Business Tales

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Racconti di Business

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“Dottoressa Lissandri.”

“Si Signor Perli.”

“Per cortesia convochi una riunione urgente del comitato di direzione per oggi po-

meriggio alle 16:00. Red flag priority.”

Mi ero persuaso che l’azienda fino ad allora era stata troppo dipendente dal mio

carisma e che ero stato miope ad esercitare il potere in maniera così esclusiva.

Il fatto è che mi ero fatto da solo come imprenditore, avevo sudato otto camicie

per riuscire, e questo significava tirannia assoluta. Mi ero circondato di collaboratori

accondiscendenti, controllavo tutto e tutti, ma diciamo la verità, non potevo più

continuare così, ero consapevole di come stavano mutando velocemente i mercati

e di quanti problemi avrei avuto se avessi gestito ancora a lungo l’azienda in quel

modo.

Insomma, accentratore, pignolo, dominatore si, stupido no.

Quel giorno decisi allora di sorprendere i miei caporali, ehm, i direttori della prima

linea e convocai una riunione di brainstorming sul futuro dell’azienda, i suoi prodot-

ti, eccetera.

“Signor Perli, ci sono tutti, l’aspettano in sala riunioni.”

“Grazie Dottoressa, arrivo subito.”

“Benvenuti, questa riunione non sarà il classico comitato di direzione, ho chiesto la

vostra presenza perché vorrei brevemente illustrarvi il mio pensiero e stimolare una

discussione aperta sul nostro futuro.”

“Noi costruiamo case per il comparto residenziale da oltre 30 anni, siamo tra i

leader in Italia e in Spagna, stiamo però affrontando, come noto, una crisi profon-

da ed il nostro settore risente più di altri questa situazione. Se consideriamo che

operiamo in due paesi drammaticamente colpiti dalla recessione e che la bolla

immobiliare rischia di deprimere il mercato per molti anni, dobbiamo preoccuparci

seriamente.

Io ho certamente commesso degli errori a non prevedere quello che stava succe-

dendo, però non ho avuto un contributo strategico da voi, credo ciò sia dovuto a

come ho gestito l’azienda in questi anni. Abbiamo fatto una grande impresa grazie

anche a questo modo di agire, ma ora la situazione è drammatica, dobbiamo rea-

gire tutti insieme. Non posso farcela senza un cambio di passo di tutti. Vi ho convo-

cato per invitarvi a esprimere liberamente le vostre opinioni, vorrei che smettessimo

i nostri panni e tirassimo fuori dal cilindro un vero condensato di qualità strategica,

una soluzione condivisa.”

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Silenzio tombale in sala, increduli i dirigenti.

“Non siete abituati a sentirmi parlare e vedermi operare in questo modo, bene, da

oggi si cambia. Tirate fuori dalla pancia quello che avete da dire e vediamo se riu-

sciamo a produrre qualche buona idea.”

Silenzio.

“Coraggio, facciamo così, togliamoci tutti la cravatta, su forza, via, la giacca ora.

Mettiamoci a nostro agio.”

Dopo qualche minuto, “Rasini, qualcosa da dire?”

“Signor Perli, penso che sia difficile per noi, siamo poco o per niente abituati a

situazioni di questo tipo. Lei ci ha sempre guidato, l’anarchia non è un vestito per

noi.”

“Capisco, sempre colpa mia…Allora, partiamo dal razionale, dai fatti. Viandoli, rias-

suma lei la situazione in cui ci troviamo, per cortesia.”

“Subito, il fatturato nel terzo trimestre risulta in calo del 50%, abbiamo uno stock di

522 abitazioni, di prevalenza nel segmento medio, 110 mq, 2 bagni, 2 camere da

letto, prezzo medio 245.000 €.”

“Cose che purtroppo conosciamo, commenti Rag. Fuso?”

“La situazione è molto difficile perché noi siamo cresciuti molto negli anni scorsi

grazie ad un prodotto di massa e ai mutui facili, è evidente che la crisi non poteva

che colpire proprio noi più di altri. D’altra parte abbiamo 30 anni di storia e siamo

oltre 1000, non è che ci potevamo riposizionare credibilmente e velocemente in

una nicchia…però qualcosa dovevamo e dobbiamo fare. Questo è il momento di

trovare soluzioni.”

Niente, in due giorni di enclave solo grafici, ipotesi, discussioni, ma non uno strac-

cio di idea, dico una. La verità è che eravamo bolliti dall’abitudine e proprio mentre

stavamo per chiudere baracca e burattini e convocare la prossima riunione strate-

gica per la settimana prossima successe qualcosa di…beh, giudicate voi.

“Fermi tutti! Che nessuno si muova, sono SuperEva e vi ordino di rimanere ai vostri

posti e di ascoltare.”

“E lei chi è, cos’è questa pagliacciata, carnevale è finito, si tolga quella ridicola

maschera e quel mantello di dosso!”

“Io, SuperEva, da EconomicValueAdded, ho qualcosa da dirvi. I dipendenti sono

sotto il mio controllo, se non volete problemi ascoltate. Ho elaborato un’idea in

grado di salvare l’azienda.”

“Ascoltiamo questa pazza, và.”

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“La priorità è lo stock, le abitazioni invendute hanno un costo enorme in termini di

servizio del debito e di capitale impiegato, e non producono flussi per coprire i costi

di struttura e per produrre nuovi progetti, nuovi quartieri. Al netto dell’acquisto dei

terreni, e dei costi generali, l’azienda sostiene un costo di produzione di circa 1100

€ al mq. Secondo i miei calcoli 1/3 delle abitazioni può essere modificato con un

investimento di 300 € al mq, al termine dell’intervento le abitazioni potranno essere

vendute a circa 200 € in più, quindi con una contrazione dei margini. 1/3, quelle

con un layout che non si presta alla modifica, può essere venduto con una formula

commerciale innovativa. 1/3, quello rappresentato dagli appartamenti più piccoli

verrà venduto normalmente grazie al traino di marketing in favore dei complessi

abitativi generato dalle innovazioni di prodotto e commerciali introdotte e di cui ho

appena accennato. Entriamo ora nei dettagli.

Le modifiche riguardano il fatto che questi appartamenti sono dei compromessi,

mentre le famiglie vogliono personalizzazione, flessibilità e spazio. L’idea è di ven-

dere 110 mq, ma di averne a disposizione 180 mq percepiti. La soluzione risiede in

un paio di pareti mobili montate su slitte e movimentabili con telecomando. Home

automation. In pratica posso eliminare temporaneamente una camera poco utiliz-

zata, perché studio o non utilizzata una sera che ho gli ospiti e che un figlio è fuori

con gli amici, e aumentare la zona giorno. Viceversa devo invitare amici a dormire il

weekend, riduco la zona giorno e aumento il numero delle camere.

Questa soluzione offre flessibilità e tanto spazio, l’appartamento non è più rigido,

ma espandibile nelle aree maggiormente usate in determinati momenti, offrendo

alternativamente più camere o un soggiorno molto più grande con gli stessi metri

di un’abitazione standard e agli stessi prezzi. Funzionerà.

