Boom letteratura ispanoamericana

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Domenico Antonio Cusato Università di Catania Appunti sulla narrativa ispanoamericana degli anni ’60: ricordando il “boom” Il romanzo ispanoamericano ha avuto un inizio abbastanza tardo, anche se la sua origine viene fatta risalire ai cronisti delle Indie e addirittura a Colombo che, con i suoi diari di bordo, per primo ha parlato delle genti e delle terre americane. Tutto ciò, comunque, è lontano dal romanzo così come oggi viene inteso. La finzione che sgorga dalle iperboli delle cronache (utilizzata per disegni personali dei redattori o per sottolineare più intensamente la meraviglia che le terre del nuovo mondo suscitavano) non ha niente a che vedere con la finzione che per convenzione viene utilizzata dal romanziere, che aprioristicamente invita chi legge a stare al gioco e a lasciarsi coinvolgere dalla realtà dichiaratamente fittizia da lui creata. Pertanto, il primo vero romanzo ispanoamericano è El Periquillo Sarniento di Fernández de Lizardi (1776-1827), pubblicato in Messico nel 1816. L’opera risulta fuori tempo poiché, ultima propaggine del romanzo picaresco ispanico, appare mentre in Europa già si respirava un clima romantico 1 . Desta comunque un certo interesse, oltre che per essere il primo romanzo ispanoamericano, anche perché ci offre un quadro estremamente vivido della società messicana prima dell’indipendenza. Secondo la maggior parte dei critici, l’epoca coloniale è stata assolutamente carente di questo genere letterario a causa delle disposizioni di Carlo V, che proibivano la redazione, la pubblicazione e la circolazione di “libros de romances e historias fingidas” 2 (al fine di impedire che gli indios, ritenuti ingenui e abbastanza creduloni, potessero prendere per vero quanto si narrava, per esempio, nei racconti di cavalleria). Ma, oltre alle proibizioni regali, si deve tener conto della precaria attività editoriale americana, che non facilitava certo la distribuzione dei libri. Infine, non ci si deve dimenticare che la censura e l’Inquisizione apparirono ben presto nel Nuovo Mondo. È nel XIX secolo, dunque, che appaiono i primi romanzi. Fra questi, qualcuno è degno di un certo interesse –oltre al Periquillo..., appena citato, si pensi anche al primo romanzo romantico ispanoamericano, María (1867) del colombiano Jorge Isaacs, ecc.–. Tuttavia, il genere raggiunge la piena maturità solamente nel nostro secolo, ed in particolare nella seconda metà del ’900: questo periodo, infatti, oltre che da una abbondante produzione, è caratterizzato anche dall’attività di scrittori di 1 L’inizio del movimento romantico in America si suole far coincidere con il ritorno a Buenos Aires (1830) di Esteban Echeverría, che era stato per cinque anni studente alla Sorbona. 2 In ciò, non è d’accordo Amorós, considerato che “[...] a pesar de las disposiciones oficiales, circularon abundantemente las novelas por los territorios americanos”. Cfr. Andrés Amorós, Introducción a la novela hispanoamericana actual, Salamanca, Ediciones Anaya, 1973, p. 14.

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Domenico Antonio Cusato Università di Catania

Appunti sulla narrativa ispanoamericana degli anni ’60: ricordando il “boom”

Il romanzo ispanoamericano ha avuto un inizio abbastanza tardo, anche se la sua

origine viene fatta risalire ai cronisti delle Indie e addirittura a Colombo che, con i suoi diari di bordo, per primo ha parlato delle genti e delle terre americane.

Tutto ciò, comunque, è lontano dal romanzo così come oggi viene inteso. La finzione che sgorga dalle iperboli delle cronache (utilizzata per disegni personali dei redattori o per sottolineare più intensamente la meraviglia che le terre del nuovo mondo suscitavano) non ha niente a che vedere con la finzione che per convenzione viene utilizzata dal romanziere, che aprioristicamente invita chi legge a stare al gioco e a lasciarsi coinvolgere dalla realtà dichiaratamente fittizia da lui creata. Pertanto, il primo vero romanzo ispanoamericano è El Periquillo Sarniento di Fernández de Lizardi (1776-1827), pubblicato in Messico nel 1816. L’opera risulta fuori tempo poiché, ultima propaggine del romanzo picaresco ispanico, appare mentre in Europa già si respirava un clima romantico1. Desta comunque un certo interesse, oltre che per essere il primo romanzo ispanoamericano, anche perché ci offre un quadro estremamente vivido della società messicana prima dell’indipendenza.

Secondo la maggior parte dei critici, l’epoca coloniale è stata assolutamente carente di questo genere letterario a causa delle disposizioni di Carlo V, che proibivano la redazione, la pubblicazione e la circolazione di “libros de romances e historias fingidas”2 (al fine di impedire che gli indios, ritenuti ingenui e abbastanza creduloni, potessero prendere per vero quanto si narrava, per esempio, nei racconti di cavalleria). Ma, oltre alle proibizioni regali, si deve tener conto della precaria attività editoriale americana, che non facilitava certo la distribuzione dei libri. Infine, non ci si deve dimenticare che la censura e l’Inquisizione apparirono ben presto nel Nuovo Mondo.

