quale Dante può sorridere, non senza che la sua

coscienza, Virgilio, si ribelli. E’ insomma l'essere umano che si sprofonda più nella

materia prima: e ne sono simboli i mostruosi giganti, masse brute e inerti che di mezzo la

persona torreggiano la proda del pozzo di Malebolge. Uno di essi, Anteo, cala Dante al

fondo del pozzo, dove, infitti nel ghiaccio del Cocito, sono puniti i traditori dei congiunti,

della patria, degli ospiti e dei benefattori.

Sono essi i negatori bestiali di quell'umana civiltà che è "forma della ragione" e

senza la quale non possiamo né vivere né convivere umanamente. Imprigionati nel

ghiaccio e nel silenzio, la loro esistenza è simile a quella delle pietre; e il loro tormento

non ha parole. E’ il muto dolore di Bocca degli Abati, che a Montaperti tradì la parte

guelfa e che a Dante non vuole per vergogna rivelare il suo nome. E’ il dolore del conte

Ugolino, il traditore della patria, che s'accanisce bestialmente sul corpo di colui che a sua

volta lo ha tradito; e che dà voce all'istinto della paternità ferita, mentre colorisce la

ferocia dell'arcivescovo Ruggeri narrando la propria morte e quella dei suoi figli nella

torre della fame. Giustizia inumana, senza distinzioni, che suscita in Dante l'ira e lo

sdegno, insieme col desiderio di un'eguale giustizia su Pisa, vituperio dell'Italia. Al centro

dell'universo, nel punto più lontano da Dio, Dante vede Lucifero, materiale trinità del

cieco abisso, mostro dalle tre facce, che lagrima da sei occhi, mentre maciulla in ciascuna

delle tre bocche un peccatore: Giuda, traditore di Cristo, e Bruto e Cassio, traditori di

Divina Commedia 63

Cesare. Negatori, il primo, di quella ragione divina che è in noi la carità, e gli altri, di

quella ragione naturale che ci guida e che fa dell'uomo, terra incolta, la terra umana

coltivata dalle virtù e dalla diritta ragione. Aggrappandosi ai peli di Lucifero, i due poeti

passano il centro della terra e per un cammino ascoso salgono, nell'emisfero opposto, a

rivedere le stelle.

Il Purgatorio. E’ una montagna aspra e scoscesa, che dal gran mare dell'essere "si

dilaga inverso il cielo più alto". E’ la terra umana che, santificata da Cristo nel suo fondo

permanente, che è l'anima, si edifica dall'interno su se stessa e sotto il cielo delle virtù

cardinali e teologali coglie alla sua propria cima (Paradiso terrestre) i fiori della pace e

della contemplazione, in conformità delle esigenze e dei destini propri alla natura umana.

Questa montagna va restringendosi sempre più d'ampiezza quanto più s'avvicina al suo

culmine; ed è risegata sui fianchi da balzi o cornici circolari, dove si purgano le anime.

Siamo nel mondo metafisico dell'essenza graduata, dove ogni anima diversifica i

suoi valori di conoscenza secondo il fine che la divina Saggezza le ha assegnato, perché

cooperi attivamente a quella vita sociale o civile il cui fine, di ordine naturale, è il bene

temporale o terrestre: svolgimento innanzi tutto morale e svolgimento delle attività

speculative e pratiche (artistiche ed etiche). Il purgatorio è perciò il regno della libertà,

intesa come assenza di ogni costrizione: libertà di scelta tra i mezzi che conducono al

fine, essendo, in ogni essere creato, quello prestabilito da Dio creatore. Di questa libertà,

che è propria della persona umana ordinata a Dio, e che postula fuori di sé una legge

positiva che la difenda e la guidi, è simbolo concreto la figura di Catone, posto a custodia

del purgatorio. Ed è lui, che nell'alba fresca e rugiadosa dell'arrivo, sotto il cielo azzurro

nel quale splendono l'astro di Venere e le quattro stelle delle virtù cardinali, addita a

Dante la via da seguire, purché la percorra, umilmente servendo, con occhio chiaro e con

affetto puro.

Il purgatorio è infatti il mondo umano di quell'amore umile e fraterno, dove Dio è

amato nella bontà delle sue creature, per l'idea divina che ciascuna di esse realizza e per

la gloria che ciascuna di esse è chiamata a dare a Dio. In lunga schiera, su una navicella

guidata da un angelo, arrivano dal mare le anime esultanti, destinate all'espiazione e alla

salvazione: e tra loro Dante riconosce un suo amico, Casella. Gioia dell'incontro: ritmo

interiore, vita dello spirito, la quale anela a espandersi e a comunicare. Casella canta una

Divina Commedia 64

canzone di Dante e alle sue note tutte le anime sono rapite ma Catone interviene e

rimprovera il loro indugio e li sprona a salire.

L'amore che ragiona nella mente è la prima perfezione dell'anima, ma non basta.

Bisogna che essa agisca, perché soltanto l'attività la fa migliore e la congiunge ai suoi

fini. La salita di Dante su per l'aspra montagna e sotto la guida della sua coscienza,

Virgilio, è l'attuazione di tutta la perfezione insita nel suo essere stesso. E’ cioè l'esistenza

che egli s'appropria con un'attività che lo perfeziona e lo finalizza nella linea stessa della

sua costituzione specifica. La sua esperienza, che si fa scienza degli atti umani e della

libertà, lo porta a ben giudicare sul da farsi in rapporto a quella che è la diritta

inclinazione della sua volontà, nel dominio del particolare e del contingente.

Ai piedi della montagna, fuori del purgatorio propriamente detto, Dante incontra,

in temporanea dimora, le anime di coloro che vissero scomunicati e, tra essi, Manfredi di

Svevia. Su per i balzi egli trova, seduti neghittosamente all'ombra di massi, i pigri a

pentirsi, come Belacqua, e, per la costiera petrosa, vede camminare cantando il Miserere

quanti morirono di morte violenta, come Iacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e

la Pia, dolce anima di donna amante che per il marito crudele conosce soltanto la parola

del perdono.

Col pentimento e per opera della misericordia di Dio, tutte queste anime

instaurarono in se stesse, ma solo in punto di morte, lo stato di grazia, principio del loro

merito nell'ordine della salute. E da questo stato di grazia esse contemplano la loro vita

terrena e ne giudicano gli errori e le colpe mentre esaltano in Dio la bontà del perdono:

quella stessa bontà che Dio infonde loro e che le porta a perdonare ai loro nemici e a

sentirsi al di sopra delle offese ricevute e delle ingiustizie patite. Poesia degli affetti

umani, la cui mite e soave dolcezza scaturisce dall'interna verità che esse vivono con

gioia. Poesia che Dante respira nell'atmosfera spirituale che lo avvolge e che costituisce

la sua stessa esperienza; perché lo porta a guardare con sorridente indulgenza le

debolezze altrui, sentendole come un peso comune che grava sulla nostra volontà e al

quale molto spesso cediamo. Tale è l'esperienza di Dante, che si ferma in amichevole

colloquio col pigro Belacqua. Tutte le anime che egli incontra man mano che sale lo

pregano di essere ricordate alle persone care rimaste sulla terra, perché ne abbiano

Divina Commedia 65

conforto al loro dolore e perché a loro volta, con la preghiera, vogliano quel bene che Dio

vuole per tutti da tutta l'eternità.

Amore fraterno, che per amore di Dio collega tra loro i vivi e i morti e chiede

l'unione degli spiriti e dei cuori; e che trova la sua espressione tangibile nell'incontro di

Sordello da Mantova. Al solo nome della terra natia, Sordello abbraccia, prima ancora di

conoscerlo, il suo concittadino Virgilio. La scena strappa a Dante un'aspra invettiva

contro la "serva Italia", non governata secondo ragione e divisa dagli egoismi e dagli odi

e dagli interessi materiali. Carità di patria, in cui l'amore fraterno si sublima.

Nel purgatorio si sale entro la luce che piove dall'alto; e senza quella luce ci si

arresta. E questo perché l'amore fraterno, che stringe fra loro gli spiriti, attinge dalla

carità che vien dal cielo la sua fonte di vita. Senza la carità le virtù morali non bastano.

Esse producono i loro fiori, ma tra i fiori s'insinua occulto il serpente dell'orgoglio. Tale,

in delicata figurazione d'idillio, è l'idea creatrice che Dante realizza nella valletta fiorita,

dove si radunano i principi che vennero meno alle finalità naturali del loro dovere di

reggitori di popoli. Sordello li addita, questi principi, dalla cima di un balzo; e tra loro

conduce Dante quando la notte cade. Malinconia di un'anima che si sente sola e che

prega, mentre su nel cielo si affacciano le tre stelle delle virtù teologali. Sotto la custodia

degli angeli discesi dal cielo - le buone ispirazioni venute da Dio - Dante s'addormenta. E

in sogno, per quella giustizia che Lucia gli impetra da Dio, egli viene trasportato in alto,

oltre la sfera del fuoco, fino all'entrata del purgatorio propriamente detto: che è il regno di

quella verità spirituale che si conosce in quanto la si vive, e che si vive con gli occhi

chiusi della fede. Verità di Lucia, verità di quel naturale amore di noi stessi che, unendoci

con Dio autore di ogni bene, ce ne fa seguire la legge: una legge Sua, ma che diventa la

nostra e il nostro più profondo anelito vitale.

L'ordinamento morale del purgatorio è fondato sulla libera attività di questo

amore naturale, che è in noi una partecipazione creata dell'amore che Dio ha per se stesso

in virtù della propria perfezione. Dalla nostra libertà dipende di allentarne o frenarne lo

slancio o anche di volgerlo al male. Un tale amore è perciò principio in noi "d'ogni virtute

e d'ogni operazion che merta pene". Dal punto di vista dei valori umani e della posizione

dell'atto libero a cui tutto è subordinato da parte del soggetto, i disordini dell'amore

naturale, che è poi la ragione poetica della nostra vita profonda, si riducono ai sette

Divina Commedia 66

peccati capitali. Questi peccati, in ordine decrescente di gravità, sono puniti nelle sette

cornici del purgatorio.

Innanzi tutto la superbia, l'invidia e l'ira, per cui l'uomo, amando eccessivamente

se stesso, vien meno al bene comune: al bene della vita civile o politica, al quale egli è

naturalmente ordinato. Ma nell'ordine del bene morale, considerato in se stesso, nella sua

esistenza singolare, e perciò perseguito dal soggetto o con poco o con troppo di vigore,

tengono dietro gli altri peccati capitali: accidia, avarizia, gola e lussuria. Nel dominio

dell'attività pratica, dove la volontà piega l'intelligenza a suo piacere, l'uomo non può

giudicare rettamente sul da farsi se non quando il naturale amore di noi stessi non sia

rettificato fondamentalmente dalla prudenza e dalle virtù morali, che si contrappongono a

ciascun peccato: umiltà, carità, mansuetudine, continuo sforzo interiore, misura,

temperanza e purezza.