Per quanto riguarda invece gli appartamenti non modificabili, si potrà usare una

formula commerciale innovativa: affittarli con la possibilità dopo 3 anni di decidere

la conversione in acquisto, defalcando dal prezzo quanto pagato fino ad allora.

Niente a fondo perduto. La formula costituisce una specie di vendita differita in un

momento difficile di mercato: chi deve decidere di comprare oggi, nell’incertezza

generale, e con i costi di notaio e quant’altro, fa fatica; risulta più facile entrare in

affitto, non a caso mercato in crescita. Poi di fronte a questa formula il cliente sarà

portato a pensare “intanto entro, poi ho 3 anni per pensarci”, in realtà dopo 3 anni

è difficile che, una volta abituato alla vita in quella casa, di fronte all’opportunità di

non buttare quanto pagato in 3 anni di affitto, il cliente non compri.”

“Scusi, ma lei chi è?”

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“Senza maschera come vede sono Rosanna Mambelli.”

“Non ci posso credere, geometra Mambelli…io…non so che dire…”

“Presidente, da tempo io e i colleghi vedevamo che le cose non andavano, ma

non vedevamo nei nostri capi e in lei scelte, mi perdoni, adeguate. Allora, abbiamo

iniziato a riunirci, tra alcuni di noi, e provato a ragionare su cosa non andava, su

quali possibili soluzioni studiare, poi si trattava di attirare la vostra attenzione, visto

che riunite tra di voi ma non coinvolgete mai i livelli inferiori. Così è nata questa

mascherata un po’ teatrale. Ma almeno sono riuscita a far ascoltare la nostra voce.

Ora può anche licenziarmi, se crede.”

“Non ci penso nemmeno, la vostra idea è brillante. È vero siamo stati chiusi nella

torre d’avorio e avevamo nei nostri collaboratori le energie e le idee per venire fuori

dalla melma. Lei e il suo capo venite nel mio ufficio oggi pomeriggio, approfon-

diamo subito quanto proposto e vediamo di creare subito dei gruppi di lavoro per

sviluppare il concetto in maniera industriale.”

Avevo subito una delle mie più grandi lezioni da quando lavoravo da una giovane

ragazza…non ascoltavo…il messaggio era chiaro, cambiare.

Meglio tardi che mai.

Postfazione

In questo breve racconto si intende sottolineare l’importanza di integrare l’innova-

zione di prodotto con quella di processo e commerciale, in questo modo si danno

più chance ad un investimento molto rischioso, quello in ricerca e sviluppo, di di-

ventare pregnante e di incidere in maniera più forte nel posizionamento dell’azienda

e della sua offerta. Isolare la ricerca dal resto dei reparti aziendali comporta dei pro

e dei contro, ciò che conta è che la creatività, la voglia di innovare, sia ben presente

sia ai massimi livelli aziendali che a quelli operativi e che il dialogo funzioni nei due

sensi, top down e bottom up.

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“Prego Dott. Sarti, si accomodi. Gradisce qualcosa, un caffè, dell’acqua?”

“Un po’ d’acqua, naturale se possibile, grazie.”

“Martina, per cortesia ci porta una bottiglia d’acqua naturale con due bicchieri?”

“Senta, il suo curriculum mi è piaciuto molto, e dal momento che questa ricerca

è così importante, parliamo della posizione di direttore generale, valutiamo diret-

tamente le candidature migliori. La ringrazio quindi dell’interesse che ripone nella

nostra azienda e di aver proposto la sua candidatura, rispondendo all’inserzione

sul nostro sito web. Ci siamo posti l’obiettivo di inserire nella struttura il nuovo ma-

nager in sei mesi.

Vorrei chiederle in primis, quali sono le motivazioni che la spingerebbero a lasciare

il suo attuale incarico per venire da noi, considerato che lei è già direttore generale

di una delle migliori aziende italiane?”

“Grazie a lei della considerazione, prima di tutto. Mi piace la vostra azienda, il pro-

dotto, la cultura. Nel mio attuale incarico ho raggiunto gli obiettivi e non vedo nel

medio termine sfide in grado di rimotivarmi. Già da questo primo approccio, sto

avendo conferma di aver fatto bene a propormi.”

“Prego?”

“È atipico che per valutare un possibile direttore generale intervenga inizialmente il

direttore del personale. Mi piace, significa che lei ha la delega e la fiducia del capo

azienda.”

“In effetti, il Presidente mi ha chiesto di proporgli una rosa ristretta di 2 candidati

con alcune caratteristiche di base.”

“Siete originali anche nelle assunzioni degli altri profili?”

“Ritengo di si, siamo leader e vogliamo rimanerlo, e quindi stimoliamo cambiamenti

continui di metodo, sia nell’attrarre che nel motivare e gestire le risorse umane

migliori.”

“Condivido.”

“Vuole farmi qualche altra domanda, sull’azienda, la strategia, il ruolo del direttore

generale? La prego non si faccia remore.”

“Grazie, approfitto volentieri. Cosa vi aspettate da un manager di questo tipo?”

“Vogliamo che contribuisca a definire le strategie, confrontandosi sia con il Presi-

dente, che con la prima linea dei manager. Che guidi operativamente l’implementa-

zione della strategia. Gli obiettivi specifici di business dei prossimi 3 anni, contenuti

nel piano industriale, non posso rivelarglieli in questo primo incontro, ma le anticipo

che sono ambiziosi.

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Ci aspettiamo, inoltre, che sia un coach in grado di far crescere professionalmente

sia i singoli che la squadra.”

“Grazie, mi perdoni la franchezza, questo manager avrà la libertà di farsi la propria

squadra, o dovrà in ogni caso tenersi i manager attuali?”

“Penso che dovrebbe prima provare a valorizzare il capitale umano esistente e poi

fare gli eventuali correttivi, se necessari. Quindi, pur con tutte le cautele del caso,

in linea di principio, il direttore generale avrà il potere di fare cambiamenti impor-

tanti.”

“Potrei cambiare anche il direttore del personale? Scherzo, mi perdoni.”

“Nessun problema, potrebbe, siamo sempre sotto esame. Tutti.”

“D’altra parte la leadership costa molta fatica.”

“Senta, vorrei chiederle quali sono i suoi obiettivi futuri in ambito professionale, la

sua personale visione a medio termine.”

“Non ho obiettivi gerarchici ed economici, che considero una naturale conseguen-

za di un lavoro ben fatto. Mi interessa realizzare percorsi di crescita concreti, diver-

tendomi, in compagnia di uomini e donne di valore. Voglio imparare.”

“E poi? Cambierebbe di nuovo, lasciando un vuoto organizzativo importante?”

“Sul cambiare, non è detto, dipende dalla capacità dell’azienda di mutare pelle

costantemente, di darsi nuove sfide e quindi di tenere in tensione emotiva i suoi

collaboratori. Sul lasciare un vuoto organizzativo, no. Il bravo manager è colui che

col tempo riesce a non rendersi indispensabile, facendo crescere i suoi collabora-

tori, e preparando il suo successore.”

“Non avrebbe timore della concorrenza interna?”

“No, perché sono proiettato al futuro, e perché per ottenere grandi risultati bisogna

avere collaboratori eccezionali, naturalmente in grado di diventare capi azienda.

