Brunella Gasperini Diario Di Un Figlio Difficile

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Diario di un figlio difficile 1. Che sono difficile lo dice, in tono leggero, mia madre. Mio padre dice, a gran voce, altre cose, per lo più pesanti. In quanto a mia sorella, se richiesta di un’opinione risponde: “Boh!”. Mia sorella. Nicola ha quattordici anni (io diciotto) e se fosse vero che io sono difficile, lei sarebbe un caso clinico. Due anni fa, quando ha cominciato a farsi cavar le parole con l’uncino, mia madre l’ha portata da uno psicologo. Dopo di che è diventata praticamente muta. Anch’io lo ero, alla sua età. Infatti mia madre ha portato dallo psicologo anche me. Nel mio caso, come poi in quello di mia sorella, il responso del luminare è stato categorico: la persona da curare non erano i figli, era il padre. “Ma se non l’ha neanche mai visto!” ha detto mia madre. “Appunto” ha detto il luminare. “Mi piacerebbe vederlo: deve essere un caso interessante.” Mi figuravo mia madre che trascinava mio padre in catene nello studio dello psicologo. Ho girato via la testa perché mi scappava da ridere, e anche a lei. Ma si è ripresa subito e ha guardato lo psicologo con occhio ostile: “È stato lui a parlarle di suo padre?” ha chiesto incredula. Lei sa che non faccio la spia. “Lui ha detto solo boh” ha risposto il luminare con un bel sorriso. “Ottima tattica. Logica reazione a un padre che urla.” “E se fossi io quella che urla?” ha chiesto mia madre in tono di sfida. “Sarebbe lo stesso” ha detto il luminare. “Ma non è lei quella che urla.” A questo punto mia madre (me l’ha detto poi) ha avuto l’impulso di cacciare un urlo belluino per vedere che faccia faceva lui. Ma non le è venuto. Gli urli, belluini o no, non le vengono mai. Le esplodono dentro, dice, e li sente solo lei. “Uhm” si è limitata a dire, aggrondata. “Quanto le devo?” Gli doveva parecchio. Forse per questo, ma non solo per questo, uscendo dallo studio dello psicologo era tutta intraversata: la prima volta (con me) come la seconda (con mia sorella). In fondo non aveva mai pensato che i suoi figli fossero nevrotici o “mentalmente disturbati” o cose del genere; aveva le sue idee in proposito, molto diverse, e voleva solo una conferma. L’aveva avuta. Il disturbato, in famiglia, era mio padre. Cosa che lei sapeva da lustri. Quindi la conferma ufficiale avrebbe dovuto farla contenta, giusto? E invece no. Entrambe le volte si è incavolata: e non solo per le cinquantamila buttate via, ma proprio per la diagnosi. “Pazzologhi del cavolo!” diceva (notare che pazzologo è un termine di mio padre). “Si credono dei veggenti! Dare del matto a un padre che manco conoscono! Matti saranno loro!” Mia madre è fatta così. Anche mio padre. Passano metà della loro vita a litigare forsennatamente ed è chiaro che si considerano a vicenda completamente pazzi. Ma guai se lo dice qualcun altro. Basta che uno dal di fuori osi muovere la minima critica

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Romanzo

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Diario di un figlio difficile

1.

Che sono difficile lo dice, in tono leggero, mia madre. Mio padre dice, a gran voce, altre cose, per lo più pesanti. In quanto a mia sorella, se richiesta di un’opinione risponde: “Boh!”. Mia sorella. Nicola ha quattordici anni (io diciotto) e se fosse vero che io sono difficile, lei sarebbe un caso clinico. Due anni fa, quando ha cominciato a farsi cavar le parole con l’uncino, mia madre l’ha portata da uno psicologo. Dopo di che è diventata praticamente muta. Anch’io lo ero, alla sua età. Infatti mia madre ha portato dallo psicologo anche me. Nel mio caso, come poi in quello di mia sorella, il responso del luminare è stato categorico: la persona da curare non erano i figli, era il padre.

“Ma se non l’ha neanche mai visto!” ha detto mia madre.“Appunto” ha detto il luminare. “Mi piacerebbe vederlo: deve essere un caso

interessante.”Mi figuravo mia madre che trascinava mio padre in catene nello studio dello

psicologo. Ho girato via la testa perché mi scappava da ridere, e anche a lei. Ma si è ripresa subito e ha guardato lo psicologo con occhio ostile:

“È stato lui a parlarle di suo padre?” ha chiesto incredula. Lei sa che non faccio la spia.

“Lui ha detto solo boh” ha risposto il luminare con un bel sorriso. “Ottima tattica. Logica reazione a un padre che urla.”

“E se fossi io quella che urla?” ha chiesto mia madre in tono di sfida.“Sarebbe lo stesso” ha detto il luminare. “Ma non è lei quella che urla.”A questo punto mia madre (me l’ha detto poi) ha avuto l’impulso di cacciare un

urlo belluino per vedere che faccia faceva lui. Ma non le è venuto. Gli urli, belluini o no, non le vengono mai. Le esplodono dentro, dice, e li sente solo lei.

“Uhm” si è limitata a dire, aggrondata. “Quanto le devo?”Gli doveva parecchio. Forse per questo, ma non solo per questo, uscendo dallo

studio dello psicologo era tutta intraversata: la prima volta (con me) come la seconda (con mia sorella). In fondo non aveva mai pensato che i suoi figli fossero nevrotici o “mentalmente disturbati” o cose del genere; aveva le sue idee in proposito, molto diverse, e voleva solo una conferma. L’aveva avuta. Il disturbato, in famiglia, era mio padre. Cosa che lei sapeva da lustri. Quindi la conferma ufficiale avrebbe dovuto farla contenta, giusto? E invece no. Entrambe le volte si è incavolata: e non solo per le cinquantamila buttate via, ma proprio per la diagnosi.

“Pazzologhi del cavolo!” diceva (notare che pazzologo è un termine di mio padre). “Si credono dei veggenti! Dare del matto a un padre che manco conoscono! Matti saranno loro!”

Mia madre è fatta così. Anche mio padre. Passano metà della loro vita a litigare forsennatamente ed è chiaro che si considerano a vicenda completamente pazzi. Ma guai se lo dice qualcun altro. Basta che uno dal di fuori osi muovere la minima critica

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a mio padre, e subito mia madre inalbera le bandiere coniugali e passa con armi e bagagli dalla sua parte. Lo stesso fa mio padre, con molto più clamore e intervento di artiglieria pesante, se qualcuno osa muovere la minima critica a mia madre. Faccio un esempio. Mia madre scrive (stando a casa) racconti, romanzi, cronache, articoli ecc. e tiene una rubrica di corrispondenza su un settimanale femminile a grande tiratura. Mio padre (che passa otto ore al giorno in una banca e da vent’anni sogna di farla saltare in aria) non perde occasione di disprezzare furiosamente il lavoro di mia madre e mia madre stessa, chiamandola scrittora, persuasora rosa, contessa azzurra, demente al servizio di altre dementi, e così via. Ma se per caso qualcuno critica il lavoro di mia madre o anche si limita ad esprimere quel che si dice un cortese dissenso, ecco che mio padre va fulmineamente in bestia e grida che quel tale è un frustrato, un invidioso, un intellettuale fallito, oppure un conformista del cacchio, un lurido reazionario, un servo dei potenti; e sebbene non sia chiaro cosa c’entrino i potenti, a sentirlo sembra che mia madre sia non solo un astro incompreso della letteratura, ma un pilastro della libertà di opinione, un faro che guida l’umanità attraverso le tenebre. Mia madre gli versa da bere e lo consolo delle offese a lei arrecate. In quei momenti penso che il matrimonio è una cosa ben strana. Almeno, il loro lo è.

Questo per darvi solo un’idea preliminare della famiglia in cui vivo, Aggiungete: due cani (la Peppa, enorme e irsuto pastore bergamasco grigio, e il suo irsuto e nero figlioletto Tonto, che a cinque mesi già rovescia le sedie a colpi di coda). Due gatti fissi (la Giovanna persiana azzurra di nobilissime origini e il suo ex marito Camillo di inequivocabili origini plebee: dico ex perché adesso è castrato, ma il loro amore è rimasto intatto, superiore ai richiami della carne). Un numero variabile di gatti avventizi, randagi o no, provenienti dai tetti, dai terrazzi e dai giardini circostanti. Quattro coppie di uccelli di vari colori e razze, ma tutti estremamente canori, che volano liberi per lo studio di mia madre e per tutta la casa quando le finestre sono sicuramente chiuse e i gatti avventizi sicuramente assenti.

Ora, a me mia madre è simpatica. E anche le bestie mi sono simpatiche. Però mi sembra che l’amore della suddetta madre per le suddette bestie sia eccessivo. Secondo i libri di psicologia che mio padre mi accusa di leggere (per lui è pornografia), l’eccesso d’amore per gli animali nasconde una qualche carenza di tipo affettivo. Noi due figli, in effetti, non è che siamo molto espansivi. E mio padre… be’, lui si espande a modo suo. Però mi pare che dodici bestie fisse più le incalcolabili avventizie siano eccessive per qualsiasi supposta carenza. Cristo, certe volte pare di essere in uno zoo. Anche mio padre lo dice spesso. Urlando. Ma se lo dico io, sommessamente e di rado, subito mio padre grida di stare zitto, che le bestie danno molte più soddisfazioni dei figli, e in particolare dei figli come me.

Indi si butta in una delle sue menate a proposito del mio presunto far niente, essere sfaticato, essere deficiente, essere lavativo, esser parassita della società, della famiglia e di me stesso. Urlate del genere mio padre ne fa di media due al giorno, generalmente prima dei pasti. Poi mangia e gli passa. Ma intanto a me mi si è rovinato l’appetito, anche se mia madre dice che a vedermi mangiare non si direbbe. Comunque ste menate perpetue mi rompono. Lo so che dovrei fregarmene, ormai, ma

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non ci riesco. Lo so che è solo un vecchio disco difettoso, ma così vecchio e difettoso che mi vien voglia di spaccarlo tutte le volte. Solo che non sono un tipo violento, anzi, sono un non-violento per natura. Il che ha i suoi inconvenienti.

A ogni modo. Non è per fare sterili polemiche coi genitori e altre vetuste querimonie di tipo generazionale, ma in coscienza non mi sembra obbiettivo chiamarmi sfaticato lavativo e deficiente, visto che:

1, a diciotto anni sono iscritto alla facoltà di matematica (“Ci va solo per far casino!” urla mio padre. “Assemblee, collettivi, manifestazioni, casini e nient’altro che casini!” Anche al liceo secondo lui non facevo nient’altro che casini, e che poi fossi promosso, magari con la media del sette, secondo lui era per puro capriccio del caso).

2, da quando ho la patente sono diventato il fattorino di famiglia, recapitando lettere, articoli e plichi, comprando le trecento cose che mia madre dimentica di comprare, ricuperando i tremila oggetti che mia madre semina per la città, e scarrozzando avanti e indietro madre sorella e cugine varie (“Va in giro tutto il giorno con la ragazza!” grida mio padre. “A consumar benzina e a tamponare gli innocenti!” Per la cronaca, ho tamponato solo due tipi in tre mesi, e perfino la Tessa, che tende ad attribuire a me ogni sciagura della terra, dice che era colpa loro. La Tessa è quella che mio padre chiama la “ragazza”. Lo è da circa un anno e mezzo, cioè da quando, in una notte di luna sul lago, mi ha indotto, pestandomi, a cedere alle sue grazie).

3, studio sassofono e flauto dolce, jazz pop e musica rinascimentale, esibendomi talvolta anche in pubblico (“Pubblico di degenerati!” urla mio padre) con altri big del nuovo jazz, e preparandomi da privatista agli esami di Conservatorio (“Ah, ah il Conservatorio!” sghignazza mio padre. “Ti fanno correre, quelli! Te li turano dietro, i tuoi pifferi! Ci fanno la birra coi tuoi tromboni!” Nel linguaggio di mio padre, che si va restringendo con gli anni, tutti gli strumenti a fiato sono pifferi oppure tromboni: dipende solo dal calibro).

