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www.forumeconomia.com DIFFIDATE DA CHIUNQUE PRETENDA DENARO PER IL MATERIALE CONTENENTE LA DICITURA www.forumeconomia.com Questo materiale non è autorizzato né dai titolari delle cattedre né dai loro collaboratori (salvo diversa indicazione) ma è frutto del lavoro di altri studenti. Chi studia su appunti altrui lo fa a proprio rischio e pericolo e sotto la propria personale responsabilità. P.Capaldo - Reddito, capitale e bilancio di esercizio (Ragioneria I – Prof.ssa Magistro) Capitolo 1 L’impresa è un “centro” organizzato per la sistematica produzione di beni e servizi, volta attraverso lo scambio al conseguimento di un surplus: termine con il quale si designa, genericamente, l’eccedenza dei valori prodotti (espressi di norma dai ricavi o dai prezzi di mercato) sui valori consumati per produrre. Questa eccedenza viene correntemente denominata reddito, utile, profitto, avanzo di gestione(anche se i termini non sono propriamente sinonimi). A differenza di quanto accade in molte aziende non profit, nell’impresa l’oggetto della produzione non ha rilievo di per sé, ma solo in quanto consente una gestione economicamente equilibrata e, di conseguenza, l’ottenimento di un adeguato surplus. Senza un adeguato surplus l’impresa non ha possibilità di esistere. Il surplus va immediatamente posto in relazione con il c.d. rischio generico dell’impresa, che sappiamo essere una caratteristica tipica, ineliminabile, di ogni impresa. Secondo una ricorrente affermazione, impresa è sinonimo di rischio; senza rischio non vi è impresa. Quindi il surplus, o meglio la prospettiva di ottenere un surplus è ciò che rende sostenibile o meglio accettabile il rischio, e quindi ciò che rende possibile far nascere un’impresa e mantenerla in vita. Molti di questi rischi sono assicurabili nel senso che, dietro il pagamento di un prezzo, se ne trasferiscono a terzi(in genere compagnie di assicurazioni) gli eventuali oneri: questi rischi, in altre parole, vengono trasformati in costi della produzione. Tuttavia, il rischio generico dell’impresa è non assicurabile e riguarda l’impresa nel suo complesso, e non in suo specifico momento. Esso si concretizza essenzialmente nella possibilità, nella eventualità, che i ricavi della produzione non riescano nel tempo a far fronte ai relativi costi, con la conseguenza che non tutti i fattori produttivi(e i soggetti che li forniscono) potranno essere adeguatamente compensati. Insomma, il rischio generico dell’impresa discende dall’eventualità che i valori prodotti si rivelino inferiori ai valori consumati per produrre. I ricavi presentano di regola un’accentuata variabilità, o meglio volatilità, perché dipendono in larga misura da due fattori, la quantità di produce che si riesce a vendere e i relativi prezzi, per loro natura assai mutevoli, difficilmente prevedibili e, di norma, fuori del dominio dell’impresa. I costi, al contrario, presentano almeno in parte carattere di rigidità nel senso che debbono essere sostenuti indipendentemente dal volume effettivo di produzione. Ogni impresa,

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P.Capaldo - Reddito, capitale e bilancio di esercizio

(Ragioneria I – Prof.ssa Magistro)

Capitolo 1 L’impresa è un “centro” organizzato per la sistematica produzione di beni e servizi, volta attraverso lo scambio al conseguimento di un surplus: termine con il quale si designa, genericamente, l’eccedenza dei valori prodotti (espressi di norma dai ricavi o dai prezzi di mercato) sui valori consumati per produrre. Questa eccedenza viene correntemente denominata reddito, utile, profitto, avanzo di gestione(anche se i termini non sono propriamente sinonimi). A differenza di quanto accade in molte aziende non profit, nell’impresa l’oggetto della produzione non ha rilievo di per sé, ma solo in quanto consente una gestione economicamente equilibrata e, di conseguenza, l’ottenimento di un adeguato surplus. Senza un adeguato surplus l’impresa non ha possibilità di esistere. Il surplus va immediatamente posto in relazione con il c.d. rischio generico dell’impresa, che sappiamo essere una caratteristica tipica, ineliminabile, di ogni impresa. Secondo una ricorrente affermazione, impresa è sinonimo di rischio; senza rischio non vi è impresa. Quindi il surplus, o meglio la prospettiva di ottenere un surplus è ciò che rende sostenibile o meglio accettabile il rischio, e quindi ciò che rende possibile far nascere un’impresa e mantenerla in vita. Molti di questi rischi sono assicurabili nel senso che, dietro il pagamento di un prezzo, se ne trasferiscono a terzi(in genere compagnie di assicurazioni) gli eventuali oneri: questi rischi, in altre parole, vengono trasformati in costi della produzione. Tuttavia, il rischio generico dell’impresa è non assicurabile e riguarda l’impresa nel suo complesso, e non in suo specifico momento. Esso si concretizza essenzialmente nella possibilità, nella eventualità, che i ricavi della produzione non riescano nel tempo a far fronte ai relativi costi, con la conseguenza che non tutti i fattori produttivi(e i soggetti che li forniscono) potranno essere adeguatamente compensati. Insomma, il rischio generico dell’impresa discende dall’eventualità che i valori prodotti si rivelino inferiori ai valori consumati per produrre. I ricavi presentano di regola un’accentuata variabilità, o meglio volatilità, perché dipendono in larga misura da due fattori, la quantità di produce che si riesce a vendere e i relativi prezzi, per loro natura assai mutevoli, difficilmente prevedibili e, di norma, fuori del dominio dell’impresa. I costi, al contrario, presentano almeno in parte carattere di rigidità nel senso che debbono essere sostenuti indipendentemente dal volume effettivo di produzione. Ogni impresa,

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infatti, per operare secondo economicità, ha bisogno di una “struttura produttiva” intesa come coordinato insieme di uomini e mezzi. La struttura produttiva comporta per, sua natura, una massa di costi rigidi(personale, servizi generali, ammortamenti,…) ossia di costi che in buona corrono con il correre del tempo e sono indipendenti dall’effettiva quantità di produzione. Ne deriva che in caso di riduzione della domanda rispetto alle previsioni, la flessione dei ricavi è più accentuata dei costi. Ecco allora la funzione del surplus: indurre alcuni soggetti ad accollarsi il rischio dell’impresa e quindi a postergare, subordinare la remunerazione del fattore produttivo da loro fornito all’impresa, all’avvenuta remunerazione degli altri fattori. In generale, l’impresa acquisisce i fattori produttivi di cui ha bisogno, sia quelli generici (risorse finanziarie) sia quelli specifici (lavoro umano, materie prime, impianti…), corrispondendo loro un compenso che può assumere le seguenti modalità:

a) remunerazione contrattualmente prestabilita sia nel quantum che nei tempi di pagamento;

b) remunerazione residuale, variabile in funzione dell’andamento economico della gestione;

c) combinazione delle due prime modalità. Nel caso a) l’impresa sostiene dei costi. Nel caso b) non vi è nessun impregno di remunerazione, che sarà pari a quello che resta dopo che sono state corrisposte tutte le remunerazioni contrattuali. Naturalmente sia nel caso b) che c) i soggetti si aspettano una remunerazione superiore, a seguito della maggiore aleatorietà della remunerazione. Un esempio del caso c) sono i prestiti c.d. partecipativi che prevedono un interesse base (inferiore a quello corrente) e un’integrazione in funzione dell’andamento economico. Sui fattori a remunerazione residuale ricade istituzionalmente il rischio d’impresa, perché essi subordinano in modo formale la loro remunerazione. Al crescere della massa su cui può istituzionalmente scaricarsi il rischio, diminuisce la probabilità che l’impresa non sia in grado di rispettare gli impegni assunti, e aumenta il grado di tranquillità della controparte, cioè dei suoi creditori. Mentre è inconcepibile un’impresa con solo fattori a remunerazione prestabilita, lo è una impresa solo di fattori a remunerazione residuale. In siffatta impresa mancherebbero i costi, ed è in generale di difficile costruzione e attuazione pratica. Ecco perché, nelle concrete imprese, riscontriamo sempre la presenza, variamente dosata e combinata, di entrambi. Tra i primi troviamo i fattore generico “capitale”, fattore che nella fase di costituzione dell’impresa è rappresentato di norma da una certa quantità di moneta. Ad esso a volta si affiancano i fattori specifici come lavoro umano e materie prime(come ad es. nelle cooperative). L’impresa capitalistica per definizione ha come unico fattore residuale il “capitale proprio”. In questo modello il surplus viene denominato reddito (d’impresa) e spetta ai titolari del capitale proprio. Sul piano concettuale un reddito è congruo se la sua entità è tale da soddisfare le aspettative dei suoi destinatari, cioè tale da fornire a quei soggetti una remunerazione base

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del capitale investito pari, grosso modo, al tasso di interesse sui finanziamenti a lungo termine e in più un adeguato compenso per il rischio. La congruità della remunerazione dal punto di vista pratico, invece, dipende da una pluralità di fattori: l’intensità del rischio specifico, la propensione al rischio del soggetto investitore e le alternative che si offrono a questo soggetto investitore. A rendere più complessa la formulazione di tale giudizio di congruità concorre il fatto che essi non possono basarsi ad un periodo limitato ma su insieme di redditi passati e attesi, allo scopo di cogliere la c.d. capacità di reddito (o redditività) dell’impresa nel medio lungo termine. Tuttavia, tali redditi si presentano assai eterogenei. La remunerazione degli altri fattori può essere: immediata, cioè contestuale alla consegna del fattore; differita, nel senso che avviene dopo un certo tempo dalla consegna; periodica, ossia ad intervalli prestabiliti (es. stipendi al personale, energia elettrica…). Evidentemente nel secondo caso nasce in capo all’impresa un debito che verrà estinto alla scadenza. Nelle imprese intercorre mediamente un certo tempo tra l’acquisizione dei fattori e la vendita della produzione. L’estensione di questo tempo dipende dalla durata del ciclo fisico-tecnico di produzione. La conseguenza di ciò è che qualsiasi impresa deve costantemente disporre di una massa di risorse in attesa di essere utilizzate opportunamente ordinate in una struttura produttiva e ha bisogni di mezzi finanziari per far fronte con regolarità agli impegni assunti. Possiamo anche dire che l’impresa in qualunque momento della sua vita deve mantenere un certo stock di investimenti in essere, e ha bisogno di mezzi finanziari(fabbisogno finanziario). Agli effetti del f.f. gli acquisti dei fattori sono considerati nella fase del pagamento e le vendite nella fase dell’incasso. Il f.f. pertanto dipende dall’avvicendarsi dei pagamenti e degli incassi. Al contrario ai fini del computo degli i.i.e. ha rilievo l’acquisizione della disponibilità dei fattori. L’entità degli stessi dipende dall’avvicendarsi dei costi (considerati nella fase dell’impegno) e dei ricavi (considerati nella fase ultima dell’incasso). Da ciò consegue che il f.f. è di regola sempre inferiore agli i.i.e.: la differenza è data dall’esposizione verso terzi e dai quali scaturiscono futuri pagamenti. E’ concepibile un’impresa senza f.f., mentre non è possibile il contrario. Gli investimenti osservati nella loro entità e nella loro composizione, sono di fondamentale importanza per l’apprezzamento del rischio di impresa. A sua volta la conoscenza del f.f. nel suo probabile andamento futuro è indispensabile per assicurare la regolarità nei pagamenti e rispetto degli impegni assunti. Sotto un primo aspetto, che potremmo chiamare economico, il capitale ha la funzione di integrare i ricavi ove essi si rivelassero insufficienti ad assicurare la copertura dei costi, in altre parole assorbire il rischio generico dell’impresa. Sotto il secondo aspetto, che chiameremo finanziario, il capitale ha la funzione di dotare l’impresa dei mezzi monetari necessari per far fronte correntemente al pagamento dei fattori produttivi, dato che questo pagamento precede normalmente l’incasso dei ricavi. Il ricorso al “capitale di credito” si presenta sia come un’esigenza, quando il capitale proprio è insufficiente a fronteggiare il fabbisogno, sia come un’opportunità quando il

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costo dell’indebitamento è inferiore al frutto degli investimenti determinando un accrescimento della redditività del capitale proprio impiegato. La stabilità e il successo dell’impresa sono largamente legati alla realizzazione di un’efficace struttura finanziaria, intesa come dinamica combinazione di diverse forme di finanziamento. In particolare assume rilevanza la dimensione minima del capitale proprio (o specularmente l’indebitamento massimo sostenibile), cioè la soglia al di sotto della quale lo stesso non dovrebbe scendere per fronteggiare le possibili conseguenze del rischio-limite dell’impresa (per l’impossibilità di raggiungere o conservare condizioni di equilibrio economico l’impresa debba essere sciolta). Alla determinazione della dimensione minima concorrono svariati elementi: l’entità dei costi di struttura e il loro grado di rigidità, la dimensione e la composizione delle immobilizzazioni tecniche(materiali e immateriali) e la possibilità di recuperarle ad uso diverso, i tempi e i costi per attuale l’eventuale liquidazione.

Capitolo 2 Il capitale inteso genericamente come stock di ricchezza viene riferito nella sua entità, ad un determinato, mentre il reddito inteso come flusso di nuova ricchezza, viene riferito ad un determinato arco di tempo, ad un determinato periodo. Quando nasce un’impresa il capitale proprio costituito da una somma di danaro ha un suo valore preciso, oggettivo. Ma appena viene investito, per acquisire e pagare i fattori produttivi, esso perde la sua identità e ogni possibilità di oggettiva misurazione, in quanto è costituito ormai da insieme assai variegato di beni materiali e immateriali, di diritti, oneri ecc. il cui valore può essere soltanto stimato. Il reddito d’impresa non può essere semplicisticamente inteso come il frutto che si stacca dall’albero(il capitale). Non di rado, infatti, il reddito d’impresa “esiste” solo a condizione che non si pretenda di staccarlo dal capitale. Fuor di metafora reddito e capitale sono due momenti di un’unica realtà, di una realtà in continuo divenire per effetto della gestione. Che il reddito dipenda dal capitale è indubbio, e, infatti, il reddito è spesso definito come l’incremento che subisce il capitale per effetto della gestione. Ma non è meno vero il contrario, poiché il capitale dipende dal reddito che l’impresa è in grado di generare. Passiamo a considerare le diverse definizioni(non equivalenti tra di loro) di capitale:

1. Il capitale è il complesso di tutti i beni e diritti facenti capo all’impresa, ossia la massa di tutti gli investimenti in attesa di realizzo esistente in un dato momento presso l’impresa, accresciuta delle disponibilità monetarie. In questa accezione include tutti e soltanto gli elementi attivi, ossia l’inventario delle attività. Viene anche indicato con il termine capitale tout court, oppure capitale investito, capitale lordo, capitale di funzionamento…;

2. Il capitale è la differenza tra le attività definite come sopra e i debiti e ogni altra passività che grava sull’impresa. Si parla allora di capitale netto, capitale di funzionamento netto, capitale proprio, capitale di rischio…;

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3. Capitale investito netto: con questa espressione si intende il capitale di cui al punto 1) ridotto di alcune passività, quali i debiti verso fornitori o i debiti di regolamento e tutte le altre passività diverse dai debiti di finanziamento1. Così definito esso coincide con il fabbisogno finanziario;

4. Capitale fisso: designa una parte delle attività e precisamente quelle c.d. a lungo rigiro, perché destinate a rimanere per lungo tempo nel patrimonio dell’impresa. Si pensi ai fabbricati, impianti, brevetti…;

5. Capitale circolante: complementare al 4) esso comprende le attività a rapido rigiro, così denominate perché per esse intercorre un breve arco di tempo tra il momento dell’acquisizione (o dell’acquisizione) e il momento dello smobilizzo(es. merci, materie prime, prodotti finiti…). Vi sono due accezioni del capitale circolante: nella prima esso è costituito da tutte le attività aziendale non comprese nel 4). Quindi 4+5 coincide con la definizione 1. Nella seconda accezione il c.c. è ridotto dei debiti commerciali e di altre passività ad esse assimilabili. Quindi 4+5 coincide con la definizione 3.

