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A—01 ambiente analogico/digitale aspetto corpo funzione futuro linguaggio post-digitale storia tribù/società In questo capitolo: — Definire “post-digitale” — Definire “ibrido” — Relazioni con la società: economia, storia, cultura, religione — Relazioni con le pratiche artistiche e comunicative POST-DIGITALE E IBRIDAZIONE by Grazia Dammacco data di creazione 13/01/16 20:54 ultima mofidica 12/02/16 21:07 capitoli / parte principale http://www.postdigitaltribe.org/dt/2015/06/15/postdigitale-e-ibridazione/

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A—01

ambiente analogico/digitale aspetto corpo funzione futuro linguaggio

post-digitale storia tribù/società

In questo capitolo:

— Definire “post-digitale”— Definire “ibrido”— Relazioni con la società: economia, storia, cultura, religione— Relazioni con le pratiche artistiche e comunicative

P O S T- D I G I TA L E E I B R I D A Z I O N Eby Grazia Dammacco data di creazione 13/01/16 20:54ultima mofidica 12/02/16 21:07

c a p i t o l i / p a r t e p r i n c i p a l e

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R ipensando al le scoperte e al le innovazioni tecnologiche che l ’uomo ha svi luppato nei seco-l i , c i possiamo rendere conto di come queste si s iano susseguite in un lasso di tempo sempre più r istretto: l ’ interval lo di tempo tra una novità e l ’a l t ra è diventato, nel corso dei secol i , sempre più breve [ breve stor ia dei me-dia ] . Esempio classico è quel-lo del l ’ invenzione del la stampa. Dopo le pr ime tecniche cinesi svi luppate intorno al VII seco-lo, la stampa a caratter i mobi l i v iene introdotta in Europa ver-so la metà del Quattrocento, se-guita da un’ innovazione signi-f icat iva del la tecnica solo circa quattrocento anni dopo,verso la

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fine dell’Ottocento, con l’introduzione della composizione meccanica della Linotype e della Monotype. Nel corso di un solo secolo la tecnica della stampa viene ulteriormente rinnovata, con la diffusione della fotocomposizione negli anni Settanta e del Desktop Publishing negli anni Ottanta. Stesso principio può essere facilmente applicato ad altre tecnologie: la storia dell’aeronautica, ad esempio. Questa fonda le sue radici in un passato lontano, dalla mitologia ai primi disegni di Leonardo da Vinci durante il Rinascimento. Dopo l’invenzione della mongolfiera nel 1783 e del dirigibile nel 1852, il primo aereo viene costruito dai fratelli Wright nel 1903, e riesce a compiere solamente un balzo di dodici secondi. L’aereo viene presto perfezionato inizialmente per scopi sportivi e bellici durante la Prima Guerra Mondiale, e negli anni Venti inizia ad essere utilizzato anche come mezzo di trasporto civile. L’evoluzione dell’aeroplano subisce una rapida accelerazione negli anni Trenta con la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1969 Neil Armstrong e Buzz Aldrin sbarcano sulla luna.

In questi due esempi riportati — e se ne potrebbero citare altri — è chiaro come lo sviluppo delle nuove tecnologie abbia subito una forte impennata dal Novecento in poi. Quello che succede, a questo punto, è che dato che le novità tecnologiche sono sempre più vicine temporalmente, è facile che si accavallino e riescano a sussistere contemporaneamente. Perciò ci troviamo in un epoca fatta tanto di anacronismi quanto di strumenti fortemente attuali e tecnologici. In questo contesto variegato, è facile che le diverse realtà si incontrino e diano origine a prodotti che possiamo definire “ibridi”, che detengono una componente più familiare — perché legata al passato, che spesso coincide con una prerogativa più fisica e materica — e una parte più contemporanea — che oggi spesso coincide con il mondo virtuale o in rete.

Se immaginiamo un personaggio del passato, come Leonardo da Vinci, catapultato nel nostro presente, quanto rimarrebbe spaesato? Sicuramente non riuscirebbe da subito a concepire cosa sia un’automobile, un computer, un cellulare. Allo stesso modo i fratelli Wright probabilmente non potevano immaginare che dopo poco più di sessant’anni dal primo volo del loro aereo, l’uomo sarebbe sbarcato sulla luna. Di conseguenza — restringendo ulteriormente l’intevallo di tempo — tra vent’anni, cosa succederà? Probabilmente, qualcosa che adesso non riusciamo neanche ad immaginare.

In questo contesto si inserisce il tema del post-digitale, che scatena oggi numerose riflessioni e prese di posizione, soprattutto perché attuale e non ancora storicizzato.

D E F I N I R E “ P O S T- D I G I TA L E ”

Mel Alexenberg fornisce una definizione del termine nel dizionario online Wiktionary:

«Etimologia: post + digitalAggettivo: postdigitale1. (Arte) di o relativa ad un movimento che rinuncia alla tecnologia digitale a favore di un ritorno ad un approccio umano».[“Postdigital”, http://en.wiktionary.org/wiki/postdigital, ultima consultazione 2015]

In Wikipedia si legge:

«“Postdigital” è un termine entrato in uso recentemente nel discorso delle pratiche artistiche digitali. Il termine si concentra sui nostri rapidi cambiamenti e sui cambiamenti delle relazioni con le tecnologie digitali e le forme artistiche. Indica un atteggiamento che è più interessato all’“essere umani”, piuttosto che all’“essere digitali”».[“Postdigital”, http://en.wikipedia.org/wiki/Postdigital, ultima consultazione 2015 ]

Il primo ad utilizzare il termine “post-digitale” è Kim Cascone — compositore americano di musica elettronica — nell’articolo che scrive nel 2000: “The Aesthetics of Failure: ‘Post-digitalʼ Tendencies in Contemporary Computer Music”. Qui Cascone usa il termine “Post-digitale” per identificare l’andamento della musica digitale, non più accademica, nota anche come glitch music o microsound. Si rende infatti conto che internet — creata in origine per accelerare gli scambi di idee e le ricerche tra i centri accademici — ha contributo anche allo sviluppo di nuove tendenze musicali, che superano i confini accademici, in cui i musicisti si formano da autodidatta attraverso tutorial e documenti condivisi in rete. L’estetica “Post-digitale” di cui parla Cascone, è il risultato dell’esperienza totalizzante di lavoro, in ambienti immersi nelle tecnologie digitali: ventole

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di computer ronzanti, stampanti laser, suoni dell’interfaccia utente. Ma nello specifico, quello che viene fuori è l’accentuazione del “fallimento” del digitale: glitches, bugs, crash di sistema, ritaglio, alias, distorsione, rumore di quantizzazione, il rumore delle schede audio, etc. sono le materie prime che i compositori usano da incorporare nella loro musica.

L’idealizzazione del digitale viene superata, infatti il testo di Cascone inizia con una citazione di Nicholas Negroponte — esperto di tecnologie presso il MIT Media Lab: “The digital revolution is over” (1998). Cascone scrive:

«L’epigrafe di Negroponte qui in alto mi ha spinto a fare riferimento a questo genere emergente come “post-digital” perché il periodo rivoluzionario dell’informazione digitale è sicuramente superata. La tecnologia digitale ha in qualche modo toccato tutti. Con il commercio elettronico ora una parte naturale della fabbrica del business del mondo occidentale e di Hollywood sforna sciocchezze digitali tramite gigabyte, il medium della tecnologia digitale ha meno fascino per i compositori».[Pubblicato originariamente in: “Computer Music Journal”, volume 24 uscita 4, dicembre 2000, MIT Press Cambridge, MA, USA]

Ian Andrew invece, nell’articolo del 2000 “Post-digital Aesthetics and the return to Modernism” — in cui fa riferimento a “Generation Flash” di Lev Manovich, articolo che promuove l’opposizione di analogico/digitale, le retro/ibridazioni contemporanee associate al termine “post-digital”— [ http://www.ian-andrews.org/texts/postdig.html, dicembre 2013 ] usa il termine “Post-digitale” in senso più ampio, come parte di un’estetica che rigetta l’idea di progresso digitale. In “What is post digital?” [ http://www.aprja.net/?p=1318 ] Florian Cramer afferma che quando Cascone e Andrew scrissero quegli articoli, il contesto in cui vivevano era quello della produzione audiovisiva in cui il “digitale” era stato a lungo sinonimo di “progresso”. Molte delle tecnologie emergenti erano legate alle tecnologie video e televisive, e le novità venivano acclamate come migliori rispetto ai prodotti precedenti, ad alta fedeltà di riproduzione. In tal senso Cascone e Andrew si oppongono a questo punto di vista. L’uso del termine post-digital da parte di Cascone risulta anche abbastanza ambiguo, in quanto la musica glitch

è digitale e basata su processi digitali. Il concetto di Cascone di “post-digitale” può essere inteso come reazione ad un epoca in tutto viene etichettato come digitale nel tentativo di commercializzare un prodotto ritenuto migliore e più funzionale rispetto ai suoi precedenti, solo sulla base della sua “digitalità”. Facendo riferimento a quanto scritto da Cramer [ come deve essere inteso il termine “digitale”? ] il quale sostiene che “digitale” indica semplicemente che qualcosa è stato diviso in unità discrete numerabili utilizzando un sistema di riferimento qualsiasi — e quindi, ad esempio, le dita della mano, o i caratteri mobili di Gutenberg sono sistemi digitali — vediamo che:

«Tuttavia, il concetto di “Post-digitale” definito da Cascone ignora tali definizioni tecnico-scientifiche di “analogico” e “digitale” a favore di una comprensione puramente colloquiale del termine” e che a differenza del termine colloquiale di “digitale” come viene comunemente usato nell’arte e nel mondo in generale, la nozione tecnico-scientifica di “digitale” può paradossalmente essere usata per descrivere quei dispositivi che sarebbero in realtà considerati analogici o post-digitali». [Cramer Florian, “What is Post Digital?”, http://www.aprja.net/?p=1318, 2014]

Infatti la parola “digitale” deriva dalla stessa fonte della parola “digit”, dal latino “digitus”, ovvero “dito”, concetto che riporta all’idea di contare usando le dieci dita della nostra mano. L’era digitale ha invece ridotto il numero delle dita usate per contare da dieci a due, tramite il codice binario. L’arte postdigitale d’altra parte emerge da un dialogo tra esperienze high tech e high touch. Questo invita alla riscoperta delle dieci dita, aggiungendo perciò il tocco umano alle tecnologie digitali.

È necessario quindi marcare una linea di confine immaginaria, e dare per assodato — nel contesto post-digitale — che il termine “digitale” si riferisca a quelle informazioni costituite da bit e che vengono prodotte e gestite da medium specifici [ come deve essere inteso il termine “digitale”? ].

I l m o n d o d i g i t a l i z z a t o e i l s i g n i f i c a t o d i ‟ p o s t ”

Il post-digitale è una conseguenza della massiccia digitalizzazione del mondo in cui viviamo. Abitiamo un ambiente immerso nelle tecnologie digitali, virtuali e online, tanto che spesso non ci facciamo neanche

4:55

“Oval - Wohnton - Delft (Track 2)”, https://www.youtube.com watch?v=3gckWcoNLTg, pubblicato da MsAnonn il 5 marzo 2010

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più caso. Come scrive David M. Berry nel suo articolo “The Post-Digital Umanities”:

«Così, il post-digitale è rappresentato da ed è indicativo del momento in cui il computer ha preso l’egemonia».[Berry David M., “Post-Digital Humanities”, http://stunlaw.blogspot.it/2014_12_01_archive.html, 18 ottobre 2013]

Le tecnologie digitali prendono sempre più piede nella nostra vita reale, andando ad influenzare i nostri comportamenti quotidiani e le nostre abitudini, a modificare effettivamente la nostra vita fisica ed intellettuale. Acquistiamo online e riceviamo il prodotto direttamente a casa, interagiamo tramite internet con persone andando a modificare di conseguenza i nostri reali rapporti sociali, lavoriamo online e riceviamo e inviamo progetti, cerchiamo spunti e veniamo influenzati da contenuti condivisi da altre persone in rete. Ovviamente a tal proposito non manca mai un po’ di allarmismo. Alexenberg scrive:

«La paura dell’umanità di diventare schiavi dei computer che gli scrittori di fantascienza hanno scritto sembra diventare realistico nel nostro presente immerso nel mondo digitale che invade ogni aspetto della nostra vita. Nel suo libro “The Tyranny of E-mail: The Four-Thousand-Year Journey to Your Inbox”, John Freeman descrive come il computer e le e-mail ci vengano venduti come strumenti di liberazione, ma in realtà hanno inibito la nostracapacità di condurre la nostra vita consapevolmente,

deliberatamente e con riflessione. Entro il 2011, meno di 40 anni dopo l’invio della prima e-mail, ci saranno più di tre miliardi di utenti mail. Il flusso di messaggi è continuo e ci segue ovunque».[Alexenberg Mel, “The Future of Art in a Postdigital Age. From Hellenistic to Hebraic Consciousness”, Intellect Bristol, UK / Chicago, USA, 2011]

Il termine “post” genera comunque delle ambiguità e delle incomprensioni, come infatti sostiene Florian Cramer in “What is Post-digital?”:

«È un dato oggettivo che l’era in cui viviamo non è un era post digitale, né in termini di sviluppi tecnologici — senza fine in vista di una ulteriore digitalizzazione e computerizzazione — né da una prospettiva storico-filosofica».[Cramer Florian, “What is...”, op. cit.]