È nel XIX secolo, dunque, che appaiono i primi romanzi. Fra questi, qualcuno è degno di un certo interesse –oltre al Periquillo..., appena citato, si pensi anche al primo romanzo romantico ispanoamericano, María (1867) del colombiano Jorge Isaacs, ecc.–. Tuttavia, il genere raggiunge la piena maturità solamente nel nostro secolo, ed in particolare nella seconda metà del ’900: questo periodo, infatti, oltre che da una abbondante produzione, è caratterizzato anche dall’attività di scrittori di

1 L’inizio del movimento romantico in America si suole far coincidere con il ritorno a Buenos Aires (1830) di Esteban Echeverría, che era stato per cinque anni studente alla Sorbona.

2 In ciò, non è d’accordo Amorós, considerato che “[...] a pesar de las disposiciones oficiales, circularon abundantemente las novelas por los territorios americanos”. Cfr. Andrés Amorós, Introducción a la novela hispanoamericana actual, Salamanca, Ediciones Anaya, 1973, p. 14.

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elevatissimo livello. Non si può dire che i romanzieri del primo ’900 abbiano contribuito in modo

saliente alla definizione e alla crescita del genere letterario; soprattutto perché la loro tendenza era quella dell’imitazione delle opere europee, talvolta con ritardo sui tempi, come era successo con il Periquillo... La loro penna si conformava al gusto dei fruitori del vecchio continente, sia nel genere (che doveva traboccare esotismo), sia nella caratterizzazione dei personaggi: complice anche una certa cinematografia, l’idea che si aveva (e che si voleva) dell’uomo latino americano era quella dell’indio indolente che, protetto da un ampio sombrero, stava a sonnecchiare una perenne siesta sotto il sole (obbligatoriamente tropicale), accovacciato accanto a bianchissimi muri di case modeste ma linde.

E anche quando si è trattato il romanzo da prospettive artistiche e tematiche cosiddette “americane”, è evidente che, in fondo, di americano non avevano molto. Un esempio ci viene fornito dal romanzo modernista3. Non bisogna dimenticare che il modernismo prende le mosse dal parnassianesimo e dal simbolismo francesi: il gusto estetico, quindi, pur se mediato dall’intellettuale americano, è comunque europeizzante. In ogni modo, benché asservite al gusto europeo (per motivi estetici o commerciali), queste opere non ebbero una diffusione particolarmente rilevante.

Con Doña Bárbara (1929) di Rómulo Gallegos, però, il romanzo ispanoamericano esce fuori da confini geografici provinciali, ottenendo un enorme successo per la novità che rappresentava in Europa incorporare mito e leggenda nel romanzo. Tuttavia, al di là del sicuro valore letterario dell’opera, credo che sia necessario sottolineare un elemento importantissimo che successivamente, negli anni ’60, sarà una delle cause che determinerà il “boom” della narrativa ispanoamericana: Doña Bárbara viene pubblicata in Spagna, a Madrid. Rómulo Gallegos dà inizio così a ciò che Rodríguez Monegal chiama “protoboom”4: infatti dalla Spagna, che allora dominava totalmente il mercato editoriale ispanoamericano, il romanzo torna in America ripercuotendosi felicemente in una serie di autori del Nuovo Mondo, che cominciano a diffondere opere già pubblicate o a produrne di nuove. Quiroga (scrittore che ha, però, preferito la forma breve del racconto), Azuela, Rivera sono alcuni dei nomi che con le loro opere avviano il rinnovamento della narrativa ispanoamericana del momento. Tuttavia, anche se abbastanza velocemente si diffondono collane destinate a far conoscere nel mondo la letteratura di quel continente, questa non è ancora considerata una letteratura autonoma, ma un’appendice di quella spagnola.

Un cambio sostanziale si ha intorno agli anni ’40, quando la narrativa assimila il rinnovamento linguistico delle avanguardie poetiche (“ultraísmo” argentino, “estridentismo” messicano, “surrealismo” cileno...), presentando romanzieri di

3 Esso si presenta sotto tre forme: a) la cosiddetta “novela artística”, un romanzo più o meno esotico, cosmopolita e preziosista (fra i tanti titoli: La gloria de don Ramiro di Larreta, del 1908; El embrujo de Sevilla di Reyles, del 1922); b) la “novela realista” o “naturalista” (per esempio, El hombre de oro di Blanco Fombona, del 1915; El terruño di Reyles, del 1916); c) la “novela criollista”, che si allontana da qualsiasi preoccupazione di tesi naturalista, per captare la bellezza pittoresca della vita e dei personaggi dei campi (ricordiamo Zagoibi di Larreta, del 1926; El gaucho Florido di Reyles, del 1932).

4 Rodríguez Monegal, El boom de la novela latinoamericana, Caracas, Tiempo Nuevo, 1972, p. 48.

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particolare rilievo quali Asturias5, Yáñez6, Sábato7, Carpentier8, Onetti9. E, benché non sia stato un romanziere, a questi nomi aggiungerei anche quello di Borges (i cui racconti vedono la luce a partire dal 1935).

La decade successiva, oltre al consolidamento degli scrittori appena menzionati10, ci presenta una serie di nuovi romanzieri, alcuni dei quali si riveleranno astri di prima grandezza della narrativa non solo ispanoamericana. Rulfo (El llano en llamas, 1953 e Pedro Páramo, 1955), Fuentes (La región más transparente, 1958), Arguedas (Los ríos profundos, 1958) sono alcuni dei nomi che hanno portato il romanzo ispanoamericano a livelli di altissimo prestigio.