Il purgatorio dantesco è la traduzione in termini fantastici dell'arte mediante la

quale Dio, operando in ogni creatura come conviene alla natura che le ha dato, causa

negli spiriti l'azione dello spirito, con la spontaneità e l'interiorità e la libertà che conviene

alla loro natura. Con la sua arte, che è già la vita stessa delle anime purganti, Dio le

illumina nell'intelligenza e le conforta nella volontà con "esempi" che esaltano la virtù

morale opposta al peccato che esse scontano, oppure ricordano come in altre anime sia

stato punito il loro stesso peccato. E gli "esempi" sono il "visibile parlare" delle figure

scolpite sul piano o sulla ripa, o le visioni create dall'estasi stessa o i canti delle anime,

che per amore di Dio si spronano e si sostengono vicendevolmente nella loro pena.

Solidarietà spirituale, che Dio consacra e benedice per i cuori che egli ha voluto fratelli. E

mistero delle anime, la cui vita è una vita con Dio. Mistero della loro attività immanente,

poiché la bontà della creatura è la stessa bontà di Dio che la infonde in lei, mentre essa a

sua volta, questa stessa bontà, la invoca da Dio, padre comune, e si porta a lui sulle ali

della speranza. In tal modo la poesia del purgatorio dantesco, tutta pervasa di sacro ardore

e soffusa di tenera malinconia, ha il tono e l'accento della preghiera cristiana.

Poesia dell'umana bontà, che si umilia esaltando nell'autore di ogni bene il bene

che già essa possiede per grazia, e che pur anela di possedere in pieno. In tal modo

l'esperienza di Dante, che dentro di sé approfondisce sempre più quell'amore fraterno che

lega tutte le anime fra loro, non è che una continua ascesa del suo spirito, perché la legge

Divina Commedia 67

del bene, imponendosi alla sua volontà, lo fa sempre più amico di Dio. L'azione di Dante,

che è poi la sua stessa salita, è ancora per ciò un'azione di Dio. E Dio stesso lo conforta

nel suo aspro cammino, sia con gli angeli che gli cancellano dalla fronte le ombre del

peccato, sia con gli angeli che intonano i versetti delle "beatitudini" evangeliche,

avvivando in lui, come in ogni anima, l'amore della propria purificazione.

Ma l'ascesa di Dante, su per la montagna, dentro un paesaggio che è tutto una

serena aspirazione al cielo, è una ascesa continua, non solo del cuore, ma anche

dell'intelligenza. E’ la conquista progressiva della sua persona morale, che si libera in lui

delle miserie dell'individualità materiale, con le sue vanità e il suo regime naturale di

rivalità e di opposizione.

Tra i superbi che nella prima cornice procedono curvi e rannicchiati sotto gravi

massi, Dante vede, anche a suo proprio ammonimento, il conte Umberto Aldobrandeschi;

e nelle parole di Oderisi da Gubbio, che accenna allo sfiorire rapido della fama terrena,

egli già vive rassegnato anche il futuro oblio della sua fama di poeta.

In Provenzan Salvani egli riconosce la forza di quella bontà generosa che ci ispira

e che, dopo aver vinto in lui la superbia, canta a gloria di Dio. Bontà dell'essere, che si fa

opaca a se stessa quando nell'agire mira soltanto a interessi individuali o materiali. Tale,

nella seconda cornice, tra gli invidiosi che a ciglia cucite s'appoggiano l'un l'altro,

riconosce la senese Sapia, dispettosa verso i suoi concittadini. E tali precisamente sono

gli abitatori della valle dell'Arno, a giudizio di Guido del Duca e di Ranieri da Calboli,

che deplorano il tramonto delle virtù cavalleresche nella loro Romagna. Ma la presente

corruttela del mondo non si deve alla natura dell'uomo, essenzialmente buona; la si deve

bensì alla mancanza di una salda armatura morale che lo sorregga e lo guidi. E’ questo il

pensiero di Marco Lombardo, che Dante incontra nella terza cornice, tra gli irosi avvolti

da un densissimo fumo. Le leggi ci sono: l'uomo è ordinato, come individuo, al bene

comune della città e, come persona, al bene spirituale ed eterno; ma nessuno fa valere

queste leggi per la confusione che regna presentemente tra le due supreme potestà:

Chiesa e Impero.

Per la sua natura di animale ragionevole l'uomo è infatti ordinato al bene morale e

razionale; e deve volerlo sotto pena di perdere la sua ragione d'essere. Deve, perché la sua

coscienza gliene promulga il dovere. Per questo gli accidiosi, puniti nella quinta cornice,

Divina Commedia 68

sono costretti ad agire con sollecita cura e in movimento continuo. Se il diritto del bene a

essere amato in se stesso e praticato risponde all'ordine essenziale delle cose, il suo

fondamento supremo riposa in Dio, creatore dell'ordine, sommo bene e giustizia suprema.

Nella quinta cornice, tra i prodighi e gli avari, papa Adriano dichiara a Dante che,

giunto ai sommi onori, sentì che "lì non si quietava il core": il bene cui anelava era Colui

che per il bene l'aveva creato. E Ugo Capeto, dopo aver discusso sulle origini della sua

famiglia e sulle fosche gesta dei suoi discendenti, da Carlo d'Angiò a Carlo di Valois e a

Filippo il Bello, sente dentro di sé necessari e dominatori i diritti della giustizia e la

invoca da Dio. Improvvisamente tutta la montagna del purgatorio sussulta: un'anima è

ormai purificata e sale al cielo. Da tutte le parti s'alza il canto di Gloria in excelsis: amore

di carità, che stringe tra loro tutte le anime e che si esalta esaltando in Dio il sommo bene

e la somma giustizia. Quest'anima divenuta degna del cielo è quella del poeta latino

Stazio. Egli dichiara nel suo colloquio con i due poeti di dovere a Virgilio la prima

ispirazione che l'ha condotto poi a questa sua sorte beata. Virgilio aveva cantato il ritorno

dell'antica età dell'oro, l'avvento di una nuova umanità in un mondo di giustizia e di pace.

La realtà di questo sogno poetico Stazio l'aveva riconosciuta vera seguendo la

fede cristiana; e a Virgilio si confessa grato per il buon avviamento. E siccome Virgilio

gli ha additato il presente, Stazio s'inginocchia dinanzi a lui; cioè s'inchina dinanzi a

quella ragione poetica, d'ordine naturale, che viene da Dio, artefice della natura, e che ci

porta a sognare un mondo di pace e di felicità, di giustizia e di amore da conquistarsi

sulla terra. Aspirazioni della nostra coscienza e affetti eterni, perché eterna ne è la

sorgente: fioritura lirica della nostra anima, che, come Stazio spiega, è "forma" del corpo;

principio di vita e di passione concesso da Dio, primo motore, a tutta la materia. Le

perfezioni dell'intelligenza e della volontà, facoltà spirituali dell'anima, sono, nell'ordine

dell'agire, la saggezza e, nell'ordine del fare, l'arte. E saggezza e arte sono ciò che Dante

vive e di cui parla nella cornice sesta, dove si purificano i golosi, ridotti a pietosa

magrezza. Qui egli incontra Forese Donati, l'antico compagno di piaceri e di errori; e

tutt'e due, felici di ritrovarsi insieme lassù, si richiamano velatamente al loro passato,

mentre i ricordi familiari si riaffacciano dolci e teneri alla loro memoria e sulle labbra

riecheggiano i nomi delle persone care e delle creature pure, amate e ammirate come la

parte migliore della loro anima. Saggezza che contempla le cose in libertà, perché le vede

Divina Commedia 69

dall'alto; il che porta Forese a esaltare la sua buona moglie che prega per lui e a inveire

contro le sfacciate donne fiorentine e a prevedere la triste fine di Corso Donati.

E ancora in questa cornice, rispondendo a una domanda di Bonagiunta da Lucca,

Dante pone a regola suprema dell'arte quel diritto amore ("ordo amoris") che informava

la lirica giovanile del "dolce stil novo". Ma nel canto d'amore la perfezione dell'arte è la

bellezza dello stile, quella bellezza d'immagini che Dante ha ammirato nei versi del

"maestro suo", Guido Guinizelli, e del trovatore Arnaldo Daniello, i due poeti che nella

cornice ultima, quella dei lussuriosi, sono purificati nel fuoco. Anche Dante, guidato e

spronato affettuosamente da Virgilio, passa attraverso le fiamme. Ormai egli è sulla scala

che porta al Paradiso terrestre.

Alla vita sociale o attiva seguirà la vita contemplativa: a Lia seguirà Rachele, le

due donne che Dante, addormentato su un gradino della scala, tra Virgilio e Stazio, vede

in sogno, dopo aver chiuso gli occhi alle stelle scintillanti, più luminose nel cielo.

L'insegnamento di Virgilio, come scienza degli atti umani e della libertà è finito. Sotto la

sua guida sapiente - ispirazione naturale e arte, che è il "bello stile" della ragione pratica -

Dante si è conquistato la rettitudine della volontà, instaurando contemporaneamente in se

stesso la sua somiglianza a Dio e la conformità alla sua propria natura, perdute col

peccato. Egli è una "persona", un "per sé" sussistente, un "per sé" operante, capace di

trascendere con la sua intelligenza il mondo della realtà sensibile e attingere l'essere in se

stesso, nella sua universalità.

Il Paradiso terrestre. Sotto un cielo senza confini l'alta montagna del purgatorio

distende la sua cima in verdeggiante pianura. Virgilio si congeda commosso dal suo

discepolo. La perfezione della saggezza, che è il possesso della verità, non può venire a

Dante da lui. Virgilio lascia la parola all'anima di Dante, che s'avanza nella pianura e

s'inebria contemplando. Letizia spirituale della sua intelligenza, che assapora la bellezza

luminosa delle cose nel quadro di una natura sapientemente ordinata e tutta consonanze e

armonie.

