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La vaLorizzazione deLLe razze

ovine autoctone deLL’itaLia

MeridionaLe continentaLe

Progetto Speciale finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali(D.M. 10743 del 23.12.04)

Mario Adda Editore

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In copertina: olio su tela, Menashe Kadishman (Tel Aviv, 1932);gentile concessione dell’Autore e della Ermanno Tedeschi Gallery, Roma.

ISBN 9788880827658© Copyright 2008

Mario Adda Editore - via Tanzi, 59 - BariTel. e fax +39 080 5539502Web: www.addaeditore.it

e-mail: [email protected] i diritti riservati.

Impaginazione: Vincenzo Valerio

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La perdita della biodiversità, intesa come “variabilità della vita e dei suoi processi”, è oggi uno dei problemi di maggiore importanza su scala mondiale e coinvolge sia il campo strettamente scientifico che l’iniziativa privata e gli organi di governo. L’impoverimento della base ge-netica che ne è derivato ha comportato una rapida ridu-zione delle razze allevate per ogni singola specie, con un forte calo della variabilità genetica entro le popolazioni allevate.

I problemi esposti, insieme a quelli connessi ai prin-cipi dello sviluppo sostenibile, hanno sempre più, nel corso degli anni, catalizzato l’attenzione del legislatore, nazionale e internazionale, sulla necessità di conserva-re la natura e la diversità biologica sia perché elemento necessario per il mantenimento generale dell’equilibrio ecologico sia in quanto rappresenta il presupposto indi-spensabile per la costituzione di una banca genetica di ri-ferimento di altissimo valore, essenziale per il progresso medico, biologico, agricolo e scientifico in genere.

Queste considerazioni hanno portato il Ministero del-le Politiche Agricole Alimentari e Forestali ad avviare una serie di iniziative nei diversi settori di competenza, tra le quali il programma di ricerca denominato “La va-lorizzazione delle razze ovine autoctone dell’Italia Meri-dionale Continentale”, coordinato dal prof. Dario Cianci dell’Università degli Studi di Bari; hanno partecipato come Unità Operative le Università di Pisa, Potenza e Foggia, nonché il Consorzio per la Sperimentazione, Di-vulgazione ed Applicazione di Biotecniche Innovative (ConSDABI) ed hanno collaborato le Associazioni Pro-vinciali degli Allevatori di Bari, Benevento, Campobas-so, Cosenza Foggia, Lecce, Potenza e Taranto.

Il programma, giunto a conclusione nel Dicembre 2007, ha concentrato la sua attenzione sul valore gene-tico, storico e culturale rappresentato dalle razze ovine autoctone dell’Italia Meridionale e sulla opportunità che le stesse possano essere una risorsa strategica per la zo-otecnia locale, similmente a quanto sta avvenendo per altre aree italiane ed europee.

Il problema dell’allevamento ovino meridionale è sta-

to affrontato in maniera olistica sia al fine di favorire il recupero e la valorizzazione di patrimoni genetici autoc-toni a rischio di estinzione sia per incentivare lo sviluppo di iniziative finalizzate ad un uso sostenibile delle risorse genetiche locali per una produzione economica e di qua-lità.

Le attività, realizzate nel triennio hanno riguardato, innanzitutto, una ricognizione particolareggiata delle razze e popolazioni ovine autoctone dell’Italia Meridio-nale Continentale per individuare le possibili fonti alter-native di materiale genetico.

L’indagine sul territorio è stata effettuata in collabo-razione con le Associazioni Provinciali Allevatori, ed è stata finalizzata ad acquisire conoscenze sulla consisten-za e diffusione delle razze Altamurana, Bagnolese, Gen-tile di Puglia, Gentile di Basilicata Laticauda, Moscia Leccese e altri tipi genetici meno conosciuti ed a carat-terizzare dette razze e popolazioni per gli aspetti morfo-funzionali e produttivi di al fine di definire la qualità del-le loro produzioni in termini di proprietà organolettiche e nutrizionali che possano portare alla loro difendibilità sul mercato anche attraverso sistemi di etichettatura, di tracciabilità e di controllo della qualità.

Si è proceduto, poi, alla loro caratterizzazione ge-netica, utilizzando tecniche molecolari, per favorire il ripristino ed il consolidamento delle razze stesse ed al fine di renderle suscettibili di valorizzazione economica nell’ambito dei sistemi di produzione a bassi imput e ad alta qualificazione delle produzioni.

Infine, è stata analizzata la possibilità di una loro valo-rizzazione con l’avvio di un programma di divulgazione dei risultati nei confronti degli allevatori, commercianti, consumatori e loro organizzazioni sugli aspetti qualifi-canti delle produzioni ottenute con le razze autoctone nei sistemi di produzione a basso input, con metodologie biologiche.

L’Inventario Genomico delle razze autoctone dell’Ita-lia Meridionale Continentale che è scaturito dal lavoro, può offrire un contributo essenziale, non solo teorico (caratterizzazione genetica per la conservazione del-

Presentazione

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6Presentazione

la memoria biologica), ma anche pratico nel momento in cui alcune caratteristiche fisiologiche e produttive di queste razze, finora non apprezzate dal mercato, po-trebbero rivelarsi di interesse per ottenere produzioni di qualità sia attraverso una scelta dei riproduttori con il carattere desiderato che per la rintracciabilità genomica delle produzioni.

Si tratta di un primo passo verso il recupero di que-sti patrimoni genetici che dev’essere visto anche in re-lazione all’aumento, da parte dei singoli cittadini, della domanda di fruizione di ambienti nei quali siano salva-guardati gli equilibri naturali tra i fattori geo-pedologici e le componenti floro-faunistiche senza, tuttavia, trascu-rare le esigenze tecniche, sociali ed economiche di que-ste aree. La valorizzazione di queste razze può e deve accompagnarsi a dinamiche di sviluppo rurale capaci di creare nuove reti di relazioni, potenziando la multifun-zionalità delle imprese agro-zootecniche e creando nuo-va occupazione.

È, però, necessario mettere in atto un “sistema di-namico” in grado di recepire la domanda proveniente dal comparto agro-alimentare e ambientale e di offrire strategie di medio-lungo periodo finalizzate a formulare traiettorie di sviluppo, per queste aree, che, nel rispetto delle tradizioni e del loro patrimonio identitario e cultu-rale possano favorirne la crescita economica e sociale, attraverso il coinvolgimento dei giovani e il trasferimen-to di conoscenze e tecnologie innovative.

Roma, 15 febbraio 2008

Il Ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali Paolo de Castro

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Le popolazioni animali differenziatesi in secoli di se-lezione naturale ed antropica, sono una risorsa insostitui-bile per offrire una gamma di opzioni capaci di far fronte alle esigenze quantitative e qualitative di alimenti che potrebbero essere determinate da cambiamenti climati-ci, dall’emergenza di nuove patologie, dall’evoluzione del mercato legata al variare delle richieste sociali o alle nuove conoscenze sui fabbisogni nutrizionali dell’uomo. Il lavoro di selezione, svolto da generazioni di agricol-tori, ha creato una pluralità di razze e varietà, ciascuna legata alle particolari condizioni del proprio ambiente di vita, che conservano un patrimonio di preziose caratte-ristiche, ancora non del tutto conosciuto, del quale po-tremmo avere necessità in un prossimo futuro.

Da anni si è posto perciò il problema della grave per-dita, non solo biologica, ma anche economica, che può derivare dalla scomparsa delle combinazioni alleliche necessarie ad evitare l’omeostasi genetica ed a garantire alle popolazioni animali la capacità di adeguarsi all’evo-luzione dell’ambiente naturale (climatico, biologico, nosologico), ma anche dell’ambiente antropico (tecnico, economico, sociale, culturale).

L’agro-biodiversità, naturale ed antropogena, è fon-damentale per la sicurezza alimentare dell’umanità e per mantenere, e possibilmente accrescere, la produttività del sistema agro-zootecnico, e consentirgli di adattarsi a circostanze sociali ed economiche in evoluzione; le scelte di allevamento rivolte alle razze e varietà ad alta produttività ha già drammaticamente sostituito genotipi e tecnologie non compatibili con le esigenze di una im-mediata maggiore redditività, con il conseguente abban-dono di razze e varietà ritenute poco remunerative e la perdita irrimediabile di una preziosa eredità. La rapida evoluzione tecnologica del sistema agro-alimentare eu-ropeo realizzata tra il 1950 ed il 1980 per la necessità di far fronte alla domanda quantitativa di prodotti di ori-gine animale, ha indirizzato anche gli allevamenti zoo-tecnici verso la modernizzazione delle metodologie di produzione con la attivazione di un modello di sviluppo basato sull’allungamento delle filiere e sulla valorizza-

zione zootecnica degli alimenti di base. L’Italia, per molti settori zootecnici in ritardo rispetto

ad altri Paesi dell’Unione, ha seguito il trend europeo, consolidando la produzione di alimenti di origine anima-le negli allevamenti orientati alla produttività dei fattori impiegati, aziendali ed extra aziendali. Questo modello di sviluppo, sostenuto da strumenti di politica agraria poggiati sulla garanzia dei mercati agricoli, ha consenti-to in Europa la piena disponibilità di proteine nobili; in quegli anni, i sistemi di allevamento hanno subito una spinta all’evoluzione dai modelli di produzione estensi-va verso i sistemi intensivi rienuti più adeguati dal punto di vista economico e sociale.

La necessità di soddisfare le esigenze quantitative di alimenti ha favorito la ricerca e la gestione dell’agricol-tura basata sostanzialmente sulla innovazione tecnologi-ca a scapito della conservazione dell’ambiente. Questi metodi di produzione agro-zootecnica, basati su forti investimenti di capitali e su input finalizzati, implicano infatti alti costi non solo in termini monetari ma anche per l’inquinamento ambientale (acque, suolo) e per lo sviluppo di forme patogene resistenti.

Il progresso tecnologico e la disponibilità di mezzi di produzione a costi sempre più bassi hanno consentito l’aumento della produttività zootecnica ed hanno modi-ficato gli equilibri tra domanda e offerta spostando il po-tere contrattuale verso il consumatore. Ma permangono perplessità e discussioni per le conseguenze che si sono accompagnate al forte incremento della produttività e delle disponibilità per il commercio e per i consumi:

- drammatizzazione dell’uso di risorse naturali spesso non rinnovabili

- riduzione della agro-biodiversità - aumento della massa di rifiuti non degradabili tra-

sferiti all’ambiente ed ai prodotti dell’agricoltura- peggioramento della qualità dei prodotti di origine

vegetale ed animale.Dopo anni di eccedenze alimentari, sia le politiche

che la domanda dei consumatori sono profondamente cambiate; così, dopo aver raggiunto il livello di autosuf-

Premessa

D. Cianci

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8Premessa

ficienza per molti prodotti di origine animale si é posto il problema della valorizzazione qualitativa, non tanto con l’abbandono del progresso realizzato per un utopico ritorno a tecnologie preindustriali, quanto con lo studio e la proposizione, al mondo operativo, di tecnologie che, pur consentendo livelli produttivi pienamente compe-titivi sul piano economico, possano progressivamente ridurre l’impatto sull’ecosistema suolo-acqua-aria e fa-vorirne la sopravvivenza.

L’Europa ne ha preso nota ed ha gradualmente ade-guato gli obbiettivi normativi e della ricerca alla evolu-ta sensibilità delle proprie popolazioni, declassando gli obbiettivi quantitativi per potenziare gli aspetti qualita-tivi e la sostenibilità ambientale dei modelli produttivi, orientandosi sulla ricerca di tecnologie che conservino il significato economico della produzione ma riducano il livello di intensivazione e, soprattutto, la concentrazione di inquinanti ambientali.

In molti Paesi è ormai convincimento di doversi sem-pre più orientare verso una gestione zootecnica che com-porti una riduzione dell’impatto ambientale, realizzando un sistema produttivo “sostenibile”, contemperando il livello di produttività adeguato alle esigenze della popo-lazione umana con la necessità di evitare l’impatto con l’ecosistema.

Gli obbiettivi scientifici e tecnici di questo tipo di agricoltura sono:

- gestione aziendale nel rispetto della conservazione del suolo, delle acque, dell’energia e delle risorse biolo-giche

- riduzione degli input extraziendali, specialmente di quelli che hanno effetto nocivo sull’ambiente e sulla sa-lute dell’uomo

- politica etnologica volta al maggior e/o migliore uso del potenziale genetico degli animali a difesa della va-riabilità genetica dalla concentrazione delle attenzioni di allevamento su pochi genotipi ed a salvaguardia dei ge-notipi locali in funzione della caratterizzazione dei pro-dotti nei sistemi di produzione organici ed a bassi input

- orientamento verso la produzione ecocompatibile, che meglio tiene conto della sicurezza igienica, delle qualità nutrizionali anche dal punto di vista salutistico, del benessere animale

- definizione della qualità delle produzioni in termi-ni di proprietà salutistiche, organolettiche e nutrizionali che vadano incontro alle esigenze dei consumatori, an-che sviluppando un sistema di etichettatura, di tracciabi-lità e di controllo della qualità che meglio le difenda dai

prodotti di massa e le qualifichi sul mercatoAnche in Italia, come in tutto il mondo occidentale, il

consumatore, ormai soddisfatto nelle esigenze quantita-tive, è sempre più attento ai problemi della qualità e della sicurezza degli alimenti; ma non trascura i problemi le-gati alla qualità della vita ed alla conservazione dell’am-biente e della biodiversità. A conoscenza ormai delle op-portunità di una alimentazione sana e senza sovrapposi-zioni tecnologiche, ha accolto con favore ed entusiasmo le innovazioni produttive che lo riavvicinino sempre più alla condizione naturale. Sempre più si espande perciò l’aspettativa per la disponibilità sui mercati di consumo di alimenti qualitativamente rispondenti alle esigenze dell’uomo sia per gli aspetti chimico-bromatologici che per quelli igienico-sanitari.