Il termine “post” non indica, ovviamente, la fine del digitale, in quanto come già detto esso è intimamente strutturato nella nostra vita quotidiana e inscindibile da essa. Cramer cerca di fare chiarezza su questo punto, sostenendo che il “post” di “post-digitale” deve essere considerato allo stesso modo del “post-punk” (una continuazione della cultura punk che è in qualche modo ancora punk, ma che va anche al di là del punk); post-comunismo (come il corso della realtà socio-politica nel paesi dell’ex blocco orientale); post-femminismo (come una continuazione criticamente rivista del femminismo); post-colonialismo; post-apocalittico (una parola in cui l’apocalisse non è finita, ma è progressione continua

partendo da un punto di rottura). Questi termini, infatti, descrivono cambiamenti culturali sottili e mutazioni ancora in corso. Il post-colonialismo, ad esempio, non è la fine del colonialismo, ma identifica una mutazione all’interno delle nuove strutture del potere, un impatto profondo e duraturo sulle lingue e sulle culture colonizzate che continuano a verificarsi dopo il momento storico in cui la colonizzazione è avvenuta. In questo senso, la condizione

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post-digitale è una condizione post-apocalittica: uno stato in cui ci troviamo dopo lo sconvolgimento iniziale causato dal computer e dalla rete digitale globale della comunicazione, le infrastrutture tecniche, mercati e geopolitiche. Una condizione in cui l’oggetto che ha provocato tale sconvolgimento è ancora fortemente presente, ma continua a mutarsi nel tempo, in relazione all’ambiente, alla cultura, alla storia e agli attori coinvolti. Cramer scrive:

«Il termine “Post-digital” potrebbe essere usato per descrivere sia un disincanto contemporaneo nei confronti dei sistemi di informazione digitale e dei media, sia come periodo in cui la nostra fascinazione verso questi sistemi e gadgets si sta storicizzando. […] Il termine post-digitale quindi si riferisce ad uno stato in cui è già avvenuto lo sconvolgimento portato dalla tecnologia dell’informazione digitale, perciò questa tecnologia non è più considerata distruttiva. Così “post-digitale” si pone in diretta opposizione al concetto di “new media”, e il termine “post-digitale” determina comunque reazioni critiche riguardo la connotazione storica del prefisso “post”». [Cramer Florian, “What is...”, op. cit.]

R i t o r n o a l l a m a t e r i a

La tendenza che emerge, in un modo completamente digitalizzato, è un ritorno, o un attaccamento, a ciò che è ancora totalmente fisico e materico. Cramer scrive che nel contesto delle arti un atteggiamento simile sembra riproporre quello del movimento Art and Craft del XIX secolo, con il suo programma di produzione artigianale come mezzo di resistenza alla crescente industrializzazione:

«Questi atteggiamenti portano oggi alla rinascita di incisioni d’artista, laboratori di film fatti a mano, vinili in edizione limitata, l’audiocassetta, macchine da scrivere meccaniche, macchine fotografiche e sintetizzatori analogici».[Cramer Florian, “What is...”, op. cit.]

Per lui questa tendenza potrebbe portare l’arte a ritirarsi in una nicchia di lusso, rinunciando ad un’idea di impegno nel dare forma alla cultura di ogni giorno:

«Quando uso e cautamente sostengo il termine “Post-digital”, non posso evitare di giocare col fuoco dato che il termine può essere frainteso come carta bianca per la soddisfazione acritica nel neo-artigianato».[Rieck Stella, Rowson Rose, Wohlfeil Nora, “Hybrid Bookwork: Empire Soft-Skinned Space”,

List Discussion February 2014, ebook, cap.6]

Da uno studio che Cramer ha condotto con il centro di ricerca Creating 010 a Rotterdam, è risultato che la maggior parte degli studenti di laurea della maggior parte delle scuole d’arte dei Paesi Bassi di oggi preferisce lavorare con media non elettronici: circa il 70% di loro preferisce progettare un poster che un sito web. Nei Paesi Bassi inoltre i programmi di educazione per il design della comunicazione digitale sono stati quasi completamente spostati dalle accademie d’arte alle scuole di ingegneria, mentre spesso gli studenti d’arte liquidano i media digitali come commerciali e mainstream. Inutile dire che questi studenti sono i designers e gli artisti di domani:

«Dobbiamo dichiarare la loro posizione come romantica o neo-Luddista?».[Cramer Florian, “What is...”, op. cit.]

Ma quest’atteggiamento non è tipico solo degli studenti, infatti Cramer scrive:

«Nell’educazione di arte e design, vediamo che la maggior parte degli insegnanti vivono ancora in un mondo pre-digitale. Gli studenti, d’altra parte, sono avidi consumatori soprattutto di social media, ma difficilmente partecipano alla cultura online o producono lavori in forma elettronica. […] Secondo le nostre conoscenze, ci sono meno di dieci graphic designers in tutta l’Olanda che sanno progettare un epub. […] Quando si parla di cultura post-digitale, e di nuove forme ibride di analogico e digitale, media elettronici e stampa, spesso il nostro problema è che il primo passo verso il digitale non è ancora stato fatto».[Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

Il post-digitale mette in crisi la fiducia totale nella tecnologia digitale, e sradica le differenza tra old e new media. Cramer cita il lavoro di Kenneth Goldsmith, il quale ammette che i suoi studenti lavorano mescolando la pittura ad olio con Photoshop e vanno in cerca di vinili nei mercatini mentre ascoltano i loro iPod. Lavorando in una scuola d’arte, anche Cramer osserva che gli studenti tendono a scegliere i media per le loro qualità estetiche, indipendentemente dal fatto che siano analogici o digitali. Vengono accettate le imperfezioni, il glitch, la polvere e la grana della riproduzione analogica — come pratica di esplorazione e ricerca dei materiali e delle loro imperfezioni:

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«Si tratta di un atteggiamento post-digital hacker nel prendere separatamente dei sistemi e di usarli in modi che sovvertono l’intenzione originale del progetto». [ uso sperimentale dei media nella storia / net art ] [Cramer Florian, “What is...” op. cit.]

Il digitale non viene dunque rifiutato, non si sta dichiarando la sua fine, semplicemente non viene considerato il mezzo privilegiato per la progettazione. I progettisti scelgono liberamente il medium più adatto e funzionale per raggiungere il proprio obiettivo, che in alcuni casi risulta essere semplicemente estetico:

«Coloro che supportano l’attitudine “post-digitale” […] rifiutano l’idea dell’uso esclusivo del digitale come mezzo per elaborare informazioni, perciò respingono l’idea del computer come macchina universale e il concetto di dispositivi digitali come supporto per ogni medium». [Cramer Florian, “What is...”, op. cit.]

Christophe Bruno scrive in “Psyco-Academic Dérive - A Proposal”:

«Dopo lo spostamento dalla materialità all’immaterialità verso la fine del XX secolo, abbiamo di recente vissuto il movimento opposto. In qualunque modo chiamiamo questi trends — “re-materializzazione”, “vintage media”, “neo-analogico”, “post internet”, “post-digital”, etc. — trattano tutti i percorsi inversi partendo dall’immateriale o concettuale dirigendosi verso lo spazio materiale o fisico. L’aspetto low-tech del movimento della net.art a metà degli anni ‘90 è stato probabilmente uno dei primi segni dell’era post-digitale». [ uso sperimentale dei media nella storia / net art ][Bruno Christophe, “Psycho-Academic Dérive — A Proposal”, http://www.aprja.net/?p=1463, 2014]

F u s i o n e

Come scrive David M. Berry in “Post Digital Umanities” [ http://stunlaw.blogspot.it/2013_10_01_archive.html ], dato che i processi informatici sono così diffusi, essi creano una fitta rete di risorse che vengono incorporate e agiscono nel mondo materiale. Pertanto la distinzione storica tra digitale e non digitale diventa sempre più confusa, in modo tale che parlare di digitale presuppone un’operazione di disgiunzione nella nostra esperienza di vita, il che rappresenta una pratica priva di senso.

Anche il concetto di “essere online” è diventato anacronistico, dal momento che siamo sempre — o quasi — online, tramite smartphone, tablet e reti wireless. In questi termini, il concetto di “digitale” diventa un concetto del passato. Dato che il mondo computazionale è ormai normalizzato, è in aumento l’applicazione di tecnologie a basso costo per la gestione o il miglioramento di esperienze, tecnologie e pratiche analogiche tradizionali. Il digitale, integrato all’ambiente circostante, è in grado di interagire con esso:

«Nell’era post-digitale, capire se qualcosa è digitale o meno non sarà più vista come questione essenziale. O meglio, la questione riguardo se una cosa è o non è “digitale” sarà sempre più insensata dato che tutte le forme di media diventano esse stesse mediate, prodotte, accessibili, distribuite o consumate attraverso i dispositivi digitali e le tecnologie».[Berry David M., “Post-Digital...”, op. cit.]

Sono molti i teorici e gli artisti che definiscono il termine “post-digitale”, mettendo in luce le innumerevoli sfacettature che emergono da un’attenta riflessione sull’argomento. Mel Alexenberg scrive:

«Postdigital (aggettivo), di o pertinente a forme artistiche che si rivolgono verso l’umanizzazione delle tecnologie digitali attraverso l’interazione tra sistemi digitali, biologici, culturali e spirituali, tra cyberspazio e spazio reale, tra media incorporati e realtà mescolata in comunicazione sociale e fisica, tra esperienze high tech e high touch, tra esperienze comunicative visivi, tattili, uditive, e cinestetiche, tra realtà virtuale e realtà aumentata, tra rivolte e globalizzazione, tra auto-etnografia e comunità narrativa, e tra la capacità del web di una produzione peer-to-peer di wikiart e artworks creata tramite media alternativi attraverso partecipazione, interazione e collaborazione in cui il ruolo dell’artista viene ridefinito».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

Il dibattito sul post-digitale viene ampiamente affrontato, nel 2014, da APRJA, che pubblica l’uscita online “A Peer-reviewed Journal About Post-Digital Research” e la rivista scaricabile in pdf “Post-Digital Research. A Peer-reviewed Newspaper” (Volume 3 uscita 1), in cui vengono raccolti i testi scritti da alcuni ricercatori riguardo il tema del post-digitale. Il lavoro include anche la creazione di una definizione comune di “post-digitale”:

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«Post-digital, una volta inteso come una riflessione sull’immaterialità dell’estetica “digitale”, ora descrive la condizione disordinata e paradossale di arte e media dopo le rivoluzione della tecnologia digitale. “Post-digital” non riconosce la distinzione tra “old” e “new” media, né l’affermazione ideologica dell’uno e dell’altro. Esso fonde “old” e “new”, spesso applicando la sperimentazione di reti culturali alle tecnologie analogiche che re-indagano e ri-usano. Tende a concentrarsi sull’esperienziale piuttosto che sul concettuale. Presta attenzione al DIY al di fuori dell’ideologia totalitaria dell’innovazione e della rete della grande informazione capitalista. Allo stesso tempo, è già diventato commercializzato».[Andersen Christian Ulrik, Cox Geoff, Papadopoulos Georgios, “Postdigital Research — Editorial”, http://www.aprja.net/?page_id=1327, 2014]

In “A Peer-reviewed Journal About Post-Digital Research”, con il suo articolo “What is post-digital?” Florian Cramer offre importanti linee guida per la comprensione del post-digitale. Sviluppando ulteriormente la definizione costruita dal Post-Digital Research Group, Cramer offre ulteriori minuziose sfacettature nel descrive il termine “post-digitale” come “post-digitalizzazione”, ovvero come lo stato disordinato di media, arte e design dopo la loro digitalizzazione (o dopo la digitalizzazione di alcuni aspetti dei canali attraverso cui vengono comunicati). Spiega che possono sorgere sentimenti di scetticismo verso il digitale, ma in realtà accade anche il contrario. Ad esempio nel mondo dell’arte visiva contemporanea si sta accettando la net.art, inoltre le pratiche artistiche attuate tramite la rete superano in circolazione, potere e influenza i periodici d’arte stampati, anche per la quantità di artisti e curatori che se ne occupano:

«Allo stesso modo, quando i giornali stampati spostano la loro attenzione dalle notizie del giorno (che possono essere più facilmente ed economicamente trovate su internet) per trattare temi di approfondimento e commenti, si trasformano effettivamente in media post-digitali o post-digitalizzazione». [Cramer Florian, “What is...”, op. cit.]