Ma allora, con un movimento spontaneo dell'intelligenza che contempla, mentre il

cuore s'umilia per esaltare, Dante si porta a una Saggezza superiore che tutto ordina e

dispone, a Dio creatore, causa prima della bellezza di quanto esiste. E’ un primo atto di

giustizia reso a Dio. Perfezione ultima della saggezza umana, che si fa guida a Dante nel

Divina Commedia 70

Paradiso terrestre, e che egli raffigura in Matelda: la saggezza dei libri sacri, dove essa

appare come creata e increata, identificandosi a Dio ed essendone la prima creatura

(Convivio). Matelda dà ragione a Dante della forma del Paradiso terrestre, dei suoi due

fiumi, il Lete e l'Eunoè, e della caduta del primo uomo; e quindi lo porta a contemplare,

con un primo sguardo di fede, la saggezza divina che veglia all'esecuzione del suo piano

provvidenziale, assistendo gli uomini in viaggio verso l'eternità per mezzo dei santi del

cielo e per mezzo degli angeli. "Credo nello Spirito Santo, nella santa Chiesa cattolica,

nella comunione dei santi, nella resurrezione della carne e nella vita eterna", questo è il

motivo che Dante oggettiva nella processione mistica, contemplata con occhi attoniti e

attenti. La processione s'avanza in forma di croce sullo sfondo di una natura la cui

bellezza Dante sa essere figlia del Verbo, e si dispiega dentro un'atmosfera vibrante di

luci, corsa da melodie ed esultante di canti. Misteri della fede, che si presentano in

simboli avvolti di mistero: i doni dello Spirito Santo; il mistero dell'Incarnazione divina,

ultimo termine di tutte le promesse dell'Antico Testamento; il corpo mistico della Chiesa

(il carro tirato dal Grifone alato); ossia la Chiesa come società spirituale nella quale

discende da Dio, per Maria Vergine mediatrice e per il Cristo redentore, un influsso

soprannaturale di luce e di amore, che trasmette a tutte le anime i doni dello Spirito Santo

e l'amore di carità, vincolo di perfezione che stringe tra loro, unendoli a Dio, i fedeli della

terra, le anime del purgatorio e i santi del cielo e gli angeli.

Perfezionando nell'uomo le virtù cardinali (le quattro virtù a destra del carro), che

lo ordinano alla vita sociale o civile, suo fine naturale, la carità s'impadronisce della vita

intima dell'uomo e la fa corrispondere alle virtù teologali (le tre virtù a sinistra del carro),

e al suo fine soprannaturale. In tal modo egli diventa effettivamente concittadino dei santi

e domestico di Dio. La processione s'arresta. Ed ecco che dal sommo della città di Dio

discende, dentro una nuvola di fiori, gettati dagli angeli, Beatrice beata, la santa che

veglia per la salute di Dante, amando in lui una natura capace di ricevere la grazia di Dio.

Velata di bianco, cinta d'oliva, in verde ammanto, e con veste color fiamma, Beatrice si

posa sul carro della Chiesa; e Dante, che la riconosce, sente dentro di sé ravvivata la

fiamma dell'antico affetto (Vita Nuova). E ne vuol parlare a Virgilio; ma Virgilio,

"dolcissimo padre", è scomparso.

Divina Commedia 71

Trascolora ormai la ragione poetica che parla nell'anima di Dante. Con un ritorno

improvviso agli anni felici della sua giovinezza, ma con l'esperienza in più, egli torna ad

amare in se stessa la bellezza spirituale di Beatrice, come raggio della bellezza divina

partecipata, un lontano riflesso del Verbo di Dio creatore. Dante non può sottrarsi al

pianto per la scomparsa di Virgilio; ma subito lo scuote l'alto rimprovero di Beatrice, per

aver egli obliato tale bellezza quando essa era diventata più fulgida e più pura.

Maternamente, in spirito di carità, ella gli rammenta le buone promesse della sua "vita

nuova" e i traviamenti che non le hanno annullate, perché esse erano felici disposizioni di

natura a realizzare l'idea divina che avrebbe dovuto e potrà ancora attuare. Dante confessa

le sue colpe e piange il tempo invano perduto.

Tuffato da Matelda nel Lete, egli rinasce dall'acqua alla vita della grazia ed entra

nella città di Dio. Le quattro virtù cardinali, che sono virtù acquisite o ninfe nel Paradiso

terrestre e virtù infuse o stelle nel cielo, lo mettono in grado, insieme con le tre virtù

teologali, di vedere la seconda bellezza di Beatrice: la bellezza dell'essere spirituale in

stato di grazia, e perciò "splendore di viva luce eterna". E’ cioè la bellezza della santità,

nella quale si rispecchia la bellezza divina e umana del Verbo incarnato. La processione

mistica riprende il cammino, ripiegando verso oriente da dove è venuta; ma si sofferma

presso l'Albero della vita spirituale, la cui chioma spazia e si amplifica sempre più nei

cieli quanto più sale e vi si sprofonda.

La volontà di Dio, semente in noi d'ogni giustizia, era significata da questo albero,

reso sterile dalla disobbedienza di Adamo. Non appena Cristo (il Grifone) vi lega, con gli

stessi rami dell'albero, la croce (il timone del Carro della Chiesa), l'Albero della vita

spirituale rifiorisce, nei colori dell'ametista, i colori della carità, che sopraeleva con le

virtù morali infuse le virtù morali acquisite in relazione ai fini eterni della persona

umana. Dio infatti ci ha creati a sua gloria, ma per la nostra glorificazione. Cristo (il

Grifone) ascende al cielo, mentre sul nudo terreno della grazia, quasi a custodia del Carro

della Chiesa, resta Beatrice: la saggezza cristiana dei santi, che vivifica alle radici

l'Albero della vita spirituale, vivificando nell'ordine di esercizio tutte le virtù dell'anima,

cardinali e teologali, con i doni dello Spirito Santo. Contemplato così in simboli l'ordine

del piano provvidenziale, che la Saggezza divina ha stabilito per il governo delle anime,

Beatrice mostra a Dante come si pecchi contro Dio, non rispettando (prime persecuzioni

Divina Commedia 72

cristiane) l'Albero della vita spirituale, ossia la persona umana ordinata essenzialmente al

fine soprannaturale; e come si pecchi contro la verità, non riconoscendo (eresie).

Sovvertimento dell'ordine provvidenziale fu la donazione di Costantino

(Monarchia), per la quale entrò nella Chiesa militante lo spirito di cupidigia: il Carro si

trasforma in mostro e su di esso una meretrice (la Curia romana) delinque con un gigante

(Filippo il Bello). Ma la Provvidenza divina veglia e l'ordine sarà presto ripristinato: la

cupidigia, che infranse il "sacro vaso" della Chiesa di Cristo, sarà punita in chi ne ha

colpa; la monarchia universale avrà finalmente un suo rappresentante, che ne farà valere

gli imprescrittibili diritti; e verrà il "messo di Dio" (DUX), per il quale trionferà nella

Chiesa la carità e nella città terrena la giustizia. La saggezza di Beatrice - saggezza dei

santi, che è un confidente abbandono alla Provvidenza divina - è quella che conforta

Dante. Insieme con Stazio egli beve quindi l'acqua dell'Eunoè e, rinato allo Spirito, si

trova "puro e disposto a salire alle stelle".

Paradiso. E’ la vita eterna cominciata nel tempo, la vita soprannaturale della

grazia, che Dante vive in cammino di perfezione verso l'eterno. Sopraelevando dal

profondo la sua natura, la grazia santificante lo proporziona progressivamente alla

beatitudine soprannaturale, che è la visione dell'essenza divina; e ve lo proporziona in

quanto Dante, per la sua stessa natura intellettuale, vi è proporzionabile, cioè si trova in

potenza passiva di essere innalzato dalla grazia a tale proporzione. Dopo aver mirato per

un attimo la luce che gli piove dall'alto, Dante s'affissa con lo sguardo su Beatrice, i cui

occhi sono fermamente rivolti a Dio. E allora, per l'ardente amore di quella bellezza che

risplende in lei - bellezza divina e umana della santità il cui esemplare eterno è Cristo -

Dante si sente trasumanato.

Similmente all’esperienza di san Paolo, "non sono io che vivo, ma Cristo che vive

in me", la grazia fa Dante un figlio adottivo di Dio: lo fa "consorte" della natura divina; e

insieme con la grazia fiorisce in lui la carità, che attinge Dio come realmente presente

nell'anima a titolo di dono. E una nuova natura spirituale si svolge in lui e lo orienta

interiormente verso Dio come oggetto di conoscenza e d'amore; ma di una conoscenza e

di un amore fruitivi, che lo metteranno in possesso di Dio, non a distanza, bensì in unione

reale con lui. La ragione poetica che informa il paradiso dantesco è la vita e l'attività di

questa nuova natura spirituale, che sviluppa nell'anima di Dante un complesso organismo

Divina Commedia 73

di energie soprannaturali: virtù teologali di speranza e di fede, doni dello Spirito Santo,

virtù morali infuse, ma che fiorirà in visione dell'essenza divina soltanto al suo termine,

di là dal tempo. Per ora essa fiorisce in attualità operativa mediante la carità e con la

carità; la quale è sulla terra quella stessa che è nel cielo, ma in uno stato ancora

imperfetto, perché sulla terra, nonostante il suo fervente anelito alla visione, non può

procedere che dalla fede come sostituto della visione.

Finalizzato dal desiderio di vedere Dio come egli stesso si vede, Dante si sente

trasportato oltre la sfera del fuoco, entro la luce sfolgorante dei cieli e le sonore armonie

delle sfere ruotanti. La ragione che presentemente lo guida è quella di Beatrice, "ch'opera

è di fede": una ragione veramente pura, che non vive che per la fede e che insieme con la

fede possiede la speranza e la carità. E’ insomma la saggezza cristiana, la quale ci fa

conoscere Dio nella sua vita intima entro le immagini della fede, al modo umano e

discorsivo; cioè Dio viene conosciuto per fede nei simboli di cui si serve lo spirito che

crede, e che aderisce perciò a quanto Dio stesso ci ha di sé rivelato. Il mondo

soprannaturale della grazia e della carità, che dà forma al paradiso dantesco, traduce, in

immagini spaziali di luce e d'armonia, quella che è la vita interna dell'Albero spirituale

piantato da Dio nel Paradiso terrestre e la cui chioma, travolta in su la cima, via via si

dilata quanto più sale in su.

E l'ascesa di Dante di cielo in cielo, ossia di perfezione in perfezione sempre

maggiore, corrisponde, nella vita della grazia, all'ascesa su questo Albero della vita

spirituale; cioè Dante, sostituendo alla propria volontà la volontà di Dio, riceve per grazia

ciò che Dio possiede per natura: l'indipendenza assoluta di fronte a tutto il creato, il

disprezzo di tutte le cose, ma per amarle tutte in se stesse come Dio le ama, infondendo in

loro la bontà e facendole perciò degne di essere amate. Il paradiso dantesco rappresenta

in simbolo la città di Dio, la Chiesa trionfante. Lì, per i meriti di Cristo e di Maria

Vergine mediatrice, discende da Dio su tutte le anime un influsso soprannaturale di luce e

d'amore, che le tiene tutte sotto la luce della sua radiante bontà; la quale risale in certo

qual modo verso Dio da parte di tutte le anime, che in rendimento di grazia cantano tutte

a gloria di lui, per la pace finalmente raggiunta col possesso effettivo e gaudioso della

verità contemplata. Attraverso le immagini della fede e in virtù della carità, che già sulla

terra lo fa cittadino del cielo, Dante conversa con le anime beate e le conosce

Divina Commedia 74

sperimentalmente per connaturalità affettiva. Dapprima egli sale ai sette cieli planetari,

dove, secondo le connessioni e le complessioni della natura e della grazia, gli si

presentano le varie anime; e ciascuna è nel proprio pianeta, in ragione della virtù morale

acquisita ("ninfa" nel Paradiso terrestre), ma sopraelevata ora dalla carità e dalla

corrispondente virtù morale infusa ("stella" nel cielo).