4, sono una promessa, seppure molto vaga e distratta, dello sci studentesco (“Uno sciatore serio non si sbronza prima della gara!” grida mio padre ricordando l’ultimo campionato liceale e un’epica, barcollante, ignominiosa finale di slalom gigante, che sono riuscito a vincere non so come, cioè sì lo so: erano tutti sbronzi). Il mio vecchio liceo, grazie a me, ha vinto il campionato. In presidenza c’è tuttora una targa d’oro con la gloriosa data e il mio nome inciso; l’ultima volta che mia madre è stata chiamata dal preside, l’anno scorso, nel vedere quella targa a momenti le viene un colpo: “Sembrava una targa alla memoria” dice, rabbrividendo ancora a pensarci. “Come se fossi morto in battaglia o roba del genere. Fammi il piacere di non vincere mai più campionati.” Questo è poco ma sicuro.

5, mi interesso di poesia (“Li chiama poeti!” grida mio padre scaraventando per le stanze i miei autori prediletti. “Sono dei mentecatti! Mentecatti loro e mentecatti chi li legge!”) ed ho molti altri interessi e attività, vuoi politiche (“ Casino!”) vuoi culturali (“Te la metti in quel posto la cultura!”) su cui sorvolo per non menarla.

“Sorvola, sorvola!” grida mio padre. “Me ne frego dei tuoi interessi del cacchio! Non ce n’è uno che sia utile: ma tu te ne fotti dell’utilità! Sfaticato! Lavativo! Se dovessi guadagnarti la pagnotta…”

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Tra le non poche espressioni di mio padre che mi fanno arrotolare le viscere, questa della pagnotta è forse quella che me le fa arrotolare di più. Comunque non è colpa mia, suppongo, se la mia pagnotta la guadagnano loro.

Certe volte, quando mio padre rompe più del solito, penso che dovrei cercarmi un lavoro.

Già: e se dopo lo trovo?

2.

A me, come ho già detto, gli urli di mio padre mi rompono sempre; ma quando c’è la Tessa mi rompono di più. Questo nonostante sappia, o proprio perché lo so, che anche il suo è un padre dagli urli ricorrenti, e molto peggiore del mio, perché il suo è anche reazionario manesco e trombone. Il mio, siamo giusti, no. È solo iracondo.

In questo momento, mentre infuria la seconda urlata quotidiana, gli occhi corruschi della Tessa mi ordinano, sopra l’orlo del bicchiere di aperitivo: non ascoltare, io non ascolto, fregatene, hai capito, FREGATENE. Una parola.

Mia sorella, seduta per terra in posizione loto, le membra magneticamente attorcigliate e la mente suppongo pure, legge un libro (yoga) posato sulla moquette e sembra immersa nel suo consueto, gentile, imperscrutabile limbo privato.

Mia madre, raggomitolata sul divano nel suo mare di lettere sparse, coi cani ai piedi, i gatti in grembo, stormi di uccellini trillanti intorno alla testa, ha l’aria di esser sordomuta, come sempre quando lavora o fa finta.

E mio padre avanti, avanti, quando comincia chi lo ferma più: sfaticato, parassita, lavativo. Sento, rabbrividendo, che il momento della pagnotta è vicino.

Ma prima che ci arrivi, la bordata degli urli inaspettatamente si arresta sulla mano che mia madre ha alzato per chiedere la parola.

“Cosa c’è?” chiede sgarbatamente mio padre, cui non piace esser interrotto, specie al punto della pagnotta.

“Gli ho trovato io un lavoro” dice inopinatamente mia madre. “A lui?” dice mio padre sarcastico.A me? Penso io sgomento.Mia madre mi guarda sopra gli occhiali calati sul naso: “A te: Farai

l’interlocutore delle mie RG”.Forse ho sentito male. Le RG, sigla per Ragazze- Guida, sono le lettrici più

assidue di mia madre, che da qualche mese hanno una pagina tutta loro sulla rivista, si sono riunite in club sparsi per tuta Italia, e inviano a mia madre ogni sorta di opinioni, critiche, domande, risposte, aumentando enormemente il suo lavoro. Lei ne è fierissima. Comunque non vedo cosa possa aver a che fare io con le RG.

“Risponderai, su richiesta, alle loro domande” spiega mia madre. “Discuterai con loro. Sarai una specie di Ragazzo – Guida, capito? Honoris causa.”

E tutti a ridere, ah, ah che ridere. Il ragazzo guida! Ah, ah.In effetti, se c’è un tipo inadatto a guidare chicchessia in qualsivoglia impresa o

luogo, questo sono io. Lo sanno tutti. Io meglio di tutti.

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“Tu che sei una guida” cita mia madre con voce didattica, “non dimenticare – che tale sei – perché hai dubitato – delle guide.” Quando mia madre cita Brecht non c’è da aspettarsi niente di buono.

Io non voglio guidare un accidente, dico. Lei dice di non preoccuparmi. Che non dovrò guidare niente e nessuno. Solo esprimere di tanto in tanto le mie idee, dice.

“Sì, così lo mettono dentro” dice mio padre, che ha molta fiducia nella democrazia.

Idee su che cosa, chiedo.“Bah” dice mia madre. “Che ne so. Sulle ragazze, per esempio.”Io sulle ragazze non ho niente da esprimere. Nell’insieme mi sembrano cretine.Mia madre alza un dito:“La Tessa è cretina?” chiede.Guardo Tessa, seduta sull’orlo della sedia, occhi neri lampeggianti, sorriso

provocatorio, pronta a buttarmi l’aperitivo in faccia. Cosa c’entra la Tessa! La Tessa è scorbutica, possessiva, caustica, violenta, ma NON cretina. “Tutti sanno che la Tessa è un genio” dico con un inchino. Lei mi tira l’aperitivo in faccia: dice che il tono era ironico. I cani intervengono abbaiando, i gatti scappano miagolando, gli uccelli stridono starnazzando.

“Non fate casino!” urla mio padre.Imperterrita, mia madre alza il secondo dito:“La Nicola è cretina?”Mia sorella sta guardando fuori dalla finestra col suo naso in su e gli occhi

sognanti. Sembra sempre che non senta e che non si interessi di niente, e invece sente tutto, assimila tutto, macina tutto; e tace. È così fatta su nelle sue paure e nei suoi blocchi che di sicuro un sacco di adulti la credono cretina davvero. Ma i cretini, è chiaro, sono loro. A scuola, tra l’altro, ha tutti otto. Forse perché della scuola non gliene frega niente. Anch’io ero così.

“ I presenti sono sempre esclusi” dico.Mia madre alza il terzo dito. “La Bruna è cretina?”La Bruna è la cugina grande, ventitreenne, rivoluzionaria, fanatica, pazza e

bellissima; adesso che è sposata e madre è diventata sentimentale e di conseguenza sembra a volte abbastanza cretina anche lei, ma è assolutamente certo che non lo è.

“Le eccezioni confermano la regola” dico.“Oh, il proverbio” dice mia madre, caustica.“Comunque io ho detto che le ragazze nell’insieme mi sembrano cretine” mi

difendo. “A una a una magari è un’altra cosa. Ma anche ammesso che le tue RG a una a una non siano cretine come generalmente sembrano, rimane il fatto che non so cosa possa aver io da dire che le interessi.”

“Lo sanno loro” dice mia madre. Fruga tra le sue carte e tira fuori una lettera dal mucchio, tipo goccia dall’oceano. “Ecco qua. Questa chiede il tuo parere su una cosetta.”

Il mio? È già strano, secondo me, che una persona scriva a un giornale per chiedere pareri, sia pure a mia madre. Ma che li chieda a me, mi sembra surreale.

Surreale ma vero. “Leggi leggi” dice mia madre, e mi lancia la lettera.

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“Caro Maurizio” leggo all’inizio... Maurizio sono io. O Madonna. Sta a vedere che divento il confidente delle fanciulle. Il contesso azzurro minorenne. O Madonna.

“Come fanno a sapere che esisto?” chiedo sospetto.“Sono famosa” sospira mia madre con voce modesta. “Di conseguenza sono

famosi anche i miei figli. Leggi leggi. Parla dei maschietti.” (In casa mia i ragazzi si chiamano maschietti). “Dice che sono tutti licenziosi. Che non credono nell’amore spirituale. Che appena escono con una ragazza fanno subito i kalì”.

La dea Kalì, se avete presente, è quella tipa indù con un sacco di mani. Nel mio giro capita spesso di sentir dire da cugine e amiche: “È simpatico, ma troppo kalì”. “Non sa far altro che il kalì”. “Mai supposto che il Carlo fosse così kalì”. Ma secondo questa tipa della lettera, a quanto leggo, tutti i maschietti della terra sono sempre e solo kalì. Tutti piccoli satiri. Tutti licenziosi al massimo. “Tu cosa ne pensi, Maurizio?”

“Cosa c’entro io?” dico.“Sei o non sei un maschietto? Come maschietto-guida, ti richiede un’opinione

personale”:“Io non sono mai stato kalì” stabilisco, sotto gli occhi lampeggianti della Tessa.“No?” Mia madre mi guarda al di sopra degli occhiali, e io mi sento crescere

decina di braccia con decine di mani.E va bene, forse sarò stato anch’io un po’ kalì qualche volta, tanto tempo fa.

Prima di conoscere la Tessa e i suoi sganassoni e i suoi aperitivi in faccia. Secoli fa, due o tre anni almeno. In principio, insomma.

Uno non sa come fare, in principio. Parlare è difficile. Uno magari avrebbe un sacco di cose da dire, ma non sa come esprimerle, pensa che magari la ragazza lo trova menoso e gli ride dietro, eccetera. Così non ha che due soluzioni: o dire pirlate, o fare il kalì. Tutto sommato, mi sembra meglio fare il kalì.

“Sì?” dice mia madre guardandomi sopra gli occhiali.Penso alla prima cotta che ho preso, Madonna che cotta, avevo quindici anni e

lei pure. La prima volta che siamo usciti insieme da soli mi pareva che avrei potuto morire ai suoi piedi e via dicendo. Avrei voluto parlarle della mia musica, recitarle le poesie che amavo, darle la mia cosiddetta anima. Forse le sarebbe parso uno strano oggetto. O una specie di bomba a mano. Così stavo zitto. Lei pure. Eravamo tutti e due sudati. Poi lei ha cominciato a dire pirlate, e io ho cominciato a fare il kalì. Ero triste da sbatter via.

Adesso che ci penso anche lei lo era.Non siamo più usciti insieme. Se la vedevo da lontano scantonavo. Lei pure.“È la faccenda dell’incomunicabilità” dico a mia madre. “Si cerca di superarla

e non ci riesce. Allora le ragazze dicono pirlate e i maschietti fanno i kalì.”“E comunicate meglio?”“No” dico.“No”.“E allora?”Guardo la lettera che ho in mano. Allora niente. Cosa posso farci io? Le cose

andranno avanti così, suppongo, a pirlate e kalì, finché non si incontra il tipo giusto, quello cui si riesce a comunicare. Se lo si incontra.

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“Comunque intanto si passa il tempo, no? Non è mica il caso di prenderla tanto sul tragico per un po’ di kalì” dico alzando le spalle. “Questa tipa deve avere idee arretrate”.

“E tua sorella?” dice mia madre.Non capisco la domanda. Aggrovigliata nel suo cantuccio, gambe loto e mani

giunte, mia sorella non dà segno di vita. Zitta, remota, assolutamente incomunicabile.“Cosa c’entra lei coi kalì!” dico.“L’hai guardata bene?” dice mia madre. “Presto sarà zeppa di aspiranti kalì.

Gliene è già capitato un paio, se vuoi saperlo.”“Alla Nicola?” dico trucemente. “Chi erano quei bastardi?”“Guarda guarda il fratello latino” dice mia madre. “Patrizza”.Dietro le mani giunte di mia sorella esce una risatella sommessa, limpida,

argentina, e io mi sento un po’ stupido. Latino. Aarg.“Rispondile tu a questa deficiente!” grido ributtando la lettera a mia madre.

“Non ho mica tempo da perdere in pirlate”.“Patrizza proprio” sospira mia madre tra sé.