A questo proposito in “Post Digital Umanities” Berry espone il concetto di “digital humanities”: ovvero l’applicazione di principi computazionali e processuali tipici delle tecnologie digitali ai testi umanistici. Berry intende per “testo” ogni tipo di forma culturale materializzata, come le immagini, i libri, suoni, film, video, etc. Digital humanities cerca

di prendere in considerazione il modo in cui le forme digitali operano nella rappresentazione e nella mediazione — operazione detta “digital folding” di memoria e archivio — tramite il quale si è in grado di approcciarsi alla cultura umanistica in modo radicalmente nuovo. Gran parte dei primi lavori digital humanities si concentrano su come dare ai materiali tradizionali umanistici una forma nuova che possa essere soggetta ad operazioni di computazione — digitalizzazione, creazione di archivi e database, collegamenti ipertestuali, taggatura dei testi per permettere ricerche interne. Le tecnologie digitali hanno quindi minato e riconfigurato i testi dell’umanità, riproponendoli in forme spesso frammentarie, e alternate a frammenti di altri testi [ ibridazione linguaggio / atomizzazione ed espressioni digitali ].

Nella cultura post-digitale quindi accade spesso che un vecchio medium venga utilizzato secondo procedure legate ai nuovi media [ rimediazione ]. Un esempio citato da Cramer è quello delle fanzine collaborative online, in cui diverse persone lavorano insieme per creare zine di piccola circolazione e autoprodotte che di solito si concentrano su tematiche culturali o politiche. In realtà queste zine sono diverse da quelle post-punk degli anni ‘80/‘90, che erano spesso il prodotto personale di un singoloautore. Qui il post-digitale indica il modo in cui un medium più vecchio, come la zine, sia stato recuperato ed adattato ai media più recenti, come la condivisione di contenuti e la collaborazione in rete, creando un prodotto nuovo, ibrido.

Come APRJA, “Hybrid bookwork, empire soft-skinned space” (2014) si pone come luogo di discussione sul post-digitale, in forma di ebook. Il progetto è opera di tre studenti del corso di “New Media and Digital Culture” presso l’Università di Amsterdam. Il loro obiettivo era quello di creare un epub, e il loro gruppo ha scelto di usare empyre-list come base per il progetto. Edito da Stella Rieck, Rose Rowson, Nora Wohlfei, la discussione è moderata da Michael Dieter. Dieter chiede di definire il termine “post-digitale”, Alessandro Ludovico risponde:

«La mia personale definizione è che “Post-Digitale” è lo spazio lasciato dalla (solo apparente) assenza del digitale. Lo “spazio” qui è inteso come uno spazio astratto negoziabile, in precedenza occupato dal digitale nelle sue forme evidenti e delle interfacce, che ora sono percettivamente scomparse, anche se in realtà sono ancora lì, attive e alla fine ci impegnano in un nuovo rapporto anche con la realtà

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non digitale».[Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

Quando infatti il digitale rappresentava una novità, una rivoluzione, allora la sua presenza era ben percepita, faceva la differenza tra il prima e il dopo. Oggi invece il digitale è incorporato nelle funzioni che svolgiamo tutti i giorni, e prodotti che prima non potevano esistere oggi ci sono, come collaborazione tra il digitale ormai inglobato e il fisico sempre esistito.

Søren Pold definisce quali sono, a suo avviso, alcuni punti identitari del post-digitale, visto come metodo potenzialmente critico per discutere il cambiamento dei media in confronto con la digitalizzazione dopo che la rivoluzione digitale è ormai finita. Alcuni punti — condivisi dallo stesso Cramer — sono:

«— La rivoluzione digitale è finita. I tempi utopici sono passati. È qualcosa di sano, da quando possiamo iniziare a guardare più concretamente e in maniera sobria i cambiamenti materiali che sono avvenuti e che hanno influenzato la cultura.— Tuttavia, ora perdiamo anche i giorni di utopia, quando le tecnologie digitali e i media riguardavano solo la razionalizzazione, capitalizzazione, controllo, monitoraggio. Come possiamo sviluppare le alternative, quando abbiamo smesso di credere nel potere della tecnologia? […] Abbiamo bisogno di usi alternativi, progetti, comprensioni — e forse li possiamo trovare combinando storia, tecnologia e cultura?— Il post-digital è l’ampia realizzazione che la digitalizzazione non è una trasformazione binaria da old a new media, ma è un processo a strati che influisce sulla produzione, archiviazione, distribuzione e ricezione in combinazioni e modi differenti.— Il post-digital è quindi la consapevolezza che il digitale non trasforma semplicemente ogni cosa in una dimensione virtuale, ma che esso è — e ha bisogno di essere in modi che non abbiamo ancora immaginato — accoppiato con il materiale, spaziale, urbano, culturale, carne umana. Questa è sia una buona che brutta notizia.— Il post-digitale è un’opportunità per sviluppare la storia: sia le storie dei media digitali, da Turing a Kurenniemi che le storie dei media e degli utilizzi dei media da Raymond Williams a Mathew Fuller. Inoltre questa è l’occasione per capire che questa storia non è lineare ma che la storia dell’ipertesto non è né lineare né inequivocabile ma è biforcata e ricorsiva e la cultura del computer non calcola».

[Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

La questione rimane quella di riuscire ad identificare i progetti che possono essere definiti post-digitali. L’articolo di Cramer “What is Post-digital?” si apre con la descrizione di un’immagine che nel gennaio del 2013 era diventata virale sul sito Reddit, quella di un uomo seduto su una panchina in un parco intento a scrivere con una macchina da scrivere. L’immagine, presentata nel tipico stile del “meme”, riporta la didascalia: “You’re not a real hipster until you take your typewriter to the park”. In seguito, l’immagine si è poi rivelata essere la fotografia di uno scrittore che si è guadagnato da vivere vendendo ai passanti storie scritte al parco appositamente per loro. A posteriori, conoscendo la storia, si può capire come la macchina da scrivere sia stata la scelta migliore in quel contesto: portare computer e stampante al parco sarebbe stato difficile, scomodo, avrebbero avuto bisogno dell’energia elettrica, si sarebbero potuti danneggiare o potevano essere rubati. La macchina da scrivere usata dallo scrittore, come specifica lui stesso, è stata acquistata da un mercatino per dieci dollari, e con quella ha iniziato il suo lavoro a Washington Square Park. La scrittura manuale, d’altra parte, sarebbe stata troppo lenta, non sufficientemente leggibile e priva di aspetto professionale:

«Questo è un perfetto esempio di scelta post-digitale: utilizzare la tecnologia più adatta al lavoro, piuttosto che usare automaticamente l’ultimo ma inadempiente “new media”. Questo mostra anche l’ibridismo post-digitale tra “old” e “new” media, dal momento che lo scrittore pubblicizza (ancora una volta, sulla confezione della sua macchina da scrivere) il suo account Twitter “@rovingtypist”, e viceversa utilizza questo account per promuovere il suo servizio di scrittura».[Cramer Florian, “What is...”, op. cit.]

Il progetto si chiama “Roving typist” e lo scrittore, C. D. Hermelin, ha riproposto l’uso della macchina da scrivere come strumento per una stampa personalizzata dando alla vecchia tecnologia analogica una nuova funzione, grazie all’esplorazione di specifiche qualità del vecchio medium, che invece rappresentano i limiti dei nuovi media. Allo stesso tempo lo scrittore applica alcune funzioni dei nuovi media sul vecchio: realizza un prodotto personalizzato dall’utente, creato in un ambiente sociale, con un modello di pagamento “donate what you can”. La dicotomia tra media comunitari e mass

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media qui viene ribaltata, rendendo la macchina da scrivere un dispositivo comunitario. Infatti all’indirizzo https://rovingtypist.com/ C. D. Hermelin spiega che il suo lavoro consiste nello scrivere a macchina storie per estranei. È infatti possibile contattarlo — tramite e-mail o mentre è seduto ad una panchina — e commissionargli la propria storia, che sia completamente inventata da lui oppure specificando delle informazioni — argomento, personaggi, o far si che lo scrittore inizi la sua storia partendo da un’immagine in particolare — e il racconto sarà lungo una o al massimo due pagine. L’autore consegna poi la storia in busta da lettera al committente, e specifica che potrebbe verificarsi la possibilità che le storie

vengano raccolte in un libro. Michael Dieter afferma:

«In definitiva, penso che una forza evidente del termine sia che esso appare fortemente guidato da una sensibilità esploratoria/sperimentale, piuttosto che da concetti ideali o teorie di buone pratiche».[Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

C. D. Hermelin, “Roving typist”

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D E F I N I R E “ I B R I D O ”

Le riflessioni e le operazioni post-digitali sono spesso connesse alla concretizzazione di manifestazioni che potremmo definire “ibride”. Secondo il Vocabolario Etimologico di Pianigiani:

«Ibrido: lat. HYBRIDUS, dal gr.YBRIS eccesso, violenza (cfr. ypèr sopra) ed anche lascivia, lussuria [onde ybrizein eccedere i giusti confini, essere sfrenato, ed anche stuprare].Dicesi di animale nato da generanti dissimili, perché reputasi tale procreazione oltrepassare i limiti imposti dalla natura, ovvero fomentata da lascive; per estens. Anche di piante provenienti da specie differenti e di vocaboli composti di elementi tratti da lingue diverse.Deriv. Ibridismo».[“Ibrido”, http://www.etimo.it/?term=ibrido, ultima consultazione 2015]

Alessandro Ludovico scrive:

«L’ibridismo (declinato in molti modi diversi), dovrebbe essere visto come la vera incarnazione del “Post-digitale”, che non potrebbe poi essere eventualmente rivendicato da qualsiasi altra pratica sperimentale che abbia a che fare con il digitale».[Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

Ludovico si concentra particolarmente sul concetto di ibrido, e parlando del contesto editoriale, afferma che:

«Nel complesso rapporto in continua evoluzione tra editoria tradizionale e digitale (o offline e online, se preferite), il concetto di pubblicazioni “ibride” sembra diventare cruciale e che “ibrida” è quella pubblicazione in cui è quasi impossibile separare o discernere la forma fisica dal processo digitale alle sue spalle, in quanto è il risultato inestricabile di processi calcolati in una forma di pubblicazione riconoscibile (eventualmente aggiornabile o semplicemente mutevole nel tempo)».[Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

Potremmo quindi dire che la pratica post-digitale può condurre, spesso, alla realizzazione di processi, artefatti o atti “ibridi”, in quanto i sistemi comunemente identificati come “analogici” — o offline, o materiali — possono essere strettamente messi in relazione con sistemi comunemente identificati come “digitali” — o online, o virtuali. Il risultato di questa profonda interazione è un artefatto o un’esperienza in cui i due sistemi eterogenei non possono più essere scissi, e che tale risultato ha senso di esistere — e può esistere — solo in vista della loro fusione. Questa fusione, o come definisce Franco Berardi, congiunzione, diventa così la chiave per interpretare il nostro presente:

«La congiunzione è divenire altro. Nella connessione al contrario ogni elemento permane distinto, e interagisce solo funzionalmente. Congiungendosi le singolarità si modificano, divengono altra cosa da quel che erano prima del loro congiungimento. L’amore cambia l’amante, e la combinazione di segni a-significanti permette l’emergere di un significato che non esisteva prima. […] Il fattore trainante della mutazione è l’inserzione dell’elettronico nell’organico, la proliferazione di congegni artificiali nell’universo organico, nel corpo, nella comunicazione, nella società. L’effetto è la trasformazione del rapporto tra coscienza e sensibilità, la progressiva desensibilizzazione dello scambio di segni».[Franco Berardi in: Balzola Andrea, “Arte e media. Formazione, ricerca produzione”, Scalpendi, Milano, 2010]

Nel prodotto ibrido è quindi sempre presente una componente digitale in quanto il digitale è diventata una realtà imponente all’interno del nostro ambiente quotidiano. Se le pubblicazioni ibride, ad esempio, come afferma Ludovico, nascono da processi impossibili da separare, è però quasi sempre possibile individuare quali sono i processi coinvolti dalle due parti (altrimenti non riusciremmo neanche a capire che siamo di

