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Bruno Latour Non siamo mai stati moderni prefazione di Giulio Giorello elèuthera

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Bruno Latour

Non siamo mai stati moderni

prefazione di Giulio Giorello

elèuthera

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Titolo originale: Nous n'avons jamais été modernes Traduzione dal francese di Guido Lagomarsino

Traduzione dal francese della Postfazione di Carlo Milani

© 1991, 2009 Editions La Découverte © 1995, 2009 Elèuthera

© 2009 Bruno Latour per la Postfazione

nuova edizione rivista e aggiornata

Progetto grafico di Riccardo Falcinelli

il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]

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Indice

Prefazione di Giulio Giorello 7

CAPITOLO PRIMO

Crisi 11

CAPITOLO SECONDO

Costituzione 27

CAPITOLO TERZO

Rivoluzione 71

CAPITOLO QUARTO

Relativismo 121

CAPITOLO QUINTO

Ridistribuzione 171

Postfazione Il richiamo della modernità, approcci antropologici 191

Riferimenti bibliografici 221

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Prefazione di Giulio Giorello

Non mi riesce di ricordare nient'altro di genuino che i moderni possano pretendere venga loro riconosciuto; a meno che non si voglia

parlare di quella grande vena per l'alterco e la satira, la cui natura e sostanza molto partecipano del veleno del ragno.

J. Swift, La battaglia dei libri

Per Bruno Latour hanno ragione i pellerossa dei western: è proprio vero che il Viso Pallido parla con lingua biforcuta. Quella scienza, quella tecnica, quella democrazia di cui noi andiamo tanto orgogliosi, alpunto da imporle agli altri, sono state infatti costruite «separando i rapporti di forza politici e quelli di ragione scientifici, ma fondando sempre la forza sulla ragione e la ragione sulla forza» (corsivi nostri,). Questa non e soltanto la radice del colonialismo, ma anche «il nucleo del paradosso moderno»: da almeno tre secoli abbiamo operato «mesco-lanze di natura e di cultura», salvo poi presentare il prodotto finito at-traverso «un lavoro di depurazione» che pone una discriminazione netta tra naturale e artificiale.

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Sono state la storia della scienza e la ricerca antropologica applicata a quella strana «tribù» costituita dagli scienziati e dai tecnologi a spin-gere Bruno Latour alla riscoperta - sulle arnie illustri di Henri Poin-caré e di Ludwik Fleck — del carattere «costruito» del fatto scientifico1. Nel suo ormai memorabile Laboratory 1 .ile, scrìtto insieme con Steve Woolgar (sottotitolo: The Social Construciioii of Scientific Facts, I ed. 1979), si muoveva dalla personale esperienza entro un laboratorio di biologia per mostrare come il prodotto della «normale» (nel senso di Thomas Kuhn) attività scientifica non fòsse la pura e semplice registra-zione di ciò che avviene «in natura», ma Insito di «una dura lotta per costruire la realtà». Ciò che allora distingueva l'approccio di Latour da altre prospettive di sociologia della scienza, che miravano pressoché negli stessi anni a ritrovare le radici di un «fatto» in complicati processi di negoziazione sociale, è che tutto questo era solo una delle due facce della medaglia: l'altra era invece rappresentata da quel progressivo «oblio» dell'artefatto che portava infine alla registrazione della sco-

perta scientifica «depurata» da tutte le sue motivazioni profonde. Così, concludevano allora Latour e Woolgar, «il risultato della costruzione di un fatto è che esso appare come non costruito».

La pratica scientifica è quindi diventata, per Latour, un caso para-digmatico delpiù ampio processo di modernizzazione. Cosa sono mai «embrioni surgelati, sistemi esperti, macchine a controllo numerico, robot sensorizzati, ibridi del granoturco, banche dati, psicotropi forniti per legge, balene dotate di radio-sonda, sintetizzatori di geni» ecc., se non realizzazioni tangibili di quelle «mescolanze» o «ibridi» (come Latour li chiama) che popolano ormai la scena di questo nostro se-colo? Purtuttavia è proprio l'eccedenza di questi prodotti del moderno a rendere ormai palesemente insostenibile la dicotomia su cui la mo-dernità stessa si era costruita, al punto tale che il primo vero «ibrido», l'autentica «chimera», è l'idea che il moderno abbia in qualche modo realizzato le sue promesse. Il che — è questa la tesi di Latour — era sem-plicemente impossibile, dato il carattere paradossale di tutto il processo di «modernizzazione».

Quando ci sono promesse non mantenute ci sono anche rimostranze.

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Scomparse «le magnifiche sorti e progressive», resta la rabbia degli an-timoderni che vorrebbero far girare all'indietro la ruota della storia o quella dei postmoderni che si accontentano degli scenari dell'indiffe-renza. Ma siccome si tratta in entrambi i casi di reazioni a una illu-sione, anche antimodernismo e postmodernismo appaiono fatti di vento (e forse non ce nemmeno alcuna «ruota» che giri in un senso o nell'altro).

Latour sfida così, sul loro terreno, epistemologi, sociologi della scienza2 efibsofi tout court. Le prime due categorie sono vittime di un errore speculare: per gli uni conta il contenuto e per gli altri il conte-sto (di una teoria scientifica, di un resoconto osservativo, di una tecnica sperimentale ecc.), quando invece tale separazione è già un prodotto del processo di «depurazione». Latour potrebbe fare propria la battuta di Edmund Husserl su Galileo come qualcuno «che scopre e insieme oc-culta»: scelga il lettore se preferisce il riduzionismo naturalistico o quello sociologico. Quanto alla filosofia, essa ha celebrato con le sepa-razioni care a Immanuel Kant (analitica! dialettica, ragion pura/ra-gion pratica, ragione/sentimento ecc.) la piena «Costituzione del mo-derno» solo per ritrovarsi, poco più di un secolo dopo, con la «riduzione a cosa» esplorata da Heidegger, per non dire degli ultimi epigoni del-l'ermeneutica che «lasciano che il mondo delle cose vada lentamente alla deriva nel suo nulla».

Toccherà dunque ai filosofi rispondere alle provocazioni di Latour. In queste il libertario apprezzerà comunque l'esigenza di ritrovare sotto il paesaggio cristallizzato delle varie dicotomie una «rete di tra-duzioni» che garantisce la possibilità stessa del mutamento. Latour è ben consapevole che le modalità con cui la rete è stata occultata attra-verso i vari regimi di «depurazione» sono tipiche del nostro piccolo Occidente, ma tale consapevolezza, lungi dal sancire una predomi-nanza. della nostra particolare «forma di vita» sulle altre, nel bene o anche nel male, è ciò che accomuna la nostra alle altre culture, renden-dola cioè una tra le tante in cui si è realizzata l'avventura umana. Non è dunque casuale che i capitoli finali di questo volume riprendano la questione del relativismo culturale.

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Da uno degli autori novecenteschi che più a fondo si sono interro-gati sulla portata dell'impresa scienti fitti e sugli effetti di potere della conoscenza — Paul K. Feyerabend - t" stata posta con estremo coraggio intellettuale la questione della duplice natura di tale relativismo: a un tempo «oceano di alternative tra loro incommensurabili» ma anche rete di cosmologie, quadri concettuali. linguaggi ecc., tra cui sono pos-sibili «localmente» delle traduzioni, anche se pare difficile spiegare tutto questo globalmente con qualche teoria della razionalitàÈ stato proprio Feyerabend che ha ripensato il suo stesso relativismo in una magistrale pagina di Ammazzando il tempo (1994): «Ogni cultura è in potenza tutte le culture». È quella locuzione — «in potenza» — che fa tutta la differenza da qualsiasi imperialismo intellettuale. Sicché è per questa strada che abbiamo riscoperto la rilevanza del relativismo: non come punto di arrivo, ma piuttosto come punto dipartenza.

Note alla Prefazione

1. Sìa lecito il rimando, su questo argomento, a M. Spranzi, La sociologia e la reto-rica della scienza, in G. Giorello (a cura di), Introduzione alla Filosofia della scienza, Bompiani, Milano, 1994, e a D. Holdroyd, Storia della filosofia della scienza, Il Saggiatore, Milano, 1989, in particolare il cap. IX. 2. Valga per tutti il manifesto elei programma forte in sociologia della scienza esposto da D. Bloor nel suo La dimensione sociale della conoscenza, Cortina, Milano, 1994.

3• Il riferimento è in particolare al cap. x di Addio alla ragione, Armando, Roma, 1999. Il testo Ammazzando il tempo, citato poche righe più sotto, è stato pubblicato per la prima volta nella traduzione italiana di Laterza, Roma-Bari, 1994.

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CAPITOLO PRIMO

Crisi

La proliferazione degli ibridi

Leggo nella quarta pagina del mio quotidiano che le rilevazioni ef-fettuate quest'anno sull'Antartide non sono buone: il buco nello strato di ozono si sta ingrandendo pericolosamente su quel conti-nente. Proseguendo nella lettura, passo dai chimici dell'alta atmo-sfera agli amministratori delegati della Atochem e della Monsanto, che hanno modificato le proprie linee di produzione per sostituire gli innocenti clorofluorocarburi, accusati di lesa atmosfera. Pochi capoversi più sotto sono i capi di Stato delle grandi nazioni indu-strializzate che si occupano di chimica, di frigoriferi, di bombole spray e di gas inerti. Ma in fondo alla colonna eccoci ai meteorologi, che non sono più d'accordo con i chimici e parlano di fluttuazioni cicliche. Di colpo gli industriali non sanno più che cosa fare. Anche le teste coronate esitano. Bisogna aspettare? È già troppo tardi? Più in basso i paesi del terzo mondo e gli ecologisti aggiungono il pro-prio granello di sale e parlano di trattati internazionali, del diritto delle generazioni a venire, di quello allo sviluppo, di moratorie.

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Nello stesso articolo si mescolano le reazioni chimiche e quelle politiche. Un unico filo unisce la più esoterica delle scienze e la più bassa politica, il cielo più lontano e un certo stabilimento della pe-riferia di Lione, il pericolo più universale e le prossime elezioni o la prossima riunione del consiglio d'amministrazione. Le dimensioni, le poste in gioco, i tempi, i protagonisti non sono comparabili, ep-pure eccoli qui tutti coinvolti nella stessa vicenda.

A pagina sei dello stesso quotidiano vengo a sapere che il virus dell'AIDS di Parigi ha contaminato quello del laboratorio del profes-sor Gallo, che Chirac e Reagan hanno giurato solennemente di non rimettere in discussione la cronistoria di questa scoperta, che le industrie chimiche tardano a mettere in commercio i medici-nali reclamati a gran voce dai malati organizzati in associazioni mi-litanti, che l'epidemia dilaga nell'Africa nera. Nuovamente i po-tentati, i chimici, i biologi, i pazienti disperati, gli industriali si trovano impegnati in una stessa vicenda dagli incerti contorni.

A pagina otto il mio giornale parla di computer e di chip con-trollati dai giapponesi; a pagina nove di embrioni congelati; a pa-gina dieci di foreste in fiamme che nelle colonne di fumo trasci-nano anche alcune specie rare che certi naturalisti vorrebbero proteggere; a pagina undici di balene munite di collari collegati a radiotrasmittenti; nella stessa pagina si parla anche del terrapieno di una miniera, simbolo dello sfruttamento operaio, posto sotto tutela ambientale a causa della flora rara che vi è cresciuta. A pagina dodici il papa, i vescovi, la Roussel-Uclaf, le tube di Falloppio, i fondamentalisti del Texas fanno ressa intorno allo stesso contraccet-tivo, formando uno strano esercito. A pagina quattordici è il nu-mero di righe per la televisione ad alta definizione che mette in rapporto Delors, la Thomson, la Comunità europea, le commis-sioni per la standardizzazione, un'altra volta il Giappone e i produt-tori di telefilm. Scorrete di poche righe lo standard dello schermo ad alta definizione e inizia un turbinio di milioni di euro, di milioni di apparecchi televisivi, di migliaia di ore di telefilm, di centinaia di ingegneri e di decine di amministratori delegati.

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Per fortuna sul giornale ci sono pagine più riposanti, dove si parla di pura politica (una riunione del Partito radicale), o il sup-plemento letterario, nel quale i romanzi ci raccontano delle esal-tanti avventure dell'io profondo (ti amo, non ti amo più). Senza queste pagine levigate la testa ci girerebbe. Il fatto è che continuano a moltiplicarsi questi articoli ibridi che disegnano guazzabugli di scienza, politica, economia, diritto, religione, tecnologia e lettera-tura. Se la lettura del quotidiano, per l'uomo moderno, è come la preghiera, è un uomo ben strano quello che oggi prega leggendo di queste faccende confuse. Ogni giorno cultura e natura vengono ri-voltate da cima a fondo.

Eppure la cosa non sembra preoccupare nessuno. Le pagine di economia, politica, scienze, libri, cultura, religione e varie si scam-biano di posto sul menabò come se niente fosse. Il minuscolo virus dell'AIDS vi fa passare dal sesso all'inconscio, all'Africa, alle colture di cellule, al DNA, a San Francisco, ma gli analisti, i pensatori, i giornalisti e chi dovrebbe prendere le decisioni suddivideranno la rete sottile disegnata dal virus in tanti piccoli scomparti, in ognuno dei quali si troverà soltanto la scienza, l'economia, le rappresenta-zioni sociali, la cronaca, la pietà o il sesso. Premete la più inno-cente delle bombolette spray e sarete immediatamente spinti sul-l'Antartide e di li verso l'università della California a Irvine, verso le catene di montaggio a Lione, verso la chimica dei gas inerti e poi magari verso l'ONU, ma questo filo fragile che collega il tutto sarà spezzato in tanti segmenti quante sono le discipline pure. Guai a mischiare conoscenza, interesse, giustizia e potere. Guai a confon-dere il cielo con la terra, l'universale con il locale, l'umano con il nonumano. «Ma questi grovigli non formano la miscela» direte voi, «non costituiscono il tessuto del nostro mondo?». «Facciamo come se non esistessero» rispondono gli analisti, che hanno tran-ciato il nodo gordiano con una spada ben affilata. Il timone si è rotto: a sinistra la conoscenza delle cose, a destra l'interesse, il po-tere e la politica degli umani.

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Riannodando il nodo gordiano

Da una ventina di anni studiarti», i mici amici e io, queste situa-zioni strane che la cultura intellettuale nella quale siamo immersi non sa dove collocare. Ci diamo, in mancanza di meglio, il nome di sociologi, storici, economisti, politologi, filosofi, antropologi. Però, al nome di queste discipline rispettabili aggiungiamo in ogni caso un complemento di specificazione: delle scienze e delle tecni-che. Science studies è il termine inglese, oppure anche questo fin troppo serio: «Scienze, tecniche, società». Quale che sia l'etichetta, si tratta comunque di ricomporre il nodo gordiano attraversando tutte le volte che occorre la cesura che separa le conoscenze esatte e l'esercizio del potere, in altre parole la natura e la cultura. Ibridi noi stessi, posti a sghimbescio all'interno delle istituzioni scientifi-che, metà ingegneri e metà filosofi, tiers-instruits senza volerlo, ab-biamo fatto la scelta di descrivere questo intrico, dovunque questo lavoro ci porti. La nostra spola è il concetto di traduzione o di rete. Meno rigido del concetto di sistema, più storico di quello di strut-tura, più empirico di quello di complessità, il concetto di rete è il filo di Arianna di queste vicende confuse.

Tuttavia, questi lavori restano incomprensibili perché sono sud-divisi in tre secondo le solite categorie utilizzate dai critici: natura, politica o linguaggio.

Quando MacKenzie descrive la centrale inerziale dei missili in-tercontinentali [MacKenzie, 1990], quando Callon descrive gli elet-trodi delle pile a combustibile [Callon, 1989], quando Hughes de-scrive il filamento della lampada a incandescenza di Edison [Hughes, 1983a], quando io parlo del batterio dell'antrace com-battuto da Pasteur [Latour, 1984] o dei peptidi del cervello di Guil-lemin [Latour, 1988a], i critici credono che si stia parlando di scienza e di tecnica. Dato che queste ai loro occhi sono marginali o non manifestano nella migliore delle ipotesi che il puro pensiero strumentale e calcolante, chi si interessa di politica o delle anime può trascurarle. Invece queste ricerche non trattano della natura o

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della conoscenza, delle cose in sé, ma del loro inserimento nei no-stri collettivi e nei soggetti. Non parliamo di pensiero strumentale, ma della materia stessa delle nostre società. MacKenzie mette in campo tutta la US Navy e perfino i deputati per parlare della sua centrale a inerzia; Callon mobilita EDF e Renault, oltre ai pezzi grossi della politica energetica francese, per comprendere lo scam-bio di ioni in cima al suo elettrodo; intorno al filo incandescente della lampadina di Edison, Hughes ricostruisce tutta l'America; ed è l'intera società francese del XIX secolo che si presenta se si pren-dono i batteri di Pasteur, e allora diventa impossibile capire i pep-tidi del cervello senza collegarli a una comunità scientifica, a certi strumenti, a certe pratiche, tutta roba che poco assomiglia alla ma-teria grigia e al calcolo.

«Ma allora, che cos'è la politica? Voi riducete la verità scientifica ai puri interessi e l'efficacia tecnica alle manovre politiche?». Ecco il secondo equivoco. Se i fatti non occupano il posto insieme mar-ginale e sacro che la nostra adorazione loro riserva, eccoli ridotti là per là a pure contingenze locali, a meschini intrallazzi. Invece noi non parliamo del contesto sociale e degli interessi del potere, ma della loro implicazione nei collettivi e negli oggetti. L'organizza-zione della US Navy viene profondamente modificata dall'alleanza che si verifica tra i suoi uffici e le bombe; EDF e Renault diventano irriconoscibili a seconda che investano nella pila a combustibile o nel motore a scoppio; l'America non è più la stessa prima e dopo l'avvento dell'elettricità; il contesto sociale del XIX secolo non è più lo stesso quando è composto da povera gente o quando è fatto di poveri infettati da microbi; quanto al soggetto inconscio, steso sul divano dell'analista, quant'è diverso a seconda che il suo cervello scarichi neurotrasmettitori o che sia umido e produca secrezioni ormonali. Nessuno di questi studi può riutilizzare quello che i so-ciologi, gli psicologi o gli economisti ci dicono del contesto sociale o del soggetto per applicarlo alle cose esatte. In ogni situazione tanto il contesto quanto la persona umana si trovano ridefiniti. Come gli epistemologi non riconoscono più nelle cose collettiviz-

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zate che presentiamo loro le idee, i concetti, le teorie della loro in-fanzia, così le scienze umane non potrebbero riconoscere in questi collettivi, pieni di cose che mettiamo in mostra, i giochi di potere della loro adolescenza militante. A sinistra come a destra le reti sot-tili, tese dalla piccola mano di Arianna, rimangono più impalpabili di ragnatele.

«Ma voi non parlate né delle cose in sé né delle interrelazioni umane, parlate solo del discorso, della rappresentazione, del lin-guaggio, dei testi». Ecco il terzo equivoco. Chi mette tra parentesi il referente esterno (la natura delle cose) e il locutore (il contesto pragmatico o sociale) non può, in effetti, che parlare degli effetti di senso e dei giochi del linguaggio. Invece, quando MacKenzie scruta l'evoluzione della centrale a inerzia, parla di soluzioni strutturali che possono ucciderci tutti; quando Callon analizza passo a passo gli articoli scientifici, parla di strategia industriale e nello stesso tempo di retorica [Callon, Law et al., 1992]; quando Hughes esa-mina i quaderni di appunti di Edison, il mondo interiore di Menlo Park si trasforma ben presto nel mondo esteriore di tutta l'America; quando io descrivo la vittoria di Pasteur sui microbi, metto in campo la società del XIX secolo e non solo la semiotica dei testi di un grand'uomo; quando descrivo l'invenzione-scoperta dei pep-tidi del cervello, è proprio dei peptidi che parlo e non semplice-mente della loro rappresentazione in laboratorio realizzata dal pro-fessor Guillemin. Pure, si tratta sì di retorica, di strategia testuale, di scrittura, di messa in scena, di semiotica, ma in una forma nuova che si innesta nello stesso tempo sulla natura delle cose e sul con-testo sociale, senza per questo ridursi all'una o all'altro.

La nostra vita intellettuale è decisamente malfatta. L'epistemo-logia, le scienze sociali, le scienze del testo funzionano in modo impeccabile, ma solo a condizione di essere distinte. Se gli esseri che seguite le attraversano tutte e tre, non vi capiscono più. Quando offrite a queste discipline ufficiali qualche bella rete socio-tecnica, qualche bella traduzione: le prime estrarranno i concetti e ne strapperanno tutte le radici che potrebbero connetterle al so-

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ciale o alla retorica; le seconde asporteranno la dimensione sociale e politica e la depureranno da ogni oggetto; le terze, infine, conser-veranno il discorso ma spurgato da qualunque aderenza indebita alla realtà - horresco referens - e ai giochi di potere. Il buco nell'o-zono sulle nostre teste, la legge morale dentro di noi, il testo auto-nomo possono, separati, interessare i nostri critici. Ma che una spola sottile colleghi insieme il cielo, l'industria, i testi, le anime e la legge morale è qualcosa che resta ignoto, indebito, inaudito.

La crisi della critica

I critici hanno sviluppato tre repertori distinti per parlare del mondo: la naturalizzazione, la socializzazione e la decostruzione. Per dirla in modo sommario e con qualche ingiustizia: Changeux, Bourdieu, Derrida. Quando il primo parla di fatti naturalizzati, non esistono più né società, né soggetto, né forma del discorso. Quando il secondo parla di potere sociologizzato, non c'è più scienza, tecnica o contenuto. Quando il terzo parla di effetti di ve-rità, sarebbe una grossa ingenuità credere all'esistenza reale dei neu-roni cerebrali o dei giochi di potere. Ognuna di queste forme di cri-tica ha una sua forza, ma non è possibile combinarla alle altre. Riuscite a immaginare uno studio che faccia del buco nell'ozono qualcosa di naturalizzato, sociologizzato e decostruito? La natura dei fatti sarebbe cosi stabilita in modo assoluto, le strategie del po-tere sarebbero dunque prevedibili, pur non trattandosi che di effetti di senso che proiettano la misera illusione di una natura e di un lo-cutore? Si tratterebbe di un patchwork grottesco. La nostra vita in-tellettuale rimane riconoscibile fino a quando epistemologi, socio-logi e decostruttori si tengono a debita distanza e alimentano le proprie critiche sulle debolezze degli altri due approcci. Fate grandi le scienze, svelate i giochi di potere, ridicolizzate la credenza in una realtà, ma non mescolate mai i tre acidi caustici.

Ora, delle due l'una: o le reti che abbiamo gettato non esistono

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in realtà e i critici hanno tutte le ragioni di emarginare gli studi sulle scienze o di separarli in tre tronconi distinti (fatti, potere, di-scorso), oppure le reti sono proprio come le abbiamo descritte e at-traversano le frontiere dei grandi feudi della critica: non sono og-gettive, non sono sociali, non sono effetti del discorso, pur essendo reali, collettive e discorsive. O dobbiamo andare a nasconderci, noi, gli annunciatori della cattiva novella, o è la critica stessa che deve entrare in crisi a causa di queste reti che le rompono i denti. I fatti scientifici sono costruiti, ma non si possono ridurre al sociale, perché esso si popola di oggetti mobilitati per costruirlo. L'agente di questa doppia costruzione viene da un insieme di pratiche che il concetto di decostruzione coglie nel modo peggiore possibile. Il buco nell'ozono è troppo sociale e troppo raccontato per essere un fatto davvero naturale; la strategia delle imprese e dei capi di Stato è troppo piena di reazioni chimiche per essere ridotta al potere e al-l'interesse; il discorso dell'ecosfera è troppo reale e troppo sociale per ricondursi a un effetto dei sensi. È forse colpa nostra se le reti sono nel contempo reali come la natura, raccontate come il discorso, collettive come la società? Dobbiamo seguirle, abbandonando le ri-sorse della critica, o lasciarle perdere, adeguandoci al senso comune della tripartizione critica? Le nostre povere reti sono come i curdi sotto il dominio degli iraniani, degli iracheni e dei turchi: i curdi che a notte fatta varcano le frontiere, si sposano tra loro e sognano una patria comune da formare dai tre paesi che li smembrano.

Questo dilemma non avrebbe soluzione se l'antropologia non ci avesse abituati da tempo a trattare senza crisi né critica il conte-sto scucito delle nature-culture. Perfino il più razionalista degli et-nografi, una volta che si trovi lontano da casa, è del tutto incapace di legare in un'unica monografia i miti, le etnoscienze, le genealo-gie, le forme politiche, le tecniche, le religioni, le epopee e i riti dei popoli che studia. Mandatelo tra gli Arapesh o gli Achuar, tra i co-reani o i cinesi, e ne otterrete un identico racconto che lega il cielo, gli antenati, le forme delle abitazioni, le colture di ignami, di ma-nioca o di riso, i riti di iniziazione, le forme di governo e le cosmo-

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logie. Nessun elemento che non sia insieme reale, sociale e narrato. Se l'analista ha acume, vi traccerà reti che somiglieranno come

gocce d'acqua a quei guazzabugli socio-tecnologici che tracciamo noi, rincorrendo i microbi, i missili o le pile a combustibile nelle nostre società. Anche noi abbiamo paura che il cielo ci cada sulla testa. Anche noi colleghiamo il gesto insignificante di premere il pulsante di uno spray a un interdetto che riguarda il cielo. Noi pure dobbiamo tener conto delle leggi, del potere e della morale per capire quello che ci dicono le nostre scienze riguardo alla chi-mica dell'alta atmosfera.

Sì, ma noi non siamo selvaggi e nessun antropologo ci studia in questo modo: è davvero impossibile agire sulle nostre nature-cul-ture come si fa altrove, presso gli altri. Come mai? Perché siamo moderni. Il nostro tessuto non è più scucito. Ne risulta possibile la continuità di analisi. Per gli antropologi tradizionali non c'è, non può esserci, non deve esserci un'antropologia del mondo moderno [Latour, 1988b]. Le etnoscienze possono collegarsi da un lato alla società e al discorso, la scienza non può. Questo anche perché re-stiamo incapaci di studiarci, mentre siamo tanto acuti e tanto di-staccati quando ce ne andiamo ai Tropici a studiare gli altri. La tri-partizione critica ci protegge e ci autorizza a ristabilire la continuità tra tutti i premoderni: appoggiandoci solidamente a questa siamo diventati capaci di fare etnologia. Da essa abbiamo attinto il nostro coraggio.

Adesso la formulazione del dilemma è cambiata: o è impossi-bile fare l'antropologia del mondo moderno (e si ha ragione a igno-rare chi pretende di offrire una patria alle reti socio-tecniche) op-pure è possibile, ma in questo caso si dovrebbe modificare la definizione stessa di mondo moderno. Passiamo da un problema li-mitato - come mai le reti restano inafferrabili? - a uno più ampio e più classico: che cos'è un moderno? Andando a fondo nell'in-comprensione dei nostri avi rispetto a queste reti che secondo noi formano la trama del mondo, possiamo scorgerne le radici antro-pologiche. Nel fare questo ci vengono per fortuna in soccorso al-

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cuni importanti avvenimenti, the sotterrano la vecchia talpa critica nelle sue stesse gallerie. Se è possibile antropologizzare il mondo moderno, lo è perché gli è capitato qualcosa. Dopo il salotto di madame de Guermantes, sappiamo che ci vuole un cataclisma come quello della Grande Guerra perché la cultura intellettuale modifichi leggermente le sue abitudini e si degni finalmente di ri-cevere queiparvenus con i quali prima non si avevano rapporti.

Il miracoloso 1989

Tutte le date non sono che convenzioni, ma quella del 1989 lo è un po' meno di altre. La caduta del Muro di Berlino simbolizza per tutti i contemporanei quella del socialismo. «Trionfo del liberali-smo, del capitalismo, delle democrazie occidentali sulle vane spe-ranze del marxismo»: è questo il bollettino di vittoria di coloro che sono scampati per un pelo al leninismo. Mentre voleva abolire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, il socialismo lo aveva moltipli-cato all'infinito. Curiosa dialettica, che risuscita lo sfruttatore e sot-terra l'affossatore dopo aver insegnato al mondo la guerra civile su vasta scala. Il rimosso ritorna, e ritorna due volte: il popolo sfrut-tato, nel nome del quale regnava l'avanguardia del proletariato, ri-diventa popolo; le élite dai denti aguzzi, delle quali si credeva di poter fare a meno, ricompaiono in forza a riprendersi le banche, le attività commerciali e le fabbriche, il loro antico lavoro di sfrutta-mento. L'Occidente liberale non sa più trattenere la sua gioia: ha vinto la Guerra Fredda.

Questo trionfo, però, è di breve durata. Le prime conferenze sullo stato globale del pianeta, che si tengono, in quello stesso glo-rioso 1989, a Parigi, Londra e Amsterdam, simbolizzano, secondo alcuni osservatori, la fine del capitalismo e di queste vane speranze di conquista illimitata e di dominio totale sulla natura. Mentre vo-leva deviare lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo verso quello del-l'uomo sulla natura, il capitalismo ha moltiplicato all'infinito en-

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trambi. Il rimosso ritorna e ritorna due volte: le moltitudini che si volevano salvare dalla morte ripiombano a centinaia di milioni nella miseria; la natura che si voleva dominare in modo assoluto ci domina in modo altrettanto globale: ci minaccia tutti. Curiosa dia-lettica, che fa dello schiavo dominato il padrone e il possessore del-l'uomo e che a un tratto ci insegna che abbiamo inventato gli eco-cidi e nello stesso tempo le carestie su vasta scala.

Solo le ricche democrazie occidentali non riescono a vedere la perfetta simmetria che c'è tra l'abbattimento del muro della vergo-gna e la scomparsa della natura illimitata. In effetti i socialismi hanno distrutto i propri popoli e i propri ecosistemi, mentre il Nord e l'Ovest sono riusciti a salvare i propri popoli e in qualche caso i propri paesaggi, distruggendo il resto del mondo e facendo piombare nella miseria le altre popolazioni. Tragedia duplice: gli ex-socialismi credono di poter eliminare le loro due sventure imi-tando l'Occidente; quest'ultimo crede di essere sfuggito a entrambe e di poter impartire lezioni, e intanto lascia morire la terra e gli umani. Crede di essere l'unico a possedere il sistema che permette di vincere indefinitamente, proprio quando ha forse perso tutto.

Dopo questa duplice deriva delle migliori intenzioni, parrebbe che noi, i moderni, abbiamo perduto un po' della nostra sicurezza. Non si dovrebbe tentare di mettere fine allo sfruttamento del-l'uomo sull'uomo? Non si dovrebbe cercare di diventare signori e padroni della natura? Le nostre virtù più elevate erano state messe al servizio di questo duplice compito, sul versante della politica come su quello delle scienze e delle tecniche. Eppure, oggi interro-gheremmo volentieri la nostra giovinezza entusiasta e dai buoni sentimenti, chiedendole, come i giovani tedeschi ai loro genitori canuti: «A quali ordini criminali abbiamo obbedito?», «Possiamo dire che non lo sapevamo?».

Questi dubbi sui fondamenti delle buone intenzioni spingono qualcuno di noi a trasformarsi in reazionario in due modi diversi: c'è chi sostiene che non si deve più voler mettere fine al dominio dell'uomo sull'uomo; qualcun altro afferma che non si deve più

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cercare di dominare la natura. I )obbiamo essere decisamente anti-moderni, dicono tutti.

D'altro canto, la vaga espressione del postmoderno sintetizza bene lo scetticismo incompiuto di chi rifiuta entrambe queste rea-zioni. I postmoderni, incapaci di credere alle duplici promesse del socialismo e del «naturalismo», si guardano bene dal metterle del tutto in dubbio. Restano sospesi tra fede e dubbio, aspettando il nuovo millennio. Infine, chi respinge l'oscurantismo ecologico come quello antisocialista e non può accontentarsi dello scettici-smo dei postmoderni, decide di andare avanti come se niente fosse e rimane impavidamente moderno. Conserva sempre la fede nelle promesse delle scienze, o in quelle dell'emancipazione, o in en-trambe. Però la sua fiducia nella modernizzazione non suona più tanto giusta, né in arte, né in economia, né in politica, né in scienza o in tecnica. Tra i dipinti di una galleria come in una sala da con-certo, lungo le facciate di edifici come negli enti di sviluppo, si sente che il cuore non pulsa più come prima. La volontà di essere moderno appare esitante, certe volte perfino fuori moda.

Che noi si sia antimoderni, moderni o postmoderni, siamo tutti comunque rimessi in discussione dalla duplice disfatta del miraco-loso 1989. Possiamo però riprendere il filo del pensiero, se la con-sideriamo proprio come una duplice disfatta: una lezione doppia, la cui ammirabile simmetria non ci permette di ricollegarci in altro modo al nostro intero passato.

E se non fossimo mai stati moderni? Sarebbe allora possibile l'antropologia comparata. Le reti avrebbero un posto dove stare.

Che cos'è un moderno

La modernità ha tanti significati quanti sono i pensatori e i gior-nalisti. Eppure tutte le definizioni indicano in un modo o nell'al-tro il passaggio del tempo. Con l'aggettivo moderno si designa un nuovo regime, un'accelerazione, una rottura, una rivoluzione del

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tempo. Quando compaiono parole come «moderno», «moderniz-zazione», «modernità», per contrasto definiamo un passato arcaico e stabile. Inoltre, la parola si trova sempre buttata in mezzo a una polemica, in una querelle che contrappone sempre vinti e vincitori, da una parte gli Antichi e dall'altra i Moderni. «Moderno» pre-senta quindi una duplice asimmetria: indica una frattura nel tra-scorrere regolare del tempo; indica una lotta che ha vincitori e vinti. Se tanti contemporanei esitano oggi a usare questo aggettivo, se esso viene ulteriormente qualificato con prefissi, questo avviene perché ci sentiamo meno sicuri nel mantenere questa doppia asim-metria: non sappiamo più ritrovare la crepa irreversibile del tempo né assegnare un premio ai vincitori. Nelle innumerevoli dispute degli Antichi e dei Moderni, ormai i primi vincono tanto spesso quanto i secondi e non c'è più niente che ci permetta di dire se le rivoluzioni pongono fine ai vecchi regimi o non ne sono che il completamento. Di qui lo scetticismo curiosamente chiamato «post» moderno, anche se non sa se è capace di succedere una volta per tutte ai moderni.

L'ipotesi di questo saggio - perché si tratta di una ipotesi e si tratta proprio di un saggio - è che la parola «moderno» definisce due gruppi di pratiche completamente diverse che, per conservare efficacia, devono restare distinte, mentre da qualche tempo non sono più tali. Il primo insieme crea, per «traduzione», un miscuglio tra tipi di esseri afìfatto nuovi, ibridi di natura e di cultura. Il se-condo, per «depurazione», produce due aree ontologiche comple-tamente distinte: quella degli umani da un lato e quella dei nonu-mani dall'altro. Senza il primo insieme le pratiche di depurazione sarebbero vuote e oziose. Senza il secondo il lavoro di traduzione ri-sulterebbe rallentato, limitato o addirittura bloccato. Il primo in-sieme corrisponde a quelle che io ho chiamato reti, il secondo a quella che ho definito critica. Il primo, per esempio, legherebbe in una catena ininterrotta la chimica dell'alta atmosfera, le strategie della scienza e dell'industria, le preoccupazioni dei capi di Stato, le ansie degli ecologisti; il secondo fisserebbe una separazione tra il

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mondo naturale che è sempre esistito, una società con interessi e fi-nalità prevedibili e stabili e un discorso indipendente tanto dal ri-ferimento quanto dalla società.

Finché consideriamo queste pratiche in modo separato, siamo davvero moderni, ovvero aderiamo volentieri al progetto di depura-zione critica, anche se esso si sviluppa soltanto con la proliferazione degli ibridi. Non appena spostiamo la nostra attenzione contempo-raneamente sul lavoro di depurazione e su quello di ibridazione, ecco che non siamo più moderni, e il nostro avvenire comincia a trasformarsi. Smettiamo nello stesso istante di essere stati moderni, perché prendiamo retrospettivamente coscienza del fatto che i due insiemi di pratiche sono già stati operanti nel periodo storico che si conclude. Anche il nostro passato comincia a cambiare. In fin dei conti, se non fossimo mai stati moderni, quanto meno nel modo in cui ce lo racconta la critica, le relazioni tormentate che abbiamo in-trattenuto con le altre nature-culture ne uscirebbero trasformate. Il relativismo, il dominio, l'imperialismo, la cattiva coscienza, il sincre-tismo troverebbero altre spiegazioni, modificando così l'antropolo-gia comparata.

Quale legame esiste tra il lavoro di traduzione o di mediazione e quello di depurazione? Ecco la questione che vorrei chiarire. L'ipo-tesi, ancora troppo grossolana, è che il secondo consente il primo: più ci si vieta di pensare gli ibridi, più l'incrocio diventa possibile; tale è il paradosso dei moderni, che la situazione eccezionale nella quale ci troviamo ci permette finalmente di cogliere. La seconda questione si basa sui premoderni, sulle altre nature-culture. L'ipo-tesi, anch'essa troppo approssimativa, è che, restando fermi a pen-sare gli ibridi, ne hanno impedito la proliferazione. E questo slitta-mento che spiegherebbe la Grande Divisione tra Loro e Noi e che consentirebbe finalmente di risolvere l'irrisolta questione del relati-vismo. La terza questione attiene alla crisi attuale: se la modernità è stata tanto efficiente nel suo duplice lavoro di separazione e di proliferazione, perché oggi si indebolisce al punto da impedirci di essere veramente moderni? Di qui sorge l'ultima domanda, che è

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anche la più difficile: se abbiamo smesso di essere moderni, se non possiamo più separare il lavoro di proliferazione da quello di depu-razione, che cosa stiamo diventando? Come si può volere l'Illumi-nismo senza la modernità? L'ipotesi, anche questa appena sbozzata, è che bisognerà rallentare, orientare e regolare la proliferazione dei mostri, rappresentandone ufficialmente l'esistenza. Diventerà ne-cessaria un'altra democrazia? Una democrazia allargata alle cose? Per rispondere a queste domande dovrò lavorare di vaglio tra i pre-moderni, i moderni e anche i postmoderni, per vedere quello che hanno di duraturo o di caduco. Troppe domande, lo so bene, per un saggio che non ha altre scusanti al di fuori della brevità. Nietz-sche diceva che i grandi problemi sono come i bagni freddi: biso-gna entrarci e uscirci in fretta.

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CAPITOLO SECONDO

Costituzione

La costituzione moderna

Si definisce spesso la modernità mediante l'umanesimo, sia per sa-lutare la nascita dell'uomo, sia per annunciarne la morte. Ma per-fino questo atteggiamento è moderno, in quanto permane asimme-trico, trascurando la nascita congiunta della «nonumanità», quella delle cose, degli oggetti o degli animali, e quella non meno strana di un Dio barrato, cancellato, fuori gioco. La modernità sorge dalla creazione congiunta di questi tre elementi, quindi dall'occulta-mento di questa triplice nascita e dal trattamento separato delle tre comunità, mentre, al di sopra, continuano a moltiplicarsi gli ibridi, proprio a causa di questo trattamento separato. E questa duplice separazione che dobbiamo ricostruire, da un lato tra l'alto e il basso, dall'altro tra gli umani e i nonumani.

Fra queste due separazioni c'è più o meno la stessa distinzione che esiste tra potere giudiziario e potere esecutivo: una distinzione che non riesce a descrivere i molteplici legami, le influenze incro-ciate, le continue negoziazioni che avvengono tra giudici e poli-

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tici. Eppure sbaglierebbe chi volesse negarne la validità. La separa-zione moderna tra il mondo naturale e quello sociale ha lo stesso carattere costituzionale, al punto che quasi nessuno finora si è messo nella situazione di studiare in modo simmetrico politica e scienza, perché non sembrerebbe esistere un luogo centrale. In un certo senso gli articoli della legge fondamentale sulla duplice sepa-razione sono stati redatti talmente bene da essere presi per una du-plice distinzione ontologica. Quando si traccia questo spazio sim-metrico e si ristabilisce l'intesa comune che organizza la separazione dei poteri naturali e politici, si smette di essere moderni.

Si chiama costituzione il testo comune che definisce questa in-tesa e questa separazione. Chi deve scriverlo? Per le costituzioni politiche il compito spetta ai giuristi, ma essi non hanno fatto fi-nora che un quarto del lavoro, perché hanno dimenticato il potere scientifico come il lavoro degli ibridi. Per la natura delle cose spetta agli scienziati, ma anch'essi non hanno eseguito che un quarto del lavoro, perché hanno fatto finta di dimenticarsi del potere politico e negano qualunque validità agli ibridi, provocandone così la mol-tiplicazione. Per il lavoro di traduzione, il compito tocca a quelli che studiano le reti, ma essi non hanno redatto che la metà del proprio contratto, perché non spiegano il lavoro di depurazione che avviene sopra di loro, spiegando questa proliferazione.

Per i collettivi stranieri, è compito dell'antropologia parlare in una sola volta di tutti i quadranti. In effetti, come ho detto, qua-lunque etnologo è capace di indicare nella stessa monografia la de-finizione delle forze presenti, la ripartizione dei poteri tra gli umani, gli dèi e i nonumani, le procedure d'accordo, i legami tra la reli-gione e i poteri, gli antenati, la cosmologia, il diritto di proprietà e le tassonomie delle piante e degli animali. Si guarderà bene dal fare tre libri, uno per le conoscenze, uno per i poteri e un terzo per le pratiche. Ne scriverà uno solo, come quello stupendo in cui De-scola tenta di riassumere la costituzione degli Achuar dell'Amazzo-nia [Descola, 1986]:

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Gli Achuar non hanno completamente civilizzato la natura entro le reti simboliche della domesticità. E vero che il campo culturale ha qui una singolare capacità di inglobamento, perché vi si trovano riordinati animali, piante e spiriti che in altre società amerinde sono riferiti al regno della natura. Perciò fra gli Achuar non si trova questa antinomia tra due mondi chiusi e irriducibilmente opposti: il mondo culturale della società umana e quello naturale della società animale. Vi è però un momento in cui il continuum della socialità si interrompe per lasciare posto a un uni-verso selvaggio irriducibilmente estraneo all'uomo. Incomparabilmente più ridotto del regno della cultura, questo piccolo segmento di natura comprende l'insieme delle cose con le quali è impossibile stabilire qualun-que tipo di comunicazione. Agli esseri di lingua (aents), la cui più com-pleta incarnazione è rappresentata dagli umani, si oppongono le cose mute che popolano universi paralleli e inaccessibili. L'incomunicabilità è spesso attribuita a una mancanza di anima (wakan) che tocca alcune spe-cie viventi: la maggior parte degli insetti e dei pesci, gli animali da cortile e numerose piante sono cosi dotati di una esistenza meccanica e non con-seguente. M a la mancanza di comunicazione è talora una funzione della distanza: infinitamente distante e prodigiosamente mobile, l'anima degli astri e delle meteore rimane sorda ai discorsi degli uomini [p. 399].

Il compito dell'antropologia del mondo moderno consiste nel descrivere nello stesso modo l'organizzazione di tutti i rami del no-stro governo, compresi quelli della natura e delle scienze esatte, e di spiegare come e perché questi rami si suddividano, oltre alle mol-teplici disposizioni che li riuniscono. L'etnologo del nostro mondo deve collocarsi nel punto in cui vengono ripartiti i ruoli, le azioni, le competenze che permetteranno di definire una data entità come animale o materiale, un'altra come soggetto del diritto, questa come dotata di coscienza, quella come meccanica e quell'altra an-cora come incosciente o priva di capacità. Deve inoltre confrontare i modi sempre diversi per definire o meno la materia, il diritto, la coscienza e l'anima degli animali senza staccarsi dalla metafisica moderna. Come la costituzione dei giuristi definisce i diritti e i do-

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veri dei cittadini e dello Stato, il funzionamento della giustizia e il passaggio dei poteri, così questa Costituzione, che scrivo con la maiuscola per distinguerla dall'altra, definisce gli umani e i nonu-mani, le loro proprietà e relazioni, le competenze e le divisioni in gruppi.

Come possiamo descrivere questa Costituzione? Ho scelto di mettere a fuoco una situazione esemplare, agli inizi della sua reda-zione, quando lo scienziato Boyle e il politologo Hobbes discutono riguardo alla ripartizione dei poteri scientifici e politici. Una scelta di questo tipo potrebbe sembrare arbitraria, se non ci fosse un libro notevole che affronta questa duplice creazione di un contesto sociale e di una natura che vi si sottrae. Boyle e i suoi discepoli, Hobbes e i suoi emuli mi serviranno come simboli di una storia molto più lunga, che qui non posso ripercorrere completamente ma che altri, più bravi di me, sapranno senz'altro sviluppare.

Boyle e i suoi oggetti

Non concepiamo la politica come qualcosa di esterno alla sfera scien-tifica, che potrebbe in qualche modo imprimersi su di essa. La comunità sperimentale [creata da Boyle] si è giustamente battuta per imporre un tale lessico della demarcazione, e noi abbiamo tentato di trovare una col-locazione storica di questo linguaggio e di spiegare lo sviluppo di queste nuove convenzioni del discorso. Se vogliamo che la nostra indagine sia conseguente dal punto di vista storico, dovremo evitare di utilizzare in modo superficiale la lingua di questi attori nelle nostre spiegazioni. Quello che cerchiamo di capire e di spiegare è appunto il linguaggio che per-mette di concepire la politica come esterna alla scienza. Arriviamo qui a urtare il sentimento generale degli storici della scienza, che sostengono di aver superato da lunga pezza i concetti di «interno» e di «esterno» alla scienza. Che errore! Cominciamo appena a intravedere i problemi posti dalla convenzione di queste delimitazioni. Come facevano gli attori scien-tifici a distribuire, da un punto di vista storico, gli elementi secondo il

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proprio sistema di delimitazione (e non secondo il nostro), e come pos-siamo studiare empiricamente il modo in cui vi si attenevano? Questa cosa che chiamiamo «scienza» non ha demarcazioni che si possano consi-derare come un confine naturale [p. 132].

Questa lunga citazione tratta dalle ultime pagine di un libro di Steven Shapin e Simon Schaffer [Shapin e Schaffer, 1985] segna l'autentico inizio di un'antropologia che prenda sul serio la scienza [Latour, 1990c]. Gli autori non mostrano come il contesto sociale inglese potesse giustificare lo sviluppo della fisica di Boyle e il fal-limento delle teorie matematiche di Hobbes: si collegano ai fonda-menti stessi della filosofia politica. Lungi dal «collocare le opere scientifiche di Boyle nel loro contesto sociale» o dal far vedere come la politica «lasci il suo segno» sui contenuti scientifici, essi esami-nano come Boyle e Hobbes si sono battuti per inventare una scienza, un contesto e una demarcazione tra i due. Non riescono a spiegare il contenuto con il contesto, perché né l'uno né l'altro esi-stevano in questo modo nuovo prima che Boyle e Hobbes raggiun-gessero i relativi obiettivi e risolvessero le proprie divergenze.

La bellezza del loro libro deriva dal fatto che essi hanno dissot-terrato le opere scientifiche di Hobbes (che i politologi hanno igno-rato vergognandosi delle elucubrazioni matematiche del loro eroe) e hanno fatto uscire dall'oblio le teorie politiche di Boyle (igno-rate dagli storici della scienza, che hanno cercato di tenere nascosto il lavoro di organizzazione del loro eroe). Invece di una simmetria e di una divisione (a Boyle la scienza e a Hobbes la teoria politica), Shapin e Schaffer tracciano un diagramma molto grazioso: Boyle possiede una scienza e una teoria politica; Hobbes una teoria poli-tica e una scienza. Il diagramma non sarebbe tanto interessante se queste due storie avessero un pensiero troppo distante, se per esem-pio uno fosse un filosofo alla Paracelso e l'altro un giurista alla Bodin. Ma per fortuna i due sono d'accordo quasi su tutto. Vo-gliono un re, un parlamento, una Chiesa docile e unificata, e sono ferventi adepti della filosofia meccanicista. Ma, pur essendo en-

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trambi profondamente razionalisti, hanno opinioni divergenti per quanto attiene alla sperimentazione, al ragionamento scientifico, alle forme di argomentazione politica e, soprattutto, riguardo alla pompa pneumatica, l'autentica protagonista di questa vicenda. I dissidi tra i due uomini, che si estendono su tutto il resto, fanno di loro le «drosofile» della nuova antropologia.

Boyle evita con cura di parlare della pompa a vuoto. Per fare or-dine nelle discussioni che seguono la scoperta di Torricelli dello spazio che esiste in cima a un tubo pieno di mercurio rovesciato in una vaschetta dello stesso metallo, egli vuole solo ricercare il peso e la spinta dell'aria, senza prendere posizione nel dibattito tra «vuo-tisti» e «pienisti». L'apparecchio che realizza, basandosi su quello di Otto von Guericke, per eliminare stabilmente l'aria da un reci-piente di vetro trasparente è l'equivalente dell'epoca, per costo, complessità e innovazione, di uno dei grandi apparecchi della fisica contemporanea. Si tratta già di Big Science. Il grosso vantaggio delle apparecchiature di Boyle è quello di permettere di vedere attraverso le pareti di vetro e di potervi introdurre e perfino manipolare alcuni campioni, grazie a una serie di meccanismi ingegnosi composti di camere di compensazione e di coperchi. La qualità dei pistoni della pompa non è buona, come non lo è quella dei vetri ad alto spessore e quella dei raccordi. Boyle deve quindi spingere la ricerca tecnolo-gica molto avanti per realizzare l'esperienza che gli sta tanto a cuore: quella del vuoto nel vuoto. Racchiude un tubo di Torricelli nell'in-volucro di vetro della pompa e ottiene così un primo spazio in cima al tubo rovesciato. Poi, facendo azionare la pompa da uno dei suoi tecnici, comunque invisibili [Shapin, 1991b], elimina il peso dell'a-ria quanto basta per far scendere il livello della colonna fino quasi all'altezza del mercurio nella vaschetta. Boyle saprà realizzare de-cine di esperimenti all'interno dell'involucro chiuso della sua pompa ad aria, come quelli destinati a individuare il vento d'etere postulato dai suoi avversari, a spiegare la coesione dei cilindri di marmo, a far soffocare piccoli animali e a spegnere le candele, più tardi rese popolari dalla fisica da salotto del XVIII secolo.

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Mentre intorno infuriano numerose guerre civili, Boyle opta per un metodo di argomentazione, quello dell'opinione, collegato alla più vetusta tradizione scolastica. Egli e i suoi amici abbandonano la certezza del ragionamento apodittico per la 6o§a. Questa òo§a non è l'immaginazione divagante delle masse credule, ma un dispo-sitivo per conquistare l'adesione dei propri pari. Boyle non si basa tanto sulla logica, sulle matematiche o sulla retorica, ma su una metafora paragiuridica: alcuni testimoni credibili, benestanti e in buona fede, riuniti intorno alla scena dell'azione, possono attestare l'esistenza di un fatto, the matter offact, pur se ne ignorano la vera natura. Boyle inventa così lo stile empirico, di cui ci serviamo an-cora oggi [Shapin, 199 la].

Non ricerca l'opinione dei gentiluomini, ma l'osservazione di un fenomeno prodotto artificialmente nell'ambito chiuso e ripa-rato del laboratorio. È curioso notare come la questione chiave posta dai costruttivisti (i fatti sono costituiti da ogni pezzo del labo-ratorio?) sia proprio quella che Boyle solleva e risolve. Sì, i fatti sono bell'e costruiti nella nuova struttura del laboratorio e grazie al mezzo artificiale della pompa ad aria. Il livello del mercurio scende nel tubo di Torricelli inserito nell'involucro trasparente della pompa azionata da tecnici ansimanti. «I fatti sono fatti» direbbe Bache-lard. Ma, costruiti per l'uomo, sono per questo falsi? No, perché Boyle, proprio come Hobbes, estende all'uomo il «costruttivismo» divino: Dio conosce le cose perché le crea [Funkenstein, 1986]. Conosciamo la natura dei fatti perché li abbiamo elaborati in circo-stanze che controlliamo perfettamente. La debolezza diventa una forza, purché si limiti la conoscenza alla natura dei fatti strumenta-lizzati e che si lasci da parte l'interpretazione delle cause. Ancora una volta Boyle trasforma un limite (produciamo solo matters of fact creati in laboratorio e quindi con un valore spazialmente limi-tato) in un vantaggio decisivo: questi fatti non saranno mai modi-ficabili, qualunque elemento subentri in campo teorico, metafisico, religioso, politico o logico.

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Hobbes e i suoi soggetti

Hobbes respinge tutto il meccanismo di Boyle. Anche lui vuol mettere fine alla guerra civile; anche lui desidera abbandonare la li-bera interpretazione della Bibbia da parte dei chierici come del po-polo. Ma vuole raggiungere questo obiettivo con un'unificazione del corpo politico. Il sovrano creato con il contratto, «questo Iddio mortale cui noi dobbiamo, sotto l'Iddio immortale, la nostra pace e la nostra protezione», non è che il rappresentante della moltitu-dine. «E l'unità di colui che rappresenta e non del rappresentato che rende una la persona». Hobbes è ossessionato da questa unità della Persona che è, per utilizzare i suoi termini, l'Attore i cui Au-tori siamo noi cittadini [Hobbes, 1971]. Per questo non ci può es-sere trascendenza. Le guerre civili continueranno a infuriare fin-ché esisteranno entità sovrannaturali, che i cittadini si sentiranno in diritto di implorare quando le autorità di questo basso mondo li perseguitano. La lealtà della vecchia società medievale - Dio e il re - non è più possibile se chiunque può rivolgersi direttamente a Dio o designare il suo re. Hobbes vuol fare tabula rasa di qualun-que appello a entità superiori a quella civile, vuol ricomporre l'u-nità cattolica, ma chiudendo ogni accesso alla trascendenza divina.