L'ordine del paradiso dantesco s'attiene perciò a un processo perfettivo di energie

naturali e soprannaturali: la fortezza nel cielo della Luna mossa dagli Angeli, la giustizia

in Mercurio mosso dagli Arcangeli, la temperanza in Venere retto dai Principati e la

Prudenza nel Sole retto dalle Podestà. Per le virtù teologali infuse, considerate però

nell'esercizio umano e secondo l'uso dell'intelligenza, la fede è nel cielo di Marte, mosso

dalle Virtù; la speranza in quello di Giove, mosso dalle Dominazioni, e la carità in

Saturno, mosso dai Troni. Per tali virtù morali infuse tutte le anime, pur apparendo a

Dante nei singoli pianeti, sono tutte in Paradiso.

Un solo Spirito opera in tutte, nonostante la diversità dei suoi doni. Un solo Padre,

che è sopra di tutti, agisce in loro nonostante la diversità delle loro operazioni. In Dio

tutte si armonizzano in se stesse e tra loro insieme; e agiscono tutte, le une sulle altre, con

santo zelo del bene, e odio santo del male. Comunione dei santi, che pregano con ardore

di carità, perché la volontà di Dio sia fatta e avvenga il regno suo così in terra come in

cielo. La sua esperienza di conoscenza e d'amore, nel Paradiso della fede, Dante la

traduce fantasticamente in termini di analogia, dove le immagini di luce si riportano alle

viventi realtà divine considerate in se stesse e conosciute da ciascuna anima in modo

proporzionato alla sua natura. A loro volta le immagini gaudiose dell'amore di carità, che

è numero interiore e ritmo, musica e canto dell'anima esultante, si riportano tutte a Dio,

che a ciascun'anima si è donato per grazia.

Nel cielo della Luna, tra coloro che vennero meno ai loro voti, Dante incontra

Piccarda Donati, "vergine sorella" nell'ordine di Santa Chiara, rapita dal convento e

costretta alle nozze: creatura gentile di bellezza e di bontà, la cui fortezza spirituale,

attinta da Dio contro i tormenti della sorte avversa, trionfa lieta lassù come fortezza dello

Spirito Santo.

Nel cielo di Mercurio, tra gli spiriti attivi, Giustiniano esalta l'opera sua di

legislatore, esaltando la virtù di giustizia che informò le leggi dell'Impero romano,

Divina Commedia 75

ordinato provvidenzialmente al bene dell’individuo e al bene della persona umana. Virtù

di Giustizia, che i Guelfi e i Ghibellini ignorano, e che è analoga alla giustizia distributiva

di Dio, per la quale in quello stesso cielo è premiato l'umile Romeo.

Nel cielo di Venere, tra gli spiriti amanti, Dante riconosce Carlo Martello, che

biasima l'intemperanza dei principi della sua stirpe, preoccupati solo di dominare. E

riconosce ancora Cunizza da Romano e Folchetto da Marsiglia, che temperarono le

fiamme del loro amore, rivolgendolo a fini soprannaturali.

Nel cielo del Sole, tra gli spiriti sapienti, la prudenza che animò san Tommaso

d'Aquino e san Bonaventura si rivela nell'esaltazione della Divina Provvidenza che regge

il mondo. Nello stile che a ciascuno dei due è particolarmente proprio, essi tessono, l'uno

il panegirico di san Francesco e l'altro il panegirico di san Domenico, i due santi

fondatori di ordini religiosi, che purtroppo si sono sviati da quello spirito che stava loro a

principio.

Nel cielo di Marte, tra i martiri della fede, Dante ritrova Cacciaguida, prima

radice della sua famiglia. Il motivo lirico della saggezza crocifissa, che informa il

Paradiso, ma che costituisce il motivo segreto e profondo di tutta l'esperienza cristiana

trasfusa nella Divina Commedia, si concreta e trova la sua luce nel colloquio tra l'avo e il

nipote. Cacciaguida rievoca, in contrasto col presente, la Firenze del bel tempo antico,

tutta ordinata spiritualmente al benessere civile e al rispetto della persona umana, il cui

fine ultimo è Dio. E al nipote, venuto da quella Firenze moderna che lo ha condannato, e

che egli dal cielo condanna, Cacciaguida predice, a gloria di lui, le pene dell'ingiusto

esilio e della povertà. Motivo di orgoglio, sì, ma più ancora di confidente abbandono

all'infallibile giustizia di Dio. Questa giustizia ormai Dante la conosce per segni

manifesti; e potrà perciò gridarla senza timori in faccia al mondo ed esaltarla in

ammonimento e a vergogna di chi la conculca e la offende. Gli spiriti informatori del

"poema sacro", nel quale il tema dell'esilio e della povertà di Dante costituisce un motivo

ricorrente che sempre svaria e trascolora, s'illuminano in questo episodio e si sostanziano

di viva fede.

Qui Dante affronta dignitosamente l'avverso destino e l'accetta per amore di Dio; e si fa

gloria delle persecuzioni che dovrà subire da parte di uomini ingiusti, nei quali tuttavia

egli ama la loro anima, ancora capace di ravvedersi e di ricevere la grazia.

Divina Commedia 76

Innalzato quindi al cielo di Giove, Dante si trova tra gli spiriti pii, che amando la giustizia

in se stessa, al di sopra di ogni cosa, la attuarono e si nutrirono di verità. Aquila il cui

occhio vede là dove l'occhio umano non arriva, la giustizia imperscrutabile di Dio, che

s'identifica con la sua misericordia, e che vuol essere vinta dall'amore, infuse in questi

spiriti, anche se pagani come Rifeo o Traiano, la fede e la speranza della salute eterna.

Da ultimo la grazia porta Dante al cielo di Saturno; e qui gli si presentano i santi

che vissero di carità e di contemplazione. Essi cooperarono al governamento divino delle

anime con la preghiera, effetto che Dio ha voluto da tutta l'eternità, come mezzo (la scala

d'oro) per ottenere da lui la grazia di cui abbiamo bisogno, per arrivare al termine del

nostro viaggio. Dante ascolta l'ispirata parola di san Pier Damiano e di san Benedetto, che

ricordano la loro vita e la loro azione, biasimando l'uno i prelati, l'altro i propri seguaci,

troppo legati alle cose e immemori del fine soprannaturale al quale ogni anima è ordinata.

Nella personalità veramente perfetta dei santi Dante conosce, per connaturalità

affettiva, le virtù che Dio vi infonde, e si conquista la sua propria personalità nella misura

stessa in cui docilmente si rimette a Dio, dallo spirito del quale si sente mosso.

Ponendosi, per amore di Dio, di fronte alle cose con sempre maggiore indipendenza, egli

può guardare giù alla terra, di là dai sette pianeti, e sorridere del suo "vil sembiante".

Ormai è nel cielo delle Stelle fisse, dove Cristo e Maria mediatrice sono gli astri maggiori

che trionfano nella loro gloria tra miriadi di stelle. Con immagini che adunano in sé gli

splendori del cielo e della terra Dante traduce in termini di analogia il contenuto della

fede cristiana, mentre la sua anima, in stato di grazia, prende coscienza di se stessa e delle

proprie certezze interiori e in quella fede si conferma con gioia.

E’ cioè, nella vita della grazia, una conoscenza ispirata, di cui Dante dà prova

quando san Pietro lo interroga sulla fede, san Giacomo sulla speranza e san Giovanni

sulla carità: le tre virtù teologali che non possono essere oggetto di conoscenza, se non

quando l'anima sia fatta mobile al soffio dell'ispirazione divina. E lo spirito di Dio, nelle

risposte di Dante, dà testimonianza di se stesso; è questa un’esperienza nella quale

l'anima di Dante palpita felice come palpitò felice l'anima del primo uomo, creato dalla

libera volontà di Dio nello stato di grazia. Ed è qui che l'anima di Adamo, prima radice

dell'uomo, si fa presente a Dante in visione. E tutta la storia della creazione, attraverso le

vicissitudini dell'umanità che varia, si aduna lì, in Adamo, come principio e come fine,

Divina Commedia 77

come manifestazione della bontà infinita di Dio, che non solo ci ha dato la nostra natura,

ma che la ordina a un bene infinitamente migliore. La grazia, divinamente mescolata

all'atmosfera umana che respiriamo, ai ricordi della nostra storia e della nostra specie, ci

avvolge da ogni parte e ci stimola e ci sprona, perché solo uniti a Dio attraverso Cristo

redentore possiamo vivere della stessa verità e della stessa carità. Comunione dei santi,

per il cui trionfo san Pietro, dall'alto del Paradiso, tra lo stupore di tutti i beati, tuona

contro colui che usurpa in terra il suo posto, contro Bonifazio VIII e i pontefici immemori

del loro alto ministero. Al tempo stesso egli annunzia immancabile il soccorso della

Divina Provvidenza. La fede di Dante, che permea tutto il poema, ritrova qui, per amore

di carità, la sua espressione più alta. Essa poggia sull'interpretazione provvidenziale della

storia (Epistole, Monarchia) e di essa si sostanzia tutta la Divina Commedia, che dentro

la storia vive e palpita e se ne nutre e si sviluppa.

Nella storia umana, come nell'ordine dell'universo, Dante coglie il significato

oggettivo di concetti che s'avvivano della sua fede e la illuminano, mentre poeticamente li

traduce in giudizi di assoluta certezza. La grazia ancora lo innalza al Cielo cristallino, che

è il cielo della fede soprannaturale, la cui luce dirige il movimento naturale della ragione

e il suo modo naturale di conoscenza. E qui Dante coglie Dio in lontana visione, come

punto luminoso: fiamma di amore, intorno alla quale s'aggirano i nove cori angelici, e

fonte di luce intellettuale, dalla quale discende, insieme col movimento della vita e del

tempo, un flusso eterno di causalità creatrice, che nelle creature si rifrange e si

prismatizza. La visione svanisce in un lampo vivissimo che avvolge Dante, luminosa

oscurità della fede, che lo innalza nel cielo della pace divina e della pura contemplazione:

l'Empireo. La carità di Dio, che trionfa nell'eterno e che ne canta la gloria, è la "forma

general di Paradiso". Questa gli si dispiega dinanzi ed è come un fiume di luce tra sponde

fiorite.