In questa ottica vengono dedicate crescenti attenzioni agli ovini, con tentativi di difesa dei prodotti sul piano normativo, attraverso il rispetto di standard qualitativi ed igienici, a fronte della crescente concorrenza soprattutto ai prodotti mediterranei (latte, formaggi, agnello da latte) da parte di aree a più elevata produttività e costi più bassi di nuovo interessamento al settore. Le produzioni locali (soprattutto le carni) sono ormai del tutto insufficienti a coprire le esigenze del consumo e solo il massiccio ricorso alle importazioni (da Paesi europei ed extraeu-ropei) consente di stabilizzare l’offerta. Inoltre, l’evo-luzione delle politiche verso la più ampia apertura dei mercati pone il problema della competitività del sistema zootecnico locale sui mercati dei prodotti di base. Le produzioni tipiche delle nostre razze sono sfuggite alla concorrenza del prodotto di importazione finché l’estero non era competitivo (formaggio pecorino e agnello da latte). Ma sempre più alcuni Paesi finora assenti in questi settori produttivi si affacciano sui nostri mercati, faci-litati dalla possibilità di organizzarsi senza preesistenti vincoli strutturali alle esigenze imposte dalle richieste del mercato e dai regolamenti europei.

In questa situazione è difficile il perseguimento di strategie di costo e l’adozione di modelli produttivi in-tensivi, per la concorrenza delle zone più favorite dalle risorse ambientali e/o dai costi dei fattori; al contrario, è ragionevole l’adozione di una strategia di specializza-zione, volta ad individuare target di consumo specifici, mediante la realizzazione di prodotti con chiari conno-tati qualitativi. Per questo motivo, soprattutto in consi-derazione dello scenario internazionale e comunitario atteso, la possibilità di competere riguarderà o strutture produttive molto efficienti in termini di scala e di tecno-

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logie impiegate o, all’opposto, realtà d’impresa capaci di orientare le loro produzioni verso i mercati di quali-tà. Perciò, pur incoraggiando la standardizzazione delle produzioni ovine negli allevamenti specializzati, ritenia-mo necessaria la ricerca di un equilibrio tra fabbisogni quantitativi, domanda crescente di qualità e di differen-ziazione dei consumi e necessità di proteggere le razze autoctone tenendo conto degli aspetti socio-economici, dei motivi biologici (conservazione della biodiversità) e della salvaguardia ambientale da loro assicurata.

Quest’ultimo aspetto suscita sempre maggior interes-se e si lega al ricupero delle aree collinari e montane sollecitato dall’aumento della domanda di fruizione di ambienti nei quali siano salvaguardati gli equilibri na-turali tra i fattori geo-pedologici e le componenti floro-faunistiche; tuttavia, senza trascurare la valorizzazione tecnica ed economica di queste aree che può consentire, a breve ed a lungo termine, la disponibilità dei prodotti tipici con i loro pregi nutrizionali.

La scelta del livello di antropizzazione che consenta un adeguato equilibrio tra qualità dell’ambiente ed at-tività economiche è da alcuni anni fonte di discussione sempre accesa tra i sostenitori dello scenario naturale (nel quale un piccolo intervento umano è comunque in-quinante) e coloro che guardano con pragmatismo alla valorizzazione economica e sociale delle aree suscettibi-li. La competizione è ovviamente più accesa se le risorse sono limitate ed il loro valore sociale ed economico è elevato. In tutta Italia la densità demografica pone questi problemi in modo pressante, anche perché l’utilizzazio-ne del territorio consolidata nel tempo è tale da lasciare pochi spazi ad ambienti naturali.

La valorizzazione delle produzioni zootecniche loca-li non può fare a meno di questo stretto legame con le stesse risorse paesistiche ed ambientali. Come per altre produzioni, infatti, anche nel caso dei prodotti zootecni-ci la qualità dei paesaggi e degli ambienti nei quali sono realizzati costituiscono parte integrante della qualità per-cepita. È questo un motivo per cui, nonostante l’inciden-za contenuta delle produzioni dell’ovinicoltura sull’eco-nomia meridionale, questa stessa può divenire volano importante per una politica di qualificazione dell’intero sistema produttivo, con ricadute per le popolazioni locali e per la stessa attrattività dell’area a fini turistici.

In un contesto di grande attività ed innovazione tec-nologica l’allevamento ovino dell’Italia Meridionale Continentale ha corso e corre il rischio di vedersi con-finato su livelli di qualificazione modesti, malgrado le

sue grandi potenzialità, con gravi ripercussioni sull’im-magine e, di conseguennza, sulla competitività commer-ciale. L’evoluzione della domanda e la ricerca di schemi produttivi ad alte risposte quantitative hanno condotto infatti alla perdita di gran parte del germoplasma autoc-tono per molte specie animali (bovini, suini, equini e, in misura minore, caprini) in favore di razze specializzate del Nord Europa.

L’allevamento ovino ha resistito più a lungo con le sue popolazioni autoctone, che oggi sono geneticamen-te deformate da incroci e meticciamenti e sempre più sovrastate dalle razze Sarda e Comisana, che ne hanno condizionato la contrazione drastica del patrimonio av-viata già prima degli anni ’80. Molti degli ovinicoltori dell’Italia Meridionale Continentale che hanno orientato le proprie greggi verso le razze alloctone per le migliori perfomances produttive, ammettono oggi di aver perso molto in qualità abbandonando le razze locali senza ten-tare una adeguata opera di selezione.

In questo scenario sono presenti ancora oggi mol-ti soggetti polimeticci non ascrivibili ad alcun gruppo etnico o indirizzo produttivo ben definito; la loro pre-senza è indicativa della tendenza, nei decenni passati, all’aumento delle produzioni ovine, soprattutto quella della carne, attraverso la creazione per incrocio di nuove combinazioni geniche. Cio ha portato ad un dissesto ge-netico per cui oggi, per il loro ricupero, vi è la necessità di caratterizzare e definire i tipi genetici originari che meglio rispondono, o potranno rispondere, all’ambiente economico e sociale.

Nel nostro Mezzogiorno l’ovinicoltura é infatti anco-ra caratterizzata da un’eterogeneità di situazioni (diretta conseguenza dell’ambiente, delle razze, dell’indirizzo produttivo) da rendere problematici i tentativi di classifi-cazione per schemi, perché oggi sono presenti, con tutte le possibili varianti, sia allevamenti a tecnologia avanza-ta che a tecnologia tradizionale, caratterizzati da livelli diversi di efficienza organizzativa, di imprenditorialità e di innovazione.

A fronte del desiderio di introdurre moduli tecni-ci ed organizzativi di maggiore complessità, il sistema produttivo dell’Italia Centro Meridionale ha incontrato, ed incontra ancora oggi, difficoltà di adeguamento, con conseguenze negative sulle condizioni di lavoro dell’al-levatore e sul reddito ottenuto. I risultati produttivi ed economici possono essere considerati soddisfacenti nel-le imprese medie e piccole a conduzione diretta dell’im-prenditore, ma non sempre sono in grado di assicurare

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10Premessa

la capacità di accumulazione necessaria a sostenere il cambiamento strategico e strutturale.

Non può essere sottovalutato il fatto che gli ultimi censimenti evidenziano per tutto il Meridione ulteriori contrazioni delle superfici pascolative e delle aziende che fanno uso di pascolo, contro un incremento dei pra-ti pascoli e delle aziende che gestiscono prati-pascoli; è questo un indicatore della tendenza alla stanzializzazio-ne dei sistemi di allevamento, con un consolidamento delle aziende dotate di maggiore livello di specializza-zione produttiva ed una erosione delle forme di pastori-zia tradizionale.

Le razze autoctone hanno perso la loro competizione con le razze cosmopolite per intensità di produzione; per di più, la disattenzione di cui hanno sofferto ha determi-nato il depauperamento e la dispersione del patrimonio genetico al quale merita oggi che siano dedicati gli inter-venti più attenti per la loro salvaguardia. I tipi genetici autoctoni sono oggi caratterizzati da maggiore eteroge-neità genetica, ma con maggiore probabilità, rispetto ai tipi genetici sottoposti a selezione spinta, possono essere portatori di alleli vantaggiosi per il valore biologico delle loro produzioni legato all’adattamento all’ambiente cli-matico e nutrizionale delle aree difficili, alla resistenza genetica alle patologie infettive ed infestive endemiche, nonché alla quantità e qualità dei grassi presenti nei loro prodotti.

Ne è conseguita una nuova attenzione alle razze au-toctone come traduttori biologici ed al prodotto tradizio-nale come alimento funzionale accreditato da specifiche proprietà qualitative e caratterizzato da tipo genetico, ambiente e tecnica di produzione. Ecco perché riteniamo che gli allevamenti tradizionali debbano essere sostenu-ti. Essi rappresentano non solo un patrimonio di grandis-simo pregio, ma anche il punto di equilibrio tra attività produttive ed ambiente ed una risorsa di inestimabile valore biologico e nutrizionale. Le razze ovine autocto-ne erano infatti un grande patrimonio genetico in tutta l’Italia Meridionale Continentale, che si è ormai drasti-camente ridotto, ma che, tuttavia, conserva inalterato il suo enorme valore storico e culturale e può rappresenta-re una risorsa strategica rilevante per la zootecnia locale, similmente a quanto sta avvenendo per altre aree italiane ed europee.

Buona parte del sistema zootecnico ovino meridiona-le è nella condizione di sviluppare una propria compe-titività nel mercato delle produzioni tipiche e di qualità (produzioni biologiche ed ecocompatibili) e di valoriz-

zare le proprie risorse paesaggistiche (ambiente naturale e agro-biodiversità). Le potenzialità esprimibili dai terri-tori dell’Italia Meridionale Continentale sono legate alla loro rilevante valenza ambientale e, nello stesso tempo, ad una ovinicoltura in grado di esprimere prodotti di qualità. Data la complessità di questi territori, nei quali sistemi antropici e sistemi ecologici si sono modificati a vicenda, il valore di ogni singola componente va valutata in stretta sinergia con le altre. Le strategie di conservazio-ne ambientale devono guardare perciò, contestualmente, ai programmi di rilancio dell’attività agro-zootecnica e qualsiasi progetto di potenziamento dell’attività agricola che non tenga presente la sostenibilità ambientale sareb-be del tutto fuori luogo in questi territori.

In questo processo la zootecnia ha un ruolo predomi-nante, perché assicura non solo il presidio costante del territorio in termini di protezione e restauro, ma anche la possibilità di fertilizzare con materiale organico i terreni destinati alla produzione e l’arricchimento del paesaggio antropico e naturale, nonché l’opportunità di rivitalizza-re l’economia dei luoghi con ricadute sociali di grande interesse. L’utilizzazione ed il miglioramento delle razze ovine autoctone può essere una ottima scelta per i siste-mi di produzione a basso input richiesti dagli obbietti-vi di sostenibilità ambientale e di qualità e tipicità dei prodotti, perché in una situazione di relativa saturazione della domanda e con la tendenza alla globalizzazione dei mercati, per le aree produttive quali quelle dell’Italia Meridionale, è improponibile continuare nel tentativo di competere sul livello quantitativo con i Paesi dei climi temperato-umidi più favoriti dal punto di vista delle ri-sorse ambientali e dei costi dei fattori di produzione, in quanto è difficile acquisire vantaggio attraverso il per-seguimento di strategie di costo e l’adozione di modelli produttivi intensivi.

Lo sviluppo della ovinicoltura dell’Italia Meridionale Continentale deve prevedere, perciò, la valorizzazione delle proprie produzioni tipiche, soprattutto partendo da genotipi locali e/o da sistemi produttivi coerenti con le risorse ambientali; l’ovinicoltura meridionale dispone di molte razze allevate ancora tradizionalmente in condi-zioni e con tecniche che non prevedono forti input tec-nologici: la maggior parte al pascolo, spesso con transu-manza o a sistema semi-intensivo ma con livelli produt-tivi molto variabili sia per le risposte riproduttive che per la produzione del latte e della carne. Queste razze non valorizzano del tutto le nuove tecnologie (controllo della funzione riproduttiva e inseminazione strumentale, allat-

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tamento artificiale, mungitura meccanica, razionalizza-zione del piano alimentare), ma consentono di realizzare obbiettivi qualitativi di alto pregio.

Queste razze conservano, ancora oggi, consistenze di rilievo tale da rappresentare un tema di interesse tecni-co, economico e sociale, nonché ambientale e politico, perché possono contribuire a valorizzare il territorio at-traverso la migliore integrazione tra risorse economiche ed ambientali, favorendo la salvaguardia di ambienti nei quali i caratteri di marginalità e le difficili condizioni cli-matiche comportano un continuo degrado.

Il sistema produttivo pastorale in questi comprensori é ancora preponderante e, nel mentre si auspica una sua rapida conversione in un sistema a produttività control-lata, si ritengono necessari interventi mirati per evitare un suo drastico abbandono e favorire invece la graduale ma necessaria rivalutazione. In ciò aiuta il favorevole momento che, dopo troppi anni di scarso apprezzamen-to, vede le proprietà dei prodotti delle razze autoctone entrare nel convincimento del consumatore, il quale scopre oggi gli insospettati pregi qualitativi, nutrizionali ed organolettici, dei prodotti di origine animale ottenuti dalle razze locali allevate negli ambienti e con i sistemi tradizionali, anche se non siamo ancora giunti ad una loro diffusa conoscenza e valorizzazione. Purtroppo, a fronte della crescente attenzione riservata ai prodotti tipici e della espansione della richiesta, le razze locali non possono rispondere in modo adeguato, perché ormai sono ridotte nelle consistenze e deformate nella struttura genetica.

Con i colleghi che hanno collaborato al progetto, ab-biamo perciò ritenuto necessario e doveroso dedicare una concreta attenzione alle razze ovine del Mezzogior-no Continentale d’Italia ed ai due complessi problemi che esse pongono:

- il ricupero della struttura genetica originaria, attra-verso una meticolosa ricognizione e l’analisi genomica del materiale genetico autoctono che consenta la defini-zione delle linee di conservazione attiva e di migliora-mento di ciascuna popolazione attraverso la stima della più efficace combinabilità

- la difesa dei loro prodotti con metodologie che ga-rantiscano la loro origine in modo decisivo (tracciabilità molecolare).

Il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha intuito la necessità di non mandare disper-so questo pregevole materiale genetico, oggi trascurato in favore del “nuovo”, ed ha incoraggiato un intervento

di ricerca rivolto al primo tema, necessario per avviare il ricupero delle razze autoctone che rappresentano un patrimonio di biodiversità, di storia e di cultura ed una fonte di alimenti di grandissimo pregio. Questo proget-to ha voluto essere un contributo alla valorizzazione del grande patrimonio ovino autoctono in un Paese come l’Italia, ricchissimo di varietà e di razze vegetali ed ani-mali autoctone, nel quale sono ancora carenti i proget-ti di conservazione e il coordinamento tra le attività di tutela e di recupero soprattutto nelle Regioni dell’Italia Meridionale Continentale che possedevano il patrimonio ovino numericamente più consistente e biologicamente più ricco.