* * * Tuttavia, il prestigio resta ancora circoscritto ad un ambito elitario, visto che gli

stranieri che leggono queste opere sono esclusivamente specialisti, intellettuali. Non è ancora scoppiato il cosiddetto “boom” del romanzo ispanoamericano, che estenderà a un pubblico molto più vasto la letteratura di quel continente.

Il “boom” non è una corrente letteraria né un movimento artistico, ma un fenomeno che si colloca in un periodo particolare (la decade degli anni ’60, come si è detto) in cui, per una serie di contingenze, si è avuta una incredibile diffusione nel mondo intero di opere di narratori latinoamericani. Non vi è, in realtà, una connessione spaziale, letteraria o generazionale che unisce gli scrittori di questo particolare periodo.

Il colombiano García Márquez (che propone, attraverso adattamenti e rifacimenti di racconti orali, il mito e la storia americani in chiave simbolica) nasce ad Aracataca nel 1928; l’argentino Cortázar (che realizza un tipo di letteratura fantastica, lontana comunque dal realismo magico presente anche nello scrittore colombiano appena citato) nasce a Bruxelles nel 1914; il messicano Fuentes (che presenta un tipo di romanzo psicologico, ricuperando anche il quadro storico in cui le vicende si svolgono) nasce a Città del Messico nel 1928; il peruviano Vargas Llosa (che, al di là delle tematiche sociali di grande interesse presenti nelle sue opere, investe molto sulla sperimentazione di arditi procedimenti letterari) nasce ad Arequipa nel 1936.

Che cosa, dunque, accomuna gli scrittori del “boom”? Molto probabilmente, l’essere usciti fuori dei confini geografici, creando opere in

cui, pur se il protagonista è l’uomo latinoamericano, i sentimenti e le riflessioni (le vivencias, in una parola) gli conferiscono caratteristiche universali. Anche per questo, pur nelle diverse modalità sopra accennate, quella dei nuovi romanzieri ispanoamericani diventa un’opera aperta, che coinvolge il lettore (a cui non si permette più un ruolo passivo), obbligandolo a diventare co-autore della storia.

5 Il suo El señor Presidente è del 1946. 6 Pubblica Al filo del agua nel 1947. 7 Il suo romanzo El túnel, di chiara influenza esistenzialista (di cui si avrà una seconda versione “americanizzata”,

come si dirà più avanti), è del 1948. 8 L’opera El reino de este mundo è del 1949. 9 La vida breve viene pubblicata nel 1950. 10 Si pensi, ad esempio, a Carpentier che nel 1953 pubblica Los pasos perdidos.

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Come sostiene Andrés Bosch,

La historia de la vida y la muerte de un indio del trópico americano, en estado de incipiente civilización y con muy rudimentarias reacciones, las angustias de un pintor en busca de un camino que le permita realizar su obra, las discrepancias entre padres e hijos, cualquier anécdota puede servir para provocar la confesión del lector, la re-creación de la obra literaria11.

Ovviamente, ciò non è sufficiente a spiegare la vastissima e prepotente diffusione

del romanzo ispanoamericano degli anni ’60. Cerchiamo, dunque, di analizzare quali altri motivi hanno determinato il fenomeno “boom”, considerando comunque che tutto è da prendere come un contributo per la discussione, visto che la distanza storica dell’evento è ancora minima.

* * *

1) Per prima cosa, bisogna considerare che in Europa vi è un terreno molto fertile

che favorisce un tipo di romanzo nuovo. Infatti, le opere a sfondo esistenzialista, neorealista o realista sociale hanno stancato il pubblico dei lettori. Per quanto riguarda il realismo sociale, per esempio, basta ricordare come in Spagna viene accolta calorosamente La familia de Pascual Duarte (1942) del gagliego Camilo José Cela, nonostante alcuni editori avessero rigettato l’opera prevedendone l’insuccesso: l’accento tremendista di questo romanzo –che sfuma i vecchi schemi, apportando una ventata di freschezza al realismo sociale– determina un clamoroso successo di pubblico e di critica. 2) Oltre al caos letterario derivante dalla mancanza di consistenti novità12, vi è un

motivo storico che calamita sull’America latina l’attenzione di tutto il mondo: il trionfo della Rivoluzione cubana. Il primo gennaio 1959, Fidel Castro entra con le sue truppe all’Avana, da dove il giorno prima era fuggito il dittatore Fulgencio Batista. La figura di Castro, insieme a quella del comandante “Che” Guevara che gli è sempre accanto, affascina i giovani di tutto il mondo, che da quel momento cominciano a seguire con interesse le vicende dell’America latina.

Sempre a Cuba, nel 1961, nella baia dei Porci, si verifica un tentativo di sbarco di forze anticastriste, promosso dalla CIA, con l’intenzione di ribaltare il governo rivoluzionario. Quindi, l’inizio della guerra fredda, la crisi dei missili sovietici a Cuba...: insomma, è un momento in cui l’America latina –soprattutto per gli avvenimenti che accadono nell’Isola caraibica– diventa centro di curiosità internazionale e tema di discussione.