3.

A mia madre, le RG le hanno dato alla testa. Mio padre dice che c’è sempre qualcosa che le dà alla testa. Che chi la conosce superficialmente la crede un tipo mite, timido e schivo, e non sa di avere a che fare con un candelotto di nitroglicerina travestito. Lui lo sa. Ora, dopo vent’anni e passa di convivenza con un candelotto di nitroglicerina, uno dovrebbe già esser esploso, oppure averci fatto l’abitudine. Invece lui no.

Adesso la miccia sono le RG. Per il candelotto, voglio dire per mia madre, le RG sono il simbolo di tutte le ragazze che da anni la leggono e di cui lei si sente, in base e non so quali processi psicologici, la madre putativa. Se ne deduce che io sarei il fratello putativo, il che, dato il numero delle sorelle, mi fa un certo effetto. Per non parlare di mio padre, il quale recisamente nega e rifiuta ogni forma, tipo o sospetto di paternità putativa di chicchessia. Mia madre dice che non sappiamo entrare nello spirito della cosa.

Comunque, da un paio di mesi, eccola che parte, piena di sacro fuoco e di antinevralgici, alla volta dei club di RG, sparsi per tutta Italia. Lei che soffre di agorafobia, di claustrofobia, trenofobia, aereofobia e non so quante altre complicate quanto interminabili fobie, di colpo è diventata un piccione viaggiatore. Lei che in vita sua, si può dire, non ha mai messo il naso fuori di casa senza il corteo familiare appiccicato, adesso se ne va via sola con la massima disinvoltura, lasciandoci in balia del padre urlante e della colf a un quarto di servizio.

“Oh, vi fa bene arrangiavi un po’” dice spartanamente, lei che ha sempre ritenuto di esserci indispensabile ventiquattr’ore su ventiquattro. Anche noi l’abbiano sempre ritenuto.

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In silenzio, la guardiamo fare i suoi preparativi, riempire la valigetta, appuntarsi sotto il risvolto la targhetta che porta scritto, sotto il nome del giornale, il suo nome. Come se fosse possibile confonderla con qualcun’altra.

“Pari una bestia allo zoo” dice mio padre. “Col nome dell’esemplare e della specie scritto sulla gabbia, a erudizione del pubblico. Cercopitecus silvanus. Jena ridens”.

A mia madre l’idea di esser jena ridens le piace molto e va in giro per la casa mostrando i denti.

Poi è l’ora di partire.“Perché non vieni anche tu?” mi chiede.Mi vedo seduto sul palco, con la targhetta al risvolto della giacca (Mauritius

ferox) e migliaia di sorelle putative che mi guardano. Mi viene il sudore solo a pensarci.

Mia madre gira l’occhio capzioso su mio padre. “Allora vieni tu” dice, e si tura subito le orecchie. Mio padre barrisce.

“Che famiglia asociale” sospira mia madre. Ci guarda un momento, la testa piegata verso la spalla, un sorriso come d’attesa. Noi zitti, ingrugnati.“Be’, ciao, fate i bravi” dice, e se ne va.

“Ciao” le diciamo. E basta.La casa sembra subito molto grande; e silenziosa. Mio padre, quando lei non

c’è, non urla neanche. Ha un’aria mite e spaesata, e preferiremmo che urlasse. Provo a suonare il flauto, ma non sono in vena.

Domani tornerà, le mani livide a furia di strette, le guance consumate dai baci delle figlie putative, e noi, suoi figli effettivi non le diremo niente. I gatti si arrampicheranno follemente su di lei rompendole tutte le calze, i cani la metteranno k.o. per leccarla meglio e noi. “Ciao” le diremo. E basta. Io ricomincerò a suonare, mia sorella ricomincerà a yogare, mio padre ricomincerà a urlare. E lei?

“Che bello esser a casa” dirà. E lo dirà sul serio.Sono i misteri delle famiglie.

Adesso comunque è qui, l’aria contenta, rannicchiata sul divano coi piedi sotto di sé (“appollaiata” dice mio padre), tra le sue lettere arretrate e i cani e i gatti e gli uccelli.

“Questa è per te” dice lanciandomi una lettera. “Vuole un tuo parere sulla civetteria”.

Su che cosa? Sì, ho capito bene. Sulla civetteria. O Madonna. Solo a sentire il vocabolo mi si rizzano i peli sulle braccia. Credevo che questa parola fosse defunta da anni, o che tutt’al più sopravvivesse nei linguaggi di certi bacucchi. E invece ecco qui una diciottenne del nostro tempo che te la scodella lì come niente. Dice: “Più mi guardo attorno e più mi rendo conto che nonostante l’emancipazione della donna, la civetteria è ancora molto in voga, anche tra le ragazze. Basta che ci sia in vista un maschio e cambiano voce e faccia, si aggiustano i capelli, camminano in modo diverso; e poi gridolini, risatelle, battiti di ciglia, occhiate in tralice. Non è vero che

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le ragazze sono cambiate! Certe non cambieranno mai. Anche perché ci sono ancora dei ragazzi che ci cascano... Tu cosa ne pensi?”

Tu sono io. Boh. Per conto mio se una ragazza fa uso di quella che mi rifiuto di chiamare civetteria e che in famiglia chiamiamo gnao gnao, il mio primo e definitivo desiderio è quello di incartarla, legarla, piombarla e spedirla come campione senza valore per una destinazione il più possibile lontano.

“Anche perché, altrimenti, la Tessa ti picchia” sbadiglia mia madre.Non raccolgo. Tessa a parte, io detesto profondamente il gnao gnao. Devo

ammettere comunque che alcuni amici miei, e neanche scemi, sono soggetti a crisi di inspiegabile debolezza di fronte a codesti repellenti giochini. Dopo un po’, magari si stufano. (Senza magari.) Ma al momento ci stanno e prendono un’aria basita e tronfia che fa molto latino. E allora?

Se dovessi rispondere a questa tizia, direi che con certi tipi e in certe occasioni e per un certo tempo, il gnao gnao può ancora funzionare. Ma che non è affatto necessario e consigliabile. Mi spiego. A parte Tessa, che come si sa ha avuto ragione di me a suon di botte e non certo di gnao gnao, le mie cugine, che ignorano il gnao gnao nel modo più totale, pure hanno tutte un grosso successo in campo maschile. La cugina Bruna, da che mi ricordo, ha sempre avuto dietro stuoli, dico stuoli, di spasimanti che trattava a turpiloquio e citazioni di Linus e di Marx, ma che non per questo spasimavano di meno. In quanto a mia sorella, forse sarà il suo distacco yoga, o i suoi astrali silenzi dietro i quali ognuno può immaginare quel che più gli garba (e sbaglia di sicuro), ma conosco non pochi maschietti che l’adorano perdutamente in silenzio. Comunque è certo che a tutte le ragazze del mio giro, il gnao gnao è assolutamente sconosciuto.

“Tu credi?” dice mia madre, guardandomi sopra gli occhiali.“Non dirmi che la Nicola fa il gnao gnao!” prorompo. “O la Tessa! O la

Bruna!”.“Ognuno ha la sua tattica” sospira mia madre. “Chi sbatte le palpebre, chi

turpiloquisce, chi tace e sogna, chi dà le botte in testa: non è detto che non siano anche queste forme meno smaccate di gnao gnao”.

“Ma allora nessuno è esente da gnao gnao, secondo te?”“Direi di no” dice con voce sognante, e da come le ridono gli occhi credo che

pensi ai suoi lontani gnao gnao. Chissà com’erano. Da come c’è cascato mio padre, alieno com’è da ogni forma di gnao gnao, dovevano essere diabolici. C’è immerso ancora fin qui.

4.

La madre quest’anno non ha freni. Tutto è cominciato con le RG: è per causa loro, infatti, che dopo aver vissuto vent’anni e passa (di matrimonio) chiusa nel suo guscio, casa-marito-figli-bestie-lavoro, mia madre all’improvviso si è messa a girare su e giù per l’Italia come se niente fosse, aerei pubblici e privati, automobili, vagoni letto, aliscafi, traghetti, ecc. E adesso, dice mio padre, tanti saluti. Dice che mia

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madre, una volta che ha preso la spinta, chi la ferma più. Ha sempre avuto i freni difettosi, dice.

Mia madre dice che i suoi freni funzionano perfettamente, solo che vuole esser lei ad azionarli, non gli altri. A mio padre questa storia non gli va mica molto giù. A quanto capisco vorrebbe essere lui ad azionare tutto, spinte e freni (soprattutto freni, dice mia madre) e su queste faccende discutono da circa vent’anni senza apprezzabili risultati. O meglio: mia madre discute, in tono gentile e sommesso, ottiene quasi tutto; mio padre non discute, dà semplicemente in escandescenze, e non ottiene quasi niente. E ognuno dei due si sente vittima dell’altro. Poi gli passa.

Tornando a bomba. Si vede che il direttore di mia madre si è convinto che viaggiare sia il suo pane, perché adesso la prende e la manda sapete dove? In Russia, appena.

Era un pezzo che circolava nell’aria questa storia della Russia, cioè di mia madre che doveva andarci, ma nessuno ci credeva: lei meno di tutti. E invece, di punto in bianco, eccola qua che si aggira con aria sgomenta tra valigie e colbacchi e stivali di pelo, dicendo che di sicuro perderà il passaporto e non potrà mai più fare ritorno; che sbaglierà strada e finirà nella steppa; che riuscirà antipatica a quei tizi del Cremlino; che creerà incidenti diplomatici e verrà deportata in Siberia; che avrà freddo ai piedi. Tra le sue previsioni, quella del freddo ai piedi sembra la più drammatica, nonché la più frequente.

“E allora sta a casa” dice mio padre.“Il lavoro è lavoro” risponde eroicamente mia madre.Infatti in Russia ci va per lavoro. Inviata speciale, al seguito di una spedizione

di pittori. Che cos’abbia a che fare mia madre con la pittura non si sa, ma pare non abbia importanza saperlo. Pare che a questa spedizione, organizzata per un (cito le parole del programma) “Incontro della pittura italiana con l’URSS” partecipino non solo centocinquanta pittori, noti notissimi e seminoti, non solo critici d’arte grossi e piccoli e così così, ma anche alcune persone che non solo non dipingono, non solo non criticano, ma non capiscono niente né di pittura né di critica. Come mia madre, appunto.

“E allora cosa ci vai a fare?” le chiedono.“Non lo so!” grida lei. “Chiedetelo al mio direttore!”C’è da dire che anche un giovane stravagante scrittore di nome Marino, collega

di mia madre e amico di famiglia, si è aggregato alla spedizione: neanche lui sa perché. Ma, a quanto capisco, lo sa benissimo mio padre, secondo il quale mia madre non è in grado di andare all’estero senza una guardia del corpo personale. E il bello è che mentre mia madre è spesata dal giornale, il Marino si paga pure il viaggio di tasca propria: cosa che non cessa di amareggiarlo.

“Ma che spilorcio!” dice mio padre piegando le labbra in giù. “Ti si offre l’occasione, certo unica nella tua carriera passata e futura, di aggregarti a una spedizione così impegnata, a un prezzo ridicolmente basso, e tu hai ancora da mugugnare!”

Il Marino gli dà un’occhiata torva. “Dovresti pagarmele tu le spese!” dice. “Perché lo so la fine che farò in Russia! Lo so quale sarà la mia funzione! Scudiero,

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gorilla, portabagagli e trovarobe della tua serenissima moglie!” Parlando di mia madre con mio padre usa sempre l’aggettivo serenissima: perché non so.

“In questo caso,” dice mio padre “dovresti pagare un extra per tanto serenissimo onore.”

“Ma dico: tu hai un’idea di quel che significa sorvegliare la tua serenissima moglie e i di lei serenissimi bagagli?”

“La sorveglio da oltre vent’anni” sospira mio padre aprendo le braccia. “Gratis. Comunque se non vuoi andare in Russia non hai che dirlo, troviamo subito un altro portabagagli.”

