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Anno IX - N° 5, novembre/dicembre 2014 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina BUONE FESTE Anno IX - N° 5, novembre/dicembre 2014 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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Anno IX - N° 5, novembre/dicembre 2014

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

BUONE F ESTE

Anno IX - N° 5, novem

bre/dicembre 2014 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - D

istribuzione gratuita

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SOMMARIOEro stanca del mondodi formiche e cicaleche giravano in tondoUn giorno ho deciso:" io cavalco la lunaquella falce sottilesospesa nel buioper vedere dall'altola terra che schiaccio "

Come un ragno ho rappresouna bava di luceper tendere in cieloun filo d'argentoe ho fatto col filouna scala di stelle

Per anni e per annisu pioli di nebbiaho bucato leggeraquel nero di pecefra sassi sospesiin un regno di morti

Finalmente ho raggiuntola vetta di un montee da un sasso lunareho guardato alle spalleLa Terra sembrava lo sputo cagliatod'un vecchio carogna

D'un tratto m'accorsid'averlo vicinoossuto e nodosocurvato dal tempoLa testa era un teschiole rughe eran fittenel cavo degli occhiil vuoto era eterno

Gli chiesi :" l'hai fatto per rabbia o per sbaglio ?"Rispose sbavando :"Hai ragione, è uno sputoHo creato la Terracon un colpo di tosseLa Terra è un erroreun errore di Dio "

Lina LuraschiVeniano (CO)

Redazione Il filo di Aracne

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220 info: www.circoloathena.com - e-mail: [email protected] - [email protected] del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuitaDirettore responsabile: Rossano MarraDirettore: Rino Duma Collaborazione artistica: Melanton Redazione: Giorgio Liaci, Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero VinsperImpaginazione e grafica: Salvatore ChiffiPubblicità: Giuseppe De MatteisStampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina

L’ERRORE DI DIO

COPERTINA: “Magico Natale” - immagine tratta da internet

Ricordi di scuolaBUONGIORNO, SIGNOR MAESTRO!di Rino DUMA 4

Una finestra sul passatoLA BANDA MUSICALE GALATINESEdi Salvatore BECCARISI 8

Abbazie, conventi e monasteriL’ANTICA ABBAZIA DI SAN MAURO di Maurizio NOCERA 12

Memorie salentineQUANTA STORIA IN DUE CAFFÈdi Augusto BENEMEGLIO 15

Artisti galatinesiALFREDO MASCIULLORecensioni 17

Poeti salentiniFRANCO MELISSANOdi Giuseppe MAGNOLO 20

Terra nosciaPAPA CAIAZZU, LU SCIACUDDHI E LI...di Antonio MELE/MELANTON 24

Extra moeniaLA TEORIA DELLE FINESTRE ROTTEdi Salvatore CESARI, da uno spunto letto su internet 26

Tesori nascostiLA CHIESA DI S. MARIA...di Adriano MARGIOTTA 30

Tra storia e leggendaIL CAVALIERE DECOLLATOdi Piero TRE 36

C’era una volta...LI ZEZZI RUSSIdi Salvatore CHIFFI 38

Scultori salentiniFARE SCULTURA: DONATO MINONNIdi Paolo VINCENTI 41

Sul filo della memoriaLA SOTTAMANUdi Pippi ONESIMO 44

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Era il primo giorno di scuola per quei ragazzini del‘64, che per la prima volta sedevano sui banchi del-la nuova scuola, una scuola totalmente diversa dal-

le Elementari, dove un solo maestro era chiamato adinsegnare le varie discipline.

Gli studenti, seduti compostamente, aspettavano con im-pazienza, ma anche con palpabile timore, che entrasse inaula non più “il maestro”, ma “un professore”. Ma chi? Po-co prima, attraversando il lungo corridoio in fondo al qua-le c’era la 1ª C, alcuni ragazzi avevano chiesto ad Oronzino,il bidello, chi fosse l’insegnante della prima ora.

“Se non vado errato, deve essere la professoressa di lettere” –rispose seccamente quello, senza troppo pensare e anco-ra un po’ alticcio perla bicchierata dellasera precedente inosteria.

Entrati in aula, ipiù furbi e prepoten-ti, con spinte e spal-late, si accaparraro-no gli ultimi banchi,quasi a volersi na-scondere per un in-tero anno agli sguar-di inquisitori e seve-ri dei vari docenti.Una volta sistemati-si, ognuno aspettavain religioso silenzioche la famigerataprofessoressa di let-tere, Amalia Ric-chiuti1, entrasse in aula. Sul suo conto circolava una nomeada far rabbrividire chiunque, pari a quella che suscita Mor-ticia della famiglia Addams.

“Da quando le è morto l’unico figlio, non si fa più vedere in gi-ro, se non per venire a scuola…” – intervenne Luigi con unavocina stentata – “…È sempre stirata in volto e pallida, moltopallida. E poi indossa un vestito nero dal quale non si stacca piùper non offendere la memoria della sua cara creatura”.

“Sì, è vero, anche mio padre non mi ha parlato bene di lei, macircola voce che sia molto brava e preparata” – s’inserì Pinuc-cia nel gruppo dei dialoganti.

“Speriamo che il primo professore ad entrare in classe sia quel-

lo di matematica e scienze…” – tagliò corto Enzo, intenziona-to a spostare il discorso su un altro docente - “…Si tratta delprofessore De Sica… Mauro De Sica. È stato trasferito a Casa-rano da qualche anno. È alquanto stravagante e imprevedibile,veste in modo originale e ha un metodo d’insegnamento tuttosuo. Pare che faccia degli strani ed efficaci esperimenti scientifi-ci e, di tanto in tanto, racconta barzellette per alleggerire la lezio-ne e diletta gli alunni con divertenti storielle legate alla vita degliantichi Romani”.

“Meno male!… e allora… allora sarà una passeggiata studia-re quando in classe ci sarà lui!” – s’inserì Salvatore, dopo avertirato un sospiro di sollievo.

“Nient’affatto!… il professor Mauro, da quanto mi hanno ri-ferito alcuni suoi ex-alunni, pretende chetutti siano preparati eseguano con interessela lezione!”.

Non avevano fini-to di fare le più di-sparate congettureche un uomo elegan-te, molto alto e slan-ciato era fermo adun metro dalla portae seguiva in silenzioi loro intrigantichiacchiericci.

“Buongiorno, ragaz-zi!... la ricreazione nonè ancora comincia-ta!…” – si presentòin maniera inusitata

il professore - “…È tempo di fare le dovute presentazioni… ionei vostri confronti e voi nei miei”.

Tutti scattarono in piedi e all’unisono si lasciarono an-dare, con antico e consolidato vezzo, ad un “Buongiorno,signor maestro!”, quasi a voler chiedere scusa della loro in-nocente distrazione.

“Ciao ragazzi, non sono mica il vostro maestro!… Ormai quel-lo insegna ad un nuovo gruppo di studenti. Io sono il vostro pro-fessore di matematica e scienze per l’intero triennio”.

“Allora, lei è il professore… il professore De Sica?!” - doman-dò a malapena Antonella.

“Sì, sono il prof. De Sica in carne, ossa e con tanti numeri per

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RICORDI DI SCUOLA

Casarano (LE) - Anni ‘70 - Scuola Media “Dante Alighieri”

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la testa!... Insegno da qualche anno a Casarano e devo onesta-mente ammettere che mi sono già perfettamente ambientato inquesta bella e industriosa città…” – riattaccò felicemente ildocente, conferendo maggiore distensione al suo dire –“…Oggi è il vostro primo giorno di scuola. Una scuola moltodiversa dalle Elementari, in cui il maestro vi ha spesso coccola-to, a volte vi ha sgridato e solo in qualche circostanza punito.Qui, nella scuola media, incontrerete tanti insegnanti, forse no-ve o dieci, diversi per modo di fare, per aspetto, per carattere, peresigenze. Perciò, dovete iniziare ad abituarvi ad uno studio mol-to più serio ed incisivo di quello degli anni scorsi. Da quest’og-gi per voi inizia un nuovo percorso scolastico, più responsabilee impegnativo. In pratica, statecominciando ad affacciarvi allavita che conta, ad entrare nellasocietà degli uomini e ad incon-trarvi con i loro tanti aspetti,buoni o cattivi che siano. Da og-gi, inizia la vostra scalata allavita. Vi esorto, perciò, a nonscherzare e ad iniziare sind’adesso a faticare, a lottare, seintendete guadagnare i gradonipiù alti della piramide umana”.

Poi il professore ebbe unaleggera pausa, abbassò il ca-po e rimase per qualcheistante in silenzio. Tempo pochi secondi che già aveva ri-preso a parlare, accompagnando le sue parole con un sor-risetto appena abbozzato.

“Vi sto annoiando, ragazzi?!”.“No, assolutamente no!...” - esclamò con spontaneità Gra-

ziano, un ragazzo riccioluto seduto in fondo alla classe –“… Professore, trovo molto interesse in quel che dice!”.

“È vero, il professore sta piacendo anche a me!” – ribadì Ip-pazio, condividendo il pensiero del compagno.

“Oh, ragazzi!... iniziamo già con le adulazioni?”. “Pro… professore, cos’è l’adul… l’adulazione?”. “Beh, certamente non è un elogio, ma neanche un rimprovero.

Capirai da solo durante l’anno scolastico che al professore De Si-ca non piacciono le adulazioni…” – intese precisare l’inse-gnante – “…Le mie lezioni non saranno sempre così piacevolicome questa del nostro primo incontro. Perciò, ragazzi, vi con-siglio a venir fuori dal quel mondo incantato che vi ha accoltosino ad oggi e ad indossare una nuova pelle, anzi una prima co-razza!”.

“Uuuh!...” – si udì un leggero brusio per tutta l’aula.“No, non vi spaventate, figlioli, non vi trovate mica di fronte

ad un lupo cattivo!... Spero che qualcuno vi abbia già parlato dime. Sappiate che sono buono come il pane e dolce come il mie-le…”.

“Oooh!” – risuonò di stupore l’intera classe.“No, no, un momento!… Cerchiamo di capirci… vi prego di

ascoltarmi sino in fondo, non ho certo finito!...” – spiegò l’uo-mo, aggrottando un po’ le sopracciglia e conferendo al di-scorso una certa seriosità – “…Ecco, voglio anche dirvi chesono duro come l’acciaio e acido come il vino spunto!”.

“Uuuh!...” – ritornò il vecchio brusio, in maniera un po’più convincente.

“No, no, non fate così!… Non siete più i ragazzini d’un tem-po!… non avete più bisogno di un cioccolatino, di un lecca-lec-ca o di una caramella! Ora siete grandicelli… siete già dei piccoli

uomini e come tali, d’ora in poi, dovete impegnarvi e com-portarvi. Va bene, ragazzi?!”.

Quasi tutti dondolarono la testa dall’alto verso il bas-so a volergli esprimere pieno consenso.

“Da parte mia vi prometto che vi aiuterò, starò sempre accan-to a ciascuno di voi e per voi ogni giorno lavorerò”.

Non aveva finito di parlare che un lungo applauso rim-bombò per l’aula, tanto da svegliare Oronzino, assorto neisuoi profondi pensieri, e da fargli scappare alcune ferociconsiderazioni sul suo conto.

“Grazie, signor maestro!” – aggiunse subito Daniela.“Nooo!... Ragazzi, continuate ancora a darmi del maestro?!...

Dimenticate la scuola elementa-re e, soprattutto, dimenticate ilvostro maestro… conservatelosolo tra i buoni ricordi, così co-me lui sta facendo con voi!”.

“Scusi, signor professore, perl’errore commesso… ma se nontrascorre un po’ di tempo, nonsarà facile venir fuori dal nostromondo” – precisò Donato.

“Beh!... Le cose cominciano acambiare… ma ricordatevi chesono soltanto il professore e nonil signor professore!”.

Nell’ampia aula scese, co-me d’incanto, un silenzio di approvazione.

“Quello che ora voglio aggiungere è che nella vita dovete esse-re sempre essenziali, mirati, accorti e, soprattutto, non dovetespendere male il vostro prezioso tempo, né tantomeno le vostreenergie”.

“Cosa intende dire, professore?” – ribatté timidamenteGianni.

“Voglio farvi capire di non sprecare il tempo inutilmente e dipuntare dritti alle cose più importanti… In pratica, dovete far-vi un elenco dei traguardi principali ed impegnarvi a raggiun-gerli, anche a costo di sacrifici e di rinunce. Insomma, fissate lecose prioritarie e poi via via quelle meno importanti. Comincia-te a farlo già da adesso. Mi sono spiegato bene?”.

“Altroché, professore!” - replicò Wilma.“Oooh, finalmente!... Ora, ragazzi, statemi ad ascoltare. Que-

sta prima lezione è una lezione di vita e non certamente di ma-tematica o di scienze… Una lezione che vi accompagnerà ognigiorno per il resto della vostra esistenza, un po’ come i colori di

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Ragazzi di prima media

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una pittura che si fissano per sempre sulla tela…” – ebbe a pre-cisare l’insegnante – “…Se da grandi avrete da gestire tante co-se durante la giornata, se ventiquattr’ore vi sembreranno troppopoche e vorreste averne delle altre a disposizione, allora sedetevi,chiudete gli occhi per qualche minuto e ricordatevi di ciò che stoper raccontarvi. Si tratta dellastoriella del vaso della marmel-lata e dei due bicchieri”.

Come per incanto, i ragaz-zi si sentirono rapiti da unamagica ed insolita energia ir-raggiata da quell’uomo, chesembrava essere venutochissà da dove. Pertanto sidisposero tutt’orecchi a se-guire il suo discorso.

“Un professore di filosofia…”– iniziò a raccontare Mauro.

“Professore, mi scusi, ma…cos’è la filosofia?” – interven-ne Marcello con un po’ di ti-more per l’interruzione causata.

“Come ti chiami, ragazzino?!” – gli ribadì seccamente l’in-segnante.

“Marce… Marcello Ba… Bar… Barlabà… Mi scusi, professo-re, se l’ho interrotta” – gli rispose a stento l’alunno, con ilvolto smunto per l’imbarazzo e la paura.

“Assolutamente no, Marcello, anzi, ti ringrazio per avermi fer-mato. Purtroppo, noi insegnanti diamo per scontato che gli alun-ni sappiano ogni cosa. Bravo, Marcello, apprezzo molto la tua

audacia… Ragazzi, fatelo anche voi: se non avete compreso qual-cosa di un argomento, fermatemi pure, anzi fermate ogni altroprofessore, purché lo facciate con garbo e avvedutezza”.

Altri applausi e ovazioni.“Uffa, questo professore quanto scassa!... Mi sa tanto che i ra-

gazzi abuseranno della sua pa-zienza e lo sbeffeggeranno incontinuazione!” – pensòOronzino, preso com’era dal-le sue giravolte mentali e vo-li pindarici.

“Ecco, Marcello, il termine“Filosofia” deriva dal greco“phìlos”, che significa “aman-te, amico” e “sophìa”, che vuoldire “sapienza”. Praticamentela filosofia è la scienza che studial’amore per la sapienza umanacon tutte le sue correlazioni e in-terazioni. Ok, allora?”.

“Sììììììììì” – risuonò per tut-ta la classe un suono stridente e prolungato, come quellocausato dal treno che sta per fermarsi in stazione.

“Allora riprendo il discorso. Un professore di filosofia era en-trato da poco in classe ed aspettava che gli alunni si disponesse-ro alla lezione. Ricomposta l’attenzione, l’insegnante presentò airagazzi un grosso vaso di marmellata, ovviamente vuoto, e ini-ziò a riempirlo con palline da golf... Chiese poi agli studenti se ilrecipiente fosse pieno. Costoro risposero che lo era.

Il professore allora prese delle piccole pietre di ghiaia da una

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Anni ‘50 - ’60 - Interno di una classe

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scatola e le rovesciò nel vaso. Lo scosse leggermente e i sassolinisi posizionarono negli spazi vuoti tra le palline da golf. Chiese dinuovo agli studenti se il recipiente fosse pieno e questi concorda-rono che lo era.

In seguito il professore versò della sabbia, che si sparse ovun-que nell’interno del vaso. Chiese ancora una volta se il recipien-te fosse pieno e gli studenti risposero nuovamente con un sì.

Il professore estrasse da una capiente borsa una bottiglia di vi-no e due bicchieri. Tolse il tappo dalla bottiglia e versò del vinonel recipiente, andando così a colmare tutti gli spazi vuoti tra igranelli di sabbia. A questo punto gli studenti risero.

Ora voglio che consideriate questo vaso come se fosse la vostravita…” - disse con enfasi il professore di filosofia, appenai ragazzi smisero di ridere - “…Le palline da golf sono le co-se più importanti: cioè, la vostra futura famiglia, i vostri bambi-ni, la casa, la salute, il lavoro ed alcune delle vostre passioni.Sono, in pratica, le cose per cui, anche se tutto il resto di ciò chepossedete andasse perduto e vi rimanessero solo le cose più im-portanti, la vostra vita continuerebbe ad essere sempre piena. In-tendo, però, farvi un’altra considerazione. Tra le cose importantinon dovete inserire il denaro, perché il possesso di grandi quan-tità vi avvilirebbe e sminuireb-be le vostre migliori qualità.Comunque, averne è impor-tante, ma nella misura suffi-ciente per farvi vivere cononestà, decoro e dignità.

Bene. I sassolini, ovviamen-te, rappresentano le altre cose,cioè quelle che hanno un’im-portanza relativa, come un’au-tomobile, un televisore, unabicicletta, una radiolina, unregistratore, ecc....

La sabbia rappresenta tuttoil resto: cioè, le piccole cose,quelle marginali e futili, quel-le delle quali si può fare a meno, come ad esempio un paio di oc-chiali da sole, un orologio ultimo grido, un abbonamento ad unarivista, un disco di Lucio Battisti o dei Beatles, l’acquisto di unasciarpa firmata, ecc.”.

Il professor Mauro si fermò per un attimo a rifiatare, poiricominciò con la stessa lena.

“Ragazzi, il racconto è terminato. Mi auguro che abbiate coltopienamente il significato e l’importanza della storiella. Ora vo-glio aggiungere qualcosa di mio, a completamento di quanto viho esposto. Poniamo il caso che quel professore avesse deciso dimettere nel vaso come prima cosa la sabbia. Beh, così facendo, nonavrebbe avuto più spazio per aggiungere la ghiaia e nemmeno lepalline da golf, nonostante si fosse sforzato in ogni modo a farleentrare. Ecco, ragazzi, può capitare l’identica cosa alla vostra vi-ta: se spenderete tutte le vostre energie dietro le piccole cose, nonavrete più spazio, tempo e sostanze per le cose più importanti.

Nell’aula era sceso un silenzio sovrano. Gli alunni eranorimasti impietriti dalla profondità del messaggio.