Nell’esposizione che segue ci riferiremo alla nozione 2) perché quella di maggiore interesse ai nostri fini e perché la più adatta per un discorso sulle valutazioni, includendo tutte le attività e le passività. Vi sono diverse definizioni di capitale netto:

a) Capitale di bilancio (detto anche capitale netto di gestione o capitale netto di funzionamento): sta ad indicare che si tratta di capitale netto risultante dal bilancio ordinario di esercizio. Non ha quindi significato autonomo, ma solo se viene posto in relazione con il reddito di esercizio e soprattutto se posto a confronto con l’analogo dell’esercizio precedente;

b) Capitale di liquidazione: è una stima con la quale si punta a prevedere gli incassi ottenibili dal realizzo delle attività e i pagamenti necessari per estinguere tutte le passività. La liquidazione rappresenta il momento terminale della vita dell’azienda, quello della sua completa cessazione come organismo economico.

c) Capitale economico: per conoscere quanto potrebbe “valere” l’impresa (e il capitale in essa investito);

d) Valore di scambio del capitale: si intende il prezzo al quale essa, o meglio i titoli che ne rappresentano la proprietà, potrebbe essere venduta. Al fondo sembra esservi una matrice comune: i frutti che l’impresa può dare.

1 I debiti di regolamento (detti anche debiti di funzionamento) sono quelli che nascono dall’acquisizione di fattori produttivi con pagamento differito. Si tratta quindi di debiti verso fornitori di qualunque tipo e più raramente verso il personale. Questi debiti, in genere, non comportano il distinto pagamento di un interesse perché il prezzo del fattore già ingloba l’onere implicito della convenuta dilazione di pagamento. I debiti di finanziamento nascono, invece, da specifiche negoziazioni di prestiti con la precisa indicazione dei tassi idi interesse e dei tempi di rimborso. Essi costituiscono quello che comunemente viene denominato il capitale di credito. I debiti di funzionamento e di finanziamento vengono anche di frequente denominati rispettivamente debiti commerciali e debiti finanziari.

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Sul piano tecnico-contabile, il reddito d’esercizio, ossia il reddito relativo ad un determinato periodo della vita di un’impresa può essere determinato con due distinti procedimenti:

1) mediante differenza tra l’entità del capitale netto dell’impresa alla fine del periodo e quella ad inizio periodo;

2) mediante differenza tra i ricavi e i costi di competenza dell’esercizio considerato. Il primo è un procedimento sintetico che non impone una puntuale rilevazione delle operazioni di scambio svolte nel periodo. Il secondo al contrario è un procedimento analitico. La manifestazione attiene al profilo giuridico delle operazioni di scambio, dalle quali scaturiscono costi e ricavi e si concretizza nel momento in cui l’impresa acquista o vende la produzione. La competenza riguarda invece i costi e i ricavi nella loro contrapposizione o meglio nella loro correlazione economica, ed è volta a stabilire se i costi manifestatisi in un certo esercizio sono pertinenti interamente alla produzione realizzata nell’esercizio medesimo. Si deve tuttavia precisare che il reddito non è una “verità” alla quale cercare il più possibile avvicinarci, una quantità oggettivamente accertabile. La sua determinazione è un fatto puramente convenzionale per diversi aspetti (competenza, ammortamento, prospettazione della futura gestione) che non sono stimabili oggettivamente. Le ragioni che sollecitano la determinazione del reddito possono essere: verificare la congruità del reddito, decidere se e quanto distribuire del reddito, esprimere un giudizio sulle “prestazioni” del management; ottenere una base di riferimento per la corresponsione di incentivi partecipativi al personale dipendente, disporre di indicatori di sintesi per valutare l’efficienza della gestione, trasmettere informazioni a quesi soggetti che sono interessati alle vicende e all’andamento economico dell’impresa (c.d. informazione esterna). Due diverse logiche sembrano potersi individuare in tema di formulazione dei giudizi di competenza dei costi e ricavi. Nella logica di tipo A, la correlazione tra costi e ricavi viene stabilita assumendo che competano all’esercizio solamente i ricavi conseguiti nel medesimo esercizio, restando escluse le aspettative di ricavi. Ai ricavi così individuati vengono contrapposti tutti i costi sostenuti nell’esercizio, ad eccezione di quelli che si possono rinviare ad esercizi successivi, perché suscettibili direttamente o indirettamente di recupero, attraverso futuri ricavi. Alla base di questa logica, vi è l’assunto che nell’impresa si possa parlare di reddito solo in presenza di operazioni concluse e nei limiti di queste operazioni. E poiché le operazioni si concludono con il conseguimento dei ricavi, ecco che il fulcro del reddito è costituito dai ricavi conseguiti. La logica B muove dall’assunto che il fulcro dei ricavi è dato dal reddito: non però riduttivamente dai soli ricavi già conseguiti nell’esercizio, ma anche dai ricavi che realisticamente, potranno essere conseguiti in futuro, in virtù delle iniziative e delle azioni svolte nell’esercizio e quindi dei costi in esso sostenuti. Con questa logica pertanto si

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assume che i costi competano interamente all’esercizio nel quale sono sostenuti e che a fronte di essi debbano essere posti sia i ricavi conseguiti sia quelli che si prevede di conseguire da tutte le operazioni in corso. E poiché per completare queste operazioni, si renderà necessario acquisire altri fattori produttivi, ivi compresi quelli inerenti al mantenimento della struttura, occorrerà tenere conto dei relativi costi. Nella logica B si anticipa l’esito economico delle operazioni in corso, tanto se positivo quanto se negativo. Nella logica A si tende ad attribuire il reddito all’esercizio nel quale le operazioni si concludono. Ciò naturalmente a condizione che se ne preveda un esito favorevole, perché in caso contrario le perdite previste debbono essere imputate all’esercizio nel quale viene impostata (o comunque l’esito negativo diviene prevedibile) per la ragione che non possono essere trasferiti ai futuri esercizi costi privi, in partenza di prospettive di recupero.

Capitolo 3 Nel processo di formazione dei costi e dei ricavi, sono individuabili alcune fasi: impegno ad acquisire i fattori; ottenimento delle disponibilità dei fattori. Questa fase concerne di regola il momento della consegna delle materie prime, degli impianti,…; pagamento dell’importo dovuto. Un discorso analogo si può fare per i ricavi: l’assunzione dell’impegno a fornire beni o servizi; la consegna, l’espletamento del servizio e comunque la maturazione del ricavo; l’incasso del prezzo. La fase dell’incasso non segna sempre la conclusione dell’operazione. Nelle imprese che vendono prodotti o realizzano “opere” di cui garantiscono la funzionalità per qualche tempo dopo la consegna, il ricavo si può considerare definitivamente acquisito solo al termine del periodo di garanzia. Quindi in tali imprese si avrebbe una quarta fase. Impostando il problema in termini rigorosamente economici, i ricavi andrebbero rilevati all’atto del loro definitivo conseguimento e pertanto all’atto dell’incasso o dell’estinzione della garanzia, i costi invece andrebbero rilevati nella fase dell’impegno o comunque man mano che maturano, indipendentemente da un formale accertamento della loro entità. Senonchè si presentano difficoltà nel cogliere esattamente e continuamente questi momenti, e inoltre, le complicazioni sono accresciute dal fatto che la stessa nozione di impegno è difficile da definire rigorosamente (si pensi ai rischi e oneri che si manifestano ancora prima di un formale impegno nella c.d. responsabilità precontrattuale). Una ragionevole mediazione tra rigore concettuale ed esigenze pratiche è quello di rilevare costi e ricavi nella seconda delle tre fasi indicate(emissione di fattura o documento equivalente), rinviando al momento del computo del reddito i conseguenti aggiustamenti e rettifiche.

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Nella determinazione del reddito secondo la logica del rinvio dei ricavi, la correlazione costi-ricavi viene realizzata operando sui costi. Si assume infatti che competano, di norma, all’esercizio tutti e solo i ricavi in esso manifestatisi e conseguentemente si manovrano i costi per distinguere quelli che devono essere lasciati a carico dell’esercizio da quelli che debbono essere trasferiti ai futuri esercizi. Tuttavia si hanno casi in cui debbano essere rinviati i ricavi quando siano conseguiti anticipatamente rispetto all’epoca in cui dovrà rendere la relativa controprestazione. Ne sono un tipico esempio le imprese di assicurazione nella quale la gestione ha caratteristiche tecnico-economiche tali per cui prima si conseguono i ricavi(vale a dire i premi) e poi eventualmente si sostengono i costi sotto forma di indennizzi. E’ opportuno rilevare che la fattispecie appena illustrata è ben diversa dall’ipotesi in cui l’impresa incassi(talvolta sulla base di stati di avanzamento) “anticipi” su complesse forniture in corso di esecuzione. In questo caso l’incasso attiene alla sola sfera finanziaria, perché lo “scambio” si perfeziona solo alla consegna delle opere e solo in quel momento si conseguirà il relativo ricavo. Rilievo minore, ha il caso opposto, vale a dire l’attribuzione anticipata di ricavi all’esercizio, cioè di ricavi ritenuti di competenza dell’esercizio ancorché non si siano ancora manifestati(attraverso un incasso o un credito). L’attribuzione anticipata è limitata di regola a quei ricavi caratterizzati dal fatto di essere a fronte delle c.d. prestazioni di durata (affitti, interessi, canoni di manutenzione…). Tipico esempio i ratei attivi. In verità in un’impostazione rigorosa in questo caso dovrebbero essere rinviati i costi correlati, ma convenzionalmente, è più opportuno procedere così. In sede di determinazione del reddito di esercizio bisogna tenere conto di eventuali oneri che pur non avendo originato nell’esercizio una variazione numeraria vi competono perché hanno trovato in esso, direttamente o indirettamente, il correlativo ricavo. Ecco allora che, in sede di giudizi di competenza, si potrà rendere necessaria, accanto al rinvio dei costi, l’imputazione all’esercizio in chiusura di costi e oneri(presunti) di futura (possibile) manifestazione numeraria, quali ad esempio: prestazioni già ricevute e non ancora fatturate, rischi per esecuzione di fideiussioni rilasciate… Si possono suddividere i costi in due grandi gruppi: -costi a recupero diretto (o distinto); -costi a recupero indiretto (o indistinto). I primi derivano dall’acquisto di beni suscettibili di essere venduti senza alcuna trasformazione (esempi: merci, immobili non strumentali, partecipazioni ed altre attività finanziarie). Si parla di recupero diretto o distinto perché in questo caso è dato stabilire una relazione immediata tra oggetto acquistato e oggetto venduto, nel senso che si acquista una “cosa” e si vende la medesima “cosa”. I secondi scaturiscono dall’acquisto di beni e servizi o , più in generale, di fattori produttivi che concorrono tutt’insieme ad attuare la produzione dell’impresa e che nella vendita di tale produzione, trovano indistintamente, globalmente il loro recupero. Si tratta di una distinzione di carattere puramente indicativo, perché la presenza di una struttura produttiva con costi tendenzialmente rigidi non consente di affermare con il

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dovuto rigore che un determinato ricavo recuperi un determinato costo e soltanto quel costo. Nell’ambito poi dei costi a recupero indiretto o indistinto possiamo fare l’ulteriore suddivisione:

1. costi di fattori che esauriscono la loro utilità in un unico atto produttivo (esempio tipico: materie prime e sussidiarie);

2. costi dei c.d. fattori remunerati a tempo , ossia costi sostenuti per acquisire la disponibilità dei fattori per un determinato periodo (esempio: affitto locali, assicurazioni, personale);

3. costi ad utilizzazione pluriennale; fattori che a loro volta si distinguono in: • costi per fattori materiali: illimitata(esempio terreni agricoli) o limitata, sia

pur di incerta quantificazione(esempio: impianti industriali); • costi per fattori immateriali: determinata (esempio brevetti) o

indeterminata(esempio: costi per il lancio di un nuovo prodotto). La classificazione summenzionata rende agevole l’analisi dei criteri per definire la competenza e quindi la rinviabilità dei costi. Quindi possono ritenersi rinviabili al futuro:

1. i costi relativi a fattori produttivi, ovvero a beni e servizi, che l’impresa ha acquistato nell’esercizio ma non ha interamente utilizzato; sicché essi sono suscettibili di concorrere alla futura produzione. Si parla di rimanenze di fattori produttivi;

2. i costi relativi a fattori che l’impresa ha già impiegato nei suoi processi produttivi, ma che tuttavia al termine dell’esercizio risultano, per così dire, incorporati in una produzione non ancora venduta oppure in una produzione in corso di espletamento. Si parla in questo caso di rimanenze di produzione.

Con riferimento ai punti 1e 2 si parla di solito di rimanenze di fattori e rimanenze di produzione(intesa sia nel senso di produzione finita, pronta per la vendita, sia nel senso di produzione ancora in corso). Vi è produzione immateriale se l’imprese sostiene costi che potrebbe evitare, ove avesse riguardo ai ricavi conseguibili nel medesimo esercizio; e li sostiene perché ritiene che essi siano suscettibili di produrre adeguate utilità e quindi maggiori redditi negli esercizi futuri. Allo stesso modo vi è produzione immateriale se l’impresa rinuncia a ricavi o parti di essi(sotto forma ad esempio di minori prezzi di vendita) con l’obiettivo di accrescere in futuro la domanda dei propri prodotti o i relativi prezzi in modo da renderli ben remunerativi. Permane un problema nell’identificazione di questa produzione immateriale dato che essa confluisce indistintamente nella produzione generale dell’impresa. La valutazione delle rimanenze si svolge in due fasi. Nella prima si computa il costo sostenuto dall’impresa per acquistare i fattori, tale costo costituisce il limite massimo della valutazione. Nella seconda fase, si procede alla verifica della sua ricuperabilità attraverso i ricavi futuri, perché solo a questa condizione può essere rinviato. Se la verifica dà esito negativo vi sarà una terza fase volta a determinare il minor valore rispetto al costo attribuibile alle rimanenze.