Tangibile manifestazione della bontà di Dio, quel fiume di luce si rivela poi

all'occhio estatico di Dante come una candida rosa, i cui petali sono ciascuno il seggio di

un'anima beata, mentre una volante moltitudine di angeli, scendendo dalla Luce eterna

nel fiore e a lei risalendo, comunicano a tutte le anime l'ardore di carità e la pace.

Immagine lirica in cui Dante, alla cima della sua esperienza in Paradiso e al sommo

dell'universo creato, coglie in se stesso la vita soprannaturale della grazia che vive in lui e

Divina Commedia 78

che di se stessa lo fa innamorare nella gloria delle perfezioni create, dove la luce e

l'amore di Dio si rivelano prismatizzati e rifranti.

Beatrice, la santa che l'ha guidato di cielo in cielo, di perfezione in perfezione

sempre maggiore, ora lo lascia e ritorna al suo seggio di gloria, "riflettendo da sé gli

eterni rai". Sostanzialmente distinto dal suo creatore, Dante non è più che un puro amore

di Dio per Dio, una vivente immagine di Dio. Ma Dio resta ancora infinitamente al di là,

perché la fede glielo fa conoscere solo a distanza; e nella fede Egli è conosciuto come

non conosciuto. Il desiderio della visione resta; e allora non rimane a Dante che piegare le

ginocchia e pregare. Egli s'affida, per conoscere l'oggetto essenzialmente soprannaturale

della fede, alla saggezza mistica, raffigurata in san Bernardo. Con la sua alata preghiera

alla Vergine il grande contemplante, insieme con tutti i beati, impetra per Dante il gaudio

della visione di Dio: realizzazione del voto iscritto nella sua natura dalla grazia

santificante. La Vergine rivolge gli occhi all'eterno Lume e Dante, nel silenzio di ogni

creatura e di ogni rappresentazione, gode di una conoscenza fruitiva di Dio.

Per l'amore di carità che lo ispira e per la carità che gli è infusa da Dio, Dante,

sotto la speciale ispirazione dello Spirito Santo, non solo esperimenta in sé il suo amore

di Dio, ma Dio stesso attraverso il suo amore. E Dio stesso è presente in lui, che egli

coglie per visione, credendo di averLo realmente intuito per la dolcezza infinita che ne

prova affermandoLo. Un attimo solo di eternità; dopo il quale Dante si sente nuovamente

ripreso nell'universale circolazione di quell'"Amor che move il sole e l'altre stelle".

L'allegoria fondamentale del poema. La conoscenza sperimentale di Dio, come

oggetto di conoscenza d'amore, è il fine ultimo della Divina Commedia e la causa finale

per cui Dante si è mosso, uscendo dalla "selva oscura e selvaggia", per entrare nel mondo

dell'esperienza. Il "luogo eterno" dove le anime esercitano la loro esistenza e la attuano, è

il presupposto e la condizione necessaria di questa sua esperienza, perché nel regno dello

spirito ricevere dagli altri significa agire, cioè arricchirsi intrinsecamente dell'essere di chi

è diverso da noi; e quindi perfezionarsi interiormente e manifestare l'autonomia di ciò che

c'è di più vivo e di vivente in noi. Il viaggio di Dante è questa azione immanente.

E’ la vita del suo spirito, che attraverso all'esperienza si sviluppa spontaneamente,

e cresce e concresce insieme con la sua stessa esperienza, a guisa di globo il cui volume

si dilata nella misura stessa che se ne allunga il raggio in rispondenza del cammino

Divina Commedia 79

percorso. Al termine del suo viaggio la vita spirituale di Dante, che si è nutrita dell'essere

esistenziale, sia nell'ordine della natura, sia nell'ordine soprannaturale della grazia,

congloba in sé tutto quanto l'essere creato, terra e cielo; e Dante non è più che il semplice

portatore di un'immagine di Dio, quell'immagine che poeticamente egli oggettiva nel

microcosmo della Divina Commedia, un microcosmo analogo, per similitudine di

proporzioni, al macrocosmo. E come Dio creò l'universo in sette giorni, iniziando la sua

opera in primavera, col sole nella costellazione dell'Ariete, così, analogamente, Dante

crea il suo universo poetico in sette giorni, iniziando il suo viaggio in primavera, col sole

in Ariete, nella settimana pasquale dell'anno 1300.

Allegoricamente il viaggio di Dante è il viaggio di ogni anima, che attraverso il

mondo dell'esistente tende alla beatitudine soprannaturale come a suo ultimo fine, per

grazia di colui che le ha dato la natura; e che l'ha lasciata libera di scegliersi i suoi fini

particolari nei limiti del fine generale verso il quale essa è portata dal peso della sua

propria essenza. In tal modo il principio vitale e dinamico che via via s'incorpora nella

Divina Commedia, - e che si può cogliere entro la pura linea delle determinazioni

spirituali che si disegna in Dante come soggetto d'azione - è la vita dell'anima, come

"forma intenzionale" che dell'umana essenza è vagheggiata nella mente di Dio e

contemplata dagli angeli (Convivio).

E tutto il poema, nella trama fantastica mediante la quale Dante oggettiva e

racconta un'esperienza da lui stesso intimamente vissuta in relazione a Dio, che è l'Essere

degli esseri, si risolve in una continua metafora; la quale chiude in sé, ed è il suo mistero,

un'analogia di proporzionalità propria, assegnabile ed esprimibile per se stessa, ma

inesauribile e sovrabbondante di sensi ("polisensos, hoc est plurium sensuum", come dice

Dante nell'epistola a Cangrande), a tal punto che essa è sempre più della sua stessa

espressione. La condizione delle anime, ripartite nei tre regni dell'oltretomba e distribuite

secondo l'ordine di una giustizia che tiene conto per ciascuna di esse o del merito o della

colpa, è l'espressione storica o letterale ("sensus litteralis sive historialis") di uno stato di

fatto. E’ cioè lo stato in cui storicamente si trova, nel soggetto umano, la natura

dell'uomo, con diretto riferimento alle sue condizioni di esistenza e di esercizio nel

concreto. Di qui la duplice ripartizione del poema, secondo che l'uomo è considerato

("simpliciter acceptus") nella sua natura di animale socievole (Inferno e Purgatorio), il

Divina Commedia 80

cui fine naturale e temporale è la contemplazione (Paradiso terrestre); oppure è

considerato ("non simpliciter acceptus, sed contractus") nella sostanza della sua natura, il

cui fine soprannaturale ed eterno è la visione di Dio (Paradiso).

In relazione allo stato di fatto in cui si trovano le anime dopo la morte corporale,

la raffigurazione delle pene o del premio, a cui esse sono andate incontro, va riportata,

perché non sia intesa materialmente, alla nozione metafisica e analogica della "persona",

il cui analogo supremo è Dio. Egli solo infatti possiede la personalità nel senso più

perfetto della parola, perché egli solo è assolutamente indipendente nel suo essere e nella

sua azione, essendo la sua personalità il suggello della sua trascendenza e delle sue

infinite perfezioni. La persona umana, che è una sostanza individuale completa, di natura

intellettuale e signora delle sue azioni, costituisce la vera "nobiltà" dell'uomo (Convivio);

ma è una nobiltà che ciascuno deve conquistarsi, mettendola in luce nella misura stessa in

cui la vita della ragione e della libertà si farà dominatrice in lui della vita dei sensi e delle

passioni. Altrimenti egli resterà un "individuo", la cui vita sarà simile a quella dei bruti e

delle piante e delle pietre.

Lo svolgimento della nostra individualità, che viene dal corpo, è seguito da Dante

nella sua discesa infernale: un continuo sprofondarsi nel buio della materia, con il

conseguente annullamento della nostra innata libertà. Sotto l'influsso di una passione

dominante l'equilibrata armonia della persona umana, nella sua inscindibile unità di

anima e corpo, si deforma, s'incrina e si frange (si pensi al Veglio di Creta), riducendosi a

una multiforme pluralità di facoltà dinamiche in contrasto. La progressiva conquista della

persona, i cui privilegi sono nascosti nella materia della nostra individualità carnale,

Dante la invera mentre scala la montagna del purgatorio; ed è la vita di una ragione che ci

giudica e si giudica con un ritorno sui propri atti, e che liberandoci dalle suggestioni della

sensibilità ci ordina dall'interno e ci dispone stabilmente al vero bene. Ma lo svolgimento

completo della personalità, che viene dall'anima, Dante lo invera contemplando nei cieli

della sua fede, che sono poi i cieli della grazia di Dio, le anime di coloro che amarono in

Dio l'esemplare eterno e la sorgente di ogni personalità degna veramente di questo nome.

Essi cercarono di sostituire in certo qual modo, nell'ordine dell'azione, della

conoscenza e dell'amore, al loro proprio io l'io divino, rinunziando alla loro personalità o

indipendenza di fronte a Dio, dal cui spirito dovevano essere mossi per essere suoi figli.

Divina Commedia 81

Dall'individuo alla persona morale e dalla persona morale alla personalità, che è in noi il

fiorire e il fruttificare, insieme con Dio, di un'idea creatrice di Dio, è il cammino che

Dante percorre nel suo poema. E’ cioè l'esperienza vitale che egli fa di se stesso in virtù

di un ordine naturale iscritto nella sostanza di ogni persona. Agire in senso contrario a

questo ordine è per l'uomo opporsi alla volontà di Dio; è negare in se stesso, per quanto

gli è possibile, il fine che Dio si è proposto creandolo, suicidio di una persona morale

creata per la beatitudine eterna, e che la rifiuta. E perciò l'inferno, dove le anime sono

morte alla grazia, è un'escavazione in direzione opposta al loro fine naturale,

un'escavazione nell'oscuro dominio della individualità fino al tufo solido dell'istinto.

Nel purgatorio e nel paradiso, dove le anime sono vive alla grazia attuale e

santificante, si ha una continua ascesa di libertà in libertà, di luce in luce, per "la diritta

via". Lungo il suo viaggio Dante dispone le anime, seguendo l'ordine di una giustizia

distributiva, che tien conto dei meriti e delle colpe. Egli consulta la voce della sua

coscienza, che è poi la voce di Dio, la voce di quella ragione naturale che ci guida: una

ragione analoga alla ragione creatrice, che governa e muove tutte le cose create e le porta

al loro fine. La coscienza morale e religiosa di Dante che giudica, mentre si riconosce

giudicato da essa, si radica nel sentimento del Dio vivente in noi e che parla in noi,

legando, per un legame di partecipazione, la nostra ragione alla sua stessa ragione. Di qui

il tono generale del "poema sacro" dove Dante, per un'ispirazione che gli viene da Dio,

autore della natura e rimuneratore nell'ordine della grazia, si sente nuovo Enea e nuovo

Paolo.

