Bosnia REPORTAGE da Podgorica a Sarajevo · Questo Paese montuoso tra la Serbia e ... della città...

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136 . east . europe and asia strategies numero 34 . febbraio 2011 . 137 Bosnia : da Podgorica a Sarajevo Un giovane tedesco rimasto in piedi chiede informazioni in inglese a un suo coetaneo serbo-bo- sniaco e il discorso finisce per diventare un’introduzione alla Bosnia, istruzioni ad uso di stranie- ri disinteressati. . «Perché è iniziata la guerra?», «Perché si dice che la Bosnia è uno Stato fal- lito?». . Le solite domande che un occidentale curioso lancia con nonchalance e a cui un bal- canico cerca di rispondere laconicamente, semplificando, fornendo la propria versione dei fatti REPORTAGE L a Bosnia inizia già nella stazione degli autobus di Podgorica, la capitale del Montenegro, uno dei tanti minuscoli Stati balcanici nati dalla disgregazione della Jugoslavia. Questo Paese montuoso tra la Serbia e l’Adriatico è stata l’ultima delle repubbliche jugoslave a rendersi indipendente dalla Serbia, ma come la Serbia ospita molti rifugiati serbo-bosniaci. Sono loro a fare la tratta Podgorica-Sarajevo, serbo-bosniaci che vanno in Bosnia a trovare amici e parenti, o serbo-bosniaci di ritor- no dal Montenegro dopo aver visitato i profughi delle guerre che qui ormai hanno messo radici. L’autobus si riempie di gente: volti rugosi, dai musco- si diversi. Ma qui nulla. È ammesso spiare il prossimo di nascosto, senza che gli sguardi si incrocino. Si teme la storia che ognuno si porta dietro, l’accento o il dialetto diverso che ormai fa delle varie parlate jugoslave delle vere e proprie lingue ufficiali standardizzate e purifica- te dalle varie accademie nazionali delle scienze. Solo qualche contatto con i pochi stranieri che si avventura- no in vacanza alternativa esplorando i Balcani. La lingua straniera e la remota provenienza aiutano, neutralizzan- do le fobie etniche. n giovane tedesco rimasto in piedi chiede infor- mazioni in inglese. Socializza con un suo coeta- neo serbo-bosniaco e il discorso finisce per di- ventare un’introduzione alla Bosnia, istruzioni ad uso di stranieri disinteressati. «Perché è iniziata la guerra?», li perennemente tesi, e sguardi spenti. Non ci sono più posti a sedere, ma l’autista fa entrare passeggeri costret- ti a stare in piedi. Si prospetta un viaggio lungo mentre ci si inerpica tra le montagne balcaniche, tragitto che in molti affronteranno curvandosi e sbilanciandosi di con- tinuo nel corridoio tra i sedili, chiedendo scusa, facen- dosi aiutare grazie alla solidarietà dei più giovani che si offrono di dare il cambio facendo sedere chi è in piedi. Ma non c’è molta comunicazione. Si sente solo l’ac- cento bosniaco nella sua versione più ruvida, più mon- tanara, e di rado quello montenegrino. Nessuno chiede al prossimo di dov’è, chi è, dove va, dov’è stato. Altrove nei Balcani questo sarebbe stato normale, si sarebbe in- staurata un’amicizia di qualche ora, fatta di scambi di opinioni e di frasi fatte, se necessario, nel rispetto della diversità anche tra appartenenti a gruppi etnici o religio- a seconda della propria appartenenza etnica, religiosa, culturale, a seconda della propria storia e dei propri dolori. . «Volevano far disgregare la Jugoslavia, gli occidentali, si so- no alleati con i cattolici e i musulmani. . Si sono messi contro la Serbia ed è scoppiata la guerra», è la versione di turno. . testo e foto di Mariola Rukaj L U

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136 . east . europe and asia strategies numero 34 . febbraio 2011 . 137

Bosnia:da Podgorica a SarajevoUn giovane tedesco rimasto in piedi chiede informazioni in inglese a un suo coetaneo serbo-bo-

sniaco e il discorso finisce per diventare un’introduzione alla Bosnia, istruzioni ad uso di stranie-

ri disinteressati. . «Perché è iniziata la guerra?», «Perché si dice che la Bosnia è uno Stato fal-

lito?». . Le solite domande che un occidentale curioso lancia con nonchalancee a cui un bal-

canico cerca di rispondere laconicamente, semplificando, fornendo la propria versione dei fatti