Per Hobbes il potere è conoscenza, il che significa che non può esistere che un'unica conoscenza e un unico potere se si vuol met-tere termine alle guerre civili. Ecco perché la parte più rilevante del Leviathan è una esegesi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Uno dei maggiori pericoli per la pace civile deriva dal credere nel-l'esistenza di corpi immateriali, come gli spiriti, i fantasmi o le anime, cui la gente si rivolge contro il giudizio del potere civile. Sarebbe pericolosa Antigone, che proclama il primato della pietà sulla «ragione di Stato» di Creonte; gli egualitari, i Levellers e i Dig-gers, lo sono ancora di più quando invocano i poteri attivi della materia e l'interpretazione libera della Bibbia per disobbedire ai loro legittimi principi. Una materia inerte e meccanica è tanto ne-cessaria alla pace civile quanto una interpretazione puramente sim-

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bolica della Bibbia. In entrambi i casi conviene evitare a qualsiasi costo che alcune fazioni possano invocare una entità superiore, la Natura o Dio, non controllata del tutto dal sovrano.

Questo riduzionismo non porta a uno Stato totalitario, perché Hobbes lo applica anche alla Repubblica: il sovrano non è mai altro che un attore designato dal contratto sociale. Non esiste un diritto divino, una istanza superiore, che il sovrano possa invocare per poter agire come vuole e smantellare il Leviatano. In questo regime nuovo, nel quale conoscenza e potere si identificano, tutto è ri-dotto: il sovrano, Dio, la materia e la moltitudine. Hobbes si vieta perfino di trasformare la sua stessa scienza dello Stato in una evo-cazione di una trascendenza qualsiasi. A tutte le sue conclusioni scientifiche non arriva con l'opinione, l'osservazione o la rivela-zione, ma con una dimostrazione matematica, l'unico metodo di argomentazione capace di costringere chiunque a dare il suo as-senso; e a questa dimostrazione non arriva con calcoli trascenden-tali, come il re di Platone, ma con uno strumento di calcolo puro, il cervello meccanico, un computer ante litteram. Perfino il famoso contratto sociale non è che il risultato di un calcolo cui arrivano tutti insieme i cittadini terrorizzati che cercano di affrancarsi dallo stato di natura. Tale è il costruttivismo generalizzato di Hobbes, teso a pacificare i conflitti civili: nessuna trascendenza di qualsivo-glia genere, nessun ricorso a Dio, a una materia attiva, a un potere di diritto divino, e nemmeno alle idee matematiche.

Ora tutto è pronto per il confronto tra Hobbes e Boyle. Dopo che Hobbes ha fatto questa riduzione e riunificazione, ecco che ar-riva la Royal Society a ridividere tutto: alcuni gentiluomini pro-clamano il diritto di possedere una opinione indipendente, in uno spazio chiuso, il laboratorio, sul quale lo Stato non esercita alcun controllo. E quando questi facinorosi si trovano d'accordo tra loro, questo non è il risultato di una dimostrazione matematica che chiunque sarebbe costretto ad accettare, ma il frutto delle espe-rienze osservate da sensi ingannevoli, esperienze che restano inespli-cabili e poco conclusive. Per giunta questa nuova consorteria ha

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deciso di concentrare il suo lavoro su una pompa pneumatica che di nuovo produce corpi immateriali, il vuoto, come se Hobbes non avesse già avuto tante difficoltà a sbarazzarsi dei fantasmi e degli spiriti! Rieccoci, si infiamma Hobbes, in piena guerra civile! Non dovremo più sopportare i Levellers e i Diggers, che hanno contestato l'autorità del re in nome della propria interpretazione personale di Dio e delle proprietà della materia (venendo giusta-mente sterminati), ma si dovrà affrontare questa nuova genia di scienziati che si mette a contestare qualsiasi autorità in nome della natura, facendo ricorso a eventi di laboratorio completamente ar-tificiali! Se permettete alle esperienze di produrre i propri matters offact e se esse lasciano filtrare il vuoto nella pompa ad aria e di lì nella filosofia naturale, dividerete l'autorità: gli spiriti immateriali spingeranno ancora ognuno alla rivolta, offrendo una corte d'ap-pello alle frustrazioni. La conoscenza e il potere saranno di nuovo separati. «Vedrete doppio», secondo l'espressione di Hobbes. Que-sti sono gli ammonimenti che lancia al re per denunciare le male-fatte della Royal Society.

La mediazione del laboratorio

Questa lettura politica del pienismo di Hobbes non basterebbe a fare del libro di Shapin e Schaffer il testo di fondazione dell'an-tropologia comparata. Qualsiasi abile storico delle idee, tutto som-mato, avrebbe avuto la possibilità di fare lo stesso lavoro. Ma in tre capitoli fondamentali i nostri autori oltrepassano i confini della storia intellettuale e passano dal mondo delle opinioni e dell'argo-mentazione a quello della pratica e delle reti. Per la prima volta negli studi sulle scienze tutte le idee relative a Dio, al re, alla mate-ria, ai miracoli e alla morale sono tradotte, trascritte e costrette a passare attraverso i particolari di funzionamento di uno strumento. Prima di loro, altri storici della scienza avevano studiato le pratiche scientifiche, altri avevano analizzato il contesto religioso, politico e

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culturale, ma nessuno fino a ora era stato capace di fare le due cose insieme.

Come Boyle riuscì a trasformare il lavoro su una pompa pneu-matica rabberciata alla bell'e meglio nell'assenso parziale di genti-luomini riguardo a fatti diventati indiscutibili, così Shapin e Schaf-fer arrivano a spiegare come e perché discussioni che riguardano il corpo politico, Dio e i suoi miracoli, la materia e il suo potere, de-vono passare dalla pompa ad aria. Un mistero mai chiarito da chi cerca una spiegazione contestualizzata per le scienze. Questi parte dal principio che esista un macro-contesto sociale (l'Inghilterra, la disputa dinastica, il capitalismo, la rivoluzione, i mercanti, la Chie-sa) e che questo contesto, in certa maniera, influenzi, formi, rifletta, trasmetta ed eserciti una pressione sulle «idee relative» alla materia, all'elasticità dell'aria, al vuoto e al tubo di Torricelli. Ma così non si spiega mai come si pone prima un legame tra Dio, il re, il parla-mento, un certo uccello che soffoca nel vaso chiuso e trasparente di una pompa, la cui aria è aspirata da una manovella azionata da un tecnico. L'esperienza del povero volatile, come può tradurre, muo-vere, trasportare, deformare tutte le altre controversie in modo tale che chi domina la pompa domina anche il re, Dio e tutto il relativo contesto?

Hobbes cerca di aggirare tutto quanto attiene al lavoro speri-mentale, ma Boyle lo costringe a portare la discussione su una serie di sordidi dettagli che riguardano le fughe d'aria, i giunti e le ma-novelle del suo apparecchio. Anche i filosofi della scienza e gli sto-rici delle idee vorrebbero evitare il mondo del laboratorio, questa cucina ripugnante dove si soffocano i concetti in mezzo alle bazze-cole. Shapin e Schaffer costringono le proprie analisi a girare at-torno all'oggetto, intorno a quella perdita, a quel giunto di quella pompa ad aria. La pratica di fabbricazione degli oggetti riacquista la posizione preponderante che aveva perso con la critica. Il libro dei nostri due amici non è empirico solo perché abbonda di parti-colari, ma perché fa l'archeologia di questo oggetto nuovo che nasce nel XVII secolo in laboratorio. Shapin e Schaffer, come

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Hacking [Hacking, 1989] riescono a lare in modo quasi etnogra-fico quello che i filosofi della scienza non riescono più a fare per niente: mostrare i fondamenti realisti delle scienze. Ma invece di parlare della realtà esterna out there, essi ancorano l'indiscutibile realtà della scienza down here, al tavolo di lavoro.

Le esperienze non procedono mai in modo perfetto. La pompa perde. Bisogna risistemarla alla bell'e meglio. Chi non sa spiegare l'irruzione degli oggetti nei collettivi umani, con tutte le manipo-lazioni e le pratiche che questi richiedono, non è un antropologo, perché gli sfugge ciò che dopo Boyle costituisce l'aspetto fonda-mentale della nostra cultura: noi viviamo in società che hanno come legame sociale oggetti fabbricati in laboratorio; le pratiche si sono sostituite alle idee, la 8o§a controllata ha preso il posto dei ra-gionamenti apodittici e i teams di specialisti quello del consenso universale. Il bell'ordine che Hobbes cercava di ritrovare viene an-nullato dalla moltiplicazione di spazi privati, ove si proclama l'ori-gine trascendentale di fatti che, pur fabbricati dall'uomo, non sono opera di nessuno e che, pur non avendo una causa, sono tuttavia spiegabili.

Come può reggersi una società, si indigna Hobbes, sulle misere fondamenta dei matters offacñ E particolarmente contrariato dal cambiamento che riguarda la scala dei fenomeni. Secondo Boyle le grandi questioni che attengono alla materia e ai poteri divini si possono sottoporre a una risoluzione sperimentale, che sarà parziale e modesta. Ora, Hobbes rifiuta la possibilità del vuoto per ragioni ontologiche e politiche di filosofia prima e continua a ipotizzare l'e-sistenza di un etere invisibile, che deve essere presente anche quando il tecnico di Boyle è troppo stremato per azionare la pompa. In altri termini, egli esige una risposta macroscopica ai suoi «macro» argomenti, una dimostrazione che provi che la sua ontologia non sarebbe necessaria, che il vuoto sarebbe politica-mente accettabile. Che cosa fa Boyle in risposta? Decide invece di rendere la sua esperienza più sofisticata per mostrare quale effetto abbia su un sensore (una semplice piuma di pollo!) il vento d'etere

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postulato da Hobbes, nella speranza di invalidare così la teoria del suo detrattore [p. 182], Ridicolo! Hobbes solleva un problema fon-damentale di filosofia politica, e si confuterebbero le sue teorie con una piuma all'interno di un vaso di vetro all'interno del castello di Boyle! E vero, la piuma non fa il men che minimo tremito e Boyle ne trae la conclusione che Hobbes è in errore, che non esiste un vento d'etere. Eppure Hobbes non può sbagliarsi, perché rifiuta di ammettere che il fenomeno di cui parla possa prodursi su una scala che non sia quella della Repubblica nel suo insieme. Egli nega quello che diventerà il carattere essenziale del potere moderno: il cambiamento di scala e gli spostamenti presupposti dal lavoro di la-boratorio. A Boyle, novello Gatto con gli Stivali, non rimane che acchiappare l'Orco ridotto alle dimensioni di un topolino.

La testimonianza dei nonumani

L'invenzione di Boyle è completa. Contro l'avviso di Hobbes, si impossessa del vecchio repertorio del diritto penale e di quello del-l'esegesi biblica, ma per applicarli alle testimonianze delle cose messe alla prova di laboratorio. Come scrivono Shapin e Schaffer:

Sprat e Boyle si richiamavano alla «pratica delle nostre corti di giusti-zia inglesi» per garantire la certezza morale delle loro conclusioni e per rendere più valida la propria tesi, secondo la quale una molteplicità di te-stimoni creava un «concorso di probabilità». Boyle utilizzava la clausola della legge sul tradimento di Clarendon del 1661, secondo la quale, ci dice, bastavano due testimoni per condannare un uomo. Si vede come i modelli giuridici e sacerdotali dell'autorità rappresentavano le principali risorse degli sperimentatori. I testimoni affidabili appartenevano, per la stessa ragione, a una comunità degna di fede: i papisti, gli atei e i settari vedevano messa in dubbio la propria versione dei fatti, lo statuto sociale dei testi contribuiva alla loro credibilità e la coincidenza tra le versioni di più testimoni permetteva di sbarazzarsi degli estremisti. Hobbes rimette

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in discussione i fondamenti di questa pratica: egli presenta il costume che giustificava la pratica della testimonianza come inefficace e sovversivo [p. 327].

A prima vista il repertorio di Boyle non porta grandi novità. Gli eruditi, i monaci, i giuristi e gli scribi avevano elaborato tutte que-ste risorse da più di un millennio. La vera novità sta nel punto di applicazione. Fino a quel momento i testimoni erano stati umani o divini, ma mai nonumani. I testi erano stati scritti da uomini o erano ispirati da Dio, mai ispirati o scritti da nonumani. I tribunali avevano visto infiniti processi umani o divini, mai cause che met-tessero in discussione il comportamento di nonumani in un labo-ratorio trasformato in corte di giustizia. Ora, per Boyle le espe-rienze in laboratorio conferiscono più autorità delle deposizioni non confermate da testimoni onorabili:

Nella nostra esperienza [della campana pneumatica da immersione] qui illustrata, la pressione dell'acqua ha effetti visibili sui corpi inanimati che sono incapaci di pregiudizio o di dare solo informazioni parziali: avrà più peso, tra le persone non prevenute, dei racconti sospetti e talora con-traddittori di palombari ignoranti, i cui preconcetti vanno e vengono e le cui stesse sensazioni, in quanto volgari, possono essere condizionate da quanto si è predisposto o da molte altre circostanze e possono facilmente indurre in errore [p. 218],

Ecco che sotto la piuma di Boyle si fa avanti un nuovo attore ri-conosciuto dalla nuova Costituzione: corpi inerti, incapaci di vo-lontà e di pregiudizio, ma capaci di mostrare, di indicare, di scrivere e di lasciare tracce su strumenti di laboratorio, davanti a testimoni degni di fede. Questi nonumani, privi di anima, ma ai quali si at-tribuisce un significato, sono perfino più affidabili dei comuni mortali, ai quali si attribuisce una volontà, ma che non sono in grado di indicare fenomeni in modo affidabile. Secondo la Costi-tuzione, in caso di dubbio è meglio fare ricorso ai nonumani che

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agli umani. Dotati di nuovi poteri semiotici, essi contribuiranno a realizzare una nuova forma di testo, l'articolo della scienza speri-mentale, un ibrido tra lo stile millenario dell'esegesi biblica, fino a quel momento applicata esclusivamente alle Scritture e ai classici, e il nuovo strumento che ha prodotto nuove iscrizioni. Ormai i testimoni continueranno il loro dibattito davanti alla pompa ad aria, nel suo spazio chiuso, e discuteranno del comportamento do-tato di senso dei nonumani. La vecchia ermeneutica non scom-pare, ma aggiunge sulle sue pergamene la firma tremolante degli strumenti scientifici [Latour e de Noblet, 1985; Lynch, 1985; La-tour, 1988a; Law e Fyfe, 1988; Lynch e Woolgar, 1990], Con un tribunale così rinnovato, tutti gli altri poteri verranno rovesciati ed è questo che tanto preoccupa Hobbes; ma questo rovesciamento non è possibile a meno che qualunque legame con i rami politici e religiosi del governo divenga impossibile.

Shapin e SchafFer spingono fino all'estremo limite la discussione sugli oggetti, i laboratori, le competenze e i cambiamenti di scala. Se la scienza non si fonda sulle idee ma su una pratica, se non si trova all'esterno, ma all'interno del vaso trasparente della pompa pneumatica, se ha luogo all'interno dello spazio privato della co-munità sperimentale, com'è possibile che si estenda ovunque, al punto da diventare universale come «leggi di Boyle»? Ebbene, non diventa universale, almeno non nel modo in cui lo intendono gli epistemologi! La sua rete si estende e si stabilizza. La dimostrazione brillante compare in un capitolo che, insieme all'opera di Harry Collins [Collins, 1985; Collins, 1991a] o a quella diTrevor Pinch [Pinch, 1986], rappresenta un notevole esempio della fecondità dei nuovi studi sulle scienze. Seguendo la riproduzione di ogni pro-totipo di pompa ad aria attraverso l'Europa e la sua progressiva tra-sformazione da apparecchiatura costosa, poco affidabile e ingom-brante a scatola nera a buon mercato che diventa a poco a poco uno strumento di routine in laboratorio, gli autori riconducono l'applicazione universale di una legge fisica all'interno di una rete di pratiche normalizzate. Chiaramente l'interpretazione dell'elasticità

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dell'aria data da Boyle si diffonde, ma esattamente alla stessa velo-cità con cui si sviluppa la comunità degli sperimentatori e delle loro apparecchiature. Nessuna scienza può uscire dalla rete della sua pratica. Il peso dell'aria è pur sempre un universale, ma un uni-versale in rete. Grazie all'estensione di questa rete, le competenze e le apparecchiature possono diventare oggetti di uso normale, per cui la produzione del vuoto diventa invisibile come l'aria che respi-riamo, ma mai universale nel vecchio senso del termine.

Il doppio artificio del laboratorio e del Leviatano

La scelta di trattare insieme Hobbes e Boyle ha qualcosa di ge-niale, perché il nuovo principio di simmetria destinato a spiegare contemporaneamente natura e società (vedi oltre) ci viene imposto per la prima volta negli studi sulle scienze attraverso due figure di primo piano degli inizi dell'era moderna. Hobbes e i suoi emuli creano le principali risorse di cui disponiamo per parlare del potere: rappresentanza, sovrano, contratto, proprietà, cittadini; mentre Boyle e i suoi continuatori elaborano uno dei repertori più impor-tanti per parlare della natura: esperienza, fatto, testimonianza, col-leghi. Quello che ancora non sapevamo è che si tratta di una dop-pia invenzione. Per capire questa simmetria nell'invenzione del repertorio moderno, dobbiamo vedere come mai Shapin e Schaf-fer mantengono l'asimmetria nella loro analisi, perché sono più acuti e hanno una maggiore forza esplicativa riguardo a Hobbes che non riguardo a Boyle, mentre occorrerebbe invece spingere la simmetria fino in fondo. La loro incertezza, in effetti, è una spia delle difficoltà dell'antropologia comparata e siccome il lettore si troverà probabilmente nelle stesse difficoltà, conviene soffermarsi su questo punto.

In un certo senso Shapin e Schaffer spostano verso il basso il cen-tro tradizionale di riferimento della critica. Se la scienza si fonda sulle competenze, i laboratori e le reti dove bisogna collocarli? Cer-

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tamente non sul versante delle cose in sé, poiché i fatti sono fabbri-cati. Ma sicuramente non sul versante del soggetto - società/cer-vello/spirito/cultura - poiché l'uccello che soffoca, le biglie di marmo, il mercurio che scende non sono nostre esclusive creazioni. Allora è a metà di questa linea che collega il polo oggetto al polo soggetto che bisogna collocare la pratica scientifica? E un ibrido o una miscela? E un po' oggetto e un po' soggetto?

Gli autori non ci offrono una risposta definitiva a questa do-manda. Come Hobbes e Boyle, sono d'accordo su tutto tranne che sul modo di trattare il contesto «sociale», cioè l'invenzione simme-trica di Hobbes di un umano in grado di essere rappresentato. Gli ultimi capitoli del libro ondeggiano tra una spiegazione hobbe-siana del loro lavoro e una prospettiva boyliana. Questa tensione rende l'opera ancora più interessante e fornisce all'antropologia delle scienze una nuova razza di «drosofile» del tutto idonea allo scopo, perché esse si distinguono solo per qualche tratto. Shapin e Schaffer considerano le spiegazioni macro-sociali di Hobbes rela-

POLO BOYLE

cosa in sé POLO HOBBES

umani tra loro

COSTRUZIONE IN LABORATORIO

DI UN OGGETTO E DI UN CONTESTO

Figura 1

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tive alla scienza di Boyle più convincenti delle argomentazioni di Boyle che refutano Hobbes! Formatisi in un contesto di studio so-ciale delle scienze [Callon e Latour, 1991 ], non sono capaci di de-costruire il contesto macro-sociale cosi come lo sono per la natura out there. Si direbbe che credano che esista bella e pronta una na-tura up there che spiegherebbe il fallimento del programma di Hob-bes. O, più precisamente, non riescono a chiudere la questione, annullando nella conclusione quello che avevano dimostrato nel capitolo VII e cancellando di nuovo la propria argomentazione nel-l'ultimissima frase del libro:

N é la nostra conoscenza scientifica, né la costituzione della nostra so-cietà, né le affermazioni tradizionali relative alle connessioni tra la nostra società e le nostre conoscenze sono più date come acquisite. Per quanto riusciamo a sapere dello statuto convenzionale e strutturato delle nostre forme di conoscenza, siamo portati a intendere che siamo noi, e non la realtà, all'origine di quello che sappiamo. La conoscenza, proprio come lo Stato, è un prodotto dell'agire umano. Hobbes aveva ragione [p. 344].

No, Hobbes aveva torto. Come potrebbe avere ragione se è lui che ha inventato la società monista, nella quale conoscenza e potere sono un'unica e identica cosa? Com'è possibile servirsi di una teo-ria tanto approssimativa per spiegare l'invenzione di Boyle di una dicotomia assoluta tra la produzione di una conoscenza dei fatti e la politica? Sì, «la conoscenza, proprio come lo Stato, è un pro-dotto dell'agire umano», ma lo è proprio perché l'invenzione poli-tica di Boyle è molto più acuta della sociologia delle scienze di Hobbes. Per capire quale sia l'ultimo ostacolo che ci separa da un'antropologia delle scienze, dovremo decostruire l'invenzione costituzionale di Hobbes, secondo la quale esisterebbe una macro-società ben più salda e più robusta della natura.

Hobbes inventa il nudo cittadino calcolatore, i cui diritti sono solo quelli di possedere e di essere rappresentato grazie alla costru-zione artificiale di un sovrano. Egli crea anche il linguaggio del

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potere=conoscenza, cioè la base di tutta la moderna Realpolitik. Inoltre, presenta un repertorio di analisi degli interessi umani che, con quello di Machiavelli, resta ancora oggi il vocabolario di base di tutta la sociologia. In altri termini, anche se Shapin e Schaffer stanno molto attenti a non servirsi dell'espressione «fatto scienti-fico» come risorsa, ma solo come invenzione storica e politica, non prendono nessuna precauzione riguardo al linguaggio politico in sé. Utilizzano termini come «potere», «interesse» e «politica», nel capitolo VII, in modo affatto innocente. Orbene, chi ha dato a que-sti termini il loro significato moderno? Hobbes! Allora anche i no-stri autori vedono «doppio» e avanzano di sbieco, criticando la scienza ma facendo passare la politica come unica fonte di spiega-zione valida. E chi ci offre questo modo asimmetrico di spiegazione del sapere e del potere? Ancora una volta Hobbes, con la sua costru-zione di una macro-struttura monista nella quale la conoscenza non trova posto se non per sostenere l'ordine sociale. Gli autori ope-rano una magistrale decostruzione con l'evoluzione, la diffusione, e la banalizzazione della pompa ad aria. Allora, perché non fanno lo stesso con l'evoluzione, la diffusione e la banalizzazione del «po-tere» o della «forza»? La «forza» sarebbe meno problematica dell'e-lasticità dell'aria? Se la natura e l'epistemologia non sono costituite da entità trans-storiche, allora neanche la storia e la sociologia lo sono, a meno che non si adotti la posizione asimmetrica degli au-tori e che si sia a seconda dei casi costruttivisti per la natura e razio-nalisti per la società! Ma è poco probabile che l'elasticità dell'aria abbia fondamenti più politici della stessa società inglese...

Rappresentazione scientifica e rappresentanza politica

Se arriviamo al fondo della simmetria tra le invenzioni dei nostri due autori, comprendiamo come Boyle non crei semplicemente un discorso scientifico, e altrettanto fa Hobbes per la politica. Boyle crea un discorso politico da cui la politica deve essere esclusa, men-

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tre Hobbes immagina una politica scientifica da cui deve essere esclusa la scienza sperimentale. In altri termini essi inventano il nostro mondo moderno, un mondo nel quale la rappresentazione delle cose tramite il laboratorio resta per sempre dissociata dalla rappre-sentanza dei cittadini mediante il contratto sociale. Per questo non è affatto per errore che la filosofia politica dimenticherà tutto quello che si riferisce alla scienza di Hobbes, mentre la storia delle scienze trascurerà le posizioni di Boyle sulla politica delle scienze. Ormai è inevitabile che tutti «vedano doppio» e non stabiliscano relazioni dirette tra il rappresentare i nonumani e il rappresentare gli umani, tra l'artificialità dei fatti e quella del corpo politico. Il termine «rap-presentare» è uguale, ma la controversia tra Hobbes e Boyle ha reso impensabile l'assimilazione dei suoi due significati. Adesso che non siamo più affatto moderni, essi tendono di nuovo a riawicinarsi.

Le due branche del governo, che Boyle e Hobbes elaborano ognuno per conto suo, hanno autorità chiaramente separate: lo Stato di Hobbes è impotente senza la scienza e la tecnologia, ma Hobbes non parla che del rappresentare il nudo cittadino; la scienza di Boyle è impotente senza una precisa delimitazione della sfera religiosa, di quella politica e di quella scientifica, e questa è la ragione per cui egli si dà tanto da fare per sopprimere il monismo di Hobbes. Sono due padri fondatori che operano di concerto per promuovere una sola e identica innovazione della teoria politica: alla scienza tocca rappresentare i nonumani, ma le è vietata ogni possibilità di ricorso alla politica; quest'ultima ha il compito di rap-presentare i cittadini, ma le è interdetto qualunque rapporto con i nonumani prodotti e mobilitati dalla scienza e dalla tecnologia. Hobbes e Boyle si battono per definire entrambe le risorse che an-cora utilizziamo senza più pensarci e l'intensità dalla loro duplice lotta è spia della stranezza della loro invenzione.

Hobbes definisce il cittadino nudo e calcolatore, e questi costi-tuisce il Leviatano, questo dio mortale, questa creatura artificiale. Come si regge il Leviatano? Grazie al calcolo degli atomi umani, un calcolo previsto dal contratto, che decide dell'irreversibile compo-

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sizione delle forze di tutti nelle mani di uno solo. Di che cosa è fatta questa forza? Dell'autorizzazione concessa da tutti i nudi cittadini a uno solo perché parli a loro nome. Chi agisce quando costui agisce? Siamo noi che agiamo, noi che abbiamo delegato definitivamente il nostro potere. La Repubblica è una creatura artificiale, paradossale, composta da cittadini uniti dalla sola autorizzazione concessa a quell'uno perché li rappresenti. Il sovrano parla a nome suo o di coloro che l'autorizzano? E una questione insolubile, della quale la filosofia moderna non smetterà mai di discutere. E sì il sovrano che parla, ma sono i cittadini che parlano per suo tramite. Egli diventa il loro portavoce, la loro persona, la loro personificazione. Egli li traduce e quindi li può tradire. Loro lo autorizzano e quindi lo pos-sono interdire. Il Leviatano non è fatto che di cittadini, di calcoli, di accordi o di contrasti. Insomma, è fatto di relazioni sociali. O me-glio, con Hobbes e i suoi emuli cominciamo a capire che cosa vo-gliono dire le relazioni sociali, i poteri, le forze, le società.

Ma Boyle definisce un artefatto ancora più strano. Inventa il la-boratorio, al cui interno macchine artificiali creano di sana pianta i fenomeni. Anche se artificiali, costosi, difficili da riprodurre, a onta di un numero limitato di testimoni affidabili e preparati, que-sti fatti rappresentano la natura proprio com'è. I fatti sono prodotti e rappresentati in laboratorio, negli scritti scientifici, sono ammessi e autorizzati dalla nascente comunità dei testimoni. Gli scienziati sono i rappresentanti scrupolosi dei fatti. Chi parla quando essi parlano? Sono i fatti stessi, senza alcun dubbio, ma anche i loro portavoce autorizzati. Chi parla, allora: la natura o gli umani? Un'altra questione insolubile, con la quale la moderna filosofia della scienza si scontra da tre secoli. Di per sé i fatti sono muti, le forze naturali sono bruti meccanismi. Eppure gli scienziati sostengono che non sono loro a parlare, ma i fatti. Questi muti sono dunque capaci di parlare, di scrivere, di significare nell'ambiente artificiale del laboratorio o in quello, più rarefatto, della pompa a vuoto. Pic-coli gruppi di gentiluomini fanno testimoniare le forze naturali e poi attestano vicendevolmente che essi non tradiscono bensì tradu-

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cono il comportamento silenzioso degli oggetti. Con Boyle e i suoi discepoli cominciamo ad avere una idea di che cos'è una forza na-turale, un oggetto muto ma dotato o fornito di senso.

Nel loro comune dibattito, i discendenti di Hobbes e di Boyle ci offrono le risorse che abbiamo utilizzato fino a oggi: da un lato la forza sociale, il potere; dall'altro la forza naturale, il meccanismo. Da una parte il soggetto di diritto, dall'altra l'oggetto di scienza. I portavoce politici rappresenteranno la moltitudine vociante e cal-colatrice dei cittadini; i portavoce scientifici quella muta e materiale degli oggetti. I primi traducono i propri mandanti, che non po-trebbero parlare tutti insieme; i secondi i propri rappresentati, che sono muti dalla nascita. Questi e quelli possono anche tradire. Nel XVII secolo la simmetria è ancora visibile, tra i portavoce c'è ancora discussione, ci sono accuse reciproche di moltiplicare le cause di conflitto. Basta un minimo sforzo perché la loro comune origine non sia più visibile, perché non ci sia che un unico portavoce da parte degli umani e perché la mediazione degli scienziati diventi in-visibile. Presto la parola «rappresentare» assumerà due significati diversi, a seconda che si parli di eletti o di oggetti.

Le garanzie costituzionali dei moderni

Se la Costituzione moderna inventa una separazione tra il potere scientifico, cui spetta di rappresentare le cose, e quello politico, che ha il compito di rappresentare i soggetti, non arriviamo per questo alla conclusione che i soggetti siano lontani dalle cose. Hobbes, nel Leviathan rifa di volta in volta la fisica, la teologia, la psicologia, il diritto, l'esegesi biblica e la scienza politica. Nei suoi scritti e nelle sue lettere Boyle ridisegna nello stesso tempo la retorica scientifica, la teologia, la politica scientifica, la scienza politica e l'ermeneu-tica dei fatti. Insieme i due descrivono come Dio debba regnare, come il nuovo re d'Inghilterra debba legiferare, come debbano agire spiriti e angeli, quali siano le proprietà della materia, come si

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interroghi la natura, quali devono essere i limiti della discussione scientifica o politica, come tenere la plebe al suo posto, quali sono i diritti e i doveri delle donne, che cosa ci si debba aspettare dai ma-tematici. In pratica essi si collocano nella vecchia matrice antro-pologica, ripartiscono le competenze degli oggetti e delle persone e non operano ancora alcuna separazione tra la pura forza sociale e il puro meccanismo naturale.

Sta in questo tutto il paradosso moderno: se consideriamo gli ibridi, abbiamo semplicemente a che fare con mescolanze di natura e di cultura; se consideriamo il lavoro di depurazione, siamo da-vanti a una separazione totale tra natura e cultura. Quella che vo-gliamo comprendere è la relazione tra queste due attività. Mentre Boyle e Hobbes si occupano entrambi di politica e di religione, di tecnica e di morale, di scienza e di diritto, si distribuiscono i com-piti al punto che uno si limita alla scienza delle cose e l'altro alla po-litica degli umani. Qual è l'intima relazione tra i due movimenti? Per permettere questa proliferazione è indispensabile la depura-zione? Ci vogliono ibridi a centinaia perché ci sia una politica affatto umana e ci siano cose affatto naturali? Ci vuole questa distinzione assoluta tra i due movimenti perché continuino a essere efficaci? Come si spiega la forza di questa soluzione? Qual è insomma il se-greto del mondo moderno? Per cercare di capirlo dobbiamo gene-ralizzare le conclusioni di Shapin e Schaffer e definire completa-mente la Costituzione di cui Hobbes e Boyle hanno scritto solo uno dei primi abbozzi.

Come qualunque Costituzione, anche questa va valutata in base alle garanzie che offre. Il potere naturale, definito dai discendenti di Boyle avversi a quelli di Hobbes, che permette agli oggetti muti di parlare per il tramite di portavoce scientifici fedeli e discipli-nati, presenta una garanzia capitale, e cioè che non sono gli uomini a fare la natura, essa esiste da sempre, c'è sempre stata: non fac-ciamo altro che scoprirne i segreti. Il potere politico, definito dai discendenti di Hobbes contro quelli di Boyle, fa parlare all'uni-sono i cittadini grazie alla traduzione/tradimento di un sovrano,

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che non dice nient'altro che quello che essi dicono. Questo potere offre una garanzia altrettanto capitale: sono gli uomini e solo gli uomini che costruiscono la società e che decidono liberamente del proprio destino.

Se, come fa la filosofia politica moderna, le consideriamo sepa-ratamente, queste due garanzie restano incomprensibili. Se la na-tura non è fatta dagli uomini né per loro, essa resta estranea, peren-nemente distante e ostile. La sua stessa trascendenza ci soverchia o ce la rende inaccessibile. In modo simmetrico, se la società non è fatta che dagli uomini e per loro, il Leviatano, la creatura artificiale della quale noi siamo insieme forma e materia, non riuscirebbe a reggersi in piedi. La sua stessa immanenza lo dissolverebbe imme-diatamente nella guerra di tutti contro tutti. Ma queste due garan-zie costituzionali, quella che assicura la nonumanità della natura e quella che assicura l'umanità del sociale, non vanno prese separata-mente. Sono state create insieme. Si sostengono a vicenda. L'una si serve dell'altra come contrappeso, come checks and balances. Non sono che le due branche dello stesso governo.

Se le consideriamo insieme e non separate, ci accorgiamo che le garanzie si invertono. I discendenti di Boyle non dicono solo che le leggi di natura sfuggono alla nostra influenza, ma le fabbricano anche in laboratorio. I fatti, malgrado la struttura artificiale che hanno nella pompa a vuoto (la fase di mediazione o di traduzione), sfuggono completamente a una fabbricazione tutta umana (la fase di depurazione). I discendenti di Hobbes non solo sostengono che gli uomini fanno la loro società a forza di braccia, ma che il Levia-tano è duraturo e solido, immenso e forte, che mette in moto il commercio, le invenzioni, le arti e che il sovrano stringe in mano la spada d'acciaio ben temprato e lo scettro d'oro. Nonostante la sua struttura umana, il Leviatano supera infinitamente l'uomo che l'ha creato, perché riesce a mobilitare nei suoi pori, nei suoi vasi, nei suoi tessuti, le innumerevoli cose che gli danno consistenza e du-rata. Eppure, malgrado questa durata ottenuta mobilitando le cose, spia del lavoro di mediazione, siamo noi e solo noi che lo costi-

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tuiamo, con la forza del nostro calcolo, noi, i poveri cittadini nudi e disarmati; e questo dimostra il lavoro di depurazione.

Queste due garanzie sono in contraddizione non solo tra loro, ma ciascuna in sé, perché presentano insieme trascendenza e imma-nenza. Boyle e i suoi innumerevoli epigoni continueranno a co-struire artificialmente la natura e a dire che la scoprono; Hobbes e i cittadini ridefiniti non smetteranno mai di costruire il Leviatano con il calcolo e la forza sociale, ma recluteranno sempre più og-getti per farlo stare stabilmente in piedi. Mentono forse? Si ingan-nano? Ci ingannano? No, perché aggiungono una terza garanzia costituzionale: prima di tutto la separazione completa tra mondo naturale (pur costruito dall'uomo) e mondo sociale (pur sorretto dalle cose); poi la separazione totale tra lavoro degli ibridi e lavoro di depurazione. Le due prime garanzie non sono contraddittorie se non in quanto la terza le allontana per sempre l'una dall'altra, fa-cendo di una simmetria troppo palese due asimmetrie contraddit-torie che la pratica risolve senza mai poterla esprimere.

Ci vorranno molti altri autori, molte altre istituzioni, molti altri regolamenti per completare questo movimento abbozzato dalla di-sputa esemplare tra Hobbes e Boyle. Ma la struttura di insieme è ora facile da cogliere: le tre garanzie prese insieme permetteranno il cambiamento di scala dei moderni. Potranno far intervenire la natura in qualsiasi punto della costruzione delle proprie società, senza per questo attribuirle più una trascendenza radicale; po-tranno diventare gli attori esclusivi del proprio destino politico, senza per questo smettere di far reggere la società dall'intervento della natura. Da un lato la trascendenza naturale non impedirà l'immanenza sociale; dall'altro l'immanenza del sociale non impe-dirà al Leviatano di restare trascendente. Bisogna ammettere che si tratta di una bellissima costruzione, che consente di fare tutto senza essere limitati da niente. Non sorprende che questa Costituzione abbia permesso, come si diceva non molto tempo fa, di «liberare le forze produttive»...

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PRIMO PARADOSSO

La natura non è una nostra costruzio- La società è una nostra costruzione: è ne: è trascendente e ci travalica infini- immanente al nostro agire tamente

S E C O N D O

La natura è una nostra costruzione ar-tificiale in laboratorio: è immanente.

PARADOSSO

La società non è una nostra costruzio-ne: è trascendente e ci travalica infini-tamente

C O S T I T U Z I O N E

Prima garanzia: anche se siamo noi che costruiamo la natura, è come se non la costruissimo

Seconda garanzia: anche se non siamo noi che costruiamo la società, è come se la costruissimo

Terza garanzia: la natura e la società devono rimanere asso-lutamente distinte; il lavoro di depurazione deve restare as-solutamente distinto da quello di mediazione

Figura 2

La quarta garanzia: quella del Dio barrato

Si doveva perciò evitare di stabilire tra le due garanzie della Co-stituzione una simmetria troppo perfetta, che avrebbe impedito alla coppia di dare il massimo. Bisognava che una quarta garanzia regolasse la questione di Dio, discostandola per sempre dalla dop-pia struttura sociale e naturale, pur mantenendola presentabile e commerciabile. I successori di Hobbes e di Boyle si impegnarono con successo svuotando dalla presenza divina gli uni la natura, gli altri la società. Il potere scientifico «non aveva più bisogno di que-sta ipotesi»; quanto ai politici, potevano fabbricare il «dio mortale» del Leviatano, senza doversi più occupare di quello immortale le cui Scritture, già con Hobbes, non erano più interpretate dal so-vrano se non in modo figurativo. Non c'è niente di autenticamente moderno se non si accetta di allontanare Dio dal gioco delle leggi

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della natura come di quelle della Repubblica. Dio diventa il Dio barrato della metafisica, tanto diverso dal Dio premoderno dei cri-stiani quanto la natura costruita in laboratorio lo è dall'antica 4>uoig o quanto la società è distante dal vecchio collettivo antropo-logico popolato da nonumani.

Uno scostamento troppo completo, però, avrebbe privato i mo-derni di una risorsa critica che permetteva di mettere a punto il di-spositivo. I due gemelli della natura e della società sarebbero rima-sti sospesi nel vuoto, senza che nessuno potesse decidere, in caso di conflitto tra le due branche del governo, quale avrebbe dovuto pre-valere sull'altro. Ancor peggio: la loro simmetria sarebbe apparsa troppo evidente. I moderni applicarono al Dio barrato lo stesso sdoppiamento operato sulla natura e sulla società. La sua trascen-denza lo rendeva infinitamente lontano, al punto che non influiva né sul libero gioco della natura né su quello della società, ma ci si ri-servava almeno di ricorrere a questa trascendenza in caso di con-flitto tra leggi naturali e leggi della società. L'uomo moderno poteva perciò essere ateo pur restando religioso. Poteva invadere il mondo materiale, ricreare liberamente il mondo sociale, senza per questo viversi come un demiurgo orfano abbandonato da tutti.

Reinterpretando le antiche tematiche teologiche dei cristiani, si arriva a far operare insieme la trascendenza di Dio e la sua imma-nenza. Ma questo lungo lavoro della Riforma nel XVI secolo avrebbe portato a risultati assai diversi se non fosse stato coniugato nel XVII secolo con quello dell'invenzione congiunta dei fatti scien-tifici e dei cittadini [Eisenstein, 1991]. Si reinventa così la spiri-tualità, ovvero la discesa del Dio onnipotente nel tribunale inte-riore, senza che egli intervenga affatto in quello esteriore. Una religione del tutto individuale e spirituale che permetta di criticare l'influenza della scienza come quella della società, senza per questo essere costretti a calare Dio nell'una o nell'altra. Diventa possibile, per i moderni, essere nel contempo laici e devoti. La garanzia costi-tuzionale non è data da un Dio supremo, ma da uno assente (ep-pure la sua assenza non impedisce di disporne a piacere nell'inti-

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mità del cuore). La sua posizione diventa ideale, perché è messo due volte tra parentesi. Una prima volta nella metafisica, una se-conda nella spiritualità. Non avrebbe più guastato lo sviluppo dei moderni, pur rimanendo efficace e rassicurante nel solo spirito dei soli umani.

Tre volte la trascendenza e tre volte l'immanenza in un cruci-verba che blocca tutte le possibilità. Non abbiamo fatto la natura, facciamo la società; facciamo la natura, non abbiamo fatto la so-cietà; non abbiamo fatto né l'una né l'altra, ha fatto tutto Dio; Dio non ha fatto niente, abbiamo fatto tutto noi. Non si capisce niente dei moderni se non si vede come le quattro garanzie fungano l'una per l'altra da checks and balances. Le prime due permettono di alter-nare le fonti del potere passando senza colpo ferire dalla pura forza naturale alla pura forza politica e viceversa. La terza garanzia impe-disce qualunque contaminazione tra ciò che appartiene alla natura e ciò che appartiene alla politica, mentre le prime due consentono una rapida alternanza tra l'una e l'altra. La contraddizione tra la terza che separa e le prime due che alternano sarebbe troppo evi-dente? No, perché la quarta garanzia costituzionale pone come ar-bitro un Dio infinitamente lontano, che è nello stesso tempo del tutto impotente e giudice sovrano.

La modernità non ha niente a che vedere con l'invenzione del-l'umanesimo, con l'irrompere delle scienze, con la laicizzazione della società o con la meccanizzazione del mondo. E la produzione congiunta di queste tre coppie di trascendenza e di immanenza, con una lunga storia della quale ho illustrato una sola tappa grazie alle figure di Hobbes e di Boyle. Il punto essenziale di questa Co-stituzione moderna è la sua capacità di rendere invisibile, impensa-bile, irrappresentabile l'opera di mediazione che assembla gli ibridi. Quest'opera è perciò interrotta? No, perché il mondo moderno smetterebbe subito di funzionare dato che vive di mescolanza come tutti gli altri collettivi. La bellezza del dispositivo appare qui in piena luce. La Costituzione moderna permette invece la prolifera-zione degli ibridi, di cui essa nega l'esistenza e perfino la possibilità.

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Facendo funzionare per tre volte la stessa alternanza tra trascen-denza e immanenza, diventa possibile mobilitare la natura, reificare il sociale, sentire la presenza spirituale di Dio, pur sostenendo con fermezza che la natura ci sfugge, che la società è opera nostra e che Dio non interferisce più. Chi avrebbe potuto resistere a una co-struzione di tal fatta? Bisogna che eventi davvero inauditi abbiano indebolito questo meccanismo possente perché io oggi riesca a de-scriverlo con un atteggiamento da etnologo, insieme di distanza e di simpatia per un mondo che sta per scomparire.

La potenza della critica

Nel momento stesso in cui le capacità critiche dei moderni sva-niscono, conviene un'ultima volta misurarne la prodigiosa efficacia.

Affrancati dall'ipoteca religiosa, essi sono diventati capaci di cri-ticare l'oscurantismo degli antichi poteri, rivelando i fenomeni na-turali che questi dissimulavano, pur inventando questi fenomeni nell'ambiente artificiale del laboratorio. Le leggi della natura hanno permesso ai primi illuministi di demolire fino alle fondamenta le pretese mal fondate dei pregiudizi umani. Applicando la propria griglia di lettura, essi vedevano negli antichi ibridi solo indebite mescolanze che bisognava depurare, separando i meccanismi na-turali dalle passioni, dagli interessi o dall'ignoranza degli umani. Ogni pensiero, d'altra parte, diventava inetto o approssimativo. O meglio, la semplice applicazione della Costituzione moderna defi-niva un «altro tempo» del tutto diverso dall'oggi (vedi oltre). All'o-scurità delle età antiche, che mescolavano indebitamente bisogni sociali e realtà naturale, si sostituiva un'alba luminosa che separava nettamente i vincoli materiali dalla fantasia dell'uomo. Le scienze naturali definivano la natura e ogni disciplina si viveva come una ri-voluzione totale grazie alla quale essa si sottraeva finalmente ÀXAn-cien Régime. Nessuno è moderno se non ha avvertito la bellezza di questa aurora e non ha sentito un fremito alle sue promesse.

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Ma la critica non procedeva solo dalla natura verso i pregiudizi umani. Ben presto si avviava verso l'altra direzione, che andava dalle scienze sociali rifondate alla falsa natura. E questo il secondo Illuminismo, quello del XIX secolo. Questa volta la conoscenza pre-cisa della società e delle sue leggi permetteva di criticare non solo i pregiudizi del solito oscurantismo, ma anche quelli nuovi delle scienze naturali. Sulla solida base delle scienze della società era di-ventato possibile distinguere nelle altre scienze le parti davvero scientifiche da quelle prodotte dall'ideologia: l'accusa critica per eccellenza. Il secondo Illuminismo non vedeva, nelle frammistioni del primo, che un inaccettabile miscuglio che conveniva depurare, separando con cura quanto atteneva alle cose da quello che riguar-dava l'economia, l'inconscio, il linguaggio o il simbolico. Ogni pensiero, d'altra parte, compreso quello di certe scienze, diventava inadatto o approssimativo. Anzi, una successione di rivoluzioni ra-dicali creava per contrasto un «altro tempo» oscuro, subito dissolto dall'aurora delle scienze sociali. Finalmente scomparivano le trap-pole della naturalizzazione e dell'ideologia scientifica. Non c'è niente di moderno che non abbia sentito la bellezza di questa au-rora e che non abbia vibrato alle sue promesse.

Diventava perfino possibile, agli invincibili moderni, mettere insieme le due critiche, prendendo le scienze naturali per criticare le false pretese del potere e sfruttando le certezze delle scienze umane per criticare le false pretese delle scienze naturali e del do-minio scientifico. Finalmente il sapere totale era a portata di mano. Se per tanto tempo non è sembrato possibile aggirare il marxismo, questo è dovuto al fatto che esso incrociava le due risorse più po-tenti mai elaborate dalla critica e le metteva per sempre sotto chiave, permettendo di conservare la parte di verità delle scienze naturali e sociali, eliminandone con cura la parte maledetta, la loro ideologia. Realizzava e completava cosi, come presto vedremo, tutte le speranze del primo Illuminismo e quelle del secondo. La neces-saria distinzione tra i meccanismi materiali e le illusioni dell'oscu-rantismo, come la seconda distinzione tra la scienza e l'ideologia,

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restano ancora oggi le due cause principali dell'indignazione mo-derna, anche se non possono più congelare la discussione alla ma-niera dei marxisti e anche se il loro capitale critico è oggi dissemi-nato nelle mani di milioni di piccoli azionisti. Chi non ha mai sentito dentro di sé il fremito di questa duplice potenza, chi non è mai stato ossessionato dalla distinzione tra razionale e irrazionale, tra falsi saperi e vera scienza, non è mai stato moderno.

Poggiando sulla solida base della certezza trascendentale delle leggi della natura, il moderno può criticare e disvelare, denunciare e indignarsi per le credenze irrazionali e per il dominio ingiustifi-cato. Poggiando sulla solida base della certezza che l'uomo è arte-fice del proprio destino, il moderno può criticare e disvelare, indi-gnarsi e denunciare le credenze irrazionali, le ideologie scientifiche e il dominio ingiustificato degli esperti che pretendono di tracciare i confini dell'azione e della libertà. Tuttavia, la sola trascendenza di una natura che non è opera nostra e la sola immanenza di una so-cietà che è completamente fatta da noi paralizzerebbero i moderni, troppo impotenti davanti alle cose e troppo potenti nella società. Che enorme vantaggio si trova nel poter rovesciare i principi senza nemmeno la parvenza di una contraddizione! La natura trascen-dente rimane pur tuttavia mobilitabile, umanizzarle, socializza-bile. I laboratori, le raccolte di dati, i centri di calcolo e di profitto, gli istituti di ricerca e gli uffici studi la mischiano ogni giorno ai

PUNTI DI ANCORAGGIO POSSIBILITÀ CRITICA

Trascendenza della natura Nulla si può contro le leggi naturali

Immanenza della natura Possibilità illimitate

Immanenza della società Siamo completamente liberi

Trascendenza della società Nulla si può contro le leggi della società

Figura 3

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molteplici destini dei gruppi sociali. Di converso, anche se la so-cietà è costruita da noi in tutto e per tutto, essa permane, ci trava-lica, ci domina, ha le sue leggi, è trascendente come la natura. Il fatto è che i laboratori, le raccolte di dati, i centri di calcolo e di profitto, gli istituti di ricerca e gli uffici studi segnano ogni giorno i confini della libertà dei gruppi sociali e trasformano i rapporti umani in oggetti durevoli, che nessuno ha fatto. In questo duplice linguaggio sta la potenza critica dei moderni: possono mobilitare la natura nel cuore dei rapporti sociali, pur lasciandola infinitamente lontana dagli uomini; sono liberi di fare e disfare le proprie società, pur rendendone le leggi ineluttabili, necessarie e assolute.

L'invincibilità dei moderni

Dato che crede nella totale separazione tra umani e nonumani e che nello stesso tempo la annulla, la Costituzione ha reso invinci-bili i moderni. Se li criticate dicendo che la natura è un mondo costruito da mani umane, vi dimostreranno che è trascendente e che non li riguarda. Se dite loro che è trascendente e che le sue leggi ci travalicano infinitamente, vi diranno che noi siamo liberi e che il nostro destino è solo nelle nostre mani. Se obiettate che così danno prova di doppiezza, vi faranno vedere come non confon-dono mai le leggi della natura con l'imprescrittibile libertà umana. Se ci credete o non state attenti, se ne approfitteranno per trasferire migliaia di oggetti dalla natura nel corpo sociale, conferendogli la solidità delle cose naturali. Se vi voltate di colpo come nei giochi dei bambini: «Un, due, tre, toppa!», resteranno immobili, con l'a-ria innocente, come se non si fossero mai mossi: a sinistra le cose, a destra la libera società dei soggetti parlanti e pensanti. Tutto suc-cede al centro, tutto transita tra i due estremi, tutto avviene per mediazione, per traduzione, attraverso la rete, ma questo spazio non c'è, non ha luogo. È l'impensato, l'impensabile dei moderni. Come comprendere meglio i collettivi se non legandosi nello stesso

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tempo alla trascendenza della natura e all'assoluta libertà umana, pur incarnando la natura e limitando del tutto i margini di libertà? Così è possibile fare tutto e il contrario di tutto.

Gli indiani non si sbagliavano quando dicevano che i Visi Pallidi avevano la lingua biforcuta. Separando i rapporti di forza politici e i rapporti di ragione scientifici, ma fondando sempre la forza sulla ragione e la ragione sulla forza, hanno sempre tenuto il piede in due staffe. Sono diventati invincibili. Credete che il tuono sia una divinità? La critica dimostrerà che si tratta di meccanismi fisici che non influenzano il procedere degli eventi umani. Siete all'interno di una economia tradizionale? La critica vi farà vedere come i mec-canismi fisici possono ribaltare il procedere degli eventi umani, mobilitando gigantesche forze produttive. Pensate che gli spiriti degli antenati vi tengano per sempre soggetti alle loro leggi? La cri-tica vi dimostrerà che gli spiriti e le leggi sono costruzioni sociali che vi siete dati da soli. Pensate di poter fare qualunque cosa e di poter sviluppare la società come vi pare? La critica vi mostrerà che le bronzee leggi della società e dell'economia sono assai più rigide di quelle degli antenati. Siete indignati perché il mondo viene mec-canizzato? La critica vi parlerà di Dio creatore, cui tutto appartiene e che dà tutto all'uomo. Siete indignati per la laicizzazione della società? La critica vi mostrerà come al suo interno la spiritualità si trovi liberata e come una religione affatto spirituale sia di gran lunga superiore. Vi proclamate religiosi? La critica si sbellicherà dal ridere!

Come avrebbero potuto resistere le altre culture-nature? Per con-trasto sono diventate premoderne. Avrebbero potuto opporsi alla natura trascendente o a quella immanente, alla società costruita da mani umane o a quella trascendente, a un Dio lontano o a uno in-timo, ma come resistere alla combinazione di questi sei elementi? Anzi, per loro sarebbe stato possibile resistere se le sei risorse della critica fossero state visibili insieme, come un'unica operazione quale l'ho illustrata qui. Ma sembravano separate, in conflitto tra loro, sembravano confondere le branche del governo che si mette-

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vano in conflitto tra loro, ognuna appellandosi a fondamenti di-stinti. Inoltre, tutte queste risorse critiche di depurazione erano contraddette subito dalla pratica di mediazione, senza per questo che tale contraddizione avesse una qualsiasi influenza sulla diversità delle fonti del potere o sulla loro unità nascosta.

I moderni si sono sentiti liberati dalle ultime restrizioni che po-tevano ancora limitarne l'espansione. I poveri collettivi premoderni sono stati accusati di mischiare in modo orrendo le cose e gli umani, mentre i loro accusatori li separavano del tutto, per rime-scolarli immediatamente a un livello finora mai raggiunto... Dato che i moderni hanno esteso questa Gran Suddivisione nel tempo dopo averla stesa nello spazio, si sono sentiti assolutamente liberi di non seguire più le ridicole limitazioni del passato, che imponevano di tener conto sia delle cose sia delle persone. Però, tenevano nello stesso tempo conto di molte più cose e di molte più persone...