Cinocefalo, da “Die Schedelsche Weltchronik” (Le cronache di Norimberga), Hartmann Schedel, 1493, Norimberga, foglio XII, particolare

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fronte ad un processo di ibridazione post-digitale). In alcuni casi però riconoscere il modo in cui i due sistemi hanno lavorato può non risultare semplice ed immediato, il sistema digitale potrebbe essere talmente assorbito da non essere riconosciuto. D’altronde un’attenta analisi del risultato dovrebbe bastare per comprendere il funzionamento delle due parti coinvolte. L’ibrido rompe dunque i confini tra “old” e “new” media, perché si passa da un sistema all’altro in maniera soffusa, non completamente demarcata. Mel Alexenberg scrive:

«Roy Ascott, in Telematic Embrace, conia il termine “moistmedia” come simbiosi tra pixel asciutti e biomolecole bagnate. L’arte postdigitale si dedicherà alla creazione di opere moistmedia in cui nuove metafore, nuovi linguaggi e nuove metodologie si svilupperanno. L’interazione dinamica tra sistemi digitali, biologici e culturali porteranno ad un approccio sincretico realizzato attraverso la connettività, immersione, interazione, trasformazione ed emersione». [Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

In “Hybrid Bookwork “Ethel Baraona Pohl scrive:

«Trovo molto interessante la questione […] riguardo l’importanza dei libri stampati in relazione alle sensazioni tattili ed emotive nel condividere un libro, o memorie, come ritrovare vecchie note e cercare di ricordare perché quella citazione era importante in un determinato momento. In particolare, amo odorare i libri ed è questo il motivo per cui è così importante per noi fare ricerca sul concetto di ibridazione. Come avrete visto nei due casi studio che vi ho inviato (Realtà Aumentata e multipiattaforma), nessuno di essi si basa sulla controversia “digitale vs. stampato”. Invece, pensiamo al potenziale del mescolare i formati, così se parliamo di Realtà Aumentata, possiamo vedere i contenuti digitali che dipendono dall’immagine stampata che “prende vita” come nel nostro libro Weaponized Architecture (https://vimeo.com/52086224) e, d’altra parte, i contenuti stampati vengono arricchiti dall’espansione dei contenuti».[Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

L’ibridazione dei sistemi diventa un modo utile per sfruttare al meglio le capacità delle diverse tecnologie che oggi abbiamo a disposizione. Dato che ogni tecnologia ha delle caratteristiche proprie ben definite e spesso inimitabili e difficili da sostituire [ i new media sostituiscono gli old media, o no? ]

[ ibridazione funzione ], non ha senso rinunciarvi. Le tecnologie che abbiamo a disposizione possono essere “stuprate”, denudate, scisse nelle loro componenti per essere poi riassemblate insieme alle componenti di un’altra tecnologia. Le funzioni utili di un sistema analogico e di uno digitale possono essere messe in condivisione in un prodotto nuovo, permettendoci di raggiungere uno scopo e una prestazione prefissati. Gli aspetti estetici dei due sistemi possono essere mescolati al fine di soddisfare i nostri occhi e di nutrire la nostra nostalgia per il passato. I diversi linguaggi possono fondersi per dare vita ad artefatti sperimentali e che possono mettere in luce delle riflessioni interessanti. L’interazione tra sistemi computerizzati e la materia fisica, come il corpo umano, può essere utile dal punto di vista artistico o per rispondere a determinate esigenze fisiche dell’uomo.

R E L A Z I O N I C O N L A S O C I E T À : E C O N O M I A , S T O R I A , C U LT U R A , R E L I G I O N ES t o r i a e d e c o n o m i a o c c i d e n t a l e e d o r i e n t a l e

Il linguaggio dei nuovi media digitali sembra riflettere la società del progresso industriale fiorita nel corso del Novecento. Lo sviluppo delle fabbriche nel XIX secolo, la divisione del lavoro in unità separabili e discrete, l’affidamento di compiti noiosi o complicati alle macchine, il desiderio di accrescere la produzione e il profitto, è paragonabile al funzionamento delle tecnologie digitali. I processi non sono più continui e inscindibili, come le operazioni manuali che possono dare origine a risultati inaspettati o “imperfetti”: ma sono ora delle pratiche numerate, ordinate, separate [ come le tecnologie cambiano la società ].

Micha Càrdenas sviluppa la sua personale

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definizione del termine “postdigitale”— che presenta al Transmediale phd symposium nel 2012 — incentrata sulle pratiche politiche ed estetiche di omosessuali e trans di colore:

«Si tratta di una riconsiderazione del pensiero e della comunicazione al di fuori dei confini dei concetti occidentali di conoscenza e di razionalità».[Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

Càrdenas cita il lavoro di Diana Taylor nei suoi libri “The Archive” e “Repertoire”, in cui l’autrice scrive riguardo i modi in cui i regimi coloniali hanno insistito sulla concezione di scrittura come unica forma legittima di conoscenza e come modo per depotenziare i soggetti colonizzati. Secondo questo pensiero, i sistemi digitali di archiviazione riprodurrebbero quella gerarchia respingendo la conoscenza emozionale che non è riproducibile tramite i media digitali. Florian Cramer commenta questo pensiero, sostenendo che la realtà non è così semplice. La logica digitale si può trovare ugualmente anche nel ragionamento di filosofi cinesi del quarto secolo come Hui Shi. Il calcolo digitale inoltre (letteralmente: calcolo con le tue dita) non è assolutamente un concetto esclusivamente occidentale. Cramer scrive in risposta a Càrdenas:

«Sono d’accordo con te nel dire che la cultura e la scienza occidentale l’hanno portata all’estremo, ma come fai notare tu stessa, il dualismo che vede da una parte occidente/individualista/oggettivista/booleano/digitale e dall’altra non-occidentale/non-individualista/soggettivista/non-boleano/non-digitale è in sé uno stereotipo occidentale romantico (e colonialista). Oltre a questo, è storicamente sbagliato. Ad esempio, il concetto moderno del numero zero, senza il quale non ci sarebbe il calcolo binario, fu inventato nel nono secolo d.C. in India, con precursori in Egitto e Mesopotamia, ma non in Europa. Individuare la digitalità con la colonizzazione occidentale vorrebbe involontariamente favorire una visione storica, culturale, scientifica e tecnologica eurocentrica».[Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

Questo argomento — e il suo sviluppo a seguito della diffusione del digitale nella nostra vita — viene affrontato anche da Michael Dieter, che in “Hybrid Bookwork” scrive:

«Come afferma Lev Manovich in “Software

Takes Command”, se il linguaggio dei nuovi media si basava sul delineare una grammatica contemporanea espressa attraverso la rappresentazione numerica, modularità, automazione, variabilità e transcodifica, in seguito il suo nuovo lavoro si concentra su come un tale linguaggio si presta ad un’ibridazione di ampia portata attraverso la permanente estensibilità degli usi e delle possibilità dei software. Il software può fare questo dal momento che funziona come un implementazione del digitale come meta-medium […]». [ ibridazione linguaggio ][Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

Il computazionale infetta, senza rimediare del tutto le vecchie tecnologie che rimangono riconoscibili ma vengono mescolate con i nuovi media in una nuova espressività e funzionalità [ rimediazione ]. Il post-digital si pone come operazione e commento relativi a questo tipo di cultura. Dieter continua:

«Se consideriamo il post-digitale in termini di tecniche socio-politiche, diventano centrali una serie di dinamiche di mediazione: delega, accelerazione e scalabilità. Questi diversi impulsi possono assumere la funzione di infrastrutture globali per l’informazione. Il post-digitale comunque esiste come “piccolo” dispositivo di orientamento, ma solleva anche questioni estetiche di bellezza ed eleganza, e sostiene la lotta per dare senso al digitale oggi in modo significativo, al di là del profitto e del controllo dei problemi».[Rieck S., Rowson R., Wohlfeil N., “Hybrid Bookwork...”, op. cit., cap.6]

Il post-digitale si pone, in tal senso, anche come risposta critica a quello che è stato il digitale, guarda al passato e cerca di riproporlo in una forma nuova. In “Prehistories of the Post-digital: or, some old problems with post-anything” Geoff Cox si concentra sui rapporti tra i cicli storici citando il lavoro di Frederic Jameson — critico del postmodernismo — il quale adotta la “long wave theory” dell’economista russo Nikolai Kondratiev. Secondo tale teoria si susseguono, nella società, cicli di espansione e di ristagno economico, in cui lo sviluppo è influenzato dai periodi di ristagno precedenti. Jameson descrive le forme culturali che riflettono i diversi tipi di economia e quindi le coppie: capitalismo di mercato con realismo; capitalismo monopolistico con modernismo; capitalismo multinazionale o post-industrialismo con postmodernismo. Questi periodi aumentano la ricchezza del capitalismo

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e il potenziale di manodopera a basso costo. La produzione culturale è legata al passato, considerato un ampio database di immagini che vengono rielaborate dalla cultura. Anche Brian Holmes — facendo sempre riferimento a Kondratiev — ripercorre i cicli di sviluppo e recessione del capitale. Kondratiev infatti identifica tre periodi di sviluppo tecno-economico e osserva che le invenzioni tendono ad essere realizzate durante i periodi di recessione, ma vengono applicate solo quando l’economia inizia a riprendersi. Questo ragionamento ha ispirato l’idea di Joseph Schumpeter su come le innovazioni rivoluzionino le pratiche commerciali — ciò che lui chiama “creative destruction” — per dimostrare come il profitto possa essere generato da mercati stagnanti. Holmes spiega:

«Gli investimenti nella tecnologia sono sospesi durante le crisi, mentre le nuove invenzioni si accumulano. Poi, quando le condizioni diventano favorevoli, il capitale disponibile viene investito nelle innovazioni più promettenti, e può essere lanciata una nuova long wave».[Cox Geoff, “Prehistories of the Post-digital: or, some old problems with post-anything”, http://www.aprja.net/?p=1314, 2014]

Geoff Cox si chiede quindi se sta succedendo una cosa simile, in questo momento, con il digitale, e se lo stile retro-nostalgico di molte produzioni culturali sia sintomo di un ragionamento commerciale che cerca di capitalizzare nel presente il precedente ristagno economico. La sua conclusione è, in effetti, che le condizioni del presente dovrebbero essere intese simultaneamente nei termini delle dinamiche di stagnazione e sviluppo, e le pratiche di produzione post-digitale dovrebbero essere intese in questo processo. Il ragionamento di post-qualcosa in effetti mette in risalto una produzione culturale che cerca di riproporre, riadattandole al nuovo contesto storico, idee e immagini morte, del passato [ ibridazione aspetto ].

C u l t u r a e r e l i g i o n e

Un’altra chiave di lettura del postdigitale, in termini culturali e religiosi, ci viene fornita ampiamente da Mel Alexenberg nel suo libro “The Future of Art in Post Digital Age”. I concetti espressi sono introdotti da alcune citazioni esplicative, tra le quali, nell’ordine a seguire, quelle di Winston Churcill e Thorleif Boman:

«I greci e gli ebrei sono persone la cui visione del mondo ha influenzato più di tutto il modo in cui pensiamo e agiamo. Ognuno di loro da angolazioni così differenti ci hanno lasciato l’eredità del loro genio e della loro saggezza. Nessun’altra città è stata tanto importante quanto Atene e Gerusalemme. Il loro messaggio in religione, filosofia e arte è stata la maggiore luce guida nel destino e nella cultura moderni».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

«Se il pensiero israelita è di essere caratterizzato, nella sua ovvia natura prima di tutto dinamica, vigorosa, passionata e a volte esplosiva, in corrispondenza il pensiero greco è di natura statica, pacifica, moderata e armoniosa».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

Il teologo norvegese Thorleif Boman analizza nel suo libro “Hebrew Thought Compared with Greek” (1960) il contrasto tra la natura greca e quella ebraica. Facendo riferimento alla Bibbia infatti, Boman fa notare come le costruzioni ebraiche vengono sempre descritte in fase di sviluppo, e mai quando sono completate (come ad esempio avviene per l’arca di Noè, che non viene mai descritta alla fine, come appare, ma vengono fornite istruzioni su come costruirla). Il tabernacolo nell’ebraismo era

Modello del tabernacolo trasportabile, Parco Timna di Israele

Tempio di Efesto, Atene, 415 a.C.