Investito di una missione provvidenziale, egli spera di redimere colpe ed errori

non a sua gloria ma per la glorificazione di Dio. E di qui ancora la sorgente unitaria di

quel linguaggio poetico, essenzialmente lirico e sostanzialmente identico a se stesso pur

nella varietà delle sue sfumature, che costituisce il tessuto fantastico del poema. E’ un

linguaggio che non si esaurisce nella sua appariscenza, perché va trasferito, per analogia

metaforica, alla vita intima dell'anima di Dante in cammino verso Dio; come pure va

trasferito alla vita intima di ogni anima, sia che essa rigetti la vita razionale e s'interni

sempre più a fondo nella materia della sua individualità carnale, sia che essa si conformi

alle esigenze e ai destini propri della natura umana e si conquisti, mediante la ragione e le

virtù morali, una personalità. Solo allora essa si sarà messa tutta in luce, facendo rifulgere

Divina Commedia 82

in se stessa un'idea di Dio creatore. Ma l'esperienza di Dante e di cui Dante s'arricchisce,

perché concresce con lui, è una conoscenza poetica ("sensus qui habetur per litteram"),

fondata sullo stato di fatto in cui si trovano le anime lungo il suo cammino, ossia lungo la

linea dell'attività che interiormente lo finalizza e lo perfeziona. Ciò che Dante conosce

sperimentalmente, per connaturalità, nella misura stessa che fantasticamente se la fa

presente in visione, è, come ci vien detto nell'epistola a Cangrande, la "natura dell'uomo".

E’ l'essere umano considerato nel suo dinamismo interno che lo anima e che lo porta

all'azione concreta; ed è giudicato secondo l'uso del suo libero arbitrio e la facoltà di

scelta in rapporto ai suoi fini particolari e in rapporto al Bene supremo. E’ cioè il mistero

di ogni anima, con i suoi segreti della conoscenza e dell'amore, un mistero che si rivela

incorporandosi, ma che incorporandosi si cela; e questo mistero Dante poeta oggettiva

con la sua fantasia, seguendone fedelmente e con obbedienza i contorni, mentre, con

un'analisi docile all'analogia dei trascendentali, vi penetra dentro e ne segue le operazioni,

senza ledere in nulla, per ciascuna anima, l'unità, l'originalità e il segreto che le è proprio.

Siamo sul piano metafisico della natura creata, dove ogni anima è una partecipazione

analogica dell'amore che Dio ha per se stesso in virtù della sua propria perfezione. Il che

presuppone un'identità di oggetto; per cui ogni anima, amando naturalmente se stessa e la

propria vita e la vita dei suoi simili e il "dolce mondo che del sol s'allegra", ama in se

stessa Dio senza conoscerlo e lo serve senza saperlo. E mentre tende alla bellezza che

rifulge nelle cose, e che è la loro bontà e la loro verità, essa tende, senza saperlo, a Colui

che possiede ogni perfezione creata per identità reale del suo essere, della sua bontà e

della sua attività: a Colui che è la Vita stessa, di fronte alla quale tutte le cose sono come

se fossero morte.

Il sentimento che Dante ha della vita, come attività stabile e permanente, in tutte

le gerarchie degli esseri e nelle forze oscure della natura e nel movimento degli astri e

nella radiante luce delle stelle, è una partecipazione creata dell'attività divina creatrice,

vibra in tutta la Divina Commedia. E questo sentimento, che è contemplazione poetica

delle cose in ciò che è la loro vita segreta, involge sempre in sé un'ansia morale e

religiosa e un pensoso stupore. Essa crea l'atmosfera spirituale che Dante pellegrino vive

e respira, e che egli viene esprimendo fantasticamente in note coloristiche di paesaggio a

luci e ombre. Tutto, in natura, dipende da Dio; e perfino le potenze cieche della materia,

Divina Commedia 83

che sono i mostri infernali, e gli spiriti del male, tutti sono inconsapevoli ministri della

volontà divina.

Anche l'uomo dipende da Dio, ma come amore creato, un centro di libertà, che fa

fronte a Dio e a tutto l'universo, e nel cui segreto non può leggere altri che Dio. Ma la

radice di questo amore, che è il seme di felicità in noi seminato dal buon seminatore

(Convivio), è così sprofondata nella materia della nostra individualità carnale, che

possiamo solo trovarla di là dalla nostra notte (Inferno), come di là dalla notte del nostro

pianeta c'è agli antipodi il giorno e brilla il sole (Purgatorio). Solo allora quell'io

spirituale, quell'io divino che è in noi, si farà sorgente di un'attività spirituale, che nel suo

duplice esercizio, teorico e pratico, d'arte e di scienza, sarà un continuo perfezionamento

della nostra persona destinata alla vita futura.

Episodicamente, lungo il suo cammino, che si sprofonda nelle tenebre per

giungere alla luce dell'opposto emisfero e salire "per lucem ad astra", Dante oggettiva in

se stessa la vita di quelle anime che storicamente sono "di fama note". E cioè, dentro il

sensibile e per mezzo del sensibile, egli fa tralucere la luce di una "forma", come bellezza

in sé, come principio di vita e di passione, che ciascuno conosce nella misura stessa che

poeticamente la vive. E’ una verità intelligibile, che non va considerata in modo univoco,

come se si esaurisse in se stessa, né in modo equivoco, come se fosse puramente

intellettuale o astratta, bensì in modo analogico (analogia di proporzione) in rapporto a

Dio.

E questa verità presentata "per esempio" è una verità morale ("sensus moralis"),

se si tien conto del fine naturale o temporale al quale l'uomo è ordinato, o una verità

spirituale ("sensus anagogicus"), se si tien conto del fine ultimo, soprannaturale, ed

eterno. Secondo le prospettive teoriche del tomismo, già applicate da Dante nel Convivio,

la sua esperienza poetica ha così per fondamento "storico" lo stato delle anime dopo la

morte corporale, giudicate secondo l'ordine di esercizio, di esistenza e di vita; ma essa si

svolge e si organizza in lui secondo l'ordine di specificazione. E’ cioè la natura o essenza

dell'uomo, conosciuta sperimentalmente nei soggetti "esemplari", quella che si rivela a

lui, sorretto e guidato dalla fede, su tre piani di analogia: quello della pura natura senza la

grazia - che è la natura umana collocata nel Limbo dell'inferno -; quello della natura

Divina Commedia 84

umana sanata dalla grazia e in viaggio verso l'eternità; e quello della natura umana

sopraelevata dalla grazia santificante.

Su questi tre piani (inferno, purgatorio e paradiso), che implicano trasposizioni

intime di attività e di vita, s'illuminano le simmetrie e le consonanze, le corrispondenze e

le armonie spirituali, che collegano tra loro le tre cantiche e ne fanno una unità

inscindibile. E ciò con un continuo approfondimento "sur place" del mistero dell'essere,

che è l'oggetto di cui Dante poeta va dichiarando attraverso l'esperienza le differenze in

esso contenute; poiché l'essere, che tutto imbeve, e non è nemico di nessuno, è il mare

immenso nel quale fluisce perennemente l'eterna poesia di Dio.

Il "subiectum" allegorico del poema. E in verità quella che Dante coglie

poeticamente in ogni essere umano, e che conferisce alla Divina Commedia una salda

unità di ispirazione, pur nella varietà delle note individuali in cui questa unità si

prismatizza, è la poesia di Dio, ossia l'amore che ogni creatura ha di essa stessa e della

sua propria vita, insieme con un desiderio di eternità e di pace, di verità e d'amore. Le

aspirazioni liriche della nostra anima sono gli affetti eterni, la cui rettitudine, quando la

manteniamo, non può non essere che un appello a Dio che li ispira. Ma solo con la carità,

che presuppone la grazia, questi affetti possono diventare un abito operativo e farsi vere

virtù morali. Altrimenti, come nell'inferno dantesco, essi non resteranno che pure

aspirazioni liriche in contrasto con la nostra azione concreta, e faranno della nostra vita

spirituale una vita disarmonica e divisa, sorgente eterna d'ogni dolore.

Sarà allora la vita di Francesca, che anela alla pace e la cerca nell'amore,

offrendosi con tutta se stessa, mentre si nega la pace tuffandosi nel vortice della passione;

o la vita di Farinata, che anela al bene della patria, mentre si fa con la sua azione violenta

il suscitatore di odi implacabili e di vendette; o la vita di Brunetto Latini, che anela

idealmente al bene morale, mentre si tuffa nell'immoralità e se ne vergogna di fronte al

suo discepolo; o la vita di Pier della Vigna, che anela alla giustizia e la vuole a gloria del

suo proprio nome, mentre si fa ingiusto contro se stesso e si nega alla vita. Oppure sarà la

vita di Ulisse, che anela di conoscere tutto e si strappa a tutti gli affetti per una verità

puramente intellettuale che lo attira e lo travolge; o la vita di Ugolino, che ama

disperatamente se stesso nei figli, ma con un amore che si fa generatore in lui di dolore e

di odio eterno.

Divina Commedia 85

L’esperienza nell'inferno dantesco è la vita di un'anima, che nella sua naturale

richiesta di felicità si tuffa sempre più nel mobile flutto delle cose, e si fa schiava delle

cose. Chiusa nella sua realtà tormentosa, essa s'individua e giganteggia quanto più

procede attraverso le tenebre delle sue passioni, con un movimento di discesa, di

degradazione e di dissoluzione. E la sua eloquenza è quella di un io risentito, che si

conferma e stacca gli altri da sé e li divide: ora ferma e decisa, ora rapida e a scatti, ora

larga e solenne, ora fredda, proterva e tagliente, secondo che prevale in essa lo spirito di

passione, di sopraffazione o d'ingiustizia. E tuttavia sempre tale che s'addolcisce con un

sospiro alla vita serena, alla luce del sole, al dolce mondo degli uomini e alla sua cara

umanità perduta. Desiderio di natura e aspirazione eterna, che è l'espressione

insopprimibile del nostro io più profondo, di quell'io della vita che anela alla vita e che ci

precede nell'essere. Ma sanato dalla grazia e fissato stabilmente in Dio, come bene

comune separato da tutto l'universo, quest'io divino, che è la "forma" del corpo, rientra

nell'ordine e si ritrova nella luce.

Subordinando al fine soprannaturale i suoi fini particolari e contingenti, l'uomo

ritrova con gioia l'unità della sua vita; ed è allora il gaudio di un amore che ragiona nella

mente, armonia e ritmo e musica interiore e canto. L'amore naturale di noi stessi e della

vita nostra nel tempo, sotto questo sole e in questo dolce mondo, si è ormai rilegato con

gioia a colui che è l'Amore e la Vita di tutte le vite. E nella permanenza di un desiderio di

natura, che è richiesta di vita felice fatta a Dio che solo può appagarla, l'uomo comincia

un movimento di ascesa, di integrazione e di creazione.