Non potete neanche accusarli di non essere credenti. Se dite loro che sono atei, vi parleranno del Dio onnipotente, infinitamente distante, nell'aldilà. Se dite che questo Dio barrato è davvero estra-neo, vi diranno che parla all'intimità del cuore e sosterranno di non aver mai smesso, malgrado tutta la loro scienza e la loro poli-tica, di essere morali e pii. Se vi sembra strana una religione che non ha alcuna influenza sull'andamento del mondo né su quello della società, vi diranno che essa li giudica entrambi. Se chiedete di leggere questi giudizi, vi obietteranno che la religione è infinita-mente superiore alla scienza e alla politica e che non potrebbe in-fluenzarle, oppure che è una costruzione sociale o il prodotto dei neuroni!

Che potrete dire, allora? Essi hanno in mano tutte le fonti del potere, tutte le possibilità critiche, ma le mettono in campo a se-conda dei casi con tale rapidità che non si riesce mai a prenderli con le mani nel sacco. Sì, decisamente sono invincibili, lo sono stati, c'è mancato poco che lo fossero, si sono creduti tali.

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Che cosa la Costituzione mette in luce o lascia in ombra

Eppure il mondo moderno non è mai esistito, nel senso che non ha mai funzionato secondo le regole della sua Costituzione, sepa-rando le tre regioni dell'essere di cui ho parlato e ricorrendo sepa-ratamente alle sei risorse della critica. La pratica di traduzione è sempre stata diversa da quella di depurazione o, per dir meglio, questa stessa differenza è inserita nella Costituzione, giacché il dop-pio gioco tra immanenza e trascendenza di ciascuna delle tre istanze permette di fare tutto e il contrario di tutto. Mai una Costituzione ha permesso un margine di manovra tanto ampio nella pratica. Ma il prezzo da pagare per questa libertà è stata l'incapacità di pensarsi dei moderni. Tutto il lavoro di mediazione sfugge al quadro costi-tuzionale che lo modella e lo nega.

Non esiste alcun rapporto semplice tra le caratteristiche di un momento storico e il sapere se è o non è moderno. La modernità, allora, è una illusione? No, è molto di più di una illusione e molto di meno di una essenza. E una forza aggiunta ad altre che essa ha per molto tempo avuto la capacità di rappresentare, di accelerare o di ridurre, mentre d'ora in avanti ha perso questa capacità. La re-visione che propongo è assimilabile a quella fatta per la Rivolu-zione francese una ventina di anni fa: d'altra parte le due revisioni non sono che una sola, come vedremo più avanti. Dagli anni Set-tanta abbiamo compreso come la lettura rivoluzionaria della Ri-voluzione si sovrapponga agli avvenimenti di allora, organizzi la storiografìa dal 1789, ma non definisca più gli eventi stessi [Furet, 1978]. Come suggerisce François Furet, occorre distinguere tra la Rivoluzione «modalità dell'azione storica» e la «Rivoluzione-pro-cesso». I fatti del 1789 non erano rivoluzionari più di quanto il mondo moderno non sia stato moderno. I protagonisti e i cronisti del 1789 si sono serviti del concetto di rivoluzione per compren-dere quanto succedeva e per orientare il proprio destino. Alla stessa stregua, la Costituzione moderna esiste e opera bene nella storia, ma non definisce quello che ci è accaduto. La modernità è sempre

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in attesa di un suo Tocqueville, le rivoluzioni scientifiche del loro Furet.

Tuttavia la modernità non è la falsa coscienza dei moderni, e dobbiamo stare ben attenti a riconoscere alla Costituzione, come all'idea di Rivoluzione, una sua efficacia. Lungi dall'aver eliminato l'opera di mediazione, essa ne permette anzi la crescita. Come il concetto di rivoluzione ha spinto i rivoluzionari a prendere deci-sioni irreversibili, che altrimenti non avrebbero osato prendere, la Costituzione ha dato ai moderni il coraggio di mobilitare cose e persone a un livello che essi altrimenti si vieterebbero. Questo cam-biamento di scala non è stato possibile, come essi credono, grazie alla separazione tra umani e nonumani, ma anzi proprio amplifi-candone la mescolanza. La crescita è a sua volta facilitata dall'idea di una natura trascendente (purché sempre mobilitabile), da quella di una società libera (purché rimanga trascendente) e dall'assenza di qualunque divinità (purché Dio parli al cuore). Se i contrari re-stano insieme presenti e impensabili, se il lavoro di mediazione moltiplica gli ibridi, queste tre idee insieme permettono una capi-talizzazione su grande scala. I moderni credono di essere riusciti in quest'opera straordinaria di espansione perché hanno tenuto ac-curatamente separate la natura e la società (mettendo Dio tra pa-rentesi), mentre questo risultato è stato raggiunto proprio perché essi hanno ampiamente mescolato grandi masse di umani e di no-numani, senza mettere niente tra parentesi e senza vietarsi nessuna combinazione! All'origine c'è il legame tra opera di depurazione e opera di mediazione, ma essi attribuiscono solo alla prima le ra-gioni del loro successo.

La spiegazione di questo paradosso forse non è così difficile. Per avere il coraggio di fare combinazioni di questo genere, conviene credere che non comportino serie conseguenze sull'ordine costitu-zionale. Il dualismo natura/società è indispensabile ai moderni pro-prio per poter passare a una scala più grande di commistione tra oggetti e soggetti. Invece i premoderni, che sono fondamental-mente monisti nella costituzione delle proprie nature-culture, se

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dobbiamo dare retta agli antropologi [Lévi-Strauss, 1952], si vie-tano di praticare quello che le loro rappresentazioni sembrereb-bero permettere. «L'indigeno è un tesaurizzatore logico» scrive Lévi-Strauss, «instancabile, riannoda i fili, ripiega senza posa su se stessi tutti gli aspetti del reale, siano essi fisici, sociali o mentali» [Lévi-Strauss, 1962, p. 353]. Saturando di concetti le commistioni di divino, di umano e di naturale, ne limitano l'espansione pratica. L'impossibilità di modificare l'ordine sociale senza cambiare quello naturale (e viceversa) costringe i premoderni, da sempre, a proce-dere con estrema cautela. Qualsiasi mostro diventa visibile e pen-sabile, e pone esplicitamente seri problemi per l'ordine sociale, per il cosmo o per le leggi divine [Horton, 1990a; 1990b].

L'omeostasi delle «società fredde» dell'Amazzonia [scrive Descola a proposito degli Achuar] risulterebbe allora non tanto dovuta al rifiuto implicito dell'alienazione politica accreditato ai «selvaggi» da Clastres, quanto all'effetto di inerzia di un sistema di pensiero che può rappresen-tarsi il processo di socializzazione della natura esclusivamente attraverso le categorie normatrici del funzionamento della società reale. Contraria-mente al sommario determinismo tecnologico che spesso impregna le teorie evoluzioniste, si potrebbe qui postulare che la trasformazione ope-rata da una società sulla sua base materiale sia condizionata da una prece-dente mutazione delle forme di organizzazione sociale che servono da scheletro ideale al modo materiale di produzione [Descola, 1986, p. 405].

Se invece la nostra Costituzione autorizza qualcosa, si tratta pro-prio della socializzazione accelerata dei nonumani, senza per que-sto consentire che essi appaiano mai come elementi della «società reale». I moderni, rendendo impensabili le commistioni, svuo-tando, spazzando, ripulendo, depurando l'arena che viene dise-gnandosi mediante le loro tre istanze, hanno consentito alla pratica di mediazione di ricombinare tutti i mostri possibili senza che que-sti abbiano alcun effetto sulla fabbrica della società e nemmeno alcun contatto con lei. Per strani che fossero, non ponevano alcun

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problema, perché non esistevano socialmente e le loro conseguenze mostruose non erano assimilabili. Quello che i premoderni si sono sempre vietati noi possiamo permettercelo, perché l'ordine sociale non riesce mai a corrispondere, punto per punto, con l'ordine naturale.

La pompa ad aria di Boyle, per esempio, potrebbe sembrare una spaventosa chimera, perché produce artificialmente un vuoto di la-boratorio che a sua volta permette di definire le leggi della natura, l'azione di Dio e la composizione dei conflitti nell'Inghilterra della Gloriosa Rivoluzione. Ad avviso di Horton, il pensiero selvaggio avrebbe immediatamente scongiurato questo pericolo. Invece il XVII secolo inglese costruisce regalità, natura e teologia con la comunità scientifica e con il laboratorio. L'elasticità dell'aria va ad aggiun-gersi agli attori che popolano l'Inghilterra. Tuttavia, il reclutamento di un nuovo alleato non pone alcun problema, perché le chimere non esistono, perché non c'è niente di mostruoso, perché si sono semplicemente scoperte le leggi di natura. «Circolare, non c'è niente da vedere!». La vastità della mobilitazione è direttamente proporzio-nale all'impossibilità di pensare i propri rapporti con l'ordine so-ciale. Meno i moderni si pensano commisti e più si mescolano. Più la scienza è assolutamente pura, più è intimamente legata alla fab-brica della società. La Costituzione moderna accelera o facilita il dispiegamento dei collettivi, ma non permette di pensarli.

La fine della denuncia

Quando affermo che la Costituzione, per essere efficace, deve ignorare quello che autorizza, faccio un'opera di disvelamento, che però non si basa più sugli stessi oggetti della critica, e non è più spinta dalle stesse molle. Finché aderivamo di buon grado alla Co-stituzione, essa ci permetteva di regolare l'insieme delle dispute e serviva da fondamento allo spirito critico, procurando alle persone la giustificazione dei loro attacchi e delle loro operazioni di disve-lamento. Ma se la Costituzione nel suo insieme appare adesso come

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una metà che non permette più di capire l'altra, il fondamento stesso della critica perde la sua stabilità.

Ricorrendo ora alla natura, ora alla società, ora a Dio, e contrap-ponendo continuamente la trascendenza di ciascuno dei tre ter-mini alla sua immanenza, la molla della nostra indignazione si tro-vava sempre ben ricaricata. Che sarebbe in effetti un moderno che non potesse più basarsi sulla trascendenza della natura per criticare l'oscurantismo del potere? Sull'immanenza della natura per criticare l'inerzia degli umani? Sull'immanenza della società per criticare la sottomissione degli umani e i pericoli del naturalismo? Sulla tra-scendenza della società per criticare l'illusione umana di una libertà individuale? Sulla trascendenza di Dio per richiamarsi al giudizio degli umani e all'ostinazione delle cose? Sull'immanenza di Dio per criticare le Chiese ufficiali, le credenze naturaliste e i sogni sociali-sti? Sarebbe un ben misero moderno o magari un postmoderno: pur essendo sempre animato dal violento desiderio di denunciare, non avrebbe più la forza di credere alla legittimità di queste sei corti d'appello. Togliete a un moderno l'indignazione e lo priverete, al-meno così sembra, di ogni rispetto di sé. Sottrarre agli intellettuali organici e critici i sei fondamenti delle loro denunce è in apparenza togliere loro ogni ragione di vita. Perdendo l'adesione spontanea alla Costituzione, non abbiamo forse l'impressione di perdere il meglio di noi stessi? Non stava lì la fonte delle nostre energie, della nostra forza morale, della nostra deontologia?

Eppure Lue Boltanski e Laurent Thévenot hanno svuotato la denuncia moderna in un libro importante per questo saggio come quello di Steve Shapin e di Simon Schaffer. Essi hanno fatto, per il lavoro di indignazione critica, quello che François Furet aveva fatto poco tempo prima per la Rivoluzione francese. «La denuncia è fi-nita»: questo potrebbe essere il sottotitolo del loro De la Justifica-tion. Les économies de la grandeur [Boltanski e Thévenot, 1991]. Fino a quel momento il disvelamento critico sembrava ovvio. Si trattava solo di scegliere una causa di indignazione e di opporsi alle false denunce, mettendoci tutta la passione auspicabile. Disvelare:

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ecco il compito sacro di noi moderni. Rivelare sotto le false co-scienze i veri calcoli o sotto i falsi calcoli i veri interessi. Chi non ha ancora un filo di bava alla bocca per questa rabbia? Boltanski e Thévenot hanno inventato l'equivalente di un vaccino antirabbico, confrontando tutte le fonti di denuncia (le Città che forniscono i diversi principi di giustizia), combinando le mille e una maniera che abbiamo oggi di portare una faccenda in giudizio. Essi non de-nunciano nessuno. Non disvelano niente. Fanno semplicemente vedere come facciamo tutti ad accusarci a vicenda. Lo spirito critico diventa una risorsa, una competenza tra le altre, la grammatica della nostra indignazione.

Immediatamente, grazie a questo piccolo spostamento intro-dotto dallo studio sistematico, vien meno la nostra totale adesione. Come si fa ad avere ancora il gusto dell'accusa quando il meccani-smo sacrificale diventa palese? Perfino le scienze umane non sono più l'estrema risorsa che permette alla fine di distinguere i motivi reali dalle apparenze. Fanno anch'esse parte dell'analisi [Chateau-raynaud, 1991]; anch'esse portano cause in tribunale, si indignano e criticano. La tradizione delle scienze umane non ha più il privi-legio di sovrastare l'attore distinguendo, al di sotto delle sue azioni inconsce, la realtà che si tratterebbe di mettere in luce [Boltanski, 1990]. Impossibile scandalizzarsi per le scienze umane senza finire d'ora in poi in una delle caselle del cruciverba dei nostri due amici. Il denunciante è il fratello delle persone che pretende di denun-ciare. «Lei è uno di loro». Invece di crederci davvero adesso avver-tiamo l'opera di denuncia come una «modalità storica» che agisce sì nelle nostre faccende, ma che non le esplica più di quanto la mo-dalità rivoluzionaria non sappia spiegare lo svolgersi degli eventi del 1789. La denuncia, come la rivoluzione, sono oggi sventate.

L'opera di Boltanski e Thévenot completa quel movimento pre-visto e descritto da René Girard, secondo il quale i moderni non possono più accusare di buon animo, ma, contrariamente a que-st'ultimo, essi non disprezzano gli oggetti. Per far funzionare il meccanismo sacrificale bisognerebbe che l'accusato sacrificato in

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comune dalla folla fosse davvero colpevole [Girard, 1978]. Se di-venta un capro espiatorio, il meccanismo di accusa diventa visi-bile: un povero cristo innocente di tutto è accusato a torto, senza altro motivo se non quello di riconciliare il collettivo a sue spese. Spostando il sacrificio sul capro espiatorio si sventa l'accusa. Que-sto svuotamento non addolcisce i moderni, perché la ragione dei loro crimini in serie sta appunto nel non poter mai accusare sere-namente un vero colpevole [Girard, 1983]. Ma Girard non si ac-corge di fare accuse ancora più gravi, perché accusa gli oggetti di non contare davvero. Finché ci inventiamo scopi obiettivi per le nostre dispute, siamo dentro l'illusione del desiderio mimetico. È questo desiderio, e solo lui, che attribuisce agli oggetti un valore che non hanno. Di per sé essi non contano, non sono niente. Ri-velando il processo di accusa Girard, come Boltanski e Thévenot, esaurisce per sempre la nostra attitudine all'accusa. Prolunga, però, per un altro tratto, questa tendenza dei moderni a disprezzare gli oggetti; e questa accusa Girard la proferisce di buon grado, cre-dendoci davvero e vedendo in questo disprezzo duramente con-quistato la più alta prova di moralità. Ad accusatore, un accusa-tore e mezzo. La grandezza del libro di Boltanski e Thévenot sta nel fatto che essi svuotano la denuncia pur mettendo l'oggetto impe-gnato nelle prove di giudizio al centro della loro analisi.

Sotto il giudizio morale per denuncia, un altro giudizio ha sem-pre funzionato per scelta e selezione. Lo si chiama accomoda-mento, combinazione, combine, ma anche negoziazione o com-promesso. Péguy diceva che la morale flessibile è infinitamente più esigente di una rigida. Lo stesso avviene con la morale ufficiosa che seleziona e ripartisce senza posa le soluzioni pratiche dei moderni. E disprezzata perché non permette l'indignazione, ma è attiva e generosa perché segue le innumerevoli sinuosità delle situazioni e delle reti. E disprezzata perché tiene conto delle cose, che non sono più tanto gli oggetti arbitrari del nostro solo desiderio quanto il semplice ricettacolo delle nostre categorie mentali. Come la Costi-tuzione moderna disprezza gli ibridi che essa accoglie, così la mo-

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rale ufficiale disprezza gli accomodamenti pratici e gli oggetti che li tengono in piedi. Sotto l'opposizione degli oggetti e dei soggetti c'è il turbine dei mediatori. Sotto la grandezza morale c'è la scelta meticolosa delle circostanze e dei fatti.

Non siamo mai stati moderni

Adesso posso scegliere: o credo nella Costituzione moderna o esamino insieme quello che essa permette e che vieta, quello che mette in luce e quello che lascia in ombra. O sostengo il lavoro di depurazione (e sono io stesso un purificatore e un solerte guar-diano della Costituzione) o studio insieme il lavoro di mediazione e quello di depurazione, ma in questo caso smetto completamente di essere moderno.

Se sostengo che la Costituzione moderna non permette una comprensione di sé, se mi offro di rivelare le pratiche che le permet-tono di esistere, se garantisco che il meccanismo critico è ormai svanito, faccio come se noi stessimo entrando in un'epoca nuova, successiva a quella moderna. Sono perciò, alla lettera, postmo-derno? Il postmoderno è un sintomo e non una soluzione nuova. Vive sotto la Costituzione moderna, ma non crede più alle garan-zie che offre. Sente che qualcosa non va nella critica, ma non sa fare altro che prolungarla senza peraltro credere ai suoi fondamenti [Lyotard, 1979]. Invece di passare allo studio empirico delle reti, che dia un senso all'opera di depurazione che denuncia, il post-moderno respinge qualunque lavoro empirico in quanto illusorio e ingannevole. Razionalisti pentiti, i suoi adepti avvertono la fine della modernità, ma continuano ad accettare il modo di suddivi-dere il tempo e possono solo separare un'epoca dall'altra con le ri-voluzioni che si succedono. Si sentono venuti «dopo» i moderni, ma con la sgradevole sensazione che non ci sia più un «dopo». No future: ecco la parola d'ordine che si aggiunge a quella dei moderni, Nopast. Che cosa rimane per loro? Istanti slegati e denunce infon-

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date, perché i postmoderni non credono più alle ragioni che per-metterebbero loro di denunciare o di indignarsi.

Una soluzione diversa si presenta quando seguiamo nello stesso tempo la Costituzione, quello che vieta e quello che permette, quando studiamo nei particolari il lavoro di produzione degli ibridi e quello della loro eliminazione. Ci accorgiamo allora di non essere mai stati moderni, ai sensi della Costituzione. La modernità non è mai cominciata. Un mondo moderno non è mai esistito. L'uso del passato prossimo è qui importante, perché si tratta di un senti-mento retrospettivo, di una rilettura della nostra storia. Non stiamo entrando in una nuova era; non continuiamo la fuga senza fine dei post-post-post-moderni; non ci aggrappiamo più all'avan-guardia dell'avanguardia; non cerchiamo più di essere sempre più furbi, sempre più critici; di approfondire ancora di più l'età del so-spetto. No, ci accorgiamo di non aver mai messo piede nell'età mo-derna. Questo atteggiamento retrospettivo, che mostra e non di-svela, che aggiunge e non sottrae, che fraternizza e non denuncia, che fa la cernita e non si indigna, lo definisco con il termine di nonmoderno (o amoderno). È nonmoderno chi prende in conside-razione nello stesso tempo la Costituzione dei moderni e la popo-lazione di ibridi da questa negata.

La Costituzione spiegava ogni cosa, ma lasciava cadere ciò che stava in mezzo. «Non è niente, proprio niente» diceva delle reti, «è solo un semplice residuo». Ora gli ibridi, i mostri, le commistioni che essa rinuncia a spiegare rappresentano quasi tutto, compon-gono non solo i nostri collettivi, ma anche gli altri, quelli abusiva-mente definiti premoderni. Nel momento stesso in cui i doppi Lumi del marxismo sembravano aver spiegato ogni cosa, nello stesso istante in cui il fallimento della loro spiegazione totale ha portato i postmoderni a smarrirsi nella disperazione dell'autocri-tica, ci si è resi conto che le spiegazioni non erano ancora comin-ciate, che è sempre stato cosi, che non siamo mai stati né moderni né critici, che d'altra parte non c'è mai stato un Ancien Regime [Mayer, 1983], che non abbiamo mai abbandonato realmente la

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vecchia matrice antropologica e che non avrebbe potuto essere al-trimenti.

Rendersi conto di non essere mai stati moderni e di non essere separati dagli altri collettivi se non da piccole divisioni, non ci fa per questo diventare rivoluzionari. Gli antimoderni combattono fero-cemente gli effetti della Costituzione, ma li accettano in tutto e per tutto. Vogliono difendere il locale, lo spirito, la pura materia, la ra-zionalità, il passato, l'universalità, la libertà, la società, Dio, come se queste entità esistessero davvero e avessero proprio la forma loro attribuita dalla Costituzione moderna. Non fanno che cambiare il segno o la direzione della loro indignazione. Arrivano ad accettare perfino la principale stranezza dei moderni, l'idea di un tempo che passerebbe in modo irreversibile e che annullerebbe tutto il passato dietro di sé. Che si voglia conservare o abolire questo passato, in en-trambi i casi si mantiene l'idea rivoluzionaria di fondo, per cui una rivoluzione è possibile. Ora, questa stessa idea ci sembra esagerata, perché la rivoluzione non è che una risorsa tra le tante, in storie che non hanno niente di rivoluzionario, niente di irreversibile. «In potenza» il mondo moderno è una invenzione totale e di irreversi-bile rottura con il passato, proprio come la Rivoluzione francese (o quella bolscevica) è la levatrice di un nuovo mondo. «In rete» il mondo moderno, come le rivoluzioni, non permette altro che al-cuni prolungamenti di pratiche, alcune accelerazioni nella circola-zione delle conoscenze, una estensione delle società, un aumento del numero degli attori, numerosi riadattamenti di vecchie cre-denze. Quando le vediamo «in rete», le innovazioni degli occiden-tali restano riconoscibili e importanti, ma non ce n'è più a suffi-cienza per farne tutta una storia: una storia di rottura radicale, di destino fatale, di fortune e sventure irreversibili.

Gli antimoderni, come i postmoderni, hanno accettato il ter-reno dei loro avversari. Un altro terreno, molto più vasto, molto meno polemico ci si è aperto davanti: quello dei mondi nonmo-derni. E l'Impero di Mezzo, grande come la Cina e come la Cina misterioso.

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CAPITOLO TERZO

Rivoluzione

I moderni vittime del loro successo

Se l'apparato critico dei moderni li rendeva invincibili, come mai oggi sono così esitanti riguardo al proprio destino? Se l'efficacia della Costituzione dipendeva proprio dalla sua parte oscura, perché oggi riesco a collegarla a quella luminosa? Il legame tra i due gruppi di pratiche deve essersi proprio modificato perché io riesca a se-guire contemporaneamente le pratiche di depurazione e quelle di traduzione. Se non possiamo più essere disponibili ai compiti della modernizzazione, ciò deve dipendere dal fatto che il meccanismo si è bloccato per ostacoli imprevisti. Che cosa è successo che ha reso oggi impensabile il lavoro di depurazione, mentre solo pochi anni fa era il dispiegamento delle reti che sembrava assurdo o scandaloso?

Diciamo che i moderni sono diventati vittime del loro successo. E una spiegazione un po' approssimativa, lo ammetto, e tuttavia tutto avviene come se l'ampiezza della mobilitazione dei collettivi avesse finito per moltiplicare gli ibridi fino al punto che il quadro costituzionale, che nega e insieme permette la loro esistenza, non

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fosse più in grado di tenerli a bada. La Costituzione moderna è crollata sotto il suo stesso peso, sommersa dalle commistioni che essa permetteva di sperimentare perché ne dissimulava le conse-guenze sulla fabbrica della società. Il terzo stato ha finito per di-ventare troppo numeroso per sentirsi fedelmente rappresentato dal-l'ordine degli oggetti o da quello dei soggetti.

Se non spuntasse fuori che qualche pompa a vuoto, si riusci-rebbe ancora ad archiviarla in uno dei due classificatori, quello delle leggi naturali o quello delle rappresentanze politiche, ma quando ci si trova invasi da embrioni surgelati, da sistemi esperti, da macchine a controllo numerico, da robot sensorizzati, dagli ibridi del granturco, dalle banche dati, dagli psicotropi forniti per legge, dalle balene dotate di radio-sonda, dai sintetizzatori di geni, dagli analizzatori di audience e così via, quando i giornali riem-piono pagine su pagine con tutti questi mostri e nessuna di queste chimere si sente al suo posto né accanto agli oggetti né vicino ai soggetti e nemmeno a metà strada, bisognerà pur fare qualcosa. Tutto avviene come se i due poli della Costituzione avessero finito con il confondersi, proprio a causa della mediazione che la Costi-tuzione stessa rendeva possibile condannandola. Tutto avviene come se non ci fossero più abbastanza giudici e critici per trattare gli ibridi. Il sistema di depurazione è intasato come il nostro si-stema giudiziario.

Forse il quadro della modernità avrebbe potuto reggere ancora per un po' se il suo stesso sviluppo non avesse prodotto un corto circuito tra la natura da un lato e le folle umane dall'altro. Finché la natura era distante e dominata, somigliava ancora vagamente al polo costituzionale della tradizione. Sembrava sotto tutela, trascen-dente, inesauribile, lontana. Ma come classificare il buco nell'o-zono o l'effetto serra? Dove mettere questi ibridi? Sono umani? Sì, perché sono opera nostra. Sono naturali? Sì, perché non sono di nostra fattura. Sono locali o globali? Entrambe le cose. Quanto alle folle umane, che le virtù come i vizi della medicina e dell'economia hanno fatto moltiplicare, anch'esse non sono più facili da localiz-

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zare. In quale mondo si possono ospitare queste moltitudini? Siamo nella biologia, nella sociologia, nella storia naturale, nella sociobiologia? Sono opera nostra, e tuttavia le leggi della demo-grafia e dell'economia ci sovrastano infinitamente. La bomba de-mografica è un evento locale o globale? Entrambe le cose. Cosi, sul versante della natura come su quello della società, non riu-sciamo più a riconoscere le due garanzie costituzionali dei mo-derni: le leggi universali delle cose - le leggi imprescrittibili dei soggetti. Il destino delle moltitudini affamate, come quello del po-vero pianeta, è legato allo stesso nodo gordiano, che nessun Ales-sandro verrà più a tagliare.

Diciamo allora che i moderni sono arrivati alla frutta. La loro Costituzione poteva assorbire qualche esempio negativo, qualche eccezione, poteva addirittura giovarsene; non può più nulla quando le eccezioni proliferano, quando il terzo stato delle cose e il terzo mondo si mischiano invadendo in massa ogni sua assemblea. Sulla scorta di Michel Serres, chiamo questi ibridi quasi-oggetti, perché non occupano la posizione di oggetti prevista per loro dalla Costi-tuzione né quella di soggetti, ed è impossibile ficcare tutto nella posizione intermedia, che ne farebbe un semplice miscuglio di cosa naturale e di simbolo sociale. Stranamente è stato Lévi-Strauss, quando cercava un esempio per farci sentire come ci fosse vicino il pensiero selvaggio, che ha dato la migliore definizione di questa fu-sione intima, nella quale si cancellano le tracce di entrambi i com-ponenti, la natura e la società (delle quali dice tuttavia che stanno una davanti all'altra «come in uno specchio»):

Un osservatore esotico riterrebbe probabilmente che la circolazione automobilistica nel centro di una grande città, o su un'autostrada, superi le facoltà umane: e infatti le supera in quanto non mette esattamente di fronte degli uomini né delle leggi naturali, ma sistemi di forze naturali umanizzate dall'intenzione dei guidatori, e uomini trasformati in forze naturali dall'energia fisica di cui si fanno mediatori. Non si tratta più del-l'operazione di un agente su un oggetto inerte, né del contraccolpo di un

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oggetto elevato alla funzione di agente su un soggetto che avrebbe spode-stato se stesso in suo favore senza chiedergli niente in cambio, ossia di si-tuazioni che comportano, da un lato o dall'altro, una certa dose di passi-vità: questi esseri si affrontano al contempo come soggetti e come oggetti; e, nel codice che adoperano, una semplice variazione della distanza che li separa ha la forza di una muta preghiera [Lévi-Strauss, 1962, p. 243].

Per accogliere quasi-oggetti di tal fatta, davvero poco diversi da quelli del pensiero selvaggio (come vedremo più avanti), dobbiamo disegnare uno spazio che non sia ormai più quello della Costitu-zione moderna, perché riempie la zona intermedia che essa soste-neva di svuotare. Alla pratica di depurazione (linea orizzontale) conviene aggiungere le pratiche di mediazione (linea verticale).

POLO NATURA POLO SOGGETTO/SOCIETÀ

Figura 4

Invece di seguire la moltiplicazione dei quasi-oggetti, proiettan-doli solo sulla linea longitudinale, sarà opportuno collocarli anche in una latitudine. Allora, ecco che la diagnosi della crisi con la quale ho aperto questo saggio salta agli occhi: la crescita dei quasi-og-getti ha saturato il quadro costituzionale dei moderni. Essi percor-revano entrambe le dimensioni, ma ne disegnavano esplicitamente solo una, di modo che l'altra restava tratteggiata. I nonmoderni

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devono disegnarle entrambe per poter comprendere sia il successo dei moderni sia i loro recenti fallimenti, senza per questo cadere nel postmoderno. Evidenziando insieme le due dimensioni, potremo forse accogliere gli ibridi, dare loro un posto, un nome, una casa, una filosofia, una ontologia e, spero, una nuova costituzione.

La grande divaricazione delle filosofie modernizzatrici

Come hanno cercato, le grandi filosofie, di rendere compatibili la Costituzione moderna e i quasi-oggetti, questo Impero di Mezzo che continuava a estendersi? Semplificando parecchio, possiamo distinguere tre grandi strategie. La prima consiste in una grande di-varicazione: di qua gli oggetti e di là i soggetti, la cui distanza con-tinua così ad aumentare; la seconda, sotto il nome di «svolta se-miotica», si occupa del mezzo e trascura gli estremi; infine la terza isola il pensiero dell'essere da quello degli enti.

Facciamo una rapida panoramica sulle prime due. Più si molti-plicano i quasi-oggetti, più le grandi filosofie rendono incommen-surabili i due poli costituzionali, pur affermando che non c'è com-pito più urgente di quello di riconciliarli. Percorrono così a loro volta il paradosso moderno, impedendo quello che esse autoriz-zano e permettendo quello che vietano. Ognuna di queste filosofie è certamente più raffinata di questo povero riassunto; ognuna è per definizione nonmoderna e tratta lo stesso problema con il quale mi confronto così maldestramente io, ma le loro interpretazioni ufficiali e divulgate su questo aspetto fanno prova di un sorpren-dente conformismo: com'è possibile moltiplicare i quasi-oggetti senza concedere loro il diritto di cittadinanza, in modo che si con-servi la Grande Divisione che ci separa dal nostro passato come dagli altri collettivi?

Hobbes e Boyle, come abbiamo visto, discutevano tanto accani-tamente proprio perché facevano fatica a distinguere il polo dei nonumani muti e naturali da quello dei cittadini consapevoli e par-

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lanti. La separazione ai loro occhi appariva ancora tanto fragile che essi facevano tra gli ibridi solamente una vaga distinzione. Solo con il kantismo la nostra Costituzione riceve la sua formulazione real-mente canonica. Quella che era una semplice distinzione viene cosi affinata e diventa una separazione totale, una rivoluzione coperni-cana. Le cose in sé diventano inaccessibili mentre, simmetrica-mente, il soggetto trascendentale si allontana infinitamente dal mondo. Eppure le due garanzie restano chiaramente simmetriche, perché la conoscenza non è possibile se non nel punto di mezzo, quello dei fenomeni, con un'applicazione delle due forme pure, quella della cosa in sé e quella del soggetto. Gli ibridi hanno sì di-ritto di cittadinanza, ma esclusivamente in quanto miscele delle forme pure in eguale proporzione. E pur vero che il lavoro di me-diazione resta visibile, perché Kant moltiplica il numero delle tappe per passare dal mondo lontano delle cose a quello ancora più di-stante dell'io. Tuttavia queste mediazioni sono ormai riconosciute come semplici intermediari che non fanno altro che spostare o tra-smettere le forme pure, le sole riconoscibili. Lo sfaldamento degli intermediari rende accettabile il ruolo dei quasi-oggetti, senza per questo conferire loro una ontologia che rimetterebbe in discussione la «rivoluzione copernicana».

Questa formulazione kantiana è ancora oggi visibile ogni volta che si attribuisce allo spirito umano la capacità di imporre arbitra-riamente forme a una materia amorfa ma reale. È vero che il re Sole attorno al quale ruotano gli oggetti sarà rovesciato a vantaggio di altri pretendenti (le società, l'episteme, le strutture mentali, le cate-gorie culturali, l'intersoggettività), ma queste rivoluzioni di palazzo non cambieranno la posizione focale che chiamerò, per questa ra-gione, soggetto/società.

E merito della dialettica l'aver cercato di ripercorrere un'ultima volta il cerchio completo dei premoderni, inglobando tutti gli es-seri divini, sociali e naturali, per evitare le contraddizioni del kan-tismo tra la funzione di depurazione e quella di mediazione. Ma la dialettica ha sbagliato contraddizione. Ha individuato bene quella

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tra il polo del soggetto e quello dell'oggetto, ma non ha visto quella tra l'insieme della Costituzione moderna che si veniva affermando e la proliferazione dei quasi-oggetti, che invece caratterizza il XIX secolo come il nostro. O meglio, si è illusa di assorbire la seconda contraddizione risolvendo la prima. Ora, credendo di abolire la se-parazione kantiana tra cosa in sé e soggetto, Hegel la rende ancora più forte. L'eleva al rango di contraddizione, facendo della sua estre-mizzazione e del suo superamento il motore della storia. La distin-zione del XVII secolo diventa una separazione nel XVIII e una con-traddizione nel XIX, una contraddizione totale al punto da diventare la molla di tutto il meccanismo. Come illustrare meglio il paradosso moderno? La dialettica approfondisce ancora l'abisso che separa il polo dell'oggetto da quello del soggetto, ma siccome alla fine lo su-pera e lo abolisce, si immagina di aver superato davvero Kant! Non parla che di mediazioni, eppure quelle innumerevoli mediazioni di cui popola la sua storia grandiosa non sono che intermediari che trasmettono le pure qualità ontologiche, cioè lo spirito nella ver-sione di destra, la materia in quella di sinistra. Alla fine, se c'è una coppia che nessuno riesce più a riconciliare, è quella del polo della natura e del polo dello spirito, perché la loro stessa opposizione è conservata e abolita, cioè denegata. A un moderno, un moderno e mezzo. I nostri più grandi modernizzatori sono stati senza discus-sione i dialettici, tanto più potenti in quanto sembravano davvero raccogliere la totalità del sapere e del passato, e in quanto sapevano incrociare tutte le risorse della critica.

Ma i quasi-oggetti continuavano a proliferare, questi mostri della prima, della seconda, della terza rivoluzione industriale, que-sti fatti socializzati e questi umani trasformati in mondo naturale. Ben presto serrate, le totalità cedevano da ogni parte. Ogni fine della storia, malgrado tutto, dava seguito a un'altra storia.

La fenomenologia avrebbe fatto per un'ultima volta un'altra di-varicazione, stavolta scaricando zavorra, abbandonando i due poli della coscienza pura e del puro oggetto, e adagiandosi, letteral-mente, nel mezzo, per cercare di coprire con la sua grande ombra

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Più i quasi-oggetti si moltiplicano, più aumenta la distinzione tra i due poli

Figura 5

lo spazio ora aperto che avvertiva di non saper più assorbire. An-cora una volta il paradosso moderno viene spinto ancora più avanti. Un concetto di intenzionalità trasforma la distinzione, la se-parazione, la contraddizione in una tensione insormontabile tra oggetto e soggetto. Si abbandonano le speranze della dialettica per-ché la tensione non offre alcuna risoluzione. I fenomenologi hanno l'impressione di superare Kant, Hegel e Marx perché non attribui-scono più alcuna essenza né al puro soggetto né al puro oggetto. Hanno davvero la sensazione di non parlare d'altro che di media-zioni, senza che la mediazione sia agganciata ai poli. Eppure essi tracciano semplicemente un tratto tra poli ridotti pressoché a niente. Irrequieti modernizzatori, possono solo tendere ancora «la coscienza di qualche cosa», non più di una tenue passerella sopra un baratro che si allarga a poco a poco. Non potevano fare altro che cedere. Hanno ceduto. Nello stesso periodo, la doppia opera di Bachelard, esagerando ancora l'obiettività delle scienze, a forza di

Moltiplicazione dei quasi-oggetti

DIMENSIONE NONMODERNA

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rotture con il senso comune, ed esagerando simmetricamente la potenza senza oggetto dell'immaginario, a forza di strappi episte-mologici, rappresenta il simbolo di questa impossibile crisi, di que-sto squartamento.

La fine delle fini

Il seguito di questa storia ha una svolta involontariamente co-mica. Più la divaricazione si tende, più la faccenda assomiglia a un numero di equilibrismo. Fino a questo punto tutti i grandi movi-menti filosofici erano seri e profondi, fondavano, esploravano, ac-compagnavano la crescita prodigiosa dei quasi-oggetti, volevano credere nonostante tutto che fosse possibile arginarli e digerirli. Par-lavano solo di purezza, non tendevano che a cogliere l'opera degli ibridi. Tutti questi pensatori si interessavano appassionatamente alle scienze esatte, alle tecniche, alle economie, perché vi vedevano il loro pericolo e la loro salvezza. Ma che dire delle filosofie successive? E soprattutto, come chiamarle? Moderne? No, perché non cerca-vano più di reggere le due estremità della catena. Postmoderne? Non ancora: il peggio deve ancora arrivare. Chiamiamole prepostmo-derne, per indicare che operano una transizione. Esse innalzano quella che era stata una distinzione, poi una separazione, una con-traddizione e una tensione insormontabile, al livello dell'incom-mensurabilità.

Che non ci fosse un metro comune di misura tra il mondo dei soggetti e quello degli oggetti, tutta la Costituzione moderna lo aveva già sostenuto. Ma annullava immediatamente questa distanza praticando il contrario, misurando insieme umani e cose con lo stesso metro, moltiplicando, con il nome di intermediari, i media-tori. I prepostmoderni, invece, credono davvero che il soggetto parlante non sia commensurabile all'oggetto naturale e all'efficacia tecnica, oppure pensano che debba diventare incommensurabile se non lo è abbastanza. Azzerano il progetto moderno con la pre-

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tesa di salvarlo, perché seguono la metà della Costituzione che parla di purezza, ma ignorano l'altra metà che pratica solo l'ibridazione. Si immaginano che non ci siano, che non debbano esserci, media-tori. Sul versante dei soggetti inventano una parola: ermeneutica, il senso, e lasciano che il mondo delle cose vada lentamente alla deriva nel suo nulla. Indubbiamente sullo specchio opposto si ri-flette un atteggiamento simmetrico degli scienziati e dei tecnocrati. Quanto più l'ermeneutica svolge la sua matassa, tanto più il natu-ralismo fa lo stesso con la sua. Ma questa replica delle divisioni della storia diventa una caricatura: Changeux e i suoi neuroni da un lato, Lacan e i suoi analizzanti dall'altro. La coppia di gemelli non è più fedele alla volontà moderna, perché non si sforza più di pensare il paradosso che consiste nel moltiplicare gli ibridi dei quali si vieta d'altra parte l'esistenza.

Succede addirittura di peggio quando si vuol difendere il pro-getto moderno dal rischio di una scomparsa. È Habermas che esprime questo soprassalto disperato [Habermas, 1988]. Vuole forse dimostrare che nulla ha mai separato profondamente le cose dalle persone? Vuole riprendere il progetto moderno, far vedere le solu-zioni pratiche sotto le giustificazioni della Costituzione? Al contra-rio: egli considera che il massimo pericolo provenga dalla confu-sione tra i soggetti parlanti e pensanti e la pura razionalità naturale e tecnica, permessa dall'antica filosofia della conoscenza! «L'ho sug-gerito ogni volta al momento cruciale: occorreva sostituire il para-digma della conoscenza degli oggetti con quello dell'intesa tra sog-getti capaci di parlare e di agire» [p. 350], Se qualcuno si è mai sbagliato di avversario è proprio questo kantismo fuori posto in pieno XX secolo, che si sforza di allargare il baratro tra gli oggetti co-nosciuti dal soggetto da una parte e la ragione comunicativa dall'al-tra, mentre l'antica coscienza aveva almeno il merito di guardare all'oggetto e ricordare perciò l'origine artificiale della polarizzazione. Ma Habermas vuole rendere incommensurabili i due poli nel mo-mento stesso in cui i quasi-oggetti si moltiplicano al punto che sembra impossibile trovarne uno solo che assomigli un po' a un

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soggetto parlante libero o a un oggetto della natura reificata. Già Kant non ci riusciva più, in piena rivoluzione industriale: come po-trebbe farlo Habermas dopo la sesta o la settima rivoluzione? Il vec-chio Kant moltiplicava la stratificazione degli intermediari che gli permetteva di ristabilire le transizioni tra i noumeni e l'io trascen-dentale. Niente di simile quando la ragione tecnica va tenuta il più distante possibile dalla libera discussione degli umani.

Con i postmoderni succede come con la reazione feudale negli ultimi giorni àêïAncien Regime: mai l'onore fu tanto pignolo e il calcolo dei quarti di nobiltà tanto accurato, eppure era un po' tardi per tenere separati radicalmente il terzo stato e i nobili! Così, è un po' tardi per rifare il colpo della rivoluzione copernicana, facendo girare le cose attorno all'intersoggettività. Habermas e i suoi disce-poli mantengono il progetto moderno solo astenendosi da qualsiasi studio empirico [Habermas, 1987]; il terzo stato sarebbe troppo vi-sibile e si mischierebbe troppo intimamente con i poveri soggetti parlanti. Muoiano le reti, purché la ragione comunicativa sembri trionfare.

Ciò nondimeno, Habermas rimane onesto e rispettabile. Per-fino nella caricatura del progetto moderno è possibile riconoscere ancora lo sfavillio attenuato dei Lumi del XVIII secolo o l'eco della critica del XIX secolo. Anche in questa ossessione di separare og-gettività e comunicazione è possibile cogliere una traccia, un ri-cordo, una cicatrice dell'impossibilità di farlo. Con i postmoderni l'abbandono del progetto moderno è del tutto consumato. Non ho trovato una parola abbastanza volgare per definire questo mo-vimento, o meglio questa immobilità intellettuale, che abbandona umani e nonumani al loro destino. Non si tratta più di incom-mensurabilità, ma di «iper-incommensurabilità».

Un unico esempio sarà sufficiente a mostrare la disfatta del pen-siero e del progetto postmoderno. «Il filosofo che sono reca un bi-lancio disastroso» risponde Jean-François Lyotard a quei bravi scienziati che gli chiedevano di pensare il legame che unisce la scienza al collettivo umano:

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Io sostengo soltanto che l'espansione scientifica non ha nulla di umano. Forse il nostro cervello non è che il portatore provvisorio di un processo di complessificazione. Si tratterebbe ormai di separare questo processo da chi l'ha portato avanti fino a oggi. Sono convinto che sia ap-punto quello che state facendo voi [gli scienziati!]. L'informatica, la gene-tica, la fisica e l'astrofisica, l'astronautica, la robotica lavorano già nel senso della conservazione della complessità in condizioni di vita diverse da quelle presenti sulla terra. Ma non vedo in che cosa sia umano, se per umano si intendono le collettività con le loro tradizioni culturali, stabili-tesi da questa o da quell'epoca in regioni precise di questo pianeta. Che questo processo «a-umano» possa avere, accanto ai suoi effetti distruttivi, qualche ricaduta positiva per l'umanità, è una cosa di cui non dubito af-fatto. Ma questo non ha niente a che vedere con l'emancipazione del-l'uomo [Lyotard, 1988, p. xxxvill].

Agli scienziati, sorpresi da questo bilancio disastroso e ancora convinti dell'utilità dei filosofi, Lyotard ribatte lúgubremente: «Credo che dovrete aspettarci per un bel pezzo!». Ma la disfatta è quella del postmoderno [Hutcheon, 1989] e non quella della filo-sofia. I postmoderni si credono ancora moderni, perché accettano la divisione totale tra il mondo materiale e tecnico da un lato e i giochi del linguaggio dei soggetti parlanti dall'altro. Si sbagliano, però, perché senza dare nell'occhio hanno sempre moltiplicato gli intermediari, nel tentativo di pensare la formidabile crescita degli ibridi insieme alla loro depurazione. Le scienze sono sempre state collegate ai collettivi tanto intimamente quanto lo fu la pompa di Boyle al Leviatano di Hobbes. E la doppia contraddizione che è mo-derna: contraddizione tra le due garanzie costituzionali da una parte e tra la Costituzione e le pratiche di mediazione dall'altra. Credendo alla totale separazione dei tre termini, credendo davvero che gli scienziati siano extraterrestri, i postmoderni danno in effetti il colpo di grazia al modernismo, eliminando per sempre la molla che gli dà la tensione.

C'è solo una cosa da dire a favore dei postmoderni: dopo di

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loro non c'è più niente. Invece di essere il non plus ultra, essi se-gnano la fine delle fini, cioè dei modi di finire e di passare che pro-vocavano un succedersi vertiginoso e sempre più rapido di criti-che sempre più radicali e sempre più rivoluzionarie. Come potremmo andare al di là dell'assenza di tensione tra natura e so-cietà? Si dovrà immaginare una specie di super-iper-incommensu-rabilità? I pomo, come gli inglesi snob chiamano i postmoderni, sono la fine della storia, e la cosa più buffa è che ci credono dav-vero. E, per dimostrare di non essere ingenui, fanno finta di essere contenti di questa fine! «Non dovete aspettarvi niente da noi». No, proprio niente. Ma finire la storia non è in loro potestà, come non lo è il non essere ingenui. Si trovano semplicemente in un vicolo cieco, quello tracciato dalle avanguardie senza seguito. Lasciamoli dormire fino alla fine del millennio, come esorta Jean Baudrillard, e passiamo ad altro. O meglio, ritorniamo sui nostri passi. Smettia-mola di passare oltre.

Le svolte semiotiche

Mentre le filosofie della modernizzazione operavano questa di-varicazione tra i due poli della Costituzione per assorbire il prolife-rare dei quasi-oggetti, si attivava un'altra strategia per impadronirsi di quello che stava in mezzo e che continuava ad allargarsi. Invece di concentrarsi sugli estremi del lavoro di depurazione, questa stra-tegia si concentrava su una delle sue mediazioni, quella del lin-guaggio. Che le si chiamino «semiotica», «semiologia» o «svolta linguistica», tutte queste filosofie hanno l'obiettivo di rendere il di-scorso non un intermediario trasparente che metterebbe il soggetto in contatto con il mondo naturale, ma un mediatore indipendente tanto dalla natura quanto dalla società. Questa autonomizzazione della sfera del senso ha impegnato i migliori spiriti del nostro tempo negli ultimi cinquantanni. Se anche loro ci hanno cacciato in un vicolo cieco, non è perché avrebbero «dimenticato l'uomo» o

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«abbandonato il riferimento», come sostiene oggi la reazione mo-dernista, ma perché hanno limitato la propria impresa al solo di-scorso.

POLO NATURA LINGUAGGIO POLO SOGGETTO/SOCIETÀ

O 1 O

Figura 6

Queste filosofie non hanno ritenuto possibile rendere autonomo il senso se non mettendo tra parentesi, da un lato, la questione del riferimento al mondo naturale e dall'altro, l'identità dei soggetti parlanti e pensanti. Per loro il linguaggio occupa ancora questo luogo intermedio della filosofia moderna (il punto di incontro dei fenomeni, secondo Kant), ma invece di diventare più o meno tra-sparente o opaco, più o meno fedele o traditore, ha preso tutto lo spazio disponibile. Il linguaggio è diventato legge per sé e mondo per sé. Il «sistema della lingua», i «giochi linguistici», il «signifi-cante», la «scrittura», il «testo», la «testualità», il «narrato», il «di-scorso»: tali sono alcuni dei termini che designano l'Impero dei segni. Mentre le filosofie della modernità allargavano sempre più la distanza che separava soggetti e oggetti, rendendoli incommensu-rabili, le filosofie del linguaggio, del discorso o del testo occupavano lo spazio che si era liberato, credendosi lontanissime dalle nature e dalle società che avevano messo tra parentesi [Pavel, 1986].

La loro grande forza è consistita nello sviluppare, al riparo dalla doppia tirannia del referente e del soggetto parlante, i concetti che

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danno dignità ai mediatori, che non sono più semplici interme-diari o semplici veicoli che trasportano il senso dalla natura ai locu-tori o viceversa. Testo e linguaggio fanno il senso; producono inol-tre riferimenti interni ai discorsi e locutori posti nel discorso [Greimas e Courtès, 1979]. Per produrre nature e società non hanno bisogno che di se stessi, e solo la forma del narrato serve loro da materia. Venendo prima il significante, i significati si muo-vono intorno a lui senza alcun privilegio. Il testo diventa originale, quello che esprime o quello che veicola diventa secondario. I sog-getti parlanti si trasformano in altrettante finzioni generate dagli ef-fetti di senso; quanto all'autore, non è più che l'artefatto dei suoi stessi scritti [Eco, 1985]. Gli oggetti di cui si parla diventano effetti di realtà che scorrono sulla superficie della scrittura. Tutto diventa segno e sistema di segni: l'architettura e la culinaria, la moda e la mitologia, la politica e perfino l'inconscio [Barthes, 1985].

La grande debolezza di queste filosofie è stata quella di rendere più difficili i collegamenti tra un discorso reso autonomo e la natura o il soggetto/società che esse lasciavano intatti, sistemandoli provvi-soriamente nell'abbozzo. E davvero difficile credere che noi siamo un testo che si scrive da solo, un discorso che si parla da solo, un gioco di significante senza significato. Difficile ridurre il cosmo a un semplice racconto, la fisica delle particelle subatomiche a un testo, tutte le strutture sociali a un discorso. L'Impero dei segni non ha avuto una vita più lunga di quello di Alessandro e, come questo, è stato smembrato dai suoi generali [PaveI, 1988]. Qualcuno ha cercato di rendere meno irragionevole il sistema autonomo della lingua ristabilendo il soggetto parlante o addirittura il gruppo so-ciale e, a questo scopo, si è rivolto all'antica sociologia. Altri vole-vano rendere la semiotica meno assurda, ristabilendo il contatto con il referente, e hanno preso l'universo della scienza o quello del senso comune per ancorare a qualcosa il discorso. Sociologizzazione, na-turalizzazione, la scelta non è mai importante. Altri hanno mante-nuto l'orientamento generale dell'Impero e si sono messi a deco-struire, una chiosa dopo l'altra, fino all'autodissoluzione.

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Da questa svolta capitale abbiamo appreso che l'unico mezzo per sfuggire alle piaghe simmetriche della naturalizzazione e della sociologizzazione consiste nell'offrire al linguaggio la sua autono-mia. Come si può aprire altrimenti questo spazio intermedio tra le nature e le società per accogliervi i quasi-oggetti e i quasi-soggetti? Le semiotiche offrono un eccellente kit di utensili per individuare i tracciati delle mediazioni del linguaggio. Esse, però, eludendo il duplice problema dei legami con il referente e con il contesto, ci impediscono di seguire fino alla fine i quasi-oggetti che, come ho detto, sono nel contempo reali, discorsivi e sociali. Appartengono alla natura, al collettivo e al discorso. Se si rende autonomo il di-scorso, abbandonando la natura agli epistemologi e la società ai so-ciologi, non è più possibile rimettere insieme queste tre risorse.

La condizione postmoderna ha appunto cercato di giustapporre, senza collegarli, questi tre grandi repertori della critica: la natura, la società e il discorso. Se sono tenuti distinti e separati tutti e tre dal lavoro di ibridazione, forniscono una immagine davvero terrifi-cante del mondo moderno: una natura e una tecnica assolutamente levigate, una società fatta esclusivamente di riflessi, di sembianze, di illusioni, un discorso costituito soltanto da effetti di senso sconnessi da tutto. Se così fosse, in effetti, ci sarebbe da spararsi. Ecco che cosa provoca la cupa disperazione dei postmoderni, che prende il posto di quell'angoscia dei maestri dell'assurdo che li avevano pre-ceduti. Eppure non avrebbero mai raggiunto un tale grado di de-risione e di abbandono se non avessero creduto, per soprammer-cato, di aver dimenticato l'essere.

Chi ha dimenticato l'essere?

