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CANTO DEI VERDI MARCI

di Cristiano Pugno e Gianluca Santini

Autori: Cristiano Pugno, Gianluca Santini

Realizzazione eBook: Gianluca Santini

Copertina di: Giordano Efrodini

Logo Risorgimento di Tenebra di: Giordano Efrodini

Quest'opera è concessa in licenza sotto laLicenza Creative Commons Attribuzione -

Noncommerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

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IndiceDue parole prima di iniziare......................4Capitolo 1 - L’infinito..................................7Capitolo 2 - Alla luna...............................13Capitolo 3 - A Silvia.................................17Capitolo 4 - Il Risorgimento....................28Capitolo 5 - Il sabato del villaggio...........35Capitolo 6 - La quiete dopo la tempesta. 50Epilogo.....................................................55

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Due parole prima di iniziare

Questo racconto, scritto a quattro mani, fa partedel progetto di scrittura collettiva Risorgimento diTenebra, ideato dal gruppo Moon Base. Il progettoprevede racconti auto-conclusivi, oppurestrutturati come racconti a puntate sui blog,ambientati nel 1800 italiano, ma contaminati daelementi fantastici. In particolar modo l’idea dacui nasce “Canto dei Verdi Marci” è quella dinarrare le gesta di un Giacomo Leopardicompletamente diverso da quello che tutti noiconosciamo, combattivo ed energico e calato in uncontesto in cui i morti resuscitano e camminanosulla Terra. Una storia dai toni piuttostoscanzonati, che probabilmente lo starà facendorivoltare nella tomba.

Per avere maggiori informazioni sul progettoRisorgimento di Tenebra si possono visitare leseguenti pagine web: la pagina su Facebook e lapagina statica ufficiale sul blog Book andNegative.

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Sappi che il morire, come l’addormentarsi, non sifa in un solo istante, ma per gradi.

(Giacomo Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch edelle sue mummie)

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Capitolo 1 - L’infinito

Apparvero in fondo alla valle a pomeriggioinoltrato.Dalla cima di quel colle solitario li osservò,piccole formiche brulicanti. Nuova speciedell’inferno terrestre. Trascinavano i piedi,impacciati, alcuni strisciavano direttamente sulterreno, aggrappandosi con le unghie luride. Ilprofondo silenzio del panorama rotto dai lorocontinui lamenti cavernosi, dal raspare delle loromani, dal ciondolare delle loro gambe.Leopardi si alzò, avanzò oltre la piccola siepe eguardò l’orizzonte. Sempre più numerosi siaggiravano ai piedi dell’altura, pian pianoaccerchiandola. La pelle verdastra era squarciatain più punti, in tagli e morsi purulenti, grondantisangue. I vestiti luridi e strappati, macchiati diterra, segno del luogo in cui erano sepolti. Le ditarese nere dall’essere usciti dalla tomba.Leopardi perse un battito, a vederli così numerosi.Mai così tanti se ne era trovati di fronte, el’impressione faceva spaurire il cuore. Strinse il

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bokken1, facendo appello a quello che avevaappreso negli ultimi mesi di sopravvivenza. Uscirevivo da quell’immensità di corpi indecomposizione sarebbe stata un’impresa non dapoco, per il poeta e per un qualunque essereumano. Perdere un colpo avrebbe significato lasconfitta, il naufragio in quel mare di membradecadenti.Salirono lungo il pendio, rivolgendo lo sguardoverso il poeta che li attendeva.Li osservò camminare attorno alle piante.Qualcuno di essi sbatté contro i tronchi deglialberi, ruzzolò giù per il colle e si fermò in unapozza rossa. Gli altri avanzavano imperterriti,anticipati dal loro canto di morte e di fame.Leopardi si mosse, puntando il più vicino dei verdimarci. Alzò il bokken e lo calò su quel volto didonna, attraverso le poche ciocche di capelli moririmasti, la fronte a brandelli, la bocca storta ericolma di vermi. Il volto della morta si aprì,riversando sangue tutt’attorno, inzaccherando ivestiti del poeta. L’arma uscì e colpì di nuovo, da

1 Il bokken è una riproduzione essenziale della spada giapponese di legno.

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sinistra a destra, e la testa si spappolò del tutto.Materia grigia e rossa scivolò giù, lungo il collo efin nel petto della donna. Leopardi seguì con losguardo la caduta di quel corpo un tempofemminile.«La vostra fragilità vi uccide, messeri.»Colpì ancora, girando su sé stesso, affondando illegno della spada nel cranio di un bambino. Ivestiti laceri mostravano un petto squarciato,attraverso cui era possibile contare le ossa.Leopardi infilò quell’apertura, passando il non piùinnocente da parte a parte. Quando ritrasse l’arma,il legno era lurido di rosso e nero.Sentì che uno di quelli si stava avventando su dilui da destra, grugnendo come un animale. Il poetafissò quello sguardo spento, gli occhi velatidell’oltretomba, trattenne il respiro per non sentireil fetore della decomposizione.L’essere lo afferrò per il vestito, con unghiespezzate e in alcune dita mancanti del tutto.Ricevette dal combattente un calcio alle ginocchiache lo piegò a terra, poi venne inchiodato conl’arma insanguinata.Il poeta avanzò in quella folla di ributtanti esseri,

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scrivendo per tutti il medesimo destino. Il bokkencalava indifferentemente su tutti, spargendo sulterreno del colle cervella e sangue, interiora e pus.Rallentò, trovandosi di fronte uno scheletro, leossa velate del rosso della vita che ormai erafuggita da quel corpo, brandelli di vestiti ancorasventolanti sulle braccia, terra nelle orbite vuote.Mentre metteva a tacere una ragazza sulla sinistra,Leopardi caricò il pugno destro e spaccò il collodello scheletro. Il teschio rotolò giù, si bloccò tra irovi di un cespuglio. Il resto delle ossa vennesbriciolato dallo stivale del combattente.«Di natura fallace, non resistete per nulla. Mideludete, a volte.»Polvere rimase di quel morto, mentre il poetaavanzava verso la valle. I morti gli si stringevanoattorno, spalancando le fauci, mostrando dentistorti e neri. Non facevano altro che rendersi piùvulnerabili, lanciandosi verso di lui, cadevanosotto i colpi dell’arma, ormai irriconoscibile dagliumori strappati ai verdi marci durante la discesa.Arrivò in fondo, scalciando via una coppia digemelle che gli si era avventava sulle gambe. Lepiccole, vestite per metà, si rialzarono e