“Ragazzi, mi state seguendo, vero?”.“Sììììììììììì!!!” - sembrò fermarsi una seconda volta il tre-

no in stazione. “Prestate attenzione, quindi, alle cose che sono indispensabili

alla vostra felicità...” - riprese a parlare l’insegnante, facen-doli tornare con i piedi per terra - “...Impegnatevi sin da que-sto momento nella vita, cominciate ad edificarla bene e perciò

applicatevi nello studio con desiderio di apprendere e di mi-gliorarvi in continuazione. Facendo ciò, oltre ad accontenta-re i vostri genitori, vi sentirete gratificati ed affronterete illavoro quotidiano con maggiore slancio e sicurezza. Ben prestoarriverete a tagliare i primi traguardi della vita: il diploma, lalaurea, il lavoro, il matrimonio, la casa, la famiglia”.

“Professore, mi scusi se la interrompo ancora una volta, ma, inquesto modo, non ci sarà posto per le nostre distrazioni, passa-tempi ed hobby, per le nostre passioni e sentimenti” – obiettò agiusta ragione Marcello.

“No, stai sbagliando, figlio mio. Se mi avessi dato il tempo ne-cessario per concludere il discorso, non avresti fatto simili obie-zioni. Ecco, una volta raggiunti i vostri principali obiettivi,potrete maggiormente dedicarvi alle vostre passioni, ritaglian-dovi tra i tanti impegni uno spazio temporale, ma solo se ne avre-te voglia e necessità. Perciò, dedicatevi con maggior lena a ciòche amate di più, curate i vostri sentimenti, praticate lo sportpreferito, interessatevi anche di politica, di cultura e di spettaco-lo, ma fate tutto questo solo dopo aver giocato con i vostri bam-bini, dopo aver dedicato dolci attenzioni al vostro partner, dopoaver riservato un po’ di tempo e premure ai genitori. Sono que-

sti gli aspetti e i doveri prio-ritari, sono in pratica lepalline da golf delle vostrepassioni con cui riempire ilpoco tempo rimasto a vostradisposizione. Ecco, in questomodo il vaso della vostra vitasarà sempre pieno di cose im-portanti.

Fissate, perciò, le priorità inogni ambito... Il resto è solosabbia, ma sono convinto chein futuro ne userete in mode-stissima quantità!...

Se ascolterete il mio consi-glio e sarete forti nei proposi-

ti, la vita vi premierà. Ne sono sicuro. Non scherzo se dico che ungiorno riuscirete addirittura a giocare a… golf!”.

Marcello rialzò la mano e chiese cosa rappresentasseronella vita i due bicchieri.

“Sono contento che tu m’abbia fatto questa domanda, non fos-se altro per dare un senso compiuto alla simpatica storiella…” –ringraziò il professore, sorridendo – “...I bicchieri servonosolo per dimostrarvi che nella vita c’è sempre spazio e tempo peruna bicchierata di ottimo vino da consumare insieme ad un buonamico o, magari, ad una graziosa amica e brindare con loro allabellezza della vita!”.

Il suono della campanella arrivò inaspettato e impietoso:l’ora di lezione era scivolata via senza quasi accorgersene,con i ragazzi rimasti a bocca aperta, stregati dalle dolci esuadenti parole del professore. Mai lezione era stata cosìefficace.

Ci pensò la professoressa Ricchiuti, entrando in classecon incedere impettito e inflessibile, a farli scendere dallenuvole.

E tutti vissero infelici e scontenti per il resto della giorna-ta scolastica … ma con il cuore e con la mente rivolti aquelle palline da golf, rimaste saldamente inchiodate sulmuro dell’anima. •

Note:1. Amalia Ricchiuti è un personaggio inesistente.

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Casarano (LE) - La scuola “D. Alighieri” oggi

Rino Duma

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Le bande comunali erano delle icone cittadine e rap-presentavano un grande ed inestimabile patrimonioculturale. Un tempo aleggiava attorno a loro un fa-

scino particolare, tanto da suscitare un vero e proprio tifo,un entusiasmo ed anche un forte campanilismo, un po’ co-me avviene oggi con le squadre di calcio.

Generalmente le bande si formavano nelle categorie de-gli artigiani: barbieri, fa-legnami, scalpellini, cal-zolai, muratori, ecc.

Per imparare lo stru-mento musicale, non sifrequentavano dellescuole di musica. Stu-diare presso un conser-vatorio era appannag-gio esclusivo delle clas-si benestanti. I meno ab-bienti imparavano asuonare da autodidatti,sospinti dal coraggio edalla passione per lamusica. Alcuni ragazzi,addirittura, lo facevanodi nascosto dal padre,perché l’unico imperati-vo al quale erano chia-mati, considerate le precarie condizioni economiche, eraquello di “pensare solo a portare pane a casa”. Quelli eranoanni molto difficili per la stragrande maggioranza delle fa-miglie.

Nonostante tutto le bande musicali si costituivano unpo’ ovunque. Il loro scopo principale era quello di ‘addol-cire’ la vita cittadina e, nel contempo, di suscitare un vivointeresse per la musica nelle persone. In alcuni paesi eraaddirittura l’amministrazione comunale a gestire il “con-certo”, tramite un’apposita commissione di sorveglianza.

A Galatina la commissione era costituita da Pietro San-toro, Paolo Miglietta, Giuseppe Viva, da Giovanni Filoticoe Michele Mezio. Il Comune ingaggiava i musicisti ancheda fuori; inoltre provvedeva all’assegnazione delle divise,all’acquisto degli strumenti, alla nomina del capomusica eai locali, dove i bandisti si riunivano.

A Galatina le prove musicali si eseguivano in un gran lo-

cale, chiamato “Cambarone”, sito al primo piano di un edi-ficio condominiale del XVIII secolo, in Via Scalfo, al civico64. In seguito lo stesso stabile prese, nel linguaggio popo-lare, il nome di “Lu Cuncertu”.

In merito alla fornitura di divise, come anzi detto, ripor-tiamo una delibera comunale del 1887, tratta dall’Archi-vio di Stato di Lecce.

Consiglio ComunaleN° 17

Oggetto: Uniforme Ban-da Municipale

(L’anno milleottocento-ottantasette il giorno ottofebbraio nella Casa Comu-nale di Galatina.

Riunitosi legalmentequesto Consiglio Comuna-le in seduta straordinaria,autorizzato dal Sig. Prefet-to della Provincia, con da-ta 24 Gennaio 1887. Nellepersone dei signori: MezioMichele. Angelini Diego,Romano Antonio, Galluc-cio Celestino, FerrareseMichele, Micheli Pasqua-

le, Siciliani Giuseppe, Congedo Pietro, Papadia Pasquale, Con-senti Pietro, Vernaleone Fortunato, Capani Alessandro, collapresenza del Sig. Raffaele Papadia e con l’assistenza del vice Se-gretario Stasi Luigi pel titolare in congedo.

Il Presidente riconosciuto legale il numero degli intervenutiper essere la presente secondo convocazione, dichiara aperta laseduta e propone che l’adunanza si occupi del modo come prov-vedere a fornire di nuovi uniformi questa Compagnia Musicale,essendo compilamente (sic) sdruciti ed indecenti quelli che orapossiede. E per questa ragione ne raccomanda la maggiore ur-genza.

Riferisce ancora che le condizioni più accettabili sono quellepresentate dal Sig. Palazzo Vittorio, capo sarto del Distretto Mi-litare di Lecce, il quale si offre a consegnare trenta uniformi, perquanti sono i componenti della Compagnia, cioè giubbo e calzo-ne per ciascuno individuo e per il discretissimo prezzo di £ 50 peruniforme, giusto il modello presentatogli dall’Ufficio Comunale

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UNA FINESTRA SUL PASSATO

La banda musicale di Galatina

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e superiormente approvato. Il Palazzo, oltre alla vantaggiosa pro-posta relativa al prezzo ed alla sicurezza di accurata esecuzione,garantisce ancora di consegnare in dette trenta uniformi, traventi giorni dalla data dell’ordinamento.

Per le quali cose interessa l’adunanza a chiedere l’autorizzazio-ne per la trattativa privata da stipularsi con il Sig. Palazzo, giu-sta i patti e le condizioni sopra appresse.

Il Consigliere Sig. Mezio, appoggiando la proposta della pre-sidenza, trova indispensabile che il contratto segua a trattativaprivata col Sig. Palazzo, imperocché essendo un lavoro di tal ge-nere all’avventualità della subasta, oltre alla considerevole per-dita di tempo, non si avrebbero concorrenti perché il prezzoofferto dal Palazzo è mitissimo, e perché non si potrebbe essere si-curi della esatta ed accurata esecuzione. Fa ancora notare che lointero importare del lavoro risultando di lire 1.500, e detta som-ma è pagabile pel bilancio del 1886, e precisamente sull’articolo98 destinato per l’uniforme della Banda di lire 1.500.

Il ConsiglioRiconoscendo utile e vantaggiosa agli interessi del Comune la

proposta della presidenza Compilata dal Sig. Mezio, ed accettan-do tutte le ragioni.

Ritenuto essere urgente, specialmente pel decoro della Com-pagnia Musicale, fornita subito delle necessarie uniformi, trat-tando in questo fatto anche di decoro dell’AmministrazioneComunale.

Visto l’art. 128 della Legge Comunale e Provinciale per appel-lo nominale unanime delibera chiedere al Sig. Prefetto della Pro-vincia l’autorizzazione del contratto a trattativa privata col Sig.Palazzo per la esecuzione dei necessari lavori, ed in base alle con-dizioni di cui sopra si è fatta parola. Del che si è redatto il prete-so processo verbale che è stato letto ed approvato dalla GiuntaMunicipale nella sua tornata del 18 febbraio 1887, per le facol-tà concesse dal Consiglio Comunale con suo atto del 5 settembre1880.

Firmata. Il Presidente Raffaele Papadia. Il membro anzianoM. Mezio. Il Segretario V. Costa.

Il SindacoRaffaele Papadia

L’organo civico nominava il capomusica o direttore d’or-chestra. Infatti, il 6 dicembre 1881, avviene la nomina diVincenzo Gizzi

Si legge nella delibera (Archivio di Stato – Lecce)Nomina di un buon capomusica, in surroga dell’attuale Sig.

Visconti Carlo, il cui contratto scade il 1882. Stante che l’età delSig. Visconti Carlo non permette di proseguire nei suoi impegni,

e quindi non può stabilirsi una nuova ferma del medesimo. As-sicura che dopo diligenti, sono pervenute parecchie dimande trale quali del Sig. Gizzi Vincenzo sergente nel 35mo Fanteria inBrescia corredata dai lusinghieri certificati. La nomina colla du-rata di anni quattro, cioè, dal gennaio 1882 al 31 dicembre 1883con lo stipendio di lire seicento pel primo anno, e di lire millecen-to per altri tre.

Delibera del 1886 inerente il personale(Archivio di Stato – Lecce)Provvedimenti pel personale della Compagnia Musicale 1886,

30 novembre.Mazzei Francesco di Soleto al posto di suonatore di bombardi-

no, in surroga di altri dimissionario, nomina pel 1886-1887 ilMazzei Francesco, suonatore di bombardino in questa Compa-gnia Musicale, con le condizioni sopra indicate. Abitazione gra-tuita in una stanza dell’ex convento dei Riformati di proprietàdel Comune.

Siamo sempre nel 1886 sotto la Presidenza del SindacoSig. Raffaele Papadia.

Si riporta qui di seguito la nomina di un suonatore ditromba.

(Archivio di Stato – Lecce)Con la presidenza del Sindaco Signor Raffaele Papadia e con

l’assistenza del Segretario infrascritto. Il presidente, riconosciu-to legale il numero degli intervenuti, dichiara aperta la seduta emette in discussione il seguente oggetto: Nomina di suonato-re di tromba.

Il suonatore di Tromba in questa compagnia musicale, Sig. DePascali Vincenzo, debitamente nominato da questo consiglio conatto del 30 Novembre 1886 reso esecutorio a 21 dicembre N.13059, dopo breve tempo, abbandonò senza alcuna ragione lacompagnia suddetta, e non valsero inviti e persuasioni anche conl’interposizione di altre autorità a fargli riassumere il posto, perla quale cosa la commissione di vigilanza per la Banda credette

necessarissimo far pratiche per provvedere urgentemente allasurroga, anche perché la compagnia non poteva più a lungo re-star priva di uno strumento interessante senza del quale non po-teva uscire alle feste, per le quali trovatasi già impegnato.

La commissione fu in grado di trattare col Sig. Blago Do-nato fu Raimondo suonatore di Tromba di Gallipoli, il qua-le fu disposto a surrogare il De Pascali e furono stabilite leseguenti condizioni: “…che il Blago assumerà l’obbligo di suo-nare la Tromba in questa compagnia dal giorno 11 corrente me-se a tutto il p.v. ottobre, che il Comune gli avrebbe corrisposto la

10 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2014

Antica cassa armonica

Galatina (LE) - Lu cuncertu

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somma di lire 175 a ti-tolo di sussidio pagabiliin lire 50 sul finire delcorrente mese ed in lire25 mensili fino nell’ot-tobre venturo, provve-dendo ancora di alloggiogratuito in una stanzadel Comune che trovan-si vuota, e fornendo diTromba ed uniforme col-l’obbligo della restitu-zione a fine ferma”.

Per l’urgenza dellacosa e per non perde-re il musicante Blago,fu vista la necessità diformare analogo con-tratto nello stessogiorno 11 corrente in base alle condizioni preposte, e conl’intervento del garante solidale Sig. Marrocco Alessandrodi Luigi e con la dichiarazione implicita che il contrattostesso avrebbe vincolato il Municipio posteriormente allarelativa ratifica per parte del consiglio comunale ed allaesecutorietà da parte dell’Autorità Superiore. Il Presiden-te dà lettura del contratto non senza manifestare che lecondizioni stabilite col Blago sono migliori anche finanzia-riamente nell’interesse del Comune, di quelle con il De Pa-scali, il quale veniva retribuito con lire 420 all’anno.

Come per tutte le cose della vita hanno un principio euna fine, anche per la storica Banda Musicale di Galatinaarrivò l’epilogo. L’amministrazione comunale dell’epocadecide di mettere in vendita gli strumenti musicali del di-sciolto Concerto cittadino.

Noi, per ossequio alla storia, riportiamo la delibera nel-la sua completezza, nella quale lo stesso M° Vincenzo Giz-zi viene autorizzato al prelievo di tutti gli strumenti.

Delibera “Municipio di Galatina”Giunta Comunale – Num. 61(Archivio di Stato – Lecce)L’anno millenovecentodue il giorno ventisei del mese di no-

vembre nella Casa comunale di Galatina.

Convocata laGiunta Municipaledel predetto Comu-ne si è riunita nellapersona dei Signori:1) LUCREZIO Luigi –Sindaco ff. per rinunciadegli assessori Galluc-cio e Astarita.2) GALLUCCIO Cav.Pasquale3) ASTARITA Raffaele4) BARDOSCIA Ales-sandro di Nicola

Assiste il SegretarioSig. Giovanni MAN-GANARO

A relazione e propo-sta del presidente

La GiuntaVeduto che il M° Vincenzo GIZZI domanda di acquistare per

£ 300,00 gli strumenti del disciolto Concerto musicale;Veduto l’elenco degli strumenti ed informato dal cattivo stato

degli stessi;Considerato che la vendita è vantaggiosa per l’Amministra-

zione;Letto l’art. 136 della Legge Comunale e Provinciale

DELIBERA unanimeAlienare al Sig. GIZZI Vincenzo gli strumenti del disciolto

Concerto musicale indicati nel relativo elenco per la somma di £300,00 da iscriversi all’art. 22 bis dell’attivo e all’art. 72 del bi-lancio 1902.

Nonostante il suo scioglimento, la Banda Musicale diGalatina è passata alla storia cittadina. L’amore per le ban-de vive non solo nelle persone anziane, ma anche nei gio-vani, se non nei giovanissimi. Durante le feste patronali,infatti, sono presenti tra i vari componenti dell’orchestraanche degli adolescenti, che si dilettano suonando e, ad-dirittura, componendo della buona musica, a dimostrazio-ne che in ognuno di noi è presente da sempre la passioneverso questa nobile arte. •

novembre/dicembre 2014 Il filo di Aracne 11

Galatina (LE) - Concerto bandistico in piazza San Pietro

Salvatore Beccarisi

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Intorno all’anno 1000, oggi nell’agro di Sannicola ma untempo nell’antico agro di Gallipoli, sulla collina dell’Al-to Lido, a due km dalla ‘Città bella’, fu costruita l’ab-

bazia di San Mauro, luogo di culto per monaci e fedeli dirito greco-ortodosso.

Chi per primo informò gli studiosi dell’esistenza di que-sta abbazia fu Antonello Roccio il quale, in un suo mano-scritto, oggi conservato nella Biblioteca civica di Gallipoli,intitolato Notizie memorabili dell'antichità della fedelissima cit-tà di Gallipoli (1640), a carta 303, scrive: «San Mauro, intornoal 1519, anno in cui sull'abbazia officiava ancora l'ultimo abate,e[ra] rovinata senza [altri] mo-nici, solum con l'Abate, qualerende circa ducati 100 l'Anno».

Alcuni secoli dopo il Roc-cio, chi si interessò di scrive-re dell’abbazia fu BartolomeoRavenna il quale, nelle sueMemorie istoriche della città diGallipoli (Napoli 1836, ristam-pa Gallipoli 2000 con la curadi Elio Pindinelli e MarioCazzato), scrive: «Esisteva inGallipoli un antico e gran Mo-nastero de’ Padri Basiliani […]Era in oltre molto ben provvistodi rendite, possedendo tutto ciòche in terraggi, oliveti, canoni,decime ed altro, forma l’Abadia di S. Mauro, che poi fu concedu-to al nostro Seminario, insieme coi beni che sono nei territorj diNardò e Vetrana nominati ‘Curti veteri’. Possedeva pure l’Aba-dia di S. Salvatore, un’altra col titolo di San Mauro in Galatina,e molti altri beni in Ugento, Felline, Taurisano, Casarano e Pre-sicce. Vicino alla Città, e nella distanza di circa tre miglia, ove at-tualmente è la Chiesa di S. Mauro, era luogo in cui colla Chiesaesisteva l’abitazione per uno de’ Religiosi, che colà dimorava perinvigilare agli affari campestri, ed agl’interessi e rendite del Mo-nistero./ Non si ha notizia dell’epoca precisa nella quale questoMonastero fu eretto, ma devesi supporre, che ciò accadde versoil secolo VI, allor quando l’Ordine di S. Basilio divenne sopratutti gli altri più celebre e numeroso, e che nelle nostre Provin-cie più vicine ai Greci s’incominciarono a stabilire de’ Monaste-ri di un tale Ordine./ Nel secolo XIII fu distrutta la Città, e conessa anco la Chiesa ed il Monastero de’ Monici di S. Basilio. Pas-sati i dispersi cittadini ad abitare nella maggior parte nel pro-prio territorio, i Monici si ricoverarono in detta Chiesa di S.