“No, no, ci vado” borbotta Marino. “Dicevo per principio.”In realtà, al contrario di mia madre, il Marino è pieno di sacro fuoco. Controlla

quotidianamente sui giornali le condizioni atmosferiche dei paesi balcanici, si esercita a dire “Ehi come va” in russo, e progetta di portarsi dietro, oltre al normale bagaglio, la macchina per scrivere, tre macchine fotografiche, un teleobbiettivo, un registratore, due microfoni, e mia madre è certissima che verrà subito deportato in Siberia.

Lei non si porta dietro nessun arnese di lavoro, dice. Forse una matita, ma non è certa.

“E non chiedetemi di nuovo cosa ci vado a fare! Non lo so e non lo voglio sapere! Se fosse per me, non ci andrei manco morta.” (Mente sapendo di mentire).

“Ma pensa” le dicono gli amici ottimisti “quanti spunti divertenti troverai, con tutti quegli scriteriati che viaggiano con te.”

Lei dice che di scriteriati ce n’è abbastanza in patria senza dover andare a cercare spunti in un paese pieno di steppa, di Siberia e di gradi sotto zero.

“Ma pensa che intanto potrai riscuotere i tuoi diritti d’autore congelati in Ungheria” le dicono.

Mia madre sporge le labbra. Dice che lei non è un tipo venale. E che comunque, dato che non è moneta convertibile, cosa cavolo se ne fa di tutti quei fiorini? Li regalerà ai passanti!

“Ma pensa, vedrai sfilare l’Armata Rossa” le dicono.Mia madre starnutisce. Avendo ereditato dai suoi ascendenti, e doverosamente

trasmesso ai discendenti, una radicata avversione per ogni tipo d’arma e d’armata, dice che le parate militari, quale che ne sia il colore, le procurano fenomeni di allergia.

“Ma le moschee, la piazza Rossa, i monumenti…” le dicono.Lei dice che a visitarli si stancherà maledettamente. Che le si congeleranno i

piedi. Che le si perforerà l’ulcera. Che la poteranno in ospedale e le toglieranno un sacco di organi importanti, e lei non potrà opporsi perché non sa dire “no” in russo.

Chiaro che tutte queste sue riserve non sono altro che una forma di scaramanzia – e di polvere negli occhi per mio padre. Il quale non se li lascia impolverare affatto. Sappiamo tutti perfettamente che si divertirà moltissimo, che troverà un sacco di cose da osservare, da raccontare, da scrivere, e si dimenticherà l’ulcera, i calcoli, l’esaurimento e forse anche i piedi freddi. Per questo l’abbiamo spinta a partire. Anche mio padre, bisogna dirlo: quello che è giusto è giusto. Faceva storie, ma solo “per principio”. Lo conosco, mio padre.

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Siamo contenti che parta. Anche se l’idea che per la prima volta nella vita, lei se ne vada via per venti giorni, e per di più in Russia, ci dà momenti di panico. Ma se glielo lasciamo capire non parte più, magari con la scusa del freddo ai piedi. Perciò buon viaggio, serenissima madre. E che il cielo e il Cremino ce la mandino buona.

5.

Come forse avrete saputo a mezzo stampa, mia madre è tornata dalla Russia sana e salva. Anche se ancora più magra, il che è tutto dire. Ha mangiato poco, perché il cibo passato dall’organizzazione nuoceva all’ulcera e aizzava la colecisti: ha dormito poco, perché sia in treno che negli alberghi i centocinquanta pittori facevano un casino d’inferno a ogni ora di notte; e ha riso troppo, perché il Marino era scemo, perché erano tutti scemi, perché anche lei era scema. Dice che era come esser tornati al liceo.

A parte quel che ha dato alle stampe, ci ha raccontato un sacco di cose che hanno fatto ridere moltissimo anche noi. Solo mio padre, seppure con qualche sforzo, non rideva. Mai e poi mai riderebbe di cose che mia madre ha fatto, visto e sentito senza di lui. Tutte fesserie.

“Comunque” ha asserito mia madre rientrando in seno alla famiglia ai figli al consorte ai cani ai gatti agli uccelli alle lettere “adesso per un anno non mi sposta più neanche il Kaiser”.

“Il Kaiser forse no” ha detto mio padre.Intanto qui la faccenda si fa seria. C’è un sacco di posta arretrata, e un sacco di

tizie che mi scrivono. A me. Giuro. Ragazze guida e non guida che attraverso mia madre mi interpellano, discutono, commentano, polemizzano, e mi fanno domande una più sballata dell’altra. Io non so se sia mia madre che le sobilla: lei dice di no, mio padre dice di sì; dice che mia madre, con la sua aria mite e distratta, è una sobillatrice nata. Fatto si è che mentre naviga tra le sue pigne di lettere arretrate, ogni tanto ne tira fuori qualcuna e dice: “To’: queste vogliono il tuo consiglio”.

“Cosa vuoi che consigli quello?” dice mio padre.“Più che di pifferi e di poeti mentecatti e di rivoluzioni teoriche, non s’intende. Se gli fai piantare un chiodo sfascia una parete. Se deve aggiustare una valvola provoca corti circuiti in tutto il casamento…”

“Le RG non vogliono che aggiusti valvole” dice mia madre. “Né che pianti chiodi. Anzi, a proposito, visto che tuo padre ha parlato di poeti, qui ci sono diverse RG che chiedono il tuo parere sulla letteratura contemporanea. Anche la letteratura contemporanea è un argomento sballato?”

“Ma cosa sento mai!” commenta con sarcasmo mio padre.Ecco. Lui non ha pazienza di leggere due righe che subito scaraventa il libro

urlando se l’hanno preso per scemo; come pretende di giudicare se non legge! Ma sapete i padri: hanno le loro idee, e chi gliele sposta. “È inutile che fai la faccia da superuomo!” mi aggredisce. “Quei tuoi Eliot e Neruda di cui ti pasci, li chiami poeti tu, che non ci si capisce un tubo? E quel tuo Kerouac, poi, non so com’è che sia ancora a piede libero”. Sono passati tre anni da quando andavo matto per Kerouac.

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Mio padre non se n’è accorto. Per lui Kerouac, che ovviamente non ha mai letto, è il fondo dell’abisso, individuo perniciosissimo, scrittore da strapazzo e corruttore di minorenni sballati.

Mi viene un’idea. “Che cosa ne diresti” dico a mia madre “se cominciassi a dare in pasto alle RG il Tridecalogo di Kerouac?”.

“Il Tri che cosa?” dice mio padre allarmato.“Non è una cattiva idea” dice mia madre, con gli occhi che le ridono. “Tu

leggi. Io trascrivo. Interesserebbe molto anche tuo padre” e si rivolge a lui con aria compunta. “Si tratta di trenta paragrafi, o comandamenti se vuoi, per i prosatori moderni” spiega.

“Per scrivere le schifenzìe che scrivono” dice mio padre “gli ci vogliono pure i comandamenti?”

“Meglio che non li citi tutti, quei comandamenti” mi consiglia mia madre, sempre con gli occhi che le ridono. “Intanto non mi ci stanno per lo spazio. Poi magari qualcuno ci può restar secco.” Non si sa se alluda alla RG o a mio padre. “Citane solo qualcuno, tanto per dar un’idea.”

D’accordo. Vado in camera mia, prendo il Tridecalogo della prosa moderna di Jack Kerouac e torno di là. Comincio a divertirmi. Mia madre sta pronta con blocco e biro. Siori e siori, attenzione: si va a iniziare la lettura del Tridecalogo.

“ 1. Diari- taccuini scribacchiati; fogli smacchiati di furia per sfogo” leggo.“Tipo i dannati rotoli di carta igienica su cui tu e i tuoi amici vi dilettate a

scrivere robe da mentecatti?” chiede mio padre.“Pressappoco” dico. “Quella è poesia, qui si parla di prosa; ma il concetto è

quello.”“Bel concetto” dice mio padre. “E in più tu terresti anche diari e taccuini?”

pronuncia le due parole come se fossero oscene.“Diari no. Qualche taccuino sì” ammetto. “Comunque io non faccio il

prosatore, al momento”.“Ci mancava” dice mio padre. “procedi pure”.“2. Aperti a tutto, ricettivi, in ascolto”.“Chi?” dice mio padre. “In ascolto di cosa?”“I prosatori” spiego. “In ascolto di tutto”.“Bei rompiscatole” dice. “Che si provino ad ascoltare me.”Procedo: “3. Mai ubriachi fuori di casa”.“Questo infatti si ubriaca solo dentro” dice mio padre. “Questo” ovviamente

sono io.“4. Innamorati della moglie.”“Fa parte del credo?” si informa mio padre dubbioso. “Poh.”“Come poh? Poh un accidente” dice mia madre, la biro a mezz’aria.

“E se uno non ha moglie,” dice mio padre “deve rinunciare alla prosa?” “Se non ha moglie” dice mia madre “avrà una Tessa. Poh.” Tiro avanti : “6. Essere dei santi idioti dello spirito”. “Qui non si può dire che tu non abbia stoffa” dice il padre. “Santità a parte.”

Leggo: “9. Le ineffabili visioni dell’individuale”.

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“Cosa?” dice mio padre. “Le ineffabili visioni, e poi? Dov’è il verbo, dov’è il predicato?”

“Non c’è” dico. “Non occorre. 11. Automatismi di visioni che fremono nell’inconscio.”.

“Ma va a dar via l’inconscio” dice mio padre.“12. Fissare l’oggetto fantasticando in trance.”“Questo lo fate tutti in famiglia” osserva amaro il padre. “Si vede che siete

tutto prosatori essenziali”.“13. Rimuovere le inibizioni letterarie, grammaticali e sintattiche.”“Furbi loro” dice mio padre. “Non sanno la grammatica, e allora dicono che

hanno i fremiti nell’inconscio”.“20. Non cercare le parole quando la penna si ferma, ma mirare

all’immagine.”“Cioè, in pratica, scrivere la prima fesseria che gli viene in testa” interpreta

mio padre.“25. Scrivere perché il mondo legga e veda la propria immagine esattamente

riflessa.”Sicché nei libri di questo tuo Kerouac del cacchio io vedrei la mia immagine

esattamente riflessa?” dice mio padre. “Riflesso sarà lui! Gliela do io l’immagine, a quello!”

“28. Creare con impeto, furia, senza freni, in purezza, dal di dentro: quanto più folli tanto meglio.”

“Qui c’ero arrivato da solo” dice il padre sardonico. “Ma i manicomi cosa ci stanno a fare?”

“29. Si sarà Geni sempre.”“E sempre fregati agli esami” conclude mio padre.Da quando incalza la mia prima sessione di esami universitari, ogni

conversazione con mio padre, letteraria o meno, si conclude invariabilmente così. Tocchiamo ferro e lasciamo perdere.

Mia madre si alza col blocco in mano: “Vado a trascrivere tutto. Vuoi vedere che le RG preferiranno tuo padre a Kerouac?”

Scommessa facile.

6.

“Allora, ti decidi a dirmi il tuo parere su queste sì insomma come diavolo vuoi chiamarle?” dice mia madre.

Le-sì-insomma-come–diavolo-vuoi-chiamarle sarebbero quelle cose che alcuni bacucchi chiamano “festicciuole”, con la u (suggerendo immagini leziose); altri “festini” (e qui ti vengono in mente baccanali di antichi romani) o se no pomposamente “feste” (e allora ti immagini ghirlande di fiori e bande paesane). Invece, i trattenimenti cui alludono le RG consistono in genere di: una o più stanze con le sedie contro le pareti; uno o più genitori che magari non si vedono ma di cui si intuisce l’occhiuta presenza; molte bibite analcoliche; un giradischi indefesso e un

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numero variabile di ragazzi ambossessi che indefessamente ballano. È su questo tipo di comesichiama, non già di “festa”, che le RG chiedono, sa dio perché, il mio parere.

Tanto vale dirlo subito chiaro: io a questo genere di cosa ci vado solo se vittima di violenza, inganno o ineluttabile fatalità. La musica leggera mi infastidisce; il gnao gnao con le ragazze non lo so fare; ballare non mi interessa (“non sei capace” dice mia madre); quindi regolarmente mi sgarbo e taglio la corda.