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attaccarono nuovamente, più rapide dei loro simili.Il bokken calò sulla prima delle due e trovòresistenza. Affondò dentro il cranio, ma poi siincastrò: Leopardi dovette far leva con lo stivaleper staccare la testa della bambina dalla sua arma.Attaccò subito la seconda, che nel frattempo si eraavvicinata, ma il colpo giunse flebile sulla guanciadella morta, l’unico effetto fu quello di spostare lapelle verso la bocca. Pieghe di pelle flaccida siaggrovigliarono ai lati delle labbra, mentre vicinoall’attaccatura dei capelli iniziava a spuntare ilbianco dell’osso sottostante. L’occhio destro dellabambina scomparve, annichilito da quel ritrattocontro natura. Leopardi attaccò ancora e questavolta poté osservare il cranio cadere sul terreno.Il poeta respirò a pieni polmoni, investito dallapestilenza mortale che sopraggiungeva dalle suespalle. Poggiò la spada sulla spalla, mirandol’orizzonte della pianura che si apriva davanti aisuoi occhi, e nel farlo sentì di aver colpito. Si giròdi scatto, trovandosi di fronte un vecchio la cuipelle era talmente tirata sulle ossa da essere quasitrasparente. Il bokken aveva colpito sulla testa delmorto quando lo aveva poggiato sulla spalla, e la

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pelata dell’anziano era solcata lievemente dalsegno dell’arma. Leopardi picchiò col pugno,lasciando cadere il vecchio e premendo con lostivale sul petto fino ad avvertire lo spezzarsi dellacassa toracica. Il piede affondò nel tripudio delrosso, dovette smuoverlo per riuscire adisincagliarlo dal torace del morto.Il poeta combattente guardò cosa aveva lasciatosulla collina. Il versante da cui era scesomanifestava cadaveri in pozze di liquidi fetenti, ilnumero era talmente elevato da punteggiare tutto ilpendio. Dalla cima iniziavano ad apparire quelliche erano risaliti dall’altro versante. TuttaviaLeopardi non stette a riflettere ulteriormente suquelle presenze, ringraziò di aver fatta salva lapelle e si incamminò di gran fretta lontano da quelcampo di battaglia. Tutto sommato, non era affattonaufragato in quel mare di verdi marci.

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Capitolo 2 - Alla luna

La notte calò rapidamente, il buio avvolgeva tuttosino ad annullare i contorni delle cose e dellepersone.Leopardi continuò a camminare lungo il sentieroche conduceva in città, il passo era sicuro, ilbokken fissato di traverso sulla schiena rimandavauna sensazione tranquillizzante.Anche se la sua esperienza gli suggeriva che iverdi non lo avrebbero attaccato, la notte potevariservare sorprese pericolose. Affrettò il passo.Il profilo del castello si stagliava al termine delsentiero, tremulo nella luce diafana della luna,ancora pochi minuti e sarebbe stato al sicuro.Almeno per quella notte.Avrebbe dovuto risolvere quel problema, una voltaper tutte.Salì le scale che conducevano all’uscio, senzaaffanno superò l’ultima rampa e picchiò il pugnosulla porta di legno consunta dagli anni.«Chi cerca quartiere?» la voce cavernosa superò leassi in legno come fossero carta di riso.

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«Sono Giacomo, aprite, oste.»Il rumore dei catenacci che scorrevano produsseuno stridio sinistro, una lama di luce disegnò uncomplicato arabesco sulla pietra del pavimento.«Entrate, presto!»Leopardi varcò la soglia mentre il pesante battentesi chiuse alle sue spalle con un tonfo sordo,l’odore della battaglia e dei verdi impregnavaancora la giubba e gli stivali.«Non è prudente andare in giro a quest’ora,soprattutto quando c’è questa luna.»L’oste era enorme, il cranio completamente rasato,gli avambracci solcati da multiformi arabeschiintrecciati sui tendini che guizzavano sotto pelle aogni movimento.Il bancone era sgombro, la taverna deserta.«Nessun avventore stasera?»Giacomo sedette su di una panca allungando legambe e sbuffando.«Mi volete canzonare? Sapete benissimo che daquando ci sono quelli nessuno esce più alla sera.»«Ma io sono qui!»«Voi non siete come gli altri, lo sapete bene!»«Portatemi da bere allora, ho sete!»

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Dicendo questo Giacomo lasciò cadere a terra lagiubba ancora macchiata della battaglia delpomeriggio.Il boccale arrivò sul tavolaccio con un colposordo.«Bevete e sbrigatevi, sapete che qui non siamo alsicuro.»«Perché, la vostra porta non è abbastanza solida,oste?»Il tono di Giacomo era ancora allegro nonostantel’orrore che aveva visto.L’oste non rispose e continuò a passare lo straccioliso sul bancone.Giacomo sorseggiò con calma il liquido ambratodal boccale, era gradevolmente fresco eamarognolo.Il suo pensiero andò a Silvia, la priorità erasalvarla. Ma non poteva fare nulla sinoall’indomani mattina.«Oste, avete sempre la stanza al piano di sopra?»La voce di Giacomo era ferma e risoluta.«Per uno scudo potete avere anche il pagliericciopulito» rispose l’uomo alzando lo sguardo dalbancone.

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«Tenete!» disse Giacomo lanciando la moneta aldi là del bancone.“Domani sarà una lunga giornata.”

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Capitolo 3 - A Silvia

Si svegliò alle prime luci dell’alba. Stette unattimo sul letto, poi uscì dal giaciglio caldo einiziò a vestirsi. Guardando dalla finestra, vide icolori che si iniziavano ad accendere della luce delsole. Astro nascente su una nuova giornata controgli orrori del mondo. La limpida luminosità siadagiava piano sui palazzi della città, modellava lestrade, rivelava le campagne circostanti.Leopardi tolse la sedia da sotto la maniglia, preseil bokken, ripulito dopo la battaglia del giornoprima, e lo fissò accuratamente alla schiena. L’elsapronta all’estrazione, in caso di emergenza. Fattociò, rimirò un’ultima volta la stanza, attento a nondimenticar nulla in quel luogo. Una voltasoddisfatto cominciò una lenta discesa lungo lescale, gradini in legno che scricchiolavano nelsilenzio della taverna. Giunto nella sala grande,non percepì altro che la quieta pace della giornatache iniziava. Non notando l’oste, il poeta fece unasmorfia, per poi avviarsi verso la porta. Aprì erichiuse alle sue spalle, ritrovandosi in strada.