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Prima fase delle rimanenze dei fattori di produzione: 1. Merci, titoli ed altri beni, mobili e immobili, destinati alla vendita: occorre definire

la quantità fisica e il relativo costo unitario. Si presentano alcuni problemi nei c.d. beni di massa, acquistati (nel corso dell’esercizio) in momenti diversi. Si può usare il LIFO, FIFO, costo medio unitario. Definito il prezzo di costo, vi è poi da decidere se aggiungervi i c.d. oneri accessori di acquisto, riguardanti ad esempi il trasporto, magazzinaggio…La pratica suol aggiungere solo i costi accessori diretti, cioè quelli specificamente e oggettivamente sostenuti per l’acquisto dei beni cui le rimanenze si riferiscono. In alcuni casi si aggiungono anche gli interessi passivi;

2. Materie prime e sussidiarie destinate alla produzione: le argomentazioni coincidono con la precedente;

3. Fattori remunerati a tempo(anticipi): le rimanenze di tali fattori assumono la denominazione di risconti e vengono determinate in misura proporzionale al tempo(trascorso e ancora da trascorrere);

4. Immobilizzazioni tecniche materiali: il costo delle immobilizzazioni di durata limitata è soggetto ad ammortamento. Al contrario il costo di quelle a durata illimitata non concorre alla formazione del reddito di esercizio e viene trasferito interamente al futuro(sempre dopo la verifica di ricuperabilità);

5. Immobilizzazioni tecniche immateriali: quelle di durata determinata sono assimilabili alle immobilizzazioni materiali ammortizzabili, mentre nell’altro caso si rende difficile un piano per la loro ripartizione a carico degli esercizi futuri.

Prima fase delle rimanenze di produzione: 1. Rimanenze di prodotti finiti: la determinazione del costo di un prodotto è il

risultato dell’aggregazione dei costi dei fattori che concorrono alla sua fabbricazione. Perciò bisogna determinare quali fattori concorrono a formare il costo del prodotto e come si calcola il costo dei singoli fattori.

2. Prodotti in corso di lavorazione: stesse argomentazioni del punto precedente con la precisazione che concorrono a formarne il costo solo i fattori già assorbiti dai prodotti in lavorazione;

3. Immobilizzazioni tecniche costruite in economia: per le rimanenze di produzione materiale particolare rilevo assume l’imputazione dei componenti indiretti(cioè di quei fattori utilizzati congiuntamente per la normale produzione destinata alla vendita e per la realizzazione degli impianti) ivi compresi i costi generali di struttura. Per le rimanenze di produzione immateriale, invece, sorge il dubbio se sia meglio imputare tutto all’esercizio in corso oppure rinviare agli esercizi futuri dato che la produzione materiale dovrebbe apportare vantaggi proprio dopo l’esercizio attuale. La prima è quella adottata nella logica del rinvio dei costi.

La verifica di ricuperabilità dei costi può essere condotta adottando due diversi procedimenti: l’uno sintetico, o globale, l’altro analitico. Con il primo la verifica investe unitariamente tutto il complesso di costi che si ritiene dovrebbero essere rinviati ai futuri esercizi. I costi rinviabili vengono considerati come un

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tutt’uno, sulla base dell’assunto che quel che rileva è la capacità dei futuri esercizi di sostenere, assorbire una certa massa di costi trasferiti dal passato. Con il secondo procedimento, al contrario, i costi ritenuti rinviabili non vengono considerati nella loro globalità ma vengono opportunamente raggruppati e la verifica avviene per ogni singolo gruppo. Mentre tuttavia la verifica dei costi a recupero diretto (ad esempio merci, prodotti, titoli) è immediata perché in questo caso si può fare ragionevolmente riferimento a un prevedibile ricavo, non altrettanto si può dire per i costi a recupero indiretto (esempio immobilizzazioni tecniche ammortizzabili, materie prime, fattori remunerati a tempo, ecc.). In quest’ultimo caso la verifica della ricuperabilità non può che essere globale. E’ preferibile il metodo analitico sia perché in caso di esito negativo le rettifiche risulteranno molto più agevoli, sia perché risulta molto più intelligibile l’iter tecnico-contabile di formazione del reddito e del connesso capitale di funzionamento. A questo punto è necessario puntualizzare la nozione di ricuperabilità dei costi. Due sono le possibili definizioni:

• sono recuperabili i costi il cui flusso dei ricavi dei futuri esercizi sia almeno uguale ai suddetti costi e agli altri che si dovranno sostenere per il conseguimento di detti ricavi;

• sono recuperabili i costi il cui flusso dei ricavi dei futuri esercizi consenta oltre alla copertura di tutti i costi, l’attribuzione di una congrua remunerazione del capitale proprio.

Nella logica-limite di cui stiamo parlando la seconda accezione è quella più corretta. Infatti, i capitale proprio di un’impresa in funzionamento mantiene integro il suo valore solo se è prevedibile che la sua gestione futura ne consente un’adeguata remunerazione. In assenza di remunerazione, o in caso di remunerazione inadeguata, il suo valore inevitabilmente si riduce. Per verificare se i costi ammortizzabili ritenuti rinviabili al futuro, sono realisticamente recuperabili, occorre calcolare quella che potremmo chiamare la ”capacità di ammortamento” dei futuri esercizi. Espressione con la quale si intende l’importo massimo che in un determinato esercizio futuro si potrà destinare ad ammortamento sotto la condizione che il relativo conto economico si chiuda con un utile sufficiente ad assicurare la congrua remunerazione del capitale proprio. Per determinare la capacità di ammortamento si muove dalla stima del margine lordo di gestione, intesa come l’eccedenza dei ricavi di competenza sui costi di competenza, con esclusione dell’ammortamento. Successivamente vi si sottrae quanto occorre per remunerare congruamente il capitale proprio, gli oneri finanziari e le imposte e si ottiene la capacità di ammortamento. Inoltre, si stacca quanto occorre per far fronte via via ali ammortamenti degli investimenti da effettuare. Si passa poi a verificare se tali esercizi sono in grado di assorbire i costi che si intendono trasferire. Se tale esito è negativo, si ha uno stato di malessere dell’impresa. Occorre, tuttavia comprendere se questa insufficienza è dovuta a fatti contingenti, che non mettono in

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discussione la vitalità di fondo dell’impresa o se al contrario è dovuto a fattori durevoli, rivelatori di un incipiente dissesto dell’impresa. Si possono avere 3 casi:

1. i previsti margini lordi consentono la congrua remunerazione del capitale e l’ammortamento degli investimenti da fare, ma non anche l’ammortamento di quelli in essere;

2. i previsti margini lordi non consentono, al tempo stesso, di effettuare ammortamenti adeguati ai costi di rinnovo e di remunerare congruamente il capitale proprio;

3. i previsti margini lordi non sono sufficienti a far fronte neppure al solo ammortamento degli investimenti da effettuare per mantenere in efficienza l’apparato produttivo.

Il primo caso è quello meno grave, e l’impresa è sostanzialmente vitale. Il fatto che non sia in grado di recuperare anche gli investimenti in essere può dipendere da precedenti errori di dimensionamento degli impianti, da improvvisi rivolgimenti tecnologici, ecc. La perdita ha più rilievo contabile che economico, ed è la conseguenza di una logica molto conservatrice della nozione di reddito sin qui elaborata. Il secondo caso non ha una gestione in equilibrio, perché oltre al problema precedente non è in grado di remunerare il capitale proprio. Ed è naturale chiedersi se abbia senso proseguire l’attività di impresa. Il terzo caso è quello di un’impresa palesemente in crisi che deve essere posta in liquidazione. Tale procedimento non deve, però, indurre a ritenere che l’ammortamento sia subordinato alla remunerazione del capitale, infatti, esso è e rimane un costo e pertanto è prioritario rispetto alla remunerazione del capitale proprio. Occorre stabilire ora come si determina il capitale a cui commisurare la remunerazione e come si definisce congrua la misura di quest’ultima. Il capitale effettivamente investito dai soci può essere inteso in diversi modi:

1. il capitale conferito dai soci a partire dalla costituzione dell’impresa; 2. il capitale come sopra indicato accresciuto degli eventuali utili non distribuiti nel

corso degli anni; 3. il capitale al punto 2) ridotto delle eventuali perdite di gestione(così inteso il

capitale coincide con il capitale netto di funzionamento, ossia quello desunto dalla determinazione del reddito di periodo);

4. il capitale di cui al punto 1) accresciuto annualmente di una remunerazione(al prescelto tasso) e ridotto degli eventuali dividendi corrisposti agli azionisti;

5. il capitale di cui al punto 3) opportunamente rettificato delle plusvalenze contenute nelle rimanenze considerate ai valori correnti;

6. il valore che in quel dato momento si potrebbe attribuire all’impresa come complesso economico, o più precisamente, il prezzo al quale l’impresa potrebbe essere venduta in blocco.

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6’. il valore di liquidazione dell’impresa, ossia la somma che presumibilmente si incasserebbe dalla vendita di tutte le attività, ridotta delle uscite per l’estinzione delle passività e per gli oneri della liquidazione

In assenza di perdite di esercizio la 2 e la 3 coinciderebbero. La 1 offre un’interpretazione nominalistica del capitale investito dai soci, che trascura il fattore tempo. La 2 e la 3 cercano di apportare delle migliorie alla 1, seppur in modo diverso, tenendo conto del succedersi dei risultati di esercizio a partire dalla nascita dell’impresa. La 5 tenta di dare significatività al capitale di funzionamento; e lo fa sganciandolo dai costi storici e avvicinandolo, per così dire ai valori correnti. Ma vi riesce solo in parte perché dall’aggiornamento resta fuori la produzione immateriale. La 4 dal canto suo da una interpretazione economico-finanziaria della nozione di capitale investito, basandosi sulla ricerca dell’equivalente attuale di un capitale investito anni prima. La 6 sgancia completamente il capitale investito dai dati storici e contabili, per puntare invece sul valore dell’impresa nel suo insieme, come complesso economico in esercizio. Dal punto di vista del titolare dell’impresa, infatti, il capitale che egli vi investe è l’importo a cui rinuncia per conservarne la proprietà, ovvero quel che potrebbe ricavare se la vendesse. La 6 o la 6’ sembra la più razionale. Sebbene la 6 risulti di regola superiore alla 6’ può accadere anche il contrario, cioè che il valore di realizzo dei beni si riveli superiore al valore del tutto, in particolare quando l’impresa abbia, per un verso, un andamento economico poco brillante; e per altro verso, disponga di un attivo patrimoniale di agevole smobilizzo. La pratica, tuttavia, fa frettolosamente coincidere il capitale a cui commisurare la congrua remunerazione con il capitale netto di funzionamento al punto 5, motivandolo con il fatto che il riferimento ad un dato contabile conferisce un ancoraggio più solido di quello che gli potrebbe dare il valore dell’impresa, caratterizzato pur sempre da una certa volatilità. Per quanto attiene al tasso di congrua remunerazione, non si può applicare semplicisticamente un prescelto tasso al capitale di riferimento, perché in questa logica il capitale tende ad essere sottostimato. Infatti, quando si segue la logica del rinvio dei costi, la redditività dell’impresa è in parte contabilmente esplicitata(attraverso il risultato di esercizio) e in parte indistintamente e stabilmente incorporata nel capitale netto. A volte la parte incorporata è largamente prevalente: si pensi al caso delle imprese immobiliari, alle imprese di assicurazione e a tutte le imprese i cui investimenti sono a lento rigiro e tendono fisiologicamente a crescere. Altre volte accade il contrario, si pensi alle imprese finanziarie, che hanno come oggetto esclusivo della loro attività la concessione di prestiti, sicché il loro attivo patrimoniale non è soggetto ad accrescimento.

Capitolo 4 Secondo la logica dell’anticipazione dei ricavi, concorrono a formare il reddito del primo esercizio:

• tutti i costi sostenuti in quel periodo;

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• tutti i ricavi conseguiti in quel periodo; • i ricavi che in virtù dell’attività svolta e delle iniziative avviate entro la fine del

dato periodo, si prevede di poter conseguire in futuro, detratti naturalmente i costi che occorrerà ancora sostenere per il loro conseguimento.

In entrambe le logiche ha rilievo la prospettazione del probabile andamento economico-finanziario dell’impresa; ma nella prima la prospettazione del futuro serve a verificare la rinviabilità dei costi, nella seconda serve ad anticipare a favore dell’esercizio, i probabili esiti delle operazioni in atto. In verità anche nella prima logica si possono anticipare gli esiti delle operazioni, ma questo accade solo se si prevedono esiti negativi. Nella logica dell’anticipazione dei ricavi, e muovendo la distinzione tra rimanenze a realizzo diretto e indiretto, possiamo dire che per quanto concerne le prime, si procede alla stima del loro probabile prezzo di vendita e lo si riduce delle voci costi da sostenere e congrua remunerazione del capitale. Per quanto riguarda le rimanenze a realizzo indiretto si dovrà anzitutto prevedere la quantità di produzione vendibile che esse potranno generare in futuro; si passerà quindi alla stima dei ricavi, i quali ridotti dei costi da sostenere costituiranno i valori positivi da acquisire a CE a fronte dei costi di dette rimanenze. Discorso analogo vale per le rimanenze immateriali, con la precisazione che proprio sul trattamento degli elementi immateriali la differenza tra le due logiche è molto netta. Secondo la logica del rinvio dei costi, gli immateriali restano convenzionalmente a carico dell’esercizio nel quale si sostengono gli oneri per la loro acquisizione, lasciando che i loro positivi effetti si dispieghino a favore degli esercizi successivi sotto forma di maggiori volumi di vendite. Al contrario secondo la logica dell’anticipazione dei ricavi, i costi degli immateriali rimangono ugualmente a carico dell’esercizio nel quale sono sostenuti, ma ad essi vengono contrapposti gli attesi esiti positivi. Tuttavia, nella logica B si presenta difficile individuare l’esatto momento in cui un’operazione di investimento (soprattutto quando si tratta di investimento immateriale) ha avuto inizio e l’esatto momento in cui ha esaurito tutto i suoi effetti, perché si ha un ineliminabile intreccio dei fenomeni di gestione. Una volta che si fosse completata la rappresentazione della gestione futura, nelle sue più significative grandezze, occorrerà procedere all’attualizzazione dei ricavi attesi e dei connessi costi(o equivalentemente all’attualizzazione dei margini). L’attualizzazione permette di rendere omogenee le grandezze nei diversi periodi di tempo. Si può quindi notare che il tale metodologia sgancia sempre più il reddito dai dati storici a favore di quelli prospettici, rendendo inadatto il metodo contabile. Un altro modo di vedere questa logica, è quello di partire dalle relazioni intercorrenti tra aspetto economico e finanziario. Tale reddito infatti può essere determinato aggiungendo alle disponibilità monetarie esistenti alla fine dell’esercizio, tutti gli incassi e i pagamenti attualizzati che si prevede di effettuare in futuro e detraendo dalla somma così ottenuta il capitale iniziale(W). Sennonché W altro non è che il valore dell’impresa alla fine del primo esercizio. Possiamo allora concludere che, concepito secondo la logica dell’anticipazione

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dei ricavi, il reddito di periodo è dato dall’incremento subito, in quel medesimo periodo, dal valore dell’impresa. Ne consegue che la determinazione di questo reddito passa attraverso la valutazione dell’impresa come complesso economico in funzionamento. L’espressione valore dell’impresa può essere intesa almeno in due modi:

• valore d’uso: il valore attribuibile al suo capitale proprio(o ai titoli che la rappresentano) in funzione degli utili, dei frutti che il titolare ne può trarre. L’impresa dunque non vale tanto per i beni di cui dispone, quanto per gli utili che essa è in grado di generare. Esso si rivela utile nella determinazione del reddito secondo la logica dell’anticpazione dei ricavi, perché considera l’impresa nel segno della continuità. In questa accezione di parla di capitale economico;

• valore di scambio: è il prezzo al quale essa, o meglio i titoli che ne rappresentano la proprietà, potrebbe essere venduta.