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un santuario costituito da moduli e veniva smontato, trasportato nel deserto e rimontato. Per gli ebrei l’architettura metteva in risalto il processo temporale in cui lo spazio veniva occupato e vissuto dalla comunità, e non come forma imposta e stabile nello spazio. Al contrario, l’architettura ellenistica è un oggetto-tempio, una struttura stabile e monumentale. I templi sono il risultato di calcoli matematici, proporzioni ed accorgimenti visivi che rendono la struttura stabile nel tempo e fissa in un luogo, che non ammette modifiche, riduzioni o ampliamenti alla struttura.

L’architettura ebraica è invece vista come un oggetto-casa, una struttura organica e viva che si adatta all’ambiente e ai bisogni di chi la usa, può essere ingrandita e ridotta grazie ai suoi moduli, è libera da simmetrie e l’unica regola che la gestisce è la capacità di subire cambiamenti. Come afferma Alexenberg, la visione del mondo dell’antica Grecia viene recuperata durante il Rinascimento europeo, che dominerà l’arte e l’architettura Occidentale prima della nascita del Modernismo. La transizione dal Modernismo al Postmodernismo nell’arte e nell’architettura in America rappresenta il passaggio dalla cultura ellenistica a quella ebraica. Ad esemplificare questo spostamento sono due costruzioni architettoniche: il Guggenheim art museum di Frank Lloyd Wright a New York (1943)

e quello di Frank Gehry a Bilbao, Spagna (1997):

«Un analisi di questi due lavori principali dell’architettura americana forniscono un’introduzione alla confluenza contemporanea tra coscienza ebrea e arte postmoderna nell’era postdigitale».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

Wright rappresenta un esempio che chiarifica la differenza tra cultura ebraica e greca. Egli si distacca dall’architettura neoclassica da cui dipendeva l’architettura americana ed approfondisce, nella sua architettura organica, il rapporto tra l’individuo e lo spazio architettonico e fra quest’ultimo e la natura. Leggendo la sua architettura in termini religiosi, Wright esprime il messaggio biblico di liberazione dell’umanità dalla schiavitù degli spazi chiusi, esprimendo questa libertà nelle forme architettoniche. Alexenberg scrive:

«Significativo che la nazione fondata sui principi di “life, liberty and the pursuit of happiness” diventi il centro del passaggio dalla visione ellenistica a quella ebraica nelle arti. Il Gugghenaim di Wright è una struttura libera, non una scatola con quadri esposti in uno spazio statico, ma uno spazio a più livelli da percorrere, con rampe a spirale». [Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

Anche i lavori esposti nel museo si concentrano sul movimento: le opere di Calder e quelle di Yaacov Agam cambiano grazie al movimento dei visitatori. La spirale inoltre, che è la forma maggiormente presente in natura — nel DNA e nella costruzione della sezione aurea in primis, relativa a molti sistemi organici esistenti — è anche il simbolo del mondo Frank Lloyd Wright, Solomon R. Guggenheim Museum, New York, 1937

Rotolo Torah ebraica

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ebraico. Gli ebrei vengono chiamati am haSePheR, tradotto in genere come “people of the book”. Ma SePheR è anche una parola usata in relazione alle pergamene della Torah e significa “rotolo di pergamena a spirale”. Si pronuncia SPR, la radice della parola “spirale” in molte lingue. SePheR indica l’emanazione della luce divina, e parole come “Spiritual” o “inSPiRation” provengono dalla stessa. Nell’ebraismo la forma è data dal contenuto, perciò il medium è una parte essenziale del messaggio. Questo avviene anche nel postmodernismo che enfatizza una visione dell’arte basata su “l’idea che le forme potrebbero rivelarne il contenuto”. Il rotolo di pergamena della Torah può essere letto nelle sinagoghe solo se è a spirale, in cui la fine è connessa con l’inizio in un flusso senza fine. Dando la forma di spirale alla cavità del museo, Wright rappresenta l’incarnazione architettonica del pensiero ebraico, che ha in questo caso più significato perché non proviene da un ebreo. La struttura è espressionista e rigorosa allo stesso tempo, ed è un continuum tra costruzione e paesaggio: la monumentalità lascia lo spazio all’azione, alla libertà. Il Guggenheim Museum di Bilbao rappresenta un salto ancora più evidente verso il punto di vista ebraico, nelle sue forme dinamiche, vigorose, passionali: come un pesce fuori dall’acqua la struttura deve muoversi continuamente per vivere. Il movimento continuo offre sempre nuovi e inaspettati punti di vista. L’adozione di un unico punto di vista privilegiato è infatti un processo di stampo ellenistico e rinascimentale, sia nell’arte che nella scienza.

Questa visione viene ribaltata nel Modernismo: futuristi e cubisti offrono molteplici punti di vista di un oggetto o di un movimento nello spazio; nella

scienza viene proposta l’idea di prospettive multiple nell’osservazione della luce, vista sia come particella che come onda, e dell’impossibilità di determinare simultaneamente sia la velocità che la posizione di un elettrone. Credere di poter osservare un fenomeno da un unico punto di vista, nel corso del Novecento diventa un’illusione, così come avviene nella performance artistica e nel rapporto tra spettatore passivo e partecipante attivo:

«Il postmodernismo espande l’esperienza multi-prospettica accoppiando il punto di vista esterno ed interno. Lo sguardo passivo dell’osservatore esterno viene esteso allo sguardo del partecipante attivo».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

Lo slittamento del punto di vista rappresenta il passaggio dalla società industriale della macchina, indice di stabilità, certezza, ordine, equilibrio, uniformità e sistemi chiusi, alla società high-tech in cui vige il cambiamento sociale: disordine, instabilità, diversità, disequilibrio, relazioni non lineari, sistemi aperti, e una accresciuta sensibilità al flusso temporale [ come le tecnologie cambiano la società / il villaggio globale e la ri-tribalizzazione nella società elettrica ].

Un altro aspetto che mette in relazione la cultura ebraica all’arte postmoderna è un attaccamento a ciò che è fisico e terreno. Parte dell’arte moderna ha cercato ciò che è spirituale, un’ascensione terrena — con Kandinskij, Malevic, e il primo Mondrian. Gli artisti si dedicano a ciò che è astratto: l’ascensione spirituale, l’espressione, il sentimento, la psiche, il concettuale. Kandinski scrive “Lo spirituale nell’arte” e simboleggia l’ascensione spirituale con un triangolo che punta in alto e in avanti. Così come nella Bibbia i concetti vengono spiegati utilizzando metafore o rappresentazioni visive legate al mondo concreto piuttosto che a concetti astratti, il postmodernismo si avvicina a ciò che è concreto e materiale e:

«Ci si batte invece per un movimento che vada all’indietro e verso il basso, che prenda ispirazione dalla conoscenza del passato e che si rivolga a ciò che è terreno, popolare, ciò che viene definito la “cultura bassa”, della vita di tutti i giorni». [Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

Alexenberg fa notare che i due triangoli, messi insieme, formano la stella di David come simbolo dell’interazione dinamica tra i due movimenti. Il pensiero giudaico infatti si accosta ad un’idea di spiritualità che non si completa nell’ascensione

Frank Gehry, Guggenheim Museum, Bilbao (Spagna), 1997

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spirituale, ma che cerca di avvicinarsi alla spiritualità lottando nel mondo terreno e in ogni aspetto della vita fisica, nel lavoro e nella vita sociale.

Tornando al concetto di punto di vista dinamico, Alexenberg espone il funzionamento e il significato del Talmud. Mentre la Torah include i primi cinque libri della Bibbia, e può intendere anche l’intera Bibbia ebraica, il Talmud rappresenta la trascrizione dell’insegnamento orale. Tramite la tradizione orale tramandata di generazione in generazione, le scritture della Torah venivano continuamente reinterpretate, fornendo versioni alternative della comprensione del testo. Non esisteva dunque un unico punto di vista, ma molteplici visioni della conoscenza. Uno degli aspetti più interessanti del funzionamento di internet è la possibilità che ognuno ha di condividere dei contenuti, permettendo a tutti, di conseguenza, di accedere a saperi sempre nuovi, a vari punti di vista e alle idee più diverse [ i new media sostituiscono gli old media, o no? / caratteristiche e funzioni digitali / condivisione ]. L’ipertestualità resa possibile dalla struttura della rete facilita la possibilità di accedere a queste informazioni, agevolando ed incoraggiando le prospettive associative e creative, e stimolando anche nuove riflessioni e dunque condivisioni.

Il Talmud funziona allo stesso modo. Alexenberg racconta che, quando insegnava alla Columbia University, McLuhan andò lì per tenere una conferenza. Egli spiegava come la linearità delle informazioni del libro limitasse il pensiero delle persone che imparano dai libri stampati. Nel libro le lettere seguono lettere, i capitoli altri capitoli, pagine le pagine, in una struttura lineare, che parte da un inizio e finisce in una fine, fornisce un unico punto di vista, quello del singolo autore. Il libro è progettato per essere letto in solitudine, ferma il dialogo tra le persone, conducendoci alla passività, all’isolamento e al non-sviluppo ulteriore delle informazioni stampate. Quando le lettere vengono stampate su carta, il potenziale flusso di conoscenza che il libro potrebbe contenere si ferma lì, in quel momento storico. Possiamo dire che il libro è la testimonianza delle conoscenze che abbiamo — o che l’autore ha — accumulato rispetto ad un tema, fino all’istante in cui il libro viene definito concluso e mandato in stampa.

Al termine della conferenza, Alexenberg invitò McLuhan nel suo studio e gli mostrò un volume del Talmud, dimostrandogli come la sua struttura fosse un esempio di multilinearità e ipertestualità:

le pagine presentano un testo centrale, circondato da altri testi nelle colonne laterali, in alto ci sono altri commenti di più rabbini che si sono susseguiti nei secoli, e commenti ai commenti, accompagnati da riferimenti ad altri libri o a passi della Bibbia o dello stesso Talmud. Si presenta come un dialogo sempre aperto tra chi legge e chi fruisce le informazioni, è un processo che testimonia la costruzione di una conoscenza collettiva e in continua evoluzione, in cui i valori e le idee vengono condivisi, segnando il passaggio dalla lettura solitaria a quella collettiva.L’accumulo delle informazioni cresce nel corso del tempo, affrontando diverse epoche e sviluppi sociali, costruendo così un apparato sempre più completo. Inoltre chi legge il Talmud non è costretto a partire dalla prima pagina, ma può iniziare da ognuna della 5894 pagine, perché il Talmut non ha né inizio né fine. Si può saltare da una pagina all’altra, all’interno della pagina stessa, ad altri Talmud, alla Bibbia, ai testi della Kabbalah, o ad altre fonti. I rabbini fanno riferimento al Talmud come yam (“sea”) e si è destinati a “navigare” nel Talmud, così come si fa in rete. La parola ebraica usata per “trattato” è masechet, che significa letteralmente “webbing”. Jonathan Rosen scrive:

«Sono confortato dal pensiero che un moderno medium tecnologico ne echeggi uno antico».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

I paragoni tra religione e sistemi digitali/virtuali vengono individuati anche nel campo delle religioni orientali. Wengao Huang, professore di media art presso il College of Information Science and Engineering della Shandong University a Weihai (Cina), scrive “Self-organization, new media, and traditional Chinese philosophyin” in cui identifica l’arte come personificazione del Tao. Huang sottolinea come molte forme artistiche postdigitali siano strutturate sul principio di unificazione estetica del Ch’i, che collega arti, umanità e l’universo in un grande insieme che promuove la creazione artistica. L’arte postdigitale pone tecnologia, conoscenza e cultura in un grande crogiuolo che conduce ad una sola realtà — il Tao — trasformando le differenze all’interno della coerenza. Non solo il Taoismo, ma anche altre religioni orientali, come il Buddismo e il Vedismo, mostrano dei paralleli e degli spunti per l’arte postdigitale: il concetto di ambiente come spazio immersivo, l’interazione tra il corpo e l’ambiente, gli stati di coscienza effimeri e transitori e gli stati alterati di coscienza (nel caso del digitale parliamo di realtà aumentata), il Ch’i come flusso di energia nella creazione di opere in cui i movimenti

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corporei innescano interazione ed immersione. Anche l’arte indiana condivide con il postdigitale i fondamenti di calcolo, convergenza e interdipendenza tra campi diversi e l’estetica della realtà virtuale. La parola in sanscrito per arte è cala, le cui radici etimologiche derivano da “contare”, “calcolare” o “computazione”. Questo mostra un profondo rapporto tra la quantificazione e l’esperienza estetica dell’arte, in cui scienza e tecnologia sono diventate attività che si integrano alle domande primordiali, alla magia e al mistero, incorporando nell’arte indiana tutti gli aspetti della creatività umana.