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L’aria del mattino gli penetrò dentro,rinvigorendolo. La frescura gli fece distendere unsorriso di tranquillità sul volto, preparandolo allamissione che si era prefisso. Raggiungere Silvia.S’incamminò: nell’ora dell’ultima dormita, i suoipassi risuonavano secchi sulla strada. Avanzò nelleviuzze della città, districandosi tra botteghe serratee case silenti. Una volta avrebbe visto maggiormovimento, ma da quando i marci erano risorti,c’era sempre paura a mettere il naso fuor di casa.Procedendo, un movimento periferico attirò la suaattenzione. Tornò indietro di qualche passo e fissòlo sguardo all’interno di un vicolo scuro, entro ilquale avvertì uno strisciare e un gemeresommesso. Lo vide, per terra: un verde marcio.Avvicinatosi a lui poté scrutarlo meglio, notandola mancanza delle gambe all’altezza del ginocchio.I moncherini rivelavano le ossa, la polpa erasfilacciata e scivolava lungo la pietra del vicolo.Leopardi si chinò di fronte all’essere, il quale perrisposta protese la bocca affamato. Strisciò verso ilcombattente, e questi rise alla natura di quelmovimento.«Forza, messere. Sono qui, potete farcela!»

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Il verde si muoveva a scatti. Puntava le mani inavanti, affondando negli interstizi della strada. Leunghie si incrinavano e mandavano stridiifastidiosi. Poi, facendo forza sulle braccia, l’esseretrascinava il resto del corpo per qualche secondo,ricadendo poi sulla pietra. Ripeteva poi lospettacolo, anelando al poeta. Gli mancava unorecchio, e il vestito era sporco di letame e sangue.Il tanfo non infastidiva Leopardi, ormai abituato acerti miasmi infernali.«Non esitate, ancora uno sforzo e sarete da me.Non desistete dalla vostra impresa!»Il morto vivente continuò il suo procedere,arrivando quasi a portata del suo banchetto.Leopardi tuttavia fece un passo indietro,continuando a incitare il mostro a raggiungerlo.Un sorriso disteso si era allungato sul volto delpoeta combattente.All’improvviso, un urlo. Leopardi balzò in piedi esi girò verso la città, in ascolto. Attese qualchesecondo, impugnando l’elsa del bokken. Dopo unpo’ il suono, un urlo di dolore e morte come tantine aveva sentiti negli ultimi mesi, si fece sentire dinuovo. Intuì venisse da una delle case lì vicino,

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che davano sulla strada principale. Tornò ilsilenzio, e sentì la presa flaccida del verde ai suoipiedi, che nel frattempo aveva raggiunto la suadelizia. Leopardi guardò in basso, notando chel’essere stava già spalancando la bocca per infilarequei pochi denti rimasti nel suo polpaccio.«Oh, per favore.»Il combattente liberò il piede e lo affondò sullatesta del morto, schiacciandola e spargendo rossodappertutto. L’essere fremette un attimo, poigiacque immobile. Leopardi se lo lasciò allespalle, dirigendosi verso la casa da cui provenival’urlo.Trovò l’uscio spalancato. Con l’arma estratta epronta alla pugna, il combattente infilò la soglia,ritrovandosi in un’abitazione di modestecondizioni. Le finestre sprangate lasciavanofiltrare poca della luce solare, ma quella cheproveniva dalla porta d’ingresso era sufficiente amostrare delle tracce di sangue che giravano versouna delle stanze. Entrandovi vide un cadavereriverso per terra. Il sangue, ancora fresco, siaddensava sul pavimento, spargendosi poco apoco.

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Leopardi lo esaminò stando attento a nonavvicinarsi troppo. L’anziano era stato ucciso conun taglio netto alla gola, mentre in diverse partidel corpo presentava tracce di torture. Le dita dellemani erano spezzate, mentre alcuni aghi eranoinfilati nelle gengive. Gli occhi grigi del mortoerano spalancati dalla paura.«Anche se dovete aver sofferto, e lo si vede,meglio in tal guisa, messere, che pasto per iverdi.»Leopardi esplorò il resto della casa, senza trovarvinulla. Qualcuno aveva ucciso quell’uomo e poidoveva essere fuggito attraverso la porta, noncurandosi di richiuderla. Di certo non era impresada morti viventi, quella di torturare e tranciare legole con armi da taglio.Lasciò quella tomba e si incamminò di nuovo instrada, affrettando il passo per recuperare il tempoperduto a giocare con il marcio e a visitare la casadel cadavere.

Arrivò infine di fronte all’abitazione di Silvia.Come se la ricordava, tale era, immersa nella lucedel sole che cresceva attorno alla città. Bussò e

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attese. Con il passare del tempo non gli giunsenessuna risposta. Tentò di nuovo e di nuovo, senzafelici risultati. Memore del cadavere trovatosgozzato come un animale, Leopardi si impaurì,strinse il bokken e cercò di forzare la porta. Uncalcio non bastò, occorse prendere una rincorsa eabbattersi sul legno per spaccare i cardini eliberare l’entrata della casa. Il poeta stette qualchesecondo a massaggiarsi la spalla, offesa dallaprova fisica a cui era stata sottoposta. Una smorfiadi dolore e vergogna lo colse, scosse la testa perl’idiozia del gesto. Alle narici subito si diffuse unforte odore di chiuso e di morte.Quando si sentì di nuovo energico, si avviò lungola casa. A una prima occhiata, era chiaro che nonera abitata da lungo tempo. Polvere e polvere epolvere si era accumulata dappertutto, creando unapatina grigia che rivestiva le cose come un abitodell’oblio. Leopardi avanzò in ogni pertugio,scosse ogni telo, ma non trovò nessuno. La casasembrava disabitata, ma quell’odore pestilenzialerimaneva. Il combattente infine ne trovò la fonte.Brulicante vermi, il cadavere del cocchiere, ilpadre di Silvia, giaceva riverso per terra nella sua

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camera da letto. L’uomo era stato morsicato unpaio di volte al braccio, e quelle ferite erano nere eprofonde, vecchie di qualche settimana. In frontespiccavano, più recenti, due piccole incisioniregolari, distanziate di poco. Da quei fori eranocolato lungo tutto il viso del sangue, oraraggrumato e secco. Gli occhi, spalancati, eranovelati dal sudario della morte, mentre la bocca eraaperta, dentro vi si annidavano larve.Leopardi stette a riflettere davanti al cadavere,sedendosi sul letto e poggiando gli stivali sopral’inguine e la pancia del morto. La mano asorreggere la testa, il poeta fece mente dentro disé, pensando a Silvia.«Se qui non è, potrebbe essere nel rifugio incampagna» affermò, nel silenzio.Le parole non si erano ancora spente nell’aria cheLeopardi già si stava avviando verso le scale, peruscire da quell’altra tomba cittadina. Uscendodalla casa guardò per un attimo lo scempio fattoabbattendo la porta. Non trovando altro modo perchiudere l’uscio, strinse le spalle e si avviò fuoricittà.