11 Andrés Bosch y Manuel García Viñó, El realismo y la novela actual, Sevilla, Publicaciones de la Universidad de

Sevilla, 1973, p. 88. 12 Come sostiene il critico spagnolo Rafael Conte, il quale alla domanda “¿Y la novela latinoamericana aparecería

en un momento de confusión literaria?”, risponde: “Sí, digamos que la nueva novela latinoamericana surgió en el momento oportuno, en un momento en que no existen grandes novelistas en el mundo; bueno, sí existen, pero muy desperdigados por Europa”. Cfr. Fernando Tola de Habich y Patricia Grieve, Los españoles y el boom. Cómo ven y qué piensan de los novelistas latinoamericanos, Caracas, Editorial Tiempo Nuevo, 1971, p. 102.

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È doveroso però ricordare che per Miguel Delibes gli avvenimenti di Cuba sono solo una coincidenza temporale. Infatti, quando un suo intervistatore suggerisce che:

En lo referente a Cuba, lo que se dice es que al atraer la Revolución cubana la atención mundial sobre sí, la extendió también sobre toda Latinoamérica y de esta manera pudieron llegar a Europa las obras de los escritores del boom,

lo scrittore, con una provocatoria (immagino!) iperbole, risponde:

Miren, la verdad es que Vargas Llosa difícilmente podía llamar la atención antes de la Revolución cubana porque estaba tomando el pecho. ¿Qué años tiene Vargas Llosa ahora, 34? Imaginen. [...] Vargas, como Márquez, han madurado cuando han madurado, han coincidido con Fidel pero podían haber coincidido con Batista. ¿Por qué no? Les diría más. Es hasta posible el fenómeno contrario, esto es, que sean los escritores quienes han contribuido a llamar la atención sobre los fenómenos políticos de aquel hemisferio [...] En la misma Cuba no creo que pueda decirse que la Revolución haya alumbrado grandes escritores, porque los grandes escritores cubanos ya lo eran, ya eran grandes antes de la Revolución13.

Ovviamente, lo scrittore spagnolo ha spostato polemicamente il tiro: non si era

voluto affermare, infatti, che la Rivoluzione avesse creato gli artisti del “boom”, ma che essi erano riusciti a venir fuori da àmbiti geografici limitati, grazie all’attenzione che Cuba richiamava in quel periodo. 3) Un altro elemento di grande importanza è il ruolo svolto dallo spagnolo Carlos

Barral. La sua attività di editore è stata così determinante che ha offuscato la figura del poeta. È stato lui in prima persona, infatti, ad aprire ai giovani scrittori ispanoamericani di quegli anni le porte della sua casa editrice. A proposito di La ciudad y los perros (1962), l’opera considerata iniziatrice del “boom”, lo stesso Barral racconta:

La ciudad y los perros fue leída por un miembro del comité de lectura que la informó favorablemente pero sin ningún entusiasmo, entonces yo pedí en segunda lectura ese libro, y me entró una especie de entusiasmo desenfrenado14.

Sembra addirittura che, completamente assorbito da quell’opera, l’editore-poeta

avesse perso la cognizione del tempo trascorso; e quando finì di leggere il testo –il cui titolo provvisorio era La morada del héroe– si rese conto di aver avuto ciò che lui stesso chiamava “una epifanía literaria”15.

Pubblicare a Barcellona, con una casa editrice di larghissima diffusione, comportava chiaramente una maggiore fortuna per le opere di questi scrittori. In fondo si ripeteva, ulteriormente amplificato, quanto era avvenuto con la pubblicazione a Madrid di Doña Bárbara di Rómulo Gallegos: era più facile arrivare alle città dell’America latina direttamente dalla Spagna che non da Lima o Buenos

13 Ibidem, pp. 125-126. 14 Ibidem, p. 21. 15 Cfr. J. J. Armas Marcelo, Vargas Llosa. El vicio de escribir, Madrid, Ediciones Temas de Hoy, 1991, p. 28.

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Aires. Anche altre case editrici straniere, come per esempio la milanese Feltrinelli e la

parigina Seuil, dànno il loro contributo alla diffusione della narrativa ispanoamericana e al consolidamento del fenomeno “boom”, pubblicando la traduzione delle opere, qualche volta addirittura in anticipo sulla loro apparizione in lingua originale (come vedremo a proposito di El mundo alucinante di Arenas).

* * *

Il “boom”, perciò, è un fenomeno complesso, che riunisce elementi molto diversi della dinamica latinoamericana e anche europea; dunque, la caratteristica più appariscente sembra essere proprio la capacità di raggruppare e integrare elementi così eterogenei. Si tratta pertanto di un’unità fatta di differenze, come si può anche vedere se si considera la diversità delle opzioni ideologiche degli scrittori che vengono apprezzati come nuovi.

Questi, uniformemente, si propongono all’interno delle loro opere come creatori e intellettuali; ovvero come artisti e come indagatori della realtà latinoamericana, intesa come contesto problematico e fonte di messaggi letterari. Ma mentre questo atteggiamento rimane comune e costante negli scrittori più acclamati del “boom”, l’altro tratto comune (vale a dire, l’adesione agli ideali politici della Rivoluzione cubana), dopo una primitiva convergenza, comincia a marcare le differenze.

Per esempio, già nel 1965 – l’anno dopo aver vinto il premio «Biblioteca Breve» con il romanzo che sarà in seguito pubblicato con il titolo di Tres tristes tigres (1967) –, Guillermo Cabrera Infante dà il passo decisivo per allontanarsi da Cuba non solo fisicamente (poiché si trova come diplomatico in Belgio), ma anche politicamente e ideologicamente. Rifiuta, infatti, il concetto di letteratura come militanza e propaganda politica, e sottolinea la libertà e l’universalità dello scrittore latinoamericano.