A loro volta, mi aspetto che si comportino nello stesso modo con i giovani dei loro

team di lavoro. Potrei definirla una sorta di meritocrazia diffusa.”

“E come si comporterebbe con chi non si rivelasse all’altezza?”

“Penso che ci sia sempre un concorso di colpa tra le parti. L’azienda potrebbe aver

sbagliato nella valutazione della persona al momento dell’assunzione, o potrebbe

non averla messa nelle condizioni di raggiungere gli obiettivi. Oppure potrebbero

essere sopraggiunti nuovi elementi privati che condizionano il rendimento del col-

laboratore. In ogni caso, credo che l’azienda dovrebbe tentare di tutto per evitare

il fallimento del manager, e solo dopo aver fatto il possibile, qualora ciò non sia

servito, trovare una soluzione insieme a lui che non sia penalizzante sul piano della

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reputazione, dell’equilibrio psicologico e sotto il profilo economico. Un manager

che esce scontento dall’azienda e se ne fa un’opinione negativa è un costo che

un’impresa leader non può assolutamente permettersi.”

“Spero che nessuno le abbia mai parlato male di noi, allora.”

“Nessuno, in effetti. Posso farle una domanda io, ora?”

“Prego, ci mancherebbe.”

“Quali sono le sue aspettative a medio termine?”

“Mi piacerebbe avere un leader di grande qualità da cui apprendere il più possibile.

Vorrei vedere i giovani che ho assunto crescere qui o in altre realtà, e raggiungere

grandi obiettivi. Direi che in sintesi queste sono le mie aspettative future.”

“Spero che lei mi perdoni, ora devo rivelarle un segreto. Io non sono il Dott. Sar-

ti, sono Alfonso Micheli, amministratore delegato nonché fondatore e azionista di

maggioranza della Sure, compagnia assicurativa leader mondiale per innovazione

dei suoi prodotti e preferita dai giovani.”

“Sono esterrefatto! Conosco benissimo la Sure, e lei di fama, ma non capisco…”

“Le spiego subito. Il Dott. Sarti è un mio caro amico e dal momento che il suo

profilo corrispondeva perfettamente a quello della vostra ricerca gli ho chiesto di

prestarmi la sua identità. Ovviamente egli era al corrente dell’utilizzo che ne avrei

fatto. Come noto, poi, io rilascio poche interviste alla stampa e non esistono mie

immagini ufficiali. Anche Sarti non parla mai, lo fa il suo Presidente. Lei non poteva

quindi riconoscermi.”

“Mi scusi, continuo a non capire.”

“Sto cercando il direttore del personale, e ho deciso di farlo in maniera originale.

Ho in piano di spostarmi in 5 anni dall’operatività piena ai soli aspetti strategici.

Per questo devo dedicare molto tempo alla mia squadra, avendo certezza che

ci siano le qualità umane e professionali per dare continuità di successo alla mia

impresa, e che tra questi manager ci sia qualcuno in grado di sostituirmi tra pochi

anni. Mi piace la vostra azienda e avevo informazioni positive su di lei. Intendevo

verificarle di persona. Missione compiuta. Qualora fosse interessato mi piacerebbe

offrirle la vicepresidenza human capital della mia azienda.”

“Sono molto sorpreso. Io la ringrazio della considerazione, ma mi scusi, non poteva

semplicemente farmi chiamare per verificare la mia disponibilità?”

“No. Non volevo che lei venisse a “vendermi” la sua merce, avevo bisogno di te-

starla sul campo, nell’esercizio del suo lavoro.”

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“Capisco. Mi pongo dei dilemmi etici, io sto facendo un colloquio di assunzione,

mentre in questo momento sono pagato dal mio datore di lavoro.”

“Lei non poteva sapere che stavo facendo io il colloquio a lei. Lei stava intervistan-

do Sarti. Mi sono interrogato anch’io, naturalmente, sull’opportunità di fare questa

cosa. Ho pensato che le nostre aziende non sono in concorrenza per nulla e che,

in fondo, siamo in regime di libero mercato, no? E poi un po’ di spregiudicatezza

è sempre necessaria. In ogni caso, sia che lei accetti, sia che preferisca restare,

a titolo di risarcimento per averla, spero simpaticamente, ingannata, le offro per la

formazione ai top manager della vostra azienda una mia testimonianza imprendito-

riale di mezza giornata. Nelle prossime settimane.”

“Grazie. Accetto il “risarcimento” con piacere, il mio Presidente sarà molto conten-

to. Per quanto riguarda l’offerta, le chiedo di poter riflettere un paio di settimane.”

“Perfetto. Ah, le consiglio a questo punto di chiamare il vero Dott. Sarti. So che è

un ammiratore sincero di questa azienda. Così magari il direttore generale lo trova

davvero!”

Postfazione

Il capitale umano, a tutti i livelli, è sempre più uno dei fattori chiave di competitività

delle aziende. Coniugare l’attenzione alle persone con l’utilizzo del pensiero crea-

tivo apre spazi, opportunità insondate alle imprese. Questo racconto vuole essere

solo uno stimolo a pensare in maniera aperta, possibilista e a dedicare attenzione

alla selezione e alla motivazione dei collaboratori.

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Ereditare quest’azienda da mio padre è stata una grande fortuna, ma anche un

onere, un vincolo emotivo che mi ha condizionato per sempre. Da ragazzo, per-

cepivo solo i vantaggi derivanti dalla condizione economica privilegiata di figlio di

imprenditore, condita talvolta dai fastidi dell’invidia di qualche coetaneo. Quando

mio padre morì improvvisamente nove anni fa, la musica cambiò. All’epoca facevo

il manager in Brasile per una multinazionale tedesca di servizi di telecomunicazione;

io e il mio vecchio non andavamo molto d’accordo, ma devo riconoscere che, non

senza una certa lungimiranza, aveva sempre assecondato il mio bisogno di essere

indipendente. Il suo punto di vista era che altrove mi sarei fatto le ossa e avrei avuto

la stima dei suoi collaboratori qualora un giorno avessi deciso di entrare in azien-

da. Aveva ragione. Nove anni fa la Econic, attiva nella produzione di ingranaggi e

pulegge speciali per sistemi di trasporto collettivo (scale mobili, minimetro, nastri

trasportatori, funivie, seggiovie, cabinovie, ecc.), contava 400 dipendenti in 4 sedi,

di cui 2 produttive, e 50 milioni di euro di fatturato. Non male, ma troppo piccola

nel 2015. Mio padre, grazie alla ricerca sui materiali e ad alcuni brevetti sugli ingra-

naggi, forniva ai suoi clienti dei prodotti incredibilmente resistenti e con maggiore

scorrevolezza rispetto ai concorrenti; prodotti che consentivano ai clienti della Eco-

nic notevoli risparmi sia dal lato della manutenzione, per assenza di rotture, che da

quello dei consumi energetici, grazie agli attriti ridotti.

Squilla il portatile dell’Ing. Fausto Saperi e compare videoproiettato in 4D nel suo

ufficio l’ologramma della sagoma del figlio Luca.

“Ciao Papà, scusa se ti disturbo, volevo dirti che ho deciso che all’Università voglio

studiare Filosofia.”

“Ok, senti, finisci la scuola prima, poi dopo le vacanze studio in India deciderai con

calma, mancano ancora 3 anni. Ciao.”