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Il sole illuminava sempre più i campi,vivacizzando i colori della natura. Anche quelverde che ormai veniva detestato da tutti.Imperscrutabile, Leopardi avanzò nel fango e nellaterra, fissando lo sguardo dritto davanti a sé, inattesa di scorgere finalmente la catapecchialegnosa in cui Silvia avrebbe potuto essererifugiata.Quando vide le prime sagome degli alberi, postipoco distanti dal rifugio, accelerò il passo. Orariusciva anche a scorgere il profilo della casa, unacostruzione vecchia e consunta, ma favorevole perun breve riposo. Il poeta venne colto di sorpresada una marcia, proprio a qualche metro di distanzadall’abitazione. La donna si fece vedere da dietroun albero, afferrò Leopardi per le spalle e infilò leunghie rovinate nel vestito del poeta. L’improvvisaapparizione strappò un urlo al poeta, che cercòsubito di arrivare all’elsa per estrarre la sua arma.Tuttavia la presa della marcia sembrava più saldadel normale e Leopardi aveva difficoltà a muovereil braccio per arrivare alla schiena.D’improvviso un martello apparve dalla sua spallasinistra e si conficcò, con le due punte, nell’occhio

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della morta vivente. A stringere l’arma impropriauna mano delicata, dalle pelle candida e dalprofumo gradevole.Leopardi si girò e si illuminò il suo cuore,vedendo Silvia accanto a lui.La ragazza tirò indietro il martello, mentre lamarcia crollava a terra. Il bulbo oculare erarimasto attaccato alle punte dell’arnese, un lungonervo penzolava nell’aria. Silvia scrollò più volteil martello, cercando di far cadere l’occhio, masenza ottenere alcun risultato.«Usare il martello è una seccatura, per questecose» sbuffò.Leopardi si avvicinò e prese l’occhio, sfilandolo eliberandolo dall’arma. Ponendolo a modo dimoneta tra indice e pollice lo fece volare dietro disé. Lo guardarono cozzare sulla parete esterna delrifugio e iniziare una lenta marcia verso il terreno.L’occhio scivolava pian piano, lasciandosi dietrodi sé una traccia rossastra. Giunto a un chiodosporgente, il rimasuglio della morta vivente deviòil suo percorso, mentre il nervo sfilava attorno alchiodo. La discesa procedette ancora qualchesecondo, poi si arrestò sul terreno. A quel punto

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squittì un topo, e l’occhio venne preso dalroditore.Leopardi volse di nuovo verso Silvia. Era diversada come se la ricordava. Vestiva in modo menocurato, ma di sicuro più pratico. Stringeva ilmartello con modo sicuro e sorrideva in manieramisteriosa.«Vi ho salvato la vita, Giacomo.»«Me la stavo cavando alla grande, direi» scherzòlui.«Certo, certo. Vi ho salvato la vita.»«Direi che mi stupite. Girate con un martello afare l’uomo.»«Sono figlia di cocchiere morto sbranato, e hodovuto provvedere io stessa a ucciderlo di nuovoquando si è svegliato da verde. Non è più tempoper fare solo opere femminili. Poco senso vedo nelcantare e ricamare, se la morte mi cammina instrada.»La ragazza si passò una mano tra i capelli neri,sistemandoli meglio.«La gioventù ci è stata strappata, Silvia. La vostra,come la mia. L’illusione della vita e le sue falsepromesse.»

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«O così, o a morir sbranati come mio padre, direi.Meglio combattere per la vita, che soccomberealla morte. Anche se tutte le promesse vengonodisattese. Meglio mangiare, che avere i vermi inbocca.»A quelle parole Leopardi rimembrò il cadaveredell’uomo torturato, e raccontò dell’episodio aSilvia.«Ho un brutto presentimento. In città, andandoverso casa vostra e poi venendo verso lecampagne, non ho notato anima viva. Forsequalcuno sta uccidendo, e non è verde né marcio.»Silvia non rispose, limitandosi a pulire il sanguedal martello su un vecchio straccio che portavacon sé. Leopardi la fissò durante quell’operazione,notando come il panno fosse macchiato in piùpunti di rosso e nero.Nel silenzio della campagna risuonò un urlo.Entrambi volsero lo sguardo alla città.

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Capitolo 4 - Il Risorgimento

«Giacomo, non possiamo rimanere qui! Dobbiamofuggire.»Silvia fissò un punto all’orizzonte raccogliendo ilunghi capelli neri in una crocchia sulla nuca.«Avete ragione Silvia, ma forse l’unica speranza èil Monastero.»«E allora andiamo, nella stalla ci sono due cavallisellati che aspettano di galoppare.»Silvia non aspettò la risposta e si volse verso lacostruzione male in arnese. Giacomo la seguì senza indugio, la rimessa parevaabbandonata da tempo, il tetto malfermo e la portache pendeva sui cardini.I cavalli attendevano, Silvia passò la mano sulcollo della prima bestia che rispose dilatando lenarici.Giacomo non perse tempo e caricò la sella sullaschiena dell’animale.«Muoviamoci, il cammino è lungo.»Silvia indossò un paio di guanti di pelle e afferròle redini seguendo Giacomo fuori dalla stalla.

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Con un abile volteggio salì in sella, il movimentofece intravedere uno scorcio dello stivale.«Cosa state fissando Giacomo, non avete mai vistoun’amazzone?»«Mai così leggiadra» rispose il poeta reprimendoun sorriso.Galopparono a lungo, i cavalli erano freschi, lacampagna deserta.Solo alcuni verdi in lontananza si trascinavano afatica, ma non vi badarono.All’ora di pranzo arrivarono ai piedi dellamontagna, smontarono dai cavalli per farriprendere fiato e riposarsi dalla cavalcata.«Giacomo, cosa pensate di fare?»Silvia si sedette sull’erba, spalle al maestosoalbero che dominava la collina. I capelli sciolti simuovevano leggeri nella brezza primaverile.«Arrivare al Monastero, per ora.»Giacomo si lasciò cadere sul terreno dopo averimpastoiato i cavalli.«Si dice che l’Abate abbia qualcosa che possa fartornare i verdi nell’abisso dal quale sono usciti.»«E se non fosse così?»Il tono di Silvia aveva una leggera incrinatura.

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«Almeno avremo provato.»