Mauro, ed all’antica abitazione aggiunsero alcune piccole stan-ze per loro comodità, e vi rimasero per molti anni. Né i cittadininé i Monici, pare, che avessero potuto più badare alla già distrut-ta Chiesa e Città, dacché trovo notato avere scritto l’Abate Ca-maldari nella sua storia, che i marmi di questa Chiesa furontolti e portati altrove dai Calabresi, ed anco dai Siciliani furtiva-mente, e che sotto alle macerie dopo il decorso di più anni furontrovate due bellissime colonne di marmo, residuo delle molte, cheadornavano quella Chiesa» (pp. 348 sgg.).

Altro autore che si interessò dell’abbazia di san Mauro,fu F. Tanzi (un galatinese) nel suo libro L’archivio di Stato

di Lecce (1906), il quale scri-ve: «Nel secolo XV vi erano an-cora monaci; lo togliamo da uncapitolo di grazie concesse da Fe-derico d’Aragona alla città diGallipoli: “Item perché lo nostroclero è molto poverissimo et que-sta nostra patria (Gallipoli) è po-co dotata di beni beneficiali,detto clero pate assai et presertimquando delli pochi benefitij chevacano s’investono forestieri, sesupplica V. Maestà gratiose sedegna concedere che tutti i bene-fitij vacassero et signanter unaAbadia nominata Santo Mauronon se possa concedere eccetto ai

cittadini de questa città eligendoli a chi appartiene. […] L’Uni-versità di Gallipoli fu sollecita a fare novelle istanze a Carlo V:“Item come in lo destritto et territorio della detta città si trova si-tuata una Abbacia sub vocabulo de Santo Mauro Suburbano delo Ordine de Santo Basilio, e rovinata senza monici solum con loAbbate, quale rende circa ducati cento l’anno supplicano a loroAltezze loro piaceza et se degneno gratiose quella concedere etdonare allo capitulo et clero di detta città doppo la morte del pre-sente Abbate, cum sit; che de detta città alla quale servono con-tinuamente acciò che possano vivere et vacare allo culto et officiidivini. […] Nel giorno di S. Mauro, primo di Maggio, celebra-vasi nella platea del monastero una gran fiera, dove accorrevatutta la popolazione circostante./ Pertanto da questo tempo nonsolo incominciarono a scomparire le ultime reliquie degli edificibasiliani e delle antiche abitazioni dei coloni greci, ma la stessachiesa fu abbandonata, non celebrandovisi qualche messa se nondi rado./ Non al clero di Nardò, né ai cittadini di Gallipoli furo-no concesse in beneficio le rendite del calogerato; fu solo nella se-

ABBAZIE, CONVENTI E MONASTERI

12 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2014

Sannicola (LE) - Abbazia di San Mauro

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conda metà del secolo XVIII che esse vennero con bolle papali eregio assenso annesse al Seminario Diocesano. Ora la fattoria diS. Mauro è proprietà privata» (pp. 146-148).

Chi cominciò però a interessarsi seriamente dello stato diconservazione delle due abbazie fu Alba Medea, incarica-ta negli anni ‘30 dalla Società Magna Grecia Bizantina Me-dievale, che la inviò in Puglia per verificare lo stato diconservazione degli affreschi bizantini. Dopo il suo repor-

tage, la Medea pubblicò il suo lavoro in un libro intitolatoGli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi (Roma-Tivoli, 1939),recentemente (marzo 2014) ripubblicato dall’editore Loren-zo Capone di Cavallino con la presentazione di AntonioVentura.

La Medea scrive: «La chiesetta [di San Mauro] è abbando-nata ed esposta alle intemperie, di notte pare si rifugino pastoried armenti. Mancano i battenti alle porte e in genere le apertu-re e le luci sono prive di infissi. Le strutture murarie sono abba-stanza solide. Il pavimento, in origine a tre ripiani che risalgonoverso il presbiterio, dovrebbe essere ricostruito a lastre di pietracalcarea. Gli affreschi sono ancora in granparte, soprattutto nell'imbotto della vol-ta, sulle pareti e in parte anche nei sott'ar-chi longitudinali della navata mediana,ricoperti dalla scialbatura generale di tut-ta la chiesetta. Quelli visibili e descritti af-fiorano qua e là, ove forse un tempoaddietro si cercò di rimetterli in luce edove l'intonaco è caduto per azione del-l'umidità e della brezza marina. Natural-mente tali affreschi appaiono assaideturpati e deterioratissimi» (p. 246).

Dal momento di questa sua relazio-ne sarebbe passato dell’altro tempoprima che un altro studioso volgesseil suo interesse a San Mauro. Infatti,circa trent'anni dopo, nel 1967-68,Gianfranco Scrimieri, allora redattoredella rivista «La Zagaglia», fece un so-pralluogo e uno «studio di ricognizio-ne» sull’abbazia scrivendo: «SanMauro rientra nel novero delle piccole ograndi abbazie basiliane affidate alla distruzione del tempo e al-la sconsiderata incompetenza degli uomini [...] Da notare che laparte sinistra, fino a uno o due anni fa murata, è di nuovo aper-ta, la luce penetra all'interno, oltre che dalle aperture suddette,da due finestrelle [...] Gli altri buchi, praticati qua e là special-

mente nel muro di destra, che è l'attuale ingresso della chie-sa, e la feritoia aperta nel centro dell'abside, fanno presagi-re un lento fatale decadimento dell'intero edificio. Uno deisei pilastri che dividono la chiesetta in tre navatelle, si mantie-ne in piedi solo grazie a pochi frammenti delle pietre destinate asorreggerlo. Il pavimento non esiste più. Ci sono soltanto dellebuche, più o meno larghe e profonde, ulteriore segno dell'igno-ranza e della superstizione [...] Degli affreschi dell'abside restaben poco. Non si può nemmeno scorgere quella Déesis che la Me-dea credeva di poter trovare nel 1939. Sembra quasi che la gen-te si sia divertita a scalfire le pareti, un po' ovunque, e non soloper apporvi nomi e date. Il luogo, alquanto impervio, non riescea frenare la curiosità distruttrice, tanto più che non ci sono néporte né battenti e le aperture non hanno infissi. Il portale è chiu-so a qualche metro di distanza, da un muretto. Non basta [pe-rò]» (v. G. Scrimieri, Immagini e storia della Chiesa di S.Mauro in territorio di Sannicola, in «La Zagaglia», n. 36, di-cembre 1967, ib. n. 37, marzo 1968).

Dall'intervento dello studioso salentino su «La Zagaglia»passarono ancora altri dieci lunghi anni prima che qual-cun altro richiamasse l'attenzione sullo stato di conserva-zione dell’abbazia basiliana. Costui fu Domenico De Rossi,storico gallipolino, che riprese gli studi precedentementefatti, fece diversi sopralluoghi sul sito e concluse il suo la-voro riportandolo nel volume Civiltà Salentina (Cutrofia-no 1978), dove leggiamo: «Al lato della chiesa si apre unacavità, in cui si può scorgere qualche frammento di pittura chenon basta a stabilire l'effettiva destinazione della stessa. Al disopra di esse, all'esterno, e dietro l'abside, mucchi di pietre ri-mangono accatastati, ma non sciolgono alcun interrogativo. Aldi sotto della terra potrebbero trovarsi i resti dell'antico cenobio:all'interno dell'antro, altri frammenti di pittura, forse i primiti-vi, rudimentali altari, i giacitoi. Ma [...] i mezzi inesistenti, lanon giovane età, [e], soprattutto, la mancanza di autorizzazione,sconsigliano la ricerca per stabilire con precisione ov'era l'eremobasiliano. […] Una Madonna col Bambino, forse la migliore

composizione pittorica, sulla faccia delprimo pilastro volta verso l'abside, è qua-si del tutto scomparsa […] Degli affreschidell'abside resta ben poco. Non si puònemmeno scorgere quella Déesis (Cristocol Vangelo tra due figure oranti)» che,fino a non molto tempo prima, si po-tevano ancora vedere.

Qualche anno dopo il De Rossi toc-cò a me verificare lo stato di abban-dono dell’antica abbazia di SanMauro. Verificai de visu che il muret-to che lo Scrimieri aveva notato, sulquale poi era stata posta l'inferriata,era in parte crollato e l'inferriata stes-sa era stata divelta e contorta. Gli an-tichi tratturi, quello che sta dietrol'edificio e quello che dal fondo dellastrada provinciale porta sulla sommi-tà della collina, erano stati barbara-mente interrotti da muretti di delimi-tazione edificatoria. L'interno dell'ab-

bazia, poi, letteralmente sconvolto: non c’erano più i tre ri-piani della pavimentazione, da quello più basso (ches'incontrava appena entravi) a quello in alto (che stava aipiedi dell'abside). C'era solo un informe cumulo di mace-rie e di buche, tanto che in alcuni punti il terreno posto di

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Maurizio Nocera in visita all’Abbazia di San Mauro

Sannicola (LE) - Facciata dell’Abbazia

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14 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2014

rinforzo sotto alcuni pilastri aveva cominciato a venire me-no col continuo rischio che qualcuno di essi poteva cede-re anche per un piccolo smottamento. Non esistevanoquasi più le antiche pitture: là dove esse non erano statepicchiettate con pietre o punte diferro si era formata una crosta dicalce salmastra che aveva copertodefinitivamente le ultime ombre diquelle che erano state le pitture. LaDéesis dell'abside non esisteva qua-si più: al suo posto c'era un incoloremuro impregnato di umido e di in-tonaco scrostato. Sulle pareti latera-li dell'edificio, in alcuni punti, isecolari tufi sembravano sul puntodi sfaldarsi da un momento all'altro.Uscito all'esterno dell'abbazia, misono arrampicato sul retroabside.La terrazza a semibotte era ormaipiena di vecchie radici che minac-ciano le chiusure a chiave dei tufi.Lo stesso campanile a vela, che si al-za sulla cuspide, correva anch'essoseri pericoli: alla sua base le radicidi erbe selvatiche e i forti venti ave-vano rosicchiato le congiunzioni.Tutto ciò interessava l'edificio veroe proprio, perché altro discorso eraguardare e giudicare lo stato d’ab-bandono dell'intera area cenobitica.Per avere idea della situazione di degrado in cui si trovaoggi di San Mauro, bisogna pensare che non c'è più alcu-na possibilità d'individuazione degli antichi limiti dellacoorte basiliana; del loro antico piccolo cimitero non c'èpiù traccia, come pure del loro minuscolo campo di lavo-ro, annessi entrambi all'edificio. Neanche la laura, che fun-geva da dormitorio-rifugio dei monaci, e che si trova

subito a fianco della cappella, si è salvata dalla furia deva-statrice di alcuni irresponsabili. Il fondo della caverna èstato manomesso e rivoltato; ciò ha provocato guasti irre-parabili agli strati inferiori appartenenti ad epoche storiche

sicuramente precedenti a quella deibasiliani. Fortunosamente non sonostate ancora “toccate”, perché leg-germente più distanti dall'edificioalcune specchie ed un cumulo di ter-ra, rimasti così com'erano origina-riamente.

Dell'antica abbazia di San Mauronon è rimasto altro, e, se qualcunointerverrà subito, quel poco che an-cora è rimasto può essere salvato.Fra non molto di questo antico luo-go resterà soltanto il ricordo. Fortu-natamente c’è ora da annoverare ilpiù importante e completo studio suSan Mauro a cura dello storico del-l’arte Sergio Ortese con il libro San-nicola. Abbazia di San Mauro. Gliaffreschi sulla serra dell’Altolido pressoGallipoli (Copertino, Lupo ed. 2012).

In questo monumentale lavoro apiù voci si analizza approfondita-mente la storia, le architetture, gli af-freschi e le correlazioni delle dueabbazie con il contesto greco-bizan-tino dell’area meridionale.

Per fortuna, oggi, ma mi riferisco agli ultimi 20 anni, leAmministrazioni comunali di Sannicola (sindaci Sergio Bi-detti prima e Giuseppe Nocera dopo), si sono prodigateper acquisire alla proprietà pubblica l’abbazia di San Mau-ro, ed iniziare così un programma di restauro tuttora incorso. •

Sannicola (LE) - Abbazia San MauroAffreschi

Maurizio Nocera

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Estate: fine degli anni ’80, terrazza dell’Anmi di Gal-lipoli. Io guardavo il professore Aldo Vallone, chealzava la tazzina del caffè, con quella sua mano can-

dida, con quella sua aria che fa e disfa le cose, con quellasua voce ch’era piena di voci e di echi. In lui, pensavo,c’erano tutte le pagine della letteratura, della storia, dellageologia, i planetari e gli edifici invisibili.

“Il linguaggio dell’uomo – disse - è un granello appena, mabruciante sulla palma dello spazio. E l’uomo del Sud, in partico-lare non matura, o quando matura è già vecchio. Eppure l’uomodel Sud è Omero, Eschilo, Euripide, ha sillabe ancestrali incan-descenti, ha maree lune voci in fondo alle scale; ha trombe sono-re, radici che spezzano il silenzio della storia, o rami che alzanocase di suoni, e la notte si appoggia a lui per dormire. Dai dadibianchi delle case di Bodini non escono numeri da gio-care al lotto, ma uomini con il loro carico di speranzee un destino quasi sempre drammatico, tragico”.

Anch’io – professore - ho sempre pensatoche il salentino è attraversato come da un pen-siero azzurro e nero, inscindibili. Come noiora, guarda verso il mare, che si solleva fino al

grido più bianco, quel mare che quando sirisveglia è come un gemito rabbioso che ticonficca le unghie nella nuca, ti squarciastrappandoti gli occhi, e sgretola le torri di

sabbia. Verrebbe da dire, come quello scrittoresardo, Angioni, “ma a che serve tanta acqua azzurra?”

Mi guarda un po’ perplesso. Forse il nostro Sud non ha maiavuto una vera patria, non ha mai veramente fatto partedello Stato Italiano, è così, professore?

Già, è proprio così. Ma tu lo sai che disse Cavour a Luigi Car-lo Farini al momento di assumere il governo del Mezzogiornocome luogotenente generale?

“Ma caro amico, che paesi sono mai questi!... Che barba-rie!... Altro che Italia!... Questa è Affrica: i beduini a ri-scontro di questi caffoni sono fior di virtù civile!”.

Da queste considerazioni è nata l’Italia Unita, capisci? Unitada che cosa? Dallo scontro, da questa contrapposizione razzisti-ca tra Nord e Sud, due Italie abitate da due stirpi diverse, desti-nate a non incontrarsi mai. Con la scusa del brigantaggio,centomila soldati calarono al Sud dal Piemonte, uccisero cento-mila contadini, neanche un decimo di essi erano briganti, e ne-anche un centesimo sanfedisti e filoborbonici. Erano soltanto af-

MEMORIE SALENTINE

Augusto Benemeglio

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famati. Ma i generali Lamarmora e Cialdini non lo sapevano. Omeglio non gliene fregava niente. La durissima guerra contro ilpresunto brigantaggio fece più vittime delle guerre d’Indipen-denza. Ma questo pochi lo sanno, o nessuno. Ed è su questi se-dimenti che sono fiorite nel tempo teorie e pregiudizi fino alleopinioni del professor Miglio, maestro e parlamentare della Le-ga di Bossi e compagni. Ma noi non schiviamo le spade, questoti voglio dire, amico mio. Non avere paura di questa notte infi-nita, che – lo sappiamo – è identica allo strazio dei nostri avi.Diamoci le ferite che dobbiamo e alziamo il tiro fino alle stelle.Non tiriamoci indietro. Mai, in nessuna circostanza.

Per un attimo mi venne in mente il “Cristo” di Levi: “Mi ègrato riandare con la memoria a quel mondo chiuso, ser-rato nel dolore e negli usi, negato allo Stato e alla Storia…Qui Cristo non è mai arrivato e neanche la speranza”. “Già. Eppure se Levi avesse potuto conoscere uno come AlbinoPierro, che ha riscoperto una lingua antica come il tursitano[cioè di Tursi, in Basilicata N.d.R.], capace di aprire le portecon la sua poesia, che aveva il mite respiro che t’incanta (“Vor-rei tornare per sempre dove ci scorre/ come fra dirupi l’ac-qua, la vita mia”), sarebbe stato un bel sodalizio. I Lucani poierano alleati di Taranto, dove governò Archita, discepolo di Pi-tagora che in queste contrade elesse il “numero” a misura di tut-to il creato, e questo quando i popoli del Nord erano ancoraavvolti nel tunnel del primitivismo e della più assoluta barbarie.Dalla preistoria del Trullo, dal dolmen alla pagliara salentina,sempre domina il rigore della linea e del compasso, in quello sti-le geometrico dei primi vasi apuli. Anche nei tempi più vicini anoi abbiamo avuto i Giannone, i Castromediano, i Salvemini, iDe Viti de Marco, i De Giorgi, i Perotti, i Carano Donvito, i Fio-re, gente di studio e di lotta che scendeva nelle piazze a fiancodei braccianti che la sera vendevano “muscoli a giornata”. Sonoloro che ci hanno dato carattere, che ci hanno insegnato a esserepopolo, a essere liberi contro imperatori re viceré baroni, sonoquesti i nostri eroi che non ebbero paura di affrontare galere esi-li e forche. Ma non ci è servito a niente. Oggi le radici del Sudcontinuano ancora a bere il buio e il fiele dell’Italia del Nord,mangiano la luce accecante dei cieli, guardano gli alberi che so-no incandescenti, e la vegetazione è fatta di lampi, geometrie,echi: l’uomo del Sud è quello che continua a scrivere poemi inu-tili e sale lungo i ponti dell’arcobaleno per straniarsi, dimentica-re, obliare se stesso e il mondo, come sale il giorno sulla palmadello spazio”. •

Il poeta lucano Albino Pierri

Augusto Benemeglio

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novembre/dicembre 2014 Il filo di Aracne 17

ARTISTI GALATINESI

Conoscevo un vecchio che parlava da solo, continuamente. Erano discorsi interminabili durante i quali sembrava ri-spondere a domande fantomatiche e fare, a sua volta, domande a misteriosi interlocutori che, a quanto pare, gli ri-spondevano puntualmente. Non era matto, non lo era affatto. Solo, diceva, “Parlo coi morti perché ai vivi non ho

niente da dire” e poi aggiungeva, ammiccando “e anche perché solo loro mi stanno a sentire e soprattutto non dicono min-chiate”. Mi sembra che la pittura di Alfredo Masciullo, come quel vecchio, abbia scelto degli interlocutori invisibili ed è que-sta una delle ragioni per cui mi piace. Non è un soliloquio, è un dialogo con qualcuno che non si vede e che nessun altro,tranne il soggetto che il nostro sta dipingendo, sembra ascoltare. In “Tentativo di volo” l’uomo, la donna o l’angelo che di-pinge è come assorto, lo direi in preghiera. Sta per spiccare il volo oppure sta per parlare.