All'inizio, invece, il pensiero della differenza tra l'essere e gli enti sembrava un ottimo mezzo per trovare uno spazio per i quasi-og-getti, un mezzo che si aggiungeva a quello delle filosofie della mo-dernità come a quello delle svolte linguistiche. 1 quasi-oggetti non

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appartengono alla natura, alla società o al soggetto, ma non appar-tengono nemmeno al linguaggio. Operando una decostruzione della metafisica - ovvero la Costituzione moderna presa nel suo isolamento — Heidegger definisce il punto centrale dove ha luogo tutto, staccato sia dai soggetti come dagli oggetti. «Il sorprendente in questo pensiero dell'essere sta nella sua semplicità. E appunto quello che ci distanzia da lui» [Heidegger, 1964, p. 167]. Girando attorno a questo ombelico, a questo o^aXoq, il filosofo afferma appunto l'esistenza di un'articolazione tra la purificazione metafi-sica e l'opera di mediazione. «Il pensiero ripiomberà nella miseria della sua essenza provvisoria. Metterà insieme il linguaggio per il semplice dire. Così il linguaggio sarà il linguaggio dell'essere, come le nuvole sono le nuvole del cielo» [Heidegger, 1964, p. 172],

Ma questa bella semplicità il filosofo la smarrisce in fretta. Come mai? Per un'astuzia della storia, ne indica egli stesso il motivo in un apologo su Eraclito. Quest'ultimo si era sistemato nel forno di un panettiere. «Eivcu v«p Kai evxauGa öeouc», anche qui dentro ci sono gli dèi, spiega Eraclito ai visitatori che si stupivano nel vedere la sua povera carcassa scaldarsi come quella di un volgare mortale. «.Auch hier nämlich wesen Götter an» [p. 145]. Allo stesso modo Heidegger e i suoi epigoni non si aspettano di trovare l'essere se non sui sentieri che non portano da nessuna parte della Foresta Nera. Altrove c'è il deserto. Gli dèi non possono risiedere nella tec-nica-questo puro inventario dell'essere (Ge-Stell), questo destino ineluttabile {Geschick), questo pericolo supremo {Gefahr}. Non più nella scienza bisogna cercarli, perché essa non ha altra essenza se non quella della tecnica. Non si trovano nella politica, nella socio-logia, nella psicologia, nell'antropologia, nella storia - che è la sto-ria dell'essere e conta le sue epoche in millenni. Gli dèi non potreb-bero trovare ospizio nell'economia, questo puro calcolo invischiato per sempre nell'ente e nella Sorge. Non stanno più nella filosofia o nell'ontologia, che da duemilacinquecento anni hanno dimenti-cato il loro destino. Cosi Heidegger fa al mondo moderno quello che i visitatori fanno a Eraclito: lo copre di disprezzo.

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E tuttavia «anche qui sono presenti gli dèi»: nella centrale idroe-lettrica sulla riva del Reno, nelle particelle subatomiche, nelle cal-zature Adidas come nei vecchi zoccoli di legno fatti a mano, nell'a-grobusiness come nell'antico paesaggio, nei conti del bottegaio come nei versi strazianti di Hölderlin. Ma perché i filosofi non li sanno più riconoscere? Perché credono a quello che la Costituzione moderna racconta di se stessa! Questo paradosso non dovrebbe più sorprenderci. I moderni sostengono appunto che la tecnica non è altro che un puro dominio strumentale, che la scienza è puro in-ventario e pura im-posizione (Das Ge-Stell), che l'economia è puro calcolo, il capitalismo pura riproduzione, il soggetto pura co-scienza. Fanno finta che sia cosi, ma non bisogna dar loro retta, perché quanto affermano è soltanto la metà del mondo moderno: quel lavoro di depurazione che distilla quanto gli viene fornito dal lavoro di ibridazione.

Chi ha dimenticato l'essere? Ma nessuno, mai, altrimenti la na-tura sarebbe davvero «concepita come le scorte di un magazzino». Guardiamoci intorno: gli oggetti scientifici circolano ora come sog-getti, ora come oggetti, ora come discorsi. Le reti sono piene di es-sere. Quanto alle macchine, sono sovraccariche di soggetti e di col-lettivi. Come potrebbe l'ente perdere la sua frammentazione, la sua differenza, la sua incompiutezza, il suo marchio? Non è possibile per nessuno, altrimenti si dovrebbe supporre che siamo davvero stati moderni.

E dunque, c'è qualcuno che ha davvero dimenticato l'essere? SI, è proprio chi crede che l'essere sia stato dimenticato. Come dice Lévi-Strauss, «il barbaro è prima di tutto l'uomo che crede alla bar-barie». Chi ha trascurato di studiare empiricamente le scienze, le tecniche, il diritto, la politica, l'economia, la religione, la narrativa, ha perso le tracce dell'essere sparso in ogni dove tra gli enti. Se, di-sprezzando l'empiria, vi ritirate dalle scienze esatte, poi dalle scienze umane, poi dalla filosofia tradizionale, poi dalle scienze del lin-guaggio e vi ripiegate su voi stessi, nella vostra foresta, allora si che sentirete una tragica assenza. Ma siete voi gli assenti, non il mondo.

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Questa insigne debolezza, i seguaci di Heidegger l'hanno trasfor-mata in una forza. «Non conosciamo niente di empirico, ma non ha importanza, perché il vostro mondo è vuoto di essere. Noi con-serviamo, al riparo di tutto, la fiammella del pensiero dell'essere, mentre voi, che avete tutto il resto, non avete niente». Invece noi abbiamo tutto, perché abbiamo l'essere, gli enti, e perché non ab-biamo smarrito la differenza tra l'essere e gli enti. Portiamo noi a termine il progetto impossibile di Heidegger, che credeva a quello che la Costituzione moderna diceva di sé, senza comprendere che si trattava solo della metà di un dispositivo più grande, che non ha mai lasciato la vecchia matrice antropologica. Nessuno può dimen-ticare l'essere, perché un mondo moderno non è mai esistito e per-tanto non è mai esistita una metafisica. Siamo sempre pre-socratici, pre-cartesiani, pre-kantiani, pre-nietzscheani. Nessuna rivoluzione radicale può separarci da questi passati. Sì, la guida di Eraclito è più sicura di quella di Heidegger: «Eivcu yo.p Kai evravda deovg».

L'inizio del tempo che passa

Davanti alla proliferazione dei quasi-oggetti si sono elaborate tre strategie diverse: in primo luogo la separazione sempre più de-cisa tra il polo della natura (le cose in sé) e quello della società o del soggetto (gli umani tra loro); in secondo luogo l'autonomizzazione del linguaggio o del senso; e infine la decostruzione della metafisica occidentale. Quattro repertori diversi consentono alla critica di produrre i suoi acidi: quello della naturalizzazione, quello della so-ciologizzazione, quello della traduzione in discorso e quello dell'o-blio dell'essere. Nessuno dei quattro è in grado da solo di com-prendere il mondo moderno. Se li si mettono tutti e quattro insieme pur tenendoli divisi, le cose vanno ancora peggio, perché i risultati che sanno produrre possono solo portare a quella dispe-razione il cui sintomo è il postmoderno. Tutte queste risorse criti-che hanno la caratteristica comune di non seguire nello stesso

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tempo il lavoro di proliferazione e quello di depurazione. Per uscire dall'ondeggiamento dei postmoderni, basta riutilizzarle tutte, ma attaccandole una in fila all'altra e mettendole al servizio della serie riunificata dei quasi-oggetti o delle reti.

Ma com'è possibile far collaborare risorse critiche che si sono sviluppate solo attraverso i loro contrasti? Dobbiamo ritornare sui nostri passi, per aprire uno spazio intellettuale abbastanza ampio da accogliere insieme i compiti della depurazione e quelli della media-zione, ovvero il mondo moderno ufficiale e quello ufficioso. Ma come facciamo a procedere a ritroso? Il mondo moderno non è forse marcato dalla freccia del tempo? Non inghiotte il passato? Non ha rotto con lui per sempre? La ragione stessa della prostra-zione attuale non nasce appunto da un'epoca «post» moderna che succederebbe ineluttabilmente alla precedente, che a sua volta è succeduta, con una serie di catastrofici soprassalti, alle epoche pre-moderne? La storia non è già finita? Volendo accogliere i quasi-og-getti insieme alla loro Costituzione, eccoci costretti a considerare il quadro temporale dei moderni. Dato che ci rifiutiamo di venire «dopo» i postmoderni, non possiamo ritornare a quel mondo non-moderno che non abbiamo mai lasciato senza modificare il pas-saggio stesso del tempo.

Il fatto è che anche il tempo ha una longitudine e una latitu-dine. Nessuno ha espresso meglio questa idea di Péguy nella sua Cito, la più bella riflessione sulla mescolanza delle storie [Péguy, 1961]. Il tempo del calendario colloca si gli avvenimenti rispetto a una serie ben regolata di date, ma la storicità colloca gli stessi eventi in relazione alla loro intensità. È quello che la musa della storia spiega in modo bizzarro, mettendo a confronto i Burgraves di Victor Hugo (accumulazione di tempo senza storicità) con una breve frase di Beaumarchais (un esempio di storicità senza storia) [Latour, 1977]:

Quando mi si dice che Hatto, figlio di Magnus, marchese di Verona, burgravio di Nollig, è il padre di Gorlois, figlio (bastardo) di Hatto, bur-

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gravio di Sarek, non mi si dice niente, ella [Clio] afferma. Io non li cono-sco. Non li conoscerò mai. Ma quando mi si dice che Cherubino è morto nel pieno di un assalto cui non era comandato, allora si che mi si dice qual-cosa. E so bene di che cosa si parla. Un intimo trasalimento mi avverte che ho proprio capito [p. 276].

Ora, il passaggio moderno del tempo non è che una particolare forma di storicità. Da dove ci viene l'idea di un tempo che passa? Ma proprio dalla Costituzione moderna. C'è l'antropologia che ce lo ricorda: il passaggio del tempo si può interpretare in molti modi, come ciclo o decadenza, come caduta o instabilità, come ritorno o presenza continua. Chiamiamo temporalità l'interpretazione di questo passaggio, per distinguerla dal tempo. La caratteristica dei moderni è di comprendere il tempo che passa come se cancellasse davvero il passato dietro di lui. Tutti si considerano come tanti At-tila dietro ai quali non cresce più l'erba. Non si sentono distanti dal Medio Evo di un certo numero di secoli, ma separati da questo da tante rivoluzioni copernicane, da cesure epistemologiche, da rot-ture epistemiche talmente radicali che più niente sopravvive in loro di questo passato - che più niente di questo passato deve sopravvi-vere in loro.

«Questa teoria del progresso finisce con l'essere sostanzialmente una teoria da cassa di risparmio», dice Clio, che poi suppone: «Con l'accordo di tutti, essa crea una gigantesca cassa di risparmio universale, una cassa di risparmio comune a tutta l'umanità, una grande cassa di risparmio intel-lettuale, generale e anche universale, automatica per tutta la comunità umana. Automatica nel senso che l'umanità vi farebbe sempre versamenti e non ritirerebbe mai niente. E che le quote si aggiungerebbero senza sosta l'una all'altra. Tale è la teoria del progresso. E tale ne è lo schema. È uno sgabello per arrivare più in alto» [Péguy, 1961, p. 129].

Dato che quello che succede viene eliminato per sempre, i mo-derni hanno in effetti la sensazione di una freccia irreversibile del

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tempo, di una capitalizzazione, di un progresso. Ma siccome que-sta temporalità viene imposta a un regime temporale che funziona in tutt'altro modo, i sintomi di una discrepanza si moltiplicano. Come aveva rilevato Nietzsche, i moderni hanno la malattia della storia. Vogliono conservare tutto, datare tutto, perché pensano di aver rotto definitivamente con il proprio passato. Quanto più ac-cumulano rivoluzioni, tanto più conservano; quanto più capitaliz-zano, tanto più riempiono il museo. La distruzione maniacale è scontata per contrappasso con una conservazione altrettanto ma-niacale. Gli storici ricostruiscono il passato, particolare su partico-lare, con tanta più cura in quanto esso si è inabissato per sempre. Ma siamo tanto lontani dal nostro passato come vogliamo credere? No, perché la temporalità moderna è senza grandi effetti sul passag-gio del tempo. Quindi il passato rimane e addirittura ritorna. Que-sta risorgenza è incomprensibile per i moderni. La trattano allora come il ripresentarsi del rimosso. La rendono un arcaismo. «Se non stiamo attenti — pensano - finiremo con il tornare al passato, ri-piomberemo nelle età oscure». La ricostruzione storica e l'arcai-smo sono due dei sintomi dell'incapacità dei moderni di eliminare ciò che devono comunque eliminare per avere l'impressione che il tempo passi.

Se spiego che le rivoluzioni cercano di annullare il passato ma non ci riescono, inevitabilmente faccio la figura del reazionario. Il fatto è che per i moderni (come per i loro nemici antimoderni e per i loro finti nemici postmoderni) la freccia del tempo non ha ambi-guità: si può andare avanti, ma allora bisogna rompere con il pas-sato; si può scegliere di tornare indietro, ma allora bisogna rompere con le avanguardie modernizzatrici che hanno rotto radicalmente con il proprio passato. Questo diktat organizzava il pensiero mo-derno fino a questi ultimi anni, senza ovviamente incidere sulla pratica di mediazione, che ha sempre rimescolato epoche, generi e pensieri eterogenei come quelli dei premoderni. Se c'è una cosa che non siamo capaci di fare, adesso lo sappiamo, è proprio una ri-voluzione, sia nella scienza sia nella tecnica, in politica come in fi-

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losofia. Ma siamo ancora moderni quando interpretiamo questo fatto come un inganno giustapponendo in un collage gli elementi di ogni tempo, tutti ugualmente superati, fuori moda.

Il miracolo rivoluzionario

Qual è il legame tra la forma moderna della temporalità e la Co-stituzione moderna che coniuga, senza mai affermarlo, le due asim-metrie della società e della natura e che lascia per giunta proliferare gli ibridi? Perché la Costituzione moderna costringe a sentire il tempo come una rivoluzione che deve sempre ricominciare? Perché cancellagli annessi e connessi degli oggetti della natura e rende un mi-racolo il loro improvviso emergere.

Il tempo moderno è una successione di apparizioni inesplica-bili, anch'esse dovute alla distinzione tra la storia delle scienze o delle tecniche e la storia in sé. Se eliminate Hobbes, Boyle e le loro dispute, se cancellate il lavoro di realizzazione della pompa, lo sfrut-tamento dei colleghi, l'invenzione di un Dio barrato, la restaura-zione della monarchia inglese, come potrete dare conto delle sco-perte di Boyle? L'elasticità dell'aria non arriva più da nessuna parte. Irrompe all'improvviso, armata dalla testa ai piedi. Per spiegare quello che diventa un grande mistero dovrete costruire una imma-gine del tempo che sia adattata a questa irruzione miracolosa di oggetti nuovi che esistevano da sempre e di manufatti umani che nessun uomo ha mai realizzato. L'idea di rivoluzione radicale è l'u-nica soluzione che i moderni siano riusciti a concepire per spiegare l'irruzione degli ibridi che la loro Costituzione autorizza mentre la vieta e per evitare questa mostruosità: che le cose stesse abbiano una storia.

Ci sono valide ragioni per credere che l'idea di rivoluzione po-litica sia derivata da quella di rivoluzione scientifica [Cohen, 1985]. E si capisce perché. Come avrebbe potuto non essere una novità as-soluta la chimica di Lavoisier, visto che il grande scienziato cancellò

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tutte le tracce della sua costruzione e troncò tutti i legami che lo mettevano in relazione con i suoi predecessori, cosi affondati nel-l'oscurità? Che gli abbiano tagliato la testa con la stessa ghigliottina e in nome dello stesso oscurantismo è una ironia sinistra della sto-ria [Bensaude-Vincent, 1989]. La genesi delle innovazioni scienti-fiche o tecniche è così misteriosa all'interno della Costituzione mo-derna solo perché la trascendenza universale delle leggi locali e fabbricate diventa impensabile e tale deve restare per evitare lo scandalo. Quanto alla storia degli umani, resterà contingente, scossa dal frastuono e dal furore. Ci saranno allora due storie di-verse: una senza altra storicità che non sia quella delle rivoluzioni totali o delle rotture epistemologiche, che tratterà delle cose eterne, sempre già presenti, e l'altra che parlerà esclusivamente dell'agi-tarsi più o meno circostanziato e più o meno stabile dei poveri es-seri umani distaccati dalle cose.

Per questa distinzione tra il contingente e il necessario, tra lo storico e l'atemporale, la storia dei moderni sarà punteggiata dall'ir-ruzione dei nonumani (il teorema di Pitagora, l'eliocentrismo, la caduta dei gravi, la macchina a vapore, la chimica di Lavoisier, la vaccinazione di Pasteur, la bomba atomica, il computer) e ogni volta si calcolerà il tempo partendo da questi splendidi esordi, con-ferendo laicità all'incarnazione delle scienze trascendenti nella sto-ria. Si distinguerà un tempo «prima» e uno «dopo» il computer, come uno «avanti Cristo» e «dopo Cristo». Con la voce stentorea che spesso annuncia il destino moderno, si arriverà a parlare di una «concezione giudaico-cristiana del tempo», mentre si tratta di un anacronismo, perché né i mistici ebraici né i teologi cristiani ave-vano una pur minima inclinazione nei confronti della Costituzione moderna. Il loro regime cronologico era costruito attorno alla Pre-senza (cioè a Dio), non all'emergenza del vuoto, del DNA, dei chip o delle officine robotizzate...

La temporalità moderna non ha niente di «giudaico-cristiano», niente, per fortuna, di duraturo. È una proiezione dell'Impero di Mezzo sulla linea trasformata in freccia dalla separazione brutale tra

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ciò che non ha storia, pur emergendo comunque al suo interno (le cose della natura), e ciò che non esce mai dalla storia (i travagli e le passioni degli umani). L'asimmetrìa tra natura e cultura diventa così un'asimmetria tra passato e futuro. Il passato era la confusione tra umani e cose, l'avvenire è ciò che non le confonderà più. La moder-nizzazione consiste da sempre nell'uscire da un'epoca oscura che mescolava i bisogni sociali e la verità scientifica, per entrare in una nuova che finalmente distinguerà con chiarezza ciò che appartiene alla natura atemporale da quello che viene dagli umani. Il tempo moderno deriva da una sovrapposizione della differenza tra il pas-sato e il futuro su quell'altra differenza, che altrimenti sarebbe più importante, tra la mediazione e la depurazione. Il presente si con-figura con una serie di radicali rotture, le rivoluzioni, che costitui-scono un insieme di denti di arresto che impediscono per sempre di tornare indietro. Di per sé questa linea è vuota come la scan-sione di un metronomo. Eppure è su di questa che i moderni proiettano la moltiplicazione dei quasi-oggetti e tracciano, grazie a loro, due serie in progressione, una verso l'alto, il progresso, e l'al-tra verso il basso, la decadenza.

La fine del passato sorpassato

La mobilitazione del mondo e dei collettivi su una scala sempre più grande moltiplica in effetti gli attori che compongono le nostre nature e le nostre società. Ma nulla, in questa mobilitazione, mi comporta un passaggio ordinato e sistematico del tempo. Eppure, grazie alla forma così strana della loro temporalità, i moderni rior-dinano la proliferazione dei nuovi attori come se fosse una capita-lizzazione, un'accumulazione di conquiste, ma anche come una in-vasione di barbari, una sequela di catastrofi. Il progresso e la decadenza sono i loro due grandi repertori e hanno la stessa origine. Su ognuna di queste tre linee sarà possibile ritrovare gli antimo-derni, che conservano la temporalità dei moderni invertendone il

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senso. Per cancellare il progresso o la degenerazione, sognano un ri-torno al passato... come se esistesse un passato!

Da dove proviene quell'impressione così moderna di vivere un tempo nuovo, che rompe con il passato? Da un legame, da una ri-petizione che di per sé non ha niente di temporale [Deleuze, 1968]. L'impressione di un passare irreversibile nasce soltanto quando ri-cuciamo insieme la congerie di elementi che compongono il nostro universo quotidiano. La loro coesione sistematica e la loro sostitu-zione con altri, resi coerenti con il periodo successivo, ci danno l'impressione di un tempo che passa, di un flusso continuo che va dall'avvenire al passato, di una scaletta. Bisogna che le cose proce-dano tutte allo stesso passo e siano sostituite da altre ben allineate perché il tempo diventi un flusso. La temporalità moderna è il ri-sultato di questa disciplina.

La stessa pompa a vuoto non è moderna più di quanto non sia rivoluzionaria. Essa associa, combina e risistema innumerevoli at-tori, tra i quali se alcuni sono sì di fresca data (il re d'Inghilterra, il vuoto, il peso dell'aria), nel complesso non si possono considerare nuovi. La loro coesione non è tale che sia possibile rompere netta-mente con il passato. Occorre tutto un lavoro supplementare di classificazione, di ripulitura e di ripartizione. Se mettiamo le sco-perte di Boyle nell'eternità in modo che piombino sull'Inghilterra in un sol colpo; se le attacchiamo a quelle di Galileo e di Cartesio, legandole a un «metodo scientifico», e se alla fine respingiamo come arcaica la fede di Boyle nei miracoli, riusciamo ad avere l'im-pressione di un tempo moderno radicalmente nuovo. Il concetto di freccia irreversibile (progresso o decadenza) nasce dalla sistema-zione dei quasi-oggetti la cui crescita è impossibile da spiegare per i moderni. L'irreversibilità del corso del tempo è anch'essa dovuta alla trascendenza delle scienze e delle tecniche, che sfuggono in ef-fetti a qualsiasi comprensione. È un processo di classificazione che vuole dissimulare l'inconfessabile origine delle entità naturali e so-ciali. Come i moderni eliminano gli annessi e i connessi di tutti gli ibridi, cosi interpretano le risistemazioni eterogenee come totalità

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sistematiche, ove tutto ritrova il suo posto. Il progresso moderniz-zatore non è pensabile se non a condizione che tutti gli elementi che sono contemporanei secondo il calendario appartengano allo stesso tempo. Essi devono pertanto formare un sistema completo e riconoscibile. In questo caso, e in questo caso solamente, il tempo forma un flusso continuo e progressivo, del quale i moderni si pro-clamano l'avanguardia e gli antimoderni la retroguardia.

Tutto, però, si imbroglia se i quasi-oggetti confondono le epo-che, le ontologie e i diversi generi. Ben presto un periodo storico darà la sensazione di un gran lavoro di bricolage. Invece di un bel flusso laminare se ne avrà uno pieno di turbolenze, di gorghi e di rapide. Da irreversibile che era, il tempo diventa reversibile. All'i-nizio la cosa non preoccupa affatto i moderni. Tutto quello che non procede al passo con il progresso viene considerato arcaico, ir-razionale e conservatore. E dato che ci sono gli antimoderni ansiosi di svolgere il ruolo di reazionari previsto per loro dalla sceneggia-tura moderna, è possibile mettere in scena, per il piacere degli spet-tatori, i grandi drammi del progresso luminoso in lotta contro l'o-scurantismo (o l'antidramma della follia della rivoluzione contro la ragionevolezza della conservazione). Ma perché la temporalità mo-dernizzatrice continui a funzionare, l'impressione di un fronte or-dinato deve restare credibile. Bisogna quindi che non ci siano troppi esempi contrari. Se questi si moltiplicano continuamente, non è più possibile parlare di arcaismi o di ritorno del rimosso.

La proliferazione dei quasi-oggetti ha incrinato la temporalità dei moderni insieme alla loro Costituzione. La loro fuga in avanti si è bloccata una ventina o forse una decina di anni fa, o magari solo un anno fa, con il moltiplicarsi di quelle eccezioni per le quali nessuno riusciva più a trovare un posto nel flusso regolare del tempo. Ci sono stati prima i grattacieli dell'architettura postmo-derna, poi la rivoluzione islamica di Khomeini, della quale nes-suno è riuscito a dire se fosse in anticipo o in ritardo. Da allora le eccezioni non hanno più smesso di manifestarsi. Nessuno riesce più a inquadrare in un solo gruppo coerente gli attori che apparten-

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gono allo «stesso tempo». Chi riesce più a dire se l'orso dei Pirenei, i kolchoz, le bombole spray, la rivoluzione verde, la vaccinazione antivaiolosa, le guerre stellari, la religione musulmana, la caccia alla pernice, la Rivoluzione francese, l'impresa di terzo tipo, i sindacati degli enti elettrici, la fusione fredda, il bolscevismo, la relatività, il nazionalismo sloveno sono superati, al passo con i tempi, futuribili, atemporali, inesistenti o eterni? È questa spirale nel flusso del tempo che i postmoderni hanno così bene avvertito nelle avan-guardie artistiche e in quelle politiche [Hutcheon, 1989].

Come al solito il postmoderno è un sintomo e non una terapia: esso «rivela l'essenza della modernità come l'epoca della riduzione dell'essere al novum [...]. La postmodernità non fa che cominciare, e l'identificazione dell'essere con il novum [...] continua a gettare la sua ombra su di noi, come il Dio già morto di cui parla la Gaia Scienza» [Vattimo, 1987, p. 173]. I postmoderni conservano il con-testo moderno, ma disperdono gli elementi che i modernizzatori in-quadravano in ranghi ben ordinati. I postmoderni hanno ragione riguardo alla dispersione (qualunque assemblea contemporanea è multitemporale), ma hanno torto a conservare il contesto e a cre-dere ancora all'esigenza di continua novità di cui si faceva bello il modernismo. Mescolando gli elementi del passato sotto forma di collage e di citazione, i postmoderni ammettono che queste cita-zioni sono davvero superate. E appunto per questo che le vanno a snidare, per scioccare le vecchie avanguardie che non sanno più a che santo votarsi. Ma la citazione provocatoria di un passato dav-vero compiuto è ben lontana dalla ripresa, dalla ripetizione, dal ri-mescolamento di un passato che non sarebbe mai scomparso.

Selezione e tempi multipli

Niente per fortuna ci costringe a conservare la temporalità mo-derna, con la sua successione di rivoluzioni radicali, con i suoi an-timoderni che ritornano a quello che credono essere il passato e il

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suo doppio concerto di elogi e di critiche a favore o contro il pro-gresso continuo, a favore o contro la continua degenerazione. Non siamo per sempre agganciati a questa temporalità che non ci fa comprendere né il nostro passato né il futuro e che ci spinge a la-sciare nel dimenticatoio della storia tutti i terzi mondi, umani e nonumani. Per meglio dire, i tempi moderni hanno smesso di pas-sare, né ci deve dispiacere, perché la nostra storia reale ha avuto soltanto rapporti piuttosto vaghi con quel letto di Procuste che i modemizzatori e i loro avversari le avevano imposto.

Il tempo non è un quadro generale, ma il risultato provvisorio del legame tra gli esseri. La disciplina moderna assemblava la coorte degli elementi contemporanei, la riuniva, la sistematizzava in modo da tenerli insieme eliminando quelli che non appartenevano al si-stema. Il tentativo è fallito, non è mai riuscito. Non ci sono più, non ci sono mai stati altro che elementi che sfuggono al sistema, oggetti di incerta data e di incerta durata. Non sono soltanto i Be-duini o i !Kung che mischiano transistor e comportamenti tradizio-nali, i secchi di plastica e quelli in pelle di animale. Qual è quel paese del quale non si può dire che sia una «terra di contrasti»? Ab-biamo finito tutti con il mischiare i tempi. Siamo ridiventati tutti premoderni. Se non possiamo più progredire come moderni, dob-biamo regredire come antimoderni? No, dobbiamo passare da una temporalità all'altra, perché ogni temporalità, di per sé, non ha niente di temporale. E un modo per collegare insieme gli elementi. Se noi modifichiamo il principio di classificazione, con gli stessi avvenimenti abbiamo un'altra temporalità.

Supponiamo, per esempio, di mettere insieme gli elementi con-temporanei lungo una spirale e non lungo una retta. Abbiamo sì un futuro e un passato, ma il futuro ha la forma di un cerchio che si espande in tutte le direzioni e il passato non è superato, ma ripreso, ripetuto, circondato, protetto, ricombinato, reinterpretato, rifatto. Alcuni elementi che sembravano lontani seguendo la linea della spirale, si possono ritrovare vicinissimi da un anello all'altro, men-tre altri che sembravano contemporanei se visti su una linea, si al-

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lontanano se percorriamo un raggio. Una temporalità di questo genere non ci costringe a mettere le etichette di «arcaico» e di «avanzato», perché tutta la schiera degli elementi contemporanei può coniugarsi ad altri di ogni tempo. In questo contesto le nostre azioni appaiono in definitiva come multitemporali.

Mi può capitare di usare un trapano elettrico insieme a un mar-tello. Il primo strumento ha venticinque anni, il secondo centinaia di migliaia. Questo forse mi fa considerare un tipo che rappezza in-sieme i «contrasti» solo perché compio gesti di età diverse? Sono di-ventato una curiosità etnografica? Fatemi vedere invece un'attività che sia omogenea dal punto di vista dei tempi moderni. Alcuni dei miei geni hanno cinquecento milioni di anni, altri tre milioni, altri centomila anni, le mie abitudini possono risalire a qualche giorno fa come a qualche millennio. Come diceva la Clio di Péguy, come ripete Michel Serres dopo di lei, «noi siamo persone che scambiano e miscelano il tempo» [Serres, 1992]. E questo scambio che ci de-finisce, e non il calendario o il flusso che i moderni avevano co-struito per noi. Ammassate i burgravi uno dietro l'altro: non avrete mai il tempo. Scendete trasversalmente, per cogliere la morte di Cherubino in tutta la sua intensità, e il tempo vi sarà dato.

Siamo allora elementi tradizionali? Non più di tanto. L'idea di una tradizione stabile è una illusione della quale gli antropologi hanno già da molto tempo fatto giustizia. Nelle ultime ventiquat-tr'ore le tradizioni immutabili sono cambiate tutte. La maggior parte degli elementi di folklore ancestrale sono come il «secolare» kilt degli scozzesi, completamente inventato all'inizio del XIX secolo [Hobsbawn, 1983] o come gli Chevaliers du tastevin del mio paese in Borgogna, il cui rituale millenario ha solo cinquant'anni. «I po-poli senza storia» sono stati inventati da chi si riteneva radicalmente nuovo [Goody, 1979]. In pratica, i primi innovano senza sosta e i secondi passano e ripassano perennemente per le stesse rivoluzioni e per le stesse controversie. Non si nasce tradizionali, si decide di di-ventarlo con molte innovazioni. L'idea di una ripetizione identica del passato e quella di una rottura radicale con tutto il passato sono

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risultati simmetrici di una stessa concezione del tempo. Non pos-siamo ritornare al passato, alla tradizione, alla ripetizione, perché questi grandi regni immobili sono l'immagine rovesciata di questo mondo che oggi ci viene promesso: la fuga in avanti, la rivoluzione permanente, la modernizzazione.

Che fare, se non possiamo andare né avanti né indietro? Dob-biamo spostare la nostra attenzione. Non siamo mai andati avanti o indietro. Abbiamo fatto sempre una selezione accurata di elementi che appartengono a tempi diversi. Possiamo continuare a farla. E la cernita che fa il tempo, e non il tempo che fa la cernita. Il moderni-smo, con i suoi corollari anti e postmoderni, era semplicemente la selezione operata da pochi a nome di tutti. Se saremo in tanti a re-cuperare la capacità di selezionare da soli gli elementi che fanno parte del nostro tempo, ritroveremo quella libertà di movimento che il modernismo ci negava e che nei fatti non abbiamo mai vera-mente perso. Non siamo emersi da un passato oscuro che confon-deva nature e culture, per emergere in un futuro nel quale final-mente i due insiemi sono separati di netto, grazie alla continua rivoluzione del presente. Non siamo mai stati immersi in un flusso omogeneo e planetario proveniente sia dall'avvenire sia dalla profon-dità dei tempi. La modernizzazione non c'è mai stata. Non è una marea che sale da tanto tempo e che oggi starebbe rifluendo. La marea non c'è mai stata. Possiamo dunque passare ad altro, ritornare alle molteplici cose che sono accadute in modo diverso.

Una controrivoluzione copernicana

Se ci fosse stato possibile ricacciare più a lungo alle nostre spalle le folle umane e l'ambiente nonumano, probabilmente avremmo potuto continuare a credere che i tempi moderni passassero dav-vero, eliminando tutto al loro passaggio. Ma il rimosso ritorna. Le masse umane sono di nuovo qui: quelle dell'Est come quelle del Sud, e l'infinita varietà delle masse nonumane, le masse dell'O-

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vunque. Non è più possibile sfruttarle. Non è più possibile supe-rarle, perché non c'è niente che le superi. Non c'è più niente di più grande della natura circostante; le popolazioni dell'Est non sono più ridotte alle loro avanguardie proletarie; quanto alle masse del terzo mondo, nulla riuscirà a circoscriverle. Come faremo a sbarazzarcene? si chiedono con ansia i moderni. Come faremo a modernizzarle tutte? Era possibile, si credeva; non è più credibile. Come un immenso piroscafo, prima rallentato e poi impigliato nel Mar dei Sargassi, il tempo dei moderni si è infine bloccato. Il tempo è fatto dal legame tra gli esseri. Il flusso del tempo moderno era fatto dal collegamento sistematico dei contemporanei in un tutto coerente. Adesso questo flusso laminare è diventato turbo-lento: possiamo abbandonare le analisi del quadro vuoto della tem-poralità e ritornare al tempo che passa, cioè agli esseri e alle loro re-lazioni, alle reti costruttrici di irreversibilità e di reversibilità.

Ma come si fa a modificare il principio di classificazione degli es-seri? Come dare alle folle illegittime una rappresentazione, un li-gnaggio, uno stato civile? Come faremo a esplorare questa terra in-cognita che pure ci è tanto familiare? Come potremo passare dal mondo degli oggetti o da quello dei soggetti a questi che ho defi-nito quasi-oggetti e quasi-soggetti? E passare dalla natura trascen-dente/immanente a quella, sempre altrettanto reale, estratta dal la-boratorio e poi trasformata in realtà esterna? Come spostarsi dalla società immanente/trascendente in direzione dei collettivi compo-sti da umani e nonumani? Come muoversi dal Dio barrato, tra-scendente/immanente, a quello delle origini, che forse si dovrà chiamare Dio del di sotto? Come arrivare alle reti, a questi esseri con una topologia tanto strana e con una ontologia ancora più in-solita, al cui interno sta la capacità di collegare e di selezionare, cioè di produrre il tempo e lo spazio? Come si fa a pensare l'Impero di Mezzo? L'ho già detto: dobbiamo tracciare nello stesso tempo la dimensione moderna e quella nonmoderna, la latitudine e la lon-gitudine che ci permettano di disegnare le carte adatte all'opera di mediazione come a quella di depurazione.

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I moderni sapevano come si pensa questo Impero. Lo facevano sparire con un lavoro di pulizia e di denegazione. Ogni volta che l'opera di mediazione era compiuta, cominciava quella di depura-zione. Ogni quasi-oggetto, ogni ibrido era concepito come una mescolanza di forme pure. Le spiegazioni dei moderni consiste-vano perciò nel clivaggio di queste amalgame, da cui si estraeva quello che proveniva dal soggetto (o dal sociale) e quello che deri-vava dall'oggetto. Poi si moltiplicavano gli intermediari per ricom-porre l'unità attraverso la mescolanza di forme pure. Questi pro-cessi di analisi e di sintesi avevano tre aspetti: una depurazione preventiva, una separazione frazionata, una nuova e progressiva miscelazione. La spiegazione critica partiva sempre dai due poli e si dirigeva verso il centro, prima punto di sfaldamento e poi nuovo punto di incontro delle risorse contrapposte. Così il centro era nello stesso tempo conservato e abolito.

POLO NATURA PUNTO DI CLIVAGGIO

E DI INCONTRO

POLO SOGGETTO/ SOCIETÀ

a o INTERMEDIARI

DEPURAZIONE **-^ COMPOSIZIONE

La spiegazione parte da uno o dall'altro degli estremi e si avvicina al punto

di incontro moltiplicando gli intermediari.

Figura 7

Se cerchiamo di rendere visìbile l'Impero di Mezzo da solo, siamo costretti a rovesciare la forma generale delle spiegazioni. Il punto di clivaggio e di incontro diventa quello di partenza. Le spiegazioni

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non procedono più dalle forme pure ai fenomeni, ma dal centro verso gli estremi. Questi non sono più i punti di aggancio della realtà, ma solo risultati provvisori e parziali. Lo sfaldamento degli in-termediari è sostituito da catene di intermediari, secondo il mo-dello proposto da Antoine Hennion che è alla base di questo saggio [Hennion, 1991]. Invece di negare l'esistenza degli ibridi - ricosti-tuendoli maldestramente con il nome di intermediari - questo mo-dello esplicativo permette di integrare l'opera di depurazione in quanto caso particolare di mediazione. In altre parole, la spiegazione tramite mediazione comprende anche la Costituzione, mentre quest'ultima, presa da sola, nega ciò che le dà senso. Il che ci dice quanto il senso della parola «mediazione» si discosti da quello di «intermediario» o di «mediatore», inteso come ciò che diffonde o che disloca un lavoro di produzione o creazione che gli sfuggirebbe [Debray, 1991].

POLO NATURA

OPERA DI DEPURAZIONE

POLO SOGGETTO/SOCIETÀ o OPERA DI MEDIAZIONE

La spiegazione parte dai mediatori e ottiene gli estremi come risultati, mentre l'opera di depurazione diventa una mediazione particolare.

Figura 8

La rivoluzione copernicana di Kant, come abbiamo visto prima, offre il modello compiuto delle spiegazioni modernizzatrici, fa-cendo ruotare l'oggetto intorno a un nuovo centro e moltiplicando gli intermediari per annullare a poco a poco la distanza. Ma niente ci obbliga a prendere questa rivoluzione come un evento decisivo,

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che ci avrebbe messo una volta per tutte sulla strada sicura della scienza, della morale e della teologia. Questo rovesciamento è come quello della Rivoluzione francese a esso connesso: sono utili stru-menti per rendere il tempo irreversibile, ma non sono essi stessi ir-reversibili. Chiamo controrivoluzione copernicana questo rovescia-mento del rovesciamento. O, per meglio dire, questo passaggio dagli estremi verso il centro e verso il basso, che fa ruotare il sog-getto come l'oggetto intorno alla pratica dei quasi-oggetti e dei me-diatori. Non abbiamo bisogno di agganciare le nostre spiegazioni alle due forme pure dell'oggetto e del soggetto/società, perché sono queste ultime, invece, a essere risultati parziali e depurati della pra-tica centrale, la sola che ci interessa. Sono prodotti del processo di cracking e non la sua materia prima. La natura ruota sì, ma non in-torno al soggetto/società. Ruota intorno al collettivo che produce umani e cose. L'Impero di Mezzo si trova finalmente rappresen-tato. I suoi satelliti sono le nature e le società.

Dagli intermediari ai mediatori

Avendo operato la controrivoluzione copernicana, e avendo posto il quasi-oggetto al di sopra e a uguale distanza dalle antiche «cose in sé» e dagli antichi «umani tra loro», quando ritorniamo alla pratica di sempre ci rendiamo conto che non c'è più ragione di limi-tare a due le varietà ontologiche (o a tre, contando il Dio barrato).

La pompa a vuoto, che ci è servita finora da esempio, è una va-rietà ontologica per conto suo? Nel mondo della rivoluzione coper-nicana dovremmo scinderla in due: una parte che andrebbe a sini-stra e che diventerebbe «legge naturale», un'altra che andrebbe a destra e che si trasformerebbe nella «società inglese del XVII secolo», e magari ce ne sarebbe anche una terza, il fenomeno, che caratteriz-zerebbe il luogo vuoto nel quale dovrebbero congiungersi le prime due. Poi, moltiplicando gli intermediari, dovremmo riawicinare quello che abbiamo appena allontanato. Diremmo che la pompa di

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laboratorio «rivela» o «rappresenta» o «materializza» o «consente di cogliere» le leggi di natura. Diremmo anche che le «rappresenta-zioni» dei ricchi gentiluomini inglesi permettono di «interpretare» la pressione dell'aria e di «accettare» l'esistenza di un vuoto. Avvi-cinandoci di più al punto di incontro e di clivaggio, passeremmo dal contesto globale a quello locale e mostreremmo come le azioni di Boyle e la pressione della Royal Society permettano di capire i di-fetti della pompa, le sue perdite, le sue aberrazioni. Moltiplicando i termini di intermediazione avremmo finito per rincollare le due parti prima infinitamente distanti della natura e del sociale.

Ho messo le cose al meglio, ipotizzando storici simmetrici. Pur-troppo, in pratica troveremo solo storici dell'Inghilterra del XVII

secolo che non si interessano affatto della pompa, se non facen-dola apparire miracolosamente dal cielo delle idee per stabilire la loro cronologia. D'altro canto, gli scienziati e gli epistemologi de-scriveranno la fisica del vuoto senza preoccuparsi affatto dell'In-ghilterra e tanto meno di Boyle. Lasciamo queste due attività asim-metriche, con una che dimentica i nonumani e l'altra gli umani, e facciamo un bilancio della spiegazione precedente, che tendeva co-munque alla simmetria.

Con una spiegazione di questo genere, in fondo non sarebbe successo niente. Per spiegare la nostra pompa ad aria, noi avremmo affondato la mano alternativamente nell'urna che contiene per sempre gli esseri della natura e in quella che raccoglie le sempi-terne energie del mondo sociale. La natura è sempre uguale a se stessa. La società è sempre composta dalle stesse risorse, dagli stessi interessi, dalle stesse passioni. Nell'ottica moderna, natura e so-cietà rendono possibile la spiegazione perché non sono loro che spiegano. Esistono sì gli intermediari, la cui funzione è appunto quella di fare da legame tra loro, ma non sono loro a fissare il le-game, perché non hanno alcuna dignità ontologica. Non fanno altro che trasportare, veicolare, spostare la potenza degli unici due esseri reali: la natura e la società. È vero che possono far male il loro lavoro, possono essere infedeli o ottusi. Ma questa infedeltà

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non conferisce loro alcuna importanza autonoma, anzi è ciò che di-mostra appunto la loro condizione di intermediari. Sono privi di competenza originale. Nella peggiore delle ipotesi sono bruti o schiavi, nella migliore sono servitori leali.

Se operiamo la controrivoluzione copernicana, siamo costretti a prendere molto più sul serio l'opera degli intermediari, perché essi non devono più trasmettere la potenza della natura e quella della società e perché invece producono, su entrambe, gli stessi effetti di realtà. Se contiamo adesso le entità dotate di autonomia, ne tro-viamo molto più di due o tre. Ne troviamo dozzine. La natura ha 0 non ha orrore del vuoto? Esiste o no un autentico vuoto nella pompa, o le è scivolato dentro qualche etere sottile? Come faranno 1 testimoni della Royal Society a rendere conto delle perdite della pompa? Come farà il re d'Inghilterra a consentire che si ricominci a parlare delle proprietà della materia e si ricostituiscano cenacoli privati, proprio quando si stava cominciando a sistemare la que-stione del potere assoluto? L'autenticità dei miracoli trova o no conforto nella meccanizzazione della materia? Boyle diventerà un ricercatore rispettabile dedicandosi a questi esperimenti volgari e abbandonando la spiegazione deduttiva, l'unica degna di uno scienziato? Tutte questioni che non sono più incastrate tra la natura e la società, perché tutte ridefiniscono ciò che può la natura e ciò che e la società. Natura e società non sono più i termini esplicativi, ma ciò che richiede una spiegazione congiunta [Latour, 1989a], In-torno al funzionamento della pompa si ricostituiscono un nuovo Boyle, una nuova natura, una nuova teologia dei miracoli, un nuovo modo di rapportarsi degli scienziati, una nuova società che d'ora in poi comprenderà il vuoto, gli scienziati e il laboratorio.

Non spiegheremo più l'autenticità dell'innovazione della pompa immergendo alternativamente una mano nelle due urne della na-tura e della società. Riempiremo, invece, queste urne o, quanto-meno, ne cambieremo profondamente il contenuto. La natura uscirà modificata dal laboratorio di Boyle, e così sarà per la società inglese, ma anche Boyle e Hobbes non saranno più gli stessi. Que-

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ste metamorfosi sono incomprensibili se da sempre sono esistite soltanto la natura e la società o se la prima rimane eternamente immutabile e solo la seconda è agitata dalla storia. Le metamorfosi diventano invece comprensibili se ridistribuiamo l'essenza a tutti gli esseri che fanno parte di questa storia. In tal caso, però, essi non sono più semplici intermediari più o meno fedeli, ma si trasfor-mano in mediatori, cioè in attori capaci di tradurre ciò che tra-sportano, di ridefinirlo, di riposizionarlo, perfino di tradirlo. I servi sono ridiventati liberi cittadini.

Conferendo a tutti i mediatori l'essere, fino a quel punto prigio-niero nella natura o nella società, si rende già più comprensibile il passaggio del tempo. Nel mondo della rivoluzione copernicana, dove tutto doveva svolgersi tra i due poli della natura e della società, la storia in fondo non contava niente. Non si faceva altro che sco-prire la natura, mostrare la società, o sovrapporre l'una all'altra. I fe-nomeni non erano altro che l'incontro di elementi già presenti da sempre. C'era sì una storia contingente, ma per i soli umani, di-sgiunta dalla necessità delle cose naturali. Partendo dal centro, in-vertendo il senso della spiegazione, prendendo l'essenza accumulata alle due estremità per distribuirla all'insieme degli intermediari, elevando questi alla dignità completa di mediatori, la storia diventa effettivamente possibile. Il tempo non sta lì per niente, ma per qualcosa. Succede davvero qualcosa a Boyle, all'elasticità dell'aria, al vuoto, alla pompa pneumatica, al re, a Hobbes. Tutti ne escono diversi da prima. Tutte le essenze si trasformano in eventi, l'elasti-cità dell'aria allo stesso titolo della morte di Cherubino. La storia non è più soltanto quella degli umani, diventa anche quella delle cose naturali [Serres, 1989].

Dalla cosa in sé alla messa in discussione

Questa controrivoluzione copernicana arriva a modificare il posto dell'oggetto, facendolo uscire dalla cosa in sé e portandolo al

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collettivo, senza per questo avvicinarlo alla società. Per arrivare a questo spostamento, a questa discesa, l'opera di Serres non è meno importante di quella di Shapin e Schaffer o di quella di Hennion. «Cerchiamo di descrivere l'emergenza dell'oggetto, non solo dell'u-tensile o della bella statua, ma della cosa in generale, in termini ontologici. Come l'oggetto è arrivato all'ominità» scrive Michel Serres in uno dei suoi libri più importanti [Serres, 1987, p. 162]. Ma il problema è che non riesce a

trovare niente nei libri che dica l'esperienza primitiva nel corso della quale l'oggetto in quanto tale costituì il soggetto ominico, perché i libri si scrivono per ricoprire di oblio quell'empiria o per murare la porta e per-ché i discorsi scacciano con il loro frastuono quello che avvenne in quel si-lenzio [p. 216].

Esistono centinaia di miti che raccontano come il soggetto (o il collettivo, o l'intersoggettività, o le episteme) costruiscono l'og-getto: la rivoluzione copernicana di Kant non è che un esempio di una lunga serie. Invece non esiste niente che ci racconti l'altro aspetto della storia: come l'oggetto fa il soggetto. Shapin e Schaffer hanno raccolto migliaia di pagine di archivio sulle idee di Boyle e di Hobbes, ma non hanno niente sulla pratica tacita della pompa pneumatica o sull'abilità manuale che richiedeva. Le testimonianze di questa seconda metà della storia non sono costituite da testi o da lingue, ma da resti silenziosi o brutali, come pompe, pietre o statue. Anche se l'archeologia di Serres si colloca vari strati più in alto di quella della pompa ad aria, va a cozzare contro lo stesso silenzio.

Il popolo di Israele recita i suoi salmi davanti al Muro del pianto sman-tellato: del tempio non rimane più una pietra sull'altra. Che ha visto, che ha fatto, che ha pensato il saggio Talete davanti alle piramidi di Egitto, in un tempo tanto antico per noi quanto il nome di Cheope suonava arcaico alle sue orecchie, per inventare la geometria davanti a questo ammasso di pietre? Tutto l'islam sogna il viaggio alla Mecca dove si conserva, nella

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Ka'ba, nera, la pietra. La scienza moderna nasce, nel Rinascimento, dalla ca-duta dei gravi: cadono le pietre. Come mai Gesù ha fondato la Chiesa cri-stiana su un uomo che si chiamava Simone detto la Pietra? In questi esempi di instaurazione, mescolo intenzionalmente religioni e saperi [p. 213].

Per quale ragione dovremmo prendere sul serio una generalizza-zione così frettolosa di queste pietrificazioni che mette insieme la sacra pietra nera e la caduta dei gravi di Galileo? Per la stessa ragione per cui ho preso sul serio il lavoro di Shapin e Schaffer, «che mescola intenzionalmente religioni e saperi nei suoi esempi di instaurazione» della scienza e della politica moderne. Essi hanno ficcato nell'episte-mologia un nuovo attore sconosciuto, la pompa ad aria, messa in-sieme in qualche modo e piena di perdite. Serres vi aggiunge un altro attore misconosciuto, le cose silenziose. Tutti e tre lo fanno per la stessa ragione antropologica: la scienza e la religione sono collegate da una profonda reinterpretazione del significato di dimostrazione o prova. Per Boyle e per Serres, la scienza è una branca del diritto:

In tutte le lingue d'Europa, a Nord come a Sud, la parola «cosa», qua-lunque forma le si dia, ha come origine o radice la parola «causa», attinta dal diritto, dalla politica o dalla critica in generale. Come se gli oggetti stessi non esistessero che in seguito ai dibattiti di un'assemblea o alla sen-tenza pronunciata da una giuria. Il linguaggio vuole che il mondo pro-venga esclusivamente da sé. Almeno è quello che sostiene [p. 111].

Così la lingua latina chiamava la cosa res, termine da cui noi facciamo derivare la realtà, l'oggetto della procedura giudiziaria o la causa stessa, di modo che, per gli antichi, l'accusato aveva il nome di reus perché i magi-strati lo citavano in giudizio. Come se la sola realtà umana venisse esclu-sivamente dai tribunali [p. 307].

Qui ci aspetta il miracolo e la soluzione dell'ultimo enigma. Il termine «causa» designa la radice o l'origine della parola «cosa»: causa, chose o anche thing o ding. [...] Il tribunale mette in scena l'identità di causa e cosa, della parola e dell'oggetto, o del passaggio sostitutivo dall'una al-l'altro. Qui emerge una cosa [p. 294].

HO

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È così che Serres generalizza con tre citazioni i risultati che Sha-pin e Schaffer avevano messo insieme con tanta fatica: le cause, le pietre e i fatti non occupano mai la posizione della cosa in sé. Boyle si chiedeva come far cessare le guerre civili. Costringendo la mate-ria a essere inerte, chiedendo a Dio di non essere direttamente pre-sente, costruendo un nuovo spazio chiuso all'interno di un reci-piente dove diventava manifesta l'esistenza del vuoto, rinunciando a condannare i testimoni per le loro opinioni. Non ci sarà più nes-suna accusa ad hominem, ci dice Boyle, non si crederà più ad alcun testimone umano: faranno fede solo gli indicatori e gli strumenti nonumani osservati da alcuni gentiluomini. L'ostinato accumulo di matters offact stabilirà i fondamenti del collettivo pacificato. Que-sta invenzione dei fatti non è tuttavia la scoperta di cose out there: è una creazione antropologica che ridistribuisce Dio, la volontà, l'amore, l'odio, la giustizia. Serres non dice niente di diverso. Non abbiamo alcuna idea dell'aspetto che avrebbero le cose fuori dal tribunale, fuori dalle nostre guerre civili, fuori dai nostri processi e palazzi di giustizia. Senza accusa non abbiamo cause da intentare e non possiamo attribuire cause ai fenomeni. Questa situazione an-tropologica non è limitata al nostro passato prescientifico, anzi ap-partiene soprattutto al nostro presente scientifico.

Così, non viviamo affatto in una società che sarebbe moderna perché, diversamente da tutte le altre, si sarebbe finalmente affran-cata dall'inferno delle relazioni collettive, dall'oscurantismo della religione, dalla tirannia della politica, ma perché, dopo tutte le altre, essa ridistribuisce le accuse, sostituendo una causa (giudizia-ria, collettiva, sociale) con un'altra (scientifica, non sociale, matter-of-factuaJ). Da nessuna parte è possibile osservare un soggetto o un oggetto, una società che sarebbe primitiva e un'altra moderna. So-stituzioni, spostamenti, traduzioni in serie mettono in moto popoli e cose su una scala sempre più ampia.

Mi immagino all'origine un rapido turbine dove trarrebbe alimento la costituzione trascendentale dell'oggetto da parte del soggetto, come di ri-

III

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mando la costituzione simmetrica del soggetto da parte dell'oggetto, in se-micicli folgoranti e ripresi ininterrottamente, che ritornano all'origine. [...] Esiste un trascendentale obiettivo, condizione costitutiva del soggetto per apparizione dell'oggetto come oggetto in generale. Della condizione in-versa o simmetrica sul ciclo turbinante, disponiamo di testimonianze, di tracce o ricordi scritti in labili lingue. [...] Ma della condizione costitutiva diretta a partire dall'oggetto abbiamo testimoni tangibili, concreti, visibili, formidabili, taciti. Per quanto a fondo si possa scendere nel chiacchiericcio della storia o nel silenzio della preistoria, essi sono sempre presenti [p. 209].

Serres, in questa sua opera così poco moderna, ci racconta una pragmatogonia favolosa come la vecchia cosmogonia di Esiodo o quella di Hegel. La sua non procede per metamorfosi o per dialet-tica, ma per sostituzioni. Le nuove scienze che derivano, pietrifi-cano i collettivi in cose che nessuno ha fatto, sono soltanto le ultime arrivate in questa lunga mitologia delle sostituzioni. Coloro che se-guono le reti o che studiano le scienze non compiono altro che l'en-nesimo giro di quella spirale di cui Serres ci ha tracciato il favoloso inizio. La scienza contemporanea è un modo per protrarre quello che abbiamo sempre fatto. Hobbes costruisce un corpo poliuco par-tendo da nudi corpi animati: si ritrova con la gigantesca protesi del Leviatano; Boyle concentra tutto il dissenso delle guerre civili sulla pompa ad aria: si ritrova con i fatti. Ogni cerchio della spirale defi-nisce un nuovo collettivo e una nuova obiettività. Il collettivo che si rinnova continuamente, che si organizza attorno a cose che si rinno-vano continuamente, non ha mai smesso di evolversi. Non siamo mai usciti dalla matrice antropologica: siamo ancora nelle età oscure o, se si preferisce, siamo ancora all'infanzia del mondo.