Da sempre lavoro molto, sottraendo tempo alla famiglia, esattamente come mio

padre quando ero bambino. Per questo sfrutto le tecnologie e con mio figlio Luca

ci sentiamo molte volte per brevi scambi durante la giornata; è un po’ il nostro

gioco.

Riprendendo il discorso, il boom infrastrutturale del Brasile grazie alle Olimpiadi e

ai Mondiali di calcio aveva trainato le commesse della Econic e anche l’entusiasmo

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e le illusioni di mio padre; ma di lì a poco, forse anche per il carico eccessivo di

lavoro, purtroppo un infarto decise delle sorti di mio papà. I giornali si occuparono

dell’imprenditore Mario Saperi, della sua figura carismatica, del futuro dell’azienda.

A quel punto sentii per la prima volta il peso della responsabilità di 400 famiglie,

della reputazione dell’azienda e della memoria di mio padre.

Morale, lasciai il Brasile e presi in mano l’azienda. Ai nastri di ripartenza nel 2015

avevo a disposizione giovani e maestranze di valore, brevetti, uno stabilimento in

Italia, uno in Turchia, due filiali commerciali in Brasile e negli Emirati Arabi Uniti.

Oggi, nel 2024, ho 43 anni, e la Econic fattura 280 mn di EURO con un Margine

Operativo Lordo del 10%, 4 stabilimenti produttivi e 4 filiali commerciali. Totale

dipendenti 1500.

Come ho fatto? Semplice, ho migliorato il Margine Strategico Lordo. Ok, ok, ora

vi spiego.

Quando presi in mano le redini della Econic avevo chiaro quali fossero i gap: di-

mensione piccola per competere a livello globale nel lungo termine, e soprattutto

per sostenere gli investimenti in R&D necessari per mantenere una gamma prodotti

innovativa e differenziata, squadra manageriale incompleta, costi elevati della sede

italiana, azienda orientata ai prodotti e non ai servizi. Questo il quadro in estrema

sintesi.

Chiamai la Fair Play ad aiutarmi, sia per dettagliare meglio i problemi, che per dise-

gnare una soluzione ed implementarla. Da ingegnere cresciuto nelle Telecomunica-

zioni avevo un pallino per la tecnologia e per i servizi, e questo mi avvantaggiò non

poco visti i trend dell’economia; però passare da prodotti a soluzioni implicava una

modifica importante del business model, per questo cercai un aiuto esterno quali-

ficato. Disegnammo per prima cosa un nuovo modello di pianificazione strategica

di lungo periodo dove i classici parametri economico finanziari di performance an-

davano ad intrecciarsi con parametri intangibili quali capitale umano, intellettuale,

relazionale, di marca, ecc e nuovi indicatori progettati ad hoc. Il punto di riferimento

di tale algoritmo manageriale era il Margine Strategico Lordo, un indicatore di so-

stenibilità competitiva e gestionale che tiene conto non solo dei dati finanziari, ma

anche dello scenario, del settore diretto e di quelli simili, dei trend di mercato e dei

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main players.

Nel concreto, le prime azioni seguenti il piano furono:

1) La creazione di una nuova governance operativa, con l’abolizione della direzione

commerciale e marketing a favore della direzione clienti e della direzione business

development; la R&D e l’IT furono accorpate nella direzione innovazione, perché

per me l’innovare non riguarda solo il prodotto, ma anche i servizi e i processi; stra-

tegie, finanza e amministrazione, affari legali furono accorpate in un’unica direzione

strategie; la direzione industriale rimase più simile alla vecchia e si chiamò direzione

operations, con un particolare accento sulle sinergie e i processi integrati; io mi pre-

si inizialmente la nuova direzione human capital oltre al coordinamento generale. In

totale solo 6 direzioni centrali, per una gestione snella, veloce, meglio coordinata.

In generale fu prestata grande attenzione all’integrazione tra commerciale, finanza

e operations, perché tutta l’azienda vende e deve vendere in modo profittevole.

2) Per riempire le caselle ci facemmo guidare dal nuovo modello che ci richiedeva

manager di determinate fasce di età e un bilanciamento culturale, pertanto un in-

terno fu promosso alla direzione innovazione, mentre per le altre posizioni cercam-

mo 4 manager di età compresa tra 33 e 40 anni.

3) Il tutto parallelamente alla guida dell’azienda, che nel frattempo doveva ovvia-

mente continuare a produrre e vendere meglio che poteva.

4) Fu prestata grande attenzione alla chemistry e all’amalgama della squadra e alla

motivazione, con un sistema premiante che fosse in grado di bilanciare la perfor-

mance individuale, quella del team, quella di breve e quella di lungo periodo.

5) A quel punto, ma nella pratica su un piano temporale quasi sovrapposto, mi oc-

cupai della governance societaria; vi ricordo che mio padre deteneva il 100% delle

azioni. Oggi siamo quotati in borsa a Hong Kong ed io personalmente ho il 23%

della Econic, il management il 17%, il resto è flottante, cioè l’azienda è contendibile.

Il passaggio intermedio verso la quotazione e la diluizione delle mie quote fu co-

gestito con un fondo di private equity.

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6) Dal punto di vista industriale mantenemmo in Italia la testa e le produzioni alto di

gamma, efficientammo ed espandemmo lo stabilimento turco, e realizzammo due

joint venture produttive in Messico e in Cina.

7) Il passaggio da produttore a solution provider passò attraverso una gestione

articolata del co-design con i grandi clienti. Trovammo il modo di intensificare la

relazione con loro, e al contempo di ridurre i nostri codici di prodotto e il magazzi-

no, e di pianificare per tempo gli investimenti per le forniture su commesse di lungo

periodo. Questo ci ha permesso di abbattere i costi di R&D, di alzare una barriera

competitiva elevata e di referenziarci per i nuovi clienti. Indubbiamente uno dei punti

chiave del nostro successo.

Il processo di pianificazione e riorganizzazione richiese quasi due anni, senza con-

tare la creazione delle joint venture, ma quell’assetto dura tuttora.

Squilla di nuovo il portatile dell’Ing. Saperi.

“Papà, meglio Aristotele o Platone?”

“A me piacciono entrambi, tutti gli uomini sono sia elici che onici, in dosi diverse.

Ciao.”

Postfazione

I passaggi generazionali si svolgono sempre più in un quadro di progressiva sepa-

razione tra gestione del capitale e dell’operatività. In realtà è meglio evitare guerre

ideologiche tra i fautori dell’impiego di manager esterni nella gestione e tra quelli

che credono che la famiglia debba essere coinvolta; conta solo la meritocrazia, e

quindi il mercato. La capacità di pianificare a lungo termine e di implementare ve-

locemente e correttamente consente di realizzare grandi progetti aziendali rispon-

denti alle esigenze del mercato.

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L’idea mi venne un po’ per caso, e un po’ grazie ai viaggi frequenti di lavoro che mi nutrivano di spunti, immagini, incontri.