García Márquez, nonostante l’amicizia mai interrotta con Fidel Castro, ha rifiutato di fare delle sue opere uno specchio fedele della realtà politica, preferendo sempre –per indagare la realtà latinoamericana– le più sottili e poetiche mediazioni del mito.

Al contrario, Fuentes –appassionato portavoce dei dibattiti politico-culturali di quegli anni– ritiene che il compito del narratore sia in parte letterario e in parte politico, poiché (in un contesto sociale in cui i mezzi di comunicazione sono monopolizzati dal potere e dalle classi alte) il pubblico si rivolge agli scrittori per conoscere la verità.

Per Cortázar, la letteratura non deve farsi portavoce diretta della politica, perché anche il romanzo più fantastico e delirante traduce sempre la visione che l’autore ha della realtà.

Vargas Llosa, invece, afferma che i temi sorgono dall’inconscio e i mezzi espressivi dalla parte razionale dello scrittore. E che cosa significhi essere un “autore rivoluzionario” è una domanda che egli rivolge prima a se stesso e poi anche agli altri.

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Il “boom”, quindi, è stato determinato da una serie di circostanze eterogenee; si è concretizzato nell’attività di scrittori di iniziale vocazione politica di sinistra, e al contempo ha determinato altri effetti. Quello di maggior impatto, sia in senso positivo che in senso negativo, è che si comincia a dar rilievo a tutto ciò che è ispanoamericano. Alcuni validissimi autori, che avevano iniziato a pubblicare in epoca anteriore al fenomeno –con minore risonanza, a causa di una minore efficienza dell’apparato propagandistico–, vengono ora riconfermati (Asturias, Mallea, Ciro Alegría, Uslar Pietri, Yáñez...), altri vengono quasi “scoperti” (Aguilera Malta, Arguedas, Carpentier, Onetti, Rulfo, Sábato...). Il successo dei giovani narratori, dunque, spinge un pubblico sempre maggiore ad indagare sulla letteratura ispanoamericana; e benché molti autori fossero già stati tradotti in altre lingue, raggiungono la vera fama negli anni ’60. Come racconta José Donoso nella sua Historia personal del boom:

Borges, Carpentier, Onetti eran casi desconocidos en Chile antes de la década de los años sesenta. La privacidad ejemplar de Onetti retardó la difusión de sus obras. La metafísica y el europeísmo de Borges, y el lenguaje excesivo de Carpentier hacía que los tildaran, si los conocían, de esteticistas, de literatura inútil y los relegaran16.

E qualche scrittore, forse per non essere “tildado” di “europeísmo”, rivede

addirittura la propria opera –almeno, sul piano formale– in chiave americanistica. Mi riferisco a Sábato che, dopo aver pubblicato nel 1948 El túnel in uno spagnolo rigidamente peninsulare (dove si riscontrava, per esempio, l’uso del “tú”, e si riportavano esemplificazioni più comprensibili al lettore medio europeo che non a quello del nuovo continente), argentinizza il testo, adattandolo al lettore americano (utilizzando, dunque, il “vos” e sostituendo i nomi legati alla cultura classica con altri più diffusi in America latina). A titolo d’esempio si vedano due sole varianti, di tipo diverso:

–¿Qué edad tienes tú? –¿Qué edad tenés vos? –Treinta y ocho años. –Treinta y ocho años. –Eres muy jóven, realmente17. –Sos muy jóven, realmente18.

Debo agregar que algo parecido me sucede con esos pintores que imitan a un gran maestro, como por ejemplo esos malhadados infelices que pintan a la manera de Giotto19.

Debo agregar que algo parecido me sucede con esos pintores que imitan a un gran maestro, como por ejemplo esos malhadados infelices que pintan a la manera de Picasso20.

Lascia comunque un po’ perplessi il fatto che una casa editrice argentina pubblichi

16 José Donoso, Historia personal del boom, Buenos Aires, Sudamericana/Planeta, 1984, p. 26. 17 Cito dall’edizione Emecé, Buenos Aires, 1952, p. 75. 18 Cito dall’edizione Seix Barral, Bogotá, 1984, p. 65. 19 Ed. Emecé, p. 21. 20 Ed. Seix Barral, p. 20.

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la versione in castigliano standard, mentre la versione americanizzata venga poi pubblicata proprio dalla casa editrice spagnola.

Su questo punto, sarebbe preferibile evitare qualunque commento. Tuttavia non si può far finta di credere che il “boom” non sia stato alimentato e ingigantito anche da un fatto commerciale; e che, nel desiderio di ricupero e affermazione di tutto ciò che è ispanoamericano, oltre agli scrittori di indubbio valore, si è trovata sulla cresta dell’onda anche una schiera di autori decisamente meno capaci, di cui oggi fortunatamente, si è persa la traccia.