Ontologie a geometria variabile

Dopo che si è conferita storicità a tutti gli attori per poter acco-gliere la proliferazione dei quasi-oggetti, la natura e la società non

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esistono più dell'Ovest e dell'Est. Diventano comodi punti di rife-rimento relativi, che i moderni utilizzano per differenziare gli inter-mediari, dei quali alcuni si definiranno «naturali» e altri «sociali», mentre altri ancora si diranno «completamente naturali» o «com-pletamente sociali».

Gli analisti che tendono verso sinistra saranno definiti piuttosto realisti, quelli che tendono verso destra piuttosto costruttivisti [Pickering, 1992]. Chi vuole tenersi al giusto mezzo inventerà in-numerevoli combinazioni per mescolare la natura con la società (o con il soggetto), alternando la «dimensione simbolica» delle cose e la «dimensione naturale» delle società. Altri ancora, più imperiali-sti, cercheranno di naturalizzare la società integrandola nella na-tura, o di socializzare la natura facendola digerire dalla società (o -il che è più difficile - dal soggetto).

Comunque questi riferimenti e queste discussioni rimangono monodimensionali. Classificare l'insieme delle entità secondo la linea che va dalla natura alla società equivarrebbe a redigere una carta geografica con la sola longitudine, riducendola cosi a un unico tratto! La seconda dimensione permette di conferire tutte le latitudini alle entità e di stendere la carta che illustra, come ho detto prima, la Costituzione moderna e nello stesso tempo la sua pratica.

Come definiremo questo equivalente del Nord e del Sud? Me-scolando le metafore, dirò che va definita come un gradiente che farà variare continuamente la stabilità delle entità dall'evento all'es-senza. Non sappiamo ancora niente della pompa ad aria quando diciamo che è la rappresentazione delle leggi della natura, o la rap-presentazione della società inglese, o ancora un'applicazione della prima sulla seconda o di questa su quella. Dobbiamo ancora dire se si tratta della pompa ad aria-evento del XVII secolo oppure della pompa ad aria-essenza stabilizzata nel XVIII o nel XX secolo. Il grado di stabilizzazione (la latitudine) ha la stessa importanza della posi-zione sulla linea che va dal naturale al sociale (la longitudine).

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POLO NATURA

- O - f

ESSENZA POLO SOGGETTO/SOCIETÀ

C' A'

latitudine E vuoto n. 5 E"

C vuoto n. 3

B' D D" r O -

D vuoto n. 4

B vuoto n. 2 A vuoto n. 1

ESISTENZA

longitudine

Figura 9

L'ontologia dei mediatori è quindi a geometria variabile. Quello che Sartre diceva degli umani, cioè che l'esistenza precede la loro es-senza, bisogna dirlo di tutti gli agenti, dell'elasticità dell'aria come della società, della materia come della coscienza. Non dobbiamo scegliere tra il vuoto n. 5, realtà della natura esteriore la cui essenza non dipende da alcun umano, e il vuoto n. 4, rappresentazione la cui definizione ha richiesto secoli per i pensatori occidentali. O meglio, non potremo più scegliere tra questi due vuoti una volta che si siano stabilizzati. Del vuoto n. 1, nel laboratorio di Boyle, molto instabile, non siamo in grado di dire se sia naturale o so-ciale, ma solo che si verifica artificialmente in laboratorio. Il vuoto n. 2 può essere un manufatto umano, a meno che non si trasformi nel vuoto n. 3, che comincia a diventare una realtà sfuggente per l'uomo. Che cos'è dunque il vuoto? Nessuno dei precedenti. L'es-senza del vuoto è la traiettoria che li collega tutti. In altre parole, l'e-lasticità dell'aria ha una storia. Ogni singolo agente possiede un suo contrassegno unico nello spazio cosi organizzato. Per tracciarli,

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non dobbiamo fare alcuna ipotesi sull'essenza della natura o su quella della società. Se li sovrapponiamo tutti, avremo la forma di ciò che i moderni chiamano a torto, per riassumere e depurare, «natura» e «società».

Ma se proiettiamo tutte queste traiettorie sull'unica retta che collega il vecchio polo della natura a quello della società, non riu-sciamo più a capire niente. Tutti i punti (A, B, C, D, E) verranno proiettati sulla sola latitudine (A', B', C', D', E'), con il punto A che si trova localizzato al posto dei vecchi fenomeni, dove nello scena-rio moderno si suppone appunto che non avvenga nulla. Con que-sta unica retta, i realisti e i costruttivisti potranno battersi per cento e sette anni per interpretare il vuoto; i primi sosterranno che nes-suno ha fabbricato questo fatto reale, i secondi che solo le nostre mani hanno modellato questo fatto sociale; i sostenitori del giusto mezzo si barcameneranno tra ì due significati del termine «fatto», servendosi a proposito e a sproposito della formula «non solo... ma anche...». Il fatto è che la fabbrica sta sopra questa retta nel lavoro di mediazione, visibile solamente se teniamo conto anche del grado di stabilizzazione (B", C", D", E").

Per le grandi masse della natura e della società avviene quello che è successo per le piattaforme tettoniche dei continenti raffred-dati. Se vogliamo capirne i movimenti, dobbiamo scendere in que-ste fosse ribollenti dove irrompe il magma e da cui si formano, molto più tardi e molto più lontano, per raffreddamento e accu-mulo progressivo, le due piattaforme continentali su cui poggiamo saldamente i piedi. Anche noi dobbiamo scendere e accostarci a questi luoghi dove si formano le commistioni che apparterranno, seppur molto più tardi, alla natura o alla società. È forse troppo chiedere che nei nostri dibattiti d'ora in poi si precisi la latitudine delle entità di cui parliamo insieme alla longitudine, e che si con-siderino tutte le essenze come traiettorie?

Adesso il paradosso dei moderni ci appare più chiaro. Utiliz-zando ora l'opera di mediazione, ora quella di depurazione, ma rappresentando solo la seconda, hanno giocato allo stesso tempo

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sulla trascendenza e sull'immanenza delle due istanze, quella della natura e quella della società. Questo ha messo nelle loro mani quat-tro risorse contraddittorie, grazie alle quali hanno potuto fare qual-siasi cosa. Ora, se stendiamo la mappa delle varietà ontologiche, ci accorgiamo che non esistono quattro regioni, ma solo tre. La dop-pia trascendenza, della natura da un lato e della società dall'altro, corrisponde alle essenze stabilizzate. Per contro, l'immanenza delle nature-naturanti e dei collettivi corrisponde a una sola e identica regione, quella dell'instabilità degli eventi, quella del lavoro di me-diazione. La Costituzione moderna ha quindi ragione, esiste dav-vero un abisso tra natura e società, ma questo non è che un risul-tato tardivo della stabilizzazione. L'unico abisso che conta separa il lavoro di mediazione dalla formazione costituzionale, ma questo abisso diventa, grazie alla stessa proliferazione degli ibridi, un gra-diente continuo che noi siamo in grado di percorrere da quando ri-diventiamo quello che non abbiamo mai smesso di essere, cioè nonmoderni. Se alla versione ufficiale e stabile della Costituzione aggiungiamo quella ufficiosa e calda o instabile, è invece il centro che si riempie, mentre gli estremi si svuotano. Capiamo cosi perché i nonmoderni non possono succedere ai moderni: essi non fanno che ufficializzare la pratica obliqua di questi ultimi. Con una pic-cola controrivoluzione, riusciamo finalmente ad avere una com-prensione retrospettiva di quello che abbiamo sempre fatto.

Collegare i quattro repertori moderni

Ridisegnando le due dimensioni moderne e nonmoderne, ope-rando questa controrivoluzione copernicana che sposta tanto l'og-getto quanto il soggetto verso il centro e verso il basso, saremo forse in grado di fare tesoro delle migliori risorse critiche. I moderni hanno sviluppato quattro repertori diversi, che credono incompa-tibili, per accogliere la proliferazione dei quasi-oggetti. Il primo tratta la realtà esterna di una natura che noi non controlliamo, che

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esiste fuori di noi e che non ha le nostre passioni e i nostri desideri, anche se siamo capaci di attivarla e di costruirla. Il secondo tratta il legame sociale, ciò che unisce gli umani tra loro, le passioni e i de-sideri che ci agitano, le forze personificate che strutturano la so-cietà, qualcosa che sta sopra di noi anche se lo costruiamo noi. Il terzo tratta del significato e del senso, degli agenti che compon-gono la storia che ci raccontiamo, delle prove cui sono sottoposti, delle avventure che devono affrontare, dei tropi e dei generi che li organizzano, dei grandi racconti che ci dominano completamente, pur essendo semplici testi o discorsi. Il quarto, infine, parla del-l'essere e decostruisce quello che dimentichiamo sempre quando ci preoccupiamo soltanto dell'ente, anche se la differenza dell'essere è sparsa tra gli enti, è coestensiva alla loro stessa esistenza.

Queste risorse sono incompatibili soltanto nella visione uffi-ciale della Costituzione. In pratica, facciamo fatica a distinguerle. Mescoliamo senza pudore i nostri desideri alle cose, il senso al so-ciale, il collettivo ai racconti. Seguendo le tracce di un quasi-og-getto, esso ci pare ora cosa, ora racconto, ora legame sociale, senza mai ridursi a un semplice ente. La nostra pompa a vuoto designa la spinta dell'aria, ma traccia anche la società del XVII secolo e de-finisce anche un nuovo genere letterario, quello della relazione di una esperienza di laboratorio. Seguendola, dovremmo sostenere che tutto è retorica, che tutto è naturale, che tutto è costruzione sociale o che tutto è esame? Dovremmo supporre che la stessa pompa è, nella sua essenza, ora un oggetto, ora un legame sociale, ora un discorso? O che è un po' di tutte e tre le cose? Che talvolta è un semplice ente, e talvolta è segnato, sfalsato, spezzato dalla differenza? E se fossimo noi, i moderni, che dividiamo artificial-mente un'unica traiettoria, che non sarebbe all'inizio né oggetto, né soggetto, né effetto del senso, né puro ente? Se la separazione dei quattro repertori fosse applicabile soltanto a enti stabilizzati e maturi?

Non c'è niente che dimostri che queste risorse restino incompa-tibili quando passiamo dalle essenze agli eventi, dalla depurazione

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alla mediazione, dalla dimensione moderna a quella nonmoderna, dalla rivoluzione alla controrivoluzione copernicana. Dei quasi-og-getti quasi-soggetti, noi diremo semplicemente che tracciano una rete: essi sono davvero reali e non li abbiamo fatti noi, gli umani. Ma sono collettivi, perché ci collegano gli uni agli altri, perché cir-colano tra le nostre mani e con questa circolazione ci definiscono. Però, sono discorsivi, narrati, storici, appassionati e popolati di agenti dalla forma autonoma. Sono instabili e rischiosi, esistenziali e portatori di essere. Questo collegamento dei quattro repertori ci permette di costruire una dimora abbastanza ampia per accogliervi l'Impero di Mezzo, la vera casa comune del mondo nonmoderno insieme alla sua Costituzione.

La sintesi risulta impossibile finché restiamo davvero moderni, perché la natura, il discorso, la società, l'essere ci superano infinita-mente, e finché questi quattro insiemi non sono definiti che dalla loro separazione, che preserva le nostre garanzie costituzionali. Ma la continuità diventa possibile se aggiungiamo alle garanzie la pra-tica che essa autorizza in quanto la nega. I moderni hanno effetti-vamente ragione a volere insieme la realtà, il linguaggio, la società e l'essere. Hanno solo torto quando li credono sempre in contrad-dizione. Invece di analizzare continuamente il percorso dei quasi-oggetti separando queste risorse, non possiamo invece scrivere come se esse dovessero legarsi continuamente l'una all'altra? Probabil-mente così riusciremmo a uscire dalla prostrazione postmoderna.

Confesso che ne ho fin sopra la testa di trovarmi sempre bloc-cato in un solo linguaggio o imprigionato nelle sole rappresenta-zioni sociali. Voglio avere accesso alle cose stesse e non ai loro feno-meni. Il reale non è tanto lontano, ma accessibile in tutti gli oggetti attivati in ogni dove. La realtà esterna non abbonda proprio in mezzo a noi?

Ne abbiamo più che abbastanza di essere sempre dominati da una natura trascendente, inconoscibile, inaccessibile, esatta e sem-plicemente vera, popolata da entità assopite come la Bella Addor-mentata fino al giorno in cui gli affascinanti scienziati finalmente

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la scoprono. I nostri collettivi sono più attivi, più produttivi, più socializzati di quanto non facciano pensare le noiose cose-in-sé.

Non siete un po' stufi di queste sociologie costruite sul sociale e che stanno in piedi grazie alla sola ripetizione dei termini «potere» e «legittimità» perché non possono inglobare il mondo degli oggetti e quello dei linguaggi che pure le costruiscono? I nostri collettivi sono più reali, più naturalizzati, più discorsivi di quanto non fac-ciano pensare quei noiosi umani-tra-loro.

Siamo stanchi dei giochi di parole e dell'eterno scetticismo e della decostruzione del senso. Il discorso non è un mondo a sé, ma una popolazione di agenti che si mescolano alle cose come alle so-cietà, che fanno si che le une e le altre stiano in piedi. Interessarci ai testi non ci distoglie dalla realtà, perché le cose hanno diritto, anche loro, alla dignità di essere racconti. Quanto ai testi, perché negare loro la dignità di essere il legame sociale che ci tiene insieme?

Non ne posso più di essere accusato, io come i miei contempo-ranei, di aver dimenticato l'essere, di vivere in un mondo infimo svuotato di tutta la sua sostanza, di tutto il suo sacro, di tutta l'arte, oppure di essere costretto, per ritrovare i suoi tesori, a perdere il mondo storico, scientifico e sociale in cui vivo. Applicarsi alle scienze, alle tecniche, ai mercati, alle cose, non ci allontana dalla differenza dell'essere e degli enti più che dalla società, dalla politica o dal linguaggio.

Reali come la natura, narrati come il discorso, collettivi come la società, esistenziali come l'essere: cosi sono i quasi-oggetti che i mo-derni hanno fatto proliferare, e cosi conviene seguirli ridiventando semplicemente quello che non abbiamo mai smesso di essere: non-moderni.

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CAPITOLO QUARTO

Relativismo

Come mettere fine all'asimmetria?

All'inizio di questo saggio avevo proposto l'antropologia come mo-dello di descrizione del nostro mondo, perché solo questa disci-plina poteva riunire in un tutt'uno la strana traiettoria dei quasi-og-getti. Avevo però ammesso che questo modello non era proprio praticabile in quanto non si applicava alle scienze e alle tecniche. Se le etnoscienze erano in grado di rintracciare i legami che le collega-vano al mondo sociale, questo non era possibile per le scienze esatte. Per comprendere come mai era tanto difficile applicare alle reti socio-tecniche del nostro mondo la stessa libertà di comporta-mento, ho dovuto prima capire che cosa intendevamo per mo-derno. Se con questo intendiamo quella Costituzione ufficiale che deve distinguere completamente gli umani dai nonumani, in effetti non è possibile avere un'antropologia del mondo moderno. Ma se noi presentiamo nello stesso tempo la Costituzione e il lavoro di mediazione che le dà senso, ci accorgiamo a posteriori di non essere mai stati davvero moderni. Così l'antropologia, che fino a quel

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momento ha continuato a inciampare sulle scienze e sulle tecniche, può ridiventare il modello di descrizione che andavo cercando. In-capace di confrontare i premoderni ai moderni, essa potrebbe in-vece confrontarli ai nonmoderni.

Purtroppo non è facile riutilizzare l'antropologia così com'è. Fatta dai moderni per capire quello che non erano, questa disci-plina ha interiorizzato nelle sue pratiche, nei suoi concetti, nelle sue domande, l'impossibilità di cui parlavo prima [Bonte e Izard, 1991]. Si guarda bene dallo studiare gli oggetti della natura e limita la portata delle sue indagini alle sole culture. E resta asimmetrica. Per questo, per trasformarla in antropologia comparata e permet-terle di andare e venire dai moderni ai nonmoderni, bisogna ren-derla simmetrica. A tale scopo deve diventare capace di affrontare non le credenze che non ci toccano direttamente (davanti alle quali siamo sempre critici), ma le conoscenze alle quali offriamo un'ade-sione totale. Occorre perciò renderla capace di studiare le scienze superando i limiti della sociologia della conoscenza e, soprattutto, dell'epistemologia.

Gli studi sulle scienze e sulle tecniche sono stati messi sottosopra dal primo principio di simmetria, che esige che l'errore e la verità siano trattati negli stessi termini [Bloor, 1982], Fino a quel punto la sociologia della conoscenza spiegava solamente, per un gran nu-mero di fattori sociali, le deviazioni rispetto al cammino diritto della ragione. L'errore poteva spiegarsi socialmente, ma al vero toc-cava spiegarsi da solo. Si poteva spiegare la credenza nei dischi vo-lanti ma non la conoscenza dei buchi neri, si potevano spiegare le illusioni della parapsicologia, ma non il sapere degli psicologi, gli errori di Spencer ma non le certezze di Darwin. Non era possibile applicare fattori sociali dello stesso tipo a entrambi. In questi due pesi e due misure si ritrova l'antica distinzione antropologica tra scienze (non studiabili) ed etnoscienze (studiabili).

I presupposti della sociologia della conoscenza non avrebbero reso timidi gli etnologi tanto a lungo se gli epistemologi non aves-sero innalzato al rango di principio fondante questa stessa asim-

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metria tra scienze vere e false. Si possono collegare al contesto so-ciale solo queste ultime (le scienze «in prescrizione»). Quanto alle scienze «sanzionate», diventano scientifiche proprio nella misura in cui si sottraggono a qualsiasi contesto, a ogni traccia di contami-nazione, a qualunque prima evidenza, sfuggendo perfino al loro passato. Sta qui la differenza, secondo Bachelard e i suoi allievi, tra storia e storia delle scienze. La prima può essere simmetrica, ma non è importante perché non tratta mai di scienza; la seconda non deve mai esserlo perché la rottura epistemologica resti totale.

Basterà un solo esempio per dimostrare dove può portare la ne-gazione di un'antropologia simmetrica. Quando Canguilhem di-stingue tra ideologie scientifiche e vere scienze, sostiene non solo che è impossibile studiare Darwin (lo scienziato) e Diderot (l'ideo-logo) negli stessi termini, ma che deve essere impossibile ficcarli nello stesso sacco [Canguilhem, 1968], «La separazione tra ideolo-gia e scienza deve impedire di mettere in continuità, in una storia delle scienze, qualche elemento di una ideologia apparentemente preservato e la costruzione scientifica che tale ideologia ha desti-tuito: cercare per esempio nel Sogno di d'Alembert anticipazioni al-l'Origine della specie» [p. 45]. Scientifico è solamente ciò che ha rotto per sempre con l'ideologia. Secondo questo principio è in ef-fetti difficile seguire i quasi-oggetti in tutti i loro annessi e con-nessi. Se finissero nelle mani di un epistemologo, tutte le loro radici verrebbero strappate. Resterebbe soltanto l'oggetto, rescisso da ogni rete che gli dava senso. Ma perché parlare anche di Diderot e di Spencer, perché interessarsi anche all'errore? Perché senza l'errore il vero sarebbe troppo abbagliante! «L'intersecarsi dell'ideologia e della scienza deve impedire di ridurre la storia di una scienza alla banalità di uno storico, cioè a un quadro senza le ombre dei ri-lievi» [p. 45]. Il falso è la spalla del vero. Quello che Racine faceva per il re Sole spacciandosi per storico, Canguilhem lo fa per Darwin sotto l'etichetta, altrettanto usurpata, di storico delle scienze.

Il principio di simmetria invece ristabilisce la continuità, la sto-

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ricità e, diciamolo, la giustizia. Bloor è l'anti-Canguilhem, come Serres è Fanti-Bachelard, cosa che tra l'altro spiega l'incompren-sione totale che c'è in Francia riguardo alla sociologia delle scienze come riguardo all'antropologia di Serres [Bowker e Latour, 1987]. «Non c'è mito più puro dell'idea di una scienza depurata da ogni mito» scrive quest'ultimo quando rompe con l'epistemologia [Ser-res, 1974, p. 259]. Per lui, come per gli storici delle scienze propria-mente detti, Diderot, Darwin, Malthus e Spencer vanno spiegati sulla base degli stessi principi e delle stesse cause; se volete dar conto della credenza nei dischi volanti, verificate se le vostre spiegazioni sono utilizzabili simmetricamente per i buchi neri [Lagrange, 1990]; se criticate la parapsicologia, siete capaci di utilizzare gli stessi fattori per la psicologia [Collins e Pinch, 1991b]? Se analiz-zate i successi di Pasteur, gli stessi termini sapranno spiegarvi anche i suoi fallimenti [Latour, 1984] ?

Innanzi tutto, il primo principio di simmetria suggerisce di sot-toporre le spiegazioni a una cura dimagrante. Era diventato così facile rendere conto dell'errore! La società, le credenze, l'ideologia, i simboli, l'inconscio, la follia, tutto si offriva con tale facilità che le spiegazioni se ne riempivano la pancia. Ma, e il vero? Eliminando questa facilità di rottura epistemologica, ci siamo accorti, noi che studiamo la scienza, che gran parte delle nostre spiegazioni non valeva un gran che. L'asimmetria le organizzava tutte e non faceva che dare il calcio dell'asino ai vinti. Cambia tutto se, attenendoci al principio di simmetria, siamo costretti a conservare soltanto quelle cause che potrebbero servire al vincitore come al vinto, al successo come al fallimento. Facendo una taratura precisa per tenere la sim-metria in equilibrio, lo scarto che ne risulta ci permette di capire come mai qualcuno vince e qualcuno perde [Latour, 1989b]. Chi pesava i vincitori con una bilancia e i perdenti con un'altra, escla-mando come Brenno «.vae vietisi, rendeva finora incomprensibile questo scarto.

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Il principio di simmetria generalizzato

Il primo principio di simmetria offre l'incomparabile vantaggio di liberarci delle rotture epistemologiche, delle separazioni a priori tra scienze «sanzionate» e scienze «in prescrizione», o dalle divisioni artificiali tra sociologia della conoscenza, delle credenze e delle scienze. Non molto tempo fa, quando l'antropologo ritornava dai suoi territori lontani per ritrovare a casa sua le scienze ripulite dal-l'epistemologia, non era in grado di stabilire alcuna continuità tra le etnoscienze e i saperi. Per questo si asteneva, a ragione, dallo stu-diare se stesso e si accontentava di analizzare le culture. Adesso, quando ritorna e scopre al suo paese studi sempre più numerosi sulle sue scienze e le sue tecniche, il baratro è già meno profondo. Può passare senza grande pena dalla fisica cinese a quella inglese [Needham, 1991]; dai navigatori delle Trobriand a quelli della US Navy [Hutchins, 1983]; dai calcolatori dell'Africa occidentale ai matematici californiani [Rogoff e Lave 1984]; dai tecnici della Costa d'Avorio ai premi Nobel di La Jolla [Latour, 1988a] ; dai sa-crifici al dio Baal all'esplosione del Challenger [Serres, 1987]. Non è più costretto a limitarsi alle culture, perché anche la natura o le nature diventano parallelamente studiabili.

Tuttavia, il principio di simmetria stabilito da Bloor porta rapi-damente a una impasse [Latour, 1991]. Se obbliga a una disciplina di ferro rispetto alle spiegazioni, è anch'esso asimmetrico come ci si renderà conto dal prossimo diagramma [vedi Figura 10].

Questo principio esige in effetti di spiegare il vero e il falso negli stessi termini, ma quali sono i termini che sceglie? Quelli offerti dalle scienze della società ai discendenti di Hobbes. Invece di spie-gare il vero con l'adeguamento alla realtà naturale e il falso con la costrizione delle categorie sociali, delle episteme o degli interessi, pretende di spiegare il vero come il falso con le stesse categorie, delle stesse episteme e gli stessi interessi. È dunque asimmetrico non più in quanto divide, come gli epistemologi, l'ideologia e la scienza, ma perché mette tra parentesi la natura e mette tutto il

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POLO NATURA POLO SOGGETTO/SOCIETÀ

SPIEGAZIONI ASIMMETRICHE

Il vero si esplica II falso si esplica nella natura nella società

O La natura non esplica né il falso né il vero

PRIMO PRINCIPIO DI SIMMETRIA

Il vero come il falso si esplicano nella società

La natura e la società Q ^ v a n n o spiegate____^ Q m N C I P [ 0

"" - - " > DI SIMMETRIA

La spiegazione parte GENERALIZZATA dai quasi-oggetti

Figura 10

peso delle spiegazioni sulle spalle del polo della società. Costrutti-vista per la natura, questo principio è realista per la società [Collins e Yearley, 1992; Callon e Latour, 1992].

Ma la società, adesso lo sappiamo, non è meno costruita della natura. Se si è realisti con l'una, bisogna esserlo anche con l'altra; se si è costruttivisti con una, si deve esserlo per tutte e due. O meglio, come ha dimostrato la nostra indagine sulle due pratiche moderne, occorre comprendere come natura e società siano insieme imma-nenti (nel lavoro di mediazione) e trascendenti (dopo l'opera di depurazione). Natura e società non offrono solidi agganci cui poter appendere le nostre interpretazioni (asimmetriche nel senso di Canguilhem o simmetriche in quello di Bloor), ma sono al contra-rio ciò che è opportuno spiegare. L'apparenza di spiegazione non arriva che tardivamente, quando i quasi-oggetti stabilizzati sono

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diventati, dopo il clivaggio, oggetti della realtà esteriore da un lato e soggetti sociali dall'altro.

Per far diventare simmetrica l'antropologia non basta allora in-corporare il primo principio di simmetria (che mette soltanto fine alle ingiustizie più lampanti dell'epistemologia). Bisogna assorbire anche quello che Michel Callón chiama il principio di simmetria generalizzata: l'antropologo deve collocarsi nel punto intermedio, dal quale può seguire contemporaneamente l'attribuzione delle proprietà nonumane e di quelle umane [Callón, 1986]. Non è au-torizzato a servirsi della realtà esterna per spiegare la società, né a utilizzare i giochi di potere per rendere conto di ciò che dà forma alla realtà esterna. Come gli è chiaramente vietato di alternare rea-lismo naturale e realismo sociologico, utilizzando «non solo» la na-tura, «ma anche» la società, per mantenere le due asimmetrie di partenza dissimulando le debolezze dell'una sotto quelle dell'altra [Latour, 1989a],

Finché eravamo moderni, ci era impossibile occupare questa po-sizione, perché non esisteva! La sola posizione centrale che la Co-stituzione riconosceva, come abbiamo visto prima, era quella del fenomeno, punto di incontro rispetto ai due poli della natura e del soggetto. Ora, questo punto restava no man's land, un nonluogo. Cambia tutto, lo sappiamo ormai, quando, invece di andare sem-pre alternativamente da un polo all'altro della sola dimensione mo-derna, scendiamo lungo la dimensione nonmoderna. L'impensabile nonluogo si trasforma nel punto in cui il lavoro di mediazione ir-rompe nella Costituzione. Lungi dall'essere vuoto, vi proliferano i quasi-oggetti, quasi-soggetti. Lungi dall'essere impensabile, diventa il terreno di tutte le ricerche empiriche effettuate sulla rete.

Ma questo luogo non è forse quello che l'antropologia ha disso-dato per un secolo con tanta fatica e che l'etnologo occupa oggi senza fatica quando deve studiare le altre culture? In effetti, eccolo che passa senza essere costretto a cambiare i suoi strumenti di ana-lisi dalla meteorologia al sistema parentale, dalla natura delle piante alla loro rappresentazione culturale, dall'organizzazione politica al-

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l'etnomedicina, dalle strutture del mito all'etnofisica o alle tecniche di caccia. Certo il coraggio con cui l'etnologo mette in mostra que-sto tessuto senza cuciture gli viene dalla convinzione intima che si tratta di rappresentazioni e soltanto di rappresentazioni. Quanto alla natura, essa rimane unica, esterna e universale. Ma se sovrap-poniamo i due luoghi, quello che, senza più sforzo, l'etnologo oc-cupa per studiare le culture e quello che, con grande fatica, ab-biamo definito per studiare la nostra natura, l'antropologia comparata diventa possibile, anche se non semplice. Non con-fronta più le culture mettendo da parte la propria, che godrebbe di un privilegio sorprendente: la natura universale. Adesso confronta le nature-culture. E possibile farlo? Sono assimilabili? Sono uguali? Possiamo finalmente risolvere, forse, l'insolubile questione del re-lativismo.

L'import-export delle due Grandi Divisioni

«Noi, gli occidentali, siamo assolutamente diversi dagli altri»: ecco il grido di vittoria o il lungo lamento dei moderni. La Grande Divisione tra Noi, gli occidentali, e Loro, tutti gli altri, dai mari della Cina allo Yucatan, dagli Inuit ai Tasmaniani, continua a osses-sionarci. Qualunque cosa facciano, gli occidentali si trascinano ap-presso la storia, negli scafi delle loro caravelle e delle loro coraz-zate, nei cilindri dei telescopi e in quelli delle siringhe per la vaccinazione. Fardello che l'uomo bianco si porta dietro ora come un fine esaltante, ora come una tragedia, ma sempre come un de-stino. Non pretendono soltanto di essere diversi dagli altri, come i Sioux dagli Algonchini, o gli Esquimesi dai Lapponi, ma di esserlo radicalmente, assolutamente, al punto che è possibile mettere da una parte l'occidentale e dall'altra tutte le altre culture, che hanno appunto in comune la caratteristica di essere culture come tante. L'Occidente e solo l'Occidente non sarebbe una cultura, non sa-rebbe solo una cultura.

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Come mai l'Occidente si pensa così? Perché, unico, non sarebbe esclusivamente una cultura? Per comprendere la profondità di que-sta Grande Divisione tra Noi e Loro bisogna tornare a quell'altra tra umani e nonumani di cui ho dato prima la definizione. In ef-fetti, la prima è l'esportazione della seconda. Noi, gli occidentali, non possiamo essere una cultura tra le altre perché mobilitiamo anche la natura. Non, come fanno le altre società, una immagine o una rappresentazione simbolica della natura, ma la natura così com'è, o almeno come la conoscono le scienze: scienze che restano appartate, instudiabili, instudiate. Al centro della questione del re-lativismo si trova quindi quella della scienza. Se gli occidentali non avessero fatto altro che commerciare e conquistare, che depredare e asservire, non si distinguerebbero radicalmente dagli altri mer-canti e conquistatori. Ma ecco che ti inventano la scienza, un'atti-vità completamente distinta dalla conquista e dal commercio, dalla politica e dalla morale.

Perfino coloro che in nome del relativismo culturale hanno cer-cato di difendere la continuità delle culture, senza ordinarle in una serie progressiva, senza rinchiuderle nelle loro prigioni [Lévi-Strauss, 1952], pensano di poterlo fare solo accostandole il più pos-sibile alle scienze.

È stato necessario attendere sino alla metà del secolo [scrive Lévi-Strauss in II pensiero selvaggio] perché strade a lungo separate, quella che dà accesso al mondo fisico tramite la comunicazione [il pensiero selvaggio] e quella che, come sappiamo da poco, dà accesso al mondo della comunica-zione attraverso la fisica [la scienza moderna], si incrociassero [p. 290].

In pari tempo veniva a essere superata la falsa antinomia tra mentalità logica e mentalità prelogica. Il pensiero selvaggio è logico nello stesso senso e nello stesso modo del nostro, ma solo nei casi in cui il nostro si ap-plica alla conoscenza di un universo a cui riconosce simultaneamente pro-prietà fisiche e proprietà semantiche [...]. Ci si obietterà che sussiste una differenza fondamentale tra il pensiero dei primitivi e il nostro: la teoria dell'informazione si interessa a messaggi che sono autenticamente tali,

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mentre i primitivi, a torto, ritengono messaggi semplici manifestazioni del determinismo fisico [...]. Considerando le proprietà sensibili del regno animale e di quello vegetale come se fossero gli elementi di un messaggio e scoprendovi le «segnature» (e quindi i segni), gli uomini [del pensiero selvaggio] hanno commesso errori di riscontro: l'elemento significante non era sempre quello che credevano. Ma, pur in mancanza degli stru-menti perfezionati che avrebbero consentito loro di situarlo laddove è più spesso, ossia a livello microscopico, essi discernevano già, «come attra-verso una nuvola», principi di interpretazione il cui valore euristico e la cui congruenza al reale ci sono stati rivelati da scoperte recentissime (teleco-municazioni, calcolatori e microscopi elettronici) [Lévi-Strauss, 1962, pp. 288-289].

Quel generoso avvocato che è Lévi-Strauss non riesce a immagi-narsi altre circostanze attenuanti, se non quella di assimilare il suo cliente alle scienze esatte! Se i primitivi non sono così diversi da noi come si pensa, è perché essi anticipano con strumenti inade-guati e con «errori di localizzazione» le conquiste più recenti della teoria dell'informazione, della biologia molecolare e della fisica. Le scienze che servono a questo innalzamento restano fuori gioco, fuori dalla pratica, fuori campo. Concepite secondo criteri episte-mologici, restano obiettive ed esterne, sono quasi-oggetti ripuliti dalle loro reti. Se date un microscopio ai primitivi, essi penseranno esattamente come noi. Ecco come mettere nei guai qualcuno vo-lendogli salvare la testa. Per Lévi-Strauss (come per Canguilhem, per Lyotard, per Girard, per la maggioranza degli intellettuali fran-cesi) questa nuova conoscenza è completamente fuori cultura. Questa trascendenza permette di relativizzare tutte le culture, le loro come le nostre. A parte il fatto, beninteso, che è appunto la nostra cultura, e non le loro, che si struttura con la biologia, i mi-croscopi elettronici e i network delle telecomunicazioni... L'abisso che si voleva colmare si spalanca di nuovo.

Da qualche parte, nelle nostre società e solo nelle nostre, si è manifestata una trascendenza inaudita: la natura così com'è, a-

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umana, talora inumana, sempre extraumana. Dopo questo evento (che lo si collochi nelle matematiche greche, nella fisica italiana, nella chimica tedesca, nel nucleare americano, nella termodina-mica belga), l'asimmetria è diventata totale tra le culture che con-siderano la natura e quelle che considerano solo se stesse o le ver-sioni deformate che eventualmente hanno della materia. Coloro che inventano le scienze e scoprono i determinismi fisici non si trovano mai, salvo rari casi, nel solo commercio degli umani. Gli altri hanno della natura solo rappresentazioni offuscate o codifi-cate dalle preoccupazioni culturali degli umani, che le occupano completamente e inciampano solo per caso («come attraverso una nuvola») sulle cose così come sono.

LA PRIMA GRANDE DIVISIONE INTERNA

La Grande Divisione interna spiega così quella esterna: noi siamo gli unici che fanno una distinzione assoluta tra la natura e la cultura, tra la scienza e la società, mentre tutti gli altri, che siano ci-nesi o amerindi, zandesi o baruya, non possono separare davvero quello che è conoscenza da quello che è società, il segno dalla cosa, ciò che viene dalla natura così com'è da quello che richiedono le loro culture. Qualunque cosa facciano, per quanto adattabili, pre-cisi, funzionali possano essere, resteranno sempre ciechi a causa di

LA SECONDA GRANDE DIVISIONE ESTERNA Partizione moderna Sovrapposizione premoderna

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questa confusione, prigionieri del sociale come del linguaggio. Qualunque cosa facciamo noi, per quanto criminali, imperialisti si possa essere, riusciamo a evadere dalla prigione del sociale o del linguaggio e accedere alle cose stesse attraverso una provvidenziale scappatoia, quella della conoscenza scientifica. La partizione in-terna tra umani e nonumani ne definisce una seconda, esterna, gra-zie alla quale i moderni diventano a sé stanti rispetto ai premo-derni. Da Loro la natura e la società, i segni e le cose sono quasi coestensivi. Da Noi nessuno può più mescolare le preoccupazioni sociali e l'accesso alle cose stesse.

L'antropologia ritorna dai Tropici

Quando l'antropologia ritorna dai Tropici per ricongiungersi a quella del mondo moderno che la sta aspettando, lo fa in un primo tempo con circospezione, per non dire con titubanza. Prima di tutto non crede che le sia possibile applicare i suoi metodi se non quando gli occidentali confondono segni e cose proprio come nel pensiero selvaggio. Cercherà dunque quello che più assomiglia al suo terreno tradizionale, come l'aveva definito la Grande Divisione esterna. È vero che deve sacrificare l'esotismo, ma il prezzo da pagare è accet-tabile, perché essa conserva la sua distanza critica, studiando solo i margini, le fratture, quello che sta oltre la razionalità. La medicina popolare, la stregoneria nel Nord-ovest francese [Favret-Saada, 1977], la vita contadina all'ombra delle centrali nucleari [Zona-bend, 1989], le maniere dei salotti aristocratici [Le Witta, 1988], tutti questi terreni si prestano bene a ricerche, d'altronde eccellenti, perché la questione della natura ancora non si pone.

Però, il rimpatrio dell'antropologia non può fermarsi qui. In ef-fetti, fatto il sacrificio dell'esotismo, l'etnologo ha perso quello che rendeva originali le sue ricerche rispetto a quelle disperse dei socio-logi, degli economisti, degli psicologi sociali e degli storici. Sotto il sole dei Tropici l'antropologo non si accontenterebbe di studiare i

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margini delle altre culture. Anche se resta marginale per vocazione e per metodo, è comunque il loro centro che vuole ricostituire, il si-stema di credenze, le tecnologie, le etnoscienze, i giochi di potere, le economie, insomma la totalità della loro esistenza. Se ritorna al suo paese e si accontenta di studiare gli aspetti marginali della sua cultura, finisce con il perdere tutti i vantaggi dell'antropologia, tanto faticosamente conquistati. Come fa, per esempio, Marc Augé, che tra le popolazioni lagunari della Costa d'Avorio ha cer-cato di comprendere la stregoneria come fatto sociale totale [Augé, 1975], ma, ritornato in Francia, si è limitato a studiare gli aspetti più superficiali della metropolitana [Augé, 1986] o dei giardini del Luxembourg. Un Marc Augé simmetrico studierebbe non solo qualche graffito sui muri delle stazioni del metrò, ma la rete socio-tecnica del metrò stesso, i suoi ingegneri e conducenti, i suoi diri-genti e i suoi utenti, lo Stato proprietario e gestore, e via discor-rendo. Molto semplicemente, continuerebbe a fare nel suo paese quello che ha sempre fatto laggiù. Ritornando, gli etnologi non dovrebbero limitarsi alla periferia, altrimenti, restando asimme-trici, dimostrerebbero coraggio verso gli altri e timidezza nei pro-pri confronti.

Solo che, per acquistare questa libertà di movimento e di tono, bisogna saper guardare con gli stessi occhi entrambe le Grandi Di-visioni e considerarle tutte e due come una definizione particolare del nostro mondo e dei suoi rapporti con gli altri. Ora, queste Di-visioni non definiscono noi meglio degli altri: non sono strumenti di conoscenza più di quanto lo siano la Costituzione da sola o la temporalità moderna da sola (come abbiamo visto prima). Biso-gnerà aggirarle insieme, non credendo né alla distinzione radicale tra umani e nonumani da noi, né alla totale sovrapposizione dei sa-peri e delle società tra gli altri.

Immaginiamoci un'antropologia che vada verso i Tropici espor-tando la Grande Divisione interna. Ai suoi occhi il popolo che essa desidera studiare confonde continuamente la conoscenza del mondo (che da buon occidentale il ricercatore possiede per scienza

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"infusa) e le esigenze del funzionamento sociale. La tribù che lo ospita non ha così che un'unica visione del mondo, una sola rap-presentazione della natura. Per riprendere la celebre espressione di Mauss e Durkheim, questa tribù proietta sulla natura le sue catego-rie sociali [Durkheim, 1903]. Quando l'etnologo spiega ai suoi informatori che dovrebbero separare con più attenzione il mondo com'è dalla rappresentazione sociale che gli attribuiscono, questi si scandalizzano o non lo capiscono. L'etnologo vede in questo fu-rore o in questo malinteso la prova della loro ossessione premo-derna. Il dualismo in cui vive (gli umani da un lato e i nonumani dall'altro, i segni da una parte e le cose dall'altra) risulta intollera-bile per loro. Per ragioni sociali, conclude il nostro etnologo, que-sta cultura ha bisogno di un atteggiamento monista. «Noi traffi-chiamo con le nostre idee, egli se ne fa un tesoro».

Ma supponiamo adesso che il nostro etnologo ritorni al suo paese, tentando di cancellare la Grande Divisione interna. Suppo-niamo anche che, in seguito a un fortunato accidente, cominci ad analizzare una tribù presa a caso, per esempio quella dei ricercatori scientifici o dei tecnici. La situazione si trova rovesciata, perché adesso applica le lezioni di monismo apprese nella spedizione pre-cedente. La sua tribù di scienziati sostiene in fin dei conti di saper separare bene la conoscenza del mondo dalle esigenze della politica 0 della morale [Traweek, 1988]. Invece, agli occhi dell'osservatore, questa separazione non è mai ben visibile o non è che un sottopro-dotto di un'attività molto più confusa, un bricolage di laboratorio. 1 suoi informatori sostengono di avere accesso alla natura, ma l'et-nologo vede bene che hanno accesso solo a una visione, a una rap-presentazione della natura [Pickering, 1980]. Questa tribù, come la precedente, proietta sulla natura le sue categorie sociali, ma, e qui sta la novità, pretende di non averlo fatto. Quando l'etnologo spiega ai suoi informatori che non possono separare la natura e la rappresentazione sociale che ne fanno, essi si scandalizzano o non lo capiscono. Il nostro etnologo vede giustamente in questo furore e in questa incomprensione la prova della loro ossessione moderna.

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Il monismo in cui vive (gli umani sono sempre mescolati ai nonu-mani) risulta loro intollerabile. Per ragioni sociali, conclude il no-stro etnologo, hanno bisogno di un atteggiamento dualista.

Eppure, entrambe le conclusioni sono inesatte, perché non ha saputo ascoltare bene i suoi informatori. Lo scopo dell'antropo-logo non è quello di provocare due volte scandalo o di creare due volte un equivoco. La prima volta esportando la Grande Divisione interna e imponendo il dualismo a culture che lo rifiuterebbero, la seconda annullando la Divisione esterna e imponendo il monismo a una cultura, la nostra, che lo respingerebbe recisamente. L'antro-pologo scavalca del tutto il problema e trasforma le due Grandi Divisioni non in ciò che descrive la realtà (la nostra come quella degli altri), ma in ciò che definisce il modo particolare che hanno gli occidentali di stabilire le proprie relazioni con gli altri. Questo modo particolare è possibile delinearlo oggi, perché lo sviluppo stesso delle scienze e delle tecniche ci impedisce di essere del tutto moderni. A condizione, però, di immaginare un'antropologia un po' diversa.

Non ci sono culture

Supponiamo che, appena tornato dai Tropici, il nostro antropo-logo decida di occupare una posizione tre volte simmetrica: una posizione che esplichi negli stessi termini le verità e gli errori (primo principio di simmetria); che studi insieme la produzione di umani e di nonumani (principio di simmetria generalizzata); che si trovi una collocazione intermedia tra i territori tradizionali e quelli nuovi, sospendendo qualunque affermazione su ciò che di-stinguerebbe gli occidentali dagli altri. È vero che questa posi-zione perde di esotismo, ma guadagna nuovi terreni che le consen-tono di studiare il meccanismo centrale di tutti i collettivi, compresi i nostri. Perde cioè il suo attaccamento esclusivo alle sole culture (o alle sole dimensioni culturali), ma ci guadagna le na-

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ture, ed è un guadagno inestimabile. Le due posizioni che ho in-dividuato all'inizio di questo saggio (quella che l'etnologo occu-pava comodamente e quella che l'analista delle scienze ricercava con tanta fatica) diventano ora sovrapponibili. L'analisi delle reti tende la mano all'antropologia e le offre il posto a capotavola che le aveva apparecchiato.

La questione del relativismo diventa così meno complicata. Se la scienza secondo la concezione degli epistemologi rende insolubile questo problema, basta, come spesso capita, cambiare la conce-zione delle pratiche scientifiche perché le difficoltà artificiali si dis-solvano. Ciò che la ragione rende complicato, lo spiegano le reti. È una caratteristica degli occidentali quella di aver imposto costitu-zionalmente la separazione totale tra umani e nonumani (Grande Divisione interna) e di avere così provocato artificialmente lo scan-dalo tra gli altri. «Come si può essere persiano?». Come si può non fare una distinzione radicale tra la natura universale e la cultura re-lativa? Ma il concetto stesso di cultura è un prodotto artificiale, creato da noi mettendo la natura tra parentesi. Ora, non ci sono culture (di-verse o universali) più di quanto non ci sia una natura universale. Ci sono solo nature-culture e sono loro che offrono l'unica base di confronto possibile. Avendo preso in considerazione le pratiche di mediazione come quelle di depurazione, ci accorgiamo che i mo-derni non separano gli umani dai nonumani più di quanto gli «altri» non sovrappongano del tutto i segni e le cose [Guille-Escu-ret, 1989].

Adesso mi è possibile confrontare le forme di relativismo a se-conda che tengano o no conto della costruzione delle nature. Il re-lativismo assoluto presuppone culture separate e incommensura-bili, che nessuna gerarchia potrebbe riordinare. E inutile parlarne, perché mette la natura tra parentesi. Per il relativismo culturale, più raffinato, entra in scena la natura, senza presupporre per la sua esistenza alcuna società, alcuna costruzione, alcuna mobilitazione, alcuna rete. È dunque per la natura riveduta e corretta dall'episte-mologia che la pratica scientifica resta sempre fuori campo. In que-

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sta tradizione le culture si dividono allora come tanti punti di vista, più o meno precisi, su questa natura unica. Certe società la vedono «come attraverso una nuvola», altre in una densa bruma, altre an-cora sotto un cielo limpido. I razionalisti insisteranno sugli aspetti comuni di tutte queste visioni, i relativisti sulle deformazioni irre-sistibili imposte dalle strutture sociali a tutte le percezioni [Hollis e Lukes, 1982], I primi saranno confutati se si può dimostrare che le culture non sovrappongono le proprie categorie; i secondi se si può provare che si sovrappongono [Brown, 1976].

In pratica, però, non appena la natura entra in gioco senza essere collegata a una cultura particolare, è un terzo modello che si applica di nascosto, quello di un universalismo che chiamerò «particolare». Una delle società (sempre la nostra) definisce il contesto generale della natura rispetto al quale si collocano le altre società. E la solu-zione di Lévi-Strauss, che distingueva tra una società occidentale che avrebbe accesso alla natura e questa stessa natura, miracolosa-mente conosciuta da questa società. La prima metà dell'argomen-tazione consente un relativismo modesto (noi siamo una cultura tra le altre), ma la seconda fa surrettiziamente riapparire l'universali-smo arrogante (siamo sempre e completamente diversi). Eppure non c'è contraddizione, agli occhi di Lévi-Strauss, tra queste due metà, perché la nostra Costituzione e solo lei permette di distin-guere tra una società A, fatta di umani, e una società A(bis), com-posta da nonumani e per sempre separata da questa! La contraddi-zione oggi risulta evidente soltanto all'antropologo simmetrico. Quest'ultimo modello è il fondo comune degli altri due, qualun-que cosa ne dicano i relativisti che relativizzano sempre e soltanto le culture.

I relativisti non sono mai stati convincenti a proposito dell'ugua-glianza delle culture, perché considerano soltanto queste ultime. E la natura? Secondo loro, è la stessa per tutti, perché è definita dalla scienza universale. Per sfuggire a questa contraddizione, sono costretti a limitare tutti i popoli a una semplice rappresentazione del mondo, rinchiudendoli per sempre nella prigione delle loro so-

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o w

RELATIVISMO ASSOLUTO Culture senza gerarchia e senza contatti, tutte incommensurabili; la natura è mes-sa tra parentesi

SOCIETÀ A

UNIVERSALISMO PARTICOLARE Una deEe culture (A) possiede un accesso privilegiato alla natura, cosa che la distin-gue dalle altre

RELATIVISMO CULTURALE La natura è presente ma fuori delle culture; le culture hanno tutte un punto di vista più o me-no preciso su di essa

POLO NATURA POLO SOCIETÀ

ANTROPOLOGIA SIMMETRICA Tutti i collettivi costituiscono nature e cultu-re; varia solo il grado di mobilitazione

Figura 12

cietà [Wilson, 1970], oppure, al contrario, a ridurre tutti i risultati scientifici a semplici prodotti di costruzioni sociali locali e contin-genti, per negare qualsiasi universalità alla scienza [Bloor, 1982; Bloor, 1983]. Immaginare miliardi di umani imprigionati in vi-sioni deformate del mondo fin dall'alba dei tempi è difficile come immaginare i neutrini e i quasar, il DNA e l'attrazione universale nelle produzioni sociali texane, inglesi o borgognone. Entrambe le risposte sono altrettanto assurde ed è per questo che i grandi dibat-titi sul relativismo non portano mai da nessuna parte. È altrettanto impossibile universalizzare la natura che ridurla all'ambito delimi-tato del relativismo culturale.

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La soluzione si presenta proprio nell'istante in cui si dissolve l'artefatto delle culture. Tutte le nature-culture sono assimilabili in quanto costruiscono insieme gli esseri umani, divini e nonumani. Nessuna vive in un mondo di segni o di simboli arbitrariamente imposti a una natura esterna nota a noi soli. Nessuna (e soprat-tutto la nostra) vive in un mondo di cose. Tutte distribuiscono ciò che porterà segni e ciò che non ne porterà [Claverie, 1990]. Se c'è una cosa che facciamo tutti è appunto quella di costruire insieme i nostri collettivi umani e i nonumani che li circondano. A questo fine alcuni mobilitano i propri antenati, i leoni, le stelle fisse e il sangue raggrumato dei sacrifici; noi, per costruire i nostri, mobili-tiamo la genetica, la zoologia, la cosmologia e l'ematologia. «Ma sono scienze» strilleranno i moderni, inorriditi da questa confu-sione, «devono sottrarsi in ogni modo possibile alle rappresenta-zioni della società». Ora, la presenza delle scienze non basta a rom-pere la simmetria: è questa la scoperta dell'antropologia comparata. Dal relativismo culturale passiamo a quello «naturale». Il primo portava ad alcune assurdità, il secondo potrà permetterci di ritro-vare il senso comune.

Differenze di misura

La questione del relativismo non è per questo risolta. Si elimina soltanto, per il momento, la confusione che nasce quando si mette tra parentesi la natura. Ci troviamo ora di fronte a produzioni di nature-culture, che chiamerò collettivi per ricordare che sono qual-cosa di diverso dalla società dei sociologi (gli umani tra loro), come dalla natura degli epistemologi (le cose in sé). Agli occhi dell'antro-pologia comparata questi collettivi sono tutti assimilabili, come ho detto, per il fatto di ripartire quelli che poi saranno elementi della natura ed elementi del mondo sociale. Nessuno ha mai sen-tito parlare di un collettivo che non mobiliti nella sua composi-zione il cielo, la terra, i corpi, i beni, il diritto, gli dèi, le anime, gli

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antenati, le forze, gli animali, le credenze, gli esseri immaginari... È questa l'antica matrice antropologica, quella dalla quale non siamo mai usciti.

Ma questa matrice comune non definisce altro che il punto di partenza dell'antropologia comparata. In effetti tutti i collettivi sono alquanto diversi nella ripartizione che essi operano tra gli es-seri, tra le proprietà che attribuiscono a questi, e nella mobilita-zione che ritengono accettabile. Queste differenze rappresentano, senza che sia più visibile una Grande Divisione, tante piccole divi-sioni tra le quali ce n'è una che sappiamo ormai riconoscere come tale e che distingue da tre secoli la versione ufficiale di certi settori di alcuni collettivi. E la nostra Costituzione che attribuisce a un in-sieme di entità il ruolo di nonumani, a un altro quello di cittadini e a un terzo la funzione di un Dio arbitro e impotente. La Costi-tuzione, di per sé, non ci discosta più dagli altri, perché si aggiunge al lungo elenco di tratti distintivi che compongono l'antropologia comparata. Si potrebbe cosi creare una directory nel gran database del Laboratorio di antropologia sociale del Collège de France, solo che converrebbe ribattezzarlo Human and Non-Human Relations Area Files.

Nella nostra distribuzione di entità a geometria variabile, siamo diversi dagli Achuar quanto i Tapirapè lo sono dagli Arapesh. Non di più e non di meno. Tuttavia questo confronto rispetterebbe sol-tanto la produzione congiunta di una natura e di una società, che è solo uno degli aspetti dei collettivi. Soddisferebbe il nostro senso di giustizia, ma finirebbe per cadere, per vie diverse, nello stesso difetto del relativismo assoluto, perché annullerebbe subito le dif-ferenze, rendendoli tutti altrettanto diversi. Non permetterebbe di rendere conto di quell'altro aspetto che esaminavo all'inizio di que-sto saggio, l'ampiezza della mobilitazione, quell'ampiezza che è in-sieme conseguenza della modernizzazione e causa della sua fine.