Mia madre dice che sono troppo sofistico (parola che usa spesso) che tutti i suoi figli e nipoti sono troppo sofistici, che facciamo un sacco di storie; che non sa da chi abbiamo preso.

Io non faccio nessuna storia. Alle comesichiama non ci vado e basta. Sarò sofistico, non nego. Avrò torto, chi dice di no. Dico che per me è così e non so cosa farci.

“E intanto hai influenzato anche la Nicola” dice mia madre. Lo dice tanto per dire, perché sa benissimo che mia sorella, con la sua aria fragolina e i suoi rarefatti bisbigli, è una crucca della madonna, voglio dire che è un’idea sua, del tutto autonoma, e ben difficilmente sradicabile.

Naturalmente le feste di quel tipo non piacciono neanche alla Tessa (l’amerei, se no?) Le rare volte che i suoi genitori tromboni ce l’hanno spinta, è sempre tornata torva e imbestialita, dicendo: “Erano tutti cretinetti e kalì”. Non parliamo della Bruna, nostra direttissima cugina grande: anche lei anni fa è stata costretta un paio di volte a queste cose ignominiose, e ne è tornata fumante d’ira: “Un ambiente merdoso!” gridava sventolando i lunghi capelli e le lunghe gambe. “C’erano un sacco di fascisti!” Per la cugina Bruna chiunque non abbia letto Marx o non sia pronto a intonare all’istante l’inno rivoluzionario è un fascista. “E almeno avessero fatto un po’ di casino!” si lamentava. “Invece niente. Solo ballare ballare e dire pirlaggini.”

In quanto a mia sorella, è andata alla sua prima e sicuramente ultima festicciuola qualche mese fa: aveva una specie di tunichetta bianca liscia, i capelli quasi biondi tirati su e la sua aria da principessina nella torre. Mia madre cercava di invogliarla e lei muta, rispondeva col suo piccolo sorriso di cortesia. Al ritorno, circa tre ore dopo, non sorrideva neanche per cortesia.

“Non ti sei divertita” ha constatato accoratamente mia madre. “Ma perché?”“Mi è toccato ballar sempre” è stata la tetra risposta.Mia madre era disperata. “Con tante ragazze che mi scrivono lamentandosi

perché nessuno le fa ballare, questa si lamenta perché la fanno ballare sempre! Ma perché mi sono venuti fuori dei figli così sofistici?”

“È colpa tua” dice immancabilmente mio padre. “Sei tu che gli hai imbottito la testa di idee.”

“Io?” mia madre sgrana gli occhi con l’aria di quella che le idee non sa neanche cosa siano. “per te la colpa è sempre mia.”

Io non so di chi sia la colpa. Siamo così e amen. Intendiamoci, non è che siano eremiti o roba del genere. Anzi. Abbiano un sacco di amici, cugini eccetera, e quando ci riuniamo sono grandi concerti e grandi cori e grandi balli folkloristici collettivi in girotondo o in fila indiana, e vecchi giochi dell’infanzia, e vino – possibilmente molto vino – e grandissime cagnare. Piene di imprevisto o di fantasia. Io queste cagnare, o

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macelli , o casini, o come vogliate chiamarli, sono pronto a farli sempre e dappertutto.

“Già” dice mia madre, asciutta.Ho toccato un brutto tasto. Perché, devo dire, una delle ultime cagnare,

organizzata (si fa per dire) qui in casa nostra, ha forse passato un po’ il segno. I genitori erano via, e a un certo punto, come si suol dire, mi è sfuggito il controllo. Ma è acqua passata, no? E dopotutto non ci sono stati né morti né feriti. Nessun danno a cose o persone.

“ Ah no?” dice mia madre.“ Ho messo a posto tutto!”“Ah si?” dice mia madre.Insomma , mi pareva di aver messo a posto tutto.Be’, vi spiegherò come è andata.

Dunque. Era sabato grasso. I miei genitori, come ho detto, non c’erano. La madre era via per una faccenda di ragazze guida, il padre a fare una gara di sci (fondo). Vi può sembrar strano che un padre di figli grani passi il week-end a fare gare di sci, ma era anche una rivalsa contro mia madre, capito? (“Ah tu parti? Be’, anch’io. Ah, tu torni domenica pomeriggio? Be’, io domenica sera.”)

Prima di partire, sabato mattina, mia madre aveva appuntato in giro per la casa i suoi soliti cartellini. (Portate fuori i cani. Hanno mangiato i gatti? Non fate uscire gli uccelli. Bada a tua sorella. CHIUDETE IL GAS). Mio padre, euforico com’è sempre prima di una gara di sci (dopo la gara meno) prima di andarsene mi aveva detto con insolita liberalità: “È carnevale, fate un po’ quel che volete. Fa’ venire chi ti pare: basta che lascino a casa gli strumenti”.

È stato esaudito. Nessuno ha portato gli strumenti. Ognuno in compenso ha portato: mezzo chilo di spaghetti, o una scatola di pelati, o delle salsicce, o una bottiglia. Non di acqua, intendo. Alle cinque del pomeriggio la casa era già piena. Non so se capiti anche a voi, ma quando io organizzo un casino all’ultimo momento, specie se è carnevale o in altre occasioni del genere festereccio, molti hanno già qualche impegno, mezzo o intero, per cui dicono: “ma, adesso vedo, se riesco a liberarmi, spero di farcela ma non garantisco”, eccetera, così per andar sul sicuro, non solo invito tutti gli amici ma li esorto a invitare a loro volta altra gente eventuale, e così alla fine succede che: o vengono in pochissimi, o vengono in moltissimi. Stavolta sono venuti in moltissimi. Amici intimi e amici di amici di amici di amici intimi.

La mia casa non è grande, e all’inizio c’è stato un po’ di disagio, in quanto: a, non si sapeva dove sedersi (tutti in terra o sui letti); b, non si sapeva dove mettere i cappotti (pigne orrende sugli attaccapanni e in ogni dove); c, gli intimi stentavano ad ingranare coi non intimi e viceversa. Nonostante questo, non si sa come, c’era un gran baccano. E dopo un po’, nonostante l’apparente incomunicabilità, eravamo tutti fratelli. Da dire che nello studietto di mia madre funzionava, segretissimo, il bar dei superalcolici, e si sa come vanno i segreti in questi casi.

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Ricordo comunque, seppur non molto lucidamente, che: 1, abbiamo fatto un coro in camera mia e un altro in camera di mia sorella, con sottofondo coperchi; 2, io e la Tessa ci siamo pestati, ma questo è normale; 3, la Peppa, nostra pastora bergamasco di temperamento emotivo, non si sa se per protesta o per attirare l’attenzione, ha rovesciato i due attaccapanni dell’anticamera e con l’aiuto del gigantesco figlioletto Tonto ha cominciato a trascinare cappotti e pellicce sotto il lavandino di cucina; 4, per dissuadere la Peppa dall’insano proposito senza peraltro mortificarla, il mio amico Tromba (il nome deriva dallo strumento che suona) le ha fatto ballare il tango: trascinata su due zampe nel vortice della danza, la Peppa guaiva svenevolmente, non si sa se per gratitudine o terrore, mentre i gatti si rotolavano selvaggiamente nei cappotti esercitando le unghie e lasciando peli dappertutto; 5, il vicino di sotto ha picchiato con la scopa nel soffitto e quello di fianco coi pugni nel muro, ma mio padre aveva detto: basta che non suoniate gli strumenti, per il resto fate quello che volete. Noi rispettiamo gli ordini dei genitori. Onora il padre e la madre. Mica il vicino di sotto o di fianco. Tutto procedeva a gonfie vele.

Se non che mi ero dimenticato un piccolo particolare. Mia madre dice che c’è sempre un piccolo particolare che mi dimentico e che si rivela fatale. In questo caso, il particolare è che io non reggo molto bene l’alcool. Mica che ne avessi bevuto tanto, almeno non mi pare. Forse ho mischiato, non so. So che quando è stata l’ora di andare tutti in massa in cucina a preparare il pranzo, di colpo le cose sono diventate estremamente confuse. Vedevo forme vaghe attorno a me. Sentivo voci vaghe che dicevano: è perché ha mischiato, forse ha preso freddo, ma su stai buono, portategli del caffè, dategli del bicarbonato, fategli succhiare il limone; e vagamente mi chiedevo di cosa e di chi stessero parlando. Dopo di che, non so più niente. Sapete che cosa vuol dire niente? Buio assoluto.

La Tessa mi ha poi raccontato che avevo la sbronza cattiva, che ero diventato litigioso e iracondo al massimo e sembravo mio padre tale e quale e insolentivo tutti e gridavo: “Fuori dai piedi tutti quanti! Incoscienti lavativi deficienti, uscite di casa mia! E chiudete il gas!”. Dice anche che ho pestato il mio amico Tromba che non mi aveva fatto niente, cioè ho cercato di pestarlo ma non ci sono riuscito perché sbagliavo mira.

A me sembra impossibile aver detto e fatto cose del genere, ma tutti me l’hanno confermato. In vino veritas, dicono. Col cavolo. A parte che è stato il whisky e non il vino a fregarmi, quella non è mica la mia verità. Comunque io non mi ricordo un accidente. Come fossi stato narcotizzato.

Quando sono emerso dalla narcosi, non so quanto tempo dopo, credevo di avere le traveggole, come si dice. Non credevo ai miei occhi. La casa era zeppa, ma dico zeppa, di gente mai vista né conosciuta. Ero sul divano dello studietto di mia madre, con la Tessa che mi metteva pezze bagnate sulla fronte, e tutt’intorno, tra i cani latranti e i gatti appollaiati sulle librerie e gli uccelli starnazzanti nelle gabbie, si pigiavano schiamazzando per la casa persone a me assolutamente nuove, ignote, e apparentemente uscite dal nulla. C’erano anche due negri e un giapponese. Non che io sia razzista, al contrario: mi chiedevo solo come fossero capitati lì.

“È un incubo?” ho chiesto sfregandomi la faccia. La Tessa ha detto di no.

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“Da dove sono usciti?” ho chiesto. Neanche la Tessa lo sapeva. Qualcuno deve essere andato in giro a raccoglierli a caso. Ma chi? Non si sapeva.

In compenso gli amici e gli amici degli amici se n’erano andati quasi tutti. Erano rimasti solo pochi intimi, per proteggere mia sorella e le bestie in quel frangente. Li ho raggiunti con la Tessa in camera della Nicola. Avevano l’aria incavolata.

“Tutto a posto?” ho chiesto con voce disinvolta, mentre la testa mi si spaccava in due.

I pochi intimi si sono guardati in giro: “Tutto è fuori posto” hanno detto. “Ma la cosa più fuori di posto sei tu.”

C’è voluto un sacco di tempo e di fatica per mandar via tutta quella gente mai vista: “Ma come, è già finita?” dicevano. “Ma come! Se si cominciava appena adesso a divertirsi…” Erano le cinque di mattina.

Per fortuna i pochi intimi sono pochi ma robusti.Quando anche loro e la Tessa sono andati via, io mi sono messo a letto. Sulla

mia federa bianca qualcuno aveva scritto con un pennarello rosso, a caratteri cubitali: “CARPE DIEM”. Beati loro. Io m’ero sbronzato e non avevo carpito né il giorno né la notte. Ho tolto la federa e sono andato a buttarla nel cesto della biancheria; poi chiedendomi fino a che punto sia indelebile un pennarello, l’ho buttata nella pattumiera. Il pavimento della cucina era di un colore incredibile. La Nicola, chiusa in camera sua coi cani e coi gatti, non dava segno di vita. Gli uccelli dormivano, sotto choc, nelle gabbie aperte. Ero solo con la mia nausea e la mia emicrania a vagare in mezzo a quel casino, a guardare i cocci e gli spaghetti spiaccicati e le macchie di vino e di tutto seminate ovunque, per terra, sui mobili, sui divani, sui muri, tra gli ingenui cartellini di mia madre: CHIUDETE IL GAS. Non fate uscire gli uccelli. Hanno mangiato i cani? Bada a tua sorella.