Ma cos’è la preghiera se non, precisamente, un dialogo con l’invisibile? E, appunto, un tentativo di volo? Le sue città, glieremi, i giardini e le corti sembrano sommerse dal silenzio eppure dialogano con qualcosa, la cui presenza rimane miste-riosa ma evidente e l’imprecisione genetica del suo Geco mi sembra una metafora di questo dialogo con l’invisibile che titrasforma fibra a fibra. Nel “Teatrino d’ombre”, in “Idea Santorini”, nel “Padiglione sull’acqua e giardino zen” o nel “Giar-dino chiuso” c’è, evidente, il ricordo o l’ipotesi del viaggio. O forse sarebbe meglio dire il ricordo “e” l’ipotesi del viaggio,perché, anche il viaggio è un dialogo ed anch’esso può essere praticato con l’invisibile e nell’invisibile (proprio verso doveè diretto l’immortale taoista del suo “Uccello dell’immortalità”: the Kingdom wherenobodydies…) potrebbe essere Zobei-de ma potrebbe anche essere solo una rosa. Oppure ambedue le cose (qui sono io, in realtà, che sto giocando un poco, per-

ZOBEIDE - Città spirale (acquerello)

Alfredo MasciulloLa poesia del si lenzio

Recensori vari

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ché la sua citta-spirale mi ha immediatamente evocato una rosa: la rosa azzurra di un film che vidi da bambino, e che eragià vecchio allora, “Il ladro di Bagdad”!).

Insomma in quello che Masciullo dipinge, nei luminosi arancioni e negli azzurri (ma non assente neppure nei bruni neiviola, nel verde cupo e nei grigi) c’è comunque, sempre il rimando a qualcosa che non si vede e non “chiude”, qualcosa che

resta aperto come una feri-ta. Forse anche dolorosa. In-somma il suo “Angelopesa-anime” proprio comequello del Guariento sem-bra pensare ad altro e cosìtutti i suoi soggetti. Però staqui, mi sembra, la loro gra-zia.

Ugo Rosa (già redattoredella rivista ‘Casabella’)

"È una dimensione rela-zionale quella studiata daAlfredo Masciullo attraver-so i diversi linguaggi es-pressivi delle sue opere.Spazio e materia, materialee immaginario, immagina-zione e rappresentazionedel reale si incontrano e siricombinano nella stessamisura in cui i tratti e il co-lore, ovvero la corporeità

delle cartepeste, offrono prospettive complementari della collocazione dell’artista nel mondo e di fronte all’istinto creati-vo. Pur portatore di un approccio individuale, Masciullo percorre il sottile crinale tra isolazionismo e solipsismo, perseguen-do il primo ed evitando accuratamente il secondo, in una sovrapposizione di piani nella quale i ricorrenti temi di fortezze,eremi e “città invisibili” si alternano a morfologie naturali e alla stessa materialità scultorea, in prevalenza rifinite con unmisto di forza e gentilezza, in contrasto solo apparente con la destrutturazione formale della pittura. Linee decise, taloraprotese al razionalismo architettonico, si trasfigurano in astrazioni naturalistiche non aliene da tratti surreali o in visionidalle angosciose parvenze umane. In entrambi i casi, tuttavia, la limpidezza policromica di Masciullo lascia trasparire l’ul-teriore dimensione – appunto – dell’artista, riassumibile in una ricerca di tonalità efficaci eppure dotate di un’espressivitàlieve. La forza delle linee, scarne ma definite, unita a quella del colore, conferisce alle opere proprio quel carattere espan-

sivo che le sottrae all’autoreferenzialità, testi-moniando non soltanto la relazionedell’artista col mondo ma la sua ricerca diun’entità superiore, spesso misteriosa, co-munque individuabile in qualsiasi fonte disuggestione. Il paesaggio, lo spirito, la musi-ca e l’immaginazione diventano così motoredi una creazione multiforme e rigogliosa, chenel momento in cui perviene a esistenza si at-teggia a ponte con la realtà, superando la so-litudine dell’artista e rivelandone i caratterisolo apparenti di fronte a forme e colori pla-smati in un codice comunicativo, in un mes-saggio forte e chiaro percepibile da cuorialtrettanto sensibili."

Raffaello Russo (redattore della rivista‘Rockerilla’)

La rappresentazione della solitudine del-l’uomo nel suo stare al mondo, il suo dialogo

solipsistico diuturno che lo ha portato a tentare delle risposte nel sacro, nel magico e nel mistero. Chi più dell’artista è rap-presentativo di un’isola, e lo stato di solitudine è quasi uno stato di necessità con cui proteggere la propria libertà, anche

EREMO (acquerello) TENTATIVO DI VOLO (acquerello)

CORTE ARABA (acquerello)

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se, poi, l’atto creativo non èmai totalmente gioioso, manella maggior parte è sof-ferto. Il fare artistico è un fa-re individuale che porta aconfrontarsi con il reale a“nervi scoperti” e questospesso per un senso di ina-deguatezza, non può chedare sofferenza. Le temati-che ritornanti, rimandanoappunto ad un “io solita-rio” o a luoghi o entità qua-li giardini chiusi, cittàmurate, luoghi dell’animacapaci di proteggerci da unesterno privo di caratteri,siano essi estetici o etici,luoghi in cui la poesia delsilenzio ci rende più sensi-bili, luoghi come spazi an-cestrali in cui si rinnova ilmito delle nostre radici. An-cora i temi legati al magicoe al mistero e ai soggetti che

l’uomo da sempre ha eletto come tramite per avvicinarli e renderli meno oscuri e solo apparentemente più intelligibili (eroimitologici, profeti e divinità, maghi e sciamani).

Alfredo Masciullo

Alfredo Masciullo è nato a Galatina nel 1960, ha frequentato il Liceo Artistico di Lecce per poi conseguire la Laurea in Ar-chitettura nel 1985.

Padiglione sull’acqua e giardino Zen (acquerello) COSMOLOGIA BABILONESE (acquerello)

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Il castello di Corigliano d’Otranto (12.10.2014) e la salaconsiliare di Sogliano Cavour (16.11.2014) hanno di re-cente ospitato due eventi culturali organizzati dall’as-

sessorato alla cultura dei rispettivi Comuni per presentareal pubblico l’ultimo volume di poesie in dialetto di Fran-co Melissano, Carasciule te stelle (ed. Grifo, 2014). Entram-be le circostanze hanno offerto diversi elementi diriflessione ed interesse non solo sul piano poetico ma piùin generale su quello culturale. Ne trarremo spunto per de-lineare sommariamente i motivi ispiratori e le qualità arti-stiche dell’autore, sì da stimolare alla lettura delle sueopere, che sicuramente possonoriuscire gradevoli e meritevoli diapprezzamento.

Franco Melissano vive a Cori-gliano, dove esercita la professio-ne di avvocato. Dopo una forma-zione culturale classica presso illiceo “Capece” di Maglie, si è lau-reato in giurisprudenza alla “Sa-pienza” di Roma. Oltre agli studigiuridici ha sempre coltivato lacultura umanistica, impegnando-si anche nel sociale, con spiccatasensibilità verso le problematicheambientali. Alla poesia egli hasempre riservato grande dedizio-ne entro i margini consentiti da-gli impegni professionali dilavoro, e dopo alcune pubblica-zioni su varie riviste letterarie, fi-nalmente la sua produzionepoetica è apparsa in forma auto-noma con due recenti pubblica-zioni, il citato volume Carasciule te stelle, e il precedenteA ccore pertu (ed. Grifo, 2013). Le due opere sono sostan-zialmente in linea di continuità ed in qualche modo com-plementari sia come contenuti tematici che dal punto divista formale. Ne diamo conto illustrandone le caratteri-stiche più rilevanti.

In generale si può affermare che la poesia di Franco Me-lissano tende a collocarsi nell’alveo della tradizione sottodiversi aspetti. Il primo è sicuramente la sua scelta di scri-vere versi usando la lingua dialettale, una decisione che da

un lato rivela l’intenzione di affermare e difendere con or-goglio la propria identità culturale (in senso anche locali-stico), e nel contempo corrisponde a modalità espressiveche tendono a conseguire il massimo della spontaneità edell’immediatezza, sì da riuscire ben più efficaci ed accat-tivanti per coloro che ne sono i destinatari, in quanto noninficiate dagli algidi vincoli della convenzionalità che nor-malmente contraddistingue le finalità utilitaristiche dellalingua nazionale. È del tutto evidente che per l’autore taleprospettiva di impegno identitario è pienamente merite-vole di essere perseguita ed incoraggiata, seppur nella con-

sapevolezza del rischio di limi-tarne la portata come ascolto edattenzione entro confini geogra-ficamente più contenuti. Si trattain sostanza di una posizioneideologica che scaturisce dallaconvinzione che ciò che conta inassoluto in poesia è la sincerità dichi scrive, mentre il valore intrin-seco di ogni singolo componi-mento nasce dall’ispirazione edall’abilità espressiva dell’autore,che possono realizzarsi median-te qualunque codice linguistico.

Essendo comunque consapevo-le delle difficoltà del lettore nonmolto ferrato nell’uso del dialet-to, opportunamente il poeta cor-reda ogni suo testo di accuratatraduzione, in modo da facilitar-ne la comprensione semanticasenza rinunciare ai particolari ef-fetti sonori e ritmici prodotti dai

termini dialettali. In verità qualche problema di decodifi-ca potrebbe nascere di fronte a parole assai suggestive, macon ridotto indice di frequenza. Basti qualche esempio: trai nomi troviamo vruculìu, sciana, carasciula, ponnuleḍḍa,riscia, viḍḍanza, rapeste, mazzureḍḍa; qualche particolaritàanche tra gli aggettivi, come ‘nculumatu, ‘ngrafatu,rronceḍḍatu, strapizzatu; soprattutto frequenti i verbi a for-te impatto fonico, quali mpasulare, ntortijare, ‘nverdicare,rrappare, scinucchiare, rranfare, rrendire. Attraverso la lettu-ra dei testi, ed anche in stretto rapporto ai diversi contesti,

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POETI SALENTINI

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è facile cogliere l’effetto unico e irripetibile prodotto da ter-mini come quelli menzionati.

La versificazione si mantiene lontana da qualunque spe-rimentalismo, prediligendo l’uso dell’endecasillabo, tran-ne rarissime eccezioni che adottano versi più brevi ed agilinella scansione. In effetti l’endecasillabo ben corrispondealle articolazioni di tiponarrativo o descrittivoverso cui di consueto ten-de l’autore, e soprattuttorende con efficacia l’effet-to sonoro-evocativo deitermini dialettali prescel-ti. La struttura composi-tiva più frequente è ilsonetto (anche in formacaudata), a meno che nonsi opti per il più sempliceuso di strofe quaternariea rime alternate, comenel componimento chesegue:

Jancu te piri e rosa te percochi,te paparine s’ave nsangunatulu fondu te li zzumpi e te li sciochi,lu vrùculu farfalla è ddiventatu.Li bbòmbili già l’àvene ‘mprenatute frunchi e te buttuni lu limone,se veste a ffesta tuttu lu creatu,lu jentu sperde sonni te vagnone.Se ddisciatàra a ccorpu le celone,tornàu primavera n’aḍḍa fiata,tornàra l’api cu llu calabbrone,nun ttorna giovinezza spensierata.

(“Tornàu la primavera”1)Dal punto di vista tematico entrambe le raccolte punta-

no verso quelli che sono ritenuti i lidi consueti a cui si ac-costa il sentimento poetico: il ricordo e la nostalgia

dell’infanzia, il rimpianto per i legami e le consuetu-dini sociali un tempo così forti e sentite, la riflessionesullo scorrere del tempo tiranno, l’insofferenza verso iguasti socio-ambientali, il recupero del sentimento reli-gioso che tradizionalmente ha rappresentato un solido col-lante per la collettività. Come è facile intuire, queste

tematiche poggiano suuna concezione artistico-creativa che intende lapoesia preminentementecome rappresentazionecritica della vita, sia indi-viduale che collettiva.

Ma il dato distintivoche in particolare meritadi essere posto in eviden-za come tecnica espressi-va peculiare è il fatto chegli elementi costitutividell’esperienza vengonorivisitati e proposti al let-tore in tono di sereno

ammiccamento, di dialogante confidenzialità, di rilassatoconfronto dialettico. Tale abito mentale è alimentato nel-l’autore dalla sua propensione ad attribuirsi una funzionedi catalizzatore del vissuto quotidiano, talvolta persino diportavoce del gruppo di appartenenza, una prospettivache conferisce al suo prodotto poetico un tono in parte diintima riflessione, ma più spesso di appassionata condivi-sione di intenti, di trasporto corale, persino ansia di prote-sta e rivendicazione sociale.

La tendenza di Franco Melissano a scendere spesso sulterreno dell’impegno civile rende anche conto delle suepreferenze sul piano non solo lessicale, ma anche per l’usometaforico che egli ne può fare. La visione idealizzata del-l’anima contadina che ancora pervade il modo d’essere edi pensare del popolo salentino fa sì che egli tragga le sueimmagini poetiche prevalentemente dal mondo vegetaleed animale, dall’incidenza del mutare delle stagioni, op-

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Da sn. Franco Melissano e Giuseppe Magnolo

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pure da sensazioni desunte dalla percezione sensoriale. Èquesto un chiaro indice della sua propensione alla concre-tezza, ma anche del suo desiderio di riuscire immediata-mente comunicativo verso il lettore, dandogli la nettasensazione dell’evidenza fattuale. Tale caratteristica è ot-tenuta in due modi: il richiamo a vicende del passato o re-centi, che assumono rilevanza in senso storico-sociale(rivendicazioni e lotte contadine, episodi di cronaca, ricor-di personali), oppure la rievocazione di usi ed attività che,seppure datati, possonoancora trovare riscontronelle consuetudini quoti-diane, o almeno nella me-moria delle piccole comu-nità del Salento.

Un esempio di quantoasserito si può trovare nelsonetto seguente, in cuidapprima si fa riferimen-to alla pianta di ulivo co-me tipica del paesaggiosalentino e alla raccoltadei frutti che secolarmen-te ha alimentato la produ-zione olearia ritenuta as-sai pregiata; ma subito il poeta passa a descrivere le durecondizioni di lavoro della popolazione contadina, oppres-sa da padroni “ca c’era cu lli spari”, prima dell’avvento del-la raccolta meccanica introdotta in anni recenti:

Ma le vulie noscie secularinu ssu’ surtantu bbeni e capitaliné sulu monumenti nazzionali;su’ testimogne te sutori mari,te paṭruni ca c’era cu lli spari,te scjurnalieri fatti animali,te mani e te culonne vertebbralirronceḍḍate pe ccurpa te l’agrari.Luce l’argentu te quiḍḍe fojazzequandu la luna china le ncarizzae bbinchia l’occhiu, l’anima e lu core;ma lu cuaṭru se tinge te dulorequandu memoria a spina me se mpizzate quanti se spezzara spaḍḍe e razze.

(“Vulie mare”2)

Sul piano esistenziale è possibile cogliere in entrambi ivolumi di poesie una concezione interpretativa dell’espe-rienza all’insegna di un divenire contrastivo, che si sostan-zia in una serie di antinomie, che nel sentire dell’autorecostellano il percorso evolutivo di qualunque individuocome dell’intera umanità. Ecco dunque le dicotomie fon-damentali in diversi ambiti: temporale (passato/presente;assoluto/relativo), affettivo (simpatia / repulsione; amore /odio), emozionale (gioia/dolore; speranza/timore), senso-percettivo (caldo/freddo; luce/ombra), intellettivo (ricor-do/dimenticanza; nostalgia/presagio). L’elenco potrebbecontinuare con puntuale incidenza su diversi componi-menti ed immagini poetiche ricorrenti. Ma il semplice rife-rimento metodologico a noi basta per poter mettere inevidenza il fatto che, in definitiva, il punto di approdo fi-

nale a cui tenta di pervenire la sintesi poetica elabora-ta da Franco Melissano è costituito da una asserzioneconclusiva (contenuta in una strofa, un distico, o piùspesso in un singolo verso), che esprime il conseguimen-to di una potenziale (o reale) armonia degli opposti, rag-giunta attraverso le varie tappe di un itinerario poeticovolto a riaffermare i fondamentali della convivenza, inte-sa come recupero di uno stato di grazia temporaneamen-te smarrito, e riconquistato grazie all’effetto evocativo e

sublimante della creazio-ne poetica.

Questo anelito visiona-rio, spesso presente manon sempre appagato, siconiuga infine con una re-ligiosità di fondo che an-cora una volta affonda lesue radici nel focolare do-mestico e nella sacralitàdegli affetti (“Simu statifurtunati! / A llu cantuneccoti e ssettati, / ncantati teli cunti te li tati”3), gene-rando echi gnomico-sa-pienziali di biblica caden-

za, che esprimono una rassegnata accettazione dell’esisten-te, e riaffermando, seppur tra amarezze e delusioni, il va-lore assoluto della vita, che va assaporata momento permomento:

Statte nu pocu manzu, datte canza,e nu tte dare cu lla peṭra am piettu;lassa li sonni, ca nun c’è speranza.Curta è la via e la tomba liettu:si’ nu craneḍḍu inṭra nu ngranaggiu,lu sule mina n’attimu nu raggiu.

(“Lu sule mina n’attimu nu raggiu”4) •

NOTE:

1. FRANCO MELISSANO, A ccore pertu, ed. Grifo, 2013, pag.28. [È torna-ta primavera. Bianco di peri e rosa di peschi,/ si è insanguinato di papave-ri/ il fondo dei salti e dei giochi,/ il baco è diventato farfalla.// Le gemmetonde hanno già ingravidato/ il limone di foruncoli e di bottoni,/ si vestea festa tutto il creato,/ il vento disperde sogni infantili.// Si sono sveglia-te di colpo le tartarughe,/ è tornata primavera un’altra volta,/ son torna-te le api con i calabroni,/ non torna la giovinezza spensierata.] 2. FRANCO MELISSANO, Carasciule te stelle, ed. Grifo, 2014, pag. 16. [Uli-vi amari. Ma i nostri ulivi secolari/ non sono solo beni di valore economi-co/ né soltanto monumenti nazionali;/ sono testimoni di sudori amari,//di padroni che ci sarebbe da spararli,/ di lavoratori a giornata trattati co-me bestie,/ di mani e di colonne vertebrali/ rattrappite per colpa degliagrari.// Luccica l’argento di quelle foglie/ quando la luna piena le acca-rezza/ e sazia l’occhio, l’anima e il cuore;// ma il quadro si tinge di dolo-re/ quando come una spina mi trafigge la memoria/ di quanti sispezzarono spalle e braccia.]3. FRANCO MELISSANO, Carasciule te stelle, op. cit., pag. 29 [Siamo statifortunati!/ Dentro il grande camino raccolti e seduti,/ incantati dai rac-conti dei genitori.] 4. Ibid., pag. 37. [Il sole getta per un attimo un raggio. Stai un po’ calmo, ab-bi pazienza,/ e non colpirti con la pietra in petto/ abbandona i sogni, per-ché non c’è speranza.// Corta è la via e la tomba è letto:/ sei un granellodentro un ingranaggio,/ il sole getta per un attimo un raggio di luce.]