REPORTAGE

La Bosnia inizia già nella stazione degli autobus diPodgorica, la capitale del Montenegro, uno dei tantiminuscoli Stati balcanici nati dalla disgregazione

della Jugoslavia. Questo Paese montuoso tra la Serbia el’Adriatico è stata l’ultima delle repubbliche jugoslave arendersi indipendente dalla Serbia, ma come la Serbiaospita molti rifugiati serbo-bosniaci. Sono loro a fare latratta Podgorica-Sarajevo, serbo-bosniaci che vanno inBosnia a trovare amici e parenti, o serbo-bosniaci di ritor-no dal Montenegro dopo aver visitato i profughi delleguerre che qui ormai hanno messo radici.

L’autobus si riempie di gente: volti rugosi, dai musco-

si diversi. Ma qui nulla. È ammesso spiare il prossimo dinascosto, senza che gli sguardi si incrocino. Si teme lastoria che ognuno si porta dietro, l’accento o il dialettodiverso che ormai fa delle varie parlate jugoslave dellevere e proprie lingue ufficiali standardizzate e purifica-te dalle varie accademie nazionali delle scienze. Soloqualche contatto con i pochi stranieri che si avventura-no in vacanza alternativa esplorando i Balcani. La linguastraniera e la remota provenienza aiutano, neutralizzan-do le fobie etniche.

n giovane tedesco rimasto in piedi chiede infor-mazioni in inglese. Socializza con un suo coeta-neo serbo-bosniaco e il discorso finisce per di-

ventare un’introduzione alla Bosnia, istruzioni ad uso distranieri disinteressati. «Perché è iniziata la guerra?»,

li perennemente tesi, e sguardi spenti. Non ci sono piùposti a sedere, ma l’autista fa entrare passeggeri costret-ti a stare in piedi. Si prospetta un viaggio lungo mentreci si inerpica tra le montagne balcaniche, tragitto che inmolti affronteranno curvandosi e sbilanciandosi di con-tinuo nel corridoio tra i sedili, chiedendo scusa, facen-dosi aiutare grazie alla solidarietà dei più giovani che sioffrono di dare il cambio facendo sedere chi è in piedi.

Ma non c’è molta comunicazione. Si sente solo l’ac-cento bosniaco nella sua versione più ruvida, più mon-tanara, e di rado quello montenegrino. Nessuno chiedeal prossimo di dov’è, chi è, dove va, dov’è stato. Altrovenei Balcani questo sarebbe stato normale, si sarebbe in-staurata un’amicizia di qualche ora, fatta di scambi diopinioni e di frasi fatte, se necessario, nel rispetto delladiversità anche tra appartenenti a gruppi etnici o religio-

a seconda della propria appartenenza etnica,

religiosa, culturale, a seconda della propria

storia e dei propri dolori. . «Volevano far

disgregare la Jugoslavia, gli occidentali, si so-

no alleati con i cattolici e i musulmani. . Si

sono messi contro la Serbia ed è scoppiata la

guerra», è la versione di turno. .testo e foto di Mariola Rukaj

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U

Bosnia non esistono statistiche sulla distribuzione dellapopolazione. La suddivisione del Paese su base etnica,stabilita dal Trattato di Dayton, però rende alquanto dif-ficile tale processo. «I musulmani non possono tornareda noi, dopo quello che ci hanno fatto», spiega il ragaz-zo della Republika Srpska, fornendo un punto di vistache, a parti ribaltate, è frequente sentire anche pressomusulmani e croati in altre zone del Paese.

epublika Srpska: si tratta di un nome pensato peruna regione da rendere indipendente, ma anchedi un aggettivo sostantivato da cui, nella logica

slava, si evincono i nomi degli Stati. Appena si attraver-sa il confine con il Montenegro le stesse splendide mon-tagne diventano pericolose. I paesaggi magnifici, il cieloterso, i colori saturi passano in secondo piano, il pullmanrallenta, deve serpeggiare su e giù a strapiombo sul vuo-to: strade strettissime, in cui non possono passare duemezzi contemporaneamente. Solo qualche chiazza diasfalto qua e là: i passeggeri seguono concentrati l’avan-zamento difficoltoso dell’autista con le mani tese sul vo-lante. Le politiche pubbliche, gli investimenti, sembra-no essere l’ultima preoccupazione di politici troppo in-daffarati nel caos burocratico ed economico della BosniaErzegovina.