Il sentiero si inerpicava dolce sulla collina,procedettero in fila indiana conducendo i cavallitenuti per le redini. Lentamente il panorama iniziòa cambiare, la pianura sottostante assunse uncolore diverso, una leggera nebbia velò il terreno.L’aria divenne più fresca, la vegetazione si fecepiù rada, il sentiero un serpente di pietre e sassi.Silvia strinse lo scialle sulle spalle, coprendosi ilviso per ripararlo dall’aria che si faceva semprepiù fredda.Solo gli occhi rimasero scoperti, due pozze diossidiana che scrutavano avanti.Giacomo si strinse nella giubba per proteggersi dalvento e cercò con lo sguardo la loro meta.Nelle nuvole fece la sua comparsa il monastero, lapietra grigia scompariva a tratti nel cielo plumbeolasciandone intravedere la massiccia sagoma.Legarono i cavalli agli anelli infissi fuori dallemura, l’aria era decisamente più fredda, nuvolebasse si muovevano rapidamente spinte dal ventocambiando forma. Figure cangianti e mutevolioscuravano il sole pallido.

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Giacomo picchiò il pugno sul portone. Due, tre,tonfi sordi riecheggiarono nel silenzio dellamontagna. Solo il vento rispose fischiando attraverso leferitoie e i torrioni.Riprovò a colpire l’uscio, questa volta con piùforza.«Giacomo, è deserto!»Lo scialle che le copriva il volto alterava la vocedi Silvia.«Abbiate fiducia, l’Abate è uomo di parolaoltreché di fede.»Non appena ebbe terminato la frase un rumoresordo fece voltare entrambi, una piccola aperturasi distinse nel pesante portone. Un volto solcato damille rughe riempì lo spioncino.«Chi siete?»La voce era ferma, senza esitazioni.«Giacomo e Silvia.»Il rumore dei cardini si alzò sinistro nel silenziodella collina.Il cortile del monastero era un’oasi di pace,riparata dal vento freddo che soffiava all’esterno.Il priore che aveva aperto guardò con curiosità gli

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ospiti appena arrivati. A una prima occhiata non appariva come undevoto fedele del Signore, ma piuttosto un rudeuomo dedito a pesanti lavori manuali. Il grembiuledi cuoio che indossava sopra il saio era logoro emacchiato in più punti, i piedi scalzi nonsembravano essere turbati dal contatto con la nudapietra del pavimento e le mani parevano più adattea impugnare una mazza, che una piuma d’oca perle miniature.«Cosa vi spinge sin qui?»«Padre, sapete che accade nelle città?»Giacomo parlò senza esitazione.«Conosco quello che accade in città. Questecreature sono opera del Demonio, Dio ci vuolepunire per la nostra condotta scellerata.»«Cosa possiamo fare per riportare la pace e labenevolenza del Signore su questa Terra?»interruppe Silvia scostando lo scialle che lecopriva il viso.Lui la fissò a lungo, intimorendola con la suafigura massiccia e la voce tonante.«Iniziate a pregare, e voi, messere, abbandonatequello strano bastone ricurvo. Non ci sono pericoli

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nella Casa del Signore.»Giacomo sciolse le cinghie che tenevano il bokkenfissato sulla schiena, mentre Silvia si inginocchiòverso l’immagine della Vergine che campeggiavaal centro del chiostro.«Rimanete qui. Stasera, dopo i Vespri, parleremocon i monaci più anziani.»

Le ultime luci del giorno stavano spegnendosiall’orizzonte, quando il rintocco della campanariempì ogni angolo del cortile.Il Padre Guardiano arrivò, senza far rumore, allespalle di Giacomo e Silvia assorti in preghiera.«Andiamo, il tempo è giunto!»E senza attendere altro si voltò verso l’uscio.Giacomo e Silvia lo seguirono all’interno dellacostruzione, corridoi di pietra rischiarati da deboliluci di candele si susseguivano in un giocolabirintico, giochi di luci e ombre rimandavanogrotteschi disegni sulle pareti.La loro guida si fermò davanti a una massicciaporta di legno, i battenti arrivavano sino al soffitto,disegni incisi nel legno si alternavano senza fine.Senza aspettare, spinse le massicce ante senza

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sforzo alcuno.Entrarono titubanti nella sala rischiarata da pochicandelabri, il tavolo occupava tutto il lato,massicce figure erano come ombre animate.«Accomodatevi signori, gettiamo le basi per ilRisorgimento.»

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Capitolo 5 - Il sabato del villaggio

«La battuta sul Risorgimento è assai infelice,padre, di questi tempi in cui i morti risorgono perdavvero» commentò Leopardi, incamminandosinella grande stanza.Davanti a loro vi era un lungo tavolo in legno, alquale erano seduti numerosi monaci ancora piùanziani del padre guardiano che aveva aperto lorole porte del monastero e li aveva condotti fin lì. Alcentro sedeva una maschera di antichità, di sicurol’uomo più anziano presente nella sala. L’Abate,colui che aveva mandato Leopardi nel luogogiusto in cui addestrarsi per combattere i verdimarci. I due si guardarono per un attimo, facendoun cenno con la testa. Leopardi e Silvia vennerofatti accomodare al tavolo, sul quale spiccavanonumerose pergamene, carte e antichi libriingialliti.«Giacomo, se siete qui è perché nemmeno le articombattive possono nulla contro quest’invasione.Si tratta di un’opera del Demonio, indubbiamente»cominciò l’Abate.

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«Son verdi marci e io qualcosa posso farci, dinatura putrescente possono nulla contro uncombattente.»«In un periodo in cui i morti si risvegliano,combattere e uccidere sono mosse stupide. Ilproblema va risolto alla radice» intervenne unmonaco alla sinistra dell’Abate. Il suo volto tetronon lasciava spazio a repliche da parte del poeta.«Padre Francesco ha ragione. Ho un’ipotesi, eriguarda uno stregone, un adoratore di Satana, solouna persona con tali poteri e conoscenze blasfemepuò aver ridato vita alla morte» proseguì l’Abate.«Un sortilegio? Per quanto ci riguarda, l’unicastranezza è stata trovare morti assassinati giù incittà. Qualcuno sta ammazzando i vivi.»«Potrebbero essere la stessa persona. Se i mortirisorgono, uno che uccide i vivi può avereinteresse ad ampliare le schiere del suo esercito dimostruosità» affermò Padre Francesco,incrociando le mani davanti a sé.«Il solo modo per riportare la pace e ripristinarel’ordine delle cose volute da Dio è utilizzareun’antica formula magica. Questa ha il potere diannullare il sortilegio lanciato dallo stregone, ed è