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Un momento della presentazione del libro

Giuseppe Magnolo

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Cu la bbona salute a tutti quanti!

Quisti eranu li tiempi de quandu Papa Caiazzu, l’arci-prévate de Lucugnanu, nu giurnu sì e l’addhu puru, cum-binava quarcheduna de le soe.

L’ùrtima l’ia ccappata nu giovanottu, prossimu cu senzura, ca s’ia cunfessatu propiu a iddhu, ma Papa Caiaz-zu nu’ ll’ia datu nuddha penitenza. E quandu lu zzitu li lufice presente, Papa Caiazzu replicau :

- Fiju miu, fra pocu tie te sposi, no?... e nu ti basta quiddha,de penitenza?

‘N’addha fiata era successu ca l’arciprévate ia bisognu de‘na serva pe’ le servizzie, e allora lu Vescuvu l’ ia datu or-dine, pe’ rispettu a l’abitu sacerdotale, cu si trova una de‘n’età giusta, su lli cinquant’anni. Ma poi, cc’era successu?...Ca Papa Caiazzu s’ia pijatu do’ bbeddhe servette giovani,e lu Vescuvu l’ia cridatu:

- Ma, nu’ tt’ia dittu cu tti pij una de cinquant’anni?!E iddhu, quetu quetu: - Beh, nd’aggiu truvate doi de vinticinque... Tantu, vinticin-

que e vinticinque sempre cinquanta face, no?’Nzomma, mo’ pe’ ‘nna cosa, mo’ pe’ ‘ll’addha, Papa Ca-

iazzu se facìa sentire a tutta la Terra d’Otrantu, e li fatteriel-li soi (ca la gente li chiamava e li chiama ‘culacchi’), eranutantu curiosi, ca de voce a ricchia, e de ricchia a voce, su’‘rrivati finu a nui.

* * *Comu foe, comu nu foe, a lla metà de lu mese de dicem-

bre, a Lucugnanu, scèra cu lu trovanu tre vagnuni de cam-pagna: lu Ceccu, lu Miccu e lu ‘Ndrea, de la zona de SantuCàsparu, ‘na masseria tantu ‘ntica ca ciuvieddhi sapìa aquale carzettella de postu se truvava.

Quandu la Porzia, ca era la vecchia perpetua de Papa Ca-iazzu, li rappresentau all’arciprévate, li trevagnuni se ‘ngenucchiara e se mìseraa chiangire, dicendu ca eranu di-sperati, pe’ llu fattu ca pe’ quan-tu ìanu giratu a tutti li pizzi, epuru cu’ le Cuardie de lu Re,era già quasi ‘na settimana canu’ truvavanu cchiui né lamamma loru, ca facìa le ser-vizzie a casa, e ‘nsistìa lecaddhine e lli cuniji; nétantu menu lu tata, ca fa-cìa lu pecuraru, e era spa-ritu puru iddhu a rretu a llechiasure de lu Boscu deTricase, addhai ci sem-pre pasculava le pecu-re e la crapetta Bian-china.

Papa Caiazzu, ca a ddhu mumentuera ‘mpegnatu cuggiusta lu presepiu pe’ lla chiesia, li confurtau, e dopu cas’ia fattu dare quarche descrizzione cchiù precisa pe’ lluriconoscimentu de li genitori scumparsi, dese ordine a llaPorzia cu li rrecala tutti e tre, e poi li bbenediu:

- Turnati a casa vòscia a ‘ngrazzie de lu Signore, ca mo’ vidi-mu cce se pote fare.

E quiddhi se ne scèra speranzusi.

Mentru ca spicciava de sistemare unu pe’ unu tutti li pu-pi de lu presepiu (lu furnaru, la lavandara, lu pescatore vi-cinu a lu lachettu, lu scarparu, lu cconzalimbi, la nunnacu’ llu fusu, lu venditore de casu, e cusì via...), lu Papa nò-sciu penzava. E penza ca te ripenza, li vinne l’idea cu se ri-volga a llu Sciacuddhi, ca essendu ricchi-tisu, picciccu,furbu e lestu de pede e de manu, de sicuru lu putìa iutarecu cerca ddhi cristiani.

E difatti, quandu la notte stessa, cittu cittu, scìu cu llucerca, e lu truvau a lla Masseria de lu Strolacatore ca sta‘nfiettava le cude a lli cavaddhi, e li fice la pruposta, luSciacuddhi li disse sùbbitu de sì:

- Basta ca poi ssignurìa mi rrecali nu stangatu de vulìe nere(ca de quiddhe vau pacciu), nu buccacciu de chiàppari cu’ llu ci-tu, unu de taraddhi cu’ llu pepe, ‘na pezza de casu friscu...

- ...e nu pòsciu de fiche, pe’ bbonamisura! ‘ggiunse Papa Ca-iazzu, senza irunia.

- ...cu’ lla mèndula! precisau lu Sciacuddhi, cu nnu’ rruma-gna a rretu.

* * *Li giurni passavanu, Natale se ‘mbicinava, e de la mam-

ma e de lu tata loru, lu Ceccu, lu Miccu e lu ‘Ndrea nu’ te-nìanu nutizie de nuddha specie.

Le solite mmalelingue eranu cunvinte ca s’ìa-nu persi a llu Scuffundu alla cerca

de l’acchiatura. Addhi dicìanuca eranu stati rrubbati de liTurchi, ca l’ìanu ‘mbarcatisu ‘na galera pe’ ll’Orientecomu schiavi. E c’era puru‘na vecchia macàra de Cu-lupazzu, ca facendu le car-te, l’ia ‘ssutu ca eranu statipijati de li Fantasmi, e pur-tati a llu Castellu de la Ven-

nerdìa, ca se truvava tra laFrancia, la Spagna e lu Paese

de Cuccagna. Intantu, lu Sciacuddhi s’ia datu

de fare pe’ cuntu sou: girandu e fu-scendu comu nu striunizzu pe’ tuttu lu

Capu; nfilànduse intru a lle caverne cu scopra li misteri dela notte; salendu e scindendu de susu e dde sotta a lli liet-ti intru a lle case de li cristiani cu spia quiddhu ca sta sisunnavanu; rrampicanduse susu ll’àrvuli, sulle torri, sul-le suppinne, sulle fanèscie, susu a lli perpitagni e su lli piz-

24 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2014

Papa Caiazzu e li Pupi di

Cuntu misteriosu de Natale

Antonio Mele

terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia

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zi de li fumulari, cu pozza cuardare cchiù luntanu pussi-bile; scundènduse intru a lle barche de li piscaturi o fra lestanghe de li sciarabbà de li trainieri pe’ sentire quarchesecretu; e raccumandànduse a l’addhi sciacuddhi cumpa-gni soi cu li dèscianu ‘na manu...

‘Nzomma, alla fine, ia rraccoddu tutte le nutizzie ca l’in-teressavanu, e s’era presentatu a rapportu all’Arciprevatu-ra de Lucugnanu.

Cusì, a llu Papa Caiazzu, lu Sciacuddhi li riferiu ca vici-nu a lli scoji de Castru, nu cuginu sou, ca se chiamava Scaz-zamurrieddhu, ia truvatu fiocchi de lana de crapa tuttisparpajati, quasi sia ca la crapa l’ìanu spinnata comu ‘nacaddhina... E pocu distante, nu secondu cuginu, lu LauruMonaceddhu Scarcagnulu, ia truvatu nu stozziceddhu destoffa strazzata, e la stoffa era de culore russu fiurata amargherite gialle, propiu comu quiddha de lu mantile capurtava sempre la mamma de lu Ceccu, de lu Miccu e delu ‘Ndrea.

- Ma, ‘llora, tocca cu av-vertimu le Cuardie de lu Re!se allarmau Papa Caiazzu.

- Nu’ c’è bisognu! replicaulu Sciacuddhi cu’ ll’occhi‘sperti. – Àggiu già capitu iu co-mu stanu le cose. E ssignuria potigià preparare lu stangatu, li buccac-ci, la pezza de casu, e lu pòsciu de fi-che pe’ bbona misura... Cu’ llamèndula, naturalmente!

* * *Chianu chianu se scuprera

l’altarini. Difatti, sciùti a lli scojide Castru, tutti a prucissione a rre-tu a llu Sciacuddhi, comprese leCuardie de lu Re, e lu Papa Ca-iazzu, e puru la Porzia, ‘rrivara alla Crotta de la Zinzulusa, e trasèra.

Gira de cquai, gira de ddhai, facendu luce cu’lle lucerne, truvara ‘na porticeddha chiusa, tutta ‘mpin-nata de sòricelindi, ca vulavanu de susu a sotta comu‘mpacciuti. Lu Capitanu de le Cuardie de lu Re tuzzau a llaporta, e cridau forte cu àpranu, se no la scasciàva. E sùbbi-tu la porta se aprìu, e ‘ssiu ‘na vecchia, curta, storta, cu’ llunasu a ‘ncinu, li capiddri vierdi e pizzi pizzi, e cu’ ll’occhirussi ca parìa ‘na streca. Difatti, propiu cusì se ppresentau:

- Chi bussa a lla casetta de la Strega Riculetta?- La legge! rispundìu tostu lu Capitanu, cu’ lla sciàbu-

la a manu. Ma mancu ia spicciatu de cuntare, ca la vec-chia si mise a mienzu ‘ll’anche ‘na scupa, e... via! scappaucomu nu fùrmine, sparendu intru a ‘na nuveja de fumu.

- Sàcciu iu addhu è sciuta! disse lu Sciacuddhi. - Mo’ vu laportu a rretu! E sparìu puru iddhu. E quandu turnau, cu laStreca Riculetta ‘ttaccata stritta comu nu mazzettu de pe-trusinu, cu nu’ sia ca scappa ‘ntorna, ridìa.

- Percè sta ridi? li ddumandau curiusitusu lu Papa Ca-iazzu.

- Percè, rispose lu Sciacuddhi, ssignuria l’hai canusciuta bo-na de vicinu ‘sta percalla de streca! L’hai truvata a rretu a ‘nabancarella de lu mercatu de li pupi de lu presepiu a ‘lla fera deSanta Lucia!... M’àve già confessatu ca nu paru de giurni rretu,propiu de iddha, alla bancarella soa, hai ccattatu ‘na decina depupi de crita, fra cui ‘na femmana de campagna cu’ llu mantilefiuratu a margherite gialle, e nu pastore cu’ lle pecure e ‘na cra-petta...

- Gesù, Giuseppe e Maria! cridau Papa Caiazzu, disperatu.Ma cce bbo’ dici, ca ddhi do’ pupi de lu presepiu ca àggiu ccat-tatu a lla fera suntu la mamma e llu tata de lu Ceccu, de lu Mic-cu e de lu ‘Ndrea?!... Ma cce misteru ede quistu? E comu se facemo’, cu ddhi poveri cristiani ridotti a pupi de crita?!...

Prima cu li vegna nu corpu, lu Sciacuddhi consulau sùb-bitu l’Arciprèvate, spiecànduli ca iddhu stessu, ca cu lu ju-tu de tuttu l’esercitu de li Sciacuddhi de la zona, ia giàrisoltu lu problema. Cusì, cu le cchiù terribili minacce (epuru cu la promessa de ‘na pignateddha de munete d’oru,pe’ bbona misura), ia ottenutu sùbbitu de la streca Riculet-ta l’annullamentu de l’incantesimu fattu alla mamma e allu tata de ‘ddhi tre vagnuni.

Difatti, de pupi de crita ca eranu ddeventati, li genitoride lu Ceccu, de lu Miccu e de lu ‘Ndrea eranu già tur-

nati cristiani de carne e osse, e sta’ spettàvanu li fi-ji loru, e puru lu Papa Caiazzu, e lu

Capitanu, e le Cuardie de lu Re, e li pae-sani, a la chiesa de Lucugnanu, pe’‘nvitare tutta la populazzione a casa

loru (crazzie a ‘n’addha pignated-dha de munete d’oru ca lu Scia-

cuddhi l’ia rrecalatu, e pre-parare la cchiù crande fe-

sta de Natale de tuttu luCapu de Leuca, cu’ llucchiù crande banchet-tu de tutti li seculi e

seculorum... Amme.Cusì difatti foe, e cusì sia. E comu dicìanu a casa

mia: Lu cuntu ca cuntai, de lanonna mi lu ‘mparai. Aucuri!

Nota. Lo sciacuddhi, folletto invisibile e per propria naturadispettoso, è spesso anche buono, generoso e allegro come nes-suno. Se avrete la fortuna di incontrarne uno, adottatelo e non vene pentirete.

Questo racconto è dedicato al mio antichissimo sciacuddhi, delquale non ricordo mai il nome (forse si chiama Tommasu, Gior-gettu, o più probabilmente Cici), che sta con me da quando ave-vo sei anni, e non mi lascia mai. •

novembre/dicembre 2014 Il filo di Aracne 25

u, lu Sciacuddhi lu Presepiu

‘nventatu de sana pianta da

e ‘Melanton’

ra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia

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Nel 1969, presso l'Università di Stanford (USA), ilprofessor Philip Zimbardo ha condotto un esperi-mento di psicologia sociale.

Abbandonò due auto in strada, due automobili iden-tiche, della stessa marca, modello e colore. Una la la-sciò nel Bronx, quindi una zona povera e conflittualedi New York; l'altra a Palo Alto, una zona ricca e tran-quilla della California.

Due identiche auto abbandonate, due quartieri con po-polazioni molto diverse e un team di specialisti in psicolo-gia sociale, a studiare il comportamento delle persone inciascun sito.

Si è scoperto che l'automobile abbandonata nel Bronxhanno cominciato a smantellarla in poche ore. Ha perso leruote, il motore, specchi, la radio,ecc. Tutti i materiali che poteva-no essere utilizzati sono stati pre-si, e quelli non utilizzabili sonostati distrutti. Dall’altra parte,l'automobile abbandonata a PaloAlto, è rimasta intatta.

È comune attribuire le causedel crimine alla povertà. Attribu-zione nella quale si trovano d’ac-cordo le ideologie più conser-vatrici (destra e sinistra). Tutta-via, l'esperimento in questionenon finì lì.

Dopo che la vettura abbando-nata nel Bronx fu demolita e quella a Palo Alto era ancoraillesa, i ricercatori decisero di rompere un vetro della vet-tura a Palo Alto, California. Il risultato fu che scoppiò lostesso processo, come nel Bronx di New York: furto, vio-lenza e vandalismo ridussero il veicolo nello stesso statocome era accaduto nel Bronx.

Perché il vetro rotto in una macchina abbandonata in unquartiere presumibilmente sicuro è in grado di provocareun processo criminale?

Non è la povertà, ovviamente, ma qualcosa che ha a chefare con la psicologia, col comportamento umano e con lerelazioni sociali.

Un vetro rotto in un'auto abbandonata trasmette unsenso di deterioramento, di disinteresse, di non curan-za, sensazioni di rottura dei codici di convivenza, di

assenza di norme, di regole, che tutto è inutile. Ogninuovo attacco subito dall'auto non fa altro che ribadi-re e moltiplicare quell'idea, fino all'escalation di atti,sempre peggiori, incontrollabili, col risultato finale diuna violenza irrazionale.

In esperimenti successivi James Q. Wilson e George Kel-ling hanno sviluppato la “Teoria delle finestre rotte”, gra-zie alla quale si è dimostrato che la criminalità è più altanelle aree dove l'incuria, la sporcizia, il disordine e l'abu-so sono più alti.

Se si rompe un vetro in una finestra di un edificio e nonviene riparato, saranno presto rotti tutti gli altri. Se una co-munità presenta segni di deterioramento e questo è qual-cosa che sembra non interessare a nessuno, allora lì si

genererà la criminalità. Se sonotollerati piccoli reati come par-cheggio in luogo vietato, supera-mento del limite di velocità opassare col semaforo rosso, sequesti piccoli “difetti” o errorinon sono puniti, si svilupperan-no “difetti maggiori” e poi i cri-mini più gravi.

Se parchi e altri spazi pubblicisono gradualmente danneggiati enessuno interviene, questi luoghisaranno abbandonati dalla mag-gior parte delle persone (chesmettono di uscire dalle loro case

per paura di bande) e questi stessi spazi lasciati dalla co-munità, saranno progressivamente occupati dai criminali.

Gli studiosi hanno risposto in una forma più forte anco-ra, dichiarando che l’incuria ed il disordine accresconomolti mali sociali e contribuiscono a far degenerare l'am-biente.

Se il capofamiglia, tanto per fare un esempio, lascia de-gradare progressivamente la sua casa, come la mancanzadi tinteggiature alle pareti che versano in pessime condi-zioni, cattive abitudini di pulizia, proliferazioni di cattiveabitudine alimentari, utilizzo di parolacce, mancanza di ri-spetto tra i membri della famiglia, prima o poi, cadrà gra-dualmente anche la qualità dei rapporti interpersonali trai membri della famiglia ed inizieranno a crearsi cattivi rap-porti con la società in generale.

26 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2014

EXTRA MOENIA

Auto in abbandono saccheggiata

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Questa ‘teoria delle finestre rotte’ può essere un'ipotesivalida per comprendere la degradazione della società e lamancanza di attaccamento ai valori universali, la mancan-za di rispetto per l'altro e per le autorità (estorsione e letangenti), la degenerazione della società e la corruzioni atutti i livelli. La mancan-za di istruzione e di for-mazione della culturasociale, la mancanza diopportunità, generano unpaese con finestre rotte,con tante finestre rotte enessuno sembra dispostoa ripararle.

La “teoria delle finestrerotte” è stata applicataper la prima volta allametà degli anni ottantanell’area metropolitana diNew York City, che eradivenuta la zona più pericolosa della città. Si cominciòcombattendo le piccole trasgressioni: graffiti che deteriora-vano il posto, lo sporco dalle stazioni, ubriachezza tra ilpubblico, evasione del pagamento del biglietto, piccoli fur-ti e disturbi. I risultati sono stati evidenti: a partire dallacorrezione delle piccole trasgressioni, si è riusciti a fare del-la Linea Metropolitana un luogo sicuro.

Successivamente, nel 1994, Rudolph Giuliani, sindaco diNew York, basandosi sulla teoria delle “finestre rotte” el'esperienza della Metropolitana, ha promosso una politi-ca di tolleranza zero. La strategia era quella di creare co-munità pulite ed ordinate, non permettendo violazioni alleleggi e agli standard della convivenza sociale e civile. Il ri-sultato pratico è stato un enorme abbattimento di tutti itassi di criminalità a New York City.

