Campiello, parziale

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  • 8/19/2019 Campiello, parziale

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    Bandiera rossa. Mare nero.

    Giorgio solleva lo sguardo. Il vento è carta vetrata sulle guance scottate dal sole. Le onde s'infrangono sulla banchina

    e sparano schizzi contro il cielo.

    Sedici anni.

    Occhi irritati, labbra screpolate. Il sole gli ha ridipinto il viso di cacao affogando il pallore dell’inverno, gli ha

    schiarito gli occhi, quegli occhi sinceri che per un anno intero erano stati incollati all’inchiostro dei libri. Indossa un

    costume rosso Napapijri, scolorito e usurato da decine e decine di bucati. Al suo fianco, una maglietta appallottolata.

    Una settimana. Una manciata di ore. Poi vacanza. Per quanto? Tre mesi. L’infinito.

    Il tempo si blocca. Ti svegli la mattina senza sapere che ora è, che giorno è, se è passato Ferragosto. Ti svegli e non

    sai chi sei, se sei giovane vecchio, se hai tanta vita davanti o sei appena stato raccolto dall’ostetrica.

    Ti svegli e hai il vuoto nella testa, ma un rumore nelle orecchie: il silenzio. Il silenzio del sole, dell’afa, di agosto,

    delle vacanze, delle tapparelle abbassate, delle zanzare sul collo. Il silenzio di chi non ha fretta, di chi non ha pensieri,

    di chi vivrà all’infinito. Il silenzio della pace, della serenità, il silenzio di un sedicenne che se ne sta nell’esilio più

    dolce: le ferie estive.

    Giorgio si sveglia, si alza, e va al mare. Perché? Che ci trova di tanto speciale in quella distesa incolore, in

    quell’ammasso di molecole tanto celebrato dai poeti? Non lo sa. Ma, forse, in queste vuote vacanze dove il giorno non

    si distingue dalla notte, tutto ciò che cerca è un po’ di pienezza, un po’ d’acqua salata a risvegliargli la bocca, e un po’

    di rumore a fargli ballare i timpani.

    Il mare è in guerra. Gli schizzi, gli scogli, il vento ne sono gli eserciti. Si scannano tra loro come cannibali.

    Giorgio è appollaiato su un lastrone bianco che insieme ad altre centinaia separa la ferrovia dalla riva e, da lì,

    protratto sul mare come Simba sulla savana, guarda. Registra ogni dettaglio. La bandiera rossa mossa dal vento, gli

    stormi di gabbiani che planano sotto il fuoco degli schizzi. Distingue la schiuma del mare da quella provocata dagli

    scarichi dei motoscafi. Le lattine di birra, le confezioni dei gelati. E, in lontananza, lo scoglio.

    Un pezzo di carbone. L’acqua gli balza addosso, lo lucida, lo leviga, si ritrae e ricomincia l’assalto. Eppure lo

    scoglio è sempre lì. Lo scoglio è sempre lì e se ne frega, e sorride, e troneggia sull’Adriatico.

    Il vento gli riempie i polmoni dell'odore della salsedine e delle alghe. Di quell’odore rigenerante che solo il mare

    possiede. Giorgio respira e si sente rinascere, sente il sangue che gioisce a contatto con quell’aria fresca, che corre per

    e vene e distribuisce l’ossigeno a tutto l’organismo.

    È un tutt’uno con la natura. Un ciottolo della spiaggia, un pesce, un’alga, uno spicchio dello Scoglio. È parte di essa.

    Respira con essa.

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    Dal mare si eleva il frastuono delle onde che si spezzano sui lastroni di pietra, il grido dei gabbiani. Eppure gli

    sembra che il mondo sia zitto. Per lui quello è silenzio. Quello per lui è pace.

    Poi tutto sparisce. Il silenzio. La pace. Lo Scoglio si inabissa tra i cavalloni.

    - Guarda un po’ chi si vede.

    Un rumore. Un rumore stridulo, penetrante, selvaggio. Giorgio ha l’impulso di raschiarsi la pelle di dosso, come se

    dei vermi gli stessero scavando nei polsi e gli rodessero muscoli e vasi sanguigni.

    Riconosce il rumore.

    È la voce di un cane bastardo.

    Giorgio lo sente abbaiare e spera solo che la bestia non faccia la propria comparsa.

    Chiude gli occhi. Trattiene il fiato.

    Spalanca le palpebre.

    Testa ovale. Caschetto biondo che scende a fontana sulle pareti craniche rasate a zero. Due zaffiri infossati nelle

    orbite. I denti perfetti, bianchissimi. Due cesoie d’avorio plasmate a suon di centoni da un dentista di Pescara. Air

    Force bianche. Shorts militari. La maglietta penzola da una tasca. Il torso nudo, un piccolo tatuaggio sopra il

    capezzolo.

    E se il fulmine precede il tuono, questa volta è l'ululato a presentare il cane.

    Mario Niccoli.

    Il suo Ettore, il suo Vercingetorige, il suo Scar .

    Lo odia. Lo odia per tutto quello che rappresenta. Per ogni ragazzo che ha mortificato, per ogni grammo di erba

    venduto ai primini. Lo odia perché vede tutto come un gioco, perché Mario Niccoli è una zanzara troppo furba per

    essere schiacciata e troppo piccola per prosciugare le vene. Perché Mario Niccoli è mediocre. E invece di rispettarlo

    come rivale, Giorgio ne è disgustato. E, invece di schiacciare la zanzara e sporcarsi le mani di sangue, si limita a

    evitarla.