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da usare di fronte a lui, per poi ucciderlo, in modoche non abbia a ripetere il suo incantesimooscuro» sentenziò l’Abate.Leopardi lo guardò stupendosi e volse lo sguardoanche agli altri monaci. Nel silenzio della salapoteva percepire la serietà dai loro volti, leespressioni gravi e i muscoli tesi dalla tensione.«Abate, mi stupite. Voi, un uomo di fede,conoscete arti magiche?»La risata del più anziano dei monaci risultòcristallina, quasi rilassata.«Giacomo, conoscere il proprio nemico equivale asaperlo combattere, e questo è proprio il caso checi apprestiamo ad affrontare.»Dal momento che nessuno replicò alla suaaffermazione, l’Abate si inchinò su uno dei volumipresenti sul tavolo e lo aprì con decisione, come sesapesse a memoria la collocazione di ciò che gliinteressava.«Eccola qui. Dovrete impararla, Giacomo, e usarlase necessario.»«Perché io? Perché non voi, o i vostri monaci?»«Noi la conosciamo già tutti, e in caso di necessitàla useremo. Tuttavia più persone saranno coinvolte

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in questa ricerca, più probabilità ci saranno diincontrare lo stregone e saperlo fermare. Riuscirein quest’impresa è di vitale importanza, e voi sieteuna persona di fiducia, Giacomo. Vi ho mandato afarvi addestrare, e siete sopravvissuto dopo tuttoquesto tempo, quindi sarete sicuramente in gradodi unirvi a questa missione per il benedell’umanità.»I monaci annuirono lentamente, nelle pareti alleloro spalle le ombre danzarono in modoinquietante alla luce dei candelabri.«Ripetete, Giacomo: Klaatu Verata Nitko.»«Claatu Perata Nitco.»«No, vi sbagliate. È Klaatu Verata Nitko.»«Claatu Verata Nitco… Coff, scusate.»«Giacomo, non soffocate i vostri errori con colpidi tosse. Guardate qui, leggete bene e ripetete. Nondovete assolutamente sbagliare.»«Klaatu Verata Nitko.»L’Abate sorrise e richiuse il volume sotto il nasodel poeta.«Bene, ora senza leggere.»«Klaatu Verata Nitko.»«Perfetto. L’avete mandata a memoria? O devo

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interrogarvi ancora?»«Non c’è bisogno, Abate. La so, e la sa ancheSilvia adesso.»I monaci si rivolsero verso la ragazza, la qualefece solo un cenno affermativo con la testa.«Sta bene. Invece per uccidere lo stregone dovreteusare la medesima formula, ma pronunciata alcontrario. È molto più complesso, quindi dovreteprovare a lungo…» disse l’Abate.Leopardi tacque, cercando di ribaltare le oscureparole dentro la sua mente. Il silenzio venne rottodall’irruento aprirsi dell’enorme porta della stanza.Un monaco, molto più giovane dei presenti in sala,irruppe trafelato e con il volto paonazzo.Ansimava, ma riprese fiato e parlò con voceconcitata.«Abate, i verdi! Dal cimitero del monastero sisono svegliati!»Scoppiò l’allarme tra i monaci, tutti balzarono inpiedi, e dai tavoli svolazzarono via carte epergamene.Silvia si alzò a sua volta, imitata da Giacomo, enon riuscendo più a trattenersi esclamò per farsisentire sulle voci di tutti gli altri.

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«Perché non ve ne siete occupati prima, dei vostrimorti?»«Confidavamo nella protezione del Signore…»mormorò Padre Francesco.Leopardi guardò con una smorfia la ragazza, chereplicò sgranando gli occhi, tanto perplessa quantolo era il poeta.Uscirono dalla stanza, seguiti dagli anzianimonaci. Tutti raccolsero mazze e altri oggetticontundenti, Leopardi strinse il bokken e Silviaimpugnò il fedele martello. I verdi giàciondolavano nel chiostro, assaltando gli altrimonaci. Il numero dei marci era impressionante,segno che il cimitero del monastero doveva esserepiuttosto occupato fino a qualche minuto prima.Leopardi assaltò uno scheletro, le cui ossa sisbriciolarono immediatamente. Il turbinio delbokken strappò sangue e budella, spargendoledappertutto. Affianco a sé sentiva danzare Silviache suonava una nenia di morte. Dall’altra partedel cortile vide il padre guardiano affrontare imorti a mani nude: lo seguì con lo sguardo mentresollevava un suo ex confratello e lo schiantava aterra, spaccandogli la testa col peso del suo corpo.

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Leopardi sorrise a quel gesto, ma allo stesso temposi accorse che gli altri monaci erano menocombattivi di quel vecchio guardiano, forse perchétroppo abituati allo studio degli antichi volumi.Quando vide l’Abate cadere sotto l’attacco di treverdi, un urlo gli venne strappato dalla gola. Ilpoeta combattente si fece strada attraverso duemarci, spingendoli via con noncuranza, arrivò difronte ai tre che avevano abbattuto l’Abate e nefece rapido scempio con la sua arma. Lurido disangue si inchinò verso l’Abate, feritomortalmente con dei morsi al collo.«Abbiamo fatto bene a insegnarvi la formula,Giacomo… Già ora noi non contiamo più nullanella ricerca dello stregone.»«Non disperate, Abate. Sconfiggeremo questiverdi, e sarete guarito dalle ferite.»«Non sapete mentire, Giacomo. Sento il donodella vita fuggire via, e non tutti i miei confratellisono combattivi come voi o il padre guardiano. Lenostre vite sono però sacrificabili, è il Signore checi richiama a Lui.»Dicendo così tossì più volte, fiotti di sangueuscirono dalle sue labbra secche, andando a

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inzuppare la tonaca.«Giacomo… Fuggite, qui perdete tempo. Sia quelche sia, voi avete quella missione da compiere. Ese potete, insegnate la formula ad altre persone difiducia.»«Abate…»«Silenzio. Ho pochi attimi, già sento che vienechiamato il mio nome. Tentate prima in città, sequell’assassino è davvero lo stregone, comeipotizzava Padre Francesco.»«Va bene.»«Signore, accogli la mia anima…»Leopardi si rialzò, abbattendo senza accorgerseneun verde che voleva coglierlo alle spalle e che siera invece ritrovato la punta del bokken dritta sulvolto. Il poeta si girò a guardare il corpo del mortoscivolare a terra, e quando volse di nuovo la testaverso l’Abate, si accorse che era spirato.Il combattente perse solo un secondo a osservare ilvolto disteso del monaco, poi cercò con lo sguardoSilvia. La trovò circondata da cadaveri di marci,impegnata ad abbatterne un altro con il martello.La raggiunse ad ampie falcate e la aiutò asbarazzarsi di una coppia di cadaveri talmente

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consumati dalla decomposizione che facevanoquasi pena.«Fuggiamo, Silvia. L’Abate è caduto e mi haordinato di continuare con la missione, anzichéperdere tempo qui.»«E gli altri monaci?»«Guardateli, hanno ancora il timore reverenzialedella morte. Si muovono impacciati: sono uominidi fede e di intelletto, non d’azione.»«Me n’ero accorta quando alla mia domanda mi èstato risposto di pregare. Non ho replicato solo perrispetto nei loro confronti.»«Eppure il guardiano sembra il solo a muoversibene e a spaccare crani. Di sicuro grazie a lui se lacaveranno lo stesso. Noi però qui perdiamo tempo,andiamo in città. Verificheremo chi è l’assassino, ese è davvero lo stregone di cui parlava l’Abate,agiremo.»Silvia annuì e cominciò ad aprirsi un varcoattraverso i morti viventi, diretta verso il portonedel monastero. Leopardi la seguì, abbattendo tuttociò che di verde si parò di fronte alla sua arma.