La determinazione del capitale economico presuppone, implicitamente che l’impresa conservi l’attuale struttura proprietaria; il che non esclude che il soggetto economico possa avere in programma di aprire il capitale dell’impresa ad altri soggetti. Nella stima del valore di scambio, al contrario, si assume che l’impresa cambi soggetto economico, e sia quindi inserita in un contesto proprietario diverso. Il valore di scambio è superiore quando l’impresa possa vedere accresciuta, direttamente o indirettamente, la sua capacità di produrre frutti. Se si verifica il caso contrario si ha che la redditività è legata a fatti soggettivi dell’imprenditore, non trasferibili con il trasferimento dell’impresa, o quando quest’ultima trae vantaggi, per loro natura non trasferibili, dall’essere parte di un gruppo. Mentre il capitale economico è una grandezza che può essere stimata non altrettanto si può dire per il valore di scambio(occorrerebbe conoscere tutti i potenziali compratori). Non resta allora che sollecitare il mercato. Evidentemente i responsabili della gestione devono essere ben attenti al che non vi sia un divario troppo ampio tra il capitale economico e il valore di scambio. Il modo più razionale per determinare un capitale economico è dato dall’attualizzazione dei frutti che l’impresa potrà dare in futuro. Tali frutti possono essere variamente espressi:

• direttamente (metodo reddituale): sotto forma di redditi annui netti attesi; • indirettamente (metodo finanziario): dai prospettici flussi di incassi e pagamenti.

La differenza tra i due procedimenti è solo di tipo applicativo, poiché l’idea alla base degli stessi è la medesima. La constatazione che errori anche piccoli nella stima dei flussi producono effetti rilevanti sull’entità del capitale economico, spinge a ricercare metodi alternativi di valutazione basati anche su consistenze attuali, e in particolare sullo stock di beni di proprietà dell’impresa. Si tratta allora di metodi patrimoniali, misti, ecc. Con il metodo patrimoniale, il capitale economico dell’impresa è dato dal valore corrente dei suoi beni (al netto delle passività), ovvero dal loro corso attuale di ricostruzione (se non hanno prezzi correnti di mercato). Se è particolarmente inclusivo si parla di valore di

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ricostituzione dell’impresa perché si assume che il capitale economico coincida con il costo che si sosterrebbe oggi per rifare un’impresa uguale a quella oggetto di valutazione. Con il metodo misto il capitale economico è dato dal patrimonio come sopra determinato opportunamente rettificato in funzione del previsto andamento economico della gestione dei successivi 3-7 anni. Più precisamente, se i redditi previsti sono superiori a quanto occorre per la congrua remunerazione del detto patrimonio questo sarà accresciuto di un importo pari al valore attuale dei sovraredditi(avviamento, goodwill). In caso contrario sia avrà badwill. I metodi patrimoniali contengono un grande vizio di fondo: quello di considerare l’impresa staticamente, come un aggregato di beni, trascurando del tutto il suo funzionamento e le caratteristiche della sua struttura produttiva, con i suoi costi ricorrenti e la sua rigidità. Ed è proprio questa rigidità della struttura produttiva che talora deprime fortemente il valore dell’impresa rispetto ad un ipotetico costo di ricostruzione del suo apparato produttivo. I metodi patrimoniali permettono di valutare correttamente quelle imprese dotate di strutture estremamente leggere, poco costose e assai elastiche; di imprese i cui beni siano pressoché completamente a realizzo diretto; di imprese operanti in un mercato concorrenziale, nel quale esse non siano in grado di esercitare alcun potere in materia di formazione dei prezzi. Nei c.d. metodi empirici il valore di un’impresa viene determinato applicando un prestabilito parametro( detto comunemente moltiplicatore) ad una grandezza oggettivamente rilevabile nell’ambito dell’impresa stessa: volume del fatturato, raccolta premi, superficie dei locali in cui viene esercitata l’attività, potenzialità produttiva degli impianti. Pre quanto riguarda il tasso di attualizzazione esso deve senza dubbio essere funzione prevalente del rischio dell’impresa. Vi sono due impostazioni nella determinazione del tasso:

• analitica: il tasso è la risultante di due addendi, di cui il primo esprime la remunerazione per il solo uso del capitale, remunerazione tipica di un investimento privo di rischio(di solito il tasso di rendimento reale sui titoli di Stato), mentre il secondo esprime il compenso per il rischio. Questo secondo addendo viene talora scomposto in due parti, in cui una discende dall’apprezzamento del rischio specifico del settore in cui opera l’impresa, l’altra legata alle peculiari caratteristiche dell’impresa oggetto di valutazione. La prima avrà solo positivo mentre la seconda sia positivo che negativo;

• statistico-comparativa: il tasso viene desunto da appositi standard che esprimono tassi normalmente applicati in situazioni simili. Per la costruzione degli standard utili elementi vengono tratti dalla sistematica analisi delle quotazioni di borsa, rapportate a significativi parametri economico-finanziari delle rispettive società.

Per apprezzare in modo compiuto il rischio di impresa bisogna considerare essenzialmente tre punti:

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• la probabilità che in futuro si verifichino scostamenti negativi rispetto ai dati previsti nei programmi, assunti a base della stima dei frutti;

• le conseguenze che questi scostamenti possono produrre sui frutti attesi e sui risultati economici di gestione;

• l’entità e la composizione dei beni patrimoniali dell’impresa. Per superare la seconda problematica basta assumere una certa struttura dell’impresa e il relativo regime dei costi e si può calcolare con sufficiente attendibilità gli effetti di un determinato scostamento in una data voce di costo o ricavo sul risultato economico. La probabilità invece sarà invece funzione di una serie di fattori: elasticità della domanda, tasso di crescita del reddito nazionale, andamento dei cambi, ruolo dell’impresa all’interno del settore… L’ultimo aspetto, che rientra nella logica dei c.d. metodi patrimoniali, può essere utile per apportare un significativo contributo a quello che viene chiamato il “metodo base”(o metodo dei flussi). Continuità di criteri non significa immobilità del tasso attualizzazione nel tempo. Secondo la logica dei ricavi, dunque, il reddito di periodo viene concepito come l’incremento che subisce il capitale economico dell’impresa. Il reddito di periodo è una grandezza riferita ad un determinato arco di tempo, di regola annuale. La redditività, al contrario, non ha un preciso riferimento temporale ma guarda genericamente, indefinitamente al futuro. Esso designa non il reddito di questo o quell’esercizio ma la sua tendenziale, prospettica capacità dell’impresa di generare reddito. Sicché, mentre il reddito di periodo è fortemente condizionato dalla circostanza che un determinato costo venga imputato a questo piuttosto che a quell’esercizio , non altrettanto può dirsi della redditività. Finché le prospettive dell’impresa non mutano, e quindi il tasso di attualizzazione e la redditività restano fermi, il reddito del periodo coincide sostanzialmente con l’importo assunto ad indicatore di tale redditività. Se, invece, le prospettive cambiano, i risultati divergono.

Capitolo 5 Se il miglioramento delle aspettative si esprime sotto forma di migliore qualità dei frutti (nel senso che la relazione costi/ricavi appare più stabile e meno volatile), il reddito B ne risulterà fortemente e positivamente influenzato, perché, agli effetti del capitale economico, si potrà applicare un minor tasso di attualizzazione. Tra il capitale di funzionamento, che è lo strumento attraverso il quale si determina il reddito A, e il capitale economico, che determina il reddito B, intercorre la seguente relazione: Cf≤W Questa relazione è la conseguenza del fatto che il reddito A è costruito secondo la logica del rinvio dei costi sotto il vincolo della congrua remunerazione del capitale nei futuri

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esercizi. Sicché esso troverà sempre un limite superiore nel corrispondente capitale economico che a sua volta proprio nella redditività futura ha le sue radici. Questo non accade negli ordinari bilanci di esercizio perché pur ispirandosi genericamente alla logica del rinvio dei costi, non prevedono il vincolo della congrua remunerazione del capitale nei futuri esercizi. Ne deriva che in caso di modesta redditività Cf>W. Nel caso in cui il reddito di tipo A sia positivo, esso ci segnala che negli esercizi futuri l’impresa sarà in grado di remunerare in misura congrua il capitale proprio di riferimento, ed è quindi in equilibrio economico. Mentre se il reddito A è negativo esso non ha una capacità segnaletica altrettanto definita. Soprattutto, nei primi anni di vita dell’impresa, o in occasione di imponenti programmi di sviluppo, è pressoché naturale secondo la suddetta logica perdite di esercizio. Visto il modo in cui il reddito di tipo A è determinato , si può ragionevolmente affermare che la presenza di questo tipo di reddito esprime una reale produzione di “nuova” ricchezza, ossia di ricchezza distribuibile senza recar pregiudizio all’integrità economica del capitale; tale integrità essendo assicurata dalla fondata aspettativa di una futura capacità di reddito almeno congrua. Tale distribuibilità non può essere automatica(ad esempio nei primi anni di vita sarebbe da evitare, per permettere all’impresa di assorbire eventuali scostamenti negativi in futuro). L’opportunità di legare la distribuibilità dei dividendi, non alla dinamica del valore economico dell’impresa, ma a parametri meno soggettivi e meno volatili è dovuta al fatto che i dividendi hanno immediati effetti operativi perché determinano un’uscita di ricchezza dal patrimonio aziendale. Perciò è evidente che si rende necessaria una logica di determinazione del reddito più puntuale e prudente agganciata ai ricavi conseguiti nell’esercizio. Le configurazioni di reddito che ispirano alla logica del rinvio dei costi penalizzano di regola quelle imprese che investono largamente e di continuo in beni immateriali e in beni di durata indefinita non ammortizzabili. Tali configurazioni, al contrario, a vola favoriscono quelle imprese che impostano politiche di gestione volte a privilegiare i risutlati economici nel breve periodo e poco attente al rafforzamento e allo sviluppo delle strutture aziendali nel medio-lungo termine. Questi problemi non si verificano nel reddito di tipo B che non dipende dalle caratteristiche tecnico-economiche dell’impresa, né dalla struttura della sua relazione costi/ricavi, per l’ovvia ragione che il metodo adottato per la sua determinazione è in grado di neutralizzare e di scontare gli effetti di tali circostanze. Esso, inoltre, poiché esalta la continuità della gestione può essere utile in tema di valutazione del management, e permette proprio perché si basa sul capitale economico di risalire ad un’attendibile rappresentazione della redditività dell’impresa. I difetti di questa logica risiedono nel suo alto grado di volatilità, per effetto sia dell’incertezza insita in ogni previsione, sia dell’insopprimibile relatività del tasso di attualizzazione. Resta allora il reddito di tipo A con le sue ovvie limitazioni. I modi di ovviare a queste possono essere:

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1. reddito basato sulla stima delle rimanenze a costi correnti: tale correzione permette di considerare nell’esercizio in corso i prevedibili sviluppi positivi(ancorché non maturati) delle rimanenze. Ciò permette al reddito A di non presentare quelle forti oscillazioni dovute al realizzo dei cespiti e delle relative plusvalenze. Questo fenomeno è tanto più marcato quanto più lenta è la velocità di rigiro degli investimenti. Si pensi al caso di imprese il cui patrimonio è composto, in prevalenza da immobili destinati alla locazione o da partecipazioni, ossia da beni aventi di norma redditività parzialmente incorporata. Tuttavia, la stima dei costi correnti non sempre è agevole quando essa riguarda beni che non hanno ampio mercato. Inoltre rispetto al reddito A puro tale reddito perde efficacia come indicatore di distribuibilità dei dividendi;

2. reddito basato sulla stima a valori correnti delle sole rimanenze destinate alla vendita: tale nozione rispetto alla definizione precedente permette di ridurre il rischio che un repentino rialzo e ribasso dei prezzi possa essere causa di un reddito insussistente. Infatti per i beni in esame, che hanno in genere un alto tasso di rotazione, non intercorre molto tempo tra il momento in cui si decide di effettuare l’eventuale rivalutazione e il momento in cui i beni vengono venduti. Tuttavia, il guadagno in affidabilità è una perdita in termini di espressività perché sia lascia fuori dall’aggiornamento delle valutazioni una massa di beni che talora ha peso assai rilevante nell’economia dell’impresa;

3. reddito basato sull’estensione della rinviabilità dei costi degli elementi immateriali: i fattori produttivi immateriali, all’interno della logica A, sono rinviabili limitatamente a quelli suscettibili di autonomo realizzo e che hanno originato uno specifico costo(ad es. brevetti acquistati), altrimenti rimangono interamente a carico dell’esercizio in cui sono sostenuti. Ne deriva che il reddito A sottostima sistematicamente la capacità dell’impresa di produrre surplus e può generare ingiustificati allarmismi sul suo stato di salute. Due sono i modi di allargare gli spazi di rinviabilità: da una parte tentare un’individuazione analitica di questa produzione immateriale e dei relativi costi, dall’altra desumere globalmente il valore di detta produzione immateriale(es. incremento vendite, incremento portafoglio ordini…). La prima è più vicina alla logica A mentre la seconda alla logica B(e finisce per incorporare anche l’avviamento). Per rimanere più vicini alla logica A (prudenza) si può prevedere un piano di ripartizione di tali costi ben specificati in un arco di 3-5 anni;

4. reddito A ma con il vincolo del solo pareggio contabile: un punto fondante della logica A è quello che la rinviabilità dei costi deve essere subordinata alla capacità dei futuri esercizi di remunerare congruamente il capitale proprio. Il problema è che la nozione di congrua remunerazione è relativa e è suscettibile di grandi variazioni nel tempo. Ecco allora che, rimuovendo tale vincolo, in casi di redditività inferiore a quella congrua, i costi rinviabili a chiusura dell’esercizio sono maggiori. Tale reddito perde però in parte in significatività, perché in caso di reddito positivo non è un indicatore dell’esistenza delle condizioni necessarie per l’assegnazione di

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dividendi. Seppure, in caso di reddito negativo, ci dica che l’impresa è certamente in dissesto.