Il fatto è che il principio di simmetria non ha soltanto lo scopo di stabilire l'uguaglianza (che non è altro che il mezzo per azzerare la bilancia), ma anche quello di registrare le differenze, ossia, in

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fondo, le asimmetrie, e di capire i mezzi pratici che permettono ai collettivi di dominarsi a vicenda. Anche se sono assimilabili per la cogenerazione, tutti i collettivi differiscono per la taglia. All'inizio della pesatura una centrale nucleare, un buco nello strato di ozono, una mappa del genoma umano, una metropolitana leggera, una rete di satelliti, un cluster di galassie non hanno più peso di un fuoco di legna, di un cielo che ci può cadere sulla testa, di una ge-nealogia, di una carretta, degli spiriti che appaiono in cielo o di una cosmogonia. In tutti i casi questi quasi-oggetti disegnano, con le loro traiettorie incerte, alcune forme di natura e altre forme di so-cietà. Ma quando la pesatura è completata il primo gruppo disegna un collettivo completamente diverso dal secondo.

Per dirla in modo fantasioso, queste sono differenze di misura nei due sensi del termine. Sono importanti (e il relativismo sbaglia a ignorarlo), ma non sono che differenze di taglia (e qui è l'univer-salismo a sbagliare, quando le trasforma in una Grande Divisione). I collettivi sono tutti assimilabili, tranne che per le dimensioni, come le volute successive di una stessa spirale. Il fatto che le stelle fisse e gli antenati vadano su uno dei cerchi, i geni e i quasar su un altro più eccentrico, si spiega con la dimensione dei collettivi. Molti più oggetti esigono più soggetti. Molta più soggettività richiede più oggettività. Se volete Hobbes e i suoi discendenti, avete bisogno anche di Boyle e dei suoi. Se volete il Leviatano, dovete prendervi anche la pompa ad aria. Ecco che cos'è che permette di rispettare le differenze (le volute sono appunto di un'altra dimensione) pur ri-spettando le somiglianze (tutti i collettivi mescolano allo stesso modo le entità umane e quelle nonumane). I relativisti che si danno tanto da fare per mettere tutte le culture sulla stessa base, rendendole così delle codifiche tutte altrettanto arbitrarie di un mondo naturale del quale nulla spiega la produzione, non riescono a rispettare gli sforzi che i collettivi fanno per dominarsi a vicenda. E, d'altro canto, gli universalisti non riescono a comprendere la profonda fratellanza dei collettivi, perché sono costretti a offrire accesso alla natura ai soli occidentali c a rinchiudere tutti gli altri al-

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l'interno di società da cui è impossibile evadere se non diventando scientifici, moderni e occidentalizzati.

Le scienze e le tecniche non sono importanti in quanto sono vere o efficaci (proprietà che vengono loro attribuite per sovrappiù e per tutt'altre ragioni rispetto a quelle indicate dagli epistemologi) [Latour, 1989a], ma perché moltiplicano i nonumani assunti nella fabbrica dei collettivi, e perché rendono più intima la comunità che noi formiamo con questi esseri.

Le scienze moderne sono caratterizzate dall'estensione della spi-rale, dall'ampiezza delle assunzioni che provoca, dalla distanza cre-scente dei luoghi ove essa arriva a reclutare gli esseri, e non da qual-che rottura epistemologica che romperebbe per sempre con il loro passato prescientifico. I moderni saperi e i moderni poteri non sono diversi in quanto si sottrarrebbero alla tirannia del sociale, ma perché aggiungono molti più ibridi per ricomporre il legame sociale e accrescerne la scala. Non è solo la pompa ad aria: sono anche i microbi, l'elettricità, gli atomi, le stelle, le equazioni di se-condo grado, gli automi e i robot, i mulini e i pistoni, l'inconscio e i neuro-trasmettitori.

Ogni volta una nuova traduzione di quasi-oggetti rilancia la de-finizione del corpo sociale, dei soggetti come degli oggetti. Le scienze e le tecniche, tra di noi, non riflettono la società più di quanto la natura non rifletta le strutture sociali tra gli altri. Non si tratta di un gioco di specchi. Si tratta di costruire i collettivi stessi su una scala ogni volta più grande. Ci sono differenze di taglia. Non esistono differenze di natura, e ancora meno di cultura.

Il trucco di Archimede

Le dimensioni relative dei collettivi si modificheranno profon-damente con l'assunzione di un tipo particolare di nonumani. Per capire questa variazione di formato, non c'è esempio più sorpren-dente dell'esperienza impossibile che ci racconta Plutarco e che

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rappresenta, secondo l'espressione di Michel Authier, il «canone dello scienziato» [Authier, 1989]:

Archimede aveva scritto al re Cerone, suo parente e amico, che con una data forza era possibile spostare un dato peso e si dice che, tutto fiero dell'efficacia della sua dimostrazione, abbia sostenuto che, se avesse avuto un'altra terra a sua disposizione, avrebbe potuto sollevare questa, una volta passato sull'altra. Stupito, Gerone lo pregò di mettere in pratica la sua teoria e di mostrargli una grande massa messa in moto da una piccola forza. Allora [Archimede] fece tirare a terra, al costo di grandi sforzi di nu-merosi operai, una imbarcazione mercantile a tre alberi della marina reale; vi fece salire un gran numero di persone, oltre al carico normale, e, seduto a distanza, senza sforzo, con un gesto calmo della mano, azionò una mac-china a più pulegge in modo da spostare la nave facendola scorrere senza sbalzi, come se scivolasse sull'acqua. Il re, stupefatto e avendo compreso la potenza della scienza [della tecnica], ingaggiò Archimede perché co-struisse, nell'eventualità di ogni genere di assedio, macchine atte alla di-fesa come all'attacco [Vita di Marcello}.

Archimede rovescia non solo il rapporto di forze grazie alla pu-leggia composta, ma anche i rapporti politici offrendo al re un meccanismo effettivo che rende un singolo uomo fisicamente più forte di una moltitudine. Fino a quel momento il sovrano rappre-sentava sì la folla di cui era il portavoce, ma non per questo diven-tava più forte. Archimede procura al Leviatano un altro principio di composizione, trasformando il principio di rappresentanza po-litica in un rapporto di proporzione meccanica. Senza la geometria e la statica, il sovrano dovrebbe venire a patti con forze sociali che lo sovrastano infinitamente. Ma se aggiungete al solo gioco della rappresentanza politica la leva della tecnica, potrete diventare più forti della moltitudine, potrete attaccare e difendervi. Non sor-prende il fatto che Gerone sia «stupefatto dalla potenza della tec-nica». Non aveva pensato, fino a quel momento, di mettere in-sieme il potere politico e la puleggia composta [Latour, 1990a].

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La lezione di Plutarco è ancora più completa. A questo primo momento, nel quale rende commensurabili forza (fisica) e forza (politica) grazie al rapporto di proporzione tra il piccolo e il grande, tra il modello ridotto e l'applicazione a grandezza naturale, ne ag-giunge un secondo ancora più decisivo:

Archimede possedeva uno spirito tanto elevato e profondo e aveva ac-quisito un tesoro talmente ricco di osservazioni scientifiche, che sulle in-venzioni che gli erano valse la fama e la reputazione di una intelligenza non umana, ma divina, non volle lasciare alcuno scritto; considerava la meccanica e in generale tutte le arti che attengono ai bisogni dell'esistenza dei vili mestieri manuali e consacrava invece il suo zelo ai soli oggetti la cui bellezza ed eccellenza non erano frammiste ad alcuna necessità materiale, a quegli oggetti che non si possono comparare ad altri e nei quali la dimo-strazione rivaleggia con il soggetto, questo fornendo la grandezza e la bel-lezza, quella una esattezza e una forza sovrannaturali.

La dimostrazione matematica rimane incommensurabile ri-spetto ai vili mestieri manuali, la volgare politica, le semplici appli-cazioni. Archimede è divino, la potenza delle matematiche è so-vrannaturale. Tutto il resto che serve a comporre, a connettere, ad alleare, a legare insieme i due momenti è bello che svanito. Perfino gli scritti devono sparire senza lasciare traccia. Il primo momento produceva un ibrido sconosciuto, grazie al quale il più debole di-venta il più forte con l'alleanza che stabiliva tra le forze della poli-tica e le leggi della proporzione. Il secondo momento depura e rende incomparabili la politica e la scienza, l'impero degli umani e l'empireo delle matematiche [Serres, 1989]. Il punto archimedeo non va ricercato nel primo momento, ma nella congiunzione dei due: come fare politica con mezzi nuovi resi di colpo commensu-rabili alla prima, negando ogni legame tra attività assolutamente in-commensurabili? Il bilancio è doppiamente positivo: Gerone di-fende Siracusa con macchine che lo sanno dimensionare, il collettivo si ingrandisce, ma l'origine di questa variazione di scala,

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di questa commensurabilità, sparisce per sempre, lasciando l'empi-reo delle scienze come una riserva di forze fresche, sempre disponi-bili ma mai visibili. Sì, la scienza è davvero la politica perseguita con altri mezzi, mezzi che hanno forza solo in quanto restano radi-calmente altri.

Imparando il trucco di Archimede (o piuttosto quello di Plu-tarco), scopriamo questo punto di ingresso dei nonumani nella fab-brica stessa del collettivo. Non si tratta di andare a cercare come la geometria «rifletta» gli interessi di Gerone, o come la società di Si-racusa «si trovi limitata» dalle leggi della geometria. Si costituisce un nuovo collettivo, si arruola la geometria e si nega di averlo fatto. La società non può spiegare la geometria, perché è una società nuova, «a geometria», che comincia a difendere le mura di Siracusa contro il console Marcello. La società «a potere politico» è un artefatto, ottenuto per eliminazione di mura e di leve, di pulegge e di gladi, proprio come il contesto sociale del XVII secolo inglese era ottenibile soltanto per asportazione della pompa ad aria e della nascente fìsica. Solo quando eliminiamo i nonumani mescolati dal collettivo, il re-siduo, che noi chiamiamo società, diventa incomprensibile. Le sue dimensioni, la sua resistenza, la sua durata non hanno più alcuna causa. E come far esistere il Leviatano esclusivamente con i soli cit-tadini nudi e il solo contratto sociale, senza pompa ad aria, senza spada, senza gladio, senza listini, senza calcolatori, dossier e palazzi [Callon e Latour, 1981; Strum e Latour, 1987; Latour, 1990b]. Il legame sociale non sta in piedi senza gli oggetti che l'altro ramo della Costituzione permette al contempo di mobilitare e di rendere per sempre incommensurabili al mondo sociale.

Relativismo assoluto e relativismo relativista

La questione del relativismo non è per questo chiusa, anche se teniamo conto sia della profonda somiglianza delle nature-culture (la vecchia matrice antropologica) sia della differenza di misura

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(l'ampiezza di mobilitazione di questi collettivi). In effetti la misura è in relazione, come ho più volte indicato, con la Costituzione mo-derna. Proprio perché la Costituzione garantisce che i quasi-og-getti saranno assolutamente e irreversibilmente trasformati vuoi in oggetti della natura esterna vuoi in soggetti della società, la mobi-litazione dei quasi-oggetti può assumere un'ampiezza sconosciuta fino a quel momento. L'antropologia simmetrica deve dunque ren-dere giustizia a questa specificità, senza aggiungervi alcuna rottura epistemologica, alcuna Grande Divisione metafisica, alcuna diffe-renza tra società prelogiche e società logiche, «fredde» e «calde», tra un Archimede che si impiccia di politica e un Archimede di-vino, con la fronte immersa nel cielo delle idee. Tutta la difficoltà del compito consiste nel produrre il massimo di differenze con il minimo di mezzi [Goody, 1979; Latour, 1985].

I moderni sono diversi dai premoderni perché si rifiutano di pensare i quasi-oggetti come tali. Gli ibridi si presentano ai loro occhi come l'orrore che occorre evitare a qualsiasi costo, operando una depurazione incessante e maniacale. Da sola questa differenza nella rappresentazione costituzionale importerebbe ben poco per-ché non basterebbe a distinguere i moderni dagli altri. Quanti sono i collettivi, tante sono le rappresentazioni. Ma la macchina che pro-duce le differenze è disattivata da questo rifiuto di pensare i quasi-oggetti, perché comporta la proliferazione di un certo tipo di esseri: l'oggetto elemento costitutivo del sociale, espulso dal mondo sociale, at-tribuito a un mondo trascendente che però non è divino e che produce, per contrasto, un soggetto fluttuante, portatore dì diritto e di moralità. La pompa ad aria di Boyle, i microbi di Pasteur, la puleggia com-posta di Archimede sono oggetti di questo tipo. Questi nuovi no-numani possiedono proprietà miracolose, perché sono insieme so-ciali e asociali, produttori di nature e costruttori di soggetti. Sono i tricksters dell'antropologia comparata. Attraverso questa breccia ir-rompono nella società le scienze e le tecniche, in un modo cosi mi-sterioso che questo miracolo costringerà gli occidentali a ritenersi del tutto diversi dagli altri. Il primo miracolo ne produce un se-

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condo (perché gli altri non fanno altrettanto?), poi un terzo (come mai siamo così eccezionali?). E questo tratto che produce a cascata tutte quelle piccole differenze che si troveranno raccolte, riassunte e amplificate nel gran racconto dell'occidentale radicalmente di-stinto da qualsiasi cultura.

Una volta che questa caratteristica è stata messa a repertorio e la difficoltà è così aggirata, il relativismo non ne presenta di mag-giori. Non c'è niente che impedisce di riaprire la questione della re-lazione tra i collettivi definendo due relativismi fino a quel mo-mento confusi. Il primo è assoluto e il secondo è relativo. Il primo ha rinchiuso le culture nella gabbia dell'esotismo e dell'estraneità, perché ha accettato il punto di vista degli universalisti pur rifiu-tando di allinearsi a loro: se non esiste alcuno strumento di misura comune, unico e trascendentale, tutte le lingue sono intraducibili, tutti i moti del cuore sono incomunicabili, tutti i riti sono altret-tanto rispettabili, tutti i paradigmi sono incommensurabili. Dei gusti e dei colori non si discute. Anche se gli universalisti sosten-gono che questo metro comune esiste davvero, i relativisti assoluti sono contenti che non esista. A parte l'euforia, tutti sono comun-que d'accordo nell'affermare che il riferimento a un qualche metro comune e assoluto sia essenziale al dibattito. Questo significa non fare molta attenzione alla pratica e al termine stesso di relativismo. Stabilire relazioni; rendere commensurabile; regolare gli strumenti di misura; istituire catene metrologiche; redigere dizionari di corri-spondenza; discutere della comparabilità delle norme e degli stan-dard; tracciare reti calibrate; allestire e negoziare i valorimetri: ecco qualche significato del termine [Latour, 1988c]. Il relativismo asso-luto, come il suo fratello rivale, il razionalismo, dimentica che gli strumenti di misura vanno installati e che, se non si tiene a mente il lavoro di strumentazione, non si riesce più nemmeno a capire il concetto di commensurabilità. Dimentica, soprattutto, l'enorme lavoro degli occidentali per «prendere le misure» degli altri popoli, rendendoli commensurabili e creando, con il ferro, con il sapere e con il sangue, misure di riferimento che prima non esistevano.

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Per capire questo lavoro di misurazione, però, conviene raddop-piare il sostantivo con l'aggettivo corrispondente. Il relativismo re-lativista ricrea la compatibilità che si credeva perduta. Rimedia con l'aggettivo all'apparente stupidità del sostantivo. Dovrà sicura-mente abbandonare lungo la strada quello che costituiva l'argo-mento comune degli universalisti come dei primi relativisti, ov-vero l'assoluto. Invece di bloccarsi a metà strada, va avanti fino in fondo e ritrova, sotto forma di lavoro e di montaggio, di pratica e di dibattito, di conquista e di dominio, la relazione. Un po' di re-lativismo allontana dall'universale, troppo riporta a quest'ultimo, ma è un universale in reti, che non ha più proprietà misteriose.

Gli universalisti definiscono un'unica gerarchia. I relativisti asso-luti mettono tutte le gerarchie sullo stesso piano. I relativisti rela-tivi, più modesti ma più empirici, mostrano con quali strumenti e con quali catene si creano asimmetrie e uguaglianze, gerarchie e differenze [Callon, 1991]. I mondi sembrano commensurabili o incommensurabili solo a chi resta attaccato alle misure misurate. Ora, tutte le misure, nella scienza dura come nella scienza molle, sono anche misure misuranti che costruiscono una commensura-bilità che non esisteva prima della loro definizione. Nulla, di per sé, è riducibile o irriducibile ad altro. Mai di per sé, ma sempre con la mediazione di un'altra cosa che prende la sua misura e gli dà la propria. Come pretendere che i mondi siano intraducibili, mentre la traduzione è l'anima stessa della loro relazione? Come si può dire che i mondi sono dispersi, se continuiamo a renderli totali? La stessa antropologia, una scienza come le altre, una rete tra le tante, prende parte a questo lavoro di relazione, di realizzazione di cata-loghi e musei, di invio di missioni, di spedizioni e di inchieste, di carte, di questionari e di schede [Copans e Jamin, 1978; Fabian, 1983; Stocking, 1986], L'etnologia è una di queste misure misu-ranti che risolve nella pratica la questione del relativismo, co-struendo, di giorno in giorno, una certa commensurabilità. Se la questione del relativismo è insolubile, il relativismo relativista o, per dirla in modo più elegante, il relazionismo, non presenta diffi-

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coltà di principio. Se la smettiamo di essere moderni, diventerà una delle risorse essenziali per mettere in relazione collettivi che non si tratterà più di dover modernizzare. Servirà da opyavov alla negoziazione planetaria sugli universali relativi che costruiamo con tentativi alla cieca.

Piccoli errori sul disincanto del mondo

È vero che siamo diversi dagli altri, ma queste diversità non sono collocabili là dove credeva di metterle la questione ora chiusa del re-lativismo. In quanto collettivi, siamo tutti fratelli. Alla dimensione, anch'essa dovuta a piccole differenze nella ripartizione delle entità, possiamo riconoscere un gradiente uniforme tra i premoderni e i nonmoderni. Purtroppo la difficoltà del relativismo non deriva sol-tanto dalla messa tra parentesi della natura, ma anche dalla convin-zione a questa collegata che il mondo moderno sia davvero disin-cantato. Gli occidentali si credono radicalmente diversi dagli altri non solo per arroganza, ma anche per disperazione e per autopuni-zione. Agli occidentali piace farsi paura riguardo al proprio destino. La loro voce trema quando si tratta di contrapporre i Barbari ai Greci, il Centro alla Periferia, di celebrare la Morte di Dio o quella dell'Uomo, la Kpiaig dell'Europa, l'imperialismo, l'anomia o la fine delle civiltà, che adesso sappiamo essere mortali. Come mai troviamo tanto piacere nell'essere così diversi non solo dagli altri ma anche dal nostro stesso passato? Quale raffinato psicologo saprà spiegare il compiacimento perverso che si prova nell'essere perpe-tuamente in crisi e nel far finire la storia? Perché ci divertiamo a tra-sformare in drammi giganteschi le piccole differenze di misura dei collettivi?

Per aggirare il moderno pathos, che ci impedisce di riconoscere la fratellanza dei collettivi, e per operarne una libera cernita, biso-gna che l'antropologia comparata misuri con esattezza gli effetti di queste differenze di dimensione. La Costituzione moderna impone

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di confondere gli effetti del dimensionamento dei nostri collettivi con le cause, che non riuscirebbe a comprendere se non a rischio di perdere la propria efficacia. Impressionati a ragione dalla dimen-sione degli effetti, i moderni credono di dover cercare cause prodi-giose. E siccome le uniche cause che la Costituzione ammette sono in effetti miracolose, perché rovesciate, bisogna pure che si pen-sino diversi dall'umanità normale. Un mutante dalla fronte ampia, ecco che cosa diventa nelle loro mani l'occidentale sradicato, accul-turato, americanizzato, razionalizzato, scientificizzato, tecnicizzato. Quante lacrime si sono versate sul disincanto del mondo! Quanto spavento per il povero europeo, scaraventato in un cosmo gelido e senz'anima, che gira su una terra inerte in un universo che ha per-duto di significato! Quanti brividi ci ha provocato lo spettacolo del proletario meccanizzato, sottomesso al dominio assoluto di un capitale tecnico, di una burocrazia kafkiana, abbandonato nel bel mezzo dei giochi del linguaggio, affondato nel cemento e nella fòr-mica! Quanta compassione ci ha fatto chi lascia il volante del suo macinino solo per sedersi sulla poltrona davanti al televisore, dove viene manipolato dalle forze dei media e della società dei consumi! Quanto godiamo a indossare il cilicio dell'assurdo e come ci di-verte ancora di più l'insensatezza postmoderna!

Eppure non abbiamo mai lasciato la vecchia matrice antropolo-gica. Non abbiamo mai smesso di costruire i nostri collettivi con i materiali frammisti di poveri umani e di umili nonumani. Come potremmo essere capaci di disincantare il mondo mentre i nostri laboratori e le nostre fabbriche lo riempiono ogni giorno di centi-naia di ibridi più bizzarri di quelli del giorno prima? La pompa ad aria di Boyle è forse meno strana della casa degli spiriti arapesh [Tuzin, 1980]? Incide meno sulla struttura dell'Inghilterra del XVII secolo? Come potremmo essere vittime del riduzionismo quando ogni scienziato moltiplica per cento le nuove entità per ridurne qualcuna? Come potremmo essere razionalizzati quando non riu-sciamo mai a vedere al di là del nostro naso? Come potremmo essere materialisti, quando ogni materia che inventiamo ha proprietà che

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nessuna materia riesce a unificare? Come potremmo essere vittime di un sistema tecnico totalizzante quando le macchine sono fatte da soggetti e non riescono mai a chiudersi in sistemi un po' stabili? Come potremmo essere congelati dal freddo respiro delle scienze, quando queste invece sono calde e fragili, umane e controverse, piene di reti pensanti e di soggetti anche loro popolati da cose?

L'errore che i moderni fanno nei propri confronti è facilissimo da capire una volta che si sia ristabilita la simmetria e che si tenga conto sia del lavoro di depurazione sia di quello di traduzione. Essi fanno confusione tra i prodotti e i processi. Hanno pensato che per pro-durre la razionalizzazione burocratica ci volessero come presuppo-sto burocrati razionali; che la produzione di scienza universale di-pendesse da scienziati universalisti; che la produzione di tecniche efficaci comportasse l'efficacia dei tecnici; che la produzione di astrazione fosse essa stessa astratta, che quella del formalismo fosse formale. Sarebbe come dire che una raffineria produce petrolio in modo raffinato, o che una latteria produce burro in modo lattiero! È vero che termini come scienza, tecnica, organizzazione, econo-mia, astrazione, formalismo, universalità designano effetti reali, che dobbiamo effettivamente rispettare e di cui dobbiamo rendere conto. Ma in nessun caso indicano le cause di questi effetti. Sono eccellenti sostantivi, ma cattivi aggettivi e pessimi avverbi. La scienza non si produce in modo scientifico più di quanto la tecnica si produca in modo tecnico, l'organizzazione in modo organizzato e l'economia in modo economico. Gli scienziati di laboratorio, i discendenti di Boyle, lo sanno bene, ma quando cominciano a ri-flettere su quello che fanno, dalla loro bocca escono le parole loro suggerite dai sociologi e dagli epistemologi, i discendenti di Hobbes.

Il paradosso dei moderni (e degli antimoderni) è quello di aver accettato fin dall'inizio spiegazioni cognitive o psicologiche gigan-tesche per illustrare effetti altrettanto giganteschi, mentre in tutti gli altri campi scientifici cercavano piccole cause per grandi effetti. Il riduzionismo non si è mai applicato al mondo moderno, mentre questo credeva di applicarlo a tutto! La nostra mitologia in effetti

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consiste nell'immaginarci radicalmente diversi prima di cercare le piccole differenze e le piccole distinzioni. Invece, una volta che co-minciano a svanire entrambe le Grandi Divisioni, questa mitologia comincia a sfilacciarsi. Una volta che si tiene conto del lavoro di mediazione insieme a quello di depurazione, l'umanità comune, l'i-numanità comune devono ricomparire. Ma, con nostra sorpresa, ci accorgiamo di saperne ben poco delle cause delle scienze, delle tec-niche, delle organizzazioni e delle economie. Aprite i testi di scienza sociale e di epistemologia, e vedrete lo spreco che si fa di aggettivi e di avverbi come «astratto», «razionale», «sistematico», «universale», «scientifico», «organizzato», «totale», «complesso». Cercate qual-cuno che si sforzi di spiegare i sostantivi «astrazione», «razionalità», «sistema», «universale», «scienza», «organizzazione», «totalità», «complessità» senza mai servirsi degli aggettivi precedenti e sarete fortunati se riuscirete a trovarne una dozzina in tutto. Paradossal-mente ne sappiamo di più sugli Achuar, sugli Arapesh, sugli Alla-diani che su noi stessi. Finché si tratta di piccole cause locali che comportano effetti locali, siamo capaci di seguirle. Ma perché non dovremmo riuscire a seguire i mille percorsi, dalla strana topologia, che portano dal locale al globale e poi ritornano al locale? L'antro-pologia è forse limitata per sempre ai territori e non è in grado di se-guire le reti?

Anche una rete estesa resta locale in ogni punto

Per comprendere le dimensioni esatte delle nostre differenze, senza ridurle come faceva prima il relativismo e senza esagerarle come facevano i modernizzatori, diciamo che i moderni hanno semplicemente inventato le reti estese assumendo un certo tipo di nonu-mani. L'estensione delle reti si è interrotta a quel punto e ha co-stretto a conservare alcuni territori [Deleuze e Guattari, 1972]. Ma moltiplicando questi esseri ibridi metà oggetti e metà soggetti, che chiamiamo macchine e fatti, i collettivi hanno modificato la loro

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topografia. Dato che questa integrazione di nuovi esseri ha avuto ef-fetti di scala straordinari facendo variare le relazioni dal locale al globale, anche se continuiamo a pensarle con le vecchie categorie dell'universale e del circostanziale, abbiamo la tendenza a trasfor-mare le reti estese degli occidentali in totalità sistematiche e glo-bali. Per dissipare il mistero, basterà seguire i percorsi insoliti che permettono queste variazioni di scala e di considerare le reti di fatti e di leggi un po' come quelle di erogazione del gas o dell'acqua.

La spiegazione profana degli effetti di dimensione caratteristici dell'Occidente è facile da cogliere nelle reti tecniche. Se si fosse su-bito applicato il relativismo non sarebbe stato tanto difficile capire questo universale relativo che rappresenta il suo più bel titolo d'o-nore. Una ferrovia è locale o globale? Né l'una né l'altra cosa. E lo-cale in ogni punto, perché trovate dappertutto traversine, ferro-vieri, talora stazioni e biglietterie automatiche. Ma è anche globale, perché vi porta da Madrid a Berlino o da Brest a Vladivostok. Però non è universale al punto di portarvi dovunque. È impossibile ar-rivare in treno a Malpy, un paesino dell'Alvernia, o a Market Dray-ton, una cittadina dello Staffordshire. Non esistono percorsi conti-nui per passare dal locale al globale, dal circostanziale all'universale, dal contingente al necessario, se non a condizione di pagare il costo dei collegamenti.

Il modello della ferrovia può generalizzarsi a tutte le reti tecni-che, di cui abbiamo una esperienza quotidiana. Il telefono ha un bell'essere universalmente diffuso, ma sappiamo bene che è possi-bile morire accanto a una linea se non disponiamo di una presa e di un apparecchio. Per completo che sia il sistema fognario, non c'è niente che dimostri che la carta del chewing-gum che lascio cadere in camera mia vi finisca dentro da sola. Forse le onde elettromagne-tiche sono sparse dappertutto, ma per ricevere i canali satellitari ho bisogno di un'antenna, di un abbonamento e di un decoder. Così, nel caso delle reti tecniche, non abbiamo alcuna difficoltà a riconciliare gli aspetti locali alla loro dimensione globale. Le reti si compongono di luoghi particolari, messi in linea da un serie di

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collegamenti che attraversano altri luoghi e che hanno bisogno per estendersi di altri collegamenti. Tra le linee della rete non c'è rigo-rosamente niente, né treno, né telefono, né derivazione, né televi-sione. Le reti tecniche, come dice il nome, sono reti tese su spazi e non trattengono che qualche raro elemento. Sono linee connesse e non superfici. Non hanno niente di totale, di globale, niente di si-stematico, anche se racchiudono superfici senza coprirle e anche se sono molto estese. Il lavoro di relativa universalizzazione resta una categoria facile da cogliere, che il relazionismo può seguire pezzo per pezzo. Ogni collegamento, ogni allineamento, ogni connes-sione è documentabile, c'è qualcuno che la traccia e ha un costo. Può estendersi quasi dovunque, espandersi nel tempo come nello spazio, senza riempirli [Stengers, 1983]. Per le idee, per i saperi, per le leggi e le competenze, il modello della rete tecnica non sembra adeguato a chi è tanto impressionato dagli effetti della diffusione e a chi crede che l'epistemologia parli delle scienze. È più difficile seguire i tracciatori, il costo non è cosi facile da documentare e si ri-schia di smarrire il percorso accidentato che porta dal locale al glo-bale [Callón, 1991]. Per loro si applica allora l'antica categoria fi-losofica dell'universale, radicalmente diverso dalle circostanze.

Così sembra che le idee e i saperi possano estendersi gratis do-vunque. Certe idee paiono locali, altre globali. La gravitazione uni-versale sembra (ne siamo convinti) operante e presente dovunque. La legge di Boyle o di Mariotte, le costanti di Planck legiferano dappertutto e sono presenti dappertutto. Quanto al teorema di Pi-tagora e ai numeri transfiniti, sembrano talmente universali da ri-fuggire addirittura questo basso mondo per ricongiungersi alle opere del divino Archimede. E a questo punto che l'antico relati-vismo e il suo fratello avversario, il razionalismo, scoprono la punta del proprio naso perché è in rapporto a questi universali, e solo a questi, che gli umili Achuar e i poveri Arapesh, come gli sfortu-nati borgognoni, si dimostrano disperatamente contingenti e arbi-trari, imprigionati in eterno negli stretti limiti dei propri particola-rismi regionali e dei propri saperi locali [Geertz, 1986]. Se ci

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fossero state soltanto le economie-mondi dei mercanti veneziani, genovesi o americani, se avessimo avuto esclusivamente i telefoni e le televisioni, le ferrovie e le reti fognarie, il dominio degli occi-dentali non sarebbe mai sembrato nient'altro che l'estensione prov-visoria e fragile di qualche rete esile e sottile. Ma c'è la scienza, che sempre rinnova, totalizza e riempie i buchi lasciati aperti dalle reti, che li trasforma in superfici lisce e compatte, assolutamente univer-sali. Solo l'idea che ci eravamo finora fatti della scienza rende asso-luto un dominio che sarebbe rimasto relativo. Tutti i sottili per-corsi che portavano continuamente dalle circostanze agli universali sono stati rotti dagli epistemologi e ci si è ritrovati con povere con-tingenze da un lato e con Leggi necessarie dall'altro, chiaramente senza che fosse possibile pensare le loro relazioni.

Ora, locale e globale sono concetti che si adattano benissimo alle superfici e alla geometria, ma molto peggio alle reti e alla topologia. Credere alla razionalizzazione è un semplice errore di categoria. Si è confusa una branca della matematica con un'altra. Il percorso delle idee, dei saperi e dei fatti sarebbe stato comprensibile senza difficoltà se li avessimo trattati come le reti tecniche [Shapin e Schaffer, 1985, cap. VI; Schaffer, 1991; Warwick, 1992], Per fortuna questa assimi-lazione è resa più facile non solo dalla fine dell'epistemologia, ma anche dalla fine della Costituzione e dalle trasformazioni tecniche che essa autorizzava senza capirle. Il percorso dei fatti diventa facile da capire come quello delle ferrovie o dei telefoni grazie a questa materializzazione dello spirito permessa dalle macchine pensanti e dai computer. Quando si misura l'informazione in bytes e in band, quando ci si abbona a una banca dati, quanto ci si connette o si esce da una rete informatica, è più difficile continuare a considerare il pensiero universale uno spirito che galleggia sulle acque [Lévy, 1990]. La ragione oggi assomiglia più a una rete televisiva via cavo che alle idee platoniche. Così diventa molto meno difficile che in passato vedere nelle nostre leggi e nelle nostre costanti, nelle nostre dimostrazioni e nei nostri teoremi, una serie di oggetti stabilizzati che circolano sì a grande distanza, ma sempre all'interno di reti me-

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teologiche ben strutturate da cui non possono uscire, se non con una connessione, un abbonamento e una decodifica.

Per parlare in termini volgari di un argomento che si è fin troppo idealizzato, il fatto scientifico è come il pesce surgelato: la catena del freddo che lo mantiene tale non deve essere interrotta, nemmeno per un istante. L'universale in rete produce gli stessi effetti dell'uni-versale assoluto, ma non ha più le stesse cause fantastiche. E possi-bile verificare «dovunque» la gravitazione, ma al costo di una rela-tiva estensione delle reti di misura e di interpretazione. L'elasticità dell'aria è controllata dappertutto, ma a condizione di collegarsi a una pompa ad aria che si diffonde a poco a poco in tutta Europa grazie alle molteplici trasformazioni degli sperimentatori. Provate a verificare il fatto più piccolo, la legge meno importante, la co-stante più umile, senza aderire alle molteplici reti metrologiche, ai laboratori e agli strumenti. Il teorema di Pitagora e le costanti di Planck si estendono fino a entrare nelle scuole e nei missili, nelle macchine e negli strumenti, ma non escono dai propri mondi più di quanto gli Achuar non si allontanino dai loro villaggi [Latour, 1989a, cap. vi]. I primi formano reti allungate, i secondi territori o cerchi: una differenza importante e che va rispettata, ma non per questo finiremo per trasformare i primi in universali e i secondi in locali. E pur vero che l'occidentale può credere che la gravitazione universale sia universale anche in assenza di ogni strumento, di ogni calcolo, di ogni decodificazione, di ogni laboratorio, proprio come i Bimin-Kuskumin della Nuova Guinea possono credere di essere tutta l'umanità, ma si tratta di rispettabili credenze che non hanno niente a che spartire con l'antropologia comparata.

Il Leviatano è un gomitolo di reti

Così com'è stato possibile per i moderni esagerare l'universalità delle loro scienze (strappando la rete sottile delle pratiche, degli strumenti e delle istituzioni che lastricavano la strada che porta

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dalla contingenza alla necessità), è stato anche possibile, specular-mente, esagerare le dimensioni e la durata delle loro società. Si sono creduti rivoluzionari, perché hanno inventato l'universalità delle scienze, strappate per sempre ai particolarismi locali, e perché hanno inventato organizzazioni gigantesche e razionalizzate, che hanno rotto con ogni fedeltà locale del passato. Così facendo, hanno mancato doppiamente l'originalità della loro invenzione: una nuova topologia che permette di arrivare quasi dappertutto, senza per questo occupare altro che sottili linee di forza. Si sono au-toincensati per virtù che non possedevano (la razionalizzazione), ma si sono anche autoflagellati per peccati che non sono capaci di commettere (questa stessa razionalizzazione!). In entrambi i casi hanno confuso la lunghezza o la connessione con le differenze di li-vello. Hanno creduto che ci fossero davvero persone, pensieri, si-tuazioni locali e organizzazioni, leggi, regole globali. Hanno pen-sato che esistessero contesti e altre situazioni che possedevano una misteriosa qualità per cui era possibile «decontestualizzarle» o «de-localizzarle». In effetti, se non si ricostituisce la rete intermedia dei quasi-oggetti, diventa diffìcile cogliere tanto la società quanto la verità scientifica, e per le stesse ragioni. Gli intermediari cancellati erano quelli che tenevano tutto in piedi, mentre gli estremi, una volta isolati, non sono più niente.

Senza gli innumerevoli oggetti che ne garantiscono tanto la du-rata quanto la solidità, gli oggetti tradizionali della teoria sociale (impero, classi, professioni, organizzazioni, Stati) diventano altret-tanti misteri [Law, 1986a; Law, 1986b; Law e Fyfe, 1988]. Per esempio, quali sono le dimensioni dell'lBM, dell'Armata Rossa, del ministero della Pubblica Istruzione, del mercato mondiale? Ci tro-viamo indubbiamente davanti ad attori di grandi dimensioni, in grado di mobilitare centinaia di migliaia o milioni di agenti. La loro ampiezza deve dunque avere origine da cause decisamente su-periori ai piccoli collettivi del passato. Però, se facciamo un giro negli uffici della IBM, se seguiamo le catene di comando dell'Ar-mata Rossa, se facciamo una indagine nei corridoi della Pubblica

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Istruzione, se studiamo la compravendita di una saponetta, non usciamo mai dalla dimensione locale. L'interazione avviene sempre tra cinque o sei persone; il portiere ha sempre un suo territorio ben delimitato; le conversazioni dei dirigenti assomigliano come gocce d'acqua a quelle dei dipendenti; quanto ai venditori, continuano a dare spiccioli di resto e a riempire i registri contabili. I macro-attori sarebbero fatti di micro-attori [Garfinkel, 1967]? La IBM sarebbe composta da una serie di interazioni locali? L'Armata Rossa da un aggregato di conversazioni alla mensa ufficiali? Il ministero da una montagna di scartoffie? Il mercato mondiale da una miriade di scambi locali e di intese?

Ritroviamo lo stesso problema già visto a proposito dei treni, dei telefoni o delle costanti universali. Com'è possibile collegarsi senza per questo essere né locali né universali? I sociologi e gli eco-nomisti moderni si spaccano la testa su questo problema. O re-stano al «micro» e nei contesti interpersonali o passano brusca-mente al «macro» e pensano di avere a che fare solo con elementi di razionalità decontestualizzati e spersonalizzati. Il mito della buro-crazia senz'anima e senza agente, come quello del mercato puro e perfetto, offrono l'immagine speculare a quella del mito delle leggi scientifiche universali. Invece del sentiero continuo dell'indagine, i moderni hanno imposto una differenza ontologica radicale, come quella che nel XVI secolo separava il mondo sublunare, soggetto alla corruzione e all'approssimazione, da quelli sovrallunari che non conoscevano alterazione e incertezza (d'altra parte sono gli stessi fisici che ridono insieme a Galileo, di questa distinzione on-tologica, ma che la ristabiliscono subito per rimettere le leggi della fisica al riparo da qualsiasi contaminazione sociale...).

Eppure esiste il filo di Arianna che permetterebbe di passare con-tinuamente dal locale al globale, dall'umano al nonumano. È quello formato da pratiche e strumenti, da documenti e traduzioni. Una organizzazione, un mercato, una istituzione non sono oggetti sovrallunari fatti di una materia diversa dalle nostre povere rela-zioni locali sublunari. L'unica differenza deriva dal fatto che sono

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composti da ibridi e che devono mobilitare, per la loro descrizione, un gran numero di oggetti. Il capitalismo di Fernand Braudel o di Marx non è il capitalismo totale dei marxisti [Braudel, 1979]. E una matassa di reti un po' lunga, che racchiude piuttosto male un mondo, partendo da punti che diventano centri di profitto e di calcolo. Seguendone le tracce, non si supera mai il limes misterioso che dovrebbe separare il locale dal globale. L'organizzazione della grande impresa americana, descritta da Alfred Chandler non è l'Organizzazione di Kafka [Chandler, 1989; Chandler, 1990]. È una treccia di reti materializzate nei buoni d'ordine e negli organi-grammi, nelle procedure locali e negli accordi particolari, che per-mettono in effetti di estendersi su un intero continente, a condi-zione che questo continente non ne sia coperto. È possibile seguire completamente la crescita dì una organizzazione senza cambiare mai di livello e senza arrivare a scoprire la razionalità «decontestua-lizzata». Perfino le dimensioni di uno Stato totalizzante si raggiun-gono solo costruendo una rete di statistiche e di calcoli, di uffici e di inchieste, e questa rete non segue del tutto la topografia fanta-stica dello Stato totale [Desrosières, 1984]. L'impero scientifico-tecnico di lord Kelvin, descritto da Norton Wise [Smith e Wise, 1989] o il mercato dell'elettricità descritto da Tom Hughes [Hu-ghes, 1983b] non ci fanno mai uscire dalle particolarità del labora-torio, della sala di riunione o del centro di controllo. Eppure que-ste «reti di potere» e queste «linee di forza» si estendono su tutto il mondo. I mercati descritti dall'economia delle convenzioni sono ben regolati e globali, senza per questo che alcuna delle cause di questa regolarità e di questa aggregazione sia globale o totale. Gli aggregati non sono fatti da materiale diverso da quello che aggre-gano [Thévenot, 1989;Thévenot, 1990]. Non esiste alcuna mano visibile o invisibile che arriva di colpo a mettere ordine tra i singoli atomi dispersi o caotici. I due estremi, il locale e il globale, sono molto meno interessanti di queste concatenazioni intermedie che qui chiamiamo reti.

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Il gusto dei margini

Come gli aggettivi naturale e sociale indicano rappresentazioni del collettivo, che di per sé non ha niente di naturale o di sociale, così i termini locale e globale offrono punti di vista sulle reti, che non sono né locali né globali, ma semplicemente più o meno estese e più o meno connesse. Quello che ho definito il moderno esoti-smo consiste nel considerare queste due coppie di opposizioni come ciò che definisce il nostro mondo e che ci distinguerebbe da tutti gli altri. Si formano così quattro regioni diverse: il naturale e il sociale non sono composti dagli stessi ingredienti; il globale e il locale sono intrinsecamente distinti. Ora, del sociale non sappiamo niente che non sia definito da quello che crediamo di sapere del na-turale, e viceversa. Così pure, non definiamo il locale se non con le caratteristiche che crediamo di dover assegnare al globale, e vice-versa. Si coglie così tutta la forza dell'errore che il mondo moderno compie quando le due coppie sono appaiate: in mezzo non c'è niente di pensabile, che sia collettivo, rete o mediazione; tutte le ri-sorse concettuali si accumulano ai quattro estremi. Noi, i poveri quasi-oggetti, le umili società-nature, i piccoli locali-globali, siamo tutti letteralmente squartati tra regioni ontologiche che si defini-scono a vicenda ma che non hanno più alcuna somiglianza con le nostre pratiche.

Questo squartamento permette di rappresentare la tragedia del-l'uomo moderno, assolutamente e irremediabilmente diverso da tutte le altre umanità e da tutte le altre naturalità. Ma questa trage-dia sarebbe evitabile se solo non dimenticassimo che questi quattro termini sono rappresentazioni senza alcun rapporto diretto con i collettivi e con le reti che danno loro senso. Nel centro, dove si suppone che non succeda niente, si trova invece quasi tutto. E alle estremità, dove secondo i moderni risiede l'origine di tutte le forze, della natura e della società, dell'universalità e della particolarità, non c'è niente, tranne le istanze depurate che servono da garanzie costituzionali dell'insieme.

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Figura 13

La tragedia diventa ancora più dolorosa quando gli antimoderni, prestando fede a quello che i moderni raccontano di sé, cercano di salvare qualcosa in quello che ai loro occhi appare come un naufra-gio. Gli antimoderni credono con una fede adamantina che l'Oc-cidente abbia razionalizzato e disincantato il mondo, che abbia davvero popolato il sociale di mostri freddi e razionali che sature-rebbero tutta l'atmosfera, che abbia realmente trasformato il cosmo premoderno in una interazione meccanica di pure materie. Ma, invece di vedervi conquiste gloriose, se pur dolorose, gli antimo-derni vi scorgono una catastrofe senza pari. Con una differenza di segno, moderni e antimoderni condividono completamente le stesse convinzioni. I postmoderni, sempre perversi, accettano l'idea che si tratti effettivamente di una catastrofe, ma sostengono che invece di dolersene bisogna esserne contenti! Rivendicano la de-bolezza in quanto estrema virtù, come afferma uno di loro nel suo stile inimitabile: «La Vermindung della metafisica si esercita come Vermindung del Ge-Stell» [Vattimo, 1987, p. 184].

Che cosa fanno allora gli antimoderni davanti a questo naufra-gio? Si assumono il compito audace di salvare il salvabile: l'anima,

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lo spirito, l'emozione, le relazioni interpersonali, la dimensione simbolica, il calore umano, i particolarismi locali, l'interpretazione, i margini e le periferie. Missione ammirevole, ma che lo sarebbe an-cora di più se tutti questi vasi sacri fossero davvero minacciati. Da dove viene la minaccia? Certo non dai collettivi incapaci di uscire dalle loro tenui e fragili reti, popolate di anime e di oggetti. Certo non dalle scienze, la cui relativa universalità si paga di giorno in giorno, con un lavoro di connessione e di taratura, di strumenta-zione e messa in bolla. Senz'altro non dalle società, le cui dimen-sioni non cambiano se non moltiplicando gli esseri materiali a on-tologia variabile. Da dove arriva allora la minaccia? Ma in parte dagli stessi antimoderni e dai loro complici, i moderni, che si fanno paura a vicenda e attribuiscono cause gigantesche agli effetti di scala. «Voi disincantate il mondo, io conserverò i diritti dello spi-rito». «Volete conservare lo spirito? E noi lo materializzeremo». «Ri-duttori!». «Spiritualisti!». Quanto più gli antiriduzionisti, i roman-tici, gli spiritualisti vogliono salvare il soggetto, tanto più i riduzionisti, gli scientisti, i materialisti credono di possedere gli og-getti. Più questi si vantano, più quelli hanno paura; più i primi sono sbigottiti, più i secondi si credono terrificanti.

La difesa della marginalità implica l'esistenza di un centro tota-litario. Ma se questo centro e la sua totalità sono illusioni, l'elogio dei margini è piuttosto ridicolo. Va benissimo voler difendere, con-tro la fredda universalità delle leggi scientifiche, le esigenze del corpo sofferente e del calore umano. Ma se questa universalità deriva da una serie di luoghi dove corpi assolutamente carnali e ben caldi sof-frono in ogni punto, questa difesa non risulta grottesca? Proteggere l'uomo dal dominio delle macchine e dei tecnocrati è una impresa degna di lode, ma se le macchine sono piene di uomini che vi affi-dano la loro salvezza, una protezione simile è semplicemente as-surda [Ellul, 1977]. È un'opera ammirevole dimostrare che la forza dello spirito trascende le leggi della materia meccanica, ma si tratta di un programma sciocco se la materia non ha niente di materiale e se le macchine non hanno niente di meccanico. È cosa che fa onore

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voler salvare l'essere, con un grido disperato, nel momento in cui il dominio tecnico sembra prendere ovunque il sopravvento, dato che «ove esiste un pericolo, là cresce anche ciò che salva». Ma è piutto-sto perverso approfittarsi spavaldamente di una crisi che non è an-cora cominciata! Cercate l'origine dei miti moderni: la troverete quasi sempre tra chi pretende di contrapporre al modernismo la barriera invalicabile dello spirito, dell'emozione, del soggetto o del margine. Volendo offrire un supplemento di anima al mondo mo-derno, gli si sottrae quella che ha, quella che aveva, quella che non gli era proprio possibile perdere. Questa sottrazione e questa addi-zione sono le due operazioni che consentono ai moderni e agli an-timoderni di farsi paura a vicenda, pur concordando sull'essenziale: siamo assolutamente diversi dagli altri e abbiamo rotto per sempre con il nostro passato. Ora, le scienze e le tecniche, le organizzazioni e le burocrazie sono le uniche prove di questa catastrofe senza pre-cedenti, mentre è proprio al loro interno che possiamo dimostrare nel modo migliore e più diretto la permanenza della vecchia matrice antropologica. E vero che l'innovazione delle reti estese è impor-tante, ma non basta per farne tutta una storia.

Non aggiungere altri crimini a quelli già commessi

È tuttavia difficile placare il senso di abbandono dei moderni, perché nasce da un sentimento di per sé rispettabile: la coscienza di aver commesso crimini irreparabili contro il resto dei mondi natu-rali e culturali e di averne commessi anche contro se stessi di tale ampiezza e per motivi cosi sordidi da dover rompere con tutto. Come si possono ricondurre i moderni alla normale umanità e alla normale inumanità, senza assolverli troppo in fretta dai crimini che a ragione vogliono espiare? Come possiamo pretendere, rispet-tando un principio di giustizia, che i nostri vizi, pur obbrobriosi, restino comuni e che le nostre virtù, pur grandi, siano anch'esse normalissime?

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Per i nostri misfatti vale quello che si è detto del nostro accesso alla natura: non se ne devono esagerare le cause misurandole dagli effetti, perché questa esagerazione diventerebbe essa stessa una causa di scelleratezze ancora maggiori. Ogni totalizzazione, anche se critica, va nel senso del totalitarismo. Al dominio reale non dob-biamo aggiungere il dominio totale. Alla forza non aggiungiamo la potenza [Latour, 1984, parte li]. Al realissimo imperialismo, non dobbiamo attaccare l'imperialismo totale. Al capitalismo, anch'esso reale, non dobbiamo sommare la deterritorializzazione assoluta [Deleuze e Guattari, 1972]. Allo stesso modo, alla verità scientifica e all'efficacia tecnica non dobbiamo aggiungere per sovrappiù la trascendenza, anch'essa totale, e la razionalità, anch'essa assoluta. Per i misfatti come per il dominio, per i capitalismi come per le scienze, quello che bisogna capire è l'ordinario, sono le piccole cause con i loro grandi effetti [Arendt, 1963; Mayer, 1990].

La demonizzazione è senza dubbio più soddisfacente per noi, perché cosi, anche se nel male, restiamo eccezionali, separati da tutti gli altri e dal nostro stesso passato, moderni almeno nel peg-gio dopo aver creduto di esserlo nel meglio. Ma proprio la totaliz-zazione partecipa, per vie traverse, a quello che pretende di annul-lare. Rende impotente davanti al nemico, cui attribuisce proprietà fantastiche. Un sistema unitario e uniforme, che non si può ripu-lire. Una natura trascendente e omogenea, che non si può ricom-binare. Un sistema tecnico totalmente sistematico, che nessuno può ridistribuire. Una società kafkiana, che nessuno può rinego-ziare. Un capitalismo «deterritorializzante» e assolutamente schizo-frenico, che nessuno ridistribuirà mai. Un Occidente radicalmente disgiunto dalle altre culture-nature, che nessuno può mettere in discussione. Culture imprigionate per sempre in rappresentazioni arbitrarie, complete e coerenti, che nessuno può valutare. Un mondo che ha completamente dimenticato l'essere, che nessuno salverà. Un passato dal quale siamo separati per sempre da radicali rotture epistemologiche, che nessuno può vagliare.

Tutti questi supplementi di totalità sono attribuiti dai loro cri-

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tici a esseri che non chiedevano tanto. Prendete un dirigente di impresa alla ricerca incerta di qualche settore di mercato, un con-quistatore qualunque scosso dai tremiti della febbre, un povero scienziato che si arrabatta nel suo laboratorio, un umile ingegnere che sistema alla bell'e meglio qualche rapporto di forze un po' fa-vorevole, un uomo politico balbettante e spaventato, lasciateli in balia dei loro critici e che cosa avrete in cambio? Il capitalismo, l'imperialismo, la scienza, la tecnica, il potere, tutti altrettanto as-soluti, sistematici, totalitari. I primi tremavano. I secondi non tre-mano più. I primi potevano essere sconfitti. I secondi sono ormai invincibili. I primi erano vicinissimi all'umile lavoro fatto di media-zioni affatto fragili e modificabili. I secondi, purificati, sono tutti al-trettanto formidabili.

Che fare allora delle superfici lisce e piene di queste totalità as-solute? Ma vanno rovesciate in blocco, sovvertite, rivoluzionate. Che bel paradosso! Grazie allo spirito critico i moderni hanno in-ventato nello stesso tempo il sistema totale, la rivoluzione totale per annientarlo e il fallimento altrettanto totale di questa rivolu-zione, un fallimento che li riempie di disperazione! Non è forse qui la causa di tanti delitti di cui ci accusiamo? Considerando la Costituzione invece del lavoro di traduzione, i critici hanno imma-ginato che fossimo effettivamente incapaci di fare compromessi, bricolage, ibridazioni e selezioni. Basandosi sulle fragili reti etero-genee che da sempre formano i collettivi, hanno elaborato totalità omogenee, che non si possono toccare senza rivoluzionarle comple-tamente. E dato che questo sovvertimento era impossibile, anche se l'hanno tentato malgrado tutto, sono passati da un crimine all'al-tro. Come potrebbe ancora passare come una dimostrazione di moralità questo Noli me tangere dei totalizzatori? Il credere in una modernità radicale e totale porterebbe allora all'immoralità?

Magari sarebbe meno ingiusto parlare di un fatto generazionale, anche se siamo ancora in pochi ad accorgercene. Siamo nati dopo la guerra, con i neri e i rossi dietro di noi, le carestie sotto di noi, l'a-pocalisse nucleare sulle nostre teste, davanti a noi la distruzione

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globale del pianeta. In effetti è difficile negare gli effetti di scala, ma è ancora più difficile credere senza esitazioni alle virtù incom-parabili delle rivoluzioni politiche, mediche, scientifiche ed econo-miche. Eppure siamo nati in mezzo alle scienze, non abbiamo co-nosciuto che pace e prosperità, amiamo (perché negarlo?) le tecniche e gli oggetti di consumo di cui ci consigliano di avere or-rore i filosofi e i moralisti delle generazioni precedenti. Per noi le tecniche non sono nuove, non sono moderne nel senso banale del termine, ma compongono da sempre il nostro mondo. Più delle precedenti generazioni, la nostra le ha digerite, integrate, forse umanizzate. Dato che siamo i primi a non credere alle virtù e ai pericoli delle scienze e delle tecniche, ma ne condividiamo vizi e virtù senza vedervi il paradiso o l'inferno, ci è magari più facile ri-cercarne le cause senza appellarsi al fardello dell'uomo bianco, alla fatalità del capitalismo, al destino europeo, alla storia dell'essere o alla razionalità universale. Magari è più facile oggi abbandonare la convinzione della nostra estraneità. Non siamo esotici ma nor-mali. Per questo neanche gli altri sono esotici. Sono come noi, non hanno mai smesso di essere nostri fratelli. Non aggiungiamo il crimine di crederci radicalmente diversi a tutti gli altri che ab-biamo già commesso.