Un paio di anni fa mi trovavo in trasferta a Cape Town per la Barone Ruffini, nota azienda di vini toscani di alto lignaggio, prezzo medio al pubblico 40 €, e per la quale ero Export manager. In Sudafrica un segmento alto della popolazione ha un palato colto e beve molto bene, vini italiani, francesi, ma anche californiani, cileni e…sudafricani. Sì, nel paese si produce dell’ottimo vino rosso. Una sera, dopo una giornata di lavoro presso il nostro distributore locale, uscii dall’albergo a prendere una boccata d’aria e andai a mangiare al Fraai Uitzicht, uno dei migliori ristoranti in città e pertanto dotato di una cantina di eccellente qualità…Sì, ci andai da solo, un po’ sfigatino, lo so, ma in trasferta succede, però in queste circostanze perlomeno lo spirito di osservazione si acuisce. Guarda caso, quella sera il ristorante era pieno di coppie… ero letteralmente cir-condato. Ordinai un calice del nostro Brunello. Nel corso della serata osservai che tutte le coppie, ma proprio tutte, avanzarono a fine pasto in media poco meno di mezza bottiglia. Uno spreco di qualità, ai prezzi del ristorante svariate decine di euro lasciate sul ta-volo. Il problema era noto, nulla di realmente nuovo, ma quella sera mi si ripropose all’attenzione con maggiore forza. Per la verità le bottiglie da 50 cl sono sempre esistite, ma non tutte le case vinicole producono in quel formato e comunque non hanno mai avuto un gran successo; questo perché bisogna vendere sempre di più. Ricordate le vecchie pubblicità dei dentifrici, dove gli attori degli spot si spalmavano una quantità incredibile a onda di dentifricio sullo spazzolino? Beh, più o meno lo stesso principio esiste anche nel vino. Addirittura, oggi esistono anche formati più grandi in Tetrapack.Ciò mi sembrava e mi sembra tuttora incompatibile con la crisi e con l’evoluzione dei consumi, con famiglie sempre meno numerose, e l’aumento esponenziale dei single; per non parlare poi delle restrizioni del codice della strada. Al supermercato osservavo già da tempo il proliferare di cibi monoporzione, mentre nel vino, in particolare nel segmento premium, non vi era traccia d’innovazione. Tutti questi segnali si trasformarono in una vera e propria ossessione quando in aereo, durante il volo di rientro in Italia, la bottiglietta di vino Bordeaux monodose, fino ad allora solo distrattamente osservata, mi si incise nella mente, ancor più che nel palato.

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Basta, decisi che avrei fatto del formato uno strumento per stimolare la crescita della nostra azienda.

Rientrato in sede invitai a cena a casa mia alcuni colleghi, preparai loro una sorpre-sa: versai vini aziendali e non, di gradazione crescente, in piccoli decanter di design e in mini brocche ordinarie, accostando vini simili per qualità, ma versando quelli leggermente migliori nelle brocche e quelli un po’ inferiori nei piccoli decanter. Mi costò un capitale quella cena, ma il gioco valeva la candela.

Tra un formaggio, un involtino, un cubetto di arrosto e le varie degustazioni, annotai mentalmente i commenti degli ospiti…Ebbene, i vini nei decanter stimolarono un percepito più alto rispetto ai vini con un rating maggiore.

Nel primo comitato di direzione successivo a quella cena, a “tradimento” esposi in forma di slides e grafici il risultato della cena, scusandomi per averli usati a loro insaputa come cavie. Come noto, l’ambiente del vino è un po’ chiuso e votato allo status quo, alla tradi-zione, le innovazioni vanno ben confezionate per non farle bocciare sul nascere. Lo scopo di accendere il dibattito fu centrato, i cervelli si attivarono e potemmo, non senza qualche compromesso, organizzare un paio di gruppi di lavoro. Il primo esito dopo 45 giorni fu onestamente una delusione: forme, dati e idee era-no in ordine sparso. Finsi, per non tarpare l’entusiasmo, di gradire tutte le idee e proposte e ci lasciam-mo con l’intento di riunirci entro una ventina di giorni. Mi misi d’accordo con il direttore amministrativo e, grazie al fatto che avevo rispar-miato nel corso dell’anno sulle note spese, mi autorizzò una spesa di 15.000 € per pagare due concept di bottiglia da 50 cl. Avevo bisogno di due approcci diversi, uno di design e uno artistico. Preparai un brief e contattai un designer e uno scultore capaci di plasmare forme originali, “stilose”.

Dopo 2 settimane incontrai in azienda prima il designer e poi lo scultore. Il primo portò dei rendering che proiettò con il suo Mac in sala riunioni. Devo dire che fece un lavoro bellissimo ma…freddo. Il nostro vino rosso è un prodotto “caldo”, in qualche modo tradizionale, il cui nome, Barone Ruffini, evoca storia, nobiltà; un design cutting edge come quello proposto mi pose di fronte ad un interessante contrasto, contenitore futuristico e contenuto

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tradizionale. Meglio l’armonia o l’originalità? Peraltro, dal punto di visto tecnico la bottiglietta-vasetto presentava certamente difficoltà nella realizzazione dello stampo, e richie-deva in dotazione un particolare cavatappi per estrarre il sughero; inoltre, la forma rischiava dopo un po’ di tempo di passare di moda, ma soprattutto mi poneva importanti interrogativi dal lato della percezione dei consumatori. Se da un lato la bottiglia otteneva l’obiettivo di distinguersi e di attirare l’attenzione, poteva quasi far passare il contenuto in secondo piano, quasi che i consumatori potessero comprare il prodotto per avere poi il contenitore. Comprato una volta, di una forma così particolare non è che poi di vasetto te ne serva più di uno; senza contare che si ponevano dubbi sulla nostra credibilità come produttori di lunga tradizione. Insomma, le mie perplessità crescevano minuto dopo minuto. Pertanto, andai alla riunione con lo scultore non senza una certa ansia…l’artista arrivò senza computer ma con un cartoccio da cui estrasse il suo prototipo, una brocchetta classica, ma con alcuni dettagli che ne rivelavano pensiero e moderni-tà. Il vasetto aveva una forma semplice ma con un’apertura asimmetrica come a favo-rire una piega a mo’ di beccuccio salva goccia e un tappo di sughero più lungo e largo del normale; la base aveva uno spessore del vetro relativamente importante, circa 8 mm, il che conferiva solidità all’insieme. Il prototipo mi piaceva perché era allo stesso tempo semplice e prezioso, classico ma con dettagli moderni e pratici come il beccuccio. Una volta utilizzato poteva essere riutilizzato come porta olio o come porta aceto. Produrre questo contenitore costava, ma certamente meno dell’altro. Ero convinto.Organizzai la famosa riunione con i colleghi cui invitai prima il designer e a seguire lo scultore. Per fortuna i miei colleghi tradizionalisti furono entusiasti della brocchetta.Chiedemmo alcuni miglioramenti, tra cui la firma incisa dell’artista nello spessore laterale della base, per dare un tono di ulteriore esclusività.La fase successiva fu quella della pianificazione economico-finanziaria della com-messa. Una volta approvati i conti selezionammo i fornitori e ci attrezzammo per l’imbot-tigliamento. In soli 4 mesi fummo pronti per il lancio di DUO, il nostro Brunello in versione pensata per la coppia, disponibile sia sul canale HO-RE-CA che sul ca-nale GDO.