Merita di essere segnalata, la logica intermedia nota come Reddito economico integrato(REI) di Guatri. Il REI viene concepito come un efficace strumento di misura della performance periodica d’impresa, in alternativa al c.d. risultato contabile. Per determinare il REI occorre che sia integrato e rettificato dai seguenti tre processi:

1. processo di normalizzazione; 2. processo di integrazione per esprimere: la dinamica dei beni immateriali, altre

dinamiche di valori non contabilmente espresse; 3. se del caso, un processo di allineamento/adeguamento per eliminare gli effetti

distorsivi dell’inflazione. Tutti questi passaggi sono necessari per ricondurre il flusso contabile ad esprimere il flusso economico, cioè il solo flusso che rappresenta attendibilmente i risultati reddituali. Per quanto riguarda la normalizzazione è una elaborazione tecnica comprendente:

• la redistribuzione nel tempo di proventi e costi straordinari; • l’eliminazione di proventi e costi estranei alla gestione; • la neutralizzazione di politiche di bilancio giudicate discorsive rispetto al

fine(comprese quelle fiscali). Il REI è sostanzialmente un reddito A cui si apportano le modifiche 1 e 3 viste prima. Tale nozione di reddito si avvicina molto alla logica B, ed effettivamente esso vuole essere un’attendibile misura della perfomance economica dell’impresa. Tuttavia si differenzia da B, perché non attualizza tutti i frutti attesi, ma solo quelli che si possono ritenere ragionevolmente già acquisiti, economicamente maturati.

Parte seconda

Capitolo 1 Quando parliamo di bilancio ordinario di esercizio ci riferiamo a quel documento, avente rilevanza giuridica, che obbligatoriamente le imprese debbono comporre ad intervalli annuali. Nonostante nelle imprese si redigano a fini interni, svariati bilanci, il vero bilancio resta uno ed è quello legale. Giova considerare due punti:

• le imprese tenute a rendere pubblici i loro bilanci sono tipicamente organizzate in forma societaria, che rispondono con il loro solo patrimonio degli impegni assunti e che talora raccolgono risorse finanziarie rivolgendosi al pubblico attraverso la Borsa;

• il bilancio ordinario d’esercizio costituisce la principale fonte di informazione per i numerosi soggetti interessati alla vita dell’impresa(soci di minoranza, fornitori, finanziatori, clienti, lavoratori…).

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Una efficace comunicazione esterna in materia economico-finanziaria migliora l’immagine dell’impresa e ne accresce l’affidabilità e tutto questo si riverbera positivamente sulle “ragioni di scambio” con le diverse controparti e sui rapporti di varia natura che l’impresa intrattiene con la comunità e i pubblici poteri. Per quanto concerne i rapporti con gli enti e le collettività locali, va segnalato il c.d. bilancio sociale, che è una sorta di comunicazione avente ad oggetto l’attività aziendale, non solo e non tanto nei suoi tipici aspetti economico-finanziari, quanto e soprattutto in altri rilevanti aspetti, genericamente denominati sociali. Il normale bilancio non è in grado di assolvere a tutte le funzioni che comunemente gli sono assegnate per varie ragioni:

• non riesce a cogliere tutte le differenti rappresentazioni del reddito e del capitale occorrenti per soddisfare esigenze così eterogenee e differenziate(es. reddito distribuibile, normalizzato…);

• molte delle informazioni non sono riconducibili né allo SP né al CE(es. dati riguardanti la situazione finanziaria);

• la cadenza annuale è troppo distanziata per dare completezza e continuità al flusso informativo.

Nel redigere il Risultato economico si ritiene più adatta la logica del rinvio dei costi, perché si basa su dati relativamente oggettivi (quali sono i costi), che meglio si prestano a successive rielaborazioni, e perché di conseguenza conduce a risultati più prudenti rispetto a quelli basati sull’anticipazione dei ricavi. D’altronde è necessario mitigarne alcuni aspetti negativi e perciò sono introdotte le varianti 3 (elementi immateriali) e 4 (congrua remunerazione) viste precedentemente. Passiamo ora ad esaminare le possibili modalità di rappresentazione del capitale che sono due:

• dare al patrimonio una rappresentazione del tutto strumentale rispetto al reddito, ovvero considerare il patrimonio un mero derivato contabile del reddito, un mero raccordo tra i CE di esercizi consecutivi;

• ampliare la funzione dello SP, facendo in modo che il capitale oltre ad essere strumentale, sia una grandezza dotata di un proprio significato, così da arricchire la complessiva informazione di bilancio.

La seconda impostazione muove dall’assunto che le rimanenze dovrebbero essere valutate ai costi storici quando sono componenti del reddito e ai valori correnti (o di probabile realizzo) quando sono componenti del patrimonio, con conseguente lo rivalutazione. Tale rivalutazione può essere immediatamente imputata al PN che ne risulta definitivamente accresciuto, o essere accantonata in uno specifico fondo che si collocherebbe tra il settore delle passività e quello del PN. Con questa seconda alternativa non si altera la simmetria contabile tra reddito e capitale netto, nel senso che il capitale netto varia solo per effetto del reddito (e della sua destinazione) e non anche per effetto della rivalutazione cespiti. Data l’aleatorietà dei prezzi la seconda presenta una maggiore agilità, ma ha il problema di sterilizzare gli effetti sul PN.

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Conviene porsi la domanda di verità o falsità del bilancio di esercizio e due sono le possibili impostazioni:

• impostazione formale: il bilancio è vero se è composto nell’assoluto rispetto delle regole prestabilite riguardanti la rilevazione, la classificazione e la valutazione delle voci nei prospetti tipo, falso altrimenti. Sennonché nel bilancio oltre alle grandezze oggettive desumibili da un puro accertamento vi sono anche grandezze stimate desumibili attraverso un processo di valutazione. Mentre per le prime si può parlare di verità, per le seconde è più appropriato parlare di attendibilità, ragionevolezza o realismo nella stima. Ogniqualvolta ci si allontana da queste il bilancio è falso;

• impostazione sostanziale: la verità del bilancio viene verificata non con riguardo al rispetto delle regole e alle modalità di determinazione delle singole quantità, ma con riguardo al “documento” nel suo insieme e alla sua capacità di trasmettere messaggi attendibili.

Entrambe le impostazioni hanno i loro pro e contro, e probabilmente non sono sufficienti le categorie di verità e falsità, ma occorre interporne altre quali ad esempio regolarità, correttezza, attendibilità… In conclusione, il falso in bilancio(con le relative severe sanzioni) andrebbe riservato ai casi più gravi e andrebbe configurato solo in presenza di fatti di indubbia rilevanza nell’economia del bilancio, oggettivamente suscettibili di alterarne il messaggio informativo e posti in essere intenzionalmente per fini illeciti.

Capitolo 2 Secondo l’art 2423 c.c. gli amministratori devono redigere il bilancio d’esercizio, costituito dallo SP, CE e nota integrativa. Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio. Tali espressioni rispondono di certo a un comune sentire ma non sono idonee a definire il fine del bilancio con rigore sufficiente a consentire poi una scelta razionale e circostanziata dei criteri di valutazione. Il legislatore ne è consapevole e quindi viene aggiunto un insieme di norme intorno a tutto il complesso iter di formazione del bilancio. Si tratta di una normativa sistematica, articolata in alcuni principi generali o di ordine superiore(i principi di redazione del bilancio dell’art 2423 bis) e in specifiche disposizioni sul contenuto e sulle modalità di elaborazione dei singoli documenti costituenti il bilancio. Si può dire che quelle riguardanti la struttura e il contenuto dei singoli documenti costituenti il bilancio vanno poste in relazione con l’esigenza della chiarezza, mentre quelle riguardanti tipicamente i criteri di valutazione vanno poste in relazione con la rappresentazione veritiera e corretta. Il bilancio così come inteso nel nostro ordinamento sembra una combinazione delle due impostazioni precedentemente viste, infatti si indica contemporaneamente un fine del bilancio e sono dettate analitiche regole per la sua redazione. Tuttavia, è da segnalare

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come la rappresentazione veritiera e corretta sia sovraordinata alle specifiche norme per la costruzione del bilancio. I principi di redazione del bilancio sono:

1. prospettiva della continuazione dell’attività: ha la precedenza rispetto alla prudenza e afferma che bisogna porsi in un’ottica di funzionamento dell’impresa e non in un’ottica di liquidazione. La differenza tra le due ottiche è particolarmente rilevante nel caso in cui oggetto della valutazione siano gli investimenti a recupero indiretto o indistinto: tipicamente le immobilizzazioni tecniche, materiali o immateriali. Nell’ambito di questi investimenti si può passare da un valore dell’ordine di milioni (ottica del funzionamento) a un valore praticamente nullo e quindi della cancellazione della posta (ottica liquidazione). La prudenza sarebbe vuota in un’ottica di liquidazione. Si può avere una redazione nell’ottica di liquidazione in casi particolari quali abbandono di una linea di prodotto o di un intero settore produttivo. Finchè non viene decisa la liquidazione(in toto) dell’impresa gli amministratori non possono perdere l’ottica del funzionamento, e bisogna accrescere la prudenza soprattutto in materia di distribuzione degli utili;

2. prudenza: il bilancio è una sintesi di un complesso ragionamento economico, basato al tempo stesso su fatti accaduti e su aspettative di fatti di fatti futuri, su dati oggettivi e dati meramente stimati e congetturati. Il principio di prudenza vuole essere un’affermazione generale dell’esigenza di tutte le operazioni che implicano previsioni, prospettazioni e “anticipazioni” del futuro siano fatte con grande cura, con estrema cautela. Secondo, questo principio, quindi, lo stesso occorre evitare di “anticipare” utili semplicemente sperati perché relativi a beni non ancora venduti. Esso rimane piuttosto vago se considerato autonomamente, al di fuori di un’interpretazione sistematica. Ed infatti per acquisire connotazioni meno indefinite, esso va collegato all’esigenza della rappresentazione veritiera e corretta con cui deve essere armonizzato. Ne deriva che alla prudenza deve unirsi la ragionevolezza che si estrinseca nel mediare a due diverse esigenze la cautela e la veridicità. Tuttavia, vi sono circostanze nelle quali neppure il ricorso alla ragionevolezza è di sostanziale aiuto, cioè quelle dalle quali possono derivare effetti radicalmente diversi sull’economia della gestione, a seconda che si verifichi o meno un evento aleatorio(es. ingenti richieste di risarcimento danni). In queste circostanze la prudenza vorrebbe che i possibili oneri fossero imputati all’esercizio in chiusura. Ma così facendo si rischierebbe di procurare gravi danni all’impresa, agli azionisti e agli stessi creditori. Le possibili soluzioni potrebbero essere: non imputare alcun onere all’esercizio, accantonando l’intero utile o parte di esso pari al rischio massimo, oppure effettuare un accantonamento nei limiti del paraggio di bilancio, chiarirne le motivazioni e precisare che la sua entità ha determinazione “residuale”.

3. competenza: Secondo questo principio “si deve tener conto dei proventi e degli oneri di competenza dell’esercizio, indipendentemente dalla data dell’incasso e del pagamento”. La “competenza contabile” si ricollega alla nascita delle singole

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operazioni di gestione e quindi al loro concreto manifestarsi. La “competenza economica” riguarda invece il concorso delle operazioni medesime alla formazione del risultato d’esercizio. Sul piano contabile una determinata operazione è di competenza dell’esercizio nel quale sorge per l’impresa un obbligo a fare, un obbligo a pagare oppure un diritto a ricevere. Ne deriva che una volta precisato il momento in cui l’operazione nasce, l’accertamento della competenza diventa effettivamente un dato oggettivo. Sul piano economico è più difficile e non è oggettivamente accertabile (immobilizzazioni immateriali ad esempio). Questo principi non dice nulla circa le modalità con cui i fatti di gestione debbono concorrere a formare quel reddito. Deve quindi essere integrato con i singoli criteri di valutazione. Vedi anche ->competenza all’interno delle due logiche.

4. trattamento dei rischi e delle perdite conosciuti dopo la chiusura dell’esercizio: Afferma che si deve tener conto dei rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, anche se conosciute dopo la chiusura di questo(3-4 mesi). Sebbene il senso di tale principi sia chiaro meno lo sono le modalità di applicazione. In particolare quel tener conto significa che essi debbono essere imputati all’esercizio di cui si sta redigendo il bilancio o significa che essi debbono essere tenuti presenti. Il legislatore probabilmente si riferisce a fatti che pur se accaduti dopo la chiusura dell’esercizio, sono strettamente inerenti alle operazioni in corso alla fine dell’esercizio e ne influenzano gli esiti. E siccome la valutazione delle operazioni in corso non può che essere fatta sulla base dei loro possibili esiti, ecco che i “fatti” che possono a aiutare a prevedere attendibilmente questi esiti devono essere presi in considerazione. Sembra che debba prevalere la prima interpretazione(imputati) ricollegandosi al principio di competenza.

5. utili realizzati alla data di chiusura dell’esercizio: Afferma che si possono indicare esclusivamente gli utili realizzati alla data di chiusura dell’esercizio, e costituisce un’esplicitazione del principio della prudenza. Come al solito mentre il messaggio è chiaro, non altrettanto lo è la formulazione. Perché si dice “possono” e non “devono”, come si concilia il possono con l’imperativo della “rappresentazione veritiera e corretta”. Ma il problema maggiore è con il termine utili realizzati. Finché l’impresa è in funzionamento, non può parlarsi di utili realizzati, ma di ricavi realizzati. Inoltre si tratta di una petizione di princpio: infatti, gli utili realizzati sono quelli risultatnti da un bilancio composto nel pieno rispetto dei criteri previsti dalla vigente normativa e pertanto gli utili che ne risultano non possono che essere gli utili realizzati;

6. valutazione separata degli elementi eterogenei: come dalla definizione gli elementi che possono essere ricompresi nelle singole voci sono da considerare omogenei. A parte problemi nel definire correttamente l’eterogeneità(gli elementi nelle singole voci presentano sicuramente elementi di eterogeneità), il principio deve essere inteso nel senso che non è consentito effettuare compensazioni tra componenti positivi e negativi discendenti dalla valutazione di “cespiti” rientranti nella medesima voce. Così ad esempio nell’ambito della voce merci non si possono

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compensare le minusvalenze su una data classe di merci con gli utili sperati (plusvalenze) su un’altra classe. Tuttavia, non compensare classi di che sono originate dallo stesso fenomeno sarebbe sbagliato perché verrebbe meno la rapp. veritiera e corretta;

7. continuità dei criteri di valutazione: i criteri di valutazione non possono essere modificati da un esercizio all’altro. Deroghe sono consentite in casi eccezionali. La NI deve motivare la deroga e indicarne l’influenza sulla rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico. Infatti tutta l’impalcatura della normativa in materia di bilancio è costituito dalla comparabilità dei dati, ossia per la possibilità di mettere a confronto, per singole poste, i dati di esercizi consecutivi. Tuttavia, in un contesto caratterizzato dalla imprevedibile variabilità delle condizioni d’ambiente e d’impresa, sarebbe stato inopportuno e pericoloso, proprio agli effetti della significatività di bilancio, prevedere l’immutabilità (categorica), nel tempo, dei criteri di valutazione. Con la previsione della possibilità di deroga, il legislatore ha inteso certo abbassare il rango del princpio in esame rispetto agli altri.