Quei cartellini mi hanno dato il colpo di grazia. Mi sono sentito un verme. Un verme con lo stomaco in subbuglio e un trapano in testa.

Ero stanco da sbatter via, ma l’idea del letto mi ripugnava, così mi sono messo vagamente a fare pulizia. Scopavo qua e là, asciugavo, buttavo via, e avevo i conati, quando all’improvviso è comparsa la Nicola. Zitta, si capisce. Ma per niente sconvolta, in apparenza. Con le maniche del pigiama rimboccate e un piccolo sorriso: non di cortesia , stavolta, ma di complicità. Come se dicesse: dai, balordo, le sbronze le prendono tutti.

Lei no, ovvio. Non ne ha mai prese e se ben la conosco mai ne prenderà. Ma proprio per questo, la sua solidarietà mi è stata di enorme sollievo. Non è che lei sappia come si fanno le pulizie di casa, anzi non lo sa affatto, anzi credo di saperne di più io, ma è il pensiero che conta.

Mi era di conforto anche l’idea che la camera dei miei genitori era rimasta intatta. Niente macchie e letti sconvolti e Carpe Diem là dentro. L’avevamo chiusa a chiave prima dell’invasione, avevamo nascosto la chiave al solito posto. Tra la porta chiusa e le tapparelle abbassate, tutto era rimasto pulito, buio e tranquillo là dentro.

Anche la donna a ore, chiamata in soccorso verso le dieci del mattino, ha detto la stessa cosa. Appena entrata per poco non le veniva un colpo, ma poi lavando,

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fregando e promettendo omertà, continuava a dire: “Fortuna che la camera dei signori è rimasta chiusa”, e questo sembrava consolarla in tanta sventura domestica.

Così, quando nel pomeriggio è tornata mia madre, tutto appariva circa a posto.La madre entra, ci saluta, saluta cani gatti uccelli, dà un’occhiata casuale in

giro, annusa leggermente l’aria, e dice:“Cos’avete fatto, ieri?”Guardo mia sorella: so che non mi tradirà. Non si tratta di dire bugie, cosa che

riesce malissimo a tutta la famiglia, si tratta solo di “non” dire tutta la verità. Non è difficile.

“Oh, il solito” dico. Avevamo fatto anche il solito, dopo tutto.Mia madre mi guarda, guarda mia sorella, poi dice: “Pulite via quella macchia

di vino dal muro. Tra due ore sarà qui vostro padre, meglio che non la veda”, e se ne va verso la sua camera senza aggiungere motto.

Dico, era una macchia grande come una pulce, e mia madre è miope e distratta. Ma lei le cose mica le vede, le capta. Ha il radar, mia madre.

La sento aprire la porta della sua camera. La sento accendere la luce, muovere qualche passo, fermarsi. Poi sento la sua voce, quieta:

“Per piacere, Maurizio, vuoi togliere questa roba dal mio letto prima che arrivi tuo padre?”

Da suo letto? Accorro, e resto secco.La “roba” in questione è il mio amico Tromba: addormentato come un

cherubino nel letto di mia madre, ben infilato tra le lenzuola coi calzoni e la giacca le scarpe e tutto. Madonna. Come forse si intuisce, neanche lui regge molto bene l’alcool. Per di più , essendo un intimo, conosce il nascondiglio della chiave. Madonna. Dormiva lì da ventiquattr’ore all’incirca e nessuno se n’era accorto.

“Devo essermi appisolato” ha detto con un bel sorriso, svegliandosi.Prima si appisolarsi, comunque, aveva fatto in tempo a dar di stomaco . Sulla

poltrona di mia madre.“Era l’unico posto tranquillo” si è scusato con un altro bel sorriso.

7.

Da un po’ di tempo mia madre è sul pallone. Saranno le Ragazze Guida che le han dato alla testa, sarà la primavera, sarà non so che cosa, fatto è che non connette. Vaga per la casa tirandosi il ciuffo, canticchia, sospira, sbadiglia quando mio padre parla (cosa che lo manda in bestia, e lei dice che sbadiglia proprio per quello, che si tratta di uno sbadiglio psicosomatico), risponde a vanvera, si raggomitola sui divani a ronfare coi gatti, e non le va di lavorare. Cosa, questa, inaudita. Tutto il resto, tirarsi il ciuffo, vagare, essere sul pallone, sbadigliare e rispondere a vanvera, lo fa più o meno sempre, quando è stanca o assorta, cioè trecentosessantaquattro giorni su trecentosessantacinque. Ma che non le vada di lavorare, è una cosa che non era mai successa.

“Ho lavorato tanto” dice, sbadigliando “adesso lavorate un po’ voi.”

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Il ragionamento, per filare, filerebbe. Solo che non le si addice. Ci deve esser sotto qualcosa.

Anche mio padre ha l’aria di pensarlo. Non dice niente, ma le circola intorno con l’aria di uno che sente sfrigolare una miccia da qualche parte e non sa dove arriverà il botto, ma è certo che arriverà. Mio padre dice che mia madre, sotto la sua vernice gracilina e inerme, è una miccia vivente. Una cospiratrice nata. Un pericolo continuo per la famiglia e per la nazione. Dice che un giorno o l’altro marcerà su Roma. Armata di antinevralgici e di lettrici, entrerà al Quirinale con un umile sorriso, batterà un rispettoso colpetto sulla spalla del Presidente, e con voce timida e svagata dirà: “Mi scusi, signore, non vorrei disturbarla, ma le fa niente cedermi il posto?”, e il Presidente, confuso, glielo cederà.

Comunque per il momento io non credo che mia madre stia meditando un colpo di stato. Ma qualcosa sotto c’è di sicuro.

Sono andato anche da mia sorella (figurarsi). “Sai perché è così strana la mamma?” ho chiesto.

“Boh” ha detto, come previsto. Poi, con un eccezionale sforzo di comunicatività, ha detto: “Comunque non mi pare tanto strana”. Sembrava che volesse difende la madre. Ma io mica voglio accusarla. Vorrei solo capire che cos’ha.

Magari è solo il primo caldo. Tra l’altro, siamo tutti sotto esami. La sorella piccola deve preparare gli esami di quinta ginnasio, cui dedica comunque assai minor tempo che alla Mistica della Femminilità (suo nuovo pallino) e alla contemplazione del suo Mondo Interiore. Io sono alle prese col mio primo esame di università, che non è uno scherzo, anche se la Tessa, che nel pomeriggio viene da me a studiare la sua stupidissima filosofia, dice che il mio esame è una quisquilia, una sciocchezzuola, roba da ridere in confronto al suo; e se non le do ragione mi pesta, oppure mi scrive ingiurie sulla faccia col pennarello.

La madre, come ho detto, sembrerebbe sotto esami anche lei: se di genere creativo, psicologico o fisiologico non ci è ancora dato di capire. Vaga sul suo pallone, con rari subitanei risvegli di energie, generalmente a mio danno. Mio padre è impegnato a fondo nello studio e nella realizzazione di nuove migliorie per la vecchia casa sul lago, della quale è da lustri architetto, arredatore, capomastro, manovale, imbianchino, fabbro, falegname e genio guastatore.

Questa casa, che in origine era una darsena, quando mia madre l’ha ereditata dai suoi avi veniva descritta dal Catasto come: “Piccolo fabbricato di: piani zero, locali zero”. Le favolose eredità di famiglia. Si racconta che il notaio, che è anche uno zio di mia madre, trovandosi davanti questa descrizione di inesistenza edilizia, dopo aver ripetuto più volte tra sé: “piani zero? locali zero?” guardò mia madre al di sopra degli occhiali e le chiese, in dialetto: “Ma ti, in dov’è che te dormet?”, Frase passata nel lessico familiare e ora usata per ogni sorta di problema logistico.

Anno per anno, grazie al genio architettonico-guastatore di mio padre, lo zero edilizio, pur rimanendo apparentemente uguale di fuori, è diventato una casa di piani due, locali sei circa: mai definitivi, e anzi in continua evoluzione, in quanto mio padre ogni anno trova il modo di buttar giù un muro, tirarne su un altro, chiudere una porta, aprire due finestre, allarga di qua, stringi di là, come si fa coi vestiti dell’anno prima.

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Così ogni estate, quando si arriva su per le vacanze, si naviga in un mare di calcinacci, e la casa non è mai finita. Per fortuna: perché il giorno che fosse finita, come impiegherebbe mio padre le sue ore di libertà primaverili? A dar del deficiente a me, suppongo. Quindi ben vengano i calcinacci.

Mia madre, in fondo, è dello stesso parere. Ciononostante ogni anno, quando col risveglio della natura si risvegliano in mio padre nuovi progetti di migliorie per la Darsena, ecco che mia madre non si sa bene se per spirito polemico, per abitudine o per istinto di conservazione, apre le ostilità.

“A me la Darsena piace così com’è” comincia a dire.Al che mio padre: “Sì, ma vedrai come ti piacerà dopo!”, e ratto comincia a

riempire fogli e foglietti di schizzi e controschizzi, in sezione, da destra, da sinistra, da sopra, da sotto, li passa a mia madre con dettagliate incalzanti spiegazioni. “Capito?” le chiede alla fine.

“No” dice mia madre.Al che mio padre, sempre più nervosamente, fa altri schizzi, più grandi altre

spiegazioni più altisonanti, finché mia madre, per farlo smettere, dice che ha capito, sebbene sia chiaro a chiunque il contrario.

“Ma costerà un sacco di soldi” è la sua seconda obiezione. Mio padre dice che costerà pochissimo, si può dire niente; e ratto le sottopone

complicati preventivi orali e scritti, che mia madre non guarda e non ascolta, primo perché li capirebbe ancor meno degli schizzi, secondo perché conosce la funambolesca elasticità dei preventivi di mio padre.

“Verranno giù un mucchio di calcinacci!” è la sua terza obiezione.“Tu e i tuoi calcinacci!” grida mio padre cominciando a imbestialirsi. “Cosa

vuoi che siano un po’ di calcinacci! Si chiama un uomo e si fa far pulizia, no?” Mia madre dice che di uomini in Valsolda non se ne trovano mai. “E allora una donna!” grida mio padre. Di donne, dice mia madre, se ne trovano men che meno. “E allora pulirò io!” urla mio padre, che si è infine imbestialito del tutto. “Sei una guastafeste, sei una piantagrane, ecco cosa sei!” Dopo di che vanno avanti a litigare per ore senza il minimo costrutto. Ogni volta così.

Ma stavolta no. Mia madre, quest’anno, non fa obiezioni. È troppo sul pallone per farne. Guarda con occhio vago i progetti di mio padre e sbadiglia: “Bello” dice. “Sì, sì, ho capito. Bello bello.” Guarda i preventivi di mio padre e si tira il ciuffo: “Poco” dice. “Sì sì, costerà proprio poco.” Ai calcinacci non fa neanche cenno. Mio padre, preso com’è dal suo fervore edilizio, non se ne accorge (o finge di non accorgersene?) . Ma io me ne accorgo sì. Com’è che non litigano neanche più?

Confido le mie preoccupazioni alla Tessa. Lei mi ascolta attenta, molto attenta; e non dice niente. Il che, per la Tessa, è strano.

“Ma cos’hai, sei muta?” dico. “Aiutami a capire cosa sta succedendo.”Lei tace ancora un momento, poi decide di provocarmi: “Cosa vuoi capire, tu,

Ragazzo-Guida del cavolo! Tu studia i tuoi numeretti e lascia stare la psicologia”.Così dicendo brandisce il pennarello, io fuggo, mia madre compare a tagliarmi

la strada e mi tiene fermo per le braccia, tra grida e divincolamenti immani. Col

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pennarello verde la Tessa scrive sulla mia fronte “Il Maurizio” e sul mento “è scemo”.

Mia madre ride tutta contenta. Poi torna sul pallone. Boh. Meglio che mi dedichi ai miei numeretti e lasci stare la psicologia femminile.

Non avrei da dirne molto bene.

8.

È sera. Mia madre sfoglia e risfoglia lettere con aria assente.“Questa è per te” dice ogni tanto, e ritorna sul pallone lasciandomi in balia di

queste fanatiche che vogliono il mio parere su tutto l’umano scibile: dalle delusioni d’amore alle partite di calcio al rapporto di coppia al femminismo alla musica leggera. Tutto un casino che uno non sa da che parte cominciare.