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Preparammo una comunicazione raffinata con un’agenzia esperta nei beni di lus-so, per posizionare il prodotto in fascia alta e, soprattutto, made in Italy per l’inter-nazionale. Colori caldi, la mano di un uomo galante che versa DUO in un calice impugnato da una mano femminile molto seducente. Un lume di candela a richiamo della situazione.Il copy della campagna recitava cosi: PASSION NECTAR, ALWAYS.In pratica l’idea era che un consumo moderato di qualità potesse avvenire spesso, in un contesto …sexy, e senza sprecare prezioso vino come nelle bottiglie di for-mato maggiore.

Il successo fu immediato, sia nel canale ristorazione che in quello della grande distribuzione. In effetti, l’uomo come decisore d’acquisto poteva acquistare questo nettare di seduzione per incontri romantici spendendo in assoluto poco ma in termini relativi molto, facendo quindi bella figura, sia per il consumo in casa che per quello al ristorante.Va detto che un po’ di cannibalizzazione sul nostro Brunello da 75 cl inevitabilmen-te ci fu, ma le vendite elevate di DUO aumentarono il nostro volume complessivo, sia per l’incremento di nuovi consumatori, sia a scapito dei nostri concorrenti.Lanciammo poi una versione DUOLD in rosso anticato e un tocco di ceralacca sul tappo per il vino più invecchiato. Per il prossimo futuro l’idea è di declinare il concetto dei 50 cl su altri temi e quindi con altre forme. Se tutto continua ad andare così, brinderò con una damigiana, altro che DUO!

Postfazione

In questo racconto di fantasia innovazione di prodotto, marketing strategico e pro-

mozione si intrecciano a sottolineare la forza di un concetto nel tentativo di diffe-

renziare la propria offerta. L’intuizione non può essere preventivata, ma la si può

favorire migliorando il proprio spirito di osservazione e la qualità dei riferimenti cul-

turali ai quali ci esponiamo. Inoltre, l’intuizione non propriamente concettualizzata

rimane fine a se stessa.

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Milano, 23 settembre 2011, pizza da Arturo con il mio amico Giovanni.

“Giovanni, non ne posso più. Lo sai come la penso, sono da sempre un liberale e delle tue idee dirigiste non condivido pressoché nulla. Ogni volta che ci vediamo mi rompi le scatole con gli stessi concetti.”“Facciamo una cosa Tancredi, perché non giochiamo su questa nostra diversa visione del mondo? Proviamo a scrivere come sarà il futuro sulla terra, chessò, nel 2030, cercando magari di mettere elementi sia della mia, che della tua cultura di riferimento. Sì, proprio un racconto di fantaeconomia, e tra un paio di settimane ce li scambiamo, così per ridere e per arricchire le nostre riflessioni di nuovi elementi. Ti va?”“Ci sto, ma tu sei avvantaggiato, io sono un ingegnere, tu un giornalista, mi strac-cerai di sicuro…”“Non è mica una gara, è un gioco.”“Ah già, dimenticavo che per te la competizione è pericolosa e andrebbe bandita dal mondo!”

15 giorni dopo in pizzeria.

“Eccoci qui, ti sei impegnato?”“Certo, ti ho proposto io il gioco.”“Chi comincia?”“Inizia tu, Tancredi.”“Bene, questo è il mio racconto, s’intitola Moontropolis. Lo sforzo più grande è stata la parte…“statalista”, come puoi immaginare!”“Sono tutto orecchi, anzi antenne.”

2030. 18 Maggio. Luna. 61 anni dopo lo sbarco sulla luna dell’Apollo 11 eccoci qui di nuovo. Io, Tancredi Watson, figlio di padre inglese e di madre italiana, faccio parte del primo gruppo di coloni sbarcati sulla luna. Per viverci.L’agenzia dell’ONU preposta a negoziare con i vari paesi tutti gli aspetti del proget-to mi ha selezionato. Motivazioni, titoli, requisiti fisici e psicologici, età, nazionalità, punteggi realizzati al concorso, questi i criteri di scelta. Sono con altre 999 persone provenienti da tutto il mondo, gruppo la cui com-posizione è il frutto di un complicato algoritmo, a sua volta influenzato da anni di negoziati economici e politici tra i vari stati. Mi trovo qui insieme ai miei compagni di melting pot per salvare la terra o, alla peggio, vista la lunga durata dell’esperimento,

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anche per salvare me stesso e la mia famiglia. Sì, faccio parte della categoria nuclei familiari, sono qui con mia moglie Laura e nostro figlio Bartolomeo. La situazione è così difficile nel nostro pianeta che l’ONU, di fronte all’evidente impossibilità di ri-solvere conflitti, abbattere inquinamento, carestia, sovraffollamento, decise 10 anni fa di fare un esperimento, creando un laboratorio sociale. Una Città della Luna, con meccanismi di convivenza e meritocratici originali. Per anni ci sono stati i viaggi dei tecnici che hanno trasportato e montato la città, integralmente prefabbricata, e la calotta che la copre. Lo schema urbanistico è semplice, cerchi concentrici lungo arterie o raggi di 1.500 m, per una superficie complessiva di circa 7 kmq e una densità di 142 abitanti per kmq. La città calotta è programmata per crescere del 50% fino a 1.500 abitanti, corrispondenti ad una densità di circa 200 persone per kmq. Nel frattempo si costruirà un’altra calotta comunicante e così via.

La vita sociale è regolata secondo principi semplici: la lingua ufficiale è l’inglese, esiste un comitato elettivo di 10 saggi che decide e governa la città. I principi co-stituzionali e gli aspetti più importanti sono però stati concordati e decisi dall’ONU sulla terra, cui la città della luna è collegata in maniera concettualmente e visiva-mente simbiotica, visti gli scopi dell’esperimento. Dalla terra tutti possono vedere in tempo reale sui loro schermi le scene di vita di questo irreality show su www.moontropolis.com, come fosse uno spot continuo on demand del vivere bene in comunità, sia per influenzare positivamente il vivere sulla terra, sia per attirare nuovi candidati a raggiungere Moontropolis. Sì, perché la crescita demografica non è delegata alla sola procreazione, ma anche ai nuovi arrivi dalla terra. Ogni anno 20 nuovi “lunari”, scelti sempre secondo i noti criteri, arrivano a Moontropolis.

Esistono le classi culturali, vale a dire che le differenze si giocano sulle conoscenze e sulle competenze, oltre che sul Q.I. Anche perché a Moontropolis non si produce nulla di fisico, ci sono solo professioni intellettuali e servizi, sia per il bacino ristretto dei lunari, sia per i terrestri. Servizi in questo caso erogati tramite la rete multime-diale terra-luna. Gli alloggi sono assegnati con mutui al 100%. A Moontropolis ci sono un ospedale, una farmacia, navette pubbliche, ristoranti, cinema, bar, una banca, negozi. Le persone sono libere di mantenere attività sulla terra e di gestirle in remoto. Per gli equilibri psicologici delle persone e per gli alti costi, i lunari possono tornare sulla terra solo ogni 3 anni, contribuendo proquota alla copertura dei costi insieme all’ONU attraverso il programma New World. Allo stesso modo i terrestri possono

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visitare la città, come se Moontropolis fosse una meta turistica. Ogni anno una navetta porta una ventina di terrestri sulla luna per qualche giorno. I contatti avvengono però giornalmente attraverso la Rete. Non si sta male a Moontropolis, diciamo che ci si deve abituare. Conta molto lavo-rare intensamente e nei momenti di nostalgia aggrapparsi a quel viaggio che ogni 3 anni ti riporta in visita sulla terra.