Capitolo 32 Mentre per lo SP e il CE la legge indica dettagliatamente non solo il contenuto, ossia le voci che ciascuno di essi deve riportare, ma anche la forma, o se si preferisce lo schema, che essi devono assumere e l’ordine nel quale le singole voci devono essere riportate, non vale lo stesso per la nota integrativa. La scelta della struttura tendenzialmente rigida presenta il vantaggio che chi compone il bilancio e chi lo utilizza risulta facilitato dalla presenza di un percorso da seguire. Tuttavia, lo svantaggio è che gli schemi applicati a una materia viva finiscono per mostrare lacune e manchevolezze di varia entità(es. le frequenti innovazioni in materia di finanza di impresa). A questo va aggiunta la grande varietà ed eterogeneità del mondo aziendale, e diviene pressoché inevitabile che in pratica si debba , talora ricorrere a vere e proprie forzature per attrarre ad una qualche voce di bilancio partite che richiederebbero un’apposita voce non prevista e non inseribile nello schema. La classificazione adottata prevede livelli progressivi di analisi: quattro livelli per lo SP (contrassegnati, rispettivamente, dalle lettere maiuscole, dai numeri romani, dai numeri arabi, e dalle lettere minuscole) e tre per il CE (lettere maiuscole, numeri arabi e lettere minuscole). L’art 2423 ter dispone che le voci precedute da numeri arabi possono essere suddivise(aggiungendo lettere minuscole) o raggruppate se il loro importo è irrilevante o quando favorisce la chiarezza del bilancio; in questo secondo caso la NI deve contenere distintamente le voci oggetto di raggruppamento. Il succitato articolo dispone, inoltre, che devono essere aggiunte altre voci qualora il loro contenuto non sia compreso in quelle

2 Vedere dispense Fasoli per maggiori dettagli sullo SP e il CE.

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previste dagli schemi e che le voci precedute da numeri arabi devono essere adattate quando lo esige la natura dell’attività esercitata. Per ogni voce deve essere indicato l’importo della voce corrispondente all’esercizio precedente. Se le voci non sono comparabili, quelle relative all’esercizio precedente devono essere adattate. Da quello appena visto si può notare che il bilancio non è riconducibile interamente a nessuno dei tipici modelli di impostazione della contabilità e del bilancio: il modello c.d. patrimonialistico e c.d. redditualistico. Il modello patrimonialistico pone al centro dell’osservazione contabile il capitale dell’impresa, nella sua entità e nella sua composizione; concepisce la gestione come un succedersi di fatti che modificano il patrimonio e interpreta il reddito come la risultante dell’incessante succedersi di variazioni patrimoniali. Il modello redditualistico pone al centro dell’osservazione contabile il processo il processo di formazione del reddito, nel fluire dei costi e dei ricavi, e interpreta i fatti di gestione come possibili generatori di costi e ricavi. Al reddito di esercizio si giunge attraverso la correlazione costi-ricavi e la formulazione dei connessi giudizi di competenza. In questo quadro, il capitale è una grandezza derivata: derivata proprio da quei giudizi di competenza. Esso è infatti composto, oltre che dalle esistenze di numerario, di debiti e crediti, dalla massa di costi rinviati(c.d. investimenti in attesa di realizzo). L’art. 2424 detta lo schema secondo il quale deve essere redatto lo SP(vedi schema SP). Va segnalato un certo squilibrio nel trattamento riservato ad alcune voci. Colpiscono in particolare i ratei e i risconti e per la sistemazione data a quell’ampia e complessa materia che comunemente va sotto la denominazione di impegni e rischi. Ai ratei e risconti viene addirittura destinata una delle quattro macroclassi, e questo sembra troppo, dato che con l’attuale non è più possibile iscrivere nei ratei ogni sorta di costi e ricavi presunti e nei risconti ogni sorta di rinvio di costi e ricavi. Analogo giudizio vale per la prima macroclasse:” crediti verso soci per versamenti ancora dovuti”. Per quanto concerne la materia dei rischi, degli impegni, delle garanzie, ecc. bisogna dire che essa è in qualche modo già penalizzata del fatto di essere iscritta sotto la linea, ma viene ulteriormente penalizzata dalla genericità con cui si esprime l’ultimo comma dell’art. 2424. Per quanto concerne l’Attivo dello SP appare evidente che il dato di fondo è la sostanziale suddivisione di tutte le poste in due grandi gruppi(o macroclassi): Immobilizzazioni e Attivo circolante. Fa bene il legislatore ad usare l’espressione AC piuttosto che Disponibilità: ha così evitato il possibile equivoco di ritenere che le voci iscritte tra le ultime esprimessero somme di numerario, o comunque cose sostanzialmente equivalenti al numerario. La distinzione tra immobilizzazioni e AC sembra basarsi contemporaneamente sulla natura delle attività e sul loro tempo di recupero, o detto altrimenti, sulla loro velocità di rigiro. Per alcune attività l’accento è posto inequivocabilmente sul tempo. E’ il caso dei crediti verso controllate, collegate e controllanti, delle partecipazioni e dei titoli in genere:

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queste sono iscritte in entrambe perché possono permanere per un tempo breve o lungo nel patrimonio dell’impresa. Per altre voci, sembra aver rilievo l’oggetto dell’attività perché sono iscritte solo nell’AC, indipendentemente dalla circostanza che i loro tempi di realizzo possono essere assai diversi da caso a caso. Si pensi ai prodotti in corso di lavorazione. Analogamente per i crediti verso i clienti. Le voci del passivo sono cinque. Si nota subito l’assenza di voci rettificative dell’attivo (Fondo ammortamento, Fondo svalutazione crediti, ecc.). Il legislatore ha scelto la strada di indicare, per le poste dell’attivo, i rispettivi valori netti, rinviando alla NI la dimostrazione dell’iter attraverso il quale si giunge alla loro determinazione. Viene così a mancare il principio di integralità, secondo il quale in bilancio dovevano trovare posto i valori originari. Per quanto riguarda il gruppo B del passivo, l’art 2424 bis dice che gli accantonamenti per rischi ed oneri sono destinati soltanto a coprire perdite o debiti di natura determinata, di esistenza certa o probabile, dei quali tuttavia sono indeterminati o l’ammontare o la data di sopravvenienza. Non vi è spazio per accantonamenti a fronte di rischi generici, ma solo di rischi legati a fatti precisi e ben individuati. La forma dello SP, tuttavia, non consente di cogliere le forme di finanziamento intermedie tra capitale proprio e indebitamento (es. prestiti subordinanti), non si riesce a rinviare altri tipi di componenti positivi oltre ai risconti(es. biglietti prepagati, contributi una tantum). Per il CE il legislatore ha scelto la forma scalare, incentrato sulla c.d. classificazione dei costi per natura. Il CE è strutturato in modo che al risultato prima delle imposte si giunge attraverso la somma (saldo) di 4 risultati intermedi:

1. la differenza tra il valore della produzione (A) e i costi della produzione (B); 2. la gestione finanziaria, ossia il saldo tra proventi e oneri finanziari (C); 3. le rettifiche di valore di attività finanziarie (D), e quindi il saldo tra rivalutazioni e

svalutazioni; 4. le partite straordinarie, ossia il saldo tra proventi e oneri straordinari.

La differenza al punto 1) non ha una denominazione tecnica (es. risultato operativo), perché ha una natura molto ibrida. La voce 4 (incrementi di immobilizzazioni per lavori interni) va letta di concerto con il successivo gruppo B. Da questa lettura combinata, sembra potersi dedurre che la voce in esame ingloba solo i costi indiretti, cioè quelli imputati per ripartizione, mentre i costi diretti, ossia sostenuti specificatamente per le immobilizzazioni tecniche non transitano per il CE perché addebitati all’atto del loro sostenimento alle specifiche voci delle immobilizzazioni materiali o immateriali cui si riferiscono. Forse, dato il confine labile tra le due, sarebbe stato meglio comprendervi tutto il costo degli incrementi delle immobilizzazioni tecniche. Gli interessi debbono essere imputati direttamente e autonomamente ai conti delle immobilizzazioni, immateriali o materiali e non alla voce 4. Qui lo schema si presenta carente perché necessariamente gli interessi capitalizzati (quindi trasferiti a futuri esercizi) devono essere inseriti nella NI e non alla

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voce 17(interessi e altri oneri finanziari…) perché lì verranno inseriti solo gli interessi passivi maturati nel corso dell’esercizio. Alla voce 5 (altri ricavi e proventi, con separata indicazione dei contributi in conto esercizio) si devono inserire ricavi e proventi che pur non riguardando l’attività tipica hanno per l’impresa carattere di ordinarietà (es. canoni di affitto). La voce è delimitata dalla 1(ricavi e vendite dalle prestazioni) e 20 (proventi, con separata indicazione delle plusvalenze da alienazioni i cui ricavi non sono iscrivibili alla 5). Alla voce 5 si possono iscrivere: ripristini di valore (a seguito del venir meno dei motivi che avevano determinato precedenti svalutazioni dei cespiti), assorbimento fondi (a seguito di manifeste esuberanze di accantonamenti in precedenza stanziati), emolumenti riversati da dipendenti, recuperi di spese diverse da terzi e da dipendenti. Nel gruppo B appare superflua la posta “altre svalutazioni delle immobilizzazioni” all’interno della voce 10 (ammortamenti e svalutazioni) perché è un evento tutt’altro che frequente; sicché sarebbe stato meglio inserirlo tra gli oneri straordinari. Per quanto riguarda le voci 12 e 13 è da ritenere che esse debbano accogliere accantonamenti di ogni genere con la sola esclusione di quelli esplicitamente iscritti in altre voci (es. trattamento di fine rapporto). A proposito del gruppo C si nota un certo squilibrio tra il rilievo dato ai proventi e quello ben minore dato agli oneri finanziari. Ad esempio evitando di inserire la voce 16 (altri proventi finanziari). Quanto al gruppo D - Rettifiche di valore di attività finanziarie - ci limitiamo a rilevare, oltre ad una certa ridondanza dell’analisi, il fatto che le rivalutazioni, di cui al punto 17, riguardano di norma lo storno, totale o parziale, delle svalutazioni effettuate nei precedenti esercizi, quando ne siano venute meno le ragioni che le avevano determinate. La NI, disciplinata dall’art 2427, raccoglie una gran quantità di dati, per lo più integrativi ed esplicativi delle voci dello SP e del CE. I punti esplicitamente indicati nel suddetto articolo possono essere ricondotti alle seguenti categorie:

• informazioni inerenti ai criteri di valutazione; • informazioni volte ad approfondire e analizzare i dati contenuti nei due schemi (SP

e CE); • altre informazioni.

Il primo punto si rende necessario perché i criteri di valutazione, pur se abbastanza analitici, lasciano spazi alle opzioni e alla discrezionalità degli amministratori. Questi pertanto devono dare conto in NI delle scelte fatte, anche in ordine alle modalità e alle tecniche applicative dei criteri prescelti. Nel secondo punto rientrano tra gli altri informazioni in merito: all’origine dei valori delle immobilizzazioni, ivi compresi costi di impianto, di ampliamento, di R&S, partecipazioni in imprese controllate e collegate. Nel terzo punto rientrano le informazioni riguardanti il numero medio dei dipendenti, i compensi agli amministratori e ai sindaci, categorie di azioni della società… Il bilancio deve essere corredato da una relazione degli amministratori sulla situazioni della società e sull’andamento della gestione, nel suo complesso e nei vari in cui essa ha

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operato. La vera peculiarità della Relazione è quella di tracciare un quadro d’insieme sullo stato e sulle prospettive dell’impresa, un quadro che riesca a spingere l’informazione oltre i numeri, oltre gli elementi quantitativi. In altre parole, la Relazione muove dalla giusta consapevolezza che in materia di bilancio i numero devono essere calati in un contesto e di conseguenza interpretati. Esso deve in ogni caso indicare i fatti di rilievo accaduti dopo la chiusura dell’esercizio e l’evoluzione prevedibile della gestione. Il problema è che io legislatore non ha previsto una forma standard, e spesso la Relazione si presenta come una mera elencazione di dati desumibili dal bilancio.

Capitolo 4 Sul piano tecnico contabile, il bilancio d’esercizio è uno strumento concepito tipicamente per la rilevazione del reddito di periodo e non per la determinazione del patrimonio dell’impresa. Il suo fulcro è il CE, nel quale attraverso i c.d. giudizi di competenza economica si realizza la correlazione tra costi e ricavi. In questo quadro, lo SP ha evidente natura derivata, nel senso che le attività e le passività non altro che la rappresentazione speculare e statica dei costi e ricavi che alla fine del periodo, cui il CE si riferisce, sono stati rinviati o anticipati. Quindi lo SP è il veicolo per trasferire da un esercizio all’altro i valori economici relativi ad operazioni in corso, quindi visto separatamente è del tutto inespressivo. Questo non esclude che rinunciando ad un’impostazione tecnicamente rigorosa il bilancio d’esercizio possa essere pragmaticamente costruito in modo che il patrimonio che vi risulta abbia un qualche significato: valutando il medesimo elemento può dover essere valutato in modo diverso se e quando concorre a determinare il reddito, e se e quando concorre a determinare il capitale. Ne deriva che il reddito non coincide più con la variazione che subisce il capitale per effetto della gestione, e si rendono necessari opportuni prospetti di raccordo. Che il legislatore intenda dar rilievo autonomo al patrimonio, lo si desume da varie circostanze, ivi compreso un taglio che definiremmo patrimonialistico all’intero art. 2426 cc: oltre alla presenza di qualche criterio strutturato in modo differenziato, nel senso prima chiarito, tutti i criteri sembrano incentrati, più che sulla competenza, sugli elementi attivi e passivi del patrimonio. Inoltre, la sua autonomia sembra confermata dall’importanza data all’iscrivibilità dei beni in bilancio prima che dei loro criteri di valutazione. Per quanto riguarda in particolare l’art. 2426, che riguarda i criteri di valutazione, il legislatore non ha scelto né la strada di stabilire pochi principi-cornice, con conseguente rinvio per le modalità applicative ai c.d. principi contabili, né la strada di dettare criteri analitici. Egli ha scelto una strada intermedia che produce non poche incertezze in sede applicativa. Questa incertezza esisteva anche prima, ma veniva superata con il rinvio ai “corretti principi contabili”.