Mel Alexenberg torna a parlare del concetto di punto di vista in relazione alle diverse culture. Fa riferimento a Jean Gebser — filosofo, linguista e poeta tedesco del Novecento — il quale propone cinque diverse strutture di coscienza: arcaica, magico-vitale, mitica, mentale-razionale e integrale. La struttura mitica dà risalto alla prospettiva mitologica, la struttura mentale-razionale alla prospettiva logica, e la struttura integrale alla prospettiva ecologica.

— La prospettiva mitologicaNel mondo della prospettiva mitologica le persone fanno esperienza del mondo grazie alla tradizione tramandata oralmente, l’esperienza uditiva è coinvolgente: il suono generato nell’aria produce onde sonore sferiche che le circondano e le avvolgono, inoltre le orecchie, al contrario degli

occhi che hanno le palpebre, non permettono la possibilità di escludersi dal mondo esterno. Lo spazio viene percepito come bidimensionale e circolare e il tempo ciclico. Dato che non ritengono lo spazio come elemento statico e il tempo come lineare, gli eschimesi non hanno unità di misura speciali per misurare il tempo. Nei suoi studi sugli eschimesi, l’antropologo americano Edmund Carpenter spiega che gli eschimesi non conoscono il concetto di costruzione con pareti verticali e soffitto orizzontale uniti da angoli di 90 gradi del mondo della prospettiva logica. [Lettura consigliata: Carpenter Edmund, “Image Making in Arctic Art”, Gyorgy Kepes, New York, 1996]

Un eschimese costruisce un igloo partendo dall’interno piuttosto che dall’esterno, sovrapponendo cerchi concentrici rastremati a cono man mano che si va in alto. Carpenter spiega che non ha mai trovato esempi in cui gli eschimesi descrivano lo spazio in termini principalmente visivi. Al contrario di come accade nella prospettiva logica, in cui si crede in ciò che vede, gli eschimesi tendono a credere più alle loro orecchie che ai loro occhi. L’apparizione visiva è meno importante della verità ascoltata dalla tradizione orale. Gli eschimesi realizzano le loro sculture in avorio non partendo dal concetto visivo, ma lasciano che ogni pezzo riempia e viva il proprio spazio senza alcuna referenza con il mondo esterno e con ciò che lo circonda. Quando arriva la primavera e gli igloo si sciolgono, è possibile trovare le sculture tra i rifiuti. Le sculture non vengono appositamente gettate, semplicemente vanno perse. Questo accade perché, in contrasto con la prospettiva logica della produzione artistica, l’eschimese è indifferente al prodotto, ma valuta e dà importanza all’atto artistico in sé. Le sculture eschimesi non prediligono un unico punto di vista, infatti spesso non hanno una base che le permette di stare in piedi da sole, perché sono destinate ad essere autonome rispetto all’ambiente circostante e a passare di mano in mano mentre

Struttura pagina Talmud

Un uomo costruisce una casa di neve, 1929 circa, Canadian Geological Survey, Library of Congress

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ci si scambiano informazioni orali, parlando di esse e della tradizione. Anche nelle tradizioni africane il concetto di “base” non viene riconosciuto, e se negli ultimi tempi alle sculture viene fornita una base per stare in piedi, è solo un riflesso del turismo. Nel libro “Culture and Thought: A Psychological Introduction” (1974), Michael Cole e Sylvia Scribner descrivono come i bambini di tribù africane disegnino figure in tutta la pagina, ruotando ogni volta il foglio in modo che ogni bordo possa diventare una linea di base. Le persone della prospettiva mitologica infatti fanno fatica a riconoscere la terza dimensione. Studi basati sul test di Hudson dimostrano che ci sono nette differenze tra i vari gruppi culturali e linguistici nella percezione delle immagini [ http://collections.infocollections.org/ukedu/en/d/Jh1842e/4.2.html ].

Le sette immagini proposte dal test di Hudson (1960) ritraggono un uomo con una lancia puntata verso un elefante — che è più piccolo e si trova in realtà sullo sfondo — e un’antilope posta sullo stesso piano dell’uomo. Ai soggetti sottoposti al test venivano poste delle domande come: “A quale animale l’uomo sta puntando la lancia?” “Qual è più vicino all’uomo?” La maggior parte dei tribali africani rispondeva che l’uomo puntava la lancia verso l’elefante, che si trovava sul suo stesso piano. Per le persone della conoscenza logica invece, l’uomo sta puntando la lancia verso l’antilope, e l’elefante si trova sullo sfondo. Questi risultati sono stati replicati in diversi studi, come ad esempio il più recente dell’Unesco/Unicef/CEDO (Bryan, 1972), secondo il quale più del 90% dei bambini kenioti sottoposti al test percepiscono solo la bidimensionalità: l’uomo punta la lancia verso l’elefante, che è più vicino all’uomo

rispetto all’antilope. Anche Jan Deregowski cerca di dimostrare lo stesso concetto: pone le figure del test di Hudson su strati di superficie trasparente all’interno di una scatola e chiede al soggetto di muovere un fascio di luce coincidente con la profondità dell’immagine osservata. Gli europei ponevano la luce più lontana nel caso dell’elefante e più vicina, sullo stesso piano, per l’antilope e l’uomo. I tribali africani invece ponevano la luce alla stessa distanza, percependo le immagini tutte sullo stesso piano [ ibridazione linguaggio / imparare nuove lingue ] [ come le tecnologie cambiano la società / il villaggio globale e la ri-tribalizzazione nella società elettrica / l’uomo tribale e l’uomo letterato / quando l’alfabeto si insinua nel tribale ].

La rappresentazione bidimensionale è stata applicata anche come metodo di insegnamento per la popolazione medioevale perlopiù analfabeta, legandosi così alla tradizione mitologica della Chiesa del racconto orale e del coinvolgimento uditivo. Al contrario, la pittura illusionistica tridimensionale rinascimentale era dedita ad un coinvolgimento non attivo, ma piuttosto emotivo e spettacolare.

— La prospettiva logicaLa prospettiva logica considera gli oggetti nel mondo tridimensionale, osservati da un singolo punto di vista privilegiato, dal quale si può guardare un frammento del mondo fissato in un determinato punto sulla linea temporale [ come le tecnologie cambiano la società / il villaggio globale e la ri-tribalizzazione nella società elettrica / l’uomo tribale e l’uomo letterato ]. Sebbene questa prospettiva sia nata nell’antica Grecia, diventa dominante nel Medioevo e riprende vita nel Rinascimento europeo capeggiato da Giotto (1267-1337). Egli rompe la pittura bidimensionale dipingendo l’illusione dello spazio tridimensionale. In “Madonna in trono” la Madonna si trova al centro della composizione su un trono rialzato ed è circondata da altre figure.

La parte frontale del trono è libera, non ci sono

Figure di Hudson, 1960, versione originale

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personaggi perché è il posto riservato per noi, come se il dipinto fosse la continuazione del mondo reale. Ma l’accesso ci viene negato, veniamo bloccati in quel posto che il pittore ha pensato per noi, un unico punto di vista da cui osservare la scena. Con Masaccio (1401-1428) la prospettiva logica si sviluppa ulteriormente: nella “Trinità” affrescata nella Basilica di Santa Maria Novella, tutte le linee perpendicolari al piano orizzontale convergono in un singolo punto alla base della croce. Per osservare correttamente l’affresco, bisogna sottomettersi al punto di vista scelto da Masaccio, separandoci dal mondo reale che ci circonda per diventare osservatori passivi piuttosto che partecipanti attivi.

Nella prospettiva logica si fa esperienza del mondo soprattutto attraverso la vista. Gli altri sensi invece — l’olfatto, il tatto, l’udito — possono metterci a diretto contatto con il mondo fisico, interagendo anche tra loro: posso ascoltare il battito del cuore di qualcuno accostando l’orecchio al suo petto, posso annusare un fiore avvicinandolo al naso e toccandolo.L’esperienza visiva invece è alienante, presuppone che tra l’occhio e la cosa osservata ci sia una certa

distanza. Inoltre la vista, come già detto, è l’unico senso che possiede un meccanismo che permette di estraniarci dal mondo esterno: le palpebre.

Nella prospettiva logica il tempo è considerato lineare e le persone considerano se stesse e gli oggetti come elementi che si muovono su questa linea retta, fino al momento della morte. Ossessionato dalla volontà di bloccare il tempo, l’uomo fissa le immagini in materiali duraturi immortalando un determinato momento e andando in tal modo a separare quell’evento dal flusso lineare della vita vissuta nel mondo reale. Altro tipo di reazione al continuo flusso del tempo che incombe è la glorificazione del futuro, la fiducia nel progresso e nelle nuove tecnologie che sostituiscono le precedenti, sia nell’arte che nella scienza.

La prospettiva logica si sviluppa nell’arte come nella scienza. Gli ateniesi e gli ionici svilupparono quella che M.C. Goodall chiama la “prima scienza”, che impiega la logica, come il teorema di Pitagora, considerato lo sviluppo logico nella linea temporale del progresso dell’assioma di Euclide.

Giotto, “Madonna di Ognissanti”, 1310, tempera e oro su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze

Masaccio, “Trinità”, affresco, Basilica di Santa Maria Novella, Firenze

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Nel Rinascimento si sviluppa la “seconda scienza”, che prevede l’indagine della natura sulla base del metodo sperimentale. In questa visione l’intero universo viene considerato solo nei suoi eventi fisici e chimici, eventi che si sviluppano sequenzialmente su una linea temporale, in cui ogni evento è causato da un evento che lo ha preceduto. Al contrario la prospettiva mitologica mantiene i concetti spirituali in cui i fenomeni naturali vengono spiegati in termine di progetto divino e fine ultimo. Le strutture arcaiche invece sono strutture a zero dimensioni, mentre le strutture magico-vitali sono strutture pre-prospettiva ad una dimensione in cui ogni evento è connesso vitalmente ad un altro e può trasformarsi in ogni altro evento. L’uomo non è un’identità unica ma corrisponde alla stessa energia che emana. Queste prospettive vengono rifiutate dal Cristianesimo perché conducono all’idolatria.

La prospettiva logica raggiunge il suo apice alla fine del XIX secolo, quando viene trasformata nella prospettiva ecologica nei primi anni del Novecento da Einstein, dal Cubismo e dall’astrazione di Kandinkij. In realtà però, come Gebser sostiene, le strutture arcaiche e magico-vitali non sono state completamente distrutte dalle successive forme di conoscenza, ma possono riemergere e stringere una relazione con le prospettive attuali. Le trasformazioni a cui assistiamo nel postmodernismo riguardano la prospettiva logica che non viene rovesciata, ma trasformata insieme alla prospettiva mitologica in una nuova struttura. Le componenti delle due strutture vengono riorganizzate in una nuova combinazione che presenta caratteristiche che non possono essere considerate prendendo le componenti separatamente.