Perché io, ingegnere, molto quadrato, anzi, con i piedi per terra, ho deciso di anda-re sulla luna? Che cosa mi ha spinto a una scelta così radicale? Osservare Il nostro bel paese invecchiare sempre più e diminuire la sua propensione al rischio, oltre che la sua capacità di innovare, mi disturbava. Negli altri paesi occidentali non è che le cose andassero meglio. Solo la Germania riuscì a mantenere slancio e la sua proverbiale solidità, mentre gli USA concentrarono tutto sul business militare e sulle tecnologie. Insomma, i nuovi dominatori erano Cina e India. Un giorno al telegiornale annunciarono l’inizio del programma ONU New World e lì, in quel preciso istante, ne feci una fissazione, un obiettivo di vita. Dieci anni di calvario e poi il risultato. Eccomi qui. Peraltro gli affari mi vanno benissimo, consi-derato che ciascuno dei 1.000 lunari ha una popolarità immensa sulla terra e molti clienti si contendono le loro consulenze e i loro servizi. Io stesso eseguo molte perizie, studi che vendo a prezzi…galattici, s’intende. È molto cool dire “ sai, il mio avvocato lunare mi ha consigliato…”. In generale, è vero che siamo qui come cavie per riprodurre sulla terra, opportuna-mente adattato, il modello di convivenza nato in questo laboratorio, tuttavia credo che sempre più persone si sposteranno qui e che verranno costruite altre calotte. Ora sorrido alle parole di una vecchia canzone interpretata dal grande Sinatra: “Fly me to the moon…”

“Accidenti Tancredi, bello, mi è piaciuto molto. Non me lo aspettavo da te un rac-conto di questo tipo.”“Grazie, ma ora tocca a te Giovanni, vediamo che visionario sei.”“Okappa, procedo!”

“Ladies and Gentlemen, the winner of the Economartist 2030 is Mr. Giovanni To-gnoni!” Wow, ragazzi, con gamba tremante e lacrime e sorriso salii sul palco. Dopo la stretta di mano, ascoltai il presentatore leggere la motivazione del premio: “The world wide jury gave Mr. Tognoni 57 million votes, which makes his business in-vention “Multicar” the number one. Through easy commands the car can turn into

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4 different vehicles: van, cabrio, city, sports car. Even more important...this car can be turned into a single’s emergency flat, complete with bed, basin, refrigerator and cooker. This invention is changing the real estate market for students, as the priority in our times is to study at the top universities, and the more you can save to pay the cost of knowledge, the better. That’s why Multicar is extremely popular among young people.”Insomma sono diventato un divo del business, principalmente per un motivo: nel 2030 chi ha successo negli affari è un artista. Il mondo occidentale ha una tale overcapacity produttiva e i consumi sono così personalizzati, che i numeri e le classiche metodologie manageriali non sono sufficienti per decodificare la realtà e dare delle risposte adeguate. Solo l’intuito, la fantasia e il guizzo viaggiano alla velocità dei consumi, sempre più volubili. Finalmente il potere al talento! Sono sempre stato affascinato dal talento, dal dono naturale, genetico di saper fare qualcosa in modo eccelso. Ammiro il talento, sia esso espresso attraverso una sinfonia di Mozart, un giro di pista di Ayrton Senna, una pagina di Milan Kundera, una tela di Egon Schiele, un goal di Maradona... ma più ancora ammiro coloro che lo meritano, avendo piena consa-pevolezza della loro fortuna e mettendo grande impegno per affinarlo e non spre-carlo. In questi casi il talento diventa un patrimonio al servizio dell’umanità, e quindi una responsabilità, prima ancora che un dono. Credo in una società che favorisce l’espressione del talento. E chi non ne ha che fa? In una società libera può bene-ficiare del talento altrui, impegnarsi e accettare serenamente la propria splendida normalità. Non necessariamente talento è sinonimo di felicità...Ed io, ne avevo? Certo non come giornalista, mestiere che era un disastro già ne-gli anni ‘20, e che così decisi di abbandonare. L’idea giusta, un po’ di fortuna, gli incontri adeguati, il credito accessibile…insomma, un’incredibile concomitanza di circostanze favorevoli mi trasformò in un imprenditore di questa start up, Chame-leon vehicles s.l., localizzata in Spagna, visto che avevo sposato Lorena, una bella barcelloneta. In questo mondo impazzito come un videogame non mi fu difficile passare dai grandi ideali al disincanto, per certi versi necessario per fare l’uomo d’affari. Tuttavia, qualcosa di quei riferimenti, che oggi mi paiono antichi, c’è dentro la mia multicar, è la cultura on the road. Senza contare che una multimacchina-roulotte a 30.000 € svolge un compito sociale importante…no? E va bene, non l’ho fatto per questo, ma quel che conta è il risultato! Come si cambia, parlo come un mio amico, Tancredi, con una visione del mondo diametralmente opposta alla mia. Comunque, dall’Italia alla Spagna, premiato dal mercato americano per un prodot-

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to fatto in Cina…non male. Anche se le cose a me vanno bene, non posso non notare che nel mondo è aumentata l’aspettativa di vita, la medicina ha fatto progressi incredibili, però c’è meno felicità, più inquinamento dell’aria e dello spirito. Se solo potessi tornare indietro nel tempo…

“Credevi eh? Eccomi qua, back to the past per fortuna! Proprio fantascienza il mio raccontino!”“Ma bravo, mi sembrava strano che il tuo futuro potesse essere quello che descri-vevi nel tuo racconto. Carino. In effetti, entrambi abbiamo introdotto nel gioco ciò che consideriamo il peggio delle nostre rispettive culture di riferimento. Il risultato è stato lo stesso…”“Già, uno strano risultato il 2030 che ci aspetta. Però ho imparato che giocando ci siamo liberati di alcuni preconcetti.”“Non è bastato a salvare la Terra.”“Consoliamoci, è un pessimismo di fantasia, e se invece cambiassimo realmente il corso degli eventi? Abbiamo vent’anni di tempo. Immagina come sarebbe bello in una sera d’estate del 2030 guardare la luna piena, disabitata, ovviamente. Faccia-molo qui un altro pianeta.”

Postfazione

Esercitarsi nel prefigurare scenari futuri, come scherzosamente abbiamo fatto in

questo racconto, costituisce nel mondo aziendale un lavoro tecnico che codifica la

cosiddetta visione imprenditoriale. I due approcci rappresentati nel racconto, vale

a dire quello razionale-numerico e quello emozionale-intuitivo, sono degli estremi

inadeguati. Oggi, per comprendere la realtà servono sia metodo analitico sia creati-

vità. Definire con cura possibili scenari futuri è il primo passo per costruire strategie

vincenti.