Le trascendenze abbondano

Se non siamo più moderni, se comunque non siamo premo-derni, su che base stabiliremo il confronto tra i collettivi? Sarà ne-cessario aggiungere alla Costituzione moderna, ormai lo sappiamo, il lavoro ufficioso della mediazione. Se confrontiamo la Costitu-zione alle culture descritte dall'antropologia asimmetrica del pas-sato, possiamo solo arrivare al relativismo e all'impossibile moder-nizzazione. Se invece confrontiamo il lavoro di traduzione dei collettivi, apriamo la porta all'antropologia simmetrica e dissol-viamo i falsi problemi del relativismo assoluto. Ma parimenti ci

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priviamo delle risorse elaborate dai moderni: il sociale, la natura, il discorso, per non parlare del Dio barrato. È questa l'ultima diffi-coltà del relativismo: ora che il confronto è diventato possibile, in quale spazio comune si trovano immersi tutti i collettivi produttori di nature e di società?

Sono nella natura? No di certo, perché questa natura esterna, liscia, trascendente, è l'effetto relativo e tardo della produzione col-lettiva. Sono nella società? No, perché questa non è che l'artefatto simmetrico alla natura, ciò che resta quando si eliminano tutti gli oggetti e si produce la misteriosa trascendenza del Leviatano. Sono nel linguaggio, allora? Impossibile, perché il discorso è un altro ar-tefatto, che ha senso solo se si mettono tra parentesi la realtà esterna del referente e il contesto sociale. Sono in Dio? E poco probabile, perché l'entità metafisica che porta questo nome occupa un posto di arbitro distante, per tenere il più lontano possibile le due istanze simmetriche della natura e della società. Sono nell'essere? Ancor meno, perché per un sorprendente paradosso il pensiero dell'es-sere è diventato il residuo stesso, una volta che ogni scienza, ogni tecnica, ogni società, ogni storia, ogni lingua, ogni teologia sia stata abbandonata alla semplice metafisica, al puro espansionismo del-l'ente. Naturalizzazione, socializzazione, discorsivizzazione, divi-nizzazione, ontologizzazione: tutte queste «zioni» sono altrettanto impossibili. Nessuna costituisce la base comune su cui poggereb-bero i collettivi, resi così confrontabili. No, non cadiamo dalla na-tura nel sociale, dal sociale nel discorso, dal discorso in Dio, da Dio nell'essere. Queste istanze avevano una funzione costituzio-nale solo a condizione di restare distinte. Nessuna può coprire, riempire, sussumere le altre; nessuna può servire a descrivere il la-voro di mediazione e di traduzione.

Dove siamo finiti, allora? In che posto siamo caduti? Finché ci facciamo questa domanda, siamo senza alcun dubbio ancora nel mondo moderno, ossessionati dalla costruzione di una immanenza (.immanere: restare dentro) o dalla decostruzione di un'altra. Re-stiamo ancora, per usare il vecchio vocabolo, nella metafisica. In-

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vece, mentre percorriamo queste reti, non ci troviamo in niente di particolarmente omogeneo. Siamo, piuttosto, in una infra-fisica. Allora siamo immanenti, una forza tra le altre, testi tra gli altri, so-cietà tra le altre, ente tra gli enti?

No, perché se invece di attaccare i poveri fenomeni ai solidi ganci della natura e della società lasciamo che siano i mediatori a produrre le nature e le società, invertiamo il senso della trascen-denza modernizzatrice. Nature e società diventano i prodotti rela-tivi della storia. Però non caschiamo nella pura immanenza, perché le reti non affondano in niente. Non ci serve un etere misterioso perché si propaghino. Non c'è niente da riempire. E la concezione dei termini trascendenza e immanenza che viene modificata dal ri-torno dei moderni al nonmoderno. Chi ci dice che la trascendenza deve avere un contrario? Noi ci troviamo, restiamo nella trascen-denza, non l'abbiamo mai lasciata, restiamo cioè nella presenza con la mediazione dell'invio.

Le altre culture hanno sempre stupito i moderni per l'aspetto dif-fuso delle proprie forze attive e spirituali. Esse non mettevano mai in gioco, da nessuna parte, pure materie, pure forze meccaniche. In ogni dove si mescolavano gli spiriti e gli agenti, gli dèi e gli antenati. Per contrasto il mondo moderno sembrava loro disincantato, svuo-tato dei suoi misteri, dominato dalle forze lisce della pura imma-nenza, alla quale solo noi, gli umani, imponevamo qualche dimen-sione simbolica e al di là delle quali esisteva forse la trascendenza del Dio barrato. Ma se non c'è immanenza, se non ci sono che reti e agenti, non potremmo essere disincantati. Non siamo noi che ag-giungiamo arbitrariamente la «dimensione simbolica» alle pure forze materiali. Anch'esse sono trascendenti, attive, agitate, spirituali, pro-prio come noi. La natura non è accessibile con più immediatezza della società o del Dio barrato. Invece del gioco sottile dei moderni tra le tre entità, ognuna delle quali era insieme trascendente e imma-nente, abbiamo un'unica proliferazione di trascendenza. Un ter-mine polemico, inventato per contrastare l'invasione dell'imma-nenza, deve ora cambiare di senso avendo perso il suo contrario.

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Chiamerò delega questa trascendenza senza contrario. L'enun-ciato, o la delega, o l'invio del messaggio o del messaggero, per-mette di restare presenti, ovvero di esistere. Lasciando il mondo moderno non andiamo a finire da qualcuno o in qualcosa, non fi-niamo in una essenza, ma in un processo, in un movimento, in un passaggio nel senso letterale che questo termine ha nel gioco del pallone. Lasciamo una esistenza continua e rischiosa (continua in quanto rischiosa); lasciamo la messa in presenza e non la perma-nenza.

Ci separiamo anche dal vinculum stesso, dal passaggio e dalla relazione, non accettando come punto di partenza alcun essere che non esca da questa relazione che è insieme collettiva, reale e di-scorsiva. Non ci separiamo dagli umani, questi ultimi arrivati, né dal linguaggio, ben più successivo. Il mondo del senso e quello dell'essere sono un unico e identico mondo, quello della tradu-zione, della sostituzione, della delega, del passaggio. Di qualunque altra definizione di essenza diremo che è «destituita di senso», e in effetti è destituita dei mezzi per restare in presenza, per durare. Ogni durata, ogni resistenza, ogni permanenza dovrà pagarsi con i suoi mediatori.

Questa esplorazione di una trascendenza senza contrario è ciò che rende il nostro mondo cosi poco moderno, con tutti questi nunzi, mediatori, delegati, feticci, macchine, figurine, strumenti, rappresentanti, angeli, luogotenenti, portavoce e cherubini. Che mondo è mai questo che ci obbliga a rendere conto nello stesso istante della natura delle cose, delle tecniche, delle scienze, degli esseri immaginari, delle religioni piccole e grandi, della politica, delle giurisdizioni, delle economie e degli inconsci? Ma è il nostro. Ha smesso di essere moderno da quando abbiamo sostituito ogni essenza con i mediatori, i delegati, i traduttori che le danno senso. E per questo che non lo riconosciamo ancora. Ha preso un aspetto vetusto, con tutti questi delegati, angeli e luogotenenti. Eppure non assomiglia più alle culture studiate dall'etnologo, che non aveva mai fatto il lavoro simmetrico di convocazione dei delegati,

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dei mediatori e dei traduttori a casa sua, nel suo stesso collettivo. L'antropologia faceva affidamento sulla scienza, o sulla società, o sul linguaggio: alternava sempre universalismo e relativismo culturale e alla fine ci insegnava ben poco sia di Loro sia di Noi.

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CAPITOLO Q U I N T O

Ridistribuzione

La modernizzazione impossibile

Dopo aver disegnato la Costituzione moderna e le ragioni che l'a-vevano resa invincibile; dopo aver mostrato come mai la rivolu-zione critica era finita e come l'irruzione dei quasi-oggetti ci co-stringesse, per dare senso alla Costituzione, a ondeggiare dalla sola dimensione moderna a quella nonmoderna, che restava sempre presente; dopo aver ristabilito la simmetria tra i collettivi e aver misurato così le loro differenze di misura, risolvendo nel contempo il problema del relativismo, posso adesso concludere questo sag-gio affrontando la questione più difficile, quella del mondo non-moderno nel quale affermo che siamo entrati, senza esserne mai ef-fettivamente usciti.

La modernizzazione, anche se ha distrutto con il ferro e con il sangue la quasi totalità delle culture e delle nature, aveva un fine chiaro. Modernizzare permetteva di distinguere nettamente le leggi della natura esterna e le convenzioni della società. I conquistatori operavano dovunque questa partizione, rimandando gli ibridi ora

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all'oggetto ora alla società. Un fronte coerente e continuo di rivo-luzioni radicali — nella scienza, nella tecnica, nell'amministrazione, nell'economia, nella religione — li accompagnava, una vera e pro-pria pala di bulldozer dietro alla quale il passato scompariva per sempre, ma davanti alla quale almeno si spalancava l'avvenire. Il passato era la mescolanza barbara; l'avvenire la distinzione che ren-deva civili. E vero che i moderni hanno sempre ammesso di avere anche loro, in passato, mescolato gli oggetti e le società, le cosmo-logie e le sociologie. Il fatto è che erano ancora semplici premo-derni. Da questo passato hanno dovuto strapparsi con rivoluzioni sempre più tremende. Dato che le altre culture mescolano ancora i limiti della scienza e i bisogni delle proprie società, bisogna aiu-tarle a uscire da questa situazione cancellando il loro passato. I mo-dernizzatori sanno bene che i barbari iloti dimorano là dove troppo si mescolano efficacia tecnica e arbitrio sociale. Ma presto raggiun-geremo la modernizzazione, avremo liquidato questi iloti, e saremo tutti sullo stesso pianeta, tutti altrettanto moderni, tutti altrettanto capaci di godere di quello che sempre sfugge alla società: la razio-nalità economica, la verità scientifica, l'efficienza tecnica.

Alcuni modernizzatori parlano ancora come se un simile de-stino fosse possibile e auspicabile. Eppure basta renderlo esplicito per vederne tutta l'assurdità. Come potremmo raggiungere la pu-rificazione delle scienze e delle società quando sono gli stessi mo-dernizzatori che fanno proliferare gli ibridi grazie a quella Costitu-zione che ne nega l'esistenza? Questa contraddizione è stata a lungo occultata dalla crescita stessa dei moderni. Continue rivoluzioni nello Stato, continue rivoluzioni nelle scienze, continue rivoluzioni nelle tecniche avrebbero pur finito per assorbire, depurare, civiliz-zare gli ibridi, inserendoli nella società o nella natura. Ma il du-plice fallimento da cui sono partito, quello del socialismo (dalla parte del cuore) e quello del naturalismo (dalla parte del giardino!), ha reso più improbabile il lavoro di depurazione e più evidente la contraddizione. Si è esaurita la scorta di rivoluzioni per continuare la fuga in avanti. Gli ibridi sono tanto numerosi che più nessuno

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riesce a vedere come assorbirli nell'antica terra promessa della mo-dernità. Di qui l'improvvisa titubanza dei postmoderni.

La modernizzazione è stata impietosa con i premoderni, ma che dire della postmodernizzazione? La violenza imperialista offriva al-meno un avvenire, ma l'improvvisa debolezza dei conquistatori è ben peggiore perché, mantenendo la rottura con il passato, adesso rompe anche con il futuro. Dopo avere subito in pieno i colpi della realtà moderna, ecco che i popoli devono ora sopportare l'iper-realtà postmoderna. Niente ha valore, tutto è riflesso, tutto è si-mulacro, tutto è segno fluttuante e questa stessa debolezza, secondo loro, forse ci salverà dall'invasività delle tecniche, delle scienze, delle ragioni. Era proprio necessario distruggere tutto per arrivare a dare questo calcio dell'asino? Il mondo svuotato dove volteggiano i po-stmoderni è un mondo vuoto per loro e solo per loro, perché hanno preso i moderni alla lettera. Il postmoderno è un sintomo della contraddizione del moderno, ma non saprebbe farne la dia-gnosi perché è interno alla stessa Costituzione (le scienze e le tec-niche sono extraumane), anche se non ne condivide più quello che originava la sua forza e la sua grandezza, ossia la proliferazione dei quasi-oggetti e la moltiplicazione degli intermediari tra gli umani e i nonumani.

Eppure la diagnosi non è così difficile da fare adesso che siamo obbligati a considerare simmetricamente il lavoro di depurazione e quello di mediazione. Anche nei peggiori momenti dell'imperium occidentale, la questione non è mai stata quella di separare in modo chiaro e definitivo le leggi della natura dalle convenzioni sociali. Si trattava sempre di costruire collettivi, mescolando, su scala sem-pre più grande, un certo tipo di nonumani, di oggetti alla Boyle e di soggetti alla Hobbes (per non parlare del Dio barrato). L'inno-vazione delle reti estese è una particolarità interessante, ma non basta a distinguerci radicalmente dagli altri o a separarci per sem-pre dal nostro passato. Non dobbiamo continuare la modernizza-zione raccogliendo le nostre forze, ignorando i postmoderni, strin-gendo i denti, continuando nonostante tutto a credere alle duplici

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promesse del naturalismo e del socialismo, perché questa moder-nizzazione non è mai cominciata. Non è mai stata nient'altro che la rappresentazione ufficiale di un lavoro diverso, molto più in-terno e profondo, che oggi continua su scala sempre più grande. Non dobbiamo più lottare contro la modernizzazione (nel modo militante degli antimoderni o in quello subdolo dei postmoderni), perché in questo caso ci attaccheremmo alla sola Costituzione e non faremmo altro che renderla più forte, ignorando quello che, da sempre, le procura l'energia.

Ma questa diagnosi offre un rimedio all'impossibile moderniz-zazione? Se, come ho continuato a ripetere, la Costituzione per-mette la proliferazione degli ibridi perché si rifiuta di pensarli come tali, resta efficace solo a condizione di negarne l'esistenza. Se la contraddizione feconda tra le due parti (il lavoro ufficiale di depu-razione e quello ufficioso di mediazione) diventa chiara e visibile, la Costituzione non perderà la propria efficacia? La modernizza-zione non diventerà impossibile? Diventeremo, o ridiventeremo, premoderni? Bisogna rassegnarsi a diventare antimoderni? In man-canza di meglio, dovremo continuare a essere moderni ma senza fede, nello stile crepuscolare dei postmoderni?

Esami di ammissione

Per rispondere a queste domande, dobbiamo vagliare le diverse posizioni che ho delineato nel corso di questo saggio, in modo da comporre il nonmoderno con ciò che esse hanno di meglio. Che cosa conserveremo dei moderni? Tutto, tranne la fiducia esclusiva nella loro Costituzione, che dovrà subire qualche emendamento. La loro grandezza nasce dall'aver fatto proliferare gli ibridi, dall'aver esteso un certo tipo di reti, dall'aver accelerato la produzione delle tracce, moltiplicato i delegati, prodotto alla cieca universali relativi. La loro audacia, la loro ricerca, il loro bricolage, la loro follia gio-vanile, la scala sempre più grande del loro intervento, la creazione

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di oggetti stabilizzati indipendenti dalla società, la libertà di una so-cietà liberata dagli oggetti: ecco che cosa vogliamo conservare. In-vece non possiamo conservare l'immagine illusoria (positiva o ne-gativa che sia) che essi hanno di sé e che vogliono generalizzare a tutto: atei, materialisti, spiritualisti, teisti, razionali, efficaci, obiet-tivi, universali, critici, radicalmente diversi dagli altri collettivi, se-parati dal loro passato (che solo lo storicismo permette di mante-nere artificialmente in vita), separati dalla natura (sulla quale il soggetto o la società imporrebbero arbitrariamente le forme), accu-satori sempre in guerra contro se stessi.

Eravamo lontani dai premoderni a causa della Grande Divisione esterna, che, come ho detto, è una semplice esportazione della Grande Divisione interna. Mettendo fine a quest'ultima, la prima scompare, sostituita da differenze di formato. Adesso che non siamo più cosi distanti dai premoderni, dobbiamo domandarci come fare per passare anche loro al vaglio. Prima di tutto conser-viamo quello che hanno di meglio: la loro attitudine a riflettere in modo esclusivo sulla produzione degli ibridi di natura e società, di cosa e di segno, la certezza nell'abbondanza delle trascendenze, la loro capacità di concepire il passato e l'avvenire come ripetizione e rinnovamento, la moltiplicazione di tipi di nonumani diversi da quelli dei moderni. Invece non sapremmo mantenere i limiti che impongono alle dimensioni dei collettivi, la localizzazione per ter-ritori, il processo sacrificale di accusa, l'etnocentrismo e infine l'in-differenziazione costante delle nature e delle società.

Questo lavoro di vaglio, però, sembra impossibile e addirittura contraddittorio perché il dimensionamento dei collettivi dipende dal mantenere il silenzio sui quasi-oggetti. Come conservare le di-mensioni, la ricerca, la proliferazione, rendendo espliciti gli ibridi? E tuttavia questo l'amalgama che vado cercando: mantenere la messa in natura e la messa in società che permettono il cambio di scala mediante la creazione di una verità esterna e di un soggetto di diritto, senza per questo ignorare il lavoro congiunto delle scienze e delle società. Servirsi dei premoderni per pensare gli ibridi, ma

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conservare dei moderni il risultato finale del lavoro di depurazione, ovvero l'inserimento in una scatola nera di una natura esterna chia-ramente distinta dai soggetti. Seguire in modo continuo il gra-diente che conduce dalle esistenze instabili alle essenze stabilizzate, e viceversa. Realizzare il lavoro di depurazione, ma come esempio particolare di quello di mediazione. Conservare tutti i vantaggi del dualismo dei moderni senza gli inconvenienti: la clandestinità dei quasi-oggetti; conservare tutti i vantaggi del monismo dei premo-derni senza subirne i limiti: la limitazione di formato dovuta alla costante confusione dei saperi e dei poteri.

I postmoderni hanno avvertito la crisi e per questo meritano anche loro l'esame e il lavoro di vaglio. E impossibile conservare la loro ironia, la disperazione, lo scoraggiamento, il nichilismo, l'au-tocritica, perché tutte queste belle qualità dipendono da una con-cezione del modernismo che quest'ultimo non ha mai realmente praticato. Invece possiamo salvare la decostruzione (ma, dato che non ha più contrario, diventa costruttivismo e non ha più alcun collegamento con l'autodistruzione); possiamo mantenere il loro ri-fiuto della naturalizzazione (ma, siccome la stessa natura non è più naturale, questo rifiuto non allontana più dalle scienze confezio-nate, ma riawicina anzi alle scienze in azione); possiamo conservare il loro gusto così pronunciato per la riflessività (ma, dato che que-sta proprietà è distribuita tra tutti gli attori, perde il suo aspetto di parodia e diventa positiva); infine potremmo con loro rifiutare l'i-dea di un tempo coerente e omogeneo che avanzerebbe marciando al passo dell'oca (ma senza conservare il loro gusto per la citazione e l'anacronismo, che tiene viva la convinzione che il passato sia davvero trapassato). Togliete ai moderni l'idea che si fanno dei mo-derni, e i loro vizi diventeranno virtù, virtù nonmoderne.

Purtroppo non trovo niente negli antimoderni che valga la pena di essere salvato. Sempre sulla difensiva, hanno sempre creduto a quello che i moderni dicevano di se stessi, per rovesciarne violente-mente il segno. Antirivoluzionari, si sono fatti del tempo passato come della tradizione la stessa idea ridicola dei moderni. I valori

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che difendono non sono mai stati nient'altro che il residuo lasciato dai loro nemici, senza avere mai capito che la grandezza dei mo-derni dipendeva, in pratica, da valori opposti, molto più completi. Anche nei combattimenti di retroguardia non sono riusciti a inno-vare, occupando lo strapuntino che era stato loro assegnato. Non si può nemmeno dire a loro difesa che avrebbero messo un freno alla frenesia dei moderni, nella quale sono sempre stati ottimi figuranti.

Il bilancio di questo esame non è sfavorevole. Possiamo conser-vare i Lumi senza la modernità, a condizione di reintegrare nella Costituzione gli oggetti delle scienze e delle tecniche, quasi-oggetti tra i tanti, la cui genesi non deve essere più clandestina, ma seguita dall'inizio alla fine, a cominciare dagli eventi caldi che li hanno fatti nascere fino a quel raffreddamento progressivo che li trasforma in essenze della natura o della società.

E possibile elaborare una Costituzione che permetta di ricono-scere ufficialmente questo lavoro? Dobbiamo farla, perché la mo-dernizzazione vecchio stile non sarà più in grado di assorbire né gli altri popoli né la natura; questa è almeno la convinzione all'o-rigine del presente saggio. Il mondo moderno, per il suo stesso bene, non può più estendersi senza ridiventare quello che in pratica non ha mai smesso di essere, ossia un mondo nonmoderno come tutti gli altri. Questa fraternità è essenziale per assorbire i due in-siemi che la modernizzazione rivoluzionaria ha lasciato dietro di sé: le folle naturali che non controlliamo più, le folle umane che nes-suno sa più dominare. La temporalità moderna dava l'impressione di un'accelerazione continua, respingendo nel nulla del passato masse sempre più grandi e frammiste di umani e di nonumani. L'irreversibilità ha cambiato di campo. Se c'è qualcosa di cui non ci si può più sbarazzare, sono le nature e le folle, entrambe altrettanto globali. Il lavoro politico riprende. È stato necessario modificare da cima a fondo la fabbrica dei nostri collettivi per assorbire il cit-tadino del XVIII secolo e l'operaio del XIX secolo. Si dovranno fare altrettanti cambiamenti per fare posto oggi ai nonumani creati dalle scienze e dalle tecniche.

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DEI MODERNI

DEI PREMODERNI

DEI POSTMODERNI

QUELLO CHK QUELLO CHE CONSERVIAMO BUTTIAMO VIA

reti estese; separazione della natura dimensioni; e della società; sperimentazione; clandestinità delle universali relativi; pratiche di mediazione; separazione della Grande Divisione natura oggettiva e esterna; della società libera denuncia critica;

universalità, razionalità

non separabilità delle obbligo di legare cose e dei segni; sempre l'ordine sociale trascendenza senza e naturale; contrario; meccanismo moltiplicazione dei sacrificale di accusa; nonumani; etnocentrismo; temporalità per territorio; intensità scala

tempo multiplo; credenza nel decostruzione; modernismo; riflessività; impotenza; denaturalizzazione decostruzione critica;

riflessività ironica; anacronismo

Figura 14

L'umanesimo ridistribuito

Prima di riuscire a emendare la Costituzione dobbiamo soprat-tutto cambiare di posto all'umano, cui l'umanesimo non rende giu-stizia. Il soggetto di diritto, il cittadino attore del Leviatano, il volto sconvolgente della persona umana, l'essere di relazione, la coscienza,

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il cogito, l'uomo di parola che cerca le sue parole, l'ermeneuta, l'io profondo, il tu e il te della comunicazione, la presenza a sé, l'inter-soggettività: tutte figure magnifiche che i moderni hanno saputo dipingere e salvare. Ma sono figure che restano comunque asimme-triche, perché sono il contraltare dell'oggetto delle scienze, che di-mora orfano, abbandonato nelle mani di coloro che gli epistemologi e i sociologi credono riduttori, oggettivi, razionali. Dove sono i Mounier delle macchine, i Lévinas degli animali, i Ricoeur dei fatti? L'umano, ormai lo comprendiamo, non si può cogliere e salvare senza restituirgli quell'altra metà di sé, la parte delle cose. Finché l'umanesimo nasce dal contrasto con l'oggetto lasciato all'epistemo-logia, non possiamo comprendere né l'umano né il nonumano.

Dove collocare l'umano? Successioni storiche di quasi-oggetti quasi-soggetti, non è possibile definirlo in quanto essenza, come sappiamo da molto tempo. La sua storia e la sua antropologia sono troppo diverse perché siano circoscrivibili una volta per tutte. Ma l'astuzia di Sartre, che lo definisce come esistenza libera che si estirpa da una natura destituita di significato, ci è evidentemente vietata, perché abbiamo restituito l'azione, la volontà, il significato e la parola stessa a tutti i quasi-oggetti. Non c'è più un pratico-inerte a cui appiccicare la pura libertà dell'esistenza umana. Op-porlo al Dio barrato (o di converso riconciliarlo) è altrettanto im-possibile, perché è nella loro opposizione comune alla natura che la Costituzione moderna ha definito tutti e tre. Bisogna allora im-mergerlo nella natura? Ma andando a cercare certi risultati di ta-lune discipline scientifiche per vestire questo robot animato di neu-roni, di pulsioni, di geni egoisti, di bisogni elementari, di calcoli economici, non lasceremmo i mostri e le maschere. Le scienze mol-tiplicano le forme senza arrivare a spostarle, a ridurle o a unificarle. Aggiungono realtà, non se ne sottraggono. Gli ibridi che inven-tano in laboratorio sono ancora più strani di quelli che vorrebbero ridurre. Bisogna allora annunciare solennemente la morte del-l'uomo e il disordine nel linguaggio, riflesso evanescente di strut-ture inumane che si sottrarrebbero a qualunque comprensione?

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Ma no, perché non siamo nel discorso più che nella natura. In ogni modo, non c'è niente di così inumano che sia possibile dissolvervi l'uomo per annunciarne la morte. Le sue volontà, le sue azioni, le sue parole sono fin troppo abbondanti. Si potrà scansare il pro-blema facendo dell'umano qualcosa di trascendentale che ci allon-tanerebbe per sempre dalla semplice natura? Questo significhe-rebbe ricadere su uno dei due poli della Costituzione moderna. Si dovrà estendere con la forza qualche definizione provvisoria e par-ticolare inserita nei diritti dell'uomo o nei preamboli delle costitu-zioni? Vorrebbe dire ridisegnare le due Grandi Divisioni e credere nella modernizzazione.

Se l 'umano non possiede forma stabile, non è per questo informe. Se invece di metterlo in uno dei due poli della Costitu-zione lo avviciniamo al centro, esso diventa il mediatore e lo scam-biatore stesso. L umano non è uno dei poli della Costituzione con-trapposto al nonumano. Le due espressioni sono risultati maturi che non bastano più a designare l'altra dimensione. La scala di va-lori non consiste nel far slittare la definizione dell'umano lungo la linea orizzontale che unisce il polo dell'oggetto a quello del sog-getto, ma lungo la linea verticale che definisce il mondo nonmo-derno. Se svelate il suo lavoro di mediazione, assumerà forma umana. Se lo tenete nascosto, si dovrà parlare di inumanità, anche se si tratta della coscienza o della persona morale. L'espressione «an-tropomorfico» sottovaluta, e di molto, la nostra umanità. E di mor-fismo che si dovrebbe parlare. In esso si incrociano i tecnomorfismi, gli zoomorfismi, i fisiomorfismi, gli ideomorfismi, i teomorfismi, i sociomorfismi, gli psicomorfismi. Le alleanze e gli scambi tra que-sti definiscono per tutti loro l'avSpojtog. Scambiatore o miscela-tore di morfismi, eccone una buona definizione. Più si avvicina a questa ripartizione, più è umano. Più se ne allontana, più assume forme multiple nelle quali la sua umanità diventa ben presto indi-stinguibile, anche se le sue figure sono quelle della persona, dell'in-dividuo o dell'io. Se si vuole isolare la sua forma da quello che me-scola, non lo si difende: lo si perde.

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Come farebbe a essere minacciato dalle sue macchine? Le ha fatte lui, si è trasmesso in loro, nelle loro membra ha ripartito le sue, con loro costruisce il suo stesso corpo. Come farebbe a essere minacciato dagli oggetti? Sono stati tutti quasi-oggetti che circo-lano nei collettivi che tracciavano. E fatto di quasi-oggetti, come loro sono fatti di lui. Si è definito moltiplicando le cose. Come fa-rebbe a essere ingannato dalla politica? È lui che la fa, ricompo-nendo i collettivi con le continue controversie sulla rappresenta-zione/rappresentanza, che permettono di dire in ogni istante quello che è e quello che vuole. Come farebbe a essere oscurato dalla reli-gione? E grazie a questa che si lega ai suoi simili, che si conosce come persona presente nelle enunciazioni. Come farebbe a essere manipolato dall'economia? La sua forma provvisoria è inassegna-bile senza la circolazione di beni e di debiti, senza la continua ripar-tizione dei legami sociali che andiamo intessendo per grazia delle cose. Eccolo qua: delegato, mediato, ripartito, trasmesso, enun-ciato, irriducibile. Da dove viene la minaccia? In parte da coloro che vogliono ridurlo a una essenza e che, disprezzando le cose, gli oggetti, le macchine, il sociale, bloccando tutte le deleghe e inter-rompendo tutti gli invii, realizzando per riempimento livelli uniformi e superfici piene, mescolando tutti gli ordini di missione, fanno dell'umanesimo una cosa fragile e preziosa, sovrastata dalla natura, dalla società e da Dio.

I moderni umanisti sono riduttori perché cercano di rapportare l'azione solo a qualche potenza, lasciando al resto del mondo solo semplici intermediari o semplici forze mute. Ridistribuendo l'a-zione tra tutti i mediatori si perde, è vero, la forma ridotta del-l 'uomo, ma se ne guadagna un'altra, che dovremo chiamare irri-dotta. L'umano è nella delega stessa, nel passaggio, nell'invio, nello scambio continuo delle forme. Certo che non è una cosa, ma anche le cose non sono più tali. Certo che non è una merce, ma anche le merci non sono più tali. Certo che non è una macchina, ma chi ne ha vista una sa come sono poco meccaniche. Certo che non è di questo mondo, ma anche questo mondo non è più di questo

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mondo. Certo che non è più un Dio, ma che rapporto c'è tra il Dio dell'alto dei cieli e quello che si dovrà dire del basso? L'umanesimo non può conservarsi se non dividendosi con tutti i suoi inviati. La natura umana è l'insieme dei suoi delegati e rappresentanti, delle sue figure e dei suoi messaggeri. Questo universale, simmetrico, vai bene quello doppiamente asimmetrico dei moderni. Questa nuova posizione, sfalsata rispetto a quella del soggetto/società, dovrà ora trovare garanzie in una Costituzione emendata.

La Costituzione nonmoderna

Nel corso di questo saggio ho semplicemente ristabilito la sim-metria tra le due branche del governo: quella delle cose, chiamata scienza e tecnica, e quella degli umani. Ho anche mostrato perché la separazione dei poteri tra le due branche, dopo aver permesso la proliferazione degli ibridi, non è più riuscita a rappresentare de-gnamente questo nuovo terzo stato. Una costituzione si giudica dalle garanzie che offre. Quella dei moderni, ricordiamolo, permet-teva quattro garanzie che avevano senso solo se prese tutte e quat-tro insieme, ma a condizione di restare rigorosamente separate. La prima assicurava alla natura la sua dimensione trascendente, ren-dendola distinta dalla fabbrica della società (all'opposto del legame continuo tra l'ordine naturale e l'ordine sociale dei premoderni). La seconda assicurava alla società la sua dimensione immanente, ren-dendo i cittadini completamente liberi di ricostruirla artificialmente (all'opposto del legame continuo tra ordine sociale e ordine naturale che obbligava i premoderni a non poter modificarne uno senza cambiare l'altro). Ma, dato che questa duplice separazione permet-teva in pratica di mobilitare e di costruire la natura (diventata im-manente proprio per questa mobilitazione e costruzione) e, di con-verso, di dare stabilità e durata alla società (diventata trascendente grazie all'assunzione di nonumani sempre più numerosi), una terza garanzia assicurava l'ancoraggio dei due rami del governo: anche se

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mobilitabile e costruita, la natura resterà senza relazioni con la so-cietà che, a sua volta, anche se trascendente e sorretta da cose, non avrà più relazioni con la natura. In altre parole i quasi-oggetti sa-ranno ufficialmente banditi (dobbiamo dire che diventeranno tabù?) e le reti di traduzione passeranno alla clandestinità, offrendo al lavoro di depurazione una contropartita che si continuerà però a pensare e a coprire (fino a quando i postmoderni non l'annulle-ranno del tutto). La quarta garanzia del Dio barrato permetteva di stabilizzare questo meccanismo dualista e asimmetrico, assicurando una funzione di arbitraggio benché priva di presenza e di potere.

Per delineare la Costituzione nonmoderna, basta tenere conto di quello che la prima aveva lasciato da parte e di selezionare le garan-zie che desideriamo conservare. Siamo cioè impegnati a dare una rappresentazione/rappresentanza ai quasi-oggetti. Per questo biso-gna eliminare la terza garanzia, perché è quella che rendeva impos-sibile la continuità di analisi dei quasi-oggetti. La natura e la società non sono poli distinti, ma una sola e unica produzione di società-nature, di collettivi. La prima garanzia diventa cosi quella della non separabilità dei quasi-oggetti quasi-soggetti. Ogni concetto, ogni istituzione, ogni pratica che abbiano generato il continuo dispie-garsi dei collettivi e la sperimentazione di ibridi, saranno da noi considerati pericolosi, nefasti e, per dirla tutta, immorali. Il lavoro di mediazione diventa il centro del duplice potere naturale e sociale. Le reti escono dalla clandestinità. L'Impero di Mezzo è rappresen-tato. Il terzo stato, che non era niente, diventa tutto.

Però, come ho già detto, non vogliamo ridiventare premoderni. La non separabilità delle nature e delle società aveva l'inconve-niente di rendere impossibile la sperimentazione su larga scala, per-ché ogni trasformazione della natura doveva coincidere, termine su termine, con una trasformazione sociale, e viceversa. Ora, noi vogliamo conservare la principale innovazione dei moderni: la se-parabilità di una natura che non è stata costruita da nessuno (tra-scendenza) e la libertà di manovra di una società che è opera nostra (immanenza). Ciò nondimeno, non vogliamo ereditare la dande-

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stinità del meccanismo inverso che permette di costruire la natura (immanenza) e di stabilizzare in modo duraturo la società (trascen-denza).

Ma non possiamo conservare le due prime garanzie della vecchia Costituzione senza mantenere la doppiezza, oggi evidente, della sua terza garanzia. La trascendenza della natura, la sua obiettività, o l'immanenza della società, la sua soggettività, derivano dal lavoro di mediazione senza dipendere dalla loro separazione, contrariamente a quanto afferma la Costituzione dei moderni. Il lavoro di messa in natura o di messa in società deriva dal risultato duraturo e irrever-sibile dell'attività comune di delega e di traduzione. In fin dei conti, esistono davvero una natura che non abbiamo fatto noi e una so-cietà che possiamo cambiare, ci sono davvero fatti scientifici indi-scutibili e soggetti di diritto, ma questi diventano la doppia conse-guenza di una pratica costantemente visibile e non, come per i moderni, le cause opposte e distanti di una pratica invisibile che le contraddice. La nostra seconda garanzia permette dunque di recu-perare le prime due garanzie della Costituzione moderna, ma senza separarle. Ogni concetto, ogni istituzione, ogni pratica che abbiano intralciato la progressiva oggettivazione della natura (l'inserimento nella scatola nera) e al contempo la soggettivizzazione della società (la libertà di manovra), saranno da noi considerati nefasti, perico-losi e, per dirla tutta, immorali. Senza questa seconda garanzia, le reti liberate dalla prima conserverebbero il loro carattere selvaggio e clandestino. I moderni non si sbagliavano quando volevano no-numani oggettivi e società libere. Era solo sbagliata la loro certezza che questa doppia produzione esigeva la distinzione assoluta dei due termini e la repressione continua del lavoro di mediazione.

La storicità non trovava posto nella Costituzione moderna, per-ché era inquadrata dalle tre sole entità di cui riconosceva l'esistenza. La storia contingente non esisteva se non per gli umani e la rivolu-zione diventava l'unico mezzo con cui i moderni comprendevano il proprio passato, come ho prima spiegato, rompendo completa-mente con questo. Ma il tempo non è un flusso omogeneo e li-

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scio. Se dipende dalle associazioni, queste non dipendono da lui. Non deve più essere possibile ricorrere al trucco del tempo che passa per sempre raggruppando in un insieme coerente elementi che appartengono a tutti i tempi e a tutte le ontologie. Se vogliamo recuperare la capacità di selezione che pare essenziale alla nostra moralità e che definisce l'umano, bisogna che non ci sia alcun flusso temporale coerente che limiti la nostra libertà di scelta. La terza garanzia, importante come le altre, è quella che consente di combinare liberamente le associazioni senza dover avere sempre davanti a noi la scelta tra arcaismo e modernizzazione, tra locale e globale, tra culturale e universale, tra naturale e sociale. La libertà si è spostata dal solo polo sociale ed è andata a occupare la parte bassa e centrale, diventando capacità di selezione e di ricombina-zione dei guazzabugli socio-tecnici. Ogni nuovo appello alla rivo-luzione, ogni rottura epistemologica, ogni rovesciamento coperni-cano, ogni pretesa di mettere in prescrizione per sempre certe pratiche, saranno da noi considerati pericolosi o, quel che è peggio agli occhi dei moderni, caduti in prescrizione!

Ma se la mia interpretazione della Costituzione moderna è cor-retta, se essa ha davvero permesso lo sviluppo dei collettivi vietando ufficialmente quello che lasciava fare nella pratica, come potremmo continuare ad agire nello stesso modo ora che abbiamo reso la sua pratica visibile e ufficiale? Offrendo queste garanzie per sostituire le precedenti, non rendiamo impossibile questo doppio linguaggio e la crescita dei collettivi? È appunto quello che vogliamo fare. Da questo rallentamento, da questa moderazione, da questa regola-zione, ci aspettiamo la nostra moralità. La quarta garanzia, forse la più importante, consiste nel sostituire alla folle proliferazione di ibridi la loro produzione regolata e decisa in comune. E forse ora di riparlare di democrazia, ma di una democrazia estesa alle cose stesse. Non deve essere più possibile rifare il trucco di Archimede.

E necessario aggiungere che il Dio barrato, in questa nuova Co-stituzione, si trova liberato dalla posizione indegna in cui lo si te-neva? La questione di Dio è riaperta c i nonmoderni non devono

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più tentare di generalizzare la metafisica improbabile dei moderni, che li costringeva a credere alla credenza.

COSTITUZIONE MODERNA

Prima garanzia: la natura è trascen-dente ma mobilitabile (immanente)

Seconda garanzia: la società è imma-nente ma ci sovrasta infinitamente (trascendente)

Terza garanzia: la natura e la società sono completamente distinte e il lavo-ro di depurazione è senza rapporto con quello di mediazione

Quarta garanzia: il Dio barrato è com-pletamente assente, ma assicura l'arbi-traggio tra le due branche del governo

COSTITUZIONE NONMODERNA

Prima garanzia: non separabilità della produzione comune delle società e delle nature

Seconda garanzia: seguito ininterrotto della messa in natura, oggettiva, e del-la messa in società, libera. In fin dei conti esistono davvero la trascendenza della natura e l'immanenza della so-cietà, ma le due non sono separate

Terza garanzia: la libertà è ridefinita come una capacità di selezione delle combinazioni degli ibridi che non di-pende più da un flusso temporale omogeneo

Quarta garanzia: la produzione di ibridi, diventando esplicita e colletti-va, diventa anche oggetto di una de-mocrazia allargata che ne regola o ne rallenta la cadenza

Figura 15

Il Parlamento delle cose

Vogliamo che il meticoloso lavoro di vaglio dei quasi-oggetti di-venti possibile non solo in via ufficiosa e con discrezione, ma in modo ufficiale e pubblico. In questa volontà di aggiornamento, espressa in parole e in pubblico, continuiamo a riconoscerci nell'in-tuizione dell'Illuminismo. Ma questa intuizione non ha mai avuto

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un'antropologia della propria ambizione. Ha diviso l'umano e i nonumani e ha creduto che gli altri non lo facessero. Questa divi-sione, forse necessaria per accrescere la mobilitazione, è diventata superflua, immorale e, diciamolo finalmente, anticostituzionale. Siamo stati moderni. Benissimo. Non possiamo più esserlo allo stesso modo. Emendando la Costituzione, continuiamo a credere nelle scienze, ma invece di prenderle nella loro obiettività, nella loro verità, nella loro freddezza, nella loro extraterritorialità (carat-teristiche che non hanno mai avuto, se non nella rielaborazione arbitraria dell'epistemologia), le prendiamo per quello che hanno sempre avuto di più interessante: la loro audacia, sperimentazione, incertezza e calore, il loro incongruo miscuglio di ibridi, la folle capacità di ricomporre il legame sociale. Non togliamo loro nient'altro che il mistero della nascita e il pericolo che la loro clan-destinità faceva correre alla democrazia.

SI, siamo davvero gli eredi dell'Illuminismo, il cui razionalismo asimmetrico non è abbastanza grande per noi. I discendenti di Boyle avevano definito un Parlamento dei muti, il laboratorio, dove gli scienziati, semplici intermediari, parlavano solo in nome delle cose. Che cosa dicevano? Niente che le cose non avrebbero detto da sole se avessero saputo parlare. I discendenti di Hobbes avevano de-finito, lontano dal laboratorio, la repubblica, o i cittadini nudi, che non potendo parlare tutti insieme si facevano rappresentare da uno di loro, il sovrano, semplice intermediario e portavoce dei loro in-tenti. Che cosa diceva questo rappresentante? Niente che i cittadini non avrebbero detto se avessero potuto parlare tutti allo stesso tempo. Ma un dubbio si è introdotto ben presto sulla qualità di questa doppia traduzione. E se gli scienziati parlassero per proprio conto, invece che a nome delle cose? E se il sovrano perseguisse i propri interessi invece di leggere il testo scritto per lui dai suoi man-datari? Nel primo caso, perderemmo la natura e ricadremmo nelle dispute umane, nel secondo ricascheremmo nello stato di natura e nella guerra di tutti contro tutti. Definendo una separazione totale tra le due rappresentazioni, quella scientifica c quella politica, diven-

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tava possibile la doppia modalità della traduzione/tradimento. Non sapremo mai se gli scienziati traducono o tradiscono. Non sapremo mai se i titolari del mandato tradiscono o traducono.

Nel periodo moderno le critiche si sono sempre nutrite di questo duplice dubbio e dell'impossibilità di mettergli fine. Il moderno ha comunque deciso di fare questa scelta ma di diffidare sempre dei suoi due tipi di rappresentanti, senza farne per questo un solo e unico problema. Gli epistemologi si sono interrogati sul realismo scientifico e sulla fedeltà delle scienze alle cose; i politologi sul si-stema rappresentativo e sulla relativa fedeltà degli eletti e dei porta-voce. In comune hanno avuto l'odio per gli intermediari e il deside-rio di un mondo immediato, privo di mediatori. In comune hanno avuto la convinzione che la fedeltà della rappresentazione/rappre-sentanza aveva questo prezzo, senza capire che la soluzione del pro-blema stava nell'altra branca del governo.

Nel corso di questo saggio sono ritornato su questa divisione di compiti perché non permetteva più di costruire la casa comune che ospiterà le società-nature che i moderni ci hanno trasmesso. Non ci sono due problemi di rappresentanza, ma uno solo. Non ci sono due branche, ma una, i cui prodotti non si distinguono che in un secondo tempo e dopo un esame comune. Gli scienziati sem-brano tradire la realtà esterna solo perché costruiscono insieme le proprie società e le proprie nature. Il sovrano sembra tradire i suoi mandatari solo perché mescola insieme i cittadini e la massa enorme di nonumani che permettono al Leviatano di stare in piedi. La diffidenza della rappresentazione scientifica era soltanto dovuta al fatto che, come si credeva, senza la contaminazione sociale la natura sarebbe direttamente accessibile. La diffidenza della rappre-sentanza politica derivava dal fatto che, come si credeva, senza la perversione delle cose il legame sociale diventerebbe trasparente. «Eliminate il sociale e avrete una fedele rappresentazione» dicevano gli uni. «Eliminate gli oggetti e avrete finalmente una rappresen-tanza fedele» sostenevano gli altri. Tutto il dibattito partiva dalla se-parazione definita dalla Costituzione moderna.

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Riprendiamo le due rappresentazioni e il duplice dubbio sulla fedeltà che hanno i mandatari ed ecco definito il Parlamento delle cose. Al suo interno si trova ricongiunta la continuità del collettivo. Non ci sono più nude verità, ma neanche nudi cittadini. I media-tori hanno tutto lo spazio per sé. I Lumi trovano finalmente di-mora. Le nature sono presenti, ma con i loro rappresentanti, gli scienziati, che parlano a loro nome. Le società sono presenti, ma con gli oggetti che le riempiono da sempre. Che ci importa se uno dei delegati parla del buco nell'ozono, un altro rappresenta gli in-teressi delle industrie chimiche della regione Alpi-Rodano, un terzo quelli degli operai di queste stesse industrie, un altro ancora gli elettori della zona di Lione, un quinto la meteorologia delle re-gioni polari e un sesto parla a nome dello Stato? Purché si pronun-cino tutti sulla stessa cosa, su questo quasi-oggetto che hanno con-tribuito tutti a creare, questo oggetto-discorso-natura-società le cui caratteristiche nuove sorprendono noi tutti e la cui rete si estende dal mio frigorifero all'Antartico, passando per la chimica, il diritto, lo Stato, l'economia e i satelliti. I guazzabugli e le reti che non tro-vavano posto, finalmente ne hanno uno. Sono queste reti che vanno rappresentate, è intorno a loro che ormai si raduna il Parla-mento delle cose. «La pietra che i costruttori avevano scartato è di-ventata la pietra angolare».

Questo Parlamento non va costituito ex novo, chiamando a una nuova rivoluzione. Dobbiamo semplicemente ratificare quello che abbiamo sempre fatto, a condizione di riconsiderare il nostro pas-sato, di comprendere a posteriori fino a qual punto non siamo mai stati moderni, di risistemare le due metà di questo simbolo spezzato da Hobbes e da Boyle in segno di riconoscimento. La metà della nostra politica si fa nelle scienze e nelle tecniche. L'altra metà della natura si verifica nelle società. Riattacchiamole insieme: ecco che ri-comincia la politica. È forse troppo poco ratificare pubblicamente quel che si fa già? Come abbiamo visto nel corso di tutto il saggio, la rappresentazione ufficiale è efficace: è questa che ha permesso nell'antica Costituzione di esplorare gli ibridi. Se potessimo scri-

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verne una nuova, modificheremmo profondamente il corso dei quasi-oggetti. Ci si aspetta troppo da un cambio di rappresentanza che sembra rimandare soltanto alla carta straccia di una Costitu-zione? Forse, ma io ho fatto semplicemente il mio lavoro di filosofo e di costituente, mettendo insieme i pezzi sparsi dell'antropologia comparata. Altri sapranno convocare il Parlamento.

Non abbiamo scelta. Se non modifichiamo la casa comune, non potremo accogliervi le altre culture che non siamo più in grado di dominare e saremo per sempre incapaci di fare posto a questo am-biente che non sappiamo più controllare. Né la natura né gli altri diventeranno moderni. Tocca a noi cambiare il nostro modo di cambiare. Altrimenti sarà stato inutile che il Muro di Berlino sia crollato nell'anno miracoloso del Bicentenario, offrendoci questa straordinaria lezione sul fallimento congiunto del socialismo e del naturalismo.

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Postfazione Il richiamo della modernità,

approcci antropologici*

Quando un'azienda si accorge, troppo tardi, di aver lanciato sul mercato un prodotto difettoso, procede a richiamarlo, spesso per via pubblicitaria. Tale richiamo non ha certo l'obiettivo di distrug-gere il prodotto o di perdere fette di mercato, ma tutto all'opposto, mostrando ai consumatori la cura che si dedica alla qualità dei beni e alla sicurezza degli utenti, mira a riprendere l'iniziativa, a ri-guadagnare la fiducia dei media e a bloccare, se possibile, la produ-zione di quello che era stato deciso troppo in fretta. E in questo senso un po' particolare, di cui dirò meglio più avanti, che ri-prendo l'espressione richiamo della modernità, facendovi natural-mente risuonare anche il senso più consueto di un ritorno ai prin-cipi fondatori e quello, che mi è proprio, di indagine sulla peculiarità del suo funzionamento, una stranezza del moderno che tendiamo il più delle volte a passare sotto silenzio; da qui l'utilità di questo piccolo richiamo.

* Conferenza tenuta al Collège de Franco il 26 novembre 2003 nell'ambito del se-minario diretto da Philippe Descola.

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Mi propongo innanzi tutto di passare rapidamente in rassegna questi ultimi trent'anni, prima di affrontare il progetto di un futuro empirico dell'antropologia. Non è inutile compiere questo breve passo indietro, poiché la linea che perseguo da tempo rimane, no-nostante tutto, piuttosto marginale. Ringrazio dunque Philippe Descola per avermi accettato, anche se provvisoriamente, nei ran-ghi di una disciplina di cui talvolta mi ammanto come la ghiandaia si adorna delle piume del pavone.

Il titolo della prima parte del mio discorso potrebbe essere Rias-sunto delle puntate precedenti: definizione di un'antropologia detta simmetrica. Nella seconda parte intendo invece mettere in contra-sto il primo progetto dell'antropologia con quello che definisco un progetto «diplomatico», anch'esso scientifico ma in altro modo. Infine, nella terza parte, che è di gran lunga la più difficile, abbozzo brevemente il programma per una definizione contemporanea della modernità. Spiegherò man mano che avanziamo il senso at-tribuito a tutti questi termini.

/

Il mio contributo all'antropologia si riassume in una frase con-cepita esattamente trent'anni fa, giorno più giorno meno, quando, appena sistemato ad Abidjan, decisi di ottenere una borsa Fulbri-ght per andare a lavorare in California nel laboratorio di Roger Guillemin: «Applicare metodi etnografici alla pratica scientifica». Vorrei ricordare perché questa piccola frase ha avuto effetti tanto importanti sulla mia concezione di progetto antropalogico.

Se torniamo indietro a trent'anni fa, possiamo misurare abba-stanza facilmente il cammino compiuto: l'antropologia sociale o culturale si occupava delle culture; l'antropologia fisica o biologica si occupava della natura. Era quindi ovvio in quell'epoca lontana -anche se lo stesso approccio è, malgrado tutto, ancora operativo nell'insegnamento, nella definizione consueta della disciplina - che

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si poteva studiare il mondo in due modi incommensurabili: uno velato, abbigliato, coperto, caldo, e uno spoglio, freddo, anzi gla-ciale; diciamo un modo metaforico e un modo letterale. Il pen-siero selvaggio e il pensiero sapiente, pur producendo talvolta dei simpatici avvicinamenti, delle iridate interferenze, non avevano fra loro punti di contatto durevoli, perché il primo ricopriva il secondo con un mantello variopinto di forme estranee alla fredda natura oggettiva delle cose. Certo, si poteva praticare la storia dei pensieri scientifici (e l'epistemologia francese non si è tirata indietro), ma il suo programma aveva l'obiettivo di scoprire, di svestire ancora di più il pensiero sapiente per «liberarlo» compiutamente da quei resti di irrazionalità, di simbolismo, di metafora, di ideologia che rima-nevano attaccati al libero esercizio della ragione. Grazie all'episte-mologia, si poteva comprendere sempre meglio come la scienza si distinguesse, assolutamente e non relativamente, dall'ideologia.

È facile capire quale fosse la conseguenza di una simile riparti-zione dei compiti fra le culture al plurale e la natura al singolare per il progetto antropologico: la molteplicità stessa delle culture po-teva stagliarsi vividamente solo sullo sfondo bianco e omogeneo dell'unica natura. Si può addirittura sostenere, senza offendere an-tropologi e antropologhe, che il coraggio con cui affrontavano la diversità delle culture derivava probabilmente da questa sicurezza di una natura oggettiva e fredda, certo gelidamente indifferente agli esseri umani, priva di valore simbolico, ma in ogni caso solida e ras-sicurante nel suo ruolo di sfondo. Si affronta meglio la molteplicità quando si può segretamente contare su di una indiscutibile e pre-ventiva unificazione. Si registrano con maggiore equanimità i di-versi modi di pensare per esempio il parto, se sappiamo di poter trovare nella fisiologia una e una sola definizione della maniera bio-logica di fare i bambini. Di ritorno dai Tropici, gli antropologi hanno sempre potuto rimettersi alle certezze delle scienze proprio come i monaci in preghiera possono richiamarsi alla «misericor-dia» quando cominciano ad accusare qualche debolezza... Anche se la loro disciplina non è mai riuscita a ottenere completamente l'u-

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nità necessaria per passare il test della Scienza con la esse maiu-scola, gli antropologi hanno sempre chiesto in prestito ad altri campi del sapere, più avanzati, quel necessario sovrappiù di cer-tezza; e va loro riconosciuto che hanno provato di tutto: dalla lin-guistica all'economia, dalla demografia alla teoria dei sistemi, dalla neurobiologia alla sociobiologia. Il punto fondamentale di questa condizione classica, o piuttosto moderna, è che l'affermazione della molteplicità era in fondo assai poco impegnativa, poiché non fa-ceva presa su nulla di veramente essenziale: non aveva un ancorag-gio ontologico durevole. Il reale reale, la vera e autentica realtà, re-stava fermamente unificato sotto i buoni auspici della natura.