Un viaggio troppo lungo, nella parte serba, per unastrada che non è né la migliore né la più corta per con-giungere le due capitali balcaniche. E infine si arriva aSarajevo: una stazione ben funzionante, Sarajevo est, do-ve il tempo si è fermato ai tempi di Tito. Una chiesa or-todossa e bar che offrono Jelen Pivo, una birra di produ-zione serba, invece della sarajevese Sarajevsko.

La stazione è lontana dal centro della città, e non c’èalcun tipo di trasporto pubblico che colleghi le due zo-ne. L’unico modo per arrivarci è in taxi: pochi marchi bo-sniaci per tuffarsi fra numerose moschee, mezze lune, ungrande cimitero musulmano sulla collina e tante donneche portano il velo. È un altro mondo, che ruota intornoal cuore ottomano della città, la Bascarsija, il mercatoprincipale, una struttura architettonica antica, un quar-tiere che è un mercato ma è anche molto di più. Il cuoredella città conserva uno splendido retaggio della civiltàottomana, e ottomano un tempo voleva dire multietnico,uno spazio aperto in cui lingue, culture e gente arrivatada tutti i Balcani e da tutto l’impero, convivevano, inte-ragivano, scambiavano beni e cultura. Ora ottomano vuoldire turco e turco vuol dire musulmano, una religionepromossa a nazionalità.

Quel che rimane, una splendida carsija, è l’orgogliodella città e dei Balcani, in cui sembra che la guerra non

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tro uno Stato, una burocrazia elefantiaca e completamen-te immobile, una crisi perenne, continuamente a rischiodi implosione. La guerra è un fantasma orribile che stadietro la porta, pronta a spalancarla. “Ci sarà la guerra”,“Non ci sarà più guerra”: sono titoli che ogni tanto appa-iono minacciosi sulla stampa bosniaca. Ora il problemaè la Republika Srpska con a capo Milorad Dodik, un uo-mo che non fa mistero delle sue ambizioni nazionaliste,rimaste immutate dai macabri anni Novanta.

Questo pullman percorre tutta la Republika Srpska perandare a Sarajevo. Da Podgorica a Sarajevo attraverso laparte serba dei Balcani: neanche un musulmano, nean-che un cattolico. La divisione del Paese in cantoni e fe-derazioni ha redistribuito la popolazione, che prima del-la guerra era multietnica e sparsa a macchia di leopardo.Ora la cartina della Bosnia è suddivisa in zone dai colo-ri uniformi: i musulmani con i musulmani, i cattolici coni cattolici e gli ortodossi con gli ortodossi, la maggior par-te sradicati, ma afferrati alle nuove identità nazionali ri-scoperte o reinventate, e trattenuti dalla paura di ritor-nare a riprendere la vita che facevano prima della guer-ra, a casa propria, spesso a fianco agli appartenenti di al-tri gruppi religiosi o nazionali. Esiste però un processodi rientro, sostenuto con forza da alcune ong internazio-nali. Per non condizionarne il positivo andamento, in

«Perché si dice che la Bosnia è uno Stato fallito?». Le so-lite domande che un curioso occidentale lancia con non-chalance e a cui un balcanico cerca di rispondere laco-nicamente, semplificando, fornendo la propria versionedei fatti a seconda della propria appartenenza etnica, re-ligiosa, culturale, a seconda della propria storia, e deipropri dolori. Perché quindici anni sono pochi per sana-re del tutto le ferite. «Volevano far disgregare la Jugosla-via, gli occidentali, si sono alleati con i cattolici e i mu-sulmani. Si sono messi contro la Serbia ed è scoppiata laguerra», è la versione di turno. Il ragazzo è di Foca, nel-la Republika Srpska, una delle regioni autonome dellaBosnia che conserva perennemente un atteggiamentoboicottante con un piede in Serbia, ma solo in teoria.