L’esperienza cristiana del purgatorio dantesco si compie nell'atmosfera spirituale

del Pater noster ed è nel cuore, nelle opere e nella parola, la voce della preghiera

permanente e la "frequentazione celeste". L'istinto di preghiera, che in noi è natura che

domanda, si esteriorizza e ha la semplicità del gesto e l'umiltà degli occhi levati al cielo.

Ed è armonia di anime e di voci, che attraverso Cristo redentore e Maria Vergine

mediatrice, chiedono a Dio il pane della verità, delle buone ispirazioni e della grazia.

Poesia eterna, di chi esperimenta in sé l'amore come bontà generosa che si effonde e di

cui la preghiera è il desiderio e la ricerca. Bontà di natura, che è il nostro io divino, il

quale umilmente fa richiesta di vita felice a Dio, nel sentimento della nostra comune

indigenza, delle nostre debolezze e del nostro cieco lume. E questa bontà, che anela alla

Divina Commedia 86

bontà, e che spontaneamente si dona agli altri, è quella che ci strappa alla nostra

individualità materiale, legata alle cose, agli avvenimenti e alle circostanze. Essa ci porta

all'azione concreta, perché fa dell'amore "la legge dei membri": carità fraterna, che è

l'ordine di natura, ossia la legge o ragione naturale iscritta da Dio, autore della natura,

nella sostanza del nostro essere; da Dio, che la comanda e la esige per tutti i cuori da lui

creati fratelli. Nella permanenza della carità fraterna, tutte le anime del purgatorio si

collocano al di sopra del mobile flutto delle cose. Esse amano nell'uomo ciò che piace a

Dio e ciò che l'uomo deve essere per piacere a Dio; cioè lo amano in se stesso, nella

bontà della sua natura, che già possiede o è capace di ricevere la grazia.

E l'eloquenza di queste anime è l'eloquenza della carità fraterna, che è l'anima

comune della società di cui ciascuna si sente una parte integrante. E nella società

ciascuna si raddrizza, si afferma, si sente più sicura di sé, prende una consistenza propria

e si fa persona. Cioè ogni anima si fa creatrice della propria vita interiore e del proprio

destino; e creatrice ancora di opere di bellezza, nelle quali, per l'istinto di comunicazione

che nelle comunità umane è più profondo di quello dell'interesse individuale, passa, "a

quel modo che ditta dentro", la bontà dell'amore che la ispira. E allora, in virtù di questa

elevazione spirituale, il tono di tale eloquenza varia e s'individua secondo gli affetti dai

quali ogni anima è mossa; sempre informata alla misericordia e alla pietà, alla

commiserazione e all'amore del bene e sempre devota e affettuosa in ciò che tocca la

famiglia, la patria, l'amicizia e la comunanza di vocazioni o di tendenze.

Ed è calda e appassionata in Manfredi e in Buonconte, mite e dolce nella Pia,

inquieta e sdegnosa in Ranieri da Calboli e in Guido del Duca, suadente e commossa in

Marco Lombardo, soave e nostalgica in Nino Visconti, affettuosa ed esultante in Stazio,

serena e fidente in Forese, ammirante e devota nel Guinizelli. In ragione del loro essere e

degli accompagnamenti e delle conseguenze del loro operare, tutte le anime del

purgatorio sono nel tempo che le misura con la luce e col sole; ma sono ancora fuori del

tempo, per l'eternità che esse edificano dentro se stesse mediante il tempo e la carità che

non muore. Vita della nostra anima e di tutte le anime, la quale si svolge al confine di due

orizzonti, quello della materia che ci limita e quello della luce che piove dall'alto. E la

poesia che lì germoglia e fiorisce è la poesia meditativa dell'ora che ci fa puri, l'ora della

preghiera, quando si riaffacciano alla memoria le persone care entrate a far parte della

Divina Commedia 87

nostra anima per comunanza d'affetti e per l'entusiasmo generoso di cui si nutrono la

compassione e la comunione, lo zelo di giustizia, la devozione alla famiglia e alla patria e

il culto disinteressato della bellezza e dell'arte. Poesia dei ricordi, in un'atmosfera pura,

dove tutto resta trasfigurato e rivestito di una luce spirituale, ed è verità e bontà e

bellezza. E’ un mondo conosciuto per esperienza vissuta e verso il quale ci ripieghiamo

pieni di speranza, con un sospiro nostalgico e un desiderio profondo.

E siamo come pellegrini, che al chiudersi d'ogni giornata, sul crepuscolo della

sera, al primo tocco di campana che suona a completa, torniamo a vivere spiritualmente

con i nostri cari lontani e ne sentiamo pungente il ricordo e aneliamo a far ritorno tra loro,

prima di abbandonarci al sonno, entro la notte vigilata dalle stelle.

Il motivo poetico fondamentale dell'inferno dantesco, dove ogni anima sospira

nostalgicamente al dolce mondo e al ricordo di sé nella mente dei suoi concittadini e alla

patria diletta, diventa, scavato in profondità e su altro registro concettuale, il motivo

poetico fondamentale del purgatorio e si rivela come l'anelito di ogni anima a una

conoscenza sperimentale del proprio io divino, di là dai suoi limiti e in un presente

eterno. Ma questa conoscenza si attua in noi soltanto nel mondo della grazia, che

sopraeleva la natura umana e la connaturalizza con Dio; e la si ottiene solo rinunziando

alla nostra personalità, per rimetterla tutta nelle mani di Dio, che solo può darcela intera.

E’ l'esperienza del paradiso dantesco, l'esperienza dei santi, i quali partecipano, secondo

la loro vocazione particolare e la loro missione, al patrimonio umano di spiritualità

incoativa e di libertà morale - che è poi la vita attiva o sociale nel tempo -, ma con prodigi

di attività spirituale e di energia morale o operativa e di virtù veramente soprannaturali.

Vita dell'anima, che nella luce della fede raccoglie tutta se stessa e si rimette a Dio e

opera con Dio.

Fissata stabilmente in lui, come oggetto d'amore, essa tende a perfezionarsi

continuamente in questo suo amore, operando non per sé, ma a gloria di Dio, cioè

prodigandosi in suo nome per il bene altrui, disinteressatamente, gratuitamente, per modo

di dono. La conoscenza sperimentale del nostro io divino, che è amore santificato dalla

grazia, procede allora dalla sovrabbondanza della contemplazione, e si comunica e si

espande nell'azione, con assoluta libertà, fuori completamente dal mondo della materia.

E’ la vita eterna incominciata nel tempo. Siamo qui nell'eterna circolazione dell'Amore

Divina Commedia 88

increato, che si dona a noi nella misura stessa che ci doniamo a lui; e che ci innalza

sempre più, a suo beneplacito, nei cieli della sua grazia e della sua luce e all'intimità della

sua vita; la vita alla quale tutti i santi, secondo le connessioni e le complessioni di natura

e grazia, sono strettamente affissi, come le api nell'interno di un fiore, di cui suggono

l'essenza preziosa.

Il paradiso è nelle creature che si presentano a Dante questa vita in Dio, bontà

infinita di Dio, che si espande e si comunica per mezzo di loro, divenute cooperatrici

della loro causa e il cui fine è, sulla terra come in cielo, l'avvento del regno di Dio. Cielo

e terra sono dunque strettamente congiunti nella vita di tutte le anime; ma nel loro io

divino - divino secondo natura e divino secondo la grazia - e in virtù della fonte dalla

quale derivano tutte le vite, essi si sentono solidali a ciò che in tutte le vite è "la concreata

e perpetua sete del deiforme regno", desiderio di natura o "istinto" di comunicazione

cordiale, perché da tutta la creazione spirituale nasce, in Dio e attraverso Cristo, un corpo

solo, nel quale la circolazione della vita non dipende da nulla.

Nel paradiso tutte le anime sono cittadine di "un imperio giustissimo e pio"; e da

lì esse partecipano alla vita della Chiesa militante, dove la contemplazione amorosa si

riversa in protezione e benedizione della comunità, per il bene verso il quale tende la vita

sociale, come verso un termine che la trascende e che sta al di là delle sue frontiere. Così

tutte le anime, che dentro all'ordine della carità vivono fuori del tempo, rientrano nel

tempo con la loro azione. E la loro eloquenza, che mira soltanto al bene della persona

ordinata a Dio, ha il tono largo e solenne della vita che insieme vivono con esultante

pienezza d'amore, mentre pregano Dio, perché conceda che di tale vita siano

compartecipi tutte le creature della terra. In simbolo concreto Dante traduce nel suo

paradiso il dogma cattolico della comunione dei santi, e lo presenta come specchio

esemplare dell'umanità sulla terra (Monarchia): vita contemplativa, che per

sovrabbondanza interiore trasmoda nell'azione: amore di Dio, dal quale discende l'amore

del prossimo. Nella sua voce unitaria la grande poesia corale del paradiso dantesco mette

in luce il valore della carità e della vera uguaglianza, e nei santi di Cristo lo slargamento

conquistatore del loro io divino in opere di bontà, di apostolato e di santificazione, a

vantaggio della vita sociale e nel culto unitario di cui Cristo è il legame.

Divina Commedia 89

Questa voce unitaria ammette, nella sua complessa ricchezza, tutti gli stili: lirico,

epico, drammatico, oratorio, profetico, allegorico e mistico; e tuttavia, per ogni singola

anima, e nel cielo della grazia che le compete, questa stessa voce svaria e si colora di

perfezioni apparentemente più opposte, in un'armonia di vita intima e profonda che

conviene, ma allo stato puro e infinito, alla stessa vita intima di Dio. E’ il sentimento

cristiano, che viene calato nella vita ed è pacificato in Dio che lo sublima. Tale è la

dolcezza soave e la fortezza spirituale in Piccarda, il divino zelo della giustizia e la bontà

generosa in Giustiniano, la sfrenata passione d'amore e la temperanza che lo santifica in

Folchetto da Marsiglia, la somma sapienza e la pura semplicità in san Tommaso, la

contemplazione e l'azione in san Bonaventura. Armonia dei contrari, che sul piano della

fede è quella che anima l'eloquenza ferma e sicura di Cacciaguida in colloquio con Dante:

fede nella giustizia di Dio, oscura sì, ma assolutamente certa; immutabile sì, ma tuttavia

libera, come la conobbe Traiano e la esperimentò Rifeo; contemplativa sì, ma sempre

praticissima come la carità, della quale godettero san Benedetto e san Pier Damiani.

Armonia dei contrari, che è, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, la parola di san Pietro,

calda e profetica, ma che incide e taglia come una spada; e che è ancora la parola umile e

alta, semplice e solenne di san Bernardo, il quale si esalta esaltando in Maria Vergine la

creatura umana in cui risplendono, conciliate intimamente tra loro, tutte le perfezioni

divine, e perciò mediatrice di grazia presso Dio.