Ma oltre che scopi commerciali, o di “sussidio” (diciamo così) per i fruitori del nuovo continente, la americanizzazione del linguaggio ha anche fini politici: essendo, infatti il romanzo “el género de la emancipación literaria de América”21 –come sostiene José Angel Valente–, per scrollarsi di dosso la dipendenza culturale dalla Spagna, deve necessariamente riscattare e rivalutare le varianti linguistiche americane, rendendo loro la dignità dovuta. Tra l’altro, è solo attraverso questa lingua, più sentita e viva, che, secondo gli scrittori maggiormente impegnati, si può riuscire a riflettere con tutte le necessarie sfumature la realtà sociale e “anímica” dell’uomo del nuovo mondo.

Forse è per lo stesso motivo –vale a dire il desiderio di emancipazione– che già qualche decennio prima qualcuno aveva addirittura affermato (sollevando, naturalmente, molte polemiche) che la narrativa ispanoamericana aveva maggiori legami con quella dell’America del Nord che non con quella europea:

La novela americana, sea del Sur o del Norte, sajona o indo hispana, de origen industrial o agrario, luce mayores parecidos entre sí que con respecto a la europea22.

Comunque, il romanzo ispanoamericano –secondo Carlos Fuentes– non vuole

essere soltanto un documento di protesta, ma aspira a costituire una vera creazione. Secondo lo scrittore messicano, l’opera letteraria è mito, linguaggio e struttura23. E il linguaggio ha una importanza fondamentale, quali che siano le scelte effettuate: da quella barocca di Carpentier a quella di influenza faulkneriana di Onetti; da quella del popolarismo stilizzato di Vargas Llosa a quella degli esasperati giochi linguistici (che si affiancano a quelli strutturali) di Cortázar.

A proposito di Cortázar, mi sembra interessante far notare come grazie al linguaggio, utilizzando qualche volta parole inesistenti –ma rimanendo sempre rispettoso delle regole grammaticali–, l’autore riesca ad esprimere perfettamente l’idea che si era proposta. Si pensi, per esempio, al brano tratto dal 68º capitolo di Rayuela, il cui tema è la descrizione di un incontro erotico:

Apenas él amalaba el noema, a ella se le agolpaba el clémiso y caían en hidromurias, en salvajes ambonios, en sustalos exasperados. Cada vez que él procuraba relamar las

21 Citato da Andrés Amorós, op. cit., p. 15. 22 Luis Alberto Sánchez, Proceso y contenido de la novela hispanoamericana, Madrid, Gredos, 1953. 23 Cfr. Carlos Fuentes, La nueva novela hispanoamericana, Méjico, Cuadernos de Joaquín Mortiz, 1969. Citato da

Andrés Amorós, op. cit., p. 21.

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incopelusas, se enredaba en un grimado quejumbroso [...] Y sin embargo era apenas el principio, porque en un momento dado ella se tordulaba los hurgalios, consintiendo que él aproximara suavemente sus orfelunios [...]24.

Ma l’importanza della forma espressiva in questi nuovi romanzi è ancora più

evidente in Tres tristes tigres di Guillermo Cabrera Infante, dove il linguaggio diventa addirittura il vero protagonista dell’opera. Un’opera invero particolare, che non si attiene a nessun modello precedentemente utilizzato da altri romanzieri (ma d’altra parte, anche per Rayuela, appena citata, vale la stessa cosa). Lo stesso Cabrera, sapendo che Tres tristes tigres non è incasellabile negli schemi tradizionali, cerca di definirla; ma, nel farlo, non riesce a sottrarsi alla tentazione di giocare ancora con il linguaggio:

Sé lo que TTT no es. No es una novela, no es una colección de cuentos, no es un libro-poema [...] Es tal vez, un libro de fragmentos en busca de la unidad [...] ¡Eureka! Ya lo tengo: TTT es un libro libre: El genio fuera de la botella25.

Mi pare interessante proporre un ultimo esempio di divertissement linguistico,

tratto da un testo di Reinaldo Arenas. Sul suo conterraneo Severo Sarduy (l’autore del romanzo Cobra), Arenas scrive un frammento, intitolato “Abre, obra, obre, ubra, abra, ebro...”, che inserisce nel suo “romanzo” (almeno, così viene da lui definito!) El color del verano:

¿Sabrá Zebro que él sobra lo mismo si escribe Kobra o quema todas sus obras, volutas de falsos sevres? Jamás sabia, jamás sobria. Macabra culebra ebria sobre ubres de otros orfebres ante los que se descubre, la pobre, que toda es cobre. Voluble como una cebra, sus obras son sólo sobras que enhebra sobre otras hebras y sobre otros libros labra. ¡Y por extraño abracadabra por este atraco ella cobra! [Para Zebro Sardoya]26.

* * *

È superfluo dire che il riferimento al linguaggio –anche se mi è sembrato

interessante proporre più di una esemplificazione– è stato necessariamente marginale: non vi si è accennato, infatti, per formulare delle riflessioni estetiche, ma per evidenziare come il problema dell’americanizzazione sia stato anche un fatto commerciale e soprattutto politico.

24 Cito dalla 18ª edizione, pubblicata a Buenos Aires dalla Editorial Sudamericana nel 1975, p. 428. 25 Questa è la risposta data a Isabel Alvarez-Borland in un’intervista, che la stessa studiosa riporta nel suo libro

Discontinuidad y ruptura en Guillermo Cabrera Infante, S. L., Ediciones Hispamérica, S. A. [1982?], p. 81. 26 Reinaldo Arenas, El color del verano, Miami, Florida, Ediciones Universal, 1991, p. 63. L’animosità di Arenas

nei confronti di Sarduy dipende dal fatto che quest’ultimo (che alla fine degli anni ’60 era condirettore della sezione latinoamericana delle edizioni Seuil), dopo aver ricevuto il manoscritto di El mundo alucinante, risponde con una lettera di elogi, dicendo però che il fitto programma della casa editrice non permetteva la pubblicazione del romanzo. Ma, dopo solo qualche mese, Seuil pubblica l’opera (cfr. l’autobiografia di Reinaldo Arenas, Antes que anochezca, Barcelona, Tusquets, 1992, pp. 142-143).