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Questo stato di cose esalta la funzione della NI, che dovrà contenere molte informazioni in merito ai principi contabili. Di seguito i criteri di valutazione per le singole categorie:

• Immobilizzazioni e iscrizione in bilancio: le immobilizzazioni tecniche3 sono valutate al costo di acquisto o di produzione. Se la durata della loro utilizzazione è limitata, debbono essere sistematicamente ammortizzati. Ove alla chiusura dell’esercizio, il loro valore risulti durevolmente inferiore al costo, o se ammortizzabili, al costo ridotto dell’ammortamento effettuato, esse debbono essere iscritte a tale minor valore. Nel costo di acquisto si computano anche i c.d. costi accessori costituiti dai costi di trasporto, di assicurazione, tributari, per collaudi, assistenza tecnica, ecc. Il costo di produzione comprende a sua volta tutti i costi direttamente imputabili al prodotto. Tale costo, può comprendere altri costi, per la quota ragionevolmente imputabile al prodotto di fabbricazione(anche gli oneri finanziari). Su questo punto, il legislatore lascia ampia facoltà agli amministratori, perché consente loro di decidere se e quali componenti indiretti inserire nel computo del costo. Tuttavia, proprio l’imputazione degli oneri finanziari, può portare delle distorsioni, nelle imprese ad esempio che realizzano impianti in economia, che non possono imputare alcunché per il solo fatto che, avendo una struttura finanziaria incentrata praticamente sul capitale proprio, non contabilizzi oneri finanziari, contrastando con il trincio di neutralità perseguito dal legislatore. Ponendo un interesse figurativo si potrebbe ovviare al problema, che tuttavia non è previsto. Si pone, tuttavia, il problema della loro iscrivibilità nel bilancio (principalmente per gli elementi immateriali) e il legislatore non prevede un dovere ma solo una facoltà (possono essere iscritte dice l’art 2426) subordinata ad un insieme di condizioni e vincoli. Si tratta delle voci riguardanti: costi di impianto e ampliamento, costi di R&S e pubblicità, avviamento. Per tutte e tre le voci, l’iscrizione è subordinata al consenso del collegio sindacale, ed è prevista una durata massima dell’ammortamento non superiore ai 5 anni per le prime 2, entro 5 anni per l’avviamento con possibilità di allungamento per certi vincoli. Questa distinzione all’interno delle immateriali forse è dovuta al fatto che sono sprovviste della titolarità di ben precisi diritti(come accade ad es. per i diritti, concessioni…). Desta qualche dubbio che il legislatore lasci agli amministratori la facoltà di scegliere se imputare l’avviamento interamente all’esercizio, nel quale è stato sostenuto il relativo costo, o se iscriverlo nell’Attivo patrimoniale per ripartirlo poi tra più esercizi. Sarebbe stato meglio imporre l’ammortizzabilità, solo in situazioni eccezionali si doveva scegliere la prima ipotesi (acquisizione di un ramo di azienda rivelatosi subito un pessimo affare). Per quanto riguarda i costi di impianto e ampliamento la cautela del legislatore verso l’ammortamento imposto per legge appare condivisibile. L’iscrizione

3 Come è noto le immobilizzazioni si dividono in materiali, immateriali e finanziarie. Le immobilizzazioni tecniche comprendono solo le prime due.

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nell’attivo e successivo ammortamento dovrebbe essere limitata ad es. ai costi di pubblicità straordinaria e di grande impegno finanziario, ai costi di impianto direttamente connessi con la costituzione dell’impresa e con l’avvio dell’attività. Vanno anche brevemente considerati l’acquisto in blocco di un complesso di beni (es. acquisto di un’azienda o di un ramo di azienda) e le c.d. manutenzioni straordinarie. Per quanto riguarda il primo punto viene lasciata ampia libertà agli amministratori, perché è troppo complessa la scomposizione nell’ambito degli elementi immateriali, oltre che con criteri rigidi non si riesce adeguatamente a tenere conto dell’avviamento. Lo stesso discorso è valido per la seconda a patto dalla manutenzione derivi un allungamento della durata dei beni o un oggettivo aumento della loro efficienza. Agli effetti dell’ammortamento si pongono i seguenti problemi: individuazione dei beni da ammortizzare, determinazione del quantum da ammortizzare, scelta delle modalità di computo delle quote da imputare. Al primo punto sono ammortizzabili quei beni la cui utilizzazione da parte dell’impresa è limitata nel tempo (non semplicemente aventi durata limitata come ad es. macchina industriale). Quanto al secondo punto, la norma non fornisce alcuna indicazione, ma è da ritenere che tale valore sia pari al costo dell’immobilizzazione ridotto del previsto valore di recupero all’atto della sua dismissione, stimato a moneta costante. Nel caso di fabbricati, il costo da ammortizzare deve essere quello solo delle costruzioni e non del tutto (incluso il terreno), ma tenendo conto anche delle demolizioni, bonifica, ecc. Per il terzo punto, la norma prevede che l’ammortamento debba essere fatto sistematicamente in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione. Ciò significa che, quando si iscrive una immobilizzazione nello SP, occorre predisporre un piano di ammortamento del relativo costo e le rispettive quote vanno imputate al singolo esercizio, indipendentemente dal suo andamento economico. Il piano deve prevedere il completamento dell’ammortamento nell’arco di tempo che segna la possibilità di utilizzazione del bene e le quote annuali debbono via via tener conto di tale residua possibilità di utilizzazione. Le quote possono essere costanti o variabili secondo parametri definiti. E’ dubbio che si possa adottare un criterio con quote crescenti nel tempo, perché contrasterebbe con il principio della prudenza. Un cambio di criterio o coefficienti è possibile, quando il valore residuo da ammortizzare appaia, oramai largamente inferiore alla residua possibilità di utilizzazione del lavoro. Se alla data di chiusura dell’esercizio, l’immobilizzazione risulta durevolmente di valore inferiore a quello come sopra determinato, essa deve essere iscritta a tale minor valore, il quale però non può essere mantenuto nei successivi bilanci se sono venuti meno i motivi della rettifica. Se occorre ridurre drasticamente il periodo dell’ammortamento, in conseguenza della sopravvenuta riduzione della durata dei cespiti bisogna cambiare i coefficienti di ammortamento, invece se si verifica una irreversibile tendenza a flettere dei margini lordi della gestione, e quindi della capacità di ammortamento dell’impresa l’unica soluzione è la svalutazione.

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• Partecipazioni: come si è visto le attività finanziarie sono iscritte sia nell’AC che nelle Immobilizzazioni, e alla diversa collocazione fa seguito un diverso criterio di valutazione. Infatti, nelle immobilizzazioni la verifica deve tendere a stabilire che il “valore di costo” non abbia subito una durevole diminuzione, mentre per le poste nell’AC la verifica deve tendere a stabilire che il costo non sia superiore al valore di realizzazione desunto dall’andamento di mercato. All’interno delle immobilizzazioni, per le partecipazioni diverse dalle controllate e collegate, si segue il criterio generale del costo, mentre per le controllate e collegate si può scegliere anche il metodo del patrimonio netto. Tuttavia anche quando si adotta il criterio del costo non può prescindersi dalla determinazione del valore della partecipazione in base al criterio del patrimonio netto, non foss’altro per verificare se è in linea o meno e motivare la scelta di tale metodo. Con il criterio del patrimonio netto il valore dei una partecipazione è dato dalla corrispondente frazione del patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio della società partecipata, previe rettifiche. Tali rettifiche riguardano la detrazione dei dividendi e quegli aggiustamenti per eliminare gli utili o perdite infragruppo non realizzati effettivamente . Se il patrimonio netto della partecipata è diminuito allora la differenza viene imputata a CE come componente negativa di reddito; se è superiore viene iscritta in una speciale riserva non distribuibile, mentre se è un recupero viene inserito tra gli elementi positivi del reddito. Nel caso sia il primo esercizio la partecipazione può essere iscritta al maggior valore del PN piuttosto che al costo. Mentre se è inferiore non bisogna procedere all’immediata svalutazione. Nel caso di attivo circolante si deve scegliere tra costo o andamento di mercato. Del criterio del costo si può dire che il richiamo alla durevole riduzione del valore dell’immobilizzazione di fatto lascia gli amministratori arbitri di decidere se e come operare una svalutazione. Il criterio del Pn ha il vantaggio di rappresentare fedelmente nel bilancio del socio le vicende della società partecipata e dunque il suo effettivo valore. Tuttavia proprio in questo automatismo , in questo meccanismo si annida il punto debole, con l’implicito ma errato convincimento che la corrispondente aliquota del patrimonio netto costituisca una realistica rappresentazione del valore di una partecipazione. Inoltre, il metodo in questione può condurre a frettolose e del tutto ingiustificate svalutazioni di partecipazioni, suscettibili di produrre danni non lievi all’immagine e all’economia dell’impresa che le detiene. Per l’applicazione del Pn, infine, occorre di regola disporre di alcuni dati contabili delle partecipate, i quali non sempre sono reperibili nei rispettivi bilanci. Sembra preferibile quindi il criterio del costo sia perché in linea con il sistema delle valutazioni voluto dal legislatore, sia perché influenza in misura minore i risultati di esercizio con elementi del tutto anomali come gli oneri derivanti

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dall’allineamento, sia lascia spazio agli amministratori per un’analisi economica delle partecipazioni. La distinzione tra AC e Immobilizzazioni è dovuta alla decisione di vendere o meno la partecipazione. Ed è chiaro che a quel punto non ha più senso distinguere tra partecipazioni in società controllate e collegate: ha senso solo cercare di prevedere nel modo più attendibile il probabile valore di realizzo.

• Crediti: I crediti devono essere iscritti secondo il valore presumibile di realizzazione. Questa disposizione si riferisce a tutti i crediti, senza alcuna distinzione di debitori. Essi non debbono essere trasferiti come le partecipazioni dalle Immobilizzazioni all’AC, ma restano nella loro classe originaria; e se un credito a breve diventa di fatto un credito a lunga scadenza, per la lunga dilazione accordata ad un cliente moroso, resta nell’AC, salvo indicare che è esigibile oltre i 12 mesi. Uno degli aspetti da stabilire, e di cui la norma tace, è se i crediti con dilazione vadano iscritti al loro valore nominale o se debbano essere opportunamente attualizzati, con conseguente imputazione, diretta o indiretta, della relativa differenza al CE dell’esercizio nel quale il credito viene concesso o nel quale viene concessa l’agevolazione al debitore. Pur essendo in astratto più corretto attualizzare, ciò potrebbe configgere con la rappresentazione veritiera e corretta. Nel caso di dilazioni di pagamento superiori a quelle normali ai clienti si rende necessario scorporare dal prezzo negoziato la parte relativa alla remunerazione del finanziamento ed attribuirla agli esercizi successivi per competenza, perché non facendolo il risultato dell’esercizio in cui si effettua la vendita sarebbe gonfiato a danno degli altri. Nel caso di dilazioni ad altre imprese del gruppo l’attualizzazione non ha alcun senso, ove si consideri che tali finanziamenti hanno durata indeterminata e condizioni frequentemente mutevoli nel tempo. Nel caso invece di crediti scaduti e sistemati con lunghe dilazioni di pagamento, senza interessi o con interessi a tassi inferiori di quelli correnti, si tratta di una vera e propria perdita, perché l’immediato incasso del credito sarebbe possibile solo con un forte sconto, e la diluizione su più esercizi rappresenta un modo per sommergere tale perdita. Quindi essa deve essere opportunamente esplicitata e posta a carico dell’esercizio in cui si procede alla “sistemazione” del credito. Passiamo alla conversione dei crediti in valuta estera4. Agli effetti della conversione hanno rilievo: il cambio del giorno in cui il credito è sorto ed è stato iscritto in contabilità; il cambio del giorno di chiusura dell’esercizio; e infine il cambio probabile(detto anche cambio presunto) all’epoca della riscossione del credito desunto dall’andamento di mercato. Il primo che è il cambio storico dovrebbe costituire il limite massimo di conversione. In sede di bilancio, una volta verificata l’esigibilità del credito(e fatta eventualmente una svalutazione) si confronta il cambio storico con il cambio di fine

4 Vedere dispense Fasoli per maggiori dettagli.

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esercizio e con quello desunto dall’andamento del mercato. Se il cambio storico è inferiore, esso viene assunto quale cambio di conversione. In caso contrario, si applica il cambio più basso (tra quello di fine esercizio e quello desunto dall’andamento di mercato) e la conseguente differenza viene addebitata al CE. Il ragionamento opposto in caso di debiti. Sennonché, nell’ambito della stessa valuta e delle stesse scadenze, appare ragionevole compensare debiti e crediti e trattare la sola eccedenza, ossia la c.d. posizione netta nella singola valuta. Se vi è una differenza negativa essa va addebitata al CE, mentre se è positiva viene rinviata a favore dei successivi esercizi nella Riserva Indisponibile5.

• Altre attività finanziarie: Azioni proprie: con l’espressione “altre attività finanziarie” ci riferiamo a tutti quegli elementi attivi, diversi da crediti e partecipazioni, che nello schema di SP previsto dall’art. 2424 cc, sono iscritti nelle voci azioni proprie e altri titoli, sia tra le Immobilizzazioni che nell’AC. Senza alcuna pretesa di completezza, consideriamo le più importanti. Secondo la nostra legislazione, la società non può acquistare azioni proprie se non nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili. A fronte delle azioni proprie iscritte nell’attivo dello SP, deve essere costituita una Riserva indisponibile di pari importo, la quale deve essere mantenuta finché le azioni non siano trasferite o annullate. Le azioni proprie dovrebbero essere valutate al costo, eventualmente ridotto per tener conto: delle durevoli riduzioni di valore che esse avessero subito (nel caso in cui tali azioni sono iscritte tra le Immobilizzazioni), oppure dell’andamento del mercato (nel caso in cui esse sono iscritte nell’AC). A questo proposito, si pone il problema di stabilire se l’eventuale svalutazione debba essere imputata alla Riserva indisponibile o al CE. La seconda sembra più adatta in modo da tenere indenne il patrimonio netto da effetti negativi di vicende riguardanti singoli elementi attivi. Se l’acquisto di azioni proprie è fatto da società quotate e in quantità relativamente limitata rispetto al flottante, non ci sono particolari motivi per trattare le dette azioni in modo diverso da qualunque altra attività patrimoniale. Non altrettanto si può dire di società non quotate a ristretta base azionaria. Essa può infatti condurre ad iscrivere, e a mantenere indefinitamente nello SP, una posta priva di concrete prospettive di realizzo, oltre che del tutto infruttifera, con il risultato che il Pn ne risulterebbe sopravalutato. Quello appena segnalato è un rischio non trascurabile, ove si consideri che l’acquisto di azioni proprie può essere lo strumento attraverso il quale i soci di maggioranza procedono al riassetto proprietario della società utilizzando risorse della società per liquidare un socio riottoso. Il vantaggio dell’acquisto di azioni proprie è evidente laddove si evitano gli oneri fiscali conseguenti alla distribuzione dei dividendi, e consente alla società di presentare un bilancio con un patrimonio netto superiore rispetto a quello che si avrebbe con la distribuzione degli utili.