“Uh quante storie” dice mia madre, e si rivolge a mia sorella: “Guarda tuo fratello che si schermisce. Che fa il divo ritroso”.

Dalle parti di mia sorella, cioè dalle pagine del libro alzato come schermo tra lei e l’orribile mondo che la circonda , viene una vocina sottile:

“Forse non ha opinioni” dice la vocina. Sentito? Proprio lei! Lei che ha la bocca perennemente cucita e non si sa mai quel che pensa e se pensa, proprio lei viene a dire a me, suo fratello maggiore, diciottenne e universitario, che non ho opinioni. Questa pulce femminista. Sappia che io sono una fucina di opinioni! Magari non avrò molto d’altro, come mio padre asserisce, ma le opinioni le ho: chiaro?

“Sì” dice mia madre. “Ma mi pare che, con tutta la democrazia che vai sbandierando in giro, non hai ancora a imparato a rispettare le altrui, di opinioni.”

“Allora, secondo te, per essere democratico dovrei trovare interessante e degna di risposta qualsiasi pirlaggine amorosa? O magari sostenere che la musica leggera è un passatempo elevato e istruttivo?”

“L’amore non è una pirlaggine!” dice fieramente mia madre. “E in quanto alla musica leggera...” Si schiarisce la voce, poi prorompe: “Oh, diavolo, non tutto deve esser istruttivo a questo mondo! Non tutto deve necessariamente elevare lo spirito! Se così fosse, sarebbe una maledetta barba, ecco cosa sarebbe! Ognuno ha i suoi gusti. Il mondo è bello perché è vario.”

“Oh, il proverbietto” dico.“Non fare il saccente!” dice mia madre furiosa. “Quando avete diciotto anni e

quattro idee in testa, vi credete dei padreterno. Invece siete solo dei rompiscatole, ecco cosa siete!”

Ha parlato sul serio, e ci rimango male. Se mio padre mi dà del rompiscatole, non ci faccio caso: è un sottofondo quotidiano senza importanza. Ma se è mia madre che mi dà del rompitasche. – e sta parlando sul serio – allora mi viene il dubbio di esserlo davvero. Non è un bel dubbio.

“Mica è colpa vostra” dice mia madre, già addolcita. “Alla vostra età ero una tremenda rompiscatole anch’io. E non me ne accorgevo, e continuavo a pestar zuccate nelle cose, nella gente, nelle idee. Ero così tremendamente convinta di avere ragione, e così poco disposta a capire le ragioni degli altri. Si è talmente poco elastici

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quando si è giovani. Si è talmente poco giovani” finisce con un sospiro; e mi sorride sopra gli occhiali abbassati. La guardo. Ha quarant’anni passati, le rughe, gli occhiali, l’ulcera, i nervi scassati e un sacco di acciacchi. Ma né io né mia sorella né i miei cugini né i miei amici siamo giovani dentro come lei. Le batoste gli anni i dolori non hanno fatto che aumentarle la carica. Mamma. Le ho detto una volta, quando ero più piccolo, ma come fa a piacerti un mondo così? Non vedi quante cose ingiuste, sporche, stupide, brutte?

“Bella forza amare le cose belle” mi ha risposto.Forse ha ragione. Noi non siano abbastanza elastici. Non siamo abbastanza

liberi. Non siamo abbastanza giovani. È possibile che per amare la vita, e quindi essere giovani, occorra diventar vecchi? Boh.

Arieccola che mi tampina: “Visto che vuoi argomenti più impegnati, qui si parla di procreazione e di aborto” dice. Tiene in mano una lettera, ma non la legge. Sembra piuttosto che mediti.

“Non vorrai che faccia una disquisizione sull’aborto” dico. “A parte tutto, è una faccenda di donne. L’abortista ufficiale sei tu.”

Dl tutto inaspettatamente, mia madre esplode: “Io non sono un'abortista! Non farmi anche tu questi discorsi del cavolo! L’aborto è una violenza, e io lo odio come tutte le violenze. Io sono per la prevenzione dell’aborto …..”

“Campa cavallo” dice mio padre , da dietro il giornale.“Ma finché la prevenzione non c’è,” interviene la neofemminista, mia sorella

“o quando per caso non funziona, per che cosa sei?”“Allora preferisco un aborto libero e legale a un aborto clandestino” dice mia

madre. “Se e quando si desidera l’aborto.” Batte il dito sul foglio che ha in mano. “Qui c’è una donna di quarant’anni passati che non desidera l’aborto. Aspetta un bambino e lo vuole. Ma i figli sono già grandi, non lo vogliono e dicono e che la madre è un’incosciente e un’egoista.”

“Be’, hanno ragione” dico. “Con tutto sto inquinamento, e sto sovrappopolamento, e questa umanità suicida per eccesso, e questo medioevo prossimo venturo, procreare è egoismo! Lo dici sempre anche tu che i figli si fanno per amor proprio, non per amor loro e dell’umanità. Questa qui poi, che ha già due figli grandi e quarant’anni…”

“Anch’io ho quarant’anni” dice mia madre a bassa voce.“Passati.”“Ma mica vuoi fare un altro figlio!” dico. “Se lo facessi saresti pazza, oltre che

egoista!”C’è un silenzio. Mia madre continua a fissare la lettera. “Io amo la vita” dice

infine, con voce quieta. “E aspettare un figlio a quarantun anni ti fa sentire così viva, così giovane, così...”,la voce si rompe, mia madre si alza, la lettera cade per terra: non è una lettera, è un foglio bianco. “Va bene sono egoista!” grida con voce infantile, mentre corre via dalla stanza. “Sono egoista e pazza, e non me ne importa niente!”

Ma gliene importa, se le viene da piangere. Non ho mai visto piangere mia madre.

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È andata. Mio padre la segue senza dire una parola, e senza guardarci.Io e mia sorella restiamo lì uno di fronte all’altra.“O Madonna” dico. “O Madonna.”Non mi viene fuori altro. Adesso capisco tante cose, la madre sul pallone, i

misteri, lei e mio padre che bisbigliavano fin tardi la notte – ecco cos’era.“Ma tu lo sapevi?” chiedo a mia sorella.“Boh” è la scontata risposta. E dopo congrua pausa: “Avevo dei sospetti”.E anche la Tessa, sono sicuro, doveva averceli. “Perché non me l’avete detto?”

grido.“Erano solo sospetti”.“ E adesso, cosa ne pensi?”“Ogni donna ha il diritto di autogestire il proprio corpo” annuncia.O Madonna. Autogestire! Se deve parlare così, era meglio quando stava zitta.Ogni donna... In malora! Mia madre non è “ogni donna”. È mia madre. Non

m’importa un cacchio se si autogestisce e come si autogestisce. M’importa solo che sia felice – o il meno infelice possibile – e che non le tremi la voce e non le vengano le lacrime in gola.

Non è che sia d’accordo, non lo sono affatto. Quando si hanno quarant’anni (passati) e due figli grandi e un marito urlante e un lavoro impegnativo e l’ulcera e l’esaurimento e così via, trovo che fare un terzo figlio – oltre che in perfetta antitesi con quanto abbiamo sempre sostenuto – è una cosa semplicemente folle. Ma mia madre mi piace anche per questo: perché è folle, perché è emotiva, incoerente, assurda e così carica di vita che tenerle dietro è impossibile. Mamma, cosa vuoi che ti dica! Penso che sarà un disastro e che almeno due volte al giorno mi verrà voglia di strozzarlo questo fratellino del cavolo. Ma fallo, se lo vuoi! Se due figli un marito e quattordici bestie non ti bastano, fallo, maledizione! Chi se ne fotte della coerenza, dell’inquinamento, dell’egoismo, delle teorie. Autogestisciti come ti pare – basta che torni allegra.

Ecco.

9.

Sono passati venti giorni. Sembrano molti di più.Comincerò col dire che in casa è arrivata una gracola religiosa: state calmi, è

solo un uccello. Un altro uccelletto nero con becco giallo e carattere giocherellone, detto anche Merlo Indiano, che col tempo dovrebbe parlare fluentemente e comportarsi in modo civile, ma per ora è un batuffolo spennacchiato che non sa mangiare da solo ed emette solo pochi chiocci versi da neonato indiano, che mia madre traduce estatica in italiano perfetto, seppur con leggera cadenza di Porta Ticinese. Gli insegna le canzoni dei suoi antenati anarchici, Addio Lugano bella, oppure Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà; lui le sta appallottolato sulla mano guardandola attentissimamente, e alla fine, gonfiandosi tutto per lo sforzo fisico e intellettuale, dice con voce roca: Ao rao tatà. “Ha detto libertà!” grida mia madre. “Hai sentito? Avete sentito tutti? Ha detto libertà!”

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Mio padre alza gli occhi al cielo.Le lasciamo le sue illusioni e la guardiamo, indulgenti, mentre imbecca

pazientemente il Merlo col dito mignolo, parlandogli con una vocina superdolce.“Non gnaulare!” dice mio padre. “È un Merlo maschio, dovrà avere una voce

virile!”Mia madre gli dà un’occhiata densa di ancestrali significati. “Fallocrate”

sospira. “Mistico della virilità” e ricomincia a imbeccare il merlo: “Merletto, merlettino, am, la bella pappina”.

Mio padre digrigna i denti.Gli esami non sono ancora finiti, ma è giugno, fa caldo, così i weekend li

passiamo al lago.Si tratta di star via due giorni, dopo tutto. Ma in casa nostra, un po’ per la

quantità delle bestie (le portiamo ogni volta tutte), un po’ per la distrazione congenita della madre e dei figli, un po’ per il carattere diciamo ansioso di mio padre, le partenze di fine settimana sono sempre una specie di epopea. Ogni volta mia madre, con congruo anticipo, appende bene in vista sul muro un cartello, da lei fatto stampare appositamente anni e anni fa, che dice a caratteri cubitali:

È SEVERAMENTE VIETATODIVENTARE NERVOSI

DUE ORE PRIMA DELLA PARTENZA.AL MOMENTO DEL CARICO

È AMMESSAUNA LIEVE IMPAZIENZA

Ma oramai mio padre è talmente abituato a quel cartello, che è come se non ci fosse. Così, immancabilmente, un paio d’ore prima del decollo comincia a imperversare per la casa in preda a quella che mia madre chiama la “sindrome da partenza”: avanti, sbrigatevi, datevi da fare, prendete questo, chiudete quello, dove avete messo i cosi? dov’è finito il coso? ecco avete perso la cosa! La sindrome gli fa mancare le parole, e se non interpretiamo subito e bene i suoi cosi, si incavola di brutto: deficienti, lavativi, possibile che non capite mai niente, ma dove state con la testa? Se non ci fossi io in questa casa… Mia madre, per far vedere che è attiva, continua a riempire e svuotare borse, a fare e disfare valigette, tipo Penelope con la tela, mentre i cani guaiscono inquieti, i gatti presaghi si nascondono nei posti più strani, gli uccellini starnazzano, Il merlo grida Ao rao tà!e mio padre continua ad aumentare il volume della voce e la virulenza degli aggettivi, finché si arriva al tragico momento del carico.

“Ho mal di testa, non gridate per piacere,” dice mia madre con voce sofferente “ma perché gridate così, c’è un sacco di gente alla finestra, state calmi per piacere, ahi la mia testa.”

“Ecco,” urla mio padre “avete fatto venire il mal di testa a vostra madre.”Infine, come dio vuole, ficcati i gatti nel cesto, legati i cani, sistemate le

gabbie, caricati i bagagli, si parte. Davanti mio padre con la macchina rossa coupé

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che mia madre chiama “stile bauscia di seconda mano”, dietro io con la mia utilitaria bozzuta e senza ripresa. Col padre viaggiano: la Nicola, i cani e metà degli uccelli. Con me viaggiano: mia madre, i gatti e l’altra metà degli uccelli. Tener presente che, mentre i cani in auto stanno più o meno zitti, i gatti invece gnaolano senza sosta con quelle voci rantolanti e orrende che sanno fare i gatti quando vogliono rompere le scatole. Mia madre dice che in confronto agli urli di partenza del padre, le grida dei gatti le sembrano musica celeste. A me no. Amo i gatti: ma in macchina desidero solo strozzarli per farli tacere.