C’era un silenzio innaturale: l’aria imbruniva su

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una città senza vivi. Leopardi e Silvia sbirciaronole finestre affacciate sulla strada, ma dappertuttoregnava la quiete. Procedettero a passo felpatolungo la via principale, tenendosi ai margini, perrisultare meno visibili. Armi in pugno, orecchietese a udire ogni singolo rumore. Girando l’angolodi una strada videro i primi verdi.Uno era inchinato a terra, mordicchiavaselvaggiamente un intestino spruzzandosi disangue il grosso naso a patata. Uno claudicantearrancava poco distante, il ginocchio destrointeramente divorato. Lì affianco inoltreciondolava l’uomo che Leopardi aveva trovatoassassinato. Lo riconobbe per via delle ditaspezzate e per gli aghi infilati nelle gengive, aghiche oscillavano in modo inquietante a ognimovimento. Infine da un vicolo apparve un altromarcio, l’oste che aveva accolto Leopardi appenala notte prima.«Giacomo, guardate, è pieno di marci.»Leopardi guardò meglio e vide che Silvia era nelgiusto. Un numero impressionante di morti viventibrulicava nei vicoli, nelle strade, dappertutto.«Vorrà dire che questo sabato sarà un giorno

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gradito, Silvia. Una festa di marci che tornerannoa essere morti.»Così dicendo si lanciò verso il marcio più vicino elo abbatté con forza. Affianco a lui Silvia attaccònello stesso momento, calando il martello sul nasodel verde che mangiava l’intestino. Dai vicoli icadaveri si riversarono in strada, dove la presenzadei due vivi li attirava inesorabilmente.Leopardi rise, volteggiò e affondò il bokken più epiù volte, facendo ricadere i morti per terra, al loroposto. Sangue e budella si spargevano nell’aria,una doccia rossa che andava a lavare le pietre delleabitazioni e delle strade, ricoprendo tutto. Pocodistante da lui vide Silvia, con in mano la suaarma, che dispensava altrettanta morte. Era unattimo di silenzio, che venne rotto subito dopo: siudì il martello picchiare sui crani dei verdi, e labattaglia riprese il suo ritmo caotico.Leopardi piegò verso destra, affondando nellapancia di un uomo grasso e lento. Silvia colpì asinistra, facendolo volare via la bambina che siaffannava verso di lei. I due vivi si ritrovaronofronte a fronte, sporchi del sangue che avevanoversato. Un attimo di respiro, i loro visi a poca

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distanza, i muscoli tesi. Le labbra vennero acontatto, un bacio assaporato e strappato al tempo,sospeso sopra la guerra e sopra la maledizione cheimpestava la terra.Si separarono per salvarsi reciprocamente la vita,attaccando ognuno il verde che attentava alla golaaltrui. E si allontanarono ancora, uccidendo, perriavvicinarsi di nuovo, baciandosi. Andò avanti inquesto modo finché la festa finì, e attorno a loronon ci fu altro che un tappetto di sangue e interioraumane.Ansimarono, e quel respiro affannoso fu l’unicorumore nel sabato del villaggio. I loro sguardi siincrociarono, intensi. Nel silenzio udironoapplaudire.Leopardi d’istinto sollevò la testa, dal momentoche il suono giungeva dal tetto di una piccola casalì vicino. Proprio lassù vi era un uomo alto, vestitocon un lungo cappotto nero e con un cappellacciodello stesso colore calcato in testa. Un velo dibarba copriva le guance della misteriosa figura.L’istante successivo l’uomo scomparve, eriapparve poco distante da loro, per strada e inmezzo ai cadaveri. Leopardi si stupì e Silvia non

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fu da meno: un gemito scappò alle sue labbra.«Stregoneria!» urlò il poeta.L’uomo, in tutta risposta, sorrise.«Sì, in questo periodo effettivamente la chiamateancora così.»La sua voce era cupa, ma tradiva accentostraniero. Un accento che Leopardi non aveva maiudito, un accento che infastidiva.«Avete voi combinato questo scempio dellanatura?» domandò Silvia, indicando il mare diverdi marci che giacevano ai loro piedi.«Ammetto di aver risvegliato i morti. E di averammazzato qualche vivo per accelerarne ilrisorgimento.»«Perché questo insano gesto?»Lo stregone scoppiò a ridere alla domanda diLeopardi, la risposta tardò ad arrivare.«Il perché sono affari miei» sentenziò infinel’uomo, tornando serio.«Klaatu Verata Nitko.»Sul volto dello stregone apparve stupore, poiammirazione, nell’ascoltare la formulapronunciata dalla bocca di Leopardi.«Mi stupite, non avrei mai creduto che un uomo

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d’azione come voi, capace di tale scempio – disseindicando i cadaveri ai suoi piedi – potesse esserea conoscenza di quella formula.»«Sono un grande conoscitore di queste arti. Ilvolume in cui è contenuta la formula l’ho mandatoa memoria, dopo innumerevoli letture» mentì ilpoeta.Con la coda dell’occhio notò che Silvia si eragirata impercettibilmente verso di lui. Potevapercepire lo stupore della ragazza, ma non potevamostrarsi debole o sprovveduto di fronte a unuomo di potere come lo stregone.L’uomo, d’altro canto, sorrideva in modo strano.Infine fu proprio lui a rompere di nuovo ilsilenzio, rivolgendosi al poeta.«In effetti, scrutando nei vostri destini alternativi,ho visto che sareste stato un eccellente uomod’intelletto. Invece ora combattete i morti che nonvogliono stare morti. Un vero peccato e spreco dirisorse.»Volse lo sguardo verso la ragazza e continuò.«Voi invece non sareste durata a lungo. La vostrasarebbe stata una vita assai breve.»Nessuno dei due replicò a quelle battute così

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misteriose, ma entrambi si sentirono a disagio audire quelle parole. La loro unica reazione tuttaviafu quella di stringere in maniera più salda leproprie armi.«A ogni modo ora dovrò uccidervi entrambi, perpoter compiere di nuovo il sortilegio senzaimpedimenti. I morti dovranno continuare arisorgere. E anche voi risorgerete, dopo che viavrò sconfitto.»Silvia sorrise e rispose prima di Leopardi.«È perfetto, perché invece noi siamo qui peruccidervi e impedirvi di compiere quel blasfemosortilegio.»La ragazza e il poeta alzarono la guardia, pronti alcombattimento.