«Questo è uno Stato fallito, perché a noi serbi non cilasciano avere il nostro Stato, non ci permettono di ren-dere indipendente la Republika Srpska», è l’altra spiega-zione. Un altro staterello minuscolo, come soluzione aiproblemi. In vent’anni di guerre e disgregazioni nulla ècambiato: micronazionalismo ed etnicizzazione di ognichilometro quadrato sembra la formula più sbrigativa. Vihanno contribuito i diplomatici che nel ‘96 hanno deci-so a Dayton di dividere questo Paese in una regione ser-ba e in una croato-musulmana. Ora la Bosnia è l’esempiopar excellence di uno Stato fallito. Almeno due Stati den-

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mi contadini. Anche la guerra è stata vista damolti come una delle tante espressioni dell’in-cessante scontro città-campagna che ha interes-sato i Balcani dal secondo dopoguerra a oggi. Gliuomini armati che infuriavano sui sarajevesi ne-gli anni Novanta avevano spesso l’accento del-le montagne circostanti, come riportano i diaridi guerra delle vittime di Sarajevo. Accecati daodi atavici e frustrazioni, si sono abbattuti con-tro un luogo unico in cui musulmani, sefarditi,ortodossi e cattolici – orientali e occidentali – epostottomani convivevano pacificamente e raf-finatamente, tanto che essere un sarajlija era

quasi un vanto, un aggettivo che distingueva da chiun-que altro nei Balcani.

Tra i vecchi cittadini l’orgoglio sarajevese rimane, an-che quando non sono musulmani. «Sono sarajevese direligione ortodossa, non sono serbo, sono sarajevese!»,ci tiene a precisare più volte uno dei pochi artigiani non

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ci sia mai stata. Botteghe e bottegai al lavoro, turisti al-ternativi che si lasciano stupire dalla normalità di un luo-go che ha fatto da sfondo a orrori recenti, e donne, tantis-sime donne che portano il velo e abiti lunghi. Esiste unamoda particolare pensata per loro, un’eleganza tutta mu-sulmana, atta a osservare i dettami della religione senzache eleganza e femminilità ne risentano. Percorrendol’acciottolato della Bascarsija si può osservare il megliodella classe dei musulmani urbani dei Balcani. A fiancodi ragazze che portano graziosamente il velo – spesso co-lorato e abbinato con cura ai vestiti – passeggiano signo-re anziane, loro mamme o nonne che, invece, il velo nonlo portano e potrebbero dunque essere delle distinte si-gnore di qualsiasi altra capitale secolarizzata d’Europa.Se altrove nei Balcani la modernizzazione fa gettare via

il velo alle giovani generazioni, a Sarajevo, che ai tempidella Jugoslavia era una città d’avanguardia, oggi la tra-dizione ha ripreso il sopravvento, un’identità fatta di os-servanza religiosa che non sempre si concilia con l’eman-cipazione femminile.

«Le ragazze di oggi sono molto meno emancipate ri-spetto alle generazioni precedenti, per molte l’ambizio-ne principale è trovare un marito cui scaricare tutte le re-sponsabilità», è l’opinione drastica di Vedrana Frasto,un’attivista della ong Cure (“ragazze”) che si occupa pro-prio dell’emancipazione delle donne bosniache.

d aver rafforzato la tradizione è l’arrivo, dalle pe-riferie e da altre località soprattutto rurali, di al-tri musulmani, che hanno portato in città i costu-

musulmani. Ha una bottega nella carsija e all’entrata hascritto il suo nome: ha deciso di non andare altrove, per-ché il suo posto è lì. Ci sono anche altri ortodossi comelui, racconta, ma vanno nella carsija per acquistare, sen-za dare troppo nell’occhio. La carsija si è islamizzata ma,sopravvissuta alla guerra, è divenuto il luogo dove mu-sulmani, ortodossi e altri si sono potuti reincontrare.

La carsija sarajevese viene vissuta intensamente, nonè solo un’attrazione turistica. Era il cuore pulsante dellacittà e rimane un punto di riferimento, un baluardo del-l’identità cittadina. Per ora si trova intrappolata nel pre-sente, tra la graduale urbanizzazione dei nuovi arrivati ei traumi della disgregazione jugoslava, ma la carsija isla-mizzata per preservarsi dovrà, prima o poi, ridiventaremultietnica. .A