Le Regioni dell’Italia Meridionale Continentale sono naturalmente interessate ai problemi specifici delle aree mediterranee e condividono questo interesse con altre Regioni italiane, spagnole, francesi e greche. Questi co-muni interessi si sono saltuariamente concretizzati in ini-ziative di ricerca e di trasferimento tecnologico, inizia-tive che, tuttavia, sono state prevalentemente episodiche e non inserite in un quadro organico di collaborazione, neppure tra le Regioni dell’Italia Meridionale Continen-tale, tanto che, analogamente a quanto avvenuto nella politica agricola, anche nel campo della ricerca e dello sviluppo i loro problemi sono rimasti, sino ad ora, in po-sizione marginale.

L’obbiettivo primario del progetto è stato quindi la costituzione di un “Inventario Genomico” del germo-plasma delle razze ovine autoctone dell’Italia Meridio-nale Continentale, che ne funga da memoria storico-biologica, accompagnato dalle opportune informazioni sulla loro distribuzione e consistenza, sulle tecniche di allevamento e sulla produttività, per favorirne il rilancio, o quantomeno la conservazione attiva e contribuire allo sviluppo di iniziative per l’uso sostenibile delle risorse genetiche locali, ottenendone una produzione economi-ca e di pregio qualitativo.

Non si nasconde che uno degli obiettivi è stato an-che la verifica della opportunità e della possibilità di proporre, a conclusione del lavoro, una politica di in-tervento sull’ovinicoltura di queste regioni, adatta al tipo di risorse animali, ambientali ed umane specifiche, nonché alle sollecitazioni del mercato per una politica agro-alimentare di qualità che punti sulla riconosciuta superiorità dietetica dei prodotti delle popolazioni ani-mali autoctone.

Ma questo progetto è anche preliminare ad ogni ipo-tesi di tracciabilità molecolare (genomica e/o aromatica)

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12Premessa

necessaria alla valorizzazione dei genotipi per la valo-rizzazione dei sistemi e degli ambienti di allevamento. Speriamo che anche questo secondo aspetto possa esse-re affrontato e risolto nei prossimi anni, per dare nuovo

impulso alle produzioni tipiche che il nostro Meridione condivide con le aree del Bacino del Mediterraneo e che concorrono al mantenimento naturalistico di aree di no-tevole pregio paesaggistico.

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iL significato bioLogico

ed econoMico deLLa saLvaguardia

deLLe razze autoctone

D. Matassino, N. Castellano, C. Incoronato, M. Occidente

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La complessità biologica

Il termine ‘complessità’ è una tra le parole più ricor-renti ed è uno dei concetti più trasversali delle scienze fisico-matematiche e naturali.

La nozione di complessità ha carattere multidimen-sionale.

Sebbene, da un punto di vista scientifico, l’instabilità semantica della nozione di complessità biologica rappre-senti, ovviamente, una limitazione, tuttavia, questa no-zione conserva dei contenuti utili e spendibili anche sul piano teorico.

Le attività produttive si estrinsecano in una serie di biopoioesi (galattopoiesi, miopoiesi, ovopoiesi, trico-poiesi, ecc.) legate a complesse reti cibernetiche che si sublimano teleonomicamente e teleologicamente nel fornire specialmente quelle biomolecole di infinita va-lenza ‘nutrizionale’, ‘extranutrizionale’ e ‘salutistica’ le quali sono alla base di quel coacervo di eventi concre-tizzantisi nel raggiungimento di un benessere dinamico dell’uomo. È la ‘irriducibile complessità’ della singola cellula che esplica un ruolo ‘unico’, istante per istante, in quanto è sollecitata continuamente da interazioni in-tra e intercellulari tra la struttura organizzata del DNA nucleare e mitocondriale e la miriade di fattori definibili ‘ambientali’ (non genetici).

Matassino et al. (2007) evidenziano come questa ‘ir-riducibile complessità’ sia sempre oggetto di discussioni come la disputa, mai sopita, del dualismo ‘somatico-ger-minale’ di Weissman risalente alla fine del 1800 e suc-cessivamente (anni 1940-50) ripresa, su base sperimen-tale e teorica, da Waddington con i concetti di:

‘paesaggio epigenetico’;‘canalizzazione dello sviluppo’;‘assimilazione genetica’.Il ‘paesaggio epigenetico’ è identificabile con una se-

rie di ‘percorsi di sviluppo’; ogni percorso si origina da uno stadio ove segmenti di DNA ‘attivi’ danno origine a una diramazione di nuovi percorsi; pertanto, ogni stadio

di sviluppo è a sua volta un vero e proprio ‘battistrada’ per il successivo.

La ‘canalizzazione dello sviluppo’ comprende tutte quelle modalità comportamentali di un essere vivente concretizzantisi, poi, nella ‘capacità al costruttivismo’ che si realizza ‘canalizzando’ lo sviluppo verso le vie alternative al variare delle condizioni ambientali tempo-ranee in un determinato contesto microambientale. Sulla base della filosofia ‘realistica’ inglese, riconducibile a ‘L’évolution créaticé’ di Bergson (1907), non vi potreb-be essere ‘evoluzione’ senza ‘canalizzazione’ fortemente dipendente da uno o più ‘constraint’ (vincolo). Un ‘con-straint’ è ‘un fattore che costringe a condizionare, sia positivamente che negativamente, i cambiamenti fenoti-pici in una direzione stabilita dalla storia passata o dal-la struttura formale, anziché dal corrente adattamento’ (Gould, 1989). Questa ‘canalizzazione’, secondo Bettini (1972), è resa possibile da ‘dighe’ che sono identificabili con ‘piani di organizzazione cosmica’ che ne disciplina-no il flusso.

L’‘assimilazione genetica’ è definita come fenomeno consistente in una ‘modificazione fenotipica’ dovuta a stimoli ambientali e identificabile con la ‘plasticità fe-notipica’, inizialmente non ereditabile, ma che, succes-sivamente, può diventare trasmissibile nel corso del suc-cedersi di generazioni; grazie a un vantaggio selettivo l’‘assimilazione genetica’ viene interpretata dagli evolu-zionisti quale manifestazione di una variabilità genetica ‘criptica’, in un determinato microambiente. Si ritiene che stimoli ambientali possano favorire l’espressione (o manifestazione) di una ‘variabilità genetica latente’ e i fenomeni relativi, sortiti dall’ambiente dopo uno ‘scre-ening’ effettuato dalla selezione naturale, possono esse-re assimilati ‘geneticamente’. Quando si verifica questo evento, si parla di fenomeno della ‘capacitazione’; fe-nomeno che si ha a seguito di ‘stress’ ambientali, il cui effetto si concretizza in una riattivazione di ‘potenziali-tà genetiche represse’ estrinsecantisi sulla comparsa di nuovi ‘fenotipi’.

La ‘dinamica del fenomeno della complessità’ eviden-

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zia l’esigenza di una visione sempre piú integrata ‘geno-tipo – fenotipo’ nel funzionamento di qualsiasi ‘entità biologica’. La complessità degli esseri viventi richiede un approccio ‘sistemico’; approccio identificabile con la ‘teoria generale dei sistemi’, resa ufficiale da von Ber-talanffy nel 1945 e già espressa da Needham nel 1936. Secondo Needham, il sistema vivente è necessariamen-te ‘policromatico’, è una ‘complessità variegata’ che si esprime in una essenza ‘singola’; pertanto, l’‘interezza’ dell’organismo è fondamentale nella biocomunicazione. Bettini (1972) definí il sistema come “un insieme di pro-cessi interagenti caratterizzati da un numero piú o meno grande di mutue relazioni funzionali” o, se si preferisce, “un complesso di eventi o di fenomeni di vita reale con-trassegnati da scambievoli legami funzionali” (Matassi-no, 1978, 1984).

Qualsiasi sistema o modello biologico indubbiamen-te è ‘irriducibilmente complesso’ nel senso che esso in-clude, sempre, un insieme di componenti talmente ben assortite per cui, qualsiasi eventuale intervento discrimi-nante tendente a separarne alcune da altre, è negativo essendo esse mutuamente relate e, quindi, indispensabili per il mantenimento della struttura sistemica nonché del-la regolare funzione che deve esplicare il sistema stesso. Questo insieme di componenti, da ritenere indispensabi-li, costituisce quello che può essere identificato con l’‘ir-riducibile core (cuore)’ del sistema stesso.

L’espressione ‘irriducibile complessità’ è stata definita da Behe (1996): “un singolo sistema costituito da diver-se parti che interagiscono tra loro e che contribuiscono alla funzione fondamentale; la rimozione di una qualsia-si delle suddette parti compromette il funzionamento del sistema stesso”. Si sa che i sistemi viventi della biosfera vengono, di norma, ordinati in una gerarchia di entità secondo un criterio di complessità crescente. L’organi-smo unicellulare, quello pluricellulare, la popolazione di organismi e la biocenosi rappresentano quattro livelli distinti di organizzazione della materia vivente. McShea (1991) riferisce, a esempio, che Stebbins individua non quattro, ma otto differenti gradi di organizzazione:

- i sistemi organici capaci di autoriproduzione; - i procarioti;- gli eucarioti monocellulari;- gli eucarioti pluricellulari semplici;- gli organismi provvisti di tessuti e organi differen-

ziati;- gli organismi con arti ben sviluppati e dotati di si-

stema nervoso;

- gli organismi omeotermi;- l’uomo.A ogni modo, tale complessità è stata giudicata come

un fatto tanto ovvio, da non suscitare nessuna partico-lare attenzione teorica. Ora, da questo atteggiamento trapela una posizione filosofica, una scelta realista che dà per scontata la complessità e non si preoccupa di va-lutare un’altra possibilità, l’alternativa, nominalista, che la complessità sia non un attributo dei viventi quanto piuttosto delle rappresentazioni costruite dalla scienza. In questo secondo caso, intrinsecamente complessi sa-rebbero i modelli della conoscenza biologica e non gli oggetti del mondo biologico, che certo potranno essere più o meno complicati, ma non complessi.

In campo scientifico, il termine ‘complessità’ viene impiegato in due differenti accezioni (Lepschy, 2000). Chi ha familiarità con l’informatica e con l’analisi nu-merica, sa che la complessità corrisponde a una carat-teristica quantitativa di un algoritmo di calcolo che ne determina la possibilità per la soluzione pratica di un problema. Nell’ambito dei sistemi dinamici, invece, la complessità è intesa, di solito, come una caratteristica qualitativa di un sistema.

Come riportato da Matassino et al. (2007b), i sistemi complessi sono presenti già nel mondo ‘non vivente’. A questi fanno capo i ben noti sistemi a molti componenti interagenti e caratterizzati da dinamiche dissipative (es. le turbolenze nei fluidi di una turbina o di una camera di scoppio di un motore a combustione); le nuvole, i profili delle coste, gli alberi danno luogo a strutture comples-se accomunate, dalla nascita, da una spontanea auto-so-miglianza interna e da invarianza di scala (Mandelbrot, 1983). Si tratta, quindi, di strutture dotate della cosiddet-ta ‘auto-organizzazione’, una proprietà che rappresenta, tra l’altro, un ottimo esempio di proprietà emergente di un sistema.

L’‘auto-organizzazione’ o ‘auto-assemblaggio’ (self-organization o self-assembly) è la proprietà di sviluppare strutture ‘ordinate’ da situazioni localmente ‘caotiche’. Secondo la definizione di Klir (1991) “un sistema ‘auto-organizzante’ è un sistema che tende a migliorare le sue capacità nel corso del tempo organizzando meglio i suoi elementi per raggiungere l’obiettivo”. Nel sistema vi-vente l’‘auto-organizzazione’ conferisce al sistema stes-so una dimensione in piú la quale esalta la complessità interna nella finalizzazione di migliorare la ‘capacità al costruttivismo’. Un esempio di ‘auto-organizzazione’ o ‘auto-assemblaggio’ (self-organization o self-assembly)

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è il favo prodotto dalle api il quale è costituito da un in-sieme di ‘celle esagonali’; il favo costituisce un mirabile esempio di ‘efficienza geometrica’ (forma triedrica pira-midale), forma che, secondo Tóth (1965), non è in teoria la geometria tridimensionale ottimale. Celle singole non mostrano questa perfezione geometrica, mentre, il loro insieme, rappresenta un brillante esempio di comparte-cipazione. Il favo soddisfa alcune condizioni:

- economizzare spazio a parità di volume mantenendo un ottimale microclima;

- utilizzare materiale (cera) di costruzione prodotto dalle api operaie di notevole resistenza all’effetto dei fattori ambientali (intemperie, ecc.) e questa produzione comporta una notevole economia energetica.

Tali fenomeni di ‘auto-organizzazione’ sono molto presenti anche nei sistemi biologici; Kauffmann (1995) ha ipotizzato, a esempio, che l’ordine biologico si svi-luppi spontaneamente, che esso sia prodotto dall’interno dei sistemi viventi grazie agli stessi principi di auto-or-ganizzazione (leggi della complessità), agenti nei sistemi fisici. All’origine delle configurazioni ordinate dei siste-mi complessi vi sarebbero sistemi in equilibrio dotati di bassa energia e strutture dissipative. Si osserva, quindi, che mentre l’idea che l’auto-organizzazione possa con-correre alla variabilità dei sistemi è un’ipotesi plausibi-le, è, invece, già dimostrato che solo l’interazione con l’ambiente esterno determina selettivamente quali tra gli stati del sistema saranno conservati e quali no. Secondo Danchin (1998): ‘la selezione non è sensibile alla strut-tura, ma all’organizzazione’; quindi, l’ambiente non va-luta direttamente le strutture, ma le loro organizzazioni attraverso il loro funzionamento.

L’organizzazione, l’individualità e la razionalità non sono, solo, tre caratteristiche comuni a tutti i sistemi vi-venti, ma sono anche tre diverse manifestazioni della complessità biologica (Forestiero, 2000, 2001).

L’organizzazione. Proprietà fondamentale di tutti gli esseri viventi è quella di essere ‘sistemi organizzati’ (Mayr, 1982, 1998); possedere un’organizzazione signi-fica presentare un certo insieme di relazioni non casuali che assicurano la coerenza interna del sistema; tali re-lazioni sono responsabili dell’unitarietà di ogni sistema vivente e della sua tenuta.