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* * * E il problema politico, a tutti i livelli, sembra essere la maggiore preoccupazione di

questi scrittori. La denuncia sociale (più velata dall’affabulazione, nelle opere di García Márquez; più evidente e cruda, nelle opere di Vargas Llosa e di Fuentes) è sempre presente nei romanzi di questo periodo.

Al principio, la Rivoluzione cubana indirizza politicamente verso sinistra la maggior parte degli scrittori del “boom” –che salutano il regime castrista come sicuro garante della libertà e della democrazia–; ma, in un secondo momento, un altro episodio che accade sempre nell’Isola dei Caraibi (e che è quello che probabilmente determina la conclusione del fenomeno del “boom”) fa fare marcia indietro a molti intellettuali che avevano inizialmente appoggiato Castro. Mi riferisco al “caso Padilla”.

Insignito nel 1968 del premio dell’UNEAC27, lo scrittore Heberto Padilla ne fu successivamente privato per aver espresso delle osservazioni critiche sul panorama culturale cubano e sulla stessa rivoluzione. Anche se il premio venne poi restituito all’artista per l’insistenza di Fidel Castro, nel 1971 Padilla viene arrestato assieme alla moglie, Belkis Cuza Malé. Dopo un mese di prigionia, rimesso in libertà, indice una conferenza stampa in cui fa un’autocritica eccessivamente rigida per essere creduta autentica: si definisce codardo, miserabile e traditore per non aver compreso prima la bellezza della Rivoluzione; ripudia la sua opera anteriore e denuncia quei conoscenti che avevano avuto un atteggiamento controrivoluzionario, perfino la moglie. Gli accusati presenti in sala sono costretti ad alzarsi e fare anch’essi autocritica, mentre il tutto viene filmato dalla Seguridad del Estado28.

Molti sono gli intellettuali ispanoamericani che firmano una lettera di protesta contro l’ingiusto arresto di Padilla: Vargas Llosa, Octavio Paz, Juan Rulfo, lo stesso García Márquez, nonostante l’amicizia personale che lo legava (e che lo lega ancora) a Fidel Castro. Tutti, infatti, si rendono conto di quanto sia importante una democrazia reale –che permetta la massima libertà espressiva e creativa dell’artista– e di quanto sia ingiusto imporre all’intellettuale il ruolo obbligato di propagandista di qualsiasi regime. È dopo il “caso Padilla” che alcuni autori si cominciano a dissociare dagli ideali della Rivoluzione cubana: tra questi Vargas Llosa, che addirittura, successivamente, passerà alla militanza politica anticomunista.

Ruolo importante, quindi, quello dell’Isola caraibica, perché da una parte determina la nascita del “boom”, e dall’altra ne decreta la fine. La Rivoluzione castrista, che in un certo qual modo (pur senza proporselo) aveva generato il fenomeno, si era comunque prodigata successivamente per alimentarlo (si pensi alla fondazione di “Casa de las Américas” e alla promozione dei suoi importantissimi premi letterari). Nella Cuba di quegli anni sbocciano, infatti, intellettuali di primo piano come José Lezama Lima, Virgilio Piñera, Guillermo Cabrera Infante, Severo Sarduy, Norberto Fuentes, Miguel Barnet...

27 Unión Nacional de Escritores y Artistas de Cuba. 28 Cfr. Reinaldo Arenas, Antes que anochezca, cit., pp. 162-163.

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Eppure, così come agli inizi degli anni ’60 l’intellighenzia ispanoamericana si era protesa idealmente verso questo Paese rivoluzionario, adesso comincia a guardare con occhi meno trasognati il fenomeno degli intellettuali cubani che sono costretti a scegliere la via della fuga (si pensi, per citare qualche nome, ad Armando Valladares, Guillermo Cabrera Infante, Severo Sarduy, Miguel Barnet, Reinaldo Arenas...).

* * *

E la parola “fuga” diventa quasi una parola d’ordine per Reinaldo Arenas, uno

scrittore considerato del “boom” per aver pubblicato nella decade degli anni ’60, ma la cui appartenenza al fenomeno risulta un po’ anomala.

Ricordo, infatti, che il suo primo romanzo, Celestino antes del alba (con il quale ottiene la “primera mención” al premio indetto nel 1964 dall’UNEAC) è pubblicato in una edizione limitata (solo duemila esemplari); e l’opera, che in una settimana è già esaurita, non verrà ristampata29.

Strano avvenimento, invero, per il “boom” che, come si è detto, è in gran parte un fatto commerciale. Ma ancora più strano è il fatto che egli sia stato consacrato scrittore di primo piano (e sia entrato a pieno titolo fra i narratori del “boom”) per un libro che ancora non era stato pubblicato in lingua originale. Mi riferisco al suo ormai famosissimo romanzo El mundo alucinante.