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Alberto Massetti fa parte di quegli imprenditori che la crisi l’hanno sentita

pesantemente. Pochi mesi fa pensava di non riuscire a farcela. Del resto le idee

non vengono facilmente quando sei pieno di debiti, gli ordini non arrivano, i clienti

pagano molto lungo e le banche non allargano i cordoni del credito. C’era di che

essere angosciati.

Comprensibile, la sua azienda era sbilanciata sui costi fissi per crescere sfruttando

un’elevata leva operativa, poi il crollo finanziario di fine 2008 aveva inceppato

questo modello di business.

Alberto Massetti aveva resistito a quella prima onda ma ora la nuova recessione lo

vedeva indebolito, con il fiato corto, per così dire.

Massetti progetta, produce e distribuisce mobili per la casa; armadi, comodini,

scrivanie, letti, tavoli e tavolini, sedie. Fascia media di buon design made in Italy.

Nel 2008 fatturava 30 milioni, oggi nel 2011 le proiezioni attuali sono comprese tra

i 17 e i 18 milioni. Dopo la grossa botta del 2009, il 2010 era rimasto stabile come

vendite ma con peggioramento dei conti, infatti i clienti pagavano mediamente

a 120 giorni e Massetti aveva esitato a ristrutturare nei mesi precedenti, anche

perché costava e poi sperava in una ripresa dei consumi. Al contrario, l’economia

occidentale si trova nel pieno del double dip e Massetti vende in Italia, in Spagna,

Francia e Germania, niente paesi emergenti.

Mollare? Insistere? Cambiare? Non sapeva cosa fare.

Riunione aziendale con il CFO Carlo Anzani.

“Dott. Anzani, mi conferma che stiamo bruciando cassa a un ritmo maggiore

rispetto al previsto?”

“Si Signor Massetti, e le banche possono supportarci solo se presentiamo un piano

credibile di riorganizzazione e rilancio.”

“Ha detto niente, abbiamo pochi soldi, crediti commerciali con probabilmente

un tasso elevato di inesigibili, un sacco di dipendenti e niente presenza in Cina,

Russia, Brasile…Che dovrei fare, sparare ai clienti perche ci paghino? Aprire filiali?

Con quali soldi? Licenziare i collaboratori? E i designer di grido come li pago?”

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“Non se la prenda Signor Massetti, ma io credo che in passato siano stati fatti

errori che paghiamo oggi che certi nodi sono venuti al pettine, per via di questa

crisi senza precedenti. Si deve agire in maniera decisa per porvi rimedio. Io taglierei

i costi in maniera drastica e mi presenterei dalle banche per ristrutturare il debito e

finanziare un piano di rilancio.”

“E se invece trovassimo dei distributori per quei paesi nuovi e grazie agli ordinativi

risaturassimo le nostre maestranze?”

Insomma, Massetti non si decideva, un po’ perché non accettava la riduzione

dell’azienda e delle sue ambizioni, un po’ perché era il proprietario ma anche

romanticamente il “papà” dei suoi dipendenti.

Riunione aziendale con il Direttore Commerciale Marco Cappelli.

“Sig. Cappelli, non può spingere di più sui clienti perché paghino?”

“Il Sell out è basso, la merce non esce dai negozi, e noi stiamo facendo poca

pubblicità per sostenere marchio e vendite. Sinceramente ho poco potere

contrattuale con i retailers, che in questo momento hanno pochi soldi. Potrebbe

essere l’occasione per pulire la rete e togliere il mandato ad alcuni clienti, ma con

questi faremmo poi fatica a recuperare il credito e secondo, noi abbiamo costi fissi

elevati in rapporto al fatturato che pure decresce, dobbiamo arginare la caduta.”

“Queste cose le so! Che soluzioni mi propone?”

“Dobbiamo ristrutturare da un lato e rilanciare dall’altro inventandoci uno o più

prodotti innovativi …”

“Ma non ci sono le risorse finanziarie!”

“Potremmo richiedere la cassa integrazione e presentare un nuovo piano industriale

alle banche o aprire il capitale”.

“Con la cassa integrazione comunicheremmo al mercato che siamo in grave crisi,

quanto ad aprire il capitale non ci penso proprio, e poi in questo momento spunterei

una valutazione bassa.”

“Però così non possiamo andare avanti a lungo, magari sperando in una ripresa

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dell’economia e dei consumi, cosa che mi sembra davvero troppo ottimistica.”

Massetti si sentiva in trappola, aveva fondato l’azienda e l’aveva fatta crescere e

ora in pochi anni la situazione era profondamente cambiata, al punto che rischiava

di fallire.

Ci voleva una buona idea e una decisione strategica forte per uscire dall’angolo.

Una sera Massetti si recò con la moglie a cena a casa di amici, per inaugurare la

loro casa ristrutturata. I loro amici avevano necessità di sfruttare meglio gli spazi, in

quanto la moglie era innamorata della casa e della posizione e non se la sentiva di

traslocare in una casa più grande, nonostante loro avessero tre figli e una intensa

vita di relazione, con frequenti cene e colazioni per ospiti.

Per questo con un falegname molto bravo e grazie alle idee della signora avevano

realizzato dei mobili trasformabili che a loro volta mutavano gli ambienti e la

destinazione d’uso.

La cucina che diventa una bella sala da pranzo, il soggiorno che diventa area

conversazione + camera da letto ospiti, il bagno che diventa lavanderia, gli armadi

con ante girevoli-scorrevoli per modificare i colori, comodini che diventano sedie,

camerette dei bimbi che si trasformano da multi letto a studio e a saletta giochi, la

sala armadi che si trasforma in studio con piano scrivania che scorre uscendo da

un armadio asimmetrico.

Insomma, per Massetti fu una vera rivelazione.

Rientrato in azienda ne parlò con i due dirigenti e insieme decisero che, tenendo

conto dell’andamento del mercato immobiliare e di quello del mobile, provare a

focalizzare la value proposition aziendale su mobili trasforma-ambienti potesse

essere un’opportunità valida. Approfondirono per un paio di mesi lo studio e su

di esso costruirono il piano industriale per le banche. Erano fiduciosi finalmente di

poter ottenere credito, successivamente avrebbero chiesto la cassa integrazione

per respirare nel periodo di 7 mesi necessari di riorganizzazione del prodotto e della

produzione.

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Poi sarebbero passati al lancio, sperando di azzeccare il marketing, e facendo le

cose con attenzione, passo dopo passo.

Un’operazione molto difficile, con poco margine per errori, ma in grado di ridare

entusiasmo e visione a tutta l’azienda, compresi i cassintegrati. L’alternativa

sarebbe stata un lento e inesorabile declino.

Massetti si sentiva rinato e aveva di nuovo una prospettiva per sé e per i suoi

collaboratori.

Postfazione

Imprenditorialità è sinonimo di coraggio, intuito, competenza. Le situazioni epocali

difficili richiedono tali qualità in dosi abbondanti, mentre l’attendismo non fa che

peggiorare le cose e iniettare malumore a tutti i livelli, quando invece bisogna

mantenere alta la tensione emotiva, la partecipazione e l’entusiasmo dei dirigenti

e di tutti i collaboratori. Le idee nascono quando si ha voglia di reagire, ma poi

l’esecuzione dei piani, la realizzazione delle idee stesse si fa con pianificazione,

rigore e professionalità adeguate.