L’individualità. Essa risulta dal fatto che ogni essere vivente non è ripetitivo: l’eterogeneità è la norma (Age-no, 1986). Ogni vivente possiede una propria individua-lità che viene codificata nei segmenti di DNA codificanti

polipeptide/i1 (‘geni’), viene costruita epigeneticamente e viene trasmessa alla discendenza. L’unicità di un indi-viduo è una caratteristica essenziale per l’adattamento (fitness, capacità al costruttivismo) della popolazione a un ambiente perennemente mutevole.

L’individualità dei sistemi biologici ha duplice na-tura: essa è ‘con-causa’ ed ‘effetto’ dell’evoluzione. La più appariscente conseguenza dell’individualità è la di-versità biologica o biodiversità.

La capacità del ‘sistema biologico’ di conservare la sua ‘identità’ è identificabile con la ‘resilienza’ , intesa come la “capacità di un sistema biologico di ripristinare normalmente, continuamente e dinamicamente, nel tem-po e nello spazio, lo ‘status’ preesistente all’effetto di una perturbazione” (Matassino et al., 2007b).

Ribadendo quanto riportato da Matassino et al. (2007b), dal punto di vista dinamico, un sistema ‘com-plesso’ è caratterizzato dalla presenza di ‘caos determi-nistico’. La scoperta del ‘caos deterministico’ mostra come i modelli matematici di tipo ‘deterministico’ siano in grado di generare andamenti complessi, sotto molto aspetti imprevedibili, tanto da risultare indistinguibili da sequenze di eventi generati da processi aleatori. Una ca-ratteristica nella fisiologia cellulare è la presenza di mec-canismi ‘anti-caos’: il ‘caos’ comporta un aumento di ‘entropia’, ovvero una variazione positiva della stessa; alcune strutture ‘sovramolecolari’ intracellulari tendono a ridurre o a eliminare il ‘caos’.

La ‘capacità al costruttivismo’ si estrinseca in una se-rie di soluzioni termodinamicamente favorevoli alla fit-ness (idoneità a ‘sopravvivere’ e a‘riprodursi’). Alcune soluzioni sono identificabili in strutture ‘sovramoleco-lari’ che non sarebbero sottoposte a peculiari ‘vincoli’ e permetterebbero un miglioramento dello ‘efficientismo biologico’. La struttura sovramolecolare è caratterizzata dalla formazione di una struttura costituita da più bio-molecole tenute insieme da legami non covalenti, ionici, idrogeno, interazioni idrofobiche e di Van Der Waals, ecc. (struttura flessibile e reversibile). Nella chimica so-vramolecolare si distinguono 2 fasi: riconoscimento e aggregazione. Le strutture sovramolecolari possono in-teragire aggregandosi e dando luogo a un complesso so-vramolecolare ‘funzionale’. Tali complessi sono disposi-tivi plastici strutturalmente modificabili a seconda delle

1 L’acquisizione di conoscenze in merito alle funzioni del DNA sta evidenziando l’utilità semantica di una revisione del termine ‘gene’‘ nel senso di qualunque segmento di DNA che costituisce una ‘unità di trascrizione in RNA”, che riguardi il ‘DNA codificante’ uno o piú polipeptidi

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esigenze fisiologiche cellulari in modo da permettere lo svolgersi dei processi biologici con le stesse ‘sovramo-lecole’ .

Biodiversità: la storia

La tutela della biodiversità ha origini molto antiche: Artaserse I, nel 450 a.C., norma l’utilizzazione delle

foreste di cedro del Libano, imponendo una serie di limi-tazioni nel taglio di questa specie; non è dato sapere, sto-ricamente, almeno fino a oggi, le motivazioni di questa normazione; si può ipotizzare l’eventuale conseguenza negativa del disboscamento sui cambiamenti climatici e sull’erosione del suolo (Matassino, 2004);

Platone, circa 400 anni a.C., (Leggi VIII, 843) preve-de una multa per gli agricoltori proprietari di fondi nei quali si fossero sviluppati incendi con l’intento di dan-neggiare gli alberi dei vicini;

Teofrasto (circa 250 a.C.) coglie la questione del rap-porto fra disboscamento e dilavamento del suolo indivi-duando nell’abbattimento delle foreste del monte Emo da parte dei Galli una delle cause del dilavamento del suolo;

Carlo Magno (fine 700 ÷ 800 d.C.) impose per legge agli agricoltori l’obbligo di coltivare 90 specie di piante in via di estinzione per evitarne la scomparsa;

Osborn (1948), Vogt (1948) e Leopold (1949) evi-denziano la dipendenza dell’uomo dall’ambiente intro-ducendo il concetto di ‘capitale naturale’; in particolare, Leopold suggerisce una profonda revisione nella gestio-ne della ‘terra’ nel senso di utilizzazione di questa con il fine di una seria ‘conservazione’; quindi, ‘la terra’ è una ‘comunità’ a cui l’uomo appartiene e ove egli deve ‘abitarvi senza saccheggiarla’ e, pertanto, è necessario sviluppare fortemente il concetto di una vera e propria ‘Land Ethics’, le cui fondamenta sono i continui ‘saperi’ sui rapporti fra le diverse ‘componenti’ o ‘variabili’ di un ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’);

Sears (1956) richiama l’attenzione sul ruolo fonda-mentale dell’‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregio-ne’) nel riciclo dei nutrienti.

Dopo la Conferenza di Rio de Janeiro (1992), il ter-mine ‘biodiversità’ entra nel lessico italiano. Tra i punti inclusi nella Convenzione viene riconosciuto il valore

‘economico’ e di ‘scambio’ della ‘diversità biologica’, insostituibile fonte di materia prima biologica per l’agri-coltura. Tale valore non può essere reso disponibile a chiunque, quindi la ‘diversità biologica’ non costituisce un’‘eredità comune’ dell’umanità, ma una ‘sovranità nazionale’.

Nel 1960, in Europa si fa strada la consapevolezza che è in atto un’erosione delle risorse genetiche animali (Animal Genetic Resources, AnGR) di interesse zootec-nico, per cui inizia un cammino per dare molta enfasi alla preservazione, o meglio, alla tutela dei tipi genetici in pericolo di estinzione.

Nel 1980, la Federazione Europea per le Produzioni Animali, FEZ (European Association for Animal Produc-tion, EAAP) istituisce un gruppo di lavoro sulle risorse genetiche animali (Working Group on Animal Genetic Resources, WG-AnGR), il quale amplia il suo interesse a livello di pianeta Terra di concerto con l’Organizzazione dell’Alimentazione e dell’Agricoltura (Food and Agri-culture Organization , FAO).

Sia il mondo scientifico italiano che, successivamen-te, il Governo nazionale recepiscono pienamente l’ap-pello della FAO (incontro sull’esplorazione delle risorse vegetali, 1961) che richiama l’attenzione sull’importan-za della conservazione delle risorse genetiche mettendo a punto, per la parte animale, un Progetto Finalizzato (PF) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) dal titolo “Difesa delle risorse genetiche delle popolazioni animali”. Questo PF, della durata di cinque anni, attivato nel 1976, porta all’istituzione di un organo specifico del CNR, l’Istituto per la Difesa e la Valorizzazione del Ger-moplasma Animale (IDVGA) di Milano, attualmente Istituto di Biologia e di Biotecnologia Agraria (IBBA).

A partire dal 1983, nell’ambito del CNR, viene costi-tuito un ‘Gruppo di ricerca per il monitoraggio, la di-fesa e la valorizzazione della risorsa genetica animale nazionale’.

Il Governo italiano, con DDLL n. 752 del 8.11.1986 e n. 201 del 10.7.1991, legifera sulla salvaguardia econo-mica e biogenetica delle razze a limitata diffusione, anti-cipando la Convenzione sulla diversità biologica (CBD) definita in Rio de Janeiro nel giugno 1992, in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite su ‘Ambiente e Sviluppo’ (UNCED).

Il 17.04.1990, il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste (MAF) [oggi Ministero delle Politiche Agri-cole, Alimentari e Forestali (Mipaaf)], con il supporto dell’Associazione Italiana Allevatori (AIA) e del Comu-

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ne di Circello (BN), istituisce il Centro Nazionale per la Salvaguardia del Germoplasma degli Animali in Via di Estinzione (CESGAVE).

Nel 1992, questo Centro viene inglobato nel Con-sorzio per la Sperimentazione, Divulgazione e Appli-cazione di Biotecniche Innovative (ConSDABI), i cui Soci Fondatori sono: l’Associazione Italiana Allevatori (AIA), la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Benevento (CCIAA) e il Comune di Cir-cello (BN).

Attualmente, il ConSDABI è costituito da Soci Ordi-nari: l’Associazione Italiana Allevatori (AIA), il Comu-ne di Circello (BN), la CCIAA di Benevento e la Provin-cia di Benevento e da Soci Sostenitori: l’Associazione Nazionale Allevatori Frisona Italiana (ANAFI) e il prof. Donato Matassino.

Nel 1994, la FAO, nell’ambito della Strategia Glo-bale per la Gestione delle Risorse Genetiche Animali (GS.FAO.MANGR, Global Strategy for Management of Animal Genetic Resources), istituisce una Commis-sione sulle Risorse Genetiche per l’Alimentazione e per l’Agricoltura (CGRFA, Commission on Genetic Re-sources for Food and Agriculture) ed i National Focal Point (NFP).

Nel 1994, il Governo Italiano accredita, presso la FAO, il ConSDABI come National Focal Point Italiano (NFP.I.).

Nel 1995, si realizza il DAD-IS (Domestic Animal Diversity - Information System = Sistema Informativo Globale sulla Biodiversità) della FAO.

Nel 1996, i vari Coordinatori dei National Focal Point auspicano la fondazione di un Focal Point regionale eu-ropeo (ERFP, European Regional Focal Point) diventato operativo nel 2001 per svolgere attività di:

promozione di cooperazione tecnica basata su piani coordinati di tutela delle risorse genetiche animali, con particolare riferimento ai tipi genetici transfrontieri di interesse zootecnico;

mobilizzazione di risorse finanziarie per progetti eu-ropei;

comunicazione tra i vari NFP entro l’Europa e tra i vari RFP- FAO a livello globale;

queste decisioni sono il risultato, in particolare, di due meeting EAAP-FAO (Vienna, 1997 e Varsavia, 1998).

Il Ministero delle Politiche agricole alimentari e fore-stali (Mipaaf) per far fronte agli impegni internazionali, oltre a istituire il Comitato Nazionale delle Risorse Fito-genetiche (D.M. n. 28633 del 10 dicembre 1997), pro-

muove anche un’azione di coordinamento delle attività legate alle Risorse Genetiche Vegetali (RGV) condotte all’interno del Consiglio per la Ricerca e la sperimenta-zione in Agricoltura (CRA), istituito con il D.L. n. 454 del 29 ottobre 1999 e sottoposto alla vigilanza del Mi-PAF (ora Mipaaf). Il ‘Focal Point’ dell’azione di coor-dinamento sulle risorse genetiche vegetali è individuato nell’ex- Istituto Sperimentale per la Frutticoltura (ISF), che, dal 1995, assume un ruolo di polo di riferimento per il Mipaaf, sia a livello internazionale che nazionale per quanto riguarda le RGV. Il progetto finalizzato ‘Risorse Genetiche Vegetali’ riguarda l’armonizzazione dell’atti-vità di collezione, di conservazione, di caratterizzazione, di valutazione e di documentazione delle risorse geneti-che vegetali.

Presso gli IRSA (Istituti di Ricerca sulle Acque), il CNR, le Regioni (Registro Volontario Regionale, RVR), l’AIA (Libro Genealogico e Registro Anagrafico2) e gli Istituti Universitari sono tutelati un numero elevato di specie e di accessioni. Il germoplasma tutelato è oppor-tunamente tipizzato sulla base di descrittori molecolari, somatici e qualitativi in accordo con le ‘linee guida’ in-ternazionali.

L’UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization = Organizzazione delle Na-zioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura), a partire dal 1950, rivolge grande attenzione alle proble-matiche biologiche, con particolare riguardo alla nozione di razza. Questo interesse si concretizza con le ‘Proposi-zioni sugli aspetti biologici della questione razziale’ del 1964 e con la ‘Dichiarazione sulla razza’ del 1978. Nel 1993, l’UNESCO costituisce il ‘Comitato Internazionale di Bioetica’ sul modello della ‘Dichiarazione Universa-le’ del 1948 e, nel novembre del 1997, adotta all’unani-mità la ‘Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo’. L’UNESCO evidenzia un aspetto im-portantissimo: responsabilità della conservazione della vita sulla Terra in capo a ogni generazione che, riceven-do da quella precedente, temporaneamente, la Terra in eredità, dovrà tramandarla alla generazione successiva. La Conferenza Generale di Parigi (1997) esprime preoc-

2 Già Matassino D., nel 1979, auspica l’istituzione di un ‘Registro Anagrafico’ riportante parametri riproduttivi e produttivi di ciascun Tipo Genetico Autoctono (TGA) e di ciascun Tipo Genetico Autoc-tono Antico (TGAA) al fine di una migliore utilizzazione e valo-rizzazione spazio - temporale del germoplasma autoctono. L’Italia istituisce il primo Registro Anagrafico del pianeta Terra nel 1985 per i bovini, nel 1997 per gli ovi-caprini, nel 2001 per i suini autoc-toni e nel 2003 per gli equidi.

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cupazione “per la sorte delle generazioni di fronte alle poste in gioco vitali del prossimo millennio e la coscien-za che, in questa tappa della storia, l’esistenza stessa dell’umanità e il suo ambiente si trovino minacciati”, per questo avverte “la necessità di legami nuovi, equi e globali, di partenariato e di solidarietà tra generazioni, cosí come di promuovere la solidarietà intergenerazio-nale per la continuità dell’umanità”. Per l’affermazione di questi principi e “nel convincimento che un imperati-vo morale imponga di formulare, nei riguardi delle ge-nerazioni presenti, regole di condotta in una prospettiva aperta sull’avvenire”, la Conferenza Generale proclama, solennemente, nella ‘Dichiarazione sulle responsabilità delle generazioni presenti verso quelle future’, all’art. 6: “Genoma umano e biodiversità: il genoma umano, nel rispetto della dignità della persona umana e dei diritti dell’uomo, deve essere sempre protetto e la biodiversità sempre salvaguardata. Il progresso scientifico e tecnico non dovrebbe nuocere alla conservazione della specie umana e delle altre specie, né comprometterla in alcun modo” (Mazziotta, c.p.).

Biodiversità: il valore

La biodiversità viene definita dalla Commissione Eu-ropea per l’Agricoltura (DG AGRI,1999) come: “…la variabilità della vita e dei suoi processi includente tutte le forme di vita, dalla singola cellula agli organismi più complessi, a tutti i processi, ai percorsi e ai cicli che col-legano gli organismi viventi alle popolazioni, agli ecosi-stemi e ai paesaggi”.