“Uf, come sei nervoso” dice mia madre. “Patrizzi.” E per coprire i versi atroci intona puntualmente, dimentica del mal di testa, Addio Lugano bella o Bel uselin del bosc, io le do spago, facciamo il duo vocale e ci divertiamo molto. Davanti vediamo mio padre che nella macchina rossa bauscia cerca invano di attaccar discorso con mia sorella, cominciamo a sentire pietà per lui. Mia sorella non è una che dia molto spago. E mio padre non è uno a cui venga in mente di cantare. Ecco perché mia madre viaggia con me e non con lui: lei in macchina canta sempre.

Poi c’è la solfa delle due dogane da passare (per arrivare al nostro paese sul lago si traversa un pezzettino di Svizzera). Se si trova il doganiere bonario va tutto bene; che bei cani, che begli uccelli, e lì nel cesto cosa c’è, gatti? Ma urlano sempre così? E quello lì sotto che parla cos’è, o Gesù mio un altro uccello, o Gesù mio, Gaetano, vieni un po’ a vedere ste due macchine, serragli sono… Ma se si trova il pignolo e sospettoso cui viene in mente che nascondiamo valuta nel cesto dei gatti o eroina sotto le ali degli uccelli, allora ne vien fuori un casino da non dirsi, graffi, zompi, urli, fischi, latrati, gatti in fuga per le patrie frontiere, inseguimenti e cattura con concorso del popolo italo-svizzero, dopo di che, mezz’ora più mezz’ora meno, si riparte. E, strano a dirsi, si arriva. Non ci crederete, ma siamo arrivati sempre. Nonostante gli urli di scarico del padre, siamo sempre molto felici di arrivare qui.

Così adesso, domenica mattina, siamo tutti sul molo davanti alla nostra darsena, ognuno dedito alle faccende sue. Torso nudo e calzoncini stinti, mio padre insolentisce i pesci che non vogliono farsi pescare. Bichini e cappellone di paglia, mia madre legge lettere e scribacchia indecifrabili appunti, che poi straccia riempiendo l’aria e l’acqua di bianche farfalle di carta. Bichini ultraminimo e posizione loto, mia sorella medita sul femminismo, distraendosi solo per gettare molliche di pane ai cigni di passaggio. Io, in slip, sto sperimentando la mia nuova complicata attrezzatura subacquea, che mi servirà quest’estate al mare. La Tessa, in bichini di spugna arancione e capelli tirati su, fa azioni di disturbo nei confronti miei e della mia attrezzatura. “Mostro!” grida con voce acuta. “Orribile mostro marino!” e mi insegue con la fiocina.

Al di là del molo, l’Antonio, fratello minore della Tessa, con calzoncini a righe ed eloquio da censurarsi, sta inutilmente cercando di aggiustare il motore del gommone; col quale gommone facciamo sci d’acqua, cioè lo faremmo se il motore andasse. Ma non va. Pressoché mai.

Sapete una cosa? Al primo esame sono stato fregato.Era la prima volta che mi capitava, ci sono rimasto di palta. Stento ancora a

crederci adesso.

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Sentite come è andata. L’esame l’avevo nel pomeriggio. Verso mezzogiorno, dietro preciso consiglio del medico di famiglia che mi conosce dalla nascita, avevo preso una pilloletta stimolante (la BOMBA, dice mio padre sparando fuori le bi come irosi proiettili). Verso le due ero in gran forma, dissertavo nei corridoi dell’ateneo trascinando i compagni sulla via del sapere matematico e mi sentivo Nembo Kid. Alle cinque mi sentivo sempre Nembo Kid ma dissertavo meno. Alle sei non dissertavo più per niente e mi sentivo assai più simile a Charlie Brown che a Nembo Kid. Alle otto, quando è stato il mio turno, avevo l’impressione di aver le ginocchia di ovatta e il cervello di gommapiuma. Anche il professore, che è molto vecchio, era stanco, e così per sbrigarsela mi ha fatto una domanda facilissima; e io che studio soprattutto le cose difficili son stato preso in contropiede, e prima che avessi il tempo di riprendermi il professore mi ha spedito via. E io sono andato.

“Non dovevi!” mi hanno detto tutti quanti. “Dovevi chiedere che ti facesse altre domande, dovevi insistere, fare un po’ di scena…”

Io non so insistere. Non so fare scena. E neanche voglio, Poi ero troppo stravolto. Cristo, avevo amato quell’esame. Proprio amato. Per me non era un esame, era una ricerca, una scoperta meravigliosa, una cosa quasi mistica… Forse è per questo che mi hanno fregato. Non sarò più capace di studiare così. Non voglio neanche più farlo.

Quel giorno comunque sono tornato a casa istupidito. Non mi venivano neanche fuori le parole giuste. Mio padre, secondo logica, avrebbe dovuto arrabbiarsi come un cane. E invece no. Mi ha consolato, invece: ci capite voi? Notare che quando ho passato gli esami di maturità (senza amarli per niente) con una media altissima, mio padre si è limitato a fare una smorfia. E adesso che per la prima volta nella vita ero stato fregato, rideva e mi batteva la mano sulla spalla: “Lo sai che i docenti là dentro son tutti cariatidi, cosa vuoi che capiscano di quel che gli dici? E poi che cosa vuoi che sia un esame! Lo darai alla prossima sessione e amen! Ai miei tempi mica si faceva l’occhio vitreo per un esame andato a male! Si era sportivi, ai miei tempi! Un esame andava buco? E noi si andava in giro a berci sopra e a divertirci, ecco cosa si faceva!”

Ho seguito i suoi consigli: onora il padre, ecc. Per qualche giorno mi sono dedicato ad attività del tutto distensive e consolatorie. E già da ieri, proprio qui al lago, mio padre ha cominciato a rognare, e sta tuttora rognando a tutto spiano: “E allora quand’è che ricominci a studiare? Vuoi farti fregare anche al prossimo? Ma già, quando uno vuol fare tutto di testa sua! Quando uno si crede un genio! Quando studia di note invece che di giorno. Quando prende la BOMBA il giorno dell’esame, e neanche è capace di prenderla all’ora giusta! Ma già, come dice tua madre, si è trattato solo di un malinteso… Questi poveri ragazzi di adesso, come sono male intesi. I professori cattivi gli fanno le domande troppo facili, e i genitori cattivi gli comprano un’attrezzatura subacquea che costa una barca di soldi”.

“Non farla tanto lunga” dice stancamente mia madre. Chi ha voluto compragliela subito e a tutti i costi, l’attrezzatura subacquea?” Sorride, un po’ a fatica. “A lui l’attrezzatura consolatoria, a me il Merlo consolatorio.”

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Mio padre la guarda e non dice niente. Anch’io la guardo. È ancora un po’ pallida là sotto il suo cappellone, e ancora un po’ triste, a tratti. Vi ricordate quando vi dicevo che era sul pallone? Be’, non ci sta più. Il problema si è risolto inaspettatamente da solo: con un aborto spontaneo. Suppongo che dovremmo esser contenti. Ma non è così semplice.

Non che lei abbia pianto o altro, non è il tipo. “Si vede che ero troppo vecchia” ha detto soltanto. E per la prima volta sembrava vecchia davvero, e infelice di esserlo.

Io il mio esame lo ridarò a settembre. Lei mai più. Non si può farci niente.Mi infilo la muta, la cintura, le pinne, la maschera, prendo il pugnale e la

fiocina e mi tuffo. Quando riemergo, vedo mia madre che mi guarda. Si alza e si toglie il cappellone: “Fammi provare quella baracca lì” dice. “Voglio vedere se son capace di fare la subacquea anch’io”.

È capace. Quando riemerge, piena di alghe, la bocca che ride sotto la maschera, sembra di nuovo giovane.

Poi si torna a Milano e si ricomincia il tran tran di giugno. Un po’ di piscina, un po’ di flauto, e studiare di notte.

A me piace, studiare di notte. Abitiamo in una mansarda, adesso, con un gran terrazzo fiorito davanti: sul terrazzo c’è un ombrellone rosso quadrato che di giorno ripara il sole e di sera regge la lampada, e sotto ci sto io, in slip, zoccoli e cappello di paglia, tra nugoli di fumo, di calcoli e di moschini. A me piace, ripeto. A mio padre, naturalmente, no. Ai suoi tempi, dice, si studiava di giorno, non di notte. Ai suoi tempi, ridice, si studiava in camera propria e in abiti civili, non sul terrazzo nudi e col cappello. Ai suoi tempi, stradice, i pazzi stavano al manicomio.

La sorella piccola, esami o no, alle dieci è a letto e dorme il sonno del giusto; o dell’incosciente, non so. Mai visto nessuno preoccuparsi così poco degli esami come la sorella piccola. Adesso ha finito gli scritti, e dovrebbe prepararsi per gli orali; però ogni volta che la vedo sta disegnando, oppure leggendo i suoi nuovi libri femministi, oppure giocando coi gatti, oppure sentendo Bach, oppure lavandosi i capelli, oppure suonando la chitarra, comunque NON studiando. Se ne frega. Poi prende tutti otto. Boh.

Va bene che anch’io… Lasciamo perdere. Boh.Dunque, di sera, mentre mia sorella dorme in camera sua e io studio sul

terrazzo, nell’altro angolo di terrazzo, quello adibito a veranda, mio padre guarda la televisione, o finge di guardarla; seduta al suo fianco (la moglie deve seguire il marito) mia madre non guarda e non finge di guardare: dorme. Rannicchiata tra i gatti, in bichini, (dice che ha caldo), col plaid sui piedi (quelli li ha freddi) col Merlo davanti e i cani di fianco, dorme come venti donne che dormono, risvegliandosi saltuariamente, e mai del tutto, solo per fare i gnao gnao al Merlo o per rispondere con voce onirico e poco pertinente alle domande di mio padre. I loro dialoghi, a sentirli, ti lasciano secco. Non hanno il minimo senso logico.

“Ma digli che vada a dormire, a tuo figlio!” dice mio padre. “Poi la mattina ci vuole la carica dei seicento per cavarlo dal letto!”

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“Uh – uh” sbadiglia la madre. “Eh? Però Michele sarebbe stato un bel nome. Meglio di Paolo.”

“Che Paolo? Michele quale?” dice mio padre stranito. “Sto parlando di tuo figlio!”

“Anch’io” dice mia madre in trance. “Cosa stavi dicendo?” E senza aspettare risposta si mette a fare le vocine al Merlo. “Merlo merlotto… ciao, dimmi ciao…ciao… Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la liiiiiibertà… uffa, dorme! Merlo merlino, fai la nannina. Eh? Cosa stavi dicendo? Ouh che sonno.”

A questo punto uno si aspetta che il padre irascibile barrisca. Invece no. Il padre irascibile le copre meglio le gambe col plaid, le leva gli occhiali dal naso, le prende la testa e se la mette sulla spalla.“Se proprio devi dormire, almeno dormi comoda.”

Ma poi se ne dimentica e dopo un po’ ricomincia: “Guarda quanto fuma quel deficiente di tuo figlio! Buttagli via quella pipa! Portagli via quei libri! Digli che vada a dormire! È fatta per dormire, la notte!”

“Infatti” dice la voce onirica di mia madre “io dormo.”“Buonanotte” si arrende mio padre con un sospiro, e le circonda le spalle col

braccio.Sono fatti così.Quando sarò vecchio anch’io, penso che me le ricorderò queste sere di giugno:

questo caldo, questi esami, questo fratellino che non è arrivato, questi moschini, l’odore delle rose rampicanti e della mia pipa, e sullo sfondo i dialoghi surreali di mia madre e mio padre. Vorrei poter registrare tutto – colori odori caldo pensieri parole – e risentire tutto tra vent’anni. Chissà come sarò alla loro età. Quello che è certo è che non avrò mai figli.

“Lo dicono tutti, prima” sospira mia madre.