Sono ormai trent'anni che questa suddivisione dei compiti mi sembra impossibile da mantenere. Anche se non ne avevo certa-mente percepito tutte le conseguenze, mi era sembrato immediata-mente evidente che nel progetto di ritorno dell'antropologia su se stessa ci fosse addirittura un'asimmetria prossima all'impostura. La ragione è semplice e adesso è diventata banale, ma, credetemi, al-lora non lo era affatto: i miei maestri dell'ORSTOM avevano sicura-mente l'intenzione di accostarsi al nucleo centrale delle culture afri-cane che studiavano, quel nucleo che ne spiegava la coerenza; e non ho alcuna ragione di dubitare che vi riuscissero davvero stu-diando con tanta sottigliezza gli Alladiani, i Baulé o i mercanti Mossi. La loro intelligenza, lo dico senza la minima ironia, mi sba-lordiva. Ma nonostante tutto ero colpito dal fatto che, quando ri-volgevano i loro strumenti, i loro concetti, i loro metodi verso se stessi, verso di noi, verso Parigi, affermavano con modestia di poter cogliere «solo alcuni aspetti» delle società contemporanee, quegli aspetti che a me sembravano i più folclorici, arcaici, superficiali, e in ogni caso i meno centrali, delle società moderne. A meno che, e tutto stava in quel «a meno che», non si cambiasse completamente metodo e non si seguisse l'irruzione della ragione, della natura, del-l'economia moderna nella lotta condotta contro le tradizioni, le culture, gli arcaismi. Abbiamo già archiviato quell'epoca, per for-tuna, ma ricordiamo ancora la massa di proposte, di documentari,

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di articoli di giornale, di tesi e di studi sulle popolazioni «combat-tute», «lacerate», «divise» fra «modernità» e «tradizione». Certo, questo tema si ritrova anche oggi, ma il cuore del dibattito è al-trove, non è più 11 (tornerò più avanti su questo punto). A quell'e-poca, dunque, sembrava che si potesse sia condurre una vera inda-gine antropologica (studiando il centro delle altre culture e i margini delle nostre), sia constatare la lacerazione tra un modo an-tropologizzabile di esistere e un modo radicalmente non antropo-logizzabile di stare al mondo.

Ebbene, a partire proprio da quell'epoca, io mi dicevo che delle due cose l'una: o noi siamo assolutamente troppo arroganti quando pretendiamo di analizzare le culture in quello che hanno di centrale, oppure siamo assolutamente troppo modesti quando progettiamo di studiare le nostre società accontentandoci di rifi-larne i margini, senza attaccare il nocciolo centrale: la ragione, la natura, o meglio quelle che io chiamo le tre sorelle, le tre divinità congiunte: l'Efficienza (tecnica), la Redditività (economica) e l'Og-gettività (scientifica). Mi dicevo, dunque, che era necessario «sim-metrizzare» gli approcci, immaginando una bilancia regolata un po' meglio, che non facesse pendere i piatti come se vi fosse stata gettata fin dall'inizio la spada di Brenno: più moderazione laggiù, più audacia qui. In pratica, questo significava utilizzare gli stessi metodi etnografici per i «bianchi» e per i «neri», per il pensiero sa-piente e per il pensiero «selvaggio», o piuttosto significava diffi-dare terribilmente della nozione stessa di «pensiero». Non sapevo, per mia fortuna, che mi stavo gettando in un'avventura dai molte-plici sviluppi.

Sorvolo su tutti i dettagli biografici e accademici, qui irrilevanti; vorrei solamente soffermarmi su un momento di questa avventura: nel momento in cui gli approcci diventano effettivamente simme-trici, ci si accorge con un certo orrore che le nozioni utilizzate per rendere conto del nocciolo duro di certe culture suscitano, quando vengono applicate al cuore delle nostre società (la ragione scienti-fica, tanto per semplificare), non solo il rifiuto indignato degli

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esperti, ma persino un sentimento di profonda insoddisfazione... Tutto quello che avevo imparato in due anni di ricerca sul campo ad Abidjan mi sembrava assolutamente inutile dopo due giorni di lavoro nel laboratorio di Roger Guillemin al Salk Institute - per non parlare dell'inutilità dei miei cinque anni di corso in epistemo-logia. .. Confesso di non essermi ancora del tutto rimesso da quel-l'avvenimento. Con la triade rito-mito-simbolo non si fa molta strada in un laboratorio.

Ma allora, delle due l'una: o i ricercatori californiani giunge-vano a estraniarsi dall'angusta prigione delle rispettive culture per accedere alla natura (e questo spiegherebbe perché le nozioni im-portate dall'Africa per studiare le culture al plurale non potevano funzionare: il pensiero vestito non può essere utile per la compren-sione del pensiero nudo); o, per dirla con i filosofi, le qualità secon-darie non sono utili per pensare le qualità primarie. O ancora, e lo dico con qualche esitazione, le ragioni portate a sostegno dell'esi-stenza delle culture al plurale non erano poi tanto forti... Se le spiegazioni antropologiche, una volta applicate alle scienze esatte, producono una tale impressione di incongruità, debolezza e tal-volta perfino stupidità, è forse perché l'occasione di cogliere questa stessa debolezza ci viene a mancare ai Tropici, mentre al contrario ci colpisce come un colpo di frusta nei locali ad aria condizionata della California. Ecco l'esperienza che ho vissuto e dalla quale ho cercato di derivare, con ostinazione, tutte le conseguenze possibili. Il punto non è che le scienze siano particolarmente difficili da stu-diare, anzi tutt'altro, come credo di aver ben mostrato insieme ai miei colleghi, ma piuttoso che le scienze forniscono la prima vera prova in cui si manifestava, con la minore ambiguità possibile, la fragilità costitutiva delle categorie fondamentali della spiegazione antropologica.

Per riassumere la mia diagnosi, in termini piuttosto astratti, que-sta debolezza proviene da una indebita ripartizione fra l'unità (della «natura») e la molteplicità (delle «culture»). Questa ripartizione è troppo facile, troppo economica, troppo automatica; non solo sem-

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plifica i problemi in modo affrettato, ottenendo un'unità troppo a buon mercato, senza che le scienze (al plurale) riescano ad avere uno spazio per esistere, ma oltretutto accorda la molteplicità, il pluralismo, con troppa disinvoltura, dimenticando che non ci si può rassegnare impunemente a una rappresentazione del mondo che sia solamente «una rappresentazione fra le altre».

Ecco, questo secondo me è il modo più rapido per riassumere il contributo apportato dallo studio delle scienze al progetto della di-sciplina antropologica, anche se può essere condotto a buon fine solo da veri antropologi, dei quali sono ahimè ben consapevole di non fare parte. Ma in fin dei conti bisognava pure che qualcuno si incaricasse di volgere la disciplina verso le scienze esatte, e addirit-tura verso le parti più esatte delle scienze esatte, affinché il test sulla qualità delle spiegazioni della natura in termini di culture potesse essere condotto a buon fine. Era dunque innanzi tutto necessario, se mi è concesso dirlo, questo clamoroso fallimento. È quella che chiamo la felix culpa della nostra sottodisciplina: fallendo nella spie-gazione «culturale» della natura, abbiamo liberato alcuni strumenti da entrambe le parti, sia da quella della molteplicità sia da quella dell'unità. Ho la debolezza di pensare che una «antropologia della natura», per riprendere il titolo della cattedra che oggi ci accoglie, sarebbe stata meno facile, avrebbe condotto meno lontano, senza gli sforzi, un po' disordinati, dei miei colleghi e anche miei nel campo dell'antropologia delle scienze.

Comunque sia, il risultato è chiaro: l'antico modo di suddividere unità e molteplicità è ormai scomparso. Dalla parte della natura parliamo correntemente, come ci ha insegnato Viveiros de Castro, di «multinaturalismo» [de Castro, 1998], e dalla parte delle antiche culture parliamo, come ci ha insegnato Marshall Sahlins, della con-tinua emergenza di nuove culture [Sahlins, 2000]. È il brodo di coltura nel quale siamo attualmente immersi senza poter ancora precisamente vedere come l'antropologia possa imparare a nuotare senza affogare.

E questo il riassunto delle puntate precedenti che volevo com-

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piere sotto forma di un breve ritorno sugli ultimi trent'anni. Con-sentitemi ora di condensarlo in due slogan.

Primo slogan: «Non siamo mai stati moderni». Questa frase è una semplice conseguenza che ho tratto una quindicina di anni fa dal programma qui ricordato nei suoi tratti essenziali. Quello che riassume la storia occidentale non è l'irruzione della natura in mezzo alle culture - come se una sola fra le culture avesse avuto l'i-naudito privilegio di cogliere la natura nuda, spogliata in qualche modo di tutte quelle vesti variopinte — ma, al contrario, l'impegno (su una scala del tutto nuova ) dei collettivi— termine tecnico cui ri-corro per mostrare chiaramente che non si tratta né di culture né di nature - nell'accesso multiplo agli esseri. I moderni, lungi dal pre-sentarci l'immagine, seducente e al contempo disperata, di esseri fi-nalmente nudi in un mondo di culture riccamente vestite, ci of-frono al contrario una sfilata senza fine di esseri abbigliati, legati, immersi, sempre più imbricati nelle più intime proprietà dei cosmi in corso di elaborazione. Le scienze, ben lontane dal presentare il volto glaciale e indifferente di una oggettività assoluta, hanno al contrario l'aspetto, in fondo familiare, di una ricca produzione di associazioni e legami con esseri dalle ontologie varie e sempre più relative, cioè, in senso etimologico, sempre più legate fra loro. Non ci sono più i dispositivi antropologizzabili da una parte e quelli non antropologizzabili dall'altra. Al contrario, i moderni rappre-sentano un enigma molto interessante per gli antropologi (ritor-nerò poi su questo punto).

Secondo slogan, per concludere questa parte: «Il postmoderni-smo è un'utile transizione». Prima di proseguire oltre, devo preve-nire un possibile malinteso. I francesi, dopo aver spacciato il post-modernismo al mondo intero, sono fieri di non averne mai consumato, un po' come cinici pushers che spacciano cocaina ma si fanno al massimo qualche coca-cola... Ebbene, il postmoderni-smo è un momento indispensabile per uscire dal modernismo: a condizione di uscirne, è chiaro. Come indica il nome stesso, ilpo-i/modernismo è l'uso del modernismo senza la certezza che abbia

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ragione. Lo prolunga indebolendolo. Perché? Semplicemente per-ché utilizza, per cercare di capire l'antica unità del modernismo, la definizione stessa di molteplicità, di pluralismo, che quest'ultimo aveva proiettato verso l'esterno per cercare di comprendere la diver-sità delle culture, e solamente delle culture. Ecco tutta la debolezza del concetto di «decostruzione». Se il progetto postmoderno di «multiculturalismo» ci sembra tanto stupido, e se l'uso che talvolta se ne fa per parlare della natura ci sembra tanto riprovevole, anzi scioccante, è perché ripropone la definizione che il modernismo ha sempre dato del molteplice: un molteplice privo di ancoraggio ontologico, senza rischio di realismo. SI, certo, la molteplicità del postmodernismo è raffazzonata, ma nella stessa misura in cui lo è X unità troppo rapidamente acquisita dal modernismo. Di conse-guenza, il grande merito del postmodernismo è di aver dimostrato l'assurdità del modernismo applicandogli la sua stessa concezione di pluralismo. Si tratta certamente di un pluralismo da quattro soldi, ma questo perché il senso moderno dell'unità del mondo è a sua volta una impostura. In ogni caso, sperare di uscire dal postmo-dernismo ridiventando o restando o diventando finalmente «riso-lutamente moderni», come sostengono a gran voce tanti pensatori, è senza dubbio ancora più assurdo che rimanere postmoderni... Da parte mia credo che sarebbe più onesto se i francesi consumas-sero una parte delle droghe pesanti con le quali si vantano di avve-lenare i campus. Il postmoderno è un interessante sintomo di tran-sizione, accettiamolo come tale, utilizziamolo per accelerare la fine del modernismo e, vi prego, passiamo ad altro.

II

Concentriamoci adesso su un altro compito. Potrei certo argo-mentare in dettaglio tutti i punti precedenti, ma preferisco darli per acquisiti, anche se so bene di avere torto a prenderli per una doxa. Proviamo piuttosto ad andare un po' più in là in questo pro-

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getto di antropologia simmetrica, che in mancanza di un termine adatto sono obbligato a chiamare nonmoderna.

La situazione, riassunta in due frasi, è abbastanza chiara: il mo-dernismo presentava una divisione fra unità (della natura) e molte-plicità (delle culture); questa suddivisione non regge più in seguito a una serie di avvenimenti, tra i quali vanno annoverati sia piccoli movimenti intellettuali come l'antropologia delle scienze o il post-modernismo, sia grandi cambiamenti come l'indebolimento del-l'Europa e le globalizzazioni concorrenti. E dunque il momento di porre la seguente domanda: quale antropologia è in grado di ripar-tire in altro modo unità e molteplicità? Detto altrimenti, quale an-tropologia è capace di «incassare» contemporaneamente il duplice choc del multinaturalismo e del multiculturalismo (a), abbando-nando il concetto di natura ma anche quello di culture (b), senza per questo smarrire il progetto di unificazione che apparteneva al concetto di natura, né tanto meno l'impegno nell'habitat umano che apparteneva al concetto di cultura (c)?

Per precisare meglio le cose propongo - prendendo in prestito la formula da Isabelle Stengers [2007] - di chiamare «diplomatica» questa disciplina che prende il posto della prima antropologia. Si noti che non abbandono per questo l'ambito dell'antropologia: si tratta sempre di un logos dell'anthropos, anche se più vicino a una «scienza» dell'uomo nel senso che il modernismo ha voluto asse-gnare al termine logos, semplificandolo un po' troppo in fretta. In altre parole, questa antropologia pretende di succedere nella stessa impresa, ma lo fa in qualità di vero successore, quindi reinven-tando una tradizione esaurita. Anche il diplomatico si dedica al logos, prende la parola, sa come comportarsi, ma deve suddividere l'unità e la molteplicità in maniera del tutto diversa rispetto al sa-piente della prima antropologia, che poteva rispettare la moltepli-cità perché sapeva, dalla scienza certa e priva di dibattiti, dove stava l'unità. Come spiega Isabelle Stengers, il diplomatico costituisce una figura al tempo stesso più antica e più avanzata del sapiente.

Sul versante dell'antica natura, la questione è abbastanza sem-

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plice. Come ha mostrato Philippe Descola, sotto questo termine confondevamo parecchie cose, ma soprattutto tre: la realtà, l'este-riorità e l'unità. Questi tre elementi dell'antica natura possono ora procedere separatamente, e se si guarda alla storia delle scienze, si nota subito come essi non abbiano mai marciato allo stesso passo. L'unificazione, in particolare, rimane un progetto per il futuro, e non può certo essere il modo in cui il mondo ci si presenta, quasi fosse già unificato. Come diceva William James, il «pluriverso» non può essere confuso con l'universo: le innumerevoli dispute sulla genetica ce ne offrono un esempio particolarmente chiaro.

Sul versante delle antiche culture, la situazione cambia simme-tricamente. Con questo termine volevamo ottenere la moltepli-cità, ma a condizione di interrompere il contatto con la realtà, come se fosse possibile ottenere i «molti» esclusivamente sotto forma della più sfrenata fantasia, o di una fantasia regolata da tra-sformazioni strutturali che mettano tra parentesi le questioni chiave della verità e dell'accesso al reale. Ricordo di aver discusso qualche anno fa, con Marshall Sahlins e i suoi studenti, su quali debbano essere le precauzioni da prendere quando parliamo di cosmologie al plurale, nonché dell'obbligo che avremmo di attraversare i cor-tili dell'Università di Chicago per verificare cosa ne penserebbero i fisici di questo plurale se lo applicassimo alla loro cosmologia. Sah-lins ammetteva senza timore che i suoi colleghi fisici avrebbero si-curamente gridato al solo sentir nominare una pluralità di cosmo-logie, ma con mia grande sorpresa aggiungeva che le loro grida dovevano essere considerate di scarsa importanza. Io invece sono si-curo del contrario, non perché le grida degli scienziati mi intimidi-scano, ma semplicemente perché offrono una occasione unica di ascoltare la forza delle grida lanciate dagli altri, gli antichi «altri», al-l'idea che la loro cosmologia sarebbe, in fondo, solo un esempio «tra tanti altri», senza contatto privilegiato con la realtà. Quanta violenza in questa affermazione!

A causa dell'oggetto che avevo scelto, credo di essere più o meno l'unico etnologo che abbia potuto verificare, attraverso l'esperienza,

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tutti i pericoli di questa posizione insostenibile; insostenibile tanto per lo sperimentatore quanto per l'esperimento. Ho sempre cre-duto che Alan Sokal, nella disgraziata vicenda che ne porta il nome, non difendesse i fisici, bensì il mondo intero, me compreso, quando protestava con veemenza contro il relativismo cheap di una molteplicità ottenuta troppo a buon mercato. Certo, non l'ho mai seguito nelle conseguenze del suo grido, ma ciò non toglie che avesse ragione a gridare (se avessi pensato ciò che lui credeva che io pensassi, anch'io avrei gridato indignato). Il fatto è che l'argo-mento, ai miei occhi, era sempre stato simmetrico: se l'unità della natura è davanti a noi e non dietro, allora la molteplicità delle cul-ture non può essere ottenuta con la scomparsa del contatto con un punto di vista privilegiato. Nessuno di noi, credo, si accontente-rebbe di avere del mondo una «visione tra tante». È la nozione di punto di vista, e soprattutto quella di privilegio, che debbono essere modificate. Un punto di vista sul mondo che non fosse privile-giato non sarebbe a mio avviso degno del benché minimo inte-resse. Se bisogna gridare, bisogna dunque farlo due volte: quando ci viene imposta una molteplicità senza realtà, e quando ci viene ri-filata un'unificazione al ribasso.

Ma ciò che cambia ancora più radicalmente, non appena im-maginiamo un'antropologia diplomatica capace di rimettere in di-scussione la nozione di natura e quella di cultura, è evidentemente l'identità stessa di queste categorie, tanto vaghe quanto indi-spensabili, che girano attorno a ciò che chiamiamo Occidente. Poco tempo fa, quando eravamo moderni (o piuttosto, dal momento che non lo siamo mai stati, quando ci vantavamo di essere mo-derni), l'Occidente poteva restare quella nozione fluttuante e sfo-cata, beata e vaga, che presiedeva ovunque al denudamento delle culture: c'era Occidente, dicevamo, ovunque si mettessero a nudo le tre dee sorelle dell'Efficienza, della Redditività e dell'Oggetti-vità. Svelamento al tempo stesso esilarante e deprimente poiché si strappava il tessuto, coperto di fronzoli, delle culture per rivelare la fredda nudità degli oggetti spogliati di qualunque senso umano.

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(Notiamo enpassant, cosa alquanto divertente, che il fantasma dei conquistatori occidentali - coprire l'indecente nudità dei selvaggi - ha sempre rappresentato l'esatto opposto della loro stessa pre-tesa: identificare la nuda verità dietro i veli della metafora e del simbolo. Come vedremo, è ciò che rende i moderni così interes-santi: fanno sempre il contrario di quel che dicono!).

Ma adesso quell'Occidente è tornato a essere un sogno, o piut-tosto una divinità che richiede un suo proprio studio antropolo-gico. Se passiamo dall'antropologia scientifica all'antropologia di-plomatica, dal logos modernista al logos nonmoderno, dobbiamo riconoscere che bisogna domandarsi a questo punto dove si situa precisamente l'antico Occidente. Dietro quale orizzonte tramonta questo sole? In quale istituzione? In quale ufficio? Risposta: non c'è più un Occidente, e non ci sono più gli occidentali. Che sollievo! D'ora in avanti ci sono solo europei, statunitensi, giapponesi, cana-desi o turchi, oltre a tutte le antiche culture già riunite negli Area Files, alle quali bisogna aggiungere la moltiplicazione delle neocul-ture che si generano qua e là, un po' come capita, da un capo all'al-tro del mondo. Un sacco di gente, direte voi? Sì, certo, un sacco di gente, ma almeno sappiamo che, se siamo divenuti così numerosi, niente può più ripartire questa folla tra coloro che fanno parte del-l'Occidente — accesso alla nudità della natura - e coloro che fanno solamente parte delle culture. Senza parlare di quelle ormai scom-parse che erano, come dicevamo noi, «dilaniate tra arcaismo e mo-dernità» o che vivevano «in una zona di transizione». D'accordo, la situazione ora si è fatta affollata, ma che bella pulizia abbiamo fatto!

Se la nozione di Occidente è tramontata come il sole calante dal quale prende il nome, cosa è rimasto? Perché non preoccuparci delle entità più piccole, per esempio dell'Europa, o addirittura della Francia? Ormai ciascuno è un po' per conto suo. Nessuno può al-zare la testa e parlare «in nome dell'Occidente»: è questa una delle grandi lezioni — negative senza dubbio, ma pur sempre lezioni — dei nostri amici postmoderni. Se gli Stati Uniti vogliono alzarsi dal ta-volo e abbandonare la partita senza pagare il dazio, ebbene, che si

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arrangino, che facciano, anche a noi, una qualche proposta di pace. Non posso parlare in loro nome più di quanto loro possano parlare in mio nome.

Spero di esprimermi abbastanza chiaramente da far compren-dere questo cambiamento completo di scenario: non è più la scienza antropologica occidentale che parla delle altre culture, evi-tando di parlare di se stessa; o che si lamenta nel veder scomparire le altre culture, inglobate a poco a poco dal fronte inevitabile e gla-ciale della modernizzazione; o ancora che si rallegra nel veder fon-dersi progressivamente tutte le culture nel crogiuolo comune della ragione planetaria. No, per il diplomatico adesso la domanda è in-sieme meno grandiosa e più rischiosa, più vitale e meno altezzosa: come sopravvivere ancora un po'? E finito il tempo in cui l'Uomo Bianco poteva lamentarsi, come Sisifo o Atlante, per il peso del suo celebre fardello. Queste lamentele pretenziose non interessano più a nessuno. La domanda è piuttosto: alla fine del secolo che sta ora iniziando, ci interesseremo ancora ai differenti progetti europei ? Insegneremo Galileo all'università di Shangai nel 2075? Il pro-getto di Spencer, di Spengler, di Boas significherà qualcosa per gli studenti di Bombay nel 2080? Che peso potrà avere l'antropologia culturale per i dottorandi di Java nel 2090?

E davvero necessario interrogarsi sul carattere coloniale, imperia-lista, maschilista, razzista dell'antropologia, come si fa ancora spesso nei dipartimenti d'oltre Atlantico, mentre il problema at-tuale mi pare piuttosto di far esistere la differenza europea in un progetto di convocazione planetaria, convocazione che senz'altro è cominciata nella maniera meno opportuna ma che tuttavia deve es-sere ripresa? Il problema del «fardello dell'Uomo Bianco» è piutto-sto che, ben presto, su queste spalle divenute ormai gracili rischia di dover portare solo un piccolissimo fagotto...

Da qui un capovolgimento completo del progetto diplomatico: non si tratta più solamente di conoscere - bisogna conoscere, cer-tamente - ma bisogna anche essere capaci di sussistere in modo duraturo a casa propria. Se è vero che gli europei hanno inventato

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la modernità, è adesso importante che possano «disinventarla» [La-tour, 2005] o, se si preferisce, «richiamarla», proprio come l'indu-stria richiama un prodotto difettoso. Il richiamo della modernità deve essere quindi inteso, come annunciavo all'inizio, in tutti i sensi di questa piccola sonora parola. Il che implica due compiti per l'antropologia simmetrica intimamente legati tra loro: il primo consiste nel fare, finalmente, la storia di se stessa, il secondo nel potersi presentare nuovamente davanti agli altri, avendo cambiato pelle, con una nuova offerta di pace. I diplomatici sono abituati a queste ridefinizioni, sanno sempre presentare diversamente le loro esigenze, ragione per cui sono più abili dei sapienti (anche se cor-rono il rischio, ovviamente, di essere chiamati traditori e senza scru-poli).

Vorrei affrontare brevemente questi due compiti, semplicemente per mostrare perché l'antropologia non è, come spesso si ritiene, una disciplina esaurita, in fin di vita, ma al contrario una neonata alla mammella che ha tutto il futuro davanti a sé. A condizione che sappiamo prenderci cura di lei.

Ili

In questa terza vorrei partire da una domanda abbastanza sem-plice. Visto che i moderni non sono mai stati contemporanei a se stessi, potrebbero finalmente diventarlo?

Se l'espressione «non siamo mai stati moderni» è sembrata così strana, è perché esprimeva quello squilibrio proprio dei moderni che ha lungamente reso impossibile il loro studio e dunque la loro rappresentazione di se stessi. Altrettanto efficacemente avrei po-tuto utilizzare una formula attribuita nei western agli indiani delle pianure: «Non fidatevi dei bianchi, hanno la lingua biforcuta»... In altre parole, gli ex-moderni, gli ex-occidentali, possono finalmente parlare in modo conforme? Possono finalmente diventare gente del loro tempo? L'ossessione per il tempo, la novità, l'innovazione, il

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progresso, non può più dissimulare la straordinaria incoerenza dei moderni nel definire se stessi: fanno sempre l'esatto contrario di quello che dicono.

E questo che mi ha sempre colpito in loro e che mi ha fatto pre-ferire, negli ultimi trent'anni, lo studio degli statunitensi, degli eu-ropei, dei francesi, a quello dei Baulé o degli Alladiani. Mi affa-scina il loro esotismo, anche se non si tratta, ovviamente, di sostituire le nefandezze dell'occidentalismo all'insulsaggine dell'o-rientalismo. Ecco qualche esempio per ricordare i principali risul-tati di una letteratura ormai abbondante.

I moderni si presentano davanti alla storia come coloro che si sa-rebbero finalmente affrancati da qualunque determinazione arcaica e naturale. Ma che cosa hanno fatto in realtà? Hanno moltiplicato, su scala sempre maggiore e con un grado di implicazione via via più intimo, le connessioni con gli esseri sempre più numerosi ed etero-genei che permettono loro di esistere. Parlano di emancipazione nel momento stesso in cui devono farsi carico, con mezzi legali, tecnici, meccanici, umani, di esseri tanto estesi come il clima, i mari, le foreste, i geni... una ben strana emancipazione che ha al contrario moltiplicato le dipendenze! Affermano inoltre, con un sorrisetto di superiorità, di essersi emancipati dai tempi antichi dei «loro antenati Galli», che non avevano paura di nulla se non «che il cielo cadesse loro sulla testa», e lo affermano mentre si riuniscono a Rio, a Kyoto o all'Aja per lottare uniti contro il riscaldamento globale... Parlano di oggettività scientifica, come se le scienze fos-sero il luogo di massima distanza tra oggetto e soggetto, mentre si tratta al contrario del più stretto intrico tra capacità soggettive e og-gettive degli esseri che la libido sciendi ha permesso di fondere in la-boratorio. Strana oggettività, che ricorda al contrario l'etimologia verbale data da Heidegger alla cosa, chose, causa, res, thing, ding, al tempo stesso causa fìsica e causa giuridica, affare, assemblea, gruppo, preoccupazione e oggetto... Sì, hanno davvero la lingua biforcuta questi bianchi. Ed è ciò che li rende ai miei occhi tanto interessanti e, per dirla tutta, simpatici...

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Come possiamo parlare, per esempio, di homo oeconomicus, quando la più piccola indagine di antropologia economica, la più piccola manovra di economia sperimentale, mostrano fino a che punto bisogna essere muniti di strumenti diversi per poter effet-tuare il più insignificante calcolo di redditività? Nemmeno una volta, nella loro breve storia, i moderni hanno potuto ottenere quella efficienza, redditività, oggettività e formalismo che preten-dono essere, ciò nonostante, il loro segreto di fabbrica, grazie a mezzi che sarebbero altrettanto efficienti, redditizi, oggettivi o for-mali. SI, è evidente che il «naturalismo», per riprendere l'espres-sione che Philippe Descola attribuisce a questo modo di identifica-zione con i nonumani [Descola, 1986], offre un caso davvero estremo di antropomorfismo, una vera passione per l'uso politico degli oggetti.

Questo enigma, ovviamente, non può essere semplicemente as-similato ai temi dell'ambivalenza, della dissimulazione, della men-zogna o della cattiva fede. Come ho spesso suggerito (senza avere ancora veramente potuto provarlo con uno studio comparativo si-stematico), l'energia dei moderni era largamente dovuta, fino a poco tempo fa, a questa certezza impossibile da sradicare di avere un vantaggio, di essere emancipati, di avvicinarsi alla natura delle cose, di avere trovato un accordo grazie all'arrivo delle tre sorelle, Efficienza, Redditività, Oggettività. E proprio questo, l'ho mo-strato diverse volte, che definiva la moderna freccia del tempo: «Ieri eravamo arcaici perché confondevamo ancora il nudo e il vestito, il sapiente e il selvaggio, il reale e l'immaginario, i fatti e i valori, ma domani, senza alcun dubbio, la separazione sarà più netta, domani vedremo più chiaramente, domani capiremo la cosa stessa, messa finalmente a nudo». Illudersi su se stessi, ecco cosa faceva parte in-tegrante della macchina innovatrice dei moderni. Per esempio, senza questa macchina, come avrebbero potuto credere all'econo-mia, altra grande macchina per esternalizzare che però necessita, per esistere, di tutto ciò che rigetta all'esterno? Senza questa mac-china, come avrebbero potuto credere alla descrizione formale del

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formalismo? Illudersi tanto da essere ciechi sulla propria capacità esplicativa è già di per sé straordinario, ma ancora più straordina-ria è la capacità dei moderni di essere ciechi sull'operazione critica in sé, sullo svelamento della propria malafede, come se fosse asso-lutamente necessario inscenare un dramma apocalittico dei propri crimini nel momento stesso in cui li si denuncia. Cosa che è stata recentemente mostrata dalla sociologia della critica.

Quello che ci autorizza a parlare oggi di «credenza», di «illu-sione», di «lingua biforcuta», di «sociologia della critica», è il pro-gressivo rendersi conto da parte dei moderni di non esserlo in fondo mai stati. Sempre meno illusi, dopo aver smesso di essere occidentali per divenire europei, statunitensi, francesi, giapponesi ecc., sono ora in cerca di un porto, un attracco, un nuovo luogo per ridiventare se stessi in quella che chiamiamo oggi «società del ri-schio», «seconda modernizzazione», «globalizzazione», tutta una serie di termini abbastanza recenti che in definitiva significano, nei modi più diversi, «non c'è più un Occidente», o che rimandano alla formula che ho messo al centro dell'antropologia diplomatica: come suddividere nuovamente l'unità e la molteplicità? Come con-vocare di nuovo il pianeta senza questa sorta di divisione per stati - nel senso di terzo stato - che consentiva la ripartizione fra la na-tura e le culture?

Gli europei sono sempre più inclini a porsi la questione in que-sto modo davanti a un modernismo che non appare più cosi inno-cente, formidabile, progressista e inevitabile ora che si manifesta anche nelle megatorri di Pechino, nella potenza informatica dell'In-dia, nelle megabanche di Singapore e di Kuala Lumpur. All'im-provviso, presi in contropiede, gli europei hanno voglia di dire ai nuovi modernizzati che cominciano a dominarli attraverso le loro masse: «Ehi, wait a minute, la modernizzazione non è soltanto que-stoU, «Ah no? Sahib, io non sapere, io credere, voi convinto me...». Peter Sloterdijk dice scherzosamente: come ci sembrava bella la globalizzazione quando eravamo soli a esercitarla a nostro vantag-gio... [Sloterdijk, 2003].

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Che incredibile disfatta: improvvisamente i modernizzati origi-nari, che volevano modernizzare il pianeta, si accorgono che la modernizzazione ha un sacco di difetti, soprattutto adesso che è, come dicono, «scimmiottata» dagli altri. «Scimmiottata»? Guarda, guarda. La modernità e i suoi segreti avrebbero dunque, in fondo, sempre teso a tutt'altra cosa? Avrebbero sempre vissuto, di fatto, grazie all'appoggio di altre divinità? L'esternalizzazione sarebbe so-pravvissuta solo grazie all'internalizzazione? Il formalismo grazie al non formale? L'emancipazione sarebbe sempre stata, in definitiva, un grande progetto di riunificazione? Non è forse divertente con-statare che le stesse persone che non avevano niente da ridire sul-l'universalizzazione moderna, si ritrovano nelle strade, sotto i gas lacrimogeni, dietro alle barricate, non appena parliamo di «globa-lizzazione»?

Comunque sia, la situazione è ora più chiara: noi europei non siamo mai stati moderni; l'Occidente è scomparso, l'universale anche, e ciò nonostante l'esigenza del globale è sempre presente, non c'è Europa immaginabile e vivibile senza progetto di mondia-lizzazione, quindi di globalizzazione, di convocazione planetaria; ma questa convocazione, di cui l'antropologia è sempre stata il maestro di cerimonia, il responsabile del protocollo, non può rea-lizzarsi ripartendo le culture - tutte le altre — sullo sfondo della na-tura, conosciuta da una sola di queste culture, benedetta tra tutte, ovviamente la nostra... Fine del primo capitolo dell'antropologia. Infatti, possiamo certamente continuare a «decostruirla», inflig-gendole le stigmate infamanti di «coloniale», «imperialista», «et-nocentrica», ma è davvero poco importante. Il problema non è de-costruire ad nausearti, ma piuttosto far sì che il fragile habitat di questa versione dell'universo di origine europea possa superare la tem-pesta. Ciò che conta è che l'antropologia continui. L'importante è che trasmigri in un nuovo progetto, in un nuovo logos, in una nuova scienza totale dell'umanità riunita, convocata.

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IV

Poiché intendo contribuire a questa ripresa del progetto antro-pologico, a questa trasmigrazione dei vecchi obiettivi di convoca-zione planetaria, devo qui abbozzare, da buon diplomatico, la mia proposta. Non si tratta di una scienza da prendere o lasciare, di una scienza che definisce fatti di cui potrei dire, battendo i pugni sul tavolo, che sono così «che lo vogliate o no». Essa dipende invece da una rappresentazione che a sua volta dipende da una profonda modificazione dell'autorappresentazione degli europei. D'ora in poi, è necessario che le parti avverse accettino i fatti stabiliti dal di-plomatico, che li apprezzino, li condividano, o che almeno li sop-portino. E questo che distingue il secondo empirismo dal primo. «Ah!», potranno d'ora innanzi esclamare gli attuali moderni, «se siamo sempre stati diversi da ciò che credevamo di essere, il contra-sto che abbiamo sempre immaginato tra noi e gli 'altri' può cam-biare, e di colpo possiamo ripresentarci al resto del mondo in modo un po' diverso».

È a questo punto che le cose, complicandosi, diventano davvero interessanti. Che cosa risponderebbe il resto del mondo se gli euro-pei non si presentassero più come l'avanguardia moderna di un progetto universale di convocazione sotto forma di culture sullo sfondo della natura, bensì assumessero le vesti più modeste e at-tente di una diplomazia planetaria di cui si incaricherebbero, vista la loro storia passata, di fare in qualche modo le presentazioni? «Ecco la nostra offerta di pace».

L'esempio della storia delle scienze europee è quello che più col-pisce poiché ora, grazie ai nostri colleghi storici, questo tratto essen-ziale della storia occidentale, ovvero l'irruzione delle scienze univer-sali, non è più ciò che ci separa dagli altri - come se noi avessimo la natura e loro dovessero accontentarsi delle rispettive culture -bensì ciò che ci permette di riprendere il discorso con tutti gli altri. Vi ricordate Galileo? Nella precedente prospettiva storica, era pro-prio lui a introdurre una «rottura epistemologica», secondo l'e-

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spressione canonica, il cui obiettivo era di rendere la storia italiana o mondiale incommensurabile grazie all'avvento di una fisica fi-nalmente razionale. Il Galileo della storia contemporanea, invece, un Galileo reso nuovamente contemporaneo dei Medici e dei car-dinali, degli occhiali e delle fortificazioni, dell'esegesi e dell'Accade-mia, questo Galileo continua pur sempre a introdurre una rottura nella storia italiana ed europea, ad attestare un evento colossale nella storia della fisica, o forse del cosmo stesso. Ma ecco la diffe-renza: questo evento non si allinea più alla Grande Divisione tra la natura e le culture, anzi comincia finalmente a differire libera-mente, irriducibilmente, senza produrre una cesura netta, come la lama della rottura epistemologica, con «tutto il resto». E altrettanto potrei dire di Newton, di Pasteur, di Einstein, di Poincaré, ma anche di Galison [2000]. Rendendo ogni episodio famoso o scono-sciuto della nostra storia delle scienze nuovamente contemporaneo a ciascuna delle epoche-chiave della storia comune, della storia tout court, senza per questo ridurlo alla scrofolosa storia sociale, la scienza storica delle scienze ha fatto ben più che ammassare fatti di erudizione su altri fatti di erudizione: ha disfatto a poco a poco i misfatti dell'epistemologia. Ci ha restituito gli esseri con cui le scienze hanno a che fare, senza coprirli immediatamente, con la scusa di celarne la nudità, con gli spessi veli dell'oggettività. Direi, senza paura di esagerare, che questa nuova forma di storia metafi-sica ci ha retrospettivamente reso una Europa vivibile e pensabile. Era la menzognera storia delle scienze fatta di «rotture epistemolo-giche» radicali che ci impediva di comprendere l'Europa, e dunque di comprendere il contrasto con «gli altri». Tutto cambia se ren-diamo le nostre scienze oggettive e le nostre tecniche efficaci — sì, ho proprio detto se finalmente rendiamo le nostre scienze oggettive e le nostre tecniche efficaci. L'Europa, cambiando la storia delle scienze, ha cambiato la storia tout court. All'improvviso ci accor-giamo, retrospettivamente, che gli «altri» non lo sono più nello stesso modo. Ma allora, se non sono più gli «altri» di prima, diventa finalmente possibile presentarci a loro in maniera differente. L'an-

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tropologia cambierà davvero il proprio progetto solo quando si in-teresserà sul serio alla storia delle scienze, il che significa, probabil-mente, «quando gli asini voleranno».

E un peccato, ovviamente, non aver cominciato le negoziazioni con questa maniera gentile di presentarsi. A Gaza, a Lima, a Syd-ney, a Pechino, gli europei sarebbero stati presi un po' più seria-mente se avessero avanzato queste proposizioni di pace nel XVII ,

nel XVIII , nel XIX o persino nel XX secolo: quando eravamo in posi-zione di forza, quando ci credevamo moderni, quando eravamo «occidentali». In questa improvvisa gentilezza c'è un tocco di avvi-limento, bisogna ammetterlo, un riconoscimento del fatto che, se siamo diventati così prudenti, civili e attenti, è perché ci sentiamo improvvisamente deboli, pochi e ammassati in fondo alla nostra minuscola penisola; stiamo mendicando un po' di riconoscenza e affetto presso popoli a lungo dominati che a poco a poco comin-ciano a ignorarci superbamente... Devono ben ridersela di noi a Jakarta, a Salvador de Bahia, a Saint Louis de la Réunion o a Goa sentendoci tutto a un tratto parlare di «società del rischio», di «principi di precauzione», di «ecologia», di «altermondialismo», di «sviluppo sostenibile» e di «eccezione culturale». «Eccezione cultu-rale»: un vero peccato che non sia stata difesa all'epoca della presa di Algeri; «principi di precauzione»: interessante, sarebbero stati i benvenuti al momento della distruzione generale delle culture; «al-termondialismo»: alter, ma davvero?; «sviluppo sostenibile»: solo il cielo sa come sarebbe stato ben accolto questo principio durante l'occupazione del Middle West. I colonizzati di un tempo non avrebbero forse il diritto di chiederci: «Ma come, non avreste do-vuto pensarci prima a tutte queste belle revisioni della vostra sto-ria?». Proprio così, «avremmo dovuto» pensarci prima, sarebbe stato preferibile cambiare l'immagine che abbiamo di noi stessi prima di mettere il mondo a ferro e fuoco, prima di partorire un pianeta come questo, prima di globalizzate, prima di spingere tutti gli altri a modernizzarsi a loro volta... Ma il reale non è razionale e la storia non esprime alcun progetto provvidenziale. Le responsa-

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bilità che hanno provocato il fallimento del progetto di moderniz-zazione le ritroviamo anche nel progetto di demodernizzazione. Quanto meno ce ne facciamo carico. E liberamente, questa volta. Mogi mogi, ci rifugiamo nel proverbio: «Non è mai troppo tardi per far bene».

La questione diventa dunque la seguente: diventati contempo-ranei di se stessi, gli ex-occidentali, disillusi, divenuti per esempio europei (e si tratta anche qui , come tutti sappiamo, di un im-menso cantiere, terribilmente accidentato, ma devo semplificare), decidono di presentarsi diversamente agli altri e di farlo in un modo che definirei gentile, non riuscendo a trovare aggettivo mi-gliore. In che cosa consiste questa gentilezza? Nel fatto che il diplo-matico, convocando l'assemblea (di cui, ricordiamolo, non con-trolla più né la forma né il contenuto), può rivolgersi agli altri solo pronunciando più o meno queste parole: «Ecco, da parte nostra, quello che abbiamo deciso di mantenere a ogni costo, quello senza cui perderemmo la nostra identità». Per l'antropologia del mondo contemporaneo la questione diventa dunque la definizione delle esigenze essenziali, il famoso nocciolo che la vecchia antropologia, quella dei Tropici, credeva di poter abbastanza facilmente decifrare negli altri, gli «altri» di un tempo.

Ma alla domanda «a che cosa teniamo più che alla vita?», non possiamo nemmeno cominciare a rispondere se pensiamo a noi stessi nella forma convenzionale della modernità, dell'Occidente. Se alla domanda sulle esigenze essenziali rispondessimo in coro: «A che cosa teniamo? Ma è ovvio, alla ragione, alla scienza, all'univer-sale, alla democrazia, al benessere, all'emancipazione», non proce-deremmo più nella ricerca, nel progetto di pace; non avremmo fatto altro che riproporre, senza riflettere, quel progetto moderni-sta che avrebbe dovuto riunirci tutti automaticamente, senza di-battito, senza colpo ferire, su di un solo e medesimo pianeta. Avremmo semplicemente invocato, una volta di più, il potere uni-ficatore della natura continuando a ingannare noi stessi sulle no-stre virtù e sui nostri vizi (ah già, piccola perversione supplemen-

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tare: i moderni adorano i loro vizi, adorano mascherarsi con gli abiti del mostro).

Bisogna quindi pazientemente - la pazienza è la prima virtù di un diplomatico — porre nuovamente la domanda «a che cosa tenete più che alla vita? che cosa vi definisce veramente?». Di nuovo, non vi è nulla di più esemplare della nuova comprensione delle scienze. Supponiamo che la risposta sia: «Teniamo innanzi tutto alla ra-zionalità scientifica». Molto bene. Sottoscrivo. Ma so anche — l'ho imparato e l'ho evidenziato - che la razionalità scientifica rimanda a molte cose che la rendono possibile: una estesa e articolata vasco-larizzazione che gli studi sulle scienze hanno portato alla luce e che non rientrava affatto nella definizione tradizionale del pro-getto modernista. (E proprio così, come ho già raccontato, che il mio progetto di antropologia simmetrica ha avuto inizio: agli ivo-riani veniva attribuito un pensiero /»^scientifico, cosa che una pic-cola indagine ha facilmente contraddetto; perché non vedere, a San Diego, che succederebbe a questo famoso «pensiero» scienti-fico una volta sottoposto allo stesso genere di studio?). Si capisce dunque perché il diplomatico è obbligato a essere al tempo stesso paziente, persistente e fastidioso. E infatti costretto a domandare ancora una volta: «A che cosa tenete quindi veramente? Alla ra-gione scientifica universale, o a ciò che permette alla ragione scien-tifica di essere razionale, di diventare a poco a poco scientifica e di universalizzarsi un passo dopo l'altro?». A questa domanda, ostina-tamente reiterata, il modernista disilluso non sa più davvero cosa rispondere. Se replica, furioso, «alla ragione soltanto», la perde al-trettanto rapidamente poiché perde tutto quello da cui dipende la fragile esistenza delle scienze... Ma se invece risponde: «A ciò che rende la ragione possibile e progressivamente universalizzabile», entra in un altro mondo, appunto quello della negoziazione plane-taria. Di cosa abbiamo dunque realmente bisogno per tenere in piedi la nostra ragione?

Si capisce adesso perché l'antropologia degli attuali moderni re-clama un aggiustamento metodologico e procedure di indagine

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completamente originali: i moderni sono cosi poco contemporanei a se stessi che non possiamo mai sapere cosa combinino veramente. Senza alcun dubbio, è difficile passare un anno nel fango di un vil-laggio anka; ammiro la pazienza dei miei esimi colleghi capaci di imparare l'impossibile lingua dei !Kung; ammetto con vergogna che mai avrei il coraggio di soggiornare a lungo presso i Nuer o di mangiare, per diversi mesi consecutivi, la manioca appiccicosa degli Achuar. Ma almeno, nei loro ammirevoli e pazienti lavori, hanno sempre avuto una difficoltà in meno di me: hanno ottenuto una ri-sposta alla domanda sulle esigenze essenziali; hanno saputo a che cosa tenevano, a che cosa non potevano rinunciare senza morirne (e la prova, ahimè, è che possono effettivamente morirne, spesso sotto i loro stessi occhi). Con i «bianchi dalla lingua biforcuta» una tale oggettività è invece molto difficile, poiché pongono il loro onore in una modernità che non possono sostenere. Prova ne sia la stessa nozione di natura, che Philippe Descola ha sottoposto, ormai da qualche anno, a una prova sbalorditiva di antropologizzazione: niente di tutta quella lunga e meticolosa indagine rientrava nella nozione tradizionale di natura come la intendevano fino a poco tempo fa tanti eruditi e filosofi [Descola, 1986]. Quel che è vero della natura si ritrova, sotto forme diverse, nella tecnica, nella reli-gione, nell'economia, nella politica, nell'arte e forse un po' meno nel diritto. Ancora una volta, non è che i moderni non sappiano esattamente che cosa vogliono (nel qual caso sarebbero più o meno come il resto del mondo, visto che il linguaggio non ha mai l'obiet-tivo di imitare la pratica ordinaria); piuttosto, i moderni fanno sempre il contrario di ciò che dicono, e traggono - traevano - la loro formidabile energia da questa formidabile noncuranza per l'a-bisso, scavato sotto la loro dimora e accuratamente mantenuto, tra la loro esistenza e l'immagine di se stessi.

È possibile trarre nuova energia da una preoccupazione attenta e ostinata che impedisca a questo abisso di scavarsi, per esempio, tra la nostra scienza e le sue reali condizioni di produzione, tra le nostre tecniche e quel che le rende talvolta efficaci, tra le nostre politiche e

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i mezzi pratici che le rendono talvolta rappresentative, tra le nostre economie e quel che genera attaccamento ai nostri beni prediletti, tra le nostre religioni e ciò che le rende talvolta vive e vere, e così via? Bisognerebbe probabilmente modificare la metafora-madre della pretesa «fuga in avanti». Descriviamo sempre il progetto moderno come il salto coraggioso di un giovane gigante che, scappando da un passato soffocante, volge risolutamente lo sguardo luminoso verso il futuro, un po' come quegli eroi di pietra del socialismo reale che si stagliavano immobili dinnanzi a un radioso avvenire. Ci bur-liamo di quelle statue, ma non abbiamo ancora davvero disegnato le nostre: secondo me, si tratta effettivamente di un giovane gi-gante, ma un gigante che fin qui ha camminato o, meglio, ha corso all'indietro, buttando dietro di sé, erraticamente, qualunque cosa lo intralciasse, mettendo tutto a soqquadro al suo passaggio e senza nemmeno accorgersene, poiché il suo sguardo è sempre rivolto al-trove, verso il passato tanto odiato. E sì una fuga, ma una fuga al-l'indietro. Supponiamo che per una miracolosa metanoia il gigante si volti infine verso il futuro: innanzi tutto avrebbe un moto di or-rore di fronte ai disastri commessi; poi, dopo aver mormorato qual-che scusa imbarazzata, o almeno così voglio sperare, si rimetterebbe in cammino, ma stavolta lo farebbe come se camminasse sulle uova, prendendo mille precauzioni. Fuggendo a ritroso dal passato ar-caico, il giovane gigante non poteva vedere nulla di quel che fa-ceva: è questo che voglio dire quando affermo che i moderni non sono mai stati, fino a ora, contemporanei a se stessi. Se si voltassero, ecco che sarebbero obbligati a divenire finalmente «del loro tempo». Ma con nuova trasformazione davvero imprevista: non potrebbero più essere dipinti come giganti, bensì come nani, che hanno oltre-tutto perso l'aspetto giovanile perché sono vecchi, terribilmente vecchi. Saggezza tardiva, precauzioni tardive. E tuttavia l'errore sa-rebbe ancora più grave se sbagliassimo i tempi.

Ho qui potuto solo accennare alla ricerca che porto avanti ormai da quindici anni sulle proposte di pace e le esigenze essenziali, cui ho attribuito il nome in codice di «indagine sui regimi di enuncia-

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zione». In fondo, si tratta di procedere come se le società contem-poranee possano essere colte sotto un duplice aspetto, come se mo-strino due facce: una faccia naturalista e una modernista, una fac-cia costruttivista e una nonmoderna. La prima, come penso di aver dimostrato, non permette più alle società né di comprendere se stesse, né di comprendere le altre, e ancor meno consente, del tutto ovviamente, di restare fedeli al proprio rispettabile progetto di uni-ficazione e di pluralismo. Ora mi occupo invece della seconda fac-cia. Quali sono gli esseri senza i quali gli europei potrebbero dire: «Se non avessimo più accesso a loro, moriremmo?». Le condizioni sono decisamente chiare, almeno dal mio punto di vista:

• è necessario che questi esseri esistano realmente e che noi ci si possa attaccare a loro (in altre parole, il tema dell'emancipazione non è più sufficiente a definire i nostri legami);

• è necessario che essi siano suscettibili di una costruzione attenta (in altre parole, la trascendenza non è sufficiente);

• è necessario che essi siano abbastanza numerosi da ottenere que-sto doppio effetto di unità e pluralismo che definisce il progetto stesso di una vita comune: la proiezione europea dell'universale.

Ciascuno di questi esseri, di questi passaggi, di queste modalità di enunciazione corrisponde a una esigenza essenziale, ovvero a uno dei modi scoperti dagli europei per esplorare l'universale. Na-scoste sotto il naturalismo di una volta, ciascuna di queste virtù era diventata un veleno per coloro che volevano imitarle; ripresen-tate sotto il loro lato costruttivista, nulla impedisce a priori la loro effettiva universalizzazione, ma questa volta per davvero e, se così si può dire, secondo le regole. È qui che il senso della parola «ri-chiamo» acquisisce tutto il suo significato: un'azienda si lancia in una operazione tanto dolorosa solamente per ingrandirsi ancora di più. Per gli europei, richiamare la modernità non significa abban-donarne l'ambizione, ma piuttosto essere finalmente coscienti della propria responsabilità. Se le virtù alle quali tengono dipendono in

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effetti da un funzionamento costruttivista molto più complesso di quello che in passato pretendevano di proiettare verso l'esterno, una seconda fase di modernizzazione diventa allora possibile: per esempio, estendere la Scienza con la esse maiuscola è una impresa completamente diversa da quella che cercano di propagare le scienze al plurale. Se le seduzioni della prima modernizzazione hanno in qualche modo perduto le loro attrattive, nulla consente di affermare che la modernizzazione all'europea, una volta liberata della sua buona e cattiva coscienza, non possa essere nuovamente seducente. Credo di poter dimostrare che rispettando la presenza di una dozzina di questi esseri, di questi regimi di enunciazione, po-tremmo rispettare la nostra eredità e presentarci dunque agli altri non con fierezza - non si tratta più di «fare gli orgogliosi» - ma piuttosto con qualche speranza di contribuire alle future negozia-zioni di pace. Ma questa è tutta un'altra storia.

In conclusione, penso che sia piuttosto facile sbagliarsi sulle dif-ficoltà che presenta un'antropologia dei mondi contemporanei cosi concepita. Non è che sia cosi agevole essere localizzati solo perché si studiano le metropolitane, il consiglio di Stato, la parola religiosa, i laboratori di Pasteur o Salk, le rappresentazioni politiche. Io faccio circolare regolarmente notizie sul mio lavoro; rendo pubbliche le mie posizioni, fornendo con la maggiore esattezza possibile la mia longitudine e la mia latitudine; credo di pubblicare resoconti scritti con un linguaggio abbastanza chiaro. E tuttavia sembra che la mia spedizione scientifica nel cuore della giungla contemporanea sia spesso data per dispersa, allo stesso modo in cui lo erano quelle più antiche e assai più pericolose di un Livingstone o di uno Stanley. Non mi sono mai imbattuto in persone che abbiano localizzato, anche solo approssimativamente, la posizione delle regioni che avevo appena esplorato. E vero che si tratta di una vera e propria terra incognita: le cause del modernismo nel cuore stesso del moder-nismo. Ma mi aspetto che prima o poi un qualche antropologo con il casco in testa, proprio nel bel mezzo di una giravolta tecnica o giuridica, mi tenda la mano e mi dica: «Doctor Latour, Ipresume»...

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Ringraziamenti

Senza François Gèze non avrei mai scritto questo saggio, i cui difetti sono senza dubbio innumerevoli, ma sarebbero stati ben più numerosi senza i preziosi consigli di Gérard De Vries, Francis Chateauraynaud, Isabelle Stengers, Lue Boltanski, Elisabeth Claverie e dei miei colleghi dell'École des Mines. Ringrazio inoltre Harry Collins, Ernan McMullin, Jim Grie-semer, Michel Izard, Clifford Geertz e Peter Galison che mi hanno per-messo di verificare le mie argomentazioni in occasione dei diversi seminari che hanno avuto la gentilezza di organizzare per me.

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