La frase “tolleranza zero” suona come una sorta di solu-

zione autoritaria e repressiva, ma il concetto principa-le è più prevenzione e promozione di condizioni so-ciali di sicurezza. Non è questione di violenza aitrasgressori, né manifestazione di arroganza da parte del-la polizia. Infatti, anche in materia di abuso di autorità, do-

vrebbe valere latolleranza zero. Non è tol-leranza zero nei confrontidella persona che com-mette il reato, ma è tolle-ranza zero di fronte alreato stesso. L’idea è dicreare delle comunità pu-lite, ordinate, rispettosedella legge e delle regoleche sono alla base dellaconvivenza umana in mo-do civile e socialmente ac-cettabile.

È bene di tornare a leg-gere questa teoria e a diffonderla.

La soluzione a questo problema io non c’è l’ho, caro let-tore, ma io ho iniziato a riparare le finestre della mia casa,sto cercando di migliorare le abitudini alimentari della miafamiglia, ho chiesto a tutti i membri della famiglia di evi-tare di dire parolacce, soprattutto davanti ai nostri figli,inoltre abbiamo deciso di non mentire, di evitare persinole piccole bugie, perché non c'è nessuna piccola bugie, labugia non è grande o piccola, UNA BUGIA è UNA BU-GIA E BASTA!!!

Abbiamo concordato di accettare le conseguenze dellenostre azioni con coraggio e responsabilità, ma soprattut-to per dare una buona dose di educazione ai nostri figli.

Con questo ho la speranza di cominciare ad eliminarequalche mio errore. Il mio sogno è che i miei ripetano tut-to questo in modo che un domani i figli dei miei figli o i lo-

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Ragazzi intenti a pulire muri imbrattati

Quartiere abbandonato al degrado

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ro nipoti possano vedere un nuovo mondo, UN MONDOSENZA FINESTRE ROTTE.

Se sei d’accordo con la “Teoria delle finestre rotte”, faisemplicemente girare questo appello in modo che ognigiorno siano di più quelli che vogliono dare unamano al miglioramento della nostra società.

E, scendendo nel nostro piccolo mondo, cioè Ga-latina, oppure Lecce, Casarano, Nardò, Gallipolied altri centri salentini, ci è doveroso rivolgere uncaloroso invito al sindaco, perché faccia circolarequesto appello negli uffici e nei luoghi pubblici disua competenza. Rivolgo, altresì, lo stesso invito aidirettori di banche, ai dirigenti scolastici, ai diret-tori sanitari, ai parroci, ai presidenti di societàsportive, alle forze dell’ordine (polizia urbana, ca-rabinieri, guardia di finanza, polizia di stato, poli-zia forestale, ecc), perché ognuno, nel proprioambito di competenza, agisca con “Tolleranza Ze-ro”, in modo che certe scempiaggini ed abusi or-mai radicati nelle coscienze e nei comportamentidei cittadini poco per volta scompaiano dalla sce-na pubblica e siano solo un brutto ricordo.

Si adottino misure appropriate in ogni settore

della vita pubblica. Comincino a farlo isindaci e i dirigenti scolastici, promuo-vendo le iniziative che riterranno più op-portune, coinvolgendo, se del caso, asso-ciazioni private e cittadini volenterosi intor-no ad un progetto armonico e finalizzato. Seda questi tentativi di “crescita sociale” si ot-terranno buoni risultati (e chi scrive è piena-mente convinto), si potranno moltiplicare glisforzi e le azioni, sino ad interessare tutti gliambiti della vita pubblica.

Madre natura ha fatto del Salento una terrameravigliosa, ma non basta. La possiamo mi-gliorare da un punto di vista prettamenteumano. È esattamente quel che manca perchéil Salento acquisisca gli stessi connotati delParadiso. Tutto dipende da come ogni salen-tino si spende per arrivare a questo importan-

te traguardo e, soprattutto, da come si spende permantenerlo tale. Mettiamoci alla prova. Si può fare. •

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Giovani ambientalisti ripuliscono una spiaggia

Angolo di città ideale

Salvatore Cesari

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Possiamo assumere la data 1579 non come la data difondazione della chiesa della S. Misericordia bensìcome inizio di quella evoluzione architettonica che

ha portato a migliori lustri questa chiesa. Difficile sicura-mente la datazione del primo impianto, tuttavia documen-

ti e tutto il contesto in cui questa è inserita ci fannoipotizzare a una piccola chiesa medievale di patronato diqualche famiglia, probabilmente facente parte di quella“corporazione“ dei pellettieri che in Galatina, da sempre,è stata una delle maggiori attività.

Nel 1500, Galatina, come centro economicamente e so-cialmente dinamico, attirò una serie di maestranze che alungo andare fecero di essa la periferia artistica di centricome Nardò e, in seguito, Lecce. Il portale della chiesa ga-latinese dei “Battenti” ne è un esempio insigne. Costruitoa partire dal 1579 come recita l’epigrafe dell’architrave:"FRATER QUI ADIVATURA FRATE, QUASI CIVITASFIRMA ET IUDICIA QUASI VECTES CONFRATERNITA-TUM 1579", il portale è attribuito al neretino Giovanni Ma-ria Tarantino, la personalità più interessante dell’archi-tettura salentina tra gli ultimi decenni del ‘500 e i primi del‘600. Un confronto del portale di questa chiesa con quellodel Duomo di Minervino, autografo lavoro del Tarantino del1573, basta a convincerci in merito a quella proposta attri-butiva. Possiamo dire quindi che la chiesa dei Battenti ap-partiene a quel filone architettonico definito “manieraneretina”, che fino alla prima metà del ‘600 testimonieràla vivacità e l’autonomia della provincia rispetto alle elabo-razioni formali moderne provenienti da Lecce.

L’intera chiesa, viceversa, si presenta di difficile datazio-ne, almeno per quanto riguarda il primo impianto; le pri-

me notizie certe della chiesa si hanno intorno al 1538, nel-lo stesso periodo in Galatina erano presenti tre confrater-nite: l’Annunziata, S. Giovanni e i Battenti. La visitapastorale in Terra d’Otranto del 1522 non ci è d’aiuto inquanto sono andati persi i primi 64 fogli.

Visita Pastorale del 1538Nel 1538-40 viene effettuata una seconda visita da An-

tonio De Beccariis, vicario generale dell’arcivescovo Pie-trantonio De Capua. Nella visita si parla della confra-ternita che aveva diritto di patronato: il cappellano era donVincenzo Papa Joanne.

La chiesa è ben disposta, sopra vi è il coro, due porte concampanelli e due campane in alto, adiacente alla chiesa unorto di sua proprietà con diversi alberi.

La chiesa ha altri beni: un “pallio sferico scuro moresco”,un calice d’argento con relativa patena. Per quanto riguar-

30 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2014

TESORI NASCOSTI

Galatina (LE) - Chiesa dei BattentiVisita Pastorale del 1538

Galatina (LE) - Chiesa dei Battenti - Architrave

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da i suoi interni, si parla di un unico altare dedicato a San-ta Maria dell’Idria. Viene menzionato il cappellano donBattista Morea che era tenuto a celebrare la Messa una vol-ta a settimana.

Inoltre ha dei possedimenti nelle vicinanze di Galatina,in località la Fossa, e altri oliveti di cui la santa visita ne fauna completa descrizione.

Si parla di un orto olivato in località Sant’Antonio di cuil’affittatore pagava ducati uno alla chiesa.

Ulteriori notizie sulla presenza in Galatina della chiesa edella confraternità ci vengono date nel 1565: “Adì 15 di set-tembro 1565 morse la signora Errinna Scandarbech Castrista,principessa de Bisognano, in Morano, e de notte fu portata inCassano, et seppellita. E andò per visitarla la confraternita delliBattenti, con cappellano don Giammaria Caio, arcidiacono no-stro, il quale cantò la Messa, quando fu seppellita allo conventodelli scappuccini di Cassano” .

Notizie che confermano, l’ipotesi dei Castriota come pro-tettori della chiesa nel ‘500. Successivamente viene men-zionata la presenza della confraternita in Galatina nel 1566“Lo Generale dell’ordine de San Francesco intrò in Sampietro a29 d’aprile lundì, a 5 ore de giorno del 1566 e li ulcero avanti lipreiti, li dui conventi de monaci, de San Francesco e San Domi-nico, le tre confratarie de S. Giovanni, l’Annontiata e li Batten-ti, e da dui cento archibusceri”, di seguito troviamo scritto“Adì 24 febbraro 1581 partetti, io, Petrantonio, per Roma, conla con fraterna delli Battenti, et ritornai adì 21 di aprile”.

Visita pastorale del 1607Di notevole importanza la Visita Pastorale del 1607, ci ri-

vela una descrizione molto dettagliata della chiesa e deisuoi possedimenti: “Questa è la chiesa dei battenti nella qua-le vi è una confraternita che ha il diritto di patronato (ius patro-

natus) sulla chiesa. Vi è in essa un cappellano don Vincen-zo India, che ha un onere di celebrazioni (messe) nei singo-li giorni festivi. Ha un reddito di dodici ducati. La stessachiesa è senza tetto ed è stata costruita con elemosine. Lo stessocappellano ha giurato di celebrare le messe richieste nella chiesa.All’interno della chiesa vi è l’altare di S. Leonardo su cui eserci-ta il diritto di patronato laicale la famiglia del defunto LeonardoPaula. Ed è il cappellano stesso Vincenzo India, che ha presenta-to la bolla con i suddetti benefici rilasciata dall’allora Vicario ge-nerale di Otranto don Pietro Tommaso, e ad avere l’onere dicelebrare sull’altare ogni settimana. Ha come reddito per il soloaltare di S. Leonardo sei ducati, ecc..”.

Nelle successive visite risulta che la chiesa in occasionedel Giubileo del 1633, fu riparata e dotata di nuove suppel-lettili, il tutto grazie alle elemosine dei pellegrini raccoltedalla Confraternita dei Domenicani ai quali era stata affida-ta; inoltre si parla della necessità di alcune riparazioni.

Le successive visite ci dicono poco, tuttavia altre notizierelative all’edificio le troviamo per quanto riguarda i bene-fici, che nei secoli ad essa vennero concessi.

Documenti relativi la chiesa e la confraternitàDa questi documenti, viene in luce che nell’arco dei seco-

li la chiesa è passata sotto diversi patronati: Fam. Lillo al-la fine del ‘500, Fam. Congedo, Passante, Bonusio nel ‘600.I benefici accordati dalla Curia di Otranto, confermanol’importanza della chiesa e della relativa confraternita, masono di notevole interesse anche perché nel caso ad esem-pio del beneficio del 1576-1778, la chiesa viene menziona-ta anche sotto il nome di Abbazia di S. Mauro, potrebbequesto riferirsi alla scomparsa Abbazia presente in Galati-na, o a questo punto alla stessa chiesa.

Nel documento relativo al beneficio del 1637-1780, siparla della cappella di S. Martino poi divenuta chiesa di S.Maria della Misericordia, ad indicarci forse quella che era

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Galatina (LE) - Chiesa dei BattentiMadonna della Misericordia - affresco

Galatina (LE) - Chiesa dei BattentiVisita Pastorale del 1607

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la prima cappella medievale.Vista l’importanza dei documenti ritrovati li riporto qui diseguito:

Archivio della Curia Arcivescovile di OtrantoFondo-Parrocchie-I parte inventario, Dott. PantaleoPalma 17 nov. 1999

Busta 75 Fasc. 26/74 1576-1778Beneficio della SS. Trinità, poi S. Maria della Misericordia, o

delli battenti, istituto nell’omonima cappella sita nell’abitato, dipatronato della famiglia Lillo e poi arciconfraternita di S. Mariadella Misericordia e Abbazia di S. Mauro. Presentatore del ret-tore da parte dei compadroni e relativa investitura concessa daparte della Curia arcivescovile. (Pag. 147)Busta 75 Fasc. 26/86 1637-1780

Beneficio di S. Martino, istituto nell’omonima Cappella sitanell’abitato, poi diruta nella chiesa della beatissima Vergine del-la Misericordia, o delli Battenti, di patronato delle famiglie: Pas-sante, Congedo, Bonusio. Presentazione del rettore da parte deicompadroni e relativa investitura concessa da parte della CuriaArcivescovile. (Pag148-149)Busta 74 Fasc. 26/97 1691-1913Adempimento da parte della confraternita della SS. Trinità, o ar-ciconfraternità di SS. Maria Verginedella Misericordia, alias dei fratelliBattenti, istituita nell’omonima cap-pella fin dal 1567, dei legati per la ce-lebrazione delle messe,amministrazione dei beni e relativi as-sensi concessi dalla sacra Congregazio-ne dei vescovi e regolari per lavariazione del patrimonio posseduto.(Pag.150)

Ipotesi evolutiva dell’edificioLa chiesa riveste una notevole

importanza all'interno del tessutourbano, oggi si presenta all’angolotra via Zimara e piazza Galluccio,mentre sino agli inizi del ‘900 face-va parte di quel percorso stradale di via Zimara che da unlato vedeva appunto la chiesa dei “Battenti” e dall’altro ilconvento delle clarisse (1605-20), con annessa la chiesa de-dicata all’Annunziata oggi di San Luigi.

La demolizione di parte del tessuto urbano ha alterato

l’importanza che in passato rivestiva,in quanto su piazza Galluccio si affac-cia solo la semplice pagina muraria delprospetto laterale, imboccando invece lastretta via Zimara, la facciata principale,seguendo il fronte stradale, sembra quasisoffocata per la mancanza di quello spa-zio che sicuramente il portale cinquecente-sco aveva.

L’impianto della chiesa è semplicissimo,una navata unica che ripropone la tipolo-gia più antica dell’edilizia sacra minore.Tutto questo fa riflettere sulle origini diquesto cantiere, benché il portale indica ladata 1579 e le prime notizie certe sono in-torno al 1538 (Visita Pastorale), si può az-zardare un'origine precedente, tra la finedel XV e gli inizi del XVI, anni in cui Ga-latina passò a Giovanni Castriota Scander-beg che morì verso la fine del 1505. Gli

successe il figlio Ferrante, che fino al 1561, anno della suamorte, fu residente in città. La chiesa è stata nel ‘500 sottola tutela dei Castriota, ma nulla ci fa pensare che la sua pri-ma costruzione fosse opera di questi. L’ipotesi della anti-chissima nascita è suffragata dall’importanza che essa harivestito in passato e sino alla sua chiusura nella gerarchiadelle chiese e delle confraternite presenti in città. Interes-sante risulta il rapporto tra la chiesa e il caseggiato che siaffaccia sulla stradina di accesso alla sagrestia. Questi do-vevano far parte di quella che per alcuni anni forse è statauna parrocchiale. L’edificio ha assunto un ruolo diversonei secoli, molto probabilmente è nato come abitazione, diqualche adepto della confraternita, passato poi in mano al-la chiesa e ai confratelli. Ha subito nei secoli diversi am-pliamenti sia in facciata che sul retro, dove si innesta conla sagrestia.

Parlare a questo punto di una chiesa di origini medieva-li, in cui si praticasse il rito greco, come è riscontrato in al-tre chiese del territorio di Galatina, una basilica minoregestita dalla confraternita e che oltre all’edificio religiosoavesse diversi possedimenti tra cui adiacente un orto e al-

cuni caseggiati (con annesso un pozzo) di proprietà dellaconfraternita sembra un’ipotesi plausibile. Di conseguen-za si sposta ogni possibile data di origine del primo im-pianto e, i rifacimenti del ‘500 e del ‘600 sono dovuti ad unrinnovamento architettonico che la chiesa affrontava in

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Galatina (LE) - Chiesa dei Battenti - zona absidale

Galatina (LE) - Chiesa dei Battenti - Ipotesi evolutiva zona absidale

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questi anni.L’avvento in Galatina di un grosso cantiere come quello

di Santa Caterina, che per magnificenza doveva eclissare,secondo l’intento degli Orsini, la pratica del rito greco siaa Galatina che in provincia, diede il via a quell’opera dirinnovamento anche architettonico che portò la chiesa al-lo stato attuale.

Riassumendo, l’impianto originale, ovvero quella chepoteva essere la chiesa prima del ‘500, vedeva una sempli-ce facciata con tre o due finestre e un semplice portaled’ingresso, il tetto era a capriate lignee, l’interno era piùcorto, concluso da un unico altare (dedicato a S. Maria del-l’Idria). La sagrestia, forse ancora in costruzione, il cortilesul retro della chiesa, vista la mancanza dell’abside, era untutt’uno con l’orto, mentre nelle vicinanze del caseggiato viera il pozzo.

Di certo è rilevante per la sua testimonianza storica ilbassorilievo ritrovato nell’edificio alle spalle della chiesa,edificio che nel ‘500 apparteneva alla famiglia de Logorio.Viene infatti menzionata la famiglia de Logorio nella “Nu-merazione dei fuochi” di Galatina del 1597, dove la Galatinacinquecentesca viene divisa in ventiquattro “isole”: “Laquinta si chiama l’insola di santa Maria deli Vattenti et inco-

mincia dalla casa di Jacobantonio Urrisio alias Gianco-ne et finisce alla casa dotale deli eredi di Colantonio Lo-gorio, quale si chiama Gabriele Maria De Logorio.”

Questo bassorilievo ha poco a che fare con lachiesa, ma di certo avalla l’ipotesi del contesto incui è inserita là, infatti esso è databile tra il XII –XIV secolo.

A questo punto sorgono dei dubbi su altri pos-sedimenti della confraternita. Alcuni atti notarilida cui si ha notizia che la chiesa per far fronte al-la necessità di denaro vende alcune parti di caseg-giato, ci confermano che sicuramente la chiesa,oltre all’orto, avesse anche parti di caseggiati. Lademolizione completa dell’isolato occupante l’in-tera piazza Galluccio ci priva di notizie importan-ti sulla articolazione di questo complesso diedifici. Nonostante ciò ipotizzo che questi caseg-giati fossero di un’edilizia più povera, del resto supiazza Galluccio rimane una parte del muro in-

terno di quella che doveva essere un'abitazione medieva-le, mentre l’edificio che doveva far parte della chiesacomunicava, direttamente con l’orto.

La divisione dei beni della chiesa negli anni, l’abbatti-mento di diversi caseggiati e la chiusura di alcuni passag-gi importanti, ci obbligano solo a ipotizzare.

34 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2014

Galatina (LE) - Chiesa dei BattentiAffreschi rinvenuti nella parte inferiore dell’abside

Ipotesi città di Galatina nel ‘500

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Dopo i restauriIl restauro della Chiesa ha portato alla luce molti parti-

colari e in particolare gli straordinari dipinti della zona ab-sidale, precedentemente coperta con una serie di teleincorniciate che erano state realizzate per avvolgere inte-ramente quest’area. I dipinti ritrovati li possiamo dividerein due epoche: quelli presenti nella zona superiore, tra cuial centro la bellissima rappresentazione della Madonnadella Misericordia con ai piedi gli adepti (fla-gellanti) sono sicuramente coevi al perio-do di realizzazione dell’abside, moltoprobabilmente lo stesso periodo delrinnovamento della facciata e quindidel portale, mentre la parte inferio-re con al centro la croce e simbolidella crocifissione e altri due di-pinti rappresentanti una città sonodatabili ad un periodo anteriore,ipotizzabile intorno al XIV/XV se-colo.