La biodiversità, intesa come espressione di una ‘di-versità di informazione genetica e/o epigenetica’, può essere considerata una vera e propria, se non unica, ‘ric-chezza reale’ (Matassino, 1992).

È la variabilità biologica la fonte inesauribile e rin-novabile da cui attingere le informazioni necessarie per realizzare uno sviluppo sostenibile dinamico nel tempo e nello spazio di un bioterritorio’, quindi delle relative attività produttive.

Con l’introduzione del concetto di ‘diversità geneti-ca’ si completa quello che, a livello teorico, viene defi-nito il ‘trittico della diversità biologica’ :

‘diversità tassonomica’ intesa come numero di specie

presenti in un dato habitat; ‘diversità ecologica’ intesa sia come numero di spe-

cie presenti sia come entità delle interazioni reciproche tra gli organismi e di questi ultimi con l’ambiente;

‘diversità genetica’.Come già evidenziato altrove (Matassino, 1992), la

‘diversità ecologica’ sta assumendo sempre più impor-tanza per la sopravvivenza sia dell’uomo che degli altri esseri viventi. La mera tutela di un gruppo tassonomico sta evidenziando tutta la sua labilità: è la vita di un ‘eco-sistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’) funzionante e funzionale che, utilizzando la sua mirabile dote autorga-nizzativa basata su una irriducibile complessità biologi-ca, permette di tutelare la biodiversità.

Haechel (1866) definisce l’ecologia: “lo studio dei rapporti complessivi tra organismi o gruppi di organi-smi e il loro ambiente naturale, organico, fisico e inor-ganico, specialmente per quanto concerne i rapporti ‘af-fabili’ o ‘avversi’’’. Hutton (1785) definisce la Terra un ‘superorganismo’ dotato di innumerevoli e funzionanti ‘sistemi autoregolatori’ sfocianti in un ‘olismo’ di antica concezione induista. Questa concezione si concretizza nella teoria di ‘Gaia’ (il concetto di Gaia è stato introdot-to per la prima volta da Lovelock nel 1972 e poi amplia-to dallo stesso Autore in collaborazione con Margulis nel 1974) che considera il pianeta Terra un unico sistema paragonabile a un ‘organismo omeostatico’, quindi ca-pace di ‘autoregolazione’ e di ‘mantenimento dinamico delle condizioni necessarie alla propria sopravvivenza’. Questa teoria si basa sul modello matematico ‘Pianeta delle Margherite’ (Daisyworld, Watson et Lovelock, 1983). Solo la presenza di vita permette al pianeta Terra di sopravvivere, purché il rapporto ‘uomo-natura’ si rea-lizzi sempre in una visione ‘olistica’, come l’esploratore tedesco Von Humboldt (1804) evidenzia nella sua tesi di ‘interdipendenza tra l’umanità e le altre forze dell’uni-verso’. Anche il pianeta Terra può essere considerato un vero e proprio ‘sistema biologico aperto dinamico vin-colato neghentropico’ (Bertalanffy, 1940; Bettini, 1970; Matassino, 1978, 1984, 1989). Qualche esempio: si rile-va in India e in Asia meridionale una forte riduzione di alcune specie di avvoltoi la cui presenza è indispensabile per la ‘bonifica’ del ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’ dalle carcasse bovine; la presenza di centinaia di migliaia di carcasse non utilizzate è responsabile di un forte incre-mento di cani randagi con un conseguente aumento della diffusione dell’antrace e della rabbia; questa diffusione sta causando effetti nefasti sul benessere delle popola-

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zioni umane viventi di quei ‘bioterritori’o ‘bioregioni’. I ricercatori stanno scoprendo che questi uccelli vengono uccisi da un famoso ‘principio attivo antinfiammatorio’, il ‘diclofenac’, somministrato ai bovini; ‘principio at-tivo’ che negli avvoltoi è responsabile di insufficienza renale. Questo esempio illumina i collegamenti esistenti tra il ‘benessere umano’ e la ‘tutela di una specie in via di estinzione’. In chiave sistemica, il danno a un singolo ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’) può riper-cuotersi negativamente su un altro sito anche lontanissi-mo dal primo e su coloro che vivono nell’ ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’) danneggiato. È in atto una nuova strategia di visione e di salvaguardia degli ecosistemi: tutelare la biodiversità inserita in un dato ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’) al fine di proteggere al massimo possibile la risorsa endogena di un ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’ preservando contempo-raneamente la salute degli esseri umani inseriti in quell’ ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’). Questa strategia trova il suo punto focale nei cosiddetti ‘servizi dell’ecosistema’ e si diversifica, se non si contrappone, a quella degli Hot Spot (punti caldi) basata principalmente sull’individuazione di aree minacciate ricche di diversità vegetale da salvaguardare, non considerando l’entità del-le specie animali presenti e il ruolo di questi come fonte di risorsa endogena per le popolazioni umane indigene. La strategia dei ‘servizi dell’ecosistema’ si concretizza nel quantificare il capitale naturale (biodiversità) e nel considerare il suo uso come un ‘servizio dell’ ecosiste-ma’ [termine coniato da Ehrlich et Ehrlich (1970) e lar-gamente divulgato da Daily (1997), tutti della Stanford University]. Anche se il termine ‘servizio dell’ecosiste-ma’ è piuttosto recente, la consapevolezza dell’impor-tanza dell’‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’) nel fornire benefici all’umanità.

Nell’ attribuire un valore economico al ‘capitale na-turale’, la stima considera numerose variabili interes-santi:

- servizi di ‘fornitura’ (alimenti di origine animale e vegetale, precursori della farmaceutica, ecc.);

- servizi di ‘regolazione’ (clima e sue variazioni, ecc.);

- servizi di ‘supporto’ (impollinazione, diffusione di semi, gestione delle acque, controllo di malattie, difesa del suolo, ecc.);

- servizi ‘psico-culturali’ [sensazione del benessere spirituale degli esseri umani interessati a un determinato ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’), scoperte

scientifiche, uso del tempo libero, ecc.)]; - servizi di ‘conservazione’ (tutela e gestione della

risorsa genetica endogena mirata specialmente a mante-nere elevato il livello di biodiversità).

Non essendo questa la sede per un approfondimento della problematica connessa a tali servizi, si può eviden-ziare come la nuova strategia si orienti sempre di più nel considerare la variabile ‘antropica’ fondamentale per la tutela della biodiversità di un ‘ecosistema’ (o ‘bio-territorio’ o ‘bioregione’) nel senso che questa variabi-le deve svolgere sempre di più un ruolo ‘protagonista’ nel perseguire scelte le quali, favorendo la salvaguardia della biodiversità, determinino una tutela del ‘benessere fisico, psichico e sociale’ della popolazione umana in-teressata. In conclusione, si potrebbe dire che la vita di un ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’ si deve svolgere nello spirito del ‘pleroma’ di San Paolo memoria, ampiamente ripreso da Sant’Agostino. Infatti, la biodiversità non è la semplice somma del numero di specie che popolano il pianeta Terra, ma è indice di ‘covariazione’; nel senso che tutte le specie che popolano un determinato ‘micro-agroecosistema’ (‘bioterritorio’ o ‘bioregione’), sempre ‘dinamico’ nel tempo, si influenzano reciprocamente, ri-sentono dell’effetto dei fattori ‘abiotici’ e rappresentano, anche, il frutto di trasferimenti ‘naturali’ di segmenti di DNA codificanti polipeptide/i (‘geni’) sottoposti a ‘veri-fiche combinatorie’ di lunga durata (Matassino, 2003). Come riportato in Matassino (2005), l’immensa riserva di arsenale informativo dei sistemi biologici suggerisce che qualsiasi sistema biologico (dal microrganismo a una biocenosi) va considerato sempre e solamente nel contesto della sua vita di relazione con gli altri sistemi biologici viventi e con il microambiente circostante. La complessità delle suddette relazioni si rende evidente già a livello di interazioni molecolari; a esempio, le intera-zioni tra i recettori dei linfociti T e i relativi antigeni non sarebbero casuali, ma interdipendenti nel senso che vi è una vera e propria cascata sequenziale di eventi: il ve-rificarsi di una interazione fa aumentare la probabilità che ne avvenga un’altra; pertanto, i linfociti sarebbero dotati di una ‘memoria molecolare’ che potrebbe con-tribuire a spiegare la capacità delle cellule immunitarie di distinguere ciò che appartiene all’organismo (self) da ciò che è estraneo a esso (non self) (Zarnitsyna et al., 2007). Complesse sono le interazioni che si instaurano tra i microrganismi che vivono in comunità (biofilm o co-biofilm); i batteri che vivono in gruppo possono assu-mere caratteristiche che non possiedono come singoli in-

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dividui. Infatti, recentemente è stato scoperto (Stoodley et al., 2002; Hall-Stoodley et al., 2004) che nelle popo-lazioni di batteri ‘comunitari’ si sviluppa rapidamente un notevole grado di diversità grazie al fattore ‘conviven-za’. Un esempio di acquisizione di nuove caratteristiche è l’insorgere di una maggiore tolleranza agli antibiotici: il batterio Pseudomonas Aeruginosa, quando è presente in biofilm, può manifestare una resistenza agli antimi-crobici fino a 1000 volte piú elevata rispetto al batte-rio che vive singolarmente. La diversificazione sarebbe responsabile delle migliorate capacità di sopravvivenza di tali popolazioni microbiche; a esempio, nel suddetto microrganismo si evidenzia che la capacità del biofilm di resistere a stress ossidativo sperimentalmente indotto è dovuta alla presenza di un nuovo ceppo batterico speci-fico comparso nel biofilm e assente nel batterio vivente allo stato libero. La comunicazione tra i batteri raggiun-ge livelli di sofisticazione tali da modulare la dimensione delle colonie inducendo suicidi ‘sacrificali’; a esempio, Kolodkin-Gal et al. (2007) evidenziano che il batterio Escherichia coli in colonie sottoposte a condizioni di stress (sovraffollamento, carenza di nutrienti, presenza di virus o di antimicrobici) mette in atto un meccanismo biochimico mediato da un pentapeptide, noto come ‘fat-tore di morte extracellulare’ (EDF, Extracellular Death Factor) che provoca la morte del batterio stesso; tale meccanismo consente alla colonia di reagire allo stress riducendo la propria densità. Questo ‘suicidio’ cellula-re, analogo all’‘apoptosi’ o ‘morte programmata’ della cellula degli organismi pluricellulari, assume particolare significato nel contesto della vita del batterio in colo-nia; infatti, il sacrificio di alcuni individui consente la sopravvivenza dell’intera colonia e, quindi, maggiore probabilità di perpetuazione della specie. Nella vita di relazione fra gli esseri viventi presenti in un determina-to ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’) viene anche ipotizzata una vera e propria ‘compensazione fun-zionale’ che, concettualmente, può identificarsi con la ‘ridondanza ecologica’ (Lawton et Brown 1994) , quin-di ogni specie vivente svolge una determinata peculia-re funzione opportunamente relazionata a quella di altri esseri viventi co-presenti. Pertanto, si può dedurre che il funzionamento di un ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’) richieda una co-presenza funzionale di va-rie entità biologiche, le quali, però, autonomamente evi-denziano, come si esprime il paleoantropologo Coppens (2008), “un ‘desiderio’ di ‘complicazione’ e di ‘orga-nizzazione permanente’ con il risultato di incrementare

continuamente la ‘potenza’ di diversificazione ‘meravi-gliosamente inventiva’”. Infatti, i risultati del progetto ENCODE (ENCyclopedia Of DNA Elements = Enciclo-pedia degli Elementi presenti nel DNA) (Birney et al., 2007) confermerebbero l’esistenza del ‘magazzino’ di ‘variabilità genetica latente’ ipotizzato da Waddington (1942, 1953, 1957). Tale variabilità porterebbe alla con-siderazione di un’attitudine degli organismi viventi a poter ‘pescare’ entro la gamma di mutazioni casuali (?) conservate quella ‘giusta’ al ‘momento giusto’. L’ipote-si della ‘compensazione funzionale’ viene, in parte, in-tegrata da quella propria del modello ‘rivet’ (modello dei ‘rivetti’) (Ehrlich et Ehrlich, 1981), nel quale i vari componenti biologici di un ‘ecosistema’ (o ‘bioterrito-rio’ o ‘bioregione’) vengono paragonati alle connessioni tra loro delle lamiere di un’ala di un aeroplano che sono fondamentali per il funzionamento dell’intera struttura. La perdita di un componente biologico qualsiasi costi-tuisce un ‘punto critico’ per il funzionamento dell’‘eco-sistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’). In chiave economica (effetto ‘portafoglio’), Tilman et al. (1997) paragonano la biodiversità all’investimento di risorse fi-nanziarie in modo diversificato per minimizzare la ‘vola-tilità’ dell’investimento stesso. In chiave di rischio per la stabilità dei ‘servizi dell’ecosistema’, la ‘diversità di ri-sposta’ delle componenti biologiche dell’‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’) riduce l’effetto negativo dipendente da una data perturbazione ambientale. Infat-ti, Elmovist et al. (2003) evidenziano che le differenziali risposte esibite da un’entità biologica di un ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’) a una data perturbazio-ne ambientale, siano foriere di una funzione di stabiliz-zazione dell’integrità di un ‘servizio dell’ ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’).

Il concetto che la diversità e la vita di relazione a essa associata possono migliorare il funzionamento di alcuni tipi di comunità è nota anche come ‘ipotesi dell’assicu-razione’ (Insurance Hypothesis), secondo la quale l’au-mento di biodiversità protegge gli ecosistemi (o ‘bioter-ritori’ o ‘bioregioni’) dai danni prodotti da variazioni dell’ambiente; tale ipotesi è equivalente al concetto di ‘complementarietà di nicchia’ (‘niche complementary’), per cui esiste una correlazione positiva tra produttivi-tà di un ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’) e biodiversità qualora le specie che popolano l’‘ecosi-stema’ utilizzino risorse differenti in maniera completa. La differenziazione genetica di una popolazione ha un grande significato di efficienza ‘biologica’ nel senso sia

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di utilizzare meglio le risorse dell’ambiente in cui la po-polazione vive (un esempio potrebbe essere dato dagli animali al pascolo) sia di esaltare la capacità riprodutti-va degli individui componenti la ‘comunalità’, quindi di influenzare positivamente la ‘capacità al costruttivismo’ di un organismo nell’ambiente in cui vive (Matassino, 1978). Nell’alpeggio le risorse pabulari sono utilizzate in maniera completa da camosci, stambecchi e bovini; in-fatti, nella distribuzione spaziale altitudinale delle specie pascolative durante la stagione estiva, il camoscio tende a utilizzare le risorse arbustive in crescita (germogli), lo stambecco le risorse erbacee e il bovino, a causa della massa corporea, tende a utilizzare il pascolo erbaceo del-le zone pianeggianti. Il bovino, grazie al pascolamento, favorisce la ricrescita delle risorse erbacee, garantendo una disponibilità di risorse alimentari per la successiva stagione autunnale (Matassino, 2005).