Ma la preghiera di san Bernardo in favore di Dante non è che la voce di quella

sublime unità che stringe tra loro tutti gli spiriti della terra e del cielo, e di cui abbiamo il

sentimento quando invochiamo la madre di Dio. Ed è allora la voce della nostra anima,

che si dilata e si lancia in tutti gli spazi e in tutti i tempi, dovunque la nostra povera

umanità che soffre, combatte e prega, si fa propagatrice di vita. Unità della preghiera

comune nell'universalità di un sentimento che la nobilita in se stessa e le toglie ogni

ombra di egoismo; un'unità, che vive nel pensiero di Dio creatore, e che è la legge

comune di vita e il comune destino naturale e soprannaturale. Al vertice dell'esperienza

dantesca si scopre che cosa era quel desiderio di Vita, che resta nei dannati dell'inferno

una vana postulazione e che delle anime del purgatorio è preghiera di vita comune a Dio

che la ispira e che infonde la bontà nei cuori. Nel paradiso questo stesso desiderio di Vita,

per l'unità della sua sorgente, che è la fonte di tutte le vite, è gaudio di eternità in un solo

Divina Commedia 90

slancio adoratore e imploratore verso Dio. Nell'atto stesso che si dichiara con la

preghiera, la vita eterna è già realizzata, ed è fiamma di carità che vitalmente si esprime

in forma di bellezza. Bellezza di gesti e di voci, di suoni e di canti, di gruppi e di danze,

di musiche e di ritmi, di luci e di colori. Bellezze perfette in se stesse, le quali ci

richiamano per analogia alle bellezze della natura, che è figlia del Verbo, e della vita, che

ne è l'agente, e del pensiero, che ne è il portaparole. E’ tutta una circolazione di vita

intima e di preghiera contemplativa e attiva, di cui le immagini sensibili non sono che

l'incorporamento luminoso e radiante, entro un'atmosfera di entusiasmo e di gioia. L'unità

con Dio attraverso il Cristo e l'unità in Dio secondo il Cristo, è il sentimento

fondamentale che ispira ogni anima del paradiso, e che si traduce nel tono della parola, le

cui ali si stendono e volano, portando l'io al di fuori delle sue strettezze e delle sue

limitazioni.

Ogni anima tende allo Spirito creatore che la tira con le sue dolci corde, mentre

essa collabora attivamente con lui in uno spirito di comunità cordiale con tutte le altre

anime. Nella sua propria pienezza esultante ed espansiva, essa sente di poggiare

sull'Illimitato che l'abbraccia e al quale si dona totalmente, per realizzare stabilmente un

desiderio di vita comune ed esercitarlo con una volontà d'amore. La poesia del paradiso è

questo anelito profondo, che trascina con sé, in una alternanza di desiderio e di

espansività gaudiosa e di unità in Dio, che è il bene comune separato da tutto l'universo,

tutte le energie dell'anima di Dante, tutta la sua vita intima, pensieri, sentimenti e

affezioni, nella direzione del suo polo divino, per darla lì al suo Possessore naturale.

Purificazione costante della volontà, a cui corrisponde di cielo in cielo, per opera dello

Spirito Santo, una purificazione metafisica dell'intelligenza, che si nobilita separando da

ogni imperfetta modalità le perfezioni assolute. Sul fondamento di una certezza

soprannaturale derivata dalla fede, e che si aggiunge alle certezze fondamentali della sua

anima, che è un amore creato, Dante, che vive quest'amore in relazione ai santi della sua

fede, entra sempre più nella vita intima di Dio incarnato.

Il nuovo Adamo nasce in lui, cioè l'uomo quale fu creato nello stato di grazia, e

che in una comunione teologale conosceva sperimentalmente tutte le realtà divine, per

connaturalità d'amore, con rapimento estatico ed ebbrezza, con vasto respiro di gaudio e

sconfinata vibrazione. Alla cima dell'Albero spirituale della vita comune degli uomini, la

Divina Commedia 91

cui chioma si dilata sempre più quanto più sale, inclinata e travolta in vetta per la

moltitudine dei suoi frutti, Dante conosce, nelle creature che lì si sono sublimate, il Dio-

carità che le ha sublimate. E tuttavia egli sente ancora lassù un desiderio di vita, un

desiderio infinito di vedere quella luce di vita che piove dall'alto.

Dalla selva selvaggia all'ultima cima dell'essere spirituale, l'esperienza di Dante

s'arricchisce e s'aumenta dell'esperienza altrui; ed è la vita che egli vive, conosce ed

esprime in rapporto alle persone "esemplari" che gli si fanno incontro sul suo cammino.

Ma queste persone, che portano dentro di sé il contenuto di una vita che "storicamente" si

è espressa con la parola o l'opera o l'azione, valgono solo in ragione dell'idea che Dante

conosce in vivente relazione a loro. Esse fissano dei momenti della sua anima, dalla quale

non possono essere distaccate se non come puro idoleggiamento estetico o puro oggetto

di psicologia empirica, fuori dell'atmosfera morale che le avvolge. Con la virtù d'arte di

cui è capace, Dante oggettiva i suoi personaggi in se stessi, come vita interiore e bellezza

autonoma, e se li pone di fronte "in visione". E dinanzi a loro egli si commuove e parla, si

ascolta e discute, s'intenerisce e compiange, scatta e si adira, si placa e ragiona, si

tormenta e impreca, si esalta e benedice. La ragione sua è commisurata dalla realtà storica

di ciò che fu e che è, di modo che i suoi giudizi di valore non sono mai a vuoto. Così

Dante, mentre conosce se stesso in vivente relazione all'altro in quanto altro da lui, si

esprime attraverso una svariata gamma di sentimenti che traducono la vita intima che

vive e le idee di bene che lo illuminano e le naturali disposizioni del suo cuore in

rapporto ai suoi fini particolari e in rapporto al Bene supremo.

Qui l'uomo Dante è tutto impegnato, il poeta e l'artista, il credente e il saggio.

Complessità e sostanziosa unità artistica del mondo morale e religioso della Divina

Commedia, che non può frangersi senza sottrarla a quella che ne è l'anima animante.

Poeta e artista, Dante dispone, ordina e armonizza tra loro, su tre piani di analogia

("l'individualità" nell'Inferno, la "persona morale" nel Purgatorio e la "personalità" che

viene dall'anima nel Paradiso), una ricca serie di creature. E le oggettiva tutte

liricamente, con pieno abbandono fantastico, come bellezza in sé, entro l'unità di un atto

che è sempre identico a se stesso, ma che variamente s'individua con una distinzione

incessantemente rinnovellata secondo una regolata diversità; simile a una voce, che resta

Divina Commedia 92

una nella sua mobile varietà di modulazione e di accenti, e che resta una, benché una

molteplicità di individui la intenda.

E’ l'essere umano, reale e concreto, che si fa in Dante l'oggetto di una esperienza

che è la sua stessa esperienza vissuta, un'esperienza che sempre più si fa luminosa in se

stessa quanto più Dante si spiritualizza e dal mondo della natura si eleva al mondo

soprannaturale della grazia. Nella Divina Commedia il solo che sia veramente vivo è

Dante, perché agisce, cioè si perfeziona vitalmente. E si perfeziona, perché agisce in

armonia con le leggi universali dell'essere, portando con sé, sul piano concreto della

storia comune, l'esperienza sua individuale e l'esperienza lontana dei secoli. Dante poeta

fa della sua vita intima e dei suoi ideali eterni di giustizia e di pace e dei contrasti politici

in mezzo ai quali essa si svolge (senso letterale o storico) un'analogia di proporzionalità

propria; ossia, con parola moderna, ne fa "un mito" che la universalizza come vita intima

di ogni uomo ("subiectum est homo") nelle stesse condizioni di esistenza e di esercizio

nel concreto (senso allegorico).

La storia contemporanea di Firenze e dell'Italia e della vita cristiana cattolica

entrano nella Divina Commedia come dati di fatto. Sono le cause effettive, ma

contingenti, dell'esperienza che Dante invera, e che egli esprime in forme di bellezza che

interessano contemporaneamente il cuore e la fantasia, l'intelletto e l'immaginazione; e

nelle quali ciascuno, secondo la capacità del proprio spirito, può leggere e ritrovare se

stesso. Ma accanto al poeta che crea e all'artista che domina la sua ispirazione con

equilibrata armonia di linee, di colori e di sfumature, c'è ancora il credente e il saggio. C'è

ancora l'uomo che ama in ogni creatura la vita profonda che s'agita in essa: la bontà di

natura che la ispira e che Dio stesso gli ha concesso, perché ne faccia un centro

d'irradiazione nel mondo della storia umana. Da quest'amore, che è in Dante il senso del

divino che abita in noi e che ci accomuna tutti in una grande unità spirituale, e che fa di

ogni uomo il rappresentante dell'umanità intera, deriva lo spirito di giustizia che anima

tutto il poema, come ragione ordinatrice che rannoda ogni singola vita al suo Principio, il

quale al tempo stesso è il suo Salvatore. Di qui il tono meditativo e vigilante che spira in

ogni pagina del poema e che dopo i momenti di raccoglimento e di abbandono

disinteressato si effonde in voci di commossa eloquenza.

Divina Commedia 93

Tutto nella Divina Commedia è simbolo; perché tutto, nella sua architettura, nel

tessuto fantastico delle tre cantiche e nel viaggio di Dante, tutto si risolve in immagini

dense di significato e di significati spontanei; immagini che progressivamente

trascolorano e s'illuminano dall'interno, sempre nuove e diverse, rivelando profondità e

risonanze sempre maggiori nella loro infinita capacità di mito. Esse sono modulate da un

ritmo, che nel legato armonico del tono e dell'accento risponde al ritmo segreto

dell'anima di Dante, nel suo movimento di discesa nel buio della nostra individualità

materiale e nel suo movimento di luminosa ascesa verso una vita propriamente divina, in

armonia con le leggi universali dell'essere umano e sotto il segno della grazia santificante

e dei suoi doni.

La Divina Commedia è un capolavoro mondiale, dove l'unità di rappresentazione,

in tutte le forme di bellezza che sono apparentate con la nostra natura, è qualcosa di

fluente e di spirituale ("aliquid fluens et viale") che sgorga dalla vita, là dove essa è

veramente vita, perché agisce come spirito creatore. Un capolavoro d'arte e di vita, che

non ha similitudini di relazioni se non con il Don Chisciotte del Cervantes; perché l'uno e

l'altro si appoggiano fondamentalmente sulla metafisica cristiana dell'essere, e l'uno e

l'altro rispecchiano in sé, come bellezza autonoma, la vita dell'umanità nel passato, nel

presente e nel futuro, senza più limiti di tempo.

Divina Commedia 94