Anche quest’opera aveva ottenuto la “primera mención” al premio letterario dell’UNEAC nel 1966. Ma prima ancora di essere pubblicata in lingua spagnola, appare nel 1968 in traduzione francese, per i tipi di Seuil30.

Uscito infatti clandestinamente da Cuba, grazie all’aiuto del pittore Jorge Camacho, il romanzo era stato consegnato alla casa editrice parigina affinché venisse prontamente dato alle stampe. Ed è probabile che l’opera sia stata accompagnata da una calda raccomandazione di qualche persona influente; altrimenti, non ci si spiega come mai ci sia stata un’edizione così sollecita. E il fatto diventa ancora più inspiegabile se si considera che, solo pochi mesi prima, Severo Sarduy, responsabile della sezione latinoamericana della Seuil, dopo aver letto il manoscritto aveva inviato ad Arenas una lettera dove, con frasi di circostanza, gli diceva che erano costretti a rigettare l’opera31.

E invece, non solo viene pubblicata; ma non appena appare sul mercato editoriale, vince un premio come migliore romanzo straniero pubblicato in Francia; premio che diventa ancora più importante se si pensa che viene condiviso ex aequo con Cien años de soledad (1967), un classico di cui è superfluo ricordare l’importanza letteraria e la risonanza mondiale.

29 Non a Cuba, perlomeno, e non negli anni sessanta. Circolerà (ma per breve tempo, poiché fallisce la casa editrice) una nuova versione, ritoccata anche nel titolo (che ora è Cantando en el pozo), pubblicata in Spagna (a Barcellona) da Argos Vergara nel 1982. Tuttavia, c’è da segnalare che una casa editrice della Florida, in una recentissima edizione, ripropone l’opera con il titolo originale: Celestino antes del alba (Miami, Universal, 1996).

30 È emblematico (non certamente dal punto di vista filologico, ma da quello sociologico) che l’unica versione italiana di El mundo alucinante (Il mondo allucinante, Milano, Rizzoli, 1971) non sia stata tradotta dallo spagnolo ma dal francese.

31 Cfr. infra, nota 26.

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Ma come mai Arenas riesce ad affermarsi, facendosi accettare El mundo alucinante da Seuil e condividendo successivamente l’ambìto premio con García Márquez? Personalmente credo che, nonostante l’indubbio valore del romanzo, i motivi non siano esclusivamente di natura estetica. Uno di essi, infatti, è che si è fraintesa la tendenza politica dell’autore. In un momento in cui tutti i più grandi scrittori ispanoamericani aderiscono ideologicamente alla Rivoluzione cubana e si rivolgono a un pubblico politicamente coincidente, Reinaldo Arenas, cubano, rappresentava un investimento sicuro per qualsiasi casa editrice. In più, risultava un autore abbastanza credibile per il pubblico degli “aficionados” in quanto –non essendo all’epoca schedato dalla polizia castrista– era garanzia di fedeltà agli ideali rivoluzionari. E poi non c’è da dimenticare quella “primera mención”, ottenuta nella stessa Cuba, al premio indetto dall’UNEAC. Forse è proprio questo il motivo per il quale l’esule cubano Sarduy, anticastrista agguerrito, ritiene di non dover pubblicare il romanzo, nonostante fosse –come si è già detto– veramente pregevole sia per forma che per contenuto.

La struttura è abbastanza innovativa –anche se non originalissima, in quanto era già stata inaugurata da Fuentes nel suo romanzo La muerte de Artemio Cruz (1962)–, e si caratterizza soprattutto per la scelta del narratore. La storia viene proposta da tre istanze narrative diverse (yo, tú, él), le quali evidenziano una maggiore o minore coincidenza della voce narrante con il personaggio dell’opera32.

E poi, anche la trama è di particolare interesse, visto che narra la vita di Fray Servando Teresa de Mier –un domenicano di Città del Messico, realmente esistito– che, per aver fatto una strana predica il giorno della festa della Madonna di Guadalupe del 1794 (predica interpretata dagli spagnoli in chiave anticolonialista), viene condannato all’esilio.

El mundo alucinante è dunque un’opera stimolante sia per la storia narrata sia per gli aspetti formali con cui viene proposta; pur tuttavia, se questo romanzo ha oggi un posto preminente nella letteratura ispanoamericana contemporanea, non è certo per il suo indubbio valore artistico, ma perché è stata creduta (con un fin troppo scontato accostamento “anticolonialista Mier”/“anti-imperialista Arenas”) un’opera filo-rivoluzionaria.

* * *

Il “boom”, al di là dell’aspetto commerciale e della strumentalizzazione politica

che si è fatta degli scrittori di quel periodo, è stato sicuramente un fenomeno utile anche dal punto di vista letterario: è servito, infatti, a dare dignità a una letteratura che, a torto, veniva considerata subalterna, e il cui valore è invece attestato dall’enorme successo di pubblico e di critica, che ancora oggi riscuotono gli scrittori latinoamericani. E non mi riferisco soltanto ai vari Fuentes, García Márquez, Vargas Llosa…, ma anche ai nomi saliti di recente alla ribalta, come, per esempio, Isabel

32 Cfr. Domenico Antonio Cusato, “El mundo alucinante”: proiezioni e metamorfosi dell’“Io”, in “Quaderni di

letterature iberiche e iberoamericane”, n. 6, 1987, pp. 49-64.

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Allende.