I numerosi cambiamenti avvenuti nella gestione delle popolazioni da reddito (animali e vegetali), in relazione alla crescita globale della popolazione umana e ai cam-biamenti delle abitudini alimentari di questa, hanno por-tato a una intensificazione dei sistemi di allevamento/coltivazione in determinate aree, specialmente dei Paesi Sviluppati (PS). Effetto di questa strategia è l’utilizzazio-ne di pochi tipi genetici entro le specie allevate/coltivate. Conseguentemente, la variabilità genetica è minacciata. La minaccia di un’erosione genetica e le relative cause sono molto differenti in relazione alla specie considera-ta. Si sottolinea che la diversità biologica è la conditio sine qua non per sostenere, ad alti livelli, la flessibili-tà biologica di un tipo genetico, oltre che per favorire uno sviluppo sostenibile delle numerose aree rurali spe-cialmente nei Paesi Meno Sviluppati (PMS). Inoltre, la biodiversità è lo strumento principe che permette alla natura di sincronizzarsi alla velocità dei cambiamenti ambientali; pertanto, essa costituisce contemporanea-mente l’anello di congiunzione con il passato e la base del divenire biologico. Qualunque sistema biologico va, sempre, considerato in chiave ‘sistemica’, nel senso di mutue relazioni funzionali che possono identificarsi con un vero e proprio comportamento di tipo cibernetico (Matassino, 1978, 1984, 1989).

Accanto alla diversità dell’uomo, o biodiversità uma-na, oggi il mondo della scienza pone molta attenzione alla biodiversità animale di interesse zootecnico, in par-ticolare, alla biodiversità di quelle popolazioni animali antiche che rappresentano il risultato di modificazioni biologiche prodottesi in centinaia o in migliaia di anni;

grazie a queste modificazioni si raggiungono livelli di-versificati di ‘capacità individuali al costruttivismo’ en-tro una data popolazione. Il differente livello medio di ‘capacità al costruttivismo’ di una popolazione si estrin-seca in una variabile dimensione temporale della sua at-titudine a conservarsi nel tempo e nello spazio. Infatti, questa ‘capacità al costruttivismo’ può essere interpreta-ta come una variabile tendenza degli organismi a parte-cipare attivamente alla costruzione, o alla composizione, di un determinato ‘ecosistema’ (o ‘bioterritorio’ o ‘bio-regione’), grazie alle dinamiche e continue modificazioni genetiche e fenotipiche al fine di instaurare un rapporto vitale con l’ambiente in cui gli esseri viventi sono inse-riti e operano, in grado di ottimizzare dinamicamente la loro fitness. In altre parole, ogni individuo e ogni gruppo d’individui tendono continuamente a raggiungere equi-libri ‘olistici ottimali’ sulla base della loro ‘dote’ epige-netica che viene utilizzata ‘in toto’ in chiave cibernetica. Dalle precedenti brevi considerazioni scaturisce, ovvia-mente, che una politica seria di tutela della biodiversità costituisce un percorso sempre più da seguire, attuando strategie innovative, compreso l’uso di tecniche e di bio-tecniche basate su solide conoscenze biologiche.

Biodiversità animale: rischio di estinzione

Negli ultimi 3 ÷ 400 anni si è avuto un continuo in-cremento della sensibilità dell’uomo verso un approfon-dimento del concetto di ‘protezione della natura’; spe-cialmente nel 19. secolo, grazie al geografo esploratore tedesco Von Humboldt che formulò la tesi della ‘inter-dipendenza tra l’umanità e le altre forze dell’universo’, si accentua sempre di piú l’attenzione verso il rapporto ‘uomo-natura’ in una visione ‘olistica’ dell’universo.

Wilson stima, nel 1988, una frequenza di 17.500 estinzioni per anno su una valutazione di specie viventi variabile fra i 4 e 10 milioni.

La FAO, nel 1992, stabilisce le classi di ‘rischio’ di estinzione di un TGA e/o TGAA, indipendentemente dal-la specie, considerando il numero di femmine in ripro-duzione (non viene preso in considerazione il numero dei maschi vivi in quanto, dato l’uso dell’inseminazione strumentale, l’indicazione dello stesso sarebbe limitati-va):

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normale: >10.000;rara: 5000 ÷ 10.000;vulnerabile: 1000 ÷ 5.000;in pericolo: 100 ÷ 1.000 ;critica: < 100;estinta: 0.Tali classi di rischio sono calcolate in base alla valu-

tazione della popolazione genetica o effettiva (Ne) che si calcola come segue:

Ne= 4 x N m x N fN m + N fdove:Nm = numero dei maschi in età riproduttivaNf = numero di femmine in età riproduttiva.Successivamente (Scherf, 2000, Tab. 1), sono state

riviste le categorie di rischio da parte della FAO sulla base di indicazioni fornite dall’Associazione Europea di Produzione Animale (EAAP) nel 1998 (Tab. 2).

Categoria di rischio ∆F superioreai 50 anni*

Criticamente in pericolo o danneggiata >40 %

In pericolo 26 ÷ 40 %

Moderatamente in pericolo 16 ÷ 25 %

Possibilmente in pericolo 5 ÷ 15 %

Non in pericolo <5 %

Categoria di rischio

Numero diValutazioni aggiuntive

femmine (F) Maschi (M)

Totale (F + M)

Estinta 0 0 Impossibilità di ricostituire la popolazione

Critica <100 <5 <120 e in diminuzione e < 80% in purezza

Critica stabile Critica + conservazione o programmi di allevamento commerciale in situ

In pericolo <1000 <20

- tra 80 e 100, in aumento, >80% in purezza

- tra 1.000 e 1.200, in decremento, <80% in

purezza

In pericolo – stabile

In pericolo + conservazione o programmi di allevamento commerciale in situ

Non a rischio >1000 >20 >1.200, in aumento Assenza di altre applicazioni di valutazioni

Tabella 2. Categoria di rischio (FAO, Scherf B., 2000).

Tabella 1. Categoria di rischio basata sul valore di inincrocio (F) usato dall’EAAP (1998).

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La Comunità Europea su proposta dell’ERFP (Euro-pean Regional Focal Point = Focal Point Regionale Eu-ropeo), nel 2002, con il Regolamento (CE) n. 445/2002 della Commissione del 26 febbraio 2002, art. 14, stabili-sce la soglia limite al di sotto della quale una popolazio-ne autoctona (TGA / TGAA) è considerata minacciata di abbandono:

Tabella 3. Criteri per il riconoscimento di una popo-lazione autoctona come minacciata di abbandono (Reg. CE n. 445/2002).

Specie Animale

Soglia limite(femmine riproduttrici)**

NBovina 7.500Ovina 10.000Caprina 10.000Equina 5.000Suina 15.000Volatile 25.000

Alla luce dei suddetti criteri, assume notevole impor-tanza il monitoraggio della risorsa genetica animale in termini di consistenza.

Nel 2007, il DAD-IS è integrato con l’EFABIS (Eu-ropean Farm Animal Biodiverity Information System = Sistema Informativo sulla Biodiversità Animale Euro-pea). Per l’Italia, il ConSDABI NFP.I. - FAO procede annualmente a inserire nel database dell’EFABIS i dati di consistenza del germoplasma animale di interesse zo-otecnico.

Biodiversità animale: la tutela

La tutela della biodiversità animale endogena o au-toctona, con particolare riferimento a quella di interesse zootecnico, riveste un ruolo fondamentale per le seguen-ti motivazioni: biologica, socio-economica, culturale, giuridica ed etica.

La tutela: motivazione biologica

Un animale non è identificabile solo con la sua fun-zione riproduttiva e con quella produttiva, ma è porta-tore di informazioni importanti dal punto di vista biolo-gico-evolutivo, molte delle quali sono ancora poco note per definire la sua ‘individualità’, specialmente alla luce della complessità della struttura e della funzione del ge-noma (Matassino et Pilla, 1976).

Come riportato da Matassino D. et al. (1997a), la comparsa di nuovi fenotipi, per quanto imprevedibile, non è una ‘produzione dal nulla’, ma una trasformazione di ‘precedenti potenzialità’ grazie alla quale gli organi-smi partecipano attivamente alla ‘costruzione’ del mi-croambiente in cui vivono; nel 1907, Bergson propone, nell’opera ‘L’èvolution crèatrice’, il termine ‘creativo’ nel senso di ‘èlan vital’ (slancio vitale) per indicare ‘la capacità di produrre un flusso continuo di novità evolu-tive’. La diversità biologica è l’unica che può permette-re, domani, di disporre di ‘informazioni genetiche’ atte a favorire la ‘capacità al costruttivismo’ degli esseri vi-venti in occasione di cambiamenti, oggi imprevedibili, sia delle condizioni ambientali sia delle esigenze di mo-lecole ‘bioattive’ con funzione ‘nutrizionale’, ‘extranu-trizionale’ e ‘salutistica’ per l’uomo.

La sovrapposizione concettuale tra ‘risorsa genetica’ e ‘diversità biologica’ o ‘biodiversità’ è piuttosto recen-te e si riferisce alla variabilità misurata entro e tra le specie in termini di variazione tra segmenti di DNA co-dificanti o ‘polipeptide/i’ (‘geni’) o non ‘polipeptide/i’ e tra ‘amminoacidi’. Questa variabilità è legata al com-portamento delle componenti strutturali del DNA in una visione sistemica: funzionamento istante per istante e trasmissione di informazioni nel corso del tempo e delle generazioni (sovrapposte).

Matassino et al. (2007b) riferiscono che la motivazio-

* L’attribuzione di un TG in via di estinzione a una determinata categoria di rischio può variare in relazione, anche, ad alcuni dei seguenti elementi: percentuale di soggetti iscritti al Libro Genealogico, incidenza dell’en-tità di scambio di soggetti tra allevamenti, percentuale di soggetti di ‘razza pura’, consistenza di soggetti im-migrati e numero di aziende allevanti TG/popolazioni in via di estinzione.

** Il numero delle femmine in riproduzione è con-siderato a livello di Unione Europea e non di singolo Paese

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ne biologica è ulteriormente avvalorata dai primi risultati conseguiti nell’ambito del progetto ENCODE (Birney et al., 2007); tale progetto, condotto su circa l’1% (29.998 kilobasi) del genoma umano opportunamente suddiviso in 44 regioni genomiche, sta fornendo un eccellente con-tributo nell’effettuare opportuni confronti di sequenze intra e inter specie, nonché nell’esplorare le funzioni di quelle regioni genomiche oggetto degli studi compara-tivi, al fine di attribuire un significato ‘funzionale’ alle varie regioni prese in esame.

Alla luce delle precedenti evidenze, si ipotizza che i componenti del genoma opererebbero attraverso cascate di segmenti di DNA organizzate in reti (‘network’) molto complesse ove i segmenti di DNA ‘strutturali’ agirebbe-ro sulla base delle istruzioni fornite dai segmenti di DNA ‘regolatori’ disposti a differenti livelli, tenendo presente che uno stesso segmento di DNA può assolvere sia la funzione ‘regolatrice’ che quella ‘strutturale’. Con par-ticolare riferimento agli aspetti funzionali del genoma, la rete di messaggi molecolari in un organismo, complicata da fenomeni quali la biforcazione dei segnali, la retroa-zione (feedback) e la diafonia (cross talk), è paragona-bile a un ‘sistema di circuiti’ in cui i segmenti di DNA con funzione regolativa agirebbero da ‘commutatori’ o da ‘interruttori’ (switch) che ‘accendono’ o ‘spengono’ l’attività trascrizionale.

Il sequenziamento del genoma umano, a oggi anco-ra incompleto, evidenzia la notevole complessità dello stesso.

I tipi genetici, apparentemente meno competitivi, possono essere portatori di segmenti di DNA ‘distintivi’ (a esempio coinvolti nella resistenza a malattie) di valore potenzialmente elevato per il benessere animale e uma-no da utilizzare per l’introgressione3, con strategie tradi-zionali o mediante la transgenia, in razze cosmopolite a elevata efficienza produttiva .

Le leadership europee della ricerca nel settore della risorsa genetica animale sono in grado di mettere al ser-vizio degli altri Paesi Europei le loro esperienze.

Le tecniche di base per andare incontro alle sfide e alle opportunità esistenti sono già disponibili,ma neces-sitano di ulteriori sviluppi con particolare riferimento alle aree di seguito riportate:

3 L’introgressione consiste nell’ inserimento di un nuovo segmento di DNA codificante polipeptide/i (‘gene’) in una popolazione me-diante l’incrocio tra due popolazioni : (a) la popolazione portatrice del segmento di DNA ‘di interesse’; (b) la popolazione da migliora-re; l’incrocio è seguito da reincroci ripetuti con la popolazione che ha incorporato il segmento di DNA ‘di interesse’ .

screening sistematico degli assetti genetici poten-zialmente ‘distintivi’ in tipi genetici (danneggiati), sulla base di: sequenziamento, genotipizzazione con approcci ad alta efficienza e genomica comparativa;

tecniche riproduttive per scopi commerciali e di con-servazione (extra situ);

strategie per la rivitalizzazione delle aree rurali , in-cludendo i sistemi produttivi animali peculiari e i tipi genetici a essi associati; tali strategie dovrebbero essere basate sul valore economico totale di un tipo genetico.

Motivazione socio-economica I TGA e i TGAA, per lo piú allevati in aree ‘margina-

li’ dove il modello di produzione intensivo non può esse-re applicato in assenza dei presupposti economici che lo rendano conveniente, sono gli unici a poter esprimere un proprio ruolo zootecnico, in considerazione della propria capacità a produrre, utilizzando quasi esclusivamente le risorse alimentari autoctone pabulari (Matassino et al., 1993).