«Una struttura combinatoria non è semplicemente una mescolanza, ma una struttura che esiste grazie alla combinazione del legame interattivo tra le parti che lo compongono».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

Le prospettive logiche e mitologiche vengono trasformate in una nuova combinazione di prospettiva ecologica:

«Un mondo a quattro dimensioni di molteplici punti di vista che integra il tempo e lo spazio nella prospettiva ecologica, è incomprensibile e temuto da coloro che sono intrappolati nella prospettiva logica della terza dimensione della cultura europea. La quarta dimensionalità che caratterizza il pensiero ebraico e la fisica di Einstein, che si è presentata nell’arte

moderna fiorisce nell’era postmoderna».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

— La prospettiva ecologica«La parola “ecologico” che usiamo per identificare un tipo di conoscenza integrale, deriva dalla biologia. Infatti così come gli ecologisti osservano le relazioni tra animali e piante e il loro ambiente, la prospettiva ecologica si concentra sulle interazioni tra lo spazio e il tempo nel nostro sviluppo fisico, mentale e spirituale. Onora molteplici punti di vista del tutto e il modo in cui le varie parti interagiscono tra di loro in una struttura integrale».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

[ come le tecnologie cambiano la società / il villaggio globale e la ri-tribalizzazione nella società elettrica / l’uomo tribale nell’era elettronica: il villaggio globale / il ritorno ai media freddi ].La prospettiva ecologica mette in relazione l’uomo con l’ambiente circostante, sia naturale che scientifico-tecnologico. A questo proposito, l’artista Jurgen Claus conia il termine “ecotechnology” per descrivere le interazioni tra tecnologia ed ecologia. L’ecotecnologia indica l’utilizzo di strumenti, materiali e processi tecnologici in armonia con la natura, le piante, gli animali e gli uomini — come ad esempio l’uso dell’energia solare. La prospettiva ecologica rende labili i confini tra le varie strutture che compongono la cultura, tra le varie discipline, facilitando lo scambio di informazioni [ ibridazione ambiente ]:

«L’arte della conoscenza integrale e della prospettiva ecologica forza la struttura per creare un dialogo vitale tra i molteplici ambiti del discorso attraverso la partecipazione attiva in un ecosistema dinamico di fluenti interrelazioni tra lo spazio reale e il cyberspazio».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

Le origini della prospettiva ecologica, come già accennato, risalgono alla teoria della relatività (1915) di Einstein che considera il tempo come quarta dimensione collegata alle altre tre dimensioni spaziali, formando con esse un unico spazio-tempo continuo. Così invece di considerare gli oggetti — e gli eventi — come elementi che si verificano su una linea temporale, lui individua gli eventi nelle quattro dimensioni di una struttura integrale spazio-temporale. Gli oggetti allora non vengono più percepiti lungo la linea temporale da un unico punto di vista, ma possono essere considerati da molteplici vedute: un evento che accade nel presente per me,

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può essere visto come accaduto nel passato da un secondo osservatore e potrebbe essere considerato come futuro da un terzo. Le conclusioni riguardo ad un evento perciò dipendono dalla posizione dell’osservatore. Poco più tardi di Einstein, Louis de Broglie sostiene che gli elettroni e altre particelle subatomiche possono essere onde. Non è possibile verificare empiricamente se l’elettrone è una particella o un’onda, e il “Principio di Incertezza” propone che è impossibile determinare contemporaneamente la posizione e la velocità di un elettrone, in quanto la misurazione di uno rende non accurata la misurazione dell’altra. Max Plank sviluppa il concetto dei quanti e un’equazione per calcolare la probabilità che un elettrone si trovi in una particolare posizione nello spazio-tempo. Queste scoperte hanno messo in crisi le convinzioni della prospettiva logica, inducendo a non considerare più l’uomo come essere privilegiato, ma piuttosto come entità integrata nell’universo.

Nel mondo dell’arte la prospettiva ecologica si manifesta con “Les Demoiselles d’Avignon” di Picasso, nel 1907. Nel dipinto la formazione occidentale dell’artista si fonde con la prospettiva mitologica africana: le modelle vengono dipinte con maschere africane e si compenetrano nello spazio, sfumando i confini tra oggetto e ambiente. Le forme — e i frammenti di forme — interagiscono con lo spazio ecologico, sono in costante movimento. Come Picasso anche Braque dipinge molteplici punti di vista che vengono percepiti simultaneamente grazie alla loro sovrapposizione. I loro collage sono un ulteriore passo verso la prospettiva ecologica: frammenti del mondo reale vengono inseriti sulla tela, andando a rompere i confini tra gli elementi illusori del dipinto e la vita reale in cui lo spettatore si trova. Il Cubismo diventa il primo esempio in cui l’arte integra lo spazio-tempo, sostituendo alla monoprospettiva dello spazio una visione multiprospettica. L’action painting rafforza la prospettiva ecologica, diventando arte indicale in quanto ci fornisce una dimostrazione chiara di ciò che c’è stato e di ciò che c’è adesso: l’intervento dell’artista e il suo movimento, il suo atto di far gocciolare il colore sulla tela e il risultato finale. Jackson Pollock si muove dentro e fuori la tela, diventa parte del dipinto e spinge il suo gesto oltre i limiti della tela stessa, includendo nell’opera lo spazio circostante. In questo modo Pollock rifiuta un unico punto di vista privilegiato, rivede la prospettiva mitologica che ignora la linea di base, e lascia emergere un punto di vista multiplo. Mettendo quindi in relazione i diversi tipi di prospettiva analizzate,

si può dire che:

«Le persone ecologiche interagiscono con la natura, le persone logiche invece agiscono sulla natura mentre le persone mitologiche sono sopraffatte da essa, accettando passivamente le decisioni della natura. Le persone ecologiche interagiscono dialogando con l’ambiente».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

R E L A Z I O N I C O N L E P R AT I C H E A R T I S T I C H E E C O M U N I -C AT I V E

Queste tendenze contemporanee — il fatto di vivere immersi nei sistemi digitali/online; il desiderio di fare esperienza del mondo fisico e materico; l’approccio sperimentale verso i media (sia old che new); l’adozione di punti di vista molteplici; l’interazione tra uomo e ambiente — stanno influenzando le pratiche comunicative:

«Gli artisti postdigitali nel nostro mondo in rete stanno assumendo il ruolo di educatori creativi che ci invitano a collaborare nella vivace creazione di opere che integrano le tecnologie digitali con la miriade di aspetti della nostra vita quotidiana». [Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

L’interazione da sempre esistente tra arte e scienza viene espressa da Henri Poincare e C. P. Snow, che cercano di colmare la frattura tra le scienze e l’umanità creata dalla civiltà occidentale. Poincare scrive in “Science and Methods” (1914):

«Gli scienziati non studiano la natura perché è utile farlo. La studiano perché provano piacere nel farlo, e provano piacere perché la natura è bellissima. Se la natura non fosse così bella non varrebbe la pena conoscerla e la vita non sarebbe degna di essere vissuta».[Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

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Arte e scienza, bellezza e matematica, in realtà sarebbero, in principio, una cosa sola che l’uomo civilizzato ha separato:

«Io credo che ciò che chiamiamo arte e scienza siano integralmente una cosa sola nella psiche umana. Esse hanno solo bisogno di fondersi nel postmodernismo perché sono state fatte a pezzi artificialmente». [Alexenberg Mel, “The Future of Art...”, op. cit.]

Nell’articolo “Art after Technology” [ http://www.benayoun.com/projetwords.php?id=114 ] Maurice Benayoun fa una lista delle possibili strade dell’arte post-digitale — considerando che il flusso digitale ha alterato l’intero territorio sociale, economico e artistico — l’atteggiamento degli artisti si muoverà in strade che cercano di sfuggire alla sfera tecnologica riuscendo però a non eliminarla completamente. Essendo l’arte — in misure variabili — il territorio dell’estetica, del concettuale e della riflessione psicologica, ed essendo l’artista inevitabilmente immerso in una cultura digitale, quello che può fare è essere l’intermediario tra queste due esperienze all’apparenza opposte. Giorgio Agamben parla di paradigmi, descrivendoli come le cose con le quali pensiamo piuttosto che le cose che pensiamo. Il post-digital non descriverebbe una vita dopo il digitale, ma un tentativo di esplorare le conseguenza del digitale e dell’era del computer. In questo modo il post-digitale potrebbe rappresentare un paradigma con cui è possibile esaminare e comprendere l’incremento delle capacità umane venute con l’era del computer.

In “How does Post-Digital Research address problems in art?” Robert Jackson riflette sul fatto che uno dei problemi riguardo la condizione attuale del digitale deriva dalla sua stessa struttura binaria, costituita da architetture impersonali di codice e capace di normalizzare i metodi di problem solving. La base analitica della computazione deriva da Alan Turing ed indica un sistema di deduzione razionale automatizzato che risolve problemi matematici specifici. Il questo sistema, il concetto di “decisione” viene definito da un algoritmo che può sempre decidere una risposta su base binaria per risolvere un problema matematico. Il digitale presenta quindi una struttura che per sua natura prende decisioni al posto dell’uomo. L’artista post-digitale è immerso nel mondo digitale ma può appropriarsi di questa struttura autonoma e implementarla all’interno di pratiche che richiedono, al contrario, azioni e decisioni personali ed espressive:

«Il post-digitale è la consapevolezza in corso di come il digitale generi più problemi di quanti ne possa risolvere. […] E la parte “post” del termine indica che questa auto-realizzazione, è una vera e propria realizzazione: non un cambiamento diretto nella produzione. Come ogni altro “post-term” rileva una rivelazione».[Jackson Robert, “How does Post-Digital Research address problems in art?”, “Post-Digital Research. A Peer-Reviewed Newspaper”, 2014, vol 3, n. 1, Digital Aesthetics Research Center/Aarhus University (Aarhus) in collaborazione con reSource transmedial culture berlin (Berlino)]

Nell’ottica post-digitale, si può guardare al digitale da un altro punto di vista: la raggiunta consapevolezza che il digitale, e l’automazione ad esso correlata, può essere utilizzato in modo sperimentale. Dato che il codice permette ai sistemi informatici di ragionare e di compiere delle azioni, piuttosto che sottostare passivamente, l’uomo post-digitale può collaborare con il digitale, considerandolo, volendo, come un’entità pensante a cui però non viene affidato ogni potere. Da queste riflessioni possono derivare pratiche di appropriazione e di ripensamento dei media digitali stessi:

«L’intersezione tra i vari media, favorita dalle tecnologie digitali e satellitari, sembra al giorno d’oggi strutturare un intricato tessuto di relazioni tra l’oggetto immediato, che cade sotto i nostri sensi, e quello mediato, nelle quasi infinite varietà dell’offerta simbolica tecnicamente manipolabile. […] Nei massimi sistemi integrati del presente, che comprendono spazi fisici, spazi virtuali, e poi (soprattutto) spazi totalmente astratti, numerici, si giocano le sfide poste dalle nuove complessità, si svelano le inattese creatività di tutti i “possibili adiacenti” contenuti nelle limitazioni intrinseche di queste strutture in movimento».[Riccardo Notte in: Balzola Andrea, “Arte e media...”, op. cit.]

In “Post-Digital is Post-Screen: Arnheim’s Visual Thinking applied to Art in the Expanded Digital Media Field” [ http://www.aprja.net/?p=1892, 2014 ] Josephine Bosma utilizza il concetto della percezione visiva di Rudolph Arnheim esplicato nel libro “Visual Thinking” (1969) come base per spiegare i nuovi approcci artistici in ambito post-digitale. Arnheim spiega che esiste nella scienza un modo non-retinico di vedere, in cui la conoscenza dell’esistenza degli eventi, strutture ed oggetti, spesso precede o addirittura costituisce la loro

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visibilità. Josephine Bosma spiega che applicando questo metodo di visualizzazione può essere possibile sviluppare una visione meno limitata dell’arte nell’ampio campo del digitale. Arnheim descrive varie forme di visualizzazione, una delle quali è la conoscenza scientifica, che ci porta a vedere cose che non possono essere viste ad occhio nudo ma che sappiamo esserci. Non è una costruzione immaginaria di fenomeni irreali, ma, come le chiama Arnheim, sono “models for theory”. Anche le visualizzazioni scientifiche sono psicologiche, basate su un mix di osservazioni, esperienze e psicologia del soggetto. Un esempio citato è il caso di Galileo, che oltre a combattere i dogmi della Chiesa ha dovuto sfidare la propria percezione. Galileo infatti non riusciva ad accettare che i pianeti ruotassero attorno al sole seguendo un ellisse piuttosto che un cerchio. L’ellisse infatti — il cerchio distorto — era rigettato dall’arte dell’alto Rinascimento. Una visione scientifica quindi non è necessariamente empirica, ma può anche riflettere il background del singolo osservatore. Secondo Arnheim una tale visualizzazione fa esperienza delle forme come modelli di forze, che non hanno bisogno di essere fisiche. La visualizzazione si sviluppa così dall’interpretazione di questi modelli di forze sulla base di esperienze precedenti e preconcetti intellettuali di chi guarda. Applicato all’arte, questo concetto esprime come l’artista possa operare sia in un’ottica scientifico-empirica che secondo una lettura critica e soggettiva della realtà:

«Blais e Ippolito descrivono la code art come un virus o come un anticorpo contro la cultura malata. Ciò che è chiaro da tutte le descrizioni è che il codice non può essere rappresentato su un piano retinico nella sua totalità, o nella sua piena capacità. Il codice come testo scritto, profondo all’interno di un computer o presentato su schermo o carta, comprende una potenziale attività che non può essere afferrata da una lettura letterale o dalla sola osservazione retinica. La code art viene percepita attraverso i modelli di forze».[Bosma Josephine, “Post-Digital is Post-Screen - Shaping a New Visuality”, http://www.aprja.net/?p=1892, 2014]

Arnheim è stato spesso criticato per avere un approccio troppo formalistico all’arte, ma in realtà il suo lavoro lascia molto spazio alla soggettività e all’instabilità e anche al cambiamento nel tempo. Questa potrebbe essere una base per un approccio nuovo all’arte che coinvolge strutture, sistemi o processi che sono troppo larghi, troppo piccoli

o troppo dispersi per poter essere visti ad occhio nudo.