5 Vedi dispense.

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Attualmente il limite all’acquisto di azioni proprie è il 10%. Per quanto riguarda le obbligazioni, è ben noto che vi è una stretta connessione tra il prezzo di emissione, il valore di rimborso e il tasso nominale di interesse. I titoli vengono di solito emessi ad un prezzo inferiore al valore di rimborso, il quale a sua volta è pari di regola al valore nominale e a un tasso nominale inferiore a quello corrente sul mercato per gli impieghi. Se il tasso corrente cresce, la quotazione del titolo(obbligazione) tenderà ad indebolirsi e potrà scendere anche al di sotto del prezzo di emissione. In ogni caso in prossimità della scadenza si porterà intorno al valore di rimborso. E’ superfluo precisare che l’ampiezza di oscillazione della quotazione dipenderà, non solo dall’intensità di aumento del tasso corrente, ma anche dal momento, rispetto alla vita del titolo, in cui l’aumento si verifica. Gli effetti sono diversi (più forti) il primo anno dall’ultimo. Un caso particolare di titoli obbligazionari sono i c.d. zero coupon, che sono titoli che non prevedono il pagamento periodico di interessi: questi sono interamente incorporati nel valore di rimborso e la loro complessiva entità è data dalla differenza tra detto valore e prezzo di emissione. Le considerazioni svolte si possono estendere anche ai titoli non quotati. La valutazione nel bilancio non deve essere limitata dal costo, che quindi non costituisce una soglia invalicabile. Infatti, al momento del sostenimento del costo si sa già l’entità dei ricavi(valore di rimborso e cedole), inoltre la distribuzione dei ricavi è nota nel tempo. Ad esempio con uno zero coupon a dieci anni, si avrebbe un costo dal primo anno al penultimo anno, e un utile l’ultimo. Tuttavia, così facendo si andrebbe contro il principio di competenza (l’utile compete anche agli altri anni). Bisogna quindi spalmarlo, e supporre che lo zero-coupon paghi cedole annuali, realizzando il principio di neutralità. Anche in questo caso, però si può riscontrare una distorsione nelle immobilizzazioni costruite in economia. Nel caso in cui la valutazione di bilancio va oltre il costo di acquisto, occorre operare in ogni caso estrema cautela e dimostrare il pieno rispetto del principio della prudenza. Vale anche il contrario, dato che all’atto del rimborso l’obbligazione avrà comunque un valore prestabilito (superiore al costo) è prassi diffusa non svalutare i titoli obbligazionari iscritti tra le Immobilizzazioni. Per quanto in linea con la normativa vigente, questa impostazione presenta un problema di carattere economico, soprattutto ai fini del reddito distribuibile. Infatti, non svalutarla significa come visto prima , diluire nel tempo una vera e propria perdita. Infine, arriviamo ai warrant. Pur essendo la categoria molto eterogenea, essi presentano un carattere in comune: di norma il loro acquisto non genera uno specifico costo, perché essi non sono venduti come prodotti autonomi, ma sono offerti congiuntamente ad altre attività finanziarie (azioni o obbligazioni). A questo proposito, va segnalato che spesso i warrant sono oggetto di autonoma negoziazione. Ciò accade quando l’operazione prevede che dopo l’emissione, il prodotto complesso offerto unitariamente ad un unico prezzo, venga suddiviso

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nelle sue componenti, ciascuna delle quali ha una sua vita autonoma. In questo caso, le due componenti dovranno essere iscritte in poste diverse. Spesso ad esempio si ha che le obbligazioni vengano emesse ad un tasso inferiore proprio in virtù del warrant, e quindi il valore di quest’ultimo può essere calcolato attualizzando la minore remunerazione offerta dalla sola obbligazione. Altre volte però la ripartizione è più difficile, ed è opportuno non attribuire in bilancio valore ai warrant, se non vi sono elementi di attendibilità.

• Rimanenze di esercizio: le rimanenze di esercizio o di magazzino (merci, prodotti, semilavorati, materie prime…) sono valutate al costo di acquisto o di produzione o al valore di realizzazione desumibile dall’andamento di mercato, se minore. Analogamente agli altri elementi dell’attivo patrimoniale, tale minor valore non può essere mantenuto se ne sono venuti meno i motivi. Nel caso di beni fungibili (materie prime e merci), ossia di beni che spesso vengono acquistati, nell’ambito dello stesso esercizio, in momenti diversi a prezzi diversi, la norma cita alcuni possibili procedimenti per la valutazione: media ponderata, LIFO, FIFO. Se il valore ottenuto attraverso uno di questi procedimenti differisce in misura apprezzabile dai costi correnti alla chiusura dell’esercizio, la differenza deve essere indicata, per categoria di beni, nella NI. La normativa afferma che nelle modalità di determinazione del costo i costi di distribuzione non possono essere computati nel costo di produzione, e rinvia a quanto detto per le immobilizzazioni sui costi diretti e indiretti(vedi sopra).

• Lavori in corso su ordinazione: costituiscono, con le partecipazioni in imprese collegate e controllate, le sole poste per le quali sono previsti criteri alternativi a quello del costo. L’art 2426 prevede che essi possono essere iscritti sulla base dei corrispettivi contrattuali maturati con ragionevole certezza. I lavori in corso su ordinazione possono essere quindi valutati o con il criterio del costo, alla stregua di un qualunque prodotto in corso di lavorazione, o con il criterio del corrispettivo contrattuale maturato. Nel primo caso, come al solito è necessario individuare i componenti da imputare al lavoro in corso. Per essere iscritto, tuttavia, nell’attivo patrimoniale occorre prima verificarne l’effettiva ricuperabilità. Solo se la verifica dà esito positivo viene iscritto, altrimenti dovrà essere ridotto nei limiti necessari perché il completamento della commessa non generi perdite a carico degli esercizi successivi. Con il criterio del corrispettivo maturato, invece, gli utili si distribuiscono sugli anni di realizzazione della commessa secondo vari procedimenti, caratterizzati dall’intento di correlare ricavi maturati e costi sostenuti. Tra gli altri ricordiamo: rapporto fra costi sostenuti e costi totali, ore dirette (rapporto di ore dirette già effettuato su quelle totali), quantità fisiche (rapporto quantità già realizzata su quantità complessiva). Il motivo di tanta flessibilità è dovuto alla peculiarità della posta. E’, infatti, noto il ricavo che si conseguirà dall’opera, vi è insomma un valore di realizzo sotto certi aspetti “certo”. La “certezza” del ricavo, non è sufficiente a rendere certo anche

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l’utile della commessa. Soprattutto, nelle commesse di lunga durata, con la formula chiavi in mano, le incertezze intorno ai costi sono notevoli e rendono problematica una stima attendibile dell’esito economico della commessa. Quindi questo potrebbe essere un problema con il criterio del c. maturato. A sostegno di tale criterio c’è che esso elimina le gravi distorsioni che, sui risultati di esercizio, potrebbe causare il criterio del osto, con ovvi vantaggi sulla significatività dei relativi bilanci, e il fatto che è conforme al principio della competenza. Anche se quest’ultimo aspetto appare discutibile perché la formazione dell’utile di commessa è un processo essenzialmente unitario, con le sue discontinuità, le sue accelerazioni e decelerazioni, con le sue sopravvenienze, con i suoi imprevisti, che mal sopporta una segmentazione per esercizi finché non è avvenuta. Inoltre, tale principio cozza con quello secondo cui “si possono indicare esclusivamente gli utili realizzati alla data di chiusura dell’esercizio”.

• Altre poste: La norma stabilisce che il disaggio su prestiti deve essere iscritto nell’attivo e ammortizzato in ogni esercizio per il periodo della durata del prestito. Nel silenzio della norma in merito alle modalità dell’ammortamento, si deduce che è possibile adottare diversi procedimenti. E da ritenere che l’aggio vada trattato allo stesso modo nel silenzio della norma. La norma prevede che le attrezzature industriali e commerciali, le materie prime, sussidiarie e di consumo, possono essere iscritte nell’attivo ad un valore costante qualora siano costantemente rinnovate, e complessivamente di scarsa importanza in rapporto all’attivo di bilancio, sempreché non si abbiano variazioni sensibili, nella loro entità, valore e composizione. Con tale norma entra in bilancio il senso della “relatività dei numeri”, laddove i fatti si giudicano anche in base alla loro rilevanza e alla loro consistenza.

Per concludere, i criteri dettati dal legislatore riguardano solo gli elementi attivi del patrimonio, e neanche uno i passivi. E questo non è senza problemi, soprattutto in materia di valutazione degli impegni e dei rischi.

Capitolo 5 La nostra normativa in materia di bilancio solo in apparenza è articolata in un fine e in un consequenziale e funzionale corpo di regole.. In realtà, essa si risolve puramente e semplicemente in un corpo di regole costruito da un lato per tener conto delle prassi contabili anche internazionali e dall’altro si ispira alla prudenza, alla ragionevolezza… In questo quadro non ha molto senso discutere circa la coerenza del corpo di regole con il fine del bilancio. Vi è, tuttavia, un punto su si può dire che lo strumento appare chiaramente inadeguato al fine: la Situazione finanziaria. La normativa non prevede alcuno strumento per la sua rappresentazione, e probabilmente il legislatore ha ritenuto che una tale rappresentazione potesse essere inglobata nella situazione patrimoniale, attraverso adeguate analisi di alcune poste finanziarie, in essa contenute(disponibilità, debiti e crediti), opportunamente

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arricchite con dati iscritti nella NI. Si sottolinea che comunque tale metodo non è sufficiente ad avere un’idea compiuta e si rende necessario (almeno) un apposito Rendiconto finanziario. Nelle sue linee generali, tale rendiconto è un prospetto che contempla tutte le operazioni svolte nell’esercizio in quanto generatrici di flussi e incassi e pagamenti, di movimenti di debiti e crediti. In generale la sua struttura dovrebbe cadere su quella che riesca a dare distinta evidenza alle risorse finanziarie generate (o assorbite) dai tre grandi blocchi in cui si possono raggruppare le operazioni di gestione: normali operazioni d’esercizio, operazioni di investimento e disinvestimento in Immobilizzazioni tecniche e finanziarie, operazioni di acquisizione e rimborso di finanziamento. Pur riguardando solo operazioni passate, tale rendiconto che non ha il potenziale informativo di una situazione finanziaria, può rivelarsi di grande utilità. Vi sono alcuni casi, come ad esempio rilevato nelle partecipazioni e nei lavori in corso, dove vi è una differente valutazione dello stesso cespite, e più in generale altri dove un valore economico connesso con la normale attività di gestione viene imputato in tutto o in parte al Patrimonio senza passare per il CE. Si tratta di una deviazione da un principio consolidato nella tecnica di determinazione del reddito; principio secondo il quale vanno imputate al Patrimonio le sole variazioni estranee alla gestione (tipicamente: aumenti di capitale sociale a pagamento e rimborsi per riduzioni), mentre le variazioni derivanti direttamente o indirettamente dalle operazioni di gestione incidono sul Patrimonio attraverso il risultato economico dell’esercizio. Due sono le ragioni di questa deviazione: da una parte ciò è causato dalla rigidità dello schema adottato che ha ridotto l’area degli accantonamenti e limitata solo ai rischi ed oneri. Ne è derivato un allargamento dell’area del Patrimonio netto che finisce per accogliere poste alle quali è assai difficile riconoscere natura patrimoniale. La seconda è forse quella di dare un ruolo diverso da quello limitato che le è concesso nel processo contabile di determinazione del reddito d’esercizio. Inoltre, poiché la logica del bilancio, come detto, è quella del rinvio dei costi senza il vincolo della congrua remunerazione, ad esso non si può che attribuire un pseudo -significato contabile - descrittivo: eccedenza delle disponibilità monetarie e degli investimenti in essere sulle passività effettive(debiti e accantonamenti per oneri futuri) e potenziali (accantonamento per rischi). Il che è poco più di una tautologia. Per quanto riguarda il risultato d’esercizio, la logica di bilancio, ci permette di trarre solo qualche limitata indicazione di tipo comparativo, sull’andamento dell’esercizio cui si riferisce(e non anche distribuibilità di dividendi, vedi argomentazioni capitoli precedenti). Tuttavia, per il Codice civile il risultato d’esercizio ha natura di reddito consumabile, sicché esso può essere staccato anche interamente dal patrimonio per essere distribuito ai soci, anche se ciò contraddice tutta l’impostazione del c.c. Il legislatore ha ritenuto che valutando con prudenza le singole attività e passività, ne sarebbe scaturito automaticamente una prudente determinazione del patrimonio netto e, quindi, un patrimonio di bilancio certamente non superiore al suo corrispondente valore economico. Purtroppo, non è così poiché l’impresa non è un puro e semplice aggregato di

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attività e passività. L’impresa, anche solo per limitarsi al solo profilo economico-patrimoniale, è una struttura produttiva, con le sue rigidità e i suoi costi che corrono con il correre del tempo finché l’impresa è in vita e che sono indipendenti dall’entità e dalla composizione del patrimonio. Osservato nel suo complesso, il bilancio si presenta più che come un sistema di parti tra loro ben coordinate, come un ampio e articolato contenitore di dati, fatti, notizie… Quindi non ha una sua specifica capacità informativa, ma solo potenziale, e tocca ai suoi utilizzatori trasformare questa potenzialità in effettiva informazione. Il bilancio presenta come vantaggio l’uniformità che si compendia in una relativa comparabilità e aggregabilità di tutti i bilanci, ma proprio questo è anche uno svantaggio non essendo sufficientemente snello e calibrato sulle singole realtà aziendali come potrebbe esserlo uno schema settorializzato. All’art 2441, nella parte riguardante l’aumento di capitale sociale con esclusione del diritto d’opzione, si afferma :“La deliberazione determina il prezzo di emissione delle azioni in base al valore del patrimonio netto, tenendo conto per le azioni quotate in borsa anche dell’andamento delle quotazioni nell’ultimo semestre”. Sul piano concettuale, sembra però più ragionevole assumere che il prezzo di emissione debba discendere più dall’andamento della quotazione che dal patrimonio netto. La ragione è che, in assenza del diritto di opzione, il diritto di emissione per non danneggiare i vecchi soci, dovrebbe in qualche modo rispecchiare il valore economico dell’impresa. Il problema di tale secondo metodo si pone, quando la quotazione sia inferiore al patrimonio netto, che potrebbe danneggiare i vecchi soci, e non vi è concordia da parte dei giuristi se si possa fare o meno tale operazione. L’art 2437 riguarda il diritto di recesso, e afferma che la liquidazione del socio viene effettuata in base ai corsi di borsa, e se non è quotata, in base al patrimonio netto(come nel caso precedente). Rispetto all’art. visto prima si nota una asimmetria non spiegabile. All’art 2446 si afferma che il capitale sociale deve essere ridotto quando risulta diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite. L’art 2447 afferma che se per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo stabilito dall’art 2327, allora si deve necessariamente aumentarlo oppure trasformare la società. Questo principio pur corretto, può portare ad una estromissione dei soci di minoranza, laddove questi non siano in grado di sottoscrivere le azioni per ricostituire il capitale, quindi questo automatismo può essere deleterio senza garanzie.