Matassino (2007b) rileva che la biodiversità può es-sere considerata prodromo indiscusso su cui costruire il complesso edificio della ‘bioeconomia’; teoria che, forse, costituisce il piú vigoroso tentativo di affrontare la complessa problematica dell’economia in chiave di scienza della vita. Il termine ‘bioeconomia’ fu suggerito a Georgescu- Roegen dal cecoslovacco Zeman (1971).

La ‘bioeconomia’ attinge le sue origini dal famoso e sorprendente principio di Marshall A. (1890): l’econo-mia “è un ramo della biologia inteso in senso ampio”. L’ aforisma viene sviluppato da Georgescu- Roegen come “processo economico integralmente inserito nella bio-logia umana” e, direi, non solo in essa. La stretta con-nessione tra ‘economia’ e ‘biologia’ è anche deducibile da alcune osservazioni di Schümpeter (1912): “l’evolu-zione economica si basa sull’insorgenza di innovazio-ni discontinue”; pertanto, le ‘innovazioni effettive’ sono vere e proprie ‘mutazioni’ economiche non-darwiniane. A buon diritto, si può ritenere la ‘bioeconomia’ inseribile nella gamma delle teorie scientifiche piú avanzate, quali a esempio la:

teoria generale dei sistemi di Von Bertalanffy (1940);teoria delle strutture dissipative di Prigogine (1960);teoria di Gaia di Lovelock et Margulis (1974);teoria dell’autopoiesi di Maturana et Varela (1985).Inoltre, la bioeconomia, imitando epistemologica-

mente la Scienza Omica, si propone come un approccio sistemico e interdisciplinare; approccio che deve trova-re nella biologia la scienza di riferimento, essendo gli

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‘eventi economici’ fortemente a comportamento ‘stoca-stico’, come quelli ‘biologici’. Secondo la bioeconomia, per realizzare una società a basso impatto antropico, è necessario che qualsiasi processo economico incorpori il principio dell’entropia affinché si abbia uno sviluppo socialmente sostenibile.

Nel considerare il ‘valore’ della biodiversità è neces-sario prendere in considerazione il suo ‘valore d’uso’ (use o user value) e il suo ‘valore del non uso’ (non - use o non - user value). Il ‘valore d’uso’ si riferisce al valore ‘attuale’ o ‘futuro’ dell’utilizzo della biodiversità per l’umanità, mentre il ‘valore di non uso’ si riferisce al valore ‘intrinseco’ e non strumentale attribuito alla semplice esistenza di un bene o di una risorsa (existence value). L’agricoltura, attualmente intesa come ‘ruralità multifunzionale sostenibile’, è uno dei settori in cui la biodiversità ha un ‘valore d’uso’ tra i piú elevati per le seguenti motivazioni (Matassino, 2005):

rappresenta la conditio sine qua non per la differen-ziazione dei prodotti dal punto di vista del contenuto in ‘biomolecole’ ‘nutrizionali’, ‘extranutrizionali’ e ‘salu-tistiche’;

delinea la base per lo sviluppo di sistemi produttivi a basso input attraverso l’impiego di tipi genetici o di varietà con elevata ‘capacità al costruttivismo’, fonda-mentali per garantire uno sviluppo sostenibile;

costituisce un elemento fondamentale per la valoriz-zazione economica dei territori interessati.

Matassino (2007b) evidenzia che un ‘Prodotto Loca-le Tipizzato Etichettato’ (PLTE) costituisce un esempio illuminante ove l’utilizzazione della biodiversità, lega-ta alla variegata risorsa endogena di un ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’, è elemento insostituibile e fondamenta-le. Non tutta la diversità zootecnica inventariabile deve essere preservata; è difficile effettuare scelte precise e concrete nel salvaguardare un determinato germoplasma a rischio di erosione; tra le varie strategie teoriche, quan-to proposto da Weitzman (1992, 1993) sulle politiche di conservazione è di viva attualità:“applicazione di op-portune ‘funzioni di diversità’”. L’uso della ‘funzione di diversità’ permette di effettuare opportune scelte per una politica di conservazione ‘a breve’ e ‘a lungo termine’. Metrick et Weitzman, (1996) e Ollivier (1998) suggeri-scono una procedura interessante per decidere quale tipo genetico a rischio di estinzione deve essere preservato sulla base di concetti scientifici inerenti a ‘rarità’ e ‘uni-cità’. I suddetti Autori evidenziano, con procedure mate-matico – statistiche, la possibilità di redigere una lista di

priorità riguardante contemporaneamente un TGA ‘raro’ e un TGA ‘unico’ giungendo a concludere che: “nella classificazione di priorità un TGA ‘raro’ può precedere geneticamente un TGA ‘unico’”. Queste procedure ri-vestono particolare importanza nella scelta del TGA da ‘crioconservare’. La scelta, senz’altro difficile, costitu-isce un atto importante anche nel dover individuare un giusto bilanciamento fra le specie da tutelare. Queste difficoltà vengono superate parzialmente da una serie di considerazioni riguardanti il microbioterritorio o micro-agroecosistema, in cui viene allevato il TGA ‘raro’ o ‘unico’, sulla base dell’ambiente culturale (tradizione, ecc.), dell’ambiente sociale e dell’ambiente economico.

La biodiversità costituisce, anche, un elemento fon-dante per la ‘bioimitazione’ (‘biomimicry’) o ‘biomime-tica’ (‘biomimetics’). Trattasi, si può dire, di un nuovo filone scientifico avente per oggetto la progettazione e la costruzione di sistemi, semplici e/o complessi, pret-tamente ispirati alla naturalità. Il termine ‘biomimetics’ fu coniato da parte di Schmitt nel 1950, mentre il termi-ne ‘biomics’ fu coniato da Stele nel 1958. Alcuni settori della ‘bioimitazione’ (o ‘biomimetica’) sono: ingegneria biomedica, intelligenza ‘artificiale’, nanotecnologie, ro-botica (naso elettronico, robot biomimetico), bioarchi-tettura, ecc.. La diversità genetica, presente sul pianeta Terra, rappresenta il pabulum per alimentare continua-mente questo nuovo filone di ricerca tendente a produrre industrialmente manufatti i cui componenti costituisco-no un prodotto naturale dell’attività biologica sia degli animali sia delle piante (a esempio la produzione di fibra utilizzata per i voli spaziali sulla base della conoscenza delle caratteristiche reologiche del filo tessuto da alcuni ragni; adesivi speciali: muco di lumaca, cirripedi; peli corti come colla: geco; impermeabilizzanti: fiori di loto) (Matassino, 2007b).

La tutela: motivazione culturale

I TGA e i TGAA possono essere considerati alla stre-gua di beni culturali in quanto costituiscono un patrimo-nio dallo straordinario valore di documentazione storico e biologico; è, pertanto, dovere della collettività traman-darlo alle generazioni future (Matassino, 1996).

Il mondo scientifico della cultura vanta, quindi, pro-

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28il significato biologico ed economico della salvaguardia delle razze autoctone

spettive nuove che, rivoluzionando i canoni tradiziona-li, introducono nuovi ‘soggetti’, fino a oggi ignorati: i beni culturali etnoantropologici o demo antropologici. A questi, relativi alle testimonianze biologiche e cioè bo-taniche, zoologiche e antropologiche, viene riconosciuta pari dignità e rilevanza che a ogni altro bene culturale fino a oggi tradizionalmente considerato; la nuova cul-tura giunge a rinvenire nell’animale autoctono una par-te integrante del territorio di origine, quale espressione, nonché elemento costruttivo di esso, animato e dinamico, al pari di ogni altro, inanimato e statico, e da protegge-re, come tale, nell’uguale rispetto dell’interesse comune all’integrità culturale e socio-economica di quel deter-minato ‘bioterritorio’ o ‘bioregione’ (Mazziotta, c.p.).

Una popolazione animale può essere considerata an-che come ‘proprietà culturale’ (Gandini et Villa, 2003) in relazione al suo ruolo di ‘testimone storico’, dato che è un punto di riferimento nelle antiche tradizioni locali e, quindi, un TGAA potrebbe essere definito come ‘cu-stode delle tradizioni locali’. Il valore storico di un TGA può essere valutato come:

antichità, cioè il periodo dal quale la razza è stata pre-sente nella tradizionale area di allevamento; più lungo ri-sulta questo periodo e maggiore impatto ha il TGA sulla società rurale;

sistemi agricoli storicamente legati al TGA, compre-so le tecniche aziendali;

ruolo nella formazione del paesaggio, o come parte del paesaggio stesso;

ruolo in gastronomia, nello sviluppo di prodotti tipici e nel contributo a ricette culinarie;

ruolo nel folklore, direttamente o attraverso metodi-che di allevamento, compreso tradizioni religiose;

ruolo nell’artigianato, attraverso pratiche legate all’allevamento o materiale fornito grezzo;

presenza in forme di alta espressione artistica, il modo in cui il TGA è stato percepito come una compo-nente tipica della dimensione rurale, in arti figurative, poesia, ecc.

Il valore di un TGA come ‘custode di tradizioni locali nelle aree rurali’ può essere analizzato come ruolo in:

conservazione del paesaggio, come percentuale di allevamenti che contribuiscono al mantenimento futu-ro del paesaggio allevatoriale tradizionale associato al TGA;

mantenimento della gastronomia, come legame cor-rente tra il TGA e i prodotti o le ricette locali tipiche;

mantenimento del folklore, come resoconto del folklo-

re e rappresentazione delle tradizioni religiose nell’area di allevamento, legate direttamente o indirettamente al TGA;

mantenimento dell’artigianato, come pratica di for-me di artigianato locale nell’area, legato direttamente o indirettamente al TGA.

La tutela: motivazione giuridica

Secondo Mazziotta et Gennaro (2002), nel momento stesso in cui un qualsivoglia bene si presenta idoneo o, ancor piú, necessario a soddisfare bisogni socialmente apprezzabili espressi da un determinato contesto sociale, in quello stesso momento, e in ordine a quel contesto stesso, quel bene assume rilevanza giuridica. Il patrimo-nio della ‘biodiversità antica autoctona’ può essere de-finito un bene di vita; un bene cioé necessario o idoneo a soddisfare bisogni socialmente rilevanti espressi da un determinato contesto sociale in un determinato momento storico. L’entità e la natura del bisogno sociale deter-minano la natura e l’entità dell’utilità del bene e costi-tuiscono gli elementi che ne qualificano giuridicamente il contenuto. In considerazione di un interesse social-mente apprezzabile di contenuto assoluto e generale, vi è una giuridicità del patrimonio genetico antico autoc-tono configurante specificamente il carattere pubblico e, conseguentemente, il contenuto pubblico dell’utilità del bene stesso. Il diritto da tutelare, nella fattispecie, è il diritto generale alla integrità, alla identità e alla dignità di un patrimonio di interesse generale. Di qui la necessi-tà, per il diritto, di recepire la presenza di questo nuovo soggetto giuridico rappresentato dalla ‘biodiversità an-tica autoctona’. Le esigenze sociali e le nuove frontiere della scienza rendono indispensabile la ‘statuizione’ di una ‘tutela giuridica’ rispondente alla natura dell’inte-resse pubblico da tutelare e attenta alla particolare natura del bene: la ‘biodiversità antica autoctona’. Non si può considerare di riservare alla ‘esclusiva discrezionalità del privato’ la disponibilità di un tale bene, di cui egli ha pieno titolo in quanto proprietario; allo stesso tem-po, il proprietario non deve essere gravato o investito di alcun obbligo od onere rivestendo il bene da conservare carattere cogente nel superiore interesse pubblico. È in-dispensabile formulare una normativa volta a garantire

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e a regolamentare, in regime di compatibilità, la tutela giuridica sia del bene d’interesse pubblico sia dell’auto-nomia del privato. Il bene mobile (animale e/o vegetale e/o microbico) è regolato dal regime ordinario del diritto privato; un ‘patrimonio genetico antico autoctono’, di cui è portatore il bene mobile, deve soggiacere a regole di diritto pubblico. Nel rispetto della natura privatistica del bene, la sua ‘patrimonialità’ deve essere governata da criteri atti a scongiurare il rischio di una ‘discreziona-lità’ capricciosa o arrogante del suo utilizzo.

Si potrebbe ipotizzare che solo un ‘federalismo bio-logico’ sia in grado di ‘riconferire’ importanza e dignità alle ‘autoctonie’, cioè alla ‘biodiversità antica autocto-na’; questo ‘federalismo biologico’ configura “un nuovo soggetto nel mondo del diritto per la contestuale pre-senza di quegli elementi che determinano la rilevanza giuridica di un bene e che consentono di riconoscerne la giuridicità” (Matassino, 2002).

La tutela: motivazione etica

La conservazione della biodiversità deve essere con-siderata un ‘imperativo etico’ perché la biodiversità rap-presenta non solo un bene da difendere e da trasmettere alle generazioni future per il miglioramento della ‘qua-lità della vita’ ma, anche, un bene in sé stesso che ha il diritto alla propria esistenza; il rispetto della biodiversità è orientato verso la specie nella sua ‘globalità’; da non trascurare è l’‘individuo’ o il ‘singolo’ (diversità intra-specifica); la specie può essere considerata un’astrazio-ne in quanto essa non soffre, il singolo, invece, soffre e muore, facendo morire con sé la ‘specie’ e la sua ‘diver-sità genetica’; il ‘singolo’ possiede diritti fondamental-mente ‘forti’ comprendenti non solo il diritto alla vita ma anche quello alla conservazione dell’integrità genetica in quanto qualsiasi riduzione della variabilità genetica si rivela una pericolosa perdita per il ‘tutto’ (Matassino, 2002; Mazziotta et Gennaro, 2002).

Educazione della popolazione

Leve potenti fondamentali per rimuovere le apparenti ‘immortali pressioni’ sociali causate dal preponderante potere del mercato sono educazione e rieducazione.

Il sistema educativo - informativo dovrà svolgere un ruolo insostituibile affinché la popolazione assuma la consapevolezza dell’importanza della ricerca continua di un equilibrio armonico tra ‘attività antropica’ e ‘na-tura’ nell’ambito di uno sviluppo ecosostenibile per le future generazioni.

Questo sistema educativo basato, fra l’altro, sull’etica produttiva deve coinvolgere:

scuole di ogni ordine e grado;sistema accademico e scientifico;enti istituzionali e non;imprenditori agricoli;organi di stampa.Per raggiungere accettabili traguardi di sviluppo è in-

dispensabile una forte azione delle istituzioni locali mi-rante alla formazione di veri e propri imprenditori agri-coli, quali ‘pensatori strategici’ per innovare le attività produttive di un bioterritorio nel rispetto della tradizione affinché il quadrinomio: “bioterritorio - TGA/TGAA- prodotto ‘locale tipizzato etichettato’- benessere uomo” sia il volano dello sviluppo rurale.