Osservando con maggiore atten-zione quest’area, si nota che la ba-se della zona absidale è formata daconci molto più irregolari e in al-cuni casi parzialmente fratturati,rispetto alla parte superiore me-glio realizzata. Questo ci fa ipotiz-zare che il materiale utilizzatonella parte inferiore potrebbe esse-re frutto del recupero di parti dipareti esistenti. Ad avvallare mag-giormente quest’ipotesi, vi sono por-zioni di dipinti venuti fuori sullaparte frontale, ove vi è il grandearco ad incorniciare la zona absi-dale; qui sono ben evidenti segni di vecchie pitture con lastessa fattura dei dipinti presenti nella porzione bassa del-la zona absidale.

La corrispondenza di tutto ciò ci fa ritornare all’origina-rio impianto della chiesa, quell’unico altare molto proba-bilmente creato in quella semplice parete terminale cheoggi è abbellita dal grande arco. Ma veniamo ai due dipin-

ti a destra e sinistra della croce, entrambi mancano delpezzo di cornice che li completa, ed entrambi sicura-mente vogliono rappresentare la stessa città, quasi inun tentativo di migliorarla o di correggerla nella sua rap-presentazione. Un raffronto tra questi dipinti e altre rap-presentazioni di Galatina mi convincono nell’ipotizzareche quest’immagine rappresenti la Galatina del XV sec. Alcentro i due torrioni che incorniciano porta San Pietro , co-

me rappresentato nelle Memorie del Papa-dia, a sinistra il portone d’ingresso del

castello, una seconda torre (torrionePapadia), l’arco d’ingresso della

“porta nuova” e il bastione in cor-rispondenza della chiesa dellaMadonna del Carmine.

Sempre guardando l’immaginee procedendo alla destra di portaSan Pietro, incontriamo lungo ilpercorso, il torrione Capano, l’at-tuale porta Luce, il torrione (Na-chi) e la “curvatura di viad’Enghien”, così ad evidenziarequella forma ellittica del centrostorico. Il tutto è completato datorri, tetti, la rappresentazione dichiese nell’abitato (molti degli edi-fici di culto sono a copertura a ca-panna, come la maggioranzadegli edifici di queste epoche), edaltri elementi fantasiosi tipici del-

l’epoca.Quest’ipotesi non contrasta con le

varie rappresentazioni di Galati-na, che mai l’hanno rappresenta-ta per intero, e sicuramente la

datazione dei dipinti, coevi alla realizzazione delle nuovemura, ci consente di ipotizzare che lo spirito di chi ha rap-presentato la città era proprio quello di fotografare la cit-tà in quel momento di rinnovamento che stava attra-versando, per questo Urbs Nova, così scriveva il Galateo aiprimordi del XV sec. •

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Adriano Margiotta

Galatina (LE) - Chiesa dei BattentiAgesilao Flora - 1897 - La vergine assunta in cielo

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TRA STORIA E LEGGENDA

Il 7 febbraio 1481 con i Turchi ad Otranto, Galatina e lavicina Soleto vengono attaccate dalla cavalleria turca.Quel giorno infausto per le popolazioni

del luogo finisce in una razzia generale, cheporta bottino e schiavi per l’Oriente.

Il generale Giulio Antonio Acquaviva, cheaveva sposato una delle figlie di Giovanni An-tonio Orsini Del Balzo, sentitosi colpito in pri-ma persona dall’accaduto, reagisce inseguen-do le truppe turche.

L’antefattoLa leggenda di Otranto parte da un impor-

tante fatto storico. Maometto II è desiderosodi veder sventolare in un porto del Salento la“bandiera verde” del Profeta. Pertanto ap-pronta una grande flotta, formata da 200 navie diciottomila soldati, al comando del GranVisir Acmet Pascià (detto lo sdentato), lan-

ciandola contro il porto di Brindisi. La città, però, è benprotetta e difficilmente potrà essere conquistata. Pertanto

Acmet decide di spostare le sue mire sulla cittadina diOtranto, più esposta ed abbordabile. Alla fine di luglio del1480 inizia l’assedio della città, che resiste ed oppone unavalida resistenza, ma non per molto tempo. Infatti, per di-versi giorni i cannoni delle navi turche lanciano contro lemura di Otranto palle di pietra e di piombo, alcune dellequali fanno ancora bella mostra di sé, adagiate al suolo inalcuni angoli della città vecchia. I turchi, dopo alcuni ten-tativi andati a vuoto, sbarcano su diversi punti della costa,trasformando lo scontro in una battaglia di terra. Per gior-ni, fino al 12 agosto, Otranto viene bombardata da mare eda terra. Gli eroici Otrantini, aiutati da alcuni contingentigiunti in loro soccorso, difendono coraggiosamente la cit-tà contro gli agguerriti guerrieri venuti da Oriente. Alla fi-ne il loro sforzo risulta inutile. Meglio armati ed in numerosoverchiante, i soldati di Allah conquistano dopo giorni egiorni di furiose battaglie la città, esaudendo il desiderio diMaometto II di “fare della casa di Cristo, la stalla per i suoicavalli”.

Ottocento persone sono decapitate dai Turchi, arrabbia-ti per l’ardua resistenza e per il rifiuto di abiurare il lorocredo religioso ed abbracciare quello islamico. I resti deiMartiri sono custoditi in apposite teche nella famosa Cat-tedrale di Otranto, a testimonianza della grave e inconce-pibile strage.

L’eccidio degli otrantini

Maometto II

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L’intervento di GiulioAntonio AcquavivaNelle varie scaramucce

contro i turchi, un impor-tante ruolo è ricoperto daGiulio Antonio Acquavi-va, conte di Conversanoe luogotenente di Alfon-so d’Aragona, principedi Napoli.

Abile spadaccino, ilconte fa scempio di tur-chi ma, alla fine, vienedecapitato da un colponetto di scimitarra. Stan-do alla leggenda, il cava-liere, anche se privo ditesta, continua a combat-tere, seminando morte esgomento tra i nemici.Poi il fido cavallo si dile-gua nelle campagne e conduce il conte decapitato al castel-lo di Sternatia, una piccola città che dista una ventina dichilometri da Otranto. Nel cortile del palazzo, il cavallo siferma e il cavaliere stramazza al suolo.

Nella Chiesa Maggiore di Sternatia, il cadavere del con-te viene ricomposto e sepolto, poi è traslato in altra cap-pella.

A Conversano, capoluogo del feudo degli Acquaviva,nella Chiesa di S. Maria dell’Isola, sculture e scritte circon-dano il cenotafio del povero conte Giulio Antonio.

Questa leggenda, però, non concorda pienamente con laverità storica, poiché il conte muore combattendo contro iturchi nel 1481 e non nel 1480. Viene effettivamente deca-pitato da un fendente nemico e il corpo esanime, fermosull’arcione, è trasportato dal cavallo sino al castello diSternatia.

Viene allora da chiedersi: “Come mai il cavaliere nonviene sbalzato a terra, dopo essere stato decapitato?”. La ri-sposta è univoca. A quei tempi, i cavalieri erano bardati dicorazze e legami metallici, al punto che quasi facevano un

unico e soli-do blocco conil destriero.Ciò spiega il mi-stero del cavalie-re che rimane insella senza testa.

La leggendadello spettro, pe-rò, sopravvive.Sono molte lepersone che giu-rano di aver vi-sto, nelle notti diagosto, un caval-lo montato da uncavaliere senzatesta che agita laspada nell’aria,b r a n d e n d o l acontro dei soldati

Ottomani intorno agli antichi bastioni di Otranto. Tutto si svolge, perciò, intorno alla vecchia fortezza

otrantina, esattamente quella che ispirò, nel 1764, allo scrit-tore inglese Horace Walpole uno dei primi romanzi stori-ci, intitolato per l’appunto “Il castello di Otranto”. •

Giulio Antonio Acquavuva

Otranto (LE) - Cattedrale - Le teche con le ossa dei Martiri

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C’ERA UNA VOLTA...

In Nardò, verso la metà degli anni ’50, sulla strada “timare”, proprio di fronte a “lu torrino” (cisterna soprae-levata dell’acquedotto) viveva un ricco signore molto

conosciuto per la sua stazza, ben oltre i duecento chili, chelo costringeva a stare sempre seduto su una “poltrona” ap-positamente costruita per lui e lo limitava nei movimenti.

All’epoca la zona era ai margini della città, quasi in aper-ta campagna, e la sua abitazione era situata al centro diun podere di terra coltivata prevalentemente a vigneto efrumento che si estendeva per oltre cinque ettari.

Alla casa, di stile co-lonico, si accedevaattraversando unlunghissimo “strado-ne”, i cui marginierano delimitati daun rigoglioso pergo-lato di uva bianca a “candellino”, alberi di albicocche, ca-chi, prugne, pesche e terminava davanti ad una spaziosaaia ombreggiata da un secolare albero di “zezzi” (gelsi) che,innestato da mani sapienti, produceva due varietà di frut-to: quello bianco più comune e quello rosso, più raro, mol-to grosso e più gustoso.

Quel signore aveva preso in moglie una delle cinque so-relle di mio nonno, le altre quattro erano rimaste zitelle, emia madre, la più vicina di casa fra i nipoti, non mancavadi andare, di tanto in tanto, nei pomeriggi estivi a trovaregli zii.

Io, ragazzetto, l’accompagnavo spingendo la carrozzinacon mio fratello Luigi e, mentre la mamma aiutava la zia inqualche faccenda domestica, come ad esempio separare ifagioli dai “mammuni” (gorgoglioni, bachi delle legumina-cee) per cuocerli “alla pignata”, le noci appena raccolte dalmallo o stirare le lenzuola fresche di “cofanu”, mi intratte-nevo a giocare sull’aia rincorrendo lucertole o cercando diacchiappare qualche cavalletta fino a quando lo “zio panzo-ne” non mi affibbiava qualche incarico.

“Salvatò, e nno ti faci dare ti la zia lu cestinu e mi ccugghi tozezzi ti quiddhri russi? Però, mi raccumandu, cunnossia va ti limangi ca cinò ti tingi l’occa ti russu e bisogna cu ti llavanu lalengua e li tienti cu la lissia! (lisciva, sapone detergente per“lu cofanu” ottenuto con acqua bollente e cenere)”.

Detto fatto. Felice per l’incarico, mi arrampicavo sul gel-so, agile come uno scoiattolo, e cominciavo la raccolta.

“Salvatò, cce scola faci?”.“Aggiu spicciatu la prima e mo’ a ottobre ccumenzu fare la se-

conda”.“Bbrau, bbrau, e ci ete lu mesciu tua?”.“Lu mesciu Spanu”.“Naaah, quiddhru ca sona lu violinu. E canzuni no’ bbi ndae

‘mparate?”.“Sine, tante, puru l’innu di Mameli”.“Bbrau,bbrau, l’innu ti Mameli lu sacciu puru iò. E no’ mmi

lu canti cu bisciu ci ete lu stessu?”.Ed io, a squarciagola, “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, del-

l’elmo di Scipio……………. dov’è la vittoria ……………..stringiamoci a coorte……….… l’Italia chiamò”.

“Bbrau, bbrau, ete comu quiddhru ca sacciu iò. Lu cestinu no’ll’hai chinu ancora?”.

“Sine l’aggiu chinu”.“Beh, bastanu bastanu, scindi e mi raccomandu attentu quan-

du scindi cu no’ ti cadinu li zezzi, ci no addiu fatica”.Sceso velocemente e consegnato il cestino colmo…“Lu sai ca tieni ‘na beddhra voce! Cce t’hannu tagghiutu li

tonsille?”.“No, no, li tegnu li tonsille”.“Non ci creu! Fammile ‘itire”Spalancavo così la bocca e il furbo “tricheco” poteva con-

trollare che la mia lingua non avesse preso lo stesso colo-re delle dita divenute violacee per la raccolta “ti li zezzi”.

Verso la metà di ottobre di quell’anno, l’avaro rese l’ani-ma a Dio.

“Li ‘enne ‘nu corpu”, dissero, e da morto diede più fasti-dio che da vivo.

Intanto toccò alla moglie e alle sue quattro sorelle il gra-voso compito di lavare la salma e di rivestirla con l’abito“da morto” e, data la mole del de cuius, possiamo immagi-nare quanto il compito debba essere stato “pesante”; poi laveglia funebre recitando rosari, Ave Maria e atti di dolore in-tervallati ad arte dalle “lodi” al defunto, urlate da qualche“prèfica” e dagli isterici scoppi di pianto della neo vedova.

Com’era allora usanza, per tutto il pomeriggio, la not-te e il mattino del giorno successivo alla dipartita la ca-sa rimase aperta per permettere ai familiari di ricevere levisite di condoglianze da parte di amici e conoscenti. Poi,verso le 15.30, iniziarono le “grandi manovre” per il fune-rale.

La bara costruita in fretta e furia risultò essere un po’

(I gelsi rossi)

di Salvatore Chiffi

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strettina e i parenti, a cui era devoluto l’arduo compito disistemarlo nella bara, oltre alle ovvie difficoltà del “pesomorto” dovettero ingegnarsi non poco a farlo “entrare” nel“tautu”; ma alla fine “’ncarra ti qua e ‘ncarra ti ddhra”, riu-scirono nell’intento (qualcuno raccontò che dovettero per-sino salire in due sulla salma e saltarci sopra con i piediper farla entrare e permettere al coperchio di chiudersi).

Le maledizioni lanciate durante l’operazione di “incassa-mento” si moltiplicarono quando fu data la notizia che lo“stradone” era troppo stretto e che “lu carru fuci fuci” (il car-ro funebre), trainato da quattro cavalli, non riusciva a pas-sare attraverso le due colonne che reggevano il cancellod’ingresso.

Il feretro doveva essere trasportato a spalla sino alla stra-da e, siccome la chiesa dei Cappuccini, dove si sarebbe of-ficiata la Messa funebre, era proprio accanto a “lu torrino”,i malcapitati avrebbero dovuto pure allungare il percorsodi un altro centinaio di metri.

In quel momento qualcuno degli astanti avrebbe volutoscomparire, ma non potette, così sei tra le persone più gio-vani presero in spalla il feretro e si avviarono lentamenteverso la chiesa.

Il trasporto non fu facile soprattutto perché i sei baldi“volontari” non erano tutti della stessa altezza e oltretuttoogni tanto qualcuno sbagliava il passo. Sui due più bassi,posti sul davanti, gravava quasi tutto il peso del “tavutu”e così, tra un “ahiaiai la spaddhra”, “no’ spingiti ca mo casciu”,“sciati chianu chianu ca sta’ scinucchiu”, “spetta pocu pocu cuspostu lu pisu”, “cu pozza scoppiare, quantu pesa”, si riuscì a

depositare la salma in chiesa.Dopo la Messa, l’operazione per sistemare il feretro

nel carro fu molto più facile, e il funerale si concluse alcimitero con l’ennesimo conferimento delle condoglianzealla vedova e ai parenti più stretti, ma... ma quel “cu pozzascoppiare”… arrivò a buon fine.

Qualche giorno più tardi, infatti, i parenti furono infor-mati che, a causa della gran quantità di gas prodotto dal-la decomposizione, il de cuus era letteralmente esploso eaveva danneggiato anche alcune tombe adiacenti.

… e a me, grazie alla “tirchiaggine” di un furbacchione ealla paura di farmi lavare la lingua con la “lissia”, dopotanti anni, non fu mai dato a sapere “cce sapore tiniànu ddhrizezzi russi!”. •

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Nella sua casa laboratorio nella campagna di Tauri-sano, Donato Minonni svolge la sua quaran-tennale attività artistica, intervallando al

lavoro la cura dei suoi amati animali e le visite di ami-ci ed estimatori che non gli fanno man-care gratificazione e apprezzamentoper i lavori che di volta in volta va ese-guendo.

Questo operoso artigiano ed ispirato ar-tista, nato nel 1945, che conosce il valore delsacrificio e della gavetta, fatta durante gli anni del-la gioventù, è stato per molti anni insegnante di Disegnoe Storia dell’Arte negli istituti superiori ed alla pittura ealla scultura ha sempre unito l’hobby della fotografia.La sua attività prevalente però resta quella dello scul-tore,come la miriade di opere sparse nel Salento te-stimonia.

In un catalogo o “foto-libro” stampatoqualche tempo fa, è tracciata unaprima ricognizione della sua carrie-ra, ma molte opere si possono am-mirare anche on line, sul suo sitowww.cadart.it.

Nel suo laboratorio ha sempre la-vorato con le più svariate tecnichecome lo smalto, l’argento, il mo-saico vetroso, l’intarsio, ecc.

Fra le realizzazioni più importan-ti, occorre segnalare: il Monumento a Padre Pio, in marmodi Carrara, alto m. 2.30 a Taurisano, del 1989; la statua diSan Francesco d’Assisi in bronzo patinato verde pompe-iano, alta 2 metri e 50, che si trova a Gemini di Ugento, vo-luta dalla Confraternita Maria Ss. del Rosario nel 1994; la

statua di Santa Lucia in legno di cirmolo, realizzata nel1998, che si trova a Brindisi, nella chiesa di San Nicola;

l’angelo con un’ala soltanto in marmo bianco di Carra-ra, a Gallipoli.

Bellissima e poetica la scultura “Apollo e Daf-ne” del 1989.

Taurisano è la città di Giulio Cesare Vanini(1585-1619) e dunque fra le realizzazioni diMinonni, non potevano mancare delle ope-re che all’illustre filosofo del passato ren-dono omaggio.

Fra di esse, un busto in cemento egraniglia del 1969, un timbro con l’im-magine del filosofo realizzato in oc-

casione del convegno di studivaniniani del 1969, un busto del fi-losofo in cemento, graniglia bian-ca e polvere di marmo, realizzatosempre nel ’69 per la Scuola Ele-

mentare di Taurisano, un busto inbronzo e medaglia per il Liceo

Scientifico di Casarano, che è statointitolato proprio a Vanini.

Ancora, un busto in bronzo del fi-losofo del 1995, sempre per il Liceo

di Casarano, dove lo stesso Minonniha insegnato fino al momento del con-gedo.

Come dicevo prima, Minonni opera infaticabilmente invari contesti e in più settori dando man forte a quella schie-ra di pittori, scultori, grafici, designers che con le arti figu-rative impreziosiscono il nostro Salento.

È proprio il caso di essere d’accordo con Giorgio Seve-

SCULTORI SALENTINI

Pannello

Padre Pio

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so: “come i lavoratori e gli imprenditori danno luo-go, con le loro attività, alla ricchezza pubblica di unPaese, così l’operosità degli artisti è uno dei fonda-menti dell’immaginario di un’epoca e contribuiscea determinare, in definitiva, quella che si potrebbechiamare la ‘coscienza poetica’ di una società”.