R i t o r n o a l l a m a t e r i a l i t à

La materialità e la digitalità messe in gioco dall’artista post-digitale possono anche essere considerate in termini diversi da quelli che siamo abituati a pensare. Come spiega James Charlton, il post-digitale potrebbe essere considerato uno stato post-materiale in cui la materialità degli oggetti viene intesa non come stato fisico ma come metodo strutturale non corporeo. La materialità non viene rifiutata, ma la si vuole affermare come metodo piuttosto che come stato fisico. James Charlton scrive:

«Sono sempre stato post-digitale, o almeno non riesco a ricordare un momento in cui l’arte non lo sia stata».[Charlton James , “I have always been post-digital or at least I cannot recall a time when art wasn’t, “Post-Digital Research. A Peer-Reviewed Newspaper”, 2014, vol 3, n. 1, Digital Aesthetics Research Center/Aarhus University (Aarhus) in collaborazione con reSource transmedial culture berlin (Berlino)]

Naturalmente Charlton sa che affermare una cosa del genere non ha molto senso, perché l’arte può essere “post-digitale” sempre e comunque dopo che il digitale sia stato inventato, quindi non prima degli anni Settanta. Ma se prendiamo per un attimo in considerazione l’idea che l’arte sia sempre stata digitale, in che modo quest’affermazione potrebbe avere senso? Charlton riflette sul fatto che post-digitale può essere considerato non semplicemente come un pensiero successivo al digitale, ma come ripensamento del concetto di materialità in modo simile a quanto accaduto nelle pratiche artistiche degli anni Cinquanta e Sessanta. L’autore scrive:

«Come spiega Jacob Lillemose, la smaterializzazione dell’arte come oggetto non riguarda la scomparsa della materialità ma un ripensamento della materialità in termini concettuali. Questo atteggiamento non corporeo verso la materialità stabilisce un argomento in cui la materialità diventa una nuova condizione (Lillemose 2008). Definendo la materialità in questi termini possiamo comprendere “il digitale” come capace di possedere materialità come metodo strutturale piuttosto che funzione tecnologica».[Charlton James , “I have always been...”, op. cit.]

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Charlton riflette sul termine “digitale”, che nella cultura popolare è la qualifica che diamo ad un oggetto — per esempio digital media, digital network. In questo senso i media digitali possono essere considerati differenti rispetto al digitale nel senso di artefatto di ciò che è digitale. Il vero metodo strutturale sottostante dei prodotti che chiamiamo “media digitali” è la funzione discontinua del digitale in opposizione alla funzione continua dell’analogico. Anche se i prodotti creati da media digitali adottano una struttura digitale, essipresentano un tipo di rappresentazione che è analogico. Ma a questo punto, è necessario che la materialità del digitale debba essere vincolata alla rappresentazione?

«Piuttosto “Il digitale”, come propone Barbara Bolt, può essere locato in uno spazio attivo non rappresentazionale tra artista e materiale, eliminando così la necessità della mediazione rappresentativa dei media digitali (Bolt 2004)».[Charlton James , “I have always been...”, op. cit.]

E Paul Leonardi sottolinea che è l’interazione tra gli artefatti e le persone che costituisce la materialità [Lettura consigliata: Leonardi, Paul M.“Digital Materiality? How Artifacts without Matter, Matter”, First Monday, 2010] [ ibridazione ambiente ].

I n t e r a z i o n e

[ ibridazione ambiente ] Con la materialità liberata dalla rappresentazione (Bolt) e dalla corporeità (Leonardi), il dibattito sulla materialità all’interno del processo post-digitale ci riporta alle pratiche artistiche concettuali degli anni Sessanta e Settanta, ed in particolare al lavoro di Alan Kaprow. “Eighteen Happenings in Six Parts” di Allan Kaprow — presentato al Reuben Gallery a New York nell’autunno del 1959 — è un esempio di come possa essere rivista la materialità in chiave digitale. Kaprow fornisce ai visitatori delle istruzioni in cui viene spiegato quello che devono fare durante le sei parti dell’happening, ognuna delle quali è divisa in tre avvenimenti.

Il ruolo delle istruzioni fornite dall’artista può essere considerato come processo strutturale digitale all’interno delle pratiche artistiche. Kaprow non solo rende i partecipanti agenti attivi nell’opera, ma costruisce una struttura frammentata grazie alla distribuzione degli spettatori all’interno del lavoro. Gli utenti vengono così manipolati da Kaprow,

che diventa il programmatore che gestisce degli elementi grazie alla messa a punto di un codice che, una volta avviato, permette agli elementi di agire autonomamente. Ogni partecipante si muove nello spazio individualmente e secondo il proprio punto di vista, è distratto da eventi simultanei e inoltre dalla posizione in cui si trova non può osservare la totalità degli eventi. È perciò improbabile che due persone vivano un’esperienza identica ed è la totalità delle esperienze a dare forma all’opera.

Charlton spiega:

«Quello che io propongo e che è presente nella lettura di “Eighteen Happenings” è l’impegno di un metodo strutturale digitale che è una funzione sia di un atto condiviso che di un’isolamento frammentato che trasferisce l’individuo all’interno della materialità dell’opera. Quello che abbiamo non è un singolo materiale continuo ma materialità co-costituite parallelamente che sono componenti interdipendenti di una rete relazionale all’interno del pezzo. Come metodo strutturale il digitale non è dipendente dai costrutti tecnologici dell’era digitale con cui viene comunemente associato. Il corpo — forse il più analogico fra tutti gli oggetti — si è dimostrato capace di costruire una struttura digitale co-costituita liberando quindi cronologicamente il digitale dalle storie specifiche dei media. In questo senso “Il digitale” precede lo sviluppo dei media digitali

Alan Kaprow, istruzioni per “18 Happenings in Six Parts”, 1959

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piuttosto che essere una condizione determinata da essi».[Charlton James , “I have always been...”, op. cit.]

In questo senso è possibile che un “medium analogico” adotti un processo che può essere definito digitale, e allo stesso modo un “medium digitale” può funzionare secondo modalità analogiche. Parlando della prospettiva ecologica, Mel Alexenberg afferma che Allan Kaprow e Robert Smithson — dopo il lavoro di Picasso e Pollock — hanno esteso il concetto di prospettiva ecologica oltre il segno della tela, verso gli spettatori e nell’ambiente esterno. Negli Happening ideati da Kaprow sono ora gli spettatori ad essere attori dell’opera d’arte, sono le persone ad essere incluse nell’opera andando a sviluppare il concetto di interattività, mentre nella land art di Smithson l’opera si estende includendo il paesaggio. Egli realizza opere che per essere viste nella loro totalità devono essere viste dall’alto,

da aerei in volo piuttosto che camminando davanti o attraverso l’opera. Questa prospettiva aerea va a ribaltare l’ordinario punto di vista privilegiato dell’opera, e anche se Smithson filma “Spiral Jetty” da un aeroplano dal punto di vista migliore per osservare l’opera, essa può in realtà essere osservata da molteplici punti di vista.

Alexenberg spiega che mentre in passato i dipinti— come affreschi e mosaici — erano parte integrante della struttura architettonica, nel Modernismo le opere diventano oggetti a sé stanti, indipendenti, ma comunque continuano ad essere appesi nellegallerie. Il Postmodernismo libera l’arte e invita le persone ad interagire con essa, operando negli spazi e collaborando con l’artista nel processo creativo, piuttosto che essere osservatori passivi di un prodotto finito. L’opera diventa un divenire non completamente controllabile, un sistema organico in crescita. In “The Condition of Postmodernism” (1991) David Harvey mette in evidenza le opposizioni tra Modernismo e Postmodernismo: Modernismo come forma congiuntiva e chiusa vs. Postmodernismo come anti-forma disgiuntiva e aperta; scopo vs.gioco; arte come oggetto finito vs. arte come processo/ performance/happening; distanza vs. partecipazione; centrale vs. dispersione; trascendentale vs. immanente. Derrida considera il collage e il montage come una prima forma di discorso Postmodernista, in cui i frammenti di materiali vari vengono presi e smantellati, per poi essere ricomposti in una nuova combinazione. Questa decostruzione porta alla rottura del potere dell’autore e dell’imposizione di un unico significato o narrazione artistica. L’interazione dell’utente porta quindi ad una riconsiderazione dell’apparato gerarchico dell’arte: l’artista spesso non opera più in maniera indipendente, ma secondo processi collaborativi che lui controlla solo in

Allan Kaprow, installazione di “18 Happenings in 6 Parts”, Ruben Gallery, New York, 1959

Robert Smithson, “Spiral Jetty”, Utah (USA), 1970

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parte. Oltre a questo, l’uso dei dispositivi digitali può richiedere la collaborazione di persone con competenze differenti:

«L’uso dei dispositivi tecnologici comporta un cambiamento autentico e in certi casi radicale dello statuto dell’artista, per esempio l’arte interattiva, compresa l’arte in Rete, richiede sempre di più un autore collettivo, o plurale, perché il dispositivo tecnologico ha raggiunto una tale complessità, rispetto alla quale l’artista continua a svolgere una funzione di ideatore, di coordinatore, di supervisore, di responsabile del progetto, ma deve necessariamente avvalersi di collaboratori specializzati che non sono solo dei tecnici o degli esecutori, ma sono a tutti gli effetti dei coautori e quindi l’opera è sempre più, almeno in questo ambito, il risultato di un autore collettivo. Inoltre […] l’arte digitale interattiva presuppone, per dispiegarsi e per compiersi pienamente, il coinvolgimento del pubblico, la sua partecipazione attiva, desacralizzando il rapporto tradizionale del pubblico con l’opera d’arte, che passa dall’intoccabilità dei musei alla necessaria manipolazione.“[Balzola Andrea, “Arte e media...”, op. cit.]

Le esperienze comunicative in ambito post-digitale danno vita ad artefatti e ad esperienze dal carattere sperimentale, in quanto l’interazione tra strutture digitali ed analogiche, il ripensamento radicale delle tecnologie e delle loro applicazioni, l’intervento personale dell’autore e il possibile coinvolgimento del pubblico e dell’ambiente, portano allo sviluppo di strutture sempre nuove e diverse, in alcuni casi dal risultato incerto. È possibile estrapolare alcuni concetti chiave che si presentano più spesso nelle opere post-digitali e che diventano degli strumenti utili per il ripensamento e il rimescolamento dei media. Per questo, le opere presentate in “Post Digital Tribe” vengono categorizzate sulla base di questi livelli di ibridazione:— ibridazione aspetto — ibridazione funzione — ibridazione linguaggio— ibridazione ambiente— ibridazione corpo

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B i b l i o g r a f i a c o n s u l t a t a

Alexenberg Mel, “The Future of Art in a Postdigital Age. From Hellenistic to Hebraic Consciousness”, Intellect Bristol, UK / Chicago, USA, 2011

Balzola Andrea, “Arte e media. Formazione, ricerca produzione”, Scalpendi, Milano, 2010

Anderson Christian Ulrik, Cox Geoff, Papadopoulos Georgios, “Post-Digital Research. A Peer-Reviewed Newspaper”, vol 3, n. 1, Digital Aesthetics Research Center/Aarhus University (Aarhus) in collaborazione con reSource transmedial culture berlin (Berlino), 2014

Rieck Stella, Rowson Rose, Wohlfeil Nora, “Hybrid Bookwork: Empire Soft-Skinned Space”, List Discussion February 2014, ebook

S i t i c o n s u l t a t i ( 2 0 1 5 )

— Articoli:

Andersen Christian Ulrik, Cox Geoff, Papadopoulos Georgios, “Postdigital Research — Editorial”, http://www.aprja.net/?page_id=1327, 2014

Berry David M., “Post-Digital Humanities”, http://stunlaw.blogspot.it/2014_12_01_archive.html,18 ottobre 2013

Bosma Josephine, “Post-Digital is Post-Screen - Shaping a New Visuality”, http://www.aprja.net/?p=1892, 2014

Bruno Christophe, “Psycho-Academic Dérive — A Proposal”, http://www.aprja.net/?p=1463, 2014

Cramer Florian, “What is Post Digital?”, http://www.aprja.net/?p=1318, 2014

Cox Geoff, “Prehistories of the Post-digital: or, some old problems with post-anything”, http://www.aprja.net/?p=1314, 2014

Ian Andrew, “Post-digital Aesthetics and the return to Modernism”, http://www.ian-andrews.org/texts/postdig.html, 2000

— Altri link:

http://collections.infocollections.org/ukedu/en/d/Jh1842e/4.2.htmlhttp://www.etimo.it/?term=ibridohttp://en.wikipedia.org/wiki/Postdigitalhttp://en.wiktionary.org/wiki/postdigital

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