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Capitolo 6 - La quiete dopo la tempesta(musica)

Il martello nelle mani di Silvia appariva ridicolo inquel contesto.Un tappeto di membra spezzate, liquidi organici eputridi residui punteggiavano la piazza.Silvia e Giacomo erano spalla a spalla, lui con ilbokken teso avanti a sé, lei con il martelloallungato sulla gamba, in attesa di un segnale.La figura dello stregone campeggiava davanti aloro, come avvolto in una pozza di oscurità.Trasudava malvagità allo stato puro, come seriuscisse a trasmettere la sua aura.«Siete ancora convinti di volermi uccidere?»La voce dello stregone era venata da una nota ditedio.«Se questo è l’unico modo di bloccare le vostrearti magiche, sì!» disse Giacomo mentre alzaval’arma verso il negromante.Silvia sollevò il martello e si spostò da Giacomoper dargli spazio.

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L’espressione sotto il cappello era indecifrabile.A un tratto il malvagio alzò le braccia verso ilcielo, parole arcane uscirono dalla sua bocca.Invocazioni in una lingua che nessuno potevaconoscere o che forse non esisteva nemmeno suquella terra.Il tempo pareva essersi fermato, tonalità incredibiliscreziarono il cielo sino a pochi istanti primasereno.Un turbine si generò dal nulla, la violenza deglielementi li costrinse a inginocchiarsi.Il martello di Silvia volò via dalle mani guantate,Giacomo cercò di impugnare saldo il bokken, manon riuscì a impedire che venisse strappato egettato lontano.L’orizzonte aveva colori che nessuna mente umanaavrebbe potuto concepire.«Guardate, stolti. È questo che volete?»Il negromante indicò l’orizzonte con il bracciodestro.Come in un teatro gigantesco, nel cielo apparveuna rappresentazione della piazza.Senza i corpi putrefatti, senza il tappeto di membraverdi. Una giornata normale, una giovane con un

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mazzo di fiori che percorreva la via principale, poitutto cambiò. Una biblioteca, un giovane chino suilibri.Giacomo e Silvia avevano lo sguardo fisso su quelprodigio.«Osservate bene, riconoscete quelle persone?»Il cono d’ombra proiettato dalla figura dell’esseremalvagio si ampliava come una valanga.«Quella è una finestra su un’altra realtà, un mondoparallelo rispetto a quello che conoscete. Ci sonoinfiniti mondi come quello che conoscete, ma inognuno le persone hanno diversi destini.»«Cosa volete da noi quindi?»Giacomo cercava di fare scudo con il suo corpo aSilvia, scossa da brividi di terrore a quellarivelazione.«Io da voi non voglio nulla! Io posso avere ciò chevoglio, non avete ancora capito?»La risata del negromante fece accapponare la pelledei giovani.«Siete solo un piccolo gradino nella mia scalataverso l’assoluto, un leggero granello di polvereche soffierò via.»Giovanni e Silvia si guardarono negli occhi.

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«Dobbiamo provare» disse Silvia rompendo ilsilenzio.«Non potremo tornare indietro, lo sai, vero?»Giacomo prese le mani di Silvia nelle sue.«Io non voglio tornare indietro, voglio andareavanti. Con te.»Silvia fissò Giacomo negli occhi.Si alzarono insieme, stringendosi per darsi forza.«Oktin Utaalk Atarev,» la voce dei ragazzi eratremolante.«Oktin Utaalk Atarev,» ripeterono con piùconvinzione.«Oktin Utaalk Atarev,» riuscirono quasi a urlare.All’inizio non parve accadere nulla. Poi la situazione iniziò a precipitare, affreschivermigli offuscarono il cielo. Tendaggi di pioggiaavanzarono ruggendo verso di loro, folgoriattraversarono l’orizzonte intrecciandosi comeserpi in un roveto.L’urlo del negromante non assomigliava a nulla diumano, i suoi abiti avvamparono come una torcia. Una fiamma bluastra iniziò a danzare davanti aidue ragazzi, stretti in un abbraccio per darsicoraggio.

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Un bagliore enorme avvolse la città, un sole maivisto esplose davanti agli occhi di Giacomo eSilvia. Nulla aveva più senso, sopra sotto destra sinistrapersero ogni significato. Non vi era più un mondo,vi erano infiniti mondi. Immagini impossibili siripetevano in ogni modo conosciuto, comeimmersi in un mare di specchi ogni angolorimandava una visione diversa del mondo.O forse un mondo diverso.Improvvisamente, come era iniziato, tutto finì.Giacomo e Silvia si fissarono, senza sciogliersidall’abbraccio in cui erano uniti sin dall’inizio diquello sconvolgimento.Non c’era più nulla.La quiete dopo la tempesta.

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Epilogo

Leopardi alzò gli occhi dal libro che stavaleggendo, la biblioteca paterna pareva essereancora più opprimente del solito. Cercò dimuovere la schiena per dare sollievo alla suagobba, fu poca cosa.Volse lo sguardo fuori dalla finestra, nella stradinauna ragazza passeggiava serena, il suo vociarechiaro e cristallino arrivava alle orecchie diGiacomo come musica celestiale.Avrebbe desiderato essere lì con lei, lontano daisuoi libri, dalla sua malattia.Forse in un altro tempo o in un altro mondo.Riprese il vecchio incunabolo, scorrendo lacopertina miniata. Il titolo era un enigma ancheper lui, le frasi non ricordavano nessuna linguaconosciuta. Aveva scritto anche ad altri studiosiper chiedere lumi, ma nessuno lo aveva aiutato.«Klaatu Verata Nitko.»La frase continuava a risuonare beffarda nella suaelaborata miniatura medioevale.

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Per qualunque commento o criticariguardo alla storia che hai appenaletto, puoi visitare i siti web degliautori:http://gianlucasantini.wordpress.com/ ehttp://beppeiaf.altervista.org/blog/

Dicembre 2012Prima Edizione