Notevoli le sue realizzazioni all’interno della Fon-dazione Filograna a Casarano, come la grande fonta-na centrale ed i giardini, e poi alcune opere in bronzoper il Calzaturificio Filanto di Casarano.

Una delle più recenti realizzazioni in cui è sta-to impegnato, insieme col figlio Carlo, è quelladel sarcofago della serva di dio Mirella Solido-ro, molto amata a Taurisano, presso la chiesa Ss.Mm. Maria Goretti e Giovanni Battista.

Il foto-catalogo riporta le varie fasi dell’opera,dal progetto alla scelta dei blocchi di marmo aCarrara, fino alla lavorazione e posa in opera,con l’inaugurazione finale.

Nella stessa chiesa, opera di Minonni sono legrandi e bellissime vetrate realizzate in vetri colo-rati e grisaglia ad alto fuoco.

Nell’antropologia del Salento, che è la patria geo-grafica e dell’anima dell’autore, affondano le matriciartistiche del suo fare scultura, Minonni mi spiegail suo approccio con l’arte e come nascono leopere che gli vengono commissionate.

La prima fase è quella degli studi preparato-ri in cui egli si documenta leggendo tutto ciò che è statoscritto sul soggetto o sul tema che deve essere realizzato,

anche con l’ausilio di filmati, ove se ne disponga, docu-mentari e dvd. Quindi procede ai bozzetti preparatori chesottopone all’attenzione dei committenti e, dopo il placetdegli stessi, passa alla all’ultima fase, quella della realiz-

zazione vera e propria.Perché ciò avvenga, però, è necessario far scoccare

la scintilla, la folgore dell’ispirazione. In questo ca-so, alla technè si unisce la theiadynamis, per dirla con

Platone, cioè la magia di quell’ispirazione che hasempre qualcosa di divino, che irrompe ed invade

l’artista, rendendolo “entheos”, posseduto dalDio.

Forse sarebbe scontato dire che eglinon lavora per il presente, seguendo le

mode del momento ( non ha forse valoreuniversale la massima oraziana exegi mo-numentum aere perennius?), ma per offri-

re una testimonianza che duri nel tempo, cheparli anche alle generazioni avvenire.

Sta di fatto che, contemplando questeopere, si ha davvero la sensazione che ilfacitore abbia dato ad esse un che dieternale, sovrastorico.Uno scultore che lavori su progetti pre-

definiti infatti ha certamente meno libertà espressi-va, per esempio, di un pittore che segua

soltanto i ghiribizzi della propria fanta-sia.

Ma, pur nella fedele esecuzione di un preordinato dise-gno, egli riesce a far sposare insieme cuore e cervello, attin-gendo dalla propria “visione interiore”, per tornare aPlatone, ossia dalla forma ideale di bellezza, la sua rappre-sentazione materiale, fondendo, nel suo poiein (il “fare” de-gli antichi greci, da cui “poesia”)la propria interiorità conla matericità dell’opera, “esprit de finesse e esprit de geome-trie”, come dice Pascal.

Una delle opere più imponenti diMinonni è il Monu-mento a Padre Pio in bronzo che si trova a Parabita. Il mo-numento, voluto dal compianto poeta parabitano RoccoCataldi, realizzato da Donato insieme al figlio Carlo, ven-ne inaugurato nel giugno del 2002.

Fra le opere, occorre aggiungere: la stele funeraria conritratto di Marcello Lezzi a Matino, del 1997; l’Angelo adali spiegate, in marmo bianco di Carrara, a Gallipoli, del2001; e fra le più recenti, degna di nota è il Monumento aPapa Giovanni Paolo II, realizzato in marmo bianco di Car-rara, alto 3 metri e 15 e posizionato, nella omonima piaz-zetta, a Casarano, nel 2007.

Da artista eclettico e curioso, appassionato anche di ar-chitettura e arredamento, ha realizzato opere di restaurodi ville, allestimento di negozi, sistemazione di giardini eparchi.

Come grafico, anche alcune copertine di libri quali, adesempio: “Scuola e cultura nella realtà del Salento” perl’Annuario del Liceo Scientifico Vanini di Casarano; “Unantico mestiere” di Katia Manni e Silvia Sansone; “Il gio-vane Gramsci” (Congedo editore) di Luigi Montonato ;“Dal tempo ritrovato” dello stesso autore (Edizioni di Pre-senza); “La fatica, l’ingegno, la creatività” di Roberto Or-lando (Centrostampa); “Lavoro e proverbi nella società delbisogno. Taurisano tra ‘800 e ‘900” (Congedo Editore) di

Apollo e Dafne

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Vittorio Preite; “Humanitas et civitas. Studi in memoria diLuigi Crudo”, a cura di Giuseppe Caramuscio e FrancescoDe Paola (Edipan), ed altri ancora.

Fra le ultime realizzazioni, un busto marmoreo di Gio-suè Carducci, posizionato nel cortile dell’omonimo edifi-cio scolastico taurisanese e inaugurato nel dicembre del2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia. In quell’occasione,Aldo de Bernart, che dell’istituto Carducci era stato di-rettore didattico nei lontani Anni Sessanta, tracciando unparallelo fra la statua carducciana del Guacci (del 1910,presso l’ex Convitto Palmieri di Lecce) e quella recentis-sima di Minonni, scrive: “ Da domani gli alunni dell’Edi-ficio Carducci saranno guardati dagli occhi del busto delMinonni, che scava uno sguardo più sereno, più dolce,più tranquillo, forse quello del poeta degli affetti fami-gliari. È l’arte di questo scultore taurisanese che plasma,accarezza e fa parlare le figure. Ragazzi dell’istituto Car-

ducci, tenete per voi lo sguardo del poeta scolpito daMinonni ed io terrò quello del Guacci.

Solo così potremo ricordare insieme i due artisti, en-trati prepotentemente nella nostra vita. E come nel lon-tano 1910 fu osannato il prof. Luigi Guacci, così noiosanniamo questa sera il nostro prof. Donato Minonni.Grazie professore”.

Il catalogo, nell’ultima parte, riporta anche alcune pittu-re e litografie di Donato. L’emozione che egli innerva nel-le sue opere mi fa pensare ad una semantica forte di valoriche, nella sua visione del mondo e della vita, sostanziano

l’opera stessa, ne impastano la materia.E così, specie nelle sculture di arte sacra, la verità della

forma e oltre la forma, il bisogno di elevazione, la spiritua-lità che trascende la materia, effusa nei suoi aerei volumi,costituiscono cifra distintiva e bagaglio poetico del facito-re Donato Minonni. •

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La Croce su vetro

San Francesco d’Assisi

Paolo Vincenti

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Finito il pranzo, tutti ritornarono nella ramesa per com-pletare il lavoro de ‘nfilatura delle foglie di tabacco, ri-maste ancora ammucchiate per terra.

Ognuno occupava il suo posto, contrassegnato da nu cuc-cettu de tufu reso più morbido con un sacchetto di iuta riem-pito di paglia.

Lì accanto si recuperava la cuceddhra, lasciata infilzata ap-pena appena su un mazzo di foglie.

Prima di riprendere il lavoro indossavano nu mantìle di te-la che, appeso al collo, scendeva sul petto e sulle gambe.

Si tentava così di ridurre al minimo l’unto sui vestiti, sullebraccia e sulle gambe, prodotto dal grasso che si formava ma-nipolando le foglie.

Erano già tutti seduti alloro posto, quando il piùpiccolo di casa, che abitual-mente arrivava sempre perultimo, questa volta accusa-va un ritardo di oltre mez-z’ora.

Inventava sempre unascusa con la sua fervida fan-tasia. Era abilissimo e insu-perabile in ciò.

Forse questo ritardo, an-che se più lungo del solito,era giustificato, almeno cosìsembrava a giudicare dal gi-nocchio sanguinante e sbuc-ciato, come se lo avessestrofinato su un foglio dicarta vetrata.

Aveva gli occhi arrossati, mentre una lacrima, appena ab-bozzata, gli rigava la guancia.

Prima di entrare nella ramesa, l’orgoglio gli aveva strozza-to in gola anche un pur minimo lamento e gli aveva prosciu-gato finanche il condotto lacrimale.

La nonna, appollaiata come una gallina faraona su unaconsunta e traballante poltroncina di giunco all’ombra delfrondoso albero di noce di fronte alla ramesa, lo osservava di-vertita da lontano.

Da lì lo vide camminare zoppicando e lo chiamò a sè, chie-dendogli che cosa gli fosse successo.

Appreso che era scivolato, mentre correva, su una chiancaviscida vicino a llu pilacci (almeno così gli aveva fatto crede-re), cercò di consolarlo e gli suggerì di lavarsi il ginocchiosanguinante con l’acqua fresca della cisterna.

Poi lo ammoniva con un velo di ironia: “Ddiu cu tte scanza

de la vasce cadute”, mentre un lieve bagliore degli occhi, chescivolava attraverso le rughe del volto severo, teso e scavatodagli anni, dal lavoro e dagli affanni, sfumava in un fugacesorriso appena accennato sulla labbra ruvide, screpolate dalsole.

Pulita la ferita e stagnatu lu sangu, si rinfrancò.Ritrovò il suo posto e la sua cuceddhra. E riprese a ‘nfilare ta-

baccu.Anche questa volta (forse con la solita furbizia) s’ia spara-

gnatu ‘na llavata de capu.Infatti il padre di Chicco, lontano dalla ramesa, per sua for-

tuna non si era accorto di nulla e, intanto, nello spiazzo anti-stante provvedeva a sten-dere da chiodo a chiodo suitalaretti le filze già confezio-nate e ammucchiate vicinoad ogni postazione di lavoro.

Aveva inizio così il lungo,laborioso e delicato procedi-mento dell’essiccatura.

Le foglie dovevano secca-re al naturale, esposte inin-terrottamente al sole peralcune settimane, tempopermettendo.

Quando avevano assuntoun colore vivace, giallo –oro,le filze venivano raccolte ingruppi di cinque / sei allavolta che, legate insieme suambo i lati con le parti ter-

minali dello spago, si trasformavano in chiuppi.Questa operazione veniva svolta solo di mattina all’alba,

quando le foglie, avendo assorbito l’umidità della notte, era-no diventate più malleabili e non si sbriciolavano al tatto.

Poi, attraverso piccoli ganci di ferro filato ripiegati a formadi esse, i chiuppi venivano appesi ai chiodi infissi sulle chianet-te della ramesa e lì rimanevano al riparo fino a novembre,quando arrivava il momento della ‘ncasciatura per il conferi-mento alle Concessionarie.

Solo allora essi venivano disciolti e le filze, ripiegate duevolte su se stesse, erano adagiate e pressate (se ‘ncasciàvanu)nelle casse di legno, quelle costruite a riquadri con steccheleggere ricavate dall’albero di pino e foderate all’interno consottili fogli di carta da imballaggio.

Ma arrivare indenni e senza problemi fino a questa fasenon era impresa da poco.

Gli acquazzoni estivi, molto rari in verità ma improvvisi e

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SUL FILO DELLA MEMORIA

Conferimento del tabacco

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violenti, ti costringevano a intraprendere una corsa contro iltempo, perché le foglie di tabacco appena appassite dopoqualche giorno di esposizione al sole, se non portate al ripa-ro, una volta bagnate, si coprivano di muffa e il colore dagiallo-oro si trasformava in marrone-scuro.

A volte, i danni, più che la pioggia, li procurava il ventoimpetuoso, o li sthriunizzi, che spesso con l’aumentare delvento si trasformavano in cude de zzimpione (vere e propriepiccole trombe d’aria).

Esse comparivano all’improvviso, a forma di cono con lapunta strisciante per terra.

Si spostavano velocemente con capricciose e volubili tra-iettorie e, rusciando, aspiravano nel loro ventre rotante e vor-ticoso terra, foglie, pàmpane de vigne, stecchi di rami recisi,tùmuli, brandelli di stoffa, che dalbasso salivano verso l’alto per ri-discendere giù, sempre imprigio-nate nel loro cono.

Il vento che le accompagnava si-bilava attraverso i fili della corren-te elettrica tesi sui pali d’altatensione, sbuffava indispettito at-traverso la folta chioma degli al-beri che rantolavano ripiegati suse stessi senza spezzarsi e squassava vigne, chiante de cara-vòmbuli, filari di tabacco e canne di granturco.

Pericolosamente, di tanto in tanto, volava giù anche qual-che embrice dal tetto della ramesa.

Le pareti laterali della suppinna già di per sè precarie, per-ché costruite con balle di paglia pressata, erano le prime a ce-dere.

Non di rado i talaretti con filze di tabacco già secco e quin-

di più leggeri venivano sollevati da terra e sbattuti con-tro un albero, o strisciavano sulle piantine dell’orto, ap-pena messe a dimora.

Quei pochi attimi d’inferno erano più che sufficienti percreare sconcerto, rabbia e danni irreparabili.

Poi altrettanto velocemente sparivano, dopo aver lasciatoal loro passaggio uno sconquasso generale.

Talaretti sthruncunisciati, corde de tabbaccu spezzate e sparpa-jate per terra, confuse e ‘nturtijate cu fujazze de fica e pàmpanede vigne: questo era lo scenario desolante che rimaneva.

Ed erano tutte filze che non potevano essere recuperate, per-ché durante la perizia (valutazione della qualità del tabacco)nella Concessionaria venivano menate a llu focu, che nel gergodel conferimento significava “tabacco da scarto, o spirdu” e

quindi non pagato.Ma a volte finivano nel fuoco al-

cune filze, che, anche se presenta-vano piccoli difetti, non eranoproprio da scarto.

Queste valutazioni erano inap-pellabili, spesso arbitrarie, a voltefatte per dispetto o per il gusto sa-dico di infierire sui più deboli, oper dare prova della propria auto-

rità, o della propria posizione dominante.“Cquài, cumandu iu, nu’ ssacciu se l’iti capìta!”, ripeteva sot-

tovoce la mescia, di fronte ai mugugni di qualche contadino,preso in disparte.

Linguaggio che, tradotto in parole povere e comprensibili,significava: “Ungi l’assu, ca la rota camina”.

Ma i contadini avevano poca volontà di ungere e pocu cras-su da sprecare.

Tabacchine al lavoro

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A volte le casse piene di tabacco rimanevano accatastateper molto tempo sul traino col quale erano state trasportatedalla casa colonica.

Dopo la contestazione della perizia della prima cassa esami-nata e dopo le furibonde llitacate cu mescia e peritu, le opera-zione di conferimento venivano sospese.

Riprendevano solo dopo aver trovato un’intesa ragionevo-le sui criteri di valutazione.

Il cavallo baio, impaziente fra le stanghe, percepiva il ner-vosismo che aleggiava d’intorno e smuoveva di tanto in tan-to la testa, scuotendo le orecchie e la cavezza, mentredondolava la coda per scacciarele mosche fastidiose, che glipunzecchiavano la pancia.

Le ruote del carro erano bloc-cate dal freno a mano e da dueconci di tufo, incastrati a con-trasto.

Per tenere tranquillo il caval-lo, il padre di Chicco gli infila-va il muso in un sacchetto diiuta, che gli appendeva sulla te-sta, passandogli dietro le orec-chie il collare che lo sosteneva.

Nel sacchetto c’era la porzio-ne di biada, che il cavallo co-minciava a masticare con ca-denza misurata, incurante, co-sì, del frastuono che lo circondava.

Di per sè, lo scarto, che non veniva pagato, diventava, ol-tre che danno, una beffa e una offesa al lavoro e al sacrificiodei contadini, che sembrava non avessero alcun prezzo difronte ai soprusi e alle angherie.

Il perito, tecnico di fiducia del titolare della Concessionaria,in combutta cu lla mescia de la fabbrica, dettava le regole e i cri-teri, molte volte arbitrari. Erano mosche rare, fortunatamen-te, ma esistevano.

Non di rado, il conferimento alla Concessionaria (obbliga-torio, perché il tabacco si coltivava e si produceva in regimedi monopolio) diventava un momento di vessazione, quan-do quei due personaggi, che avevano licenza di fregare ilprossimo, facevano quello che volevano.

Bisognava avere fortuna, perché in altre Concessionarie ope-ravano mesce e periti corretti e comprensivi, che non poteva-no essere definiti, come canta il Rigoletto, “vil razza dannata”.

Quelli, a differenza di questi, lo facevano non solo per

piaggeria nei confronti del padrone-concessionario, ma an-che per interessi personali (era particolarmente gradita l’atten-zione, o la sottamanu, o l’ungitura, se volevi evitare lu focu).

O tempora, o mores! Ieri come oggi e… viceversa.E’ vero che la legge consentiva al contadino conferente di

farsi assistere da un perito di fiducia, a proprie spese.Ma dove trovava i soldi per pagarlo?I contadini si mantenevano in piedi solo pe’ scummessa, o pe’

ll’arma de li morti!Tiravano a campare a dèbbatu, che onoravano (sempre) col

ricavato della vendita della verdura e poi del tabacco.Le llitacàte allora erano inevi-

tabili e si rischiava di venire allemani.

La loro rabbia e la disperazio-ne di fronte alle ingiustizie di-ventavano immense. Senzaconfini.

Non bastavano, di per sè, iproblemi quotidiani, il lavoro ele angosce che esso comporta-va.

Ci si metteva di traverso an-che il perito, la mescia, lu focu, luspirdu, e i loro soprusi.

La vita, così, diventava quasiuna catena che ti legava mani epiedi e ti stringeva il cuore in

un assillo soffocante.Solo la responsabilità per la famiglia ti rabboniva l’animo

e ti dava la forza per tirare avanti.Era giusto ribellarsi, ma la rabbia e la reazione violenta non

dovevano mai prendere il sopravvento.E il padre di Chicco lo sapeva bene, se, discorrendo con gli

altri contadini amici di sventura, si auspicava che, dopo lellitacàte, ognuno si sentisse rinfrancato, forse amareggiato,ma non sottomesso.

E allora se ne tornavano tutti a casa forse con qualche cen-tesimo in meno rispetto al guadagno sperato, ma con la di-gnità e la consapevolezza di essere uomini integri e restii aqualunque compromesso.

Davano prova di avere li caddhri alle mane, alli piedi e… a llucirivieddhru.

Come veri contadini, d’altronde! •

Perizia del tabacco

pippi onesimo

FRESCHI DI STAMPA

46 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2014

Con la presente pubblicazione, Donato Maglio approfon-disce i suoi studi sul dramma della “questione ebraica”portando al pubblico dibattito aspetti poco noti o da preci-sare.

Dopo il saggio su Pio XII. Il Pastor Angelicus nei docu-menti e nella stampa dell’epoca (Akàdemos Edizioni, 2012)che ha permesso di conoscere quanto papa Pacelli ha fattoper salvare gli Ebrei perseguitati, con questo lavoro il gio-vane Autore ha effettuato una ricerca originalissima sugliesponenti del clero cattolico, italiano e non, che si sonoesposti nella difesa degli ebrei ai tempi della “soluzione fi-nale” perpetrata dal regime nazista.

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