     La stanza era rivestita di libri, tappeti, poltroncine. Una luce soffusa si spandeva sulle pareti. Si sentiva a casa. Si

    sentiva sicuro, lì. Di solito si prendeva una cioccolata alla gelateria del quartiere, dava un’occhiata alle vetrine e

    citofonava col sapore di cacao ancora appiccicato alla lingua. Lo aiutava a parlare, quel sapore. Lo scioglieva, lo

    riscaldava, lo massaggiava. E tutto diventava più facile. Una chiacchierata diventava qualcosa di ancora più

    semplice.

    Questo dopo un paio di mesi. All’inizio, era stata guerra.

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     Mario si barricava dentro di sé. Non rispondeva. Non guardava in faccia lo psichiatra. A casa minacciava di

    ucciderlo, quel figlio-di-puttana-psico-come-cazzo-si-chiama. Poi, progressivamente, si era abituato all’idea di

    andare a vedere qualcuno, di sfogarsi, di incazzarsi con lo psichiatra piuttosto che con qualche tredicenne che gli

    tagliava la strada. Iniziava quasi a prendersi gusto. Il dottore gli chiedeva cose come: cosa guardi al cinema?

    Preferisci le bionde o le brune? E lui rispondeva: le bionde, dotto’! E lo psichiatra sorrideva e gli dava ragione.

     Mario non vedeva come questo potesse servire: le chiacchierate tra amici con lo psichiatra, come le chiamava lui,

    erano cazzeggio allo stato puro. E per il fatto che fossero totalmente innocue e cordiali, tra amici , Mario non mancava

    mai una seduta e, se prima arrivava con mezz’ora di ritardo o non ci andava proprio, ora era l’appuntamento fisso

    del venerdì pomeriggio, un po’ come la discoteca il sabato notte o la Juve la domenica sera.

    Poi lo psichiatra aveva cambiato domande. Tua madre? Tuo padre? Qual è il tuo rapporto con loro? Hai dei

    problemi con le ragazze? Istinti rabbiosi? Ti capita mai di voler spaccare la faccia a qualcuno?  Mario si era alzato, si

    era avvicinato alla scrivania dello psichiatra mentre quello gli intimava di sedersi, e gli aveva tirato un pugno sugli

    occhiali. Lo psichiatra lo aveva fissato senza parole.

     L’aveva fatto davvero? Davvero lo aveva preso a pugni? Sì.

     Ne era soddisfatto? Sì.

     Non vide mai più lo psichiatra, che per non mettersi in ridicolo, rinunciò a prendere provvedimenti legali contro il

    ragazzo e la sua famiglia.

    Ecco Mario Niccoli.

    - Coglione! Che cazzo ci fai qui? - Mario indica il lastrone su cui è seduto Giorgio. - Va’ va’, va’ da mamma.

    È così che lo chiamano. Coglione. Coglione, sparisci. Coglione, lavami il culo. Coglione, succhiami il cazzo.

    - Oh, hai capito?!

    Giorgio Bellini ha due possibilità.

    Uno.

    Andarsene. Serata tranquilla con la Banda. Mezz’ora su Whatsapp per riallacciare i contatti con un paio di ragazze.

    Una lattina di coca e un piatto di maccheroni.

    Due.

    Restare. Attaccarsi al lastrone come una cozza patella. Dio, le avrebbe prese di brutto. Ci avrebbe rimediato un

    abbro spaccato e un occhio pesto. Se andava bene.

    - Mo’ vediamo se fa ancora il duro.

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    A parlare è Alan Mazzocchi. Un troglodita di centottantacinque centimetri, spallato, guance infestate di brufoli, due

    occhietti miopi sempre rossi per il cloro della piscina. Pantaloncini jeans arrotolati sopra il ginocchio ed elastico

    Intimissimi bene in vista.

    In corpo ha nove anni di nuoto agonistico. Tredici bronzi, quattro argenti, nove ori nelle nazionali.

    Ma il suo segreto non sono i muscoli, non gli allenamenti estenuanti, non le taniche di benzina piantate sotto le

    costole. No. Perché sotto le ossa craniche si annida un cervelletto piccolo e grigio che altro non urla se non: nuota.

    Nuota come se non ci fosse un domani. Nuota perché gli squali ti mordono i calcagni e stanno per sbranarti. Nuota, e

    sii lo squalo.

    Giorgio aveva fatto quattro anni di nuoto. Non di sua spontanea volontà: i suoi genitori, che da giovani avevano

    entrambi sofferto di scoliosi, non volevano che il figlio patisse i loro stessi dolori, e lo avevano buttato in acqua. Che

    doveva fare? Annegare? Incrociare le braccia in forma di protesta? No. Giorgio nuota. E forse ci prende anche gusto.

    Giorgio nuota e, dalla prima corsia a destra, quella dei principianti, viene spostato in quella a sinistra. Giorgio nuota

    e dalla corsia a sinistra, viene spostato in quella di mezzo. È felice: l’unico del suo anno a essere stato spostato nella

    corsia dei grandi!

     Nella corsia di mezzo Giorgio conosce Alan.

    E conosce la paura.

    Conosce l’acqua che gli entra nelle narici, conosce le manate in faccia, conosce la schiuma che gli invade la bocca.

    Inizia a odiare il nuoto, inizia a odiare i suoi genitori, la piscina, la corsia centrale, inizia a odiare Alan. Vai piano ,

    gli dice, datti una calmata. E Alan che fa? Lo annega. Lo annega davanti a tutti, davanti ai compagni, davanti

    all’istruttore, davanti ai suoi genitori che guardavano le lezioni di nuoto dagli oblò.

    Giorgio non finisce l’anno. Interrompe i corsi dopo appena un mese e mezzo di lezioni.

    (...)