In questo contesto sempre piú enfasi bisogna dare al tema dei ‘sistemi bioterritoriali’ o ‘bioregionali’ e del loro sviluppo. Sviluppo realizzabile solo con una deter-minante inversione di tendenza della ‘vita liquida’ rivol-ta a imporre all’uomo un vivere tipico, peculiare di una società ‘liquido-moderna’.

Una società ‘liquido-moderna’ si instaura quando “la realtà in cui agiscono gli uomini varia, quindi si mo-difica, prima che un determinato ‘stile di vita’ riesca a stabilizzarsi in ‘abitudini’ e ‘schemi procedurali’” (Bau-man, 2006).

Un ‘modello’ di vita basato solamente su canoni con-sumistici conduce a un mero efficientismo ‘materiale’; ciò significa che ‘vita liquida’ e ‘modernità liquida’, ba-sate sul prodromo e/o assioma elevata ‘obsolescenza’, temporale e spaziale, di qualsiasi bene materiale, com-portano un elevato accumulo di rifiuti e a una estremiz-zazione della teoria della ‘distruzione creatrice’ (Schüm-peter J, 1942); tale distruzione creativa porta a gravi e non facili soluzioni al problema della riduzione dell’im-patto da eccessiva presenza di ‘rifiuti’ sul Pianeta Terra

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30il significato biologico ed economico della salvaguardia delle razze autoctone

L’educatore deve individuare e attuare un’istruzione che educhi il discente a una visione non mercificante e non commercializzante di qualsiasi evento di vita reale.

L’imprenditore agricolo, grazie alla sua innata pro-pensione all’inventiva, non svolgerebbe piú un ruolo di semplice controllo e d’adattamento alle innovazioni messe a punto fuori dal contesto in cui egli opera, ma, come tutti gli esseri viventi, ritornerebbe a evidenziare la sua elevatissima ‘capacità al costruttivismo’. Quin-di, la risorsa genetica autoctona, specialmente antica, dà anche un contributo al ‘terziario verde’ di natura non commerciale. Pertanto, l’efficienza dell’uso delle risorse genetiche come fattore di produzione sarà sempre piú una variabile importante, se non determinante, della competizione o dell’integrazione economica fra i sistemi produttivi territoriali.

In questo contesto sempre piú enfasi bisogna dare al tema dei ‘sistemi territoriali’ o ‘bioregionali’e del loro sviluppo.

Il ‘bioterritorio’ può essere costituito da qualsiasi estensione territoriale che coincide con un’area geografi-ca omogenea per caratteristiche orografiche, pedoclima-tiche e sociali. Pertanto, esso esula da qualsiasi concet-to di area delimitata da confini politico-amministrativi e può essere oggetto di un relativo facile monitoraggio temporale delle varie condizioni caratterizzanti il territo-rio interessato.

Partendo dal concetto di Rossi Doria, T. M. secondo cui “Non esistono soluzioni uguali per realtà diverse”, l’innovazione virtuosa deve essere diversificata, la meno omologante, la meno ripetitiva e la piú legata alla fina-lizzazione della sostenibilità e del benessere del ‘sistema bioterritoriale’ (in cui è compreso anche l’uomo). Ciò starebbe a significare che ciascun ‘sistema bioterritoria-le’ o ‘bioregione’ dovrà individuare percorsi ‘virtuosi’ propri e in grado di competere con un altro ‘sistema’ sul-la base della sua offerta di ‘originalità’.

Le élite politiche e istituzionali, la ricerca scientifica e la cultura sono sempre piú coinvolte nell’individuare una dinamica organizzazione di vita inserita integral-mente nei vari ‘sistemi locali’.

Biodiversità animale: prospettive future

Si può affermare che il futuro di una ‘razza’ dipende dalla sua maggior diffusione e dal suo futuro impiego nel sistema di allevamento (Oldenbroek, 2007). Un cam-biamento nei sistemi di allevamento dovrebbe avere un grande impatto sull’uso delle ‘razze’. Lo sviluppo dei sistemi di allevamento è guidato da alcuni fattori interni ed esterni, come:

- la presenza di ecosistemi idonei per la produzione animale;

- le politiche del Paese che regolano l’uso degli ani-mali,

- la prevalenza o la diffusione di malattie;- l’ (in)stabilità politica;- le infrastrutture disponibili;- la possibilità di introdurre popolazioni esotiche;- l’incremento demografico umano;- la crescita dell’economia del Paese;- la formazione di risorse umane;- la possibilità di investire denaro nei sistemi di alle-

vamento e nel miglioramento delle popolazioni;- le possibilità di mercato e di esportazione dei pro-

dotti di origine animale.Quindi, nell’ambito delle strategie per l’utilizzazio-

ne e la conservazione delle risorse genetiche animali di interesse zootecnico, particolare attenzione deve essere rivolta al ruolo della diversità genetica nei sistemi di al-levamento e ai cambiamenti attesi in tali sistemi. A li-vello mondiale, sono state riscontrate molte differenze nell’uso, presente e futuro, nei sistemi di allevamento e nella conservazione delle sei più importanti specie ani-mali di interesse zootecnico (bovini, ovini, caprini, suini, avicoli e cavalli), come a esempio:

bovini: a livello mondiale, una selezione intensiva per pochi caratteri produttivi e un ampio scambio di liqui-do spermatico proveniente dai migliori tori ha condotto a una minore consistenza effettiva delle ‘razze’ da latte maggiormente diffuse, con un reale rischio di perdita di diversità genetica all’interno delle popolazioni coinvol-te;

ovini: in Europa, Nord America e Australia il numero di ovini allevato è fortemente diminuito negli ultimi anni; il valore economico della prodotta dalla maggior parte di queste popolazioni è fortemente diminuito e il mondo allevatoriale si orienta sempre più verso una futura ge-stione di questa specie allo stato ‘brado’ (naturale);

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caprini: nel sistema allevatoriale in piccola scala, l’importanza dei caprini per la produzione di latte e car-ne rimane costante; ciò è dovuto anche al sistema ‘selva-tico’ di allevamento che viene applicato a questa specie;

suini: in Europa, Nord America e Australia, la pro-duzione suinicola è dominata da compagnie multinazio-nali; in alcune aree dell’Europa, dell’Africa e del Nord America sopravvivono ancora popolazioni locali che trovano ampia concorrenza negli ibridi prodotti dalle Multinazionali.

La diversità dei tipi genetici è spesso ritenuta essere una fonte di variabilità genetica per assicurare un futu-ro sviluppo del miglioramento genetico. Comunque, la diversità dei tipi genetici è oggi fortemente richiesta in Europa per:

- la diversificazione e per la qualità alimentare;- il mantenimento degli agroecosistemi naturali;- la cultura locale.Con il miglioramento degli standard di vita, si affac-

ciano nuovi ruoli per gli animali domestici, includenti:- attività sportive;- ricreazione (tempo libero);- turismo;- compagnia;- hobby;la diversità dei tipi genetici offre nuove opportunità in

questa direzione.

Valorizzazione produttiva della biodiversità

La concezione che la ‘diversità biologica’ è una ‘ri-sorsa’ sta a significare che essa può essere usata per un ‘uso produttivo’; essa, cioè, deve generare impiego, mi-gliorare lo stato di salute dell’uomo e fornire altri impor-tanti contributi a una società che prospera grazie alla sua corretta utilizzazione.

Si sta diffondendo la consapevolezza della necessità del ‘rispetto dell’ambiente’ pur nell’ottica dell’incre-mento quali-quantitativo delle produzioni per soddisfare le esigenze in nutrienti ai fini del raggiungimento del be-nessere psico-fisico e sociale dell’uomo (human welfare state e well being).

La rappresentazione ‘virtuale’ del ‘bioterritorio’ come ‘officina della nostra salute’ è da considerare, in-

vece, un vero e proprio palcoscenico ‘virtuoso’ in cui gli attori (esseri viventi) svolgono un ruolo protagonistico fortemente condizionato dal loro sistema ‘vita’.

L’‘officina della natura’ ha le sue fondamenta nella ‘biodiversità’ che è l’unica vera ricchezza del Pianeta Terra; essa è la ‘conditio sine qua non’ per la produzio-ne di alimenti caratterizzati da ‘specificità nutrizionali’ e ‘non’.

Grazie alla ‘biodiversità’ è stato, è e sarà possibile raggiungere ‘continui’ e ‘diversificati’ traguardi di ‘bio-poiesi’ e di ‘nuove prospettive’ di ‘prevenzione’ e di ‘te-rapie’ scaturenti da una sana e razionale utilizzazione dello ‘immenso arsenale informativo (biomolecole)’ epi-geneticamente a disposizione dell’essere umano.

L’efficienza dell’uso delle risorse genetiche come fat-tore di produzione sarà sempre piú una variabile impor-tante, se non determinante, della competizione o dell’in-tegrazione economica fra i sistemi produttivi territoriali.

Qualunque filiera produttiva, basata sull’utilizzazione dell’animale in produzione zootecnica, ha le sue fonda-menta sulla relazione tra biologia e poiesi tecnologica. Questo nesso ha origini che si perdono nella notte dei tempi.

Il processo di domesticazione di animali e/o di pian-te è da considerare lo strumento principe basilare per la poiesi tecnologica. Questa, dovendo soddisfare esigenze nutrizionali, extranutrizionali e salutistiche dell’uomo, variabili nel tempo e nello spazio, affonda le sue radici nell’incommensurabile terreno identificabile con la bio-diversità.

L’approccio sistemico nel settore delle produzioni animali è uno dei paradigmi in grado di fornire un ‘ra-zionale tentativo’ per discriminare la complessa struttura e funzione di una ‘manifestazione fenotipica’ o ‘carat-tere’.

L’impostazione sistemica trova una motivazione pre-gnante nel funzionamento di un organismo vivente e del-le sue componenti (per esempio, i tessuti e gli organi), che si manifesta e si esprime non solo attraverso la sua dotazione della specificità dell’attività metabolica della singola entità, ma anche attraverso lo scambio continuo di comunicazioni inter- e intra-cellulari. Nel funzio-namento corretto di questa rete cibernetica di ‘segnali biologici’ è la ‘chiave’ di lettura del ruolo che le ‘comu-nicazioni biochimiche’, liberantesi da un alimento inge-rito, svolgono nell’uomo e nell’animale; rete cibernetica che opera diversamente in relazione all’ambiente in cui l’organismo esplica le sue funzioni metaboliche proprio

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32il significato biologico ed economico della salvaguardia delle razze autoctone

sulla base dei suddetti ‘segnali molecolari’. Tali segnali fanno in modo che le richieste di una cellula o di un tes-suto vengano trasmesse ad altre cellule o ad altri tessuti, garantendo una risposta coordinata dell’organismo alle sollecitazioni di natura ambientale.

L’integrazione tra lo studio dell’insieme dei segmen-ti di DNA codificanti o ‘polipeptide/i’ (‘geni’) o ‘non polipeptide/i’ trascritti in una cellula (trascrittomica); quello delle proteine, nonché delle relative isoforme multiple e dei loro frammenti (proteomica); quello dei lipidi e delle loro interazioni e del loro ruolo biologico, anche in relazione ai biochimismi implicati nell’anabo-lismo e nel catabolismo dei lipidi stessi (lipidomica) e quello di tutte le reti metaboliche cellulari (metabolomi-ca) è la ‘conditio sine qua non’ per un approccio in linea con la nuova disciplina, la ‘biologia dei sistemi’, che per-metterà una migliore conoscenza dei processi biologici, nei quali i segmenti di DNA codificanti o ‘polipeptide/i’ (‘geni’) o ‘non polipeptide/i’ e le proteine vanno consi-derati e studiati come componenti insostituibili di una vera e propria rete cibernetica. Il suddetto approccio in-tegrato consente di:

acquisire conoscenze in grado di colmare il vuoto tra genomica funzionale e biologia cellulare;

studiare i cambiamenti dei processi metabolici di ani-mali, di microrganismi e di piante in risposta a differenti condizioni ambientali;

tutelare la biodiversità: l’approccio integrato ‘geno-ma – proteoma’ rappresenta un valido strumento per la tipizzazione della biodiversità, consentendo la identifi-cazione e la caratterizzazione di biomarcatori moleco-lari di ‘unicità’ genetica (a livello di singolo individuo) e di ‘tipicità’ (a livello di prodotto); questi biomarcatori sono alla base della conoscenza di effetti diversificati che possono interessare la qualità ‘nutrizionale’, ‘extranutri-zionale’ e ‘salutistica’ di un alimento, nonché il livello di sicurezza alimentare;

identificare proteine ‘nuove’, come quelle che vengo-no eventualmente a essere sintetizzate negli organismi transgenici (OT) (cosiddetti organismi geneticamente modificati, OGM).

Ciascun TGA/TGAA è integrato con il proprio am-biente di allevamento, con il clima e con la flora che le caratterizzano; l’unione armonica di queste condizioni, unitamente alle caratteristiche genetiche insite nei TGA/TGAA, fornisce ‘prodotti unici’, non ripetibili altrove .La conoscenza della ‘specificità molecolare’ di un pro-dotto primario e derivato/i è fondamentale e indiscussa.

Generalmente, il controllo e l’aumento della qualità dei prodotti di origine animale sono dati dalla combina-zione delle materie prime (latte, carne) e del processo produttivo (diagramma di flusso). Alcuni TGA fornisco-no prodotti di elevata qualità rispetto a quelli ottenuti da popolazioni cosmopolite, le quali sono altamente sele-zionate in base alla quantità della produzione. In quei Paesi dove il mercato ha già riconosciuto la qualità dei prodotti delle popolazioni locali, la relazione tradizio-nale tra TGA e prodotto è stata usata per diversificare i prodotti stessi e per conferire a essi un valore aggiun-tivo. In questo modo i prodotti dei TGA vengono com-mercializzati a prezzi più elevati, il che dimostra la loro redditività. Differenti esperienze di successo sono state sviluppate negli ultimi anni supportando, in termini di redditività, un legame tra prodotto e TGA; un esempio è fornito da alcuni formaggi e dal famoso prosciutto otte-nuto dal suino Iberico. L’aumentato interesse in Europa per i prodotti alimentari regionali, considerando anche lo sviluppo di associazioni specifiche come Slow Food, ha generato condizioni favorevoli per queste esperienze.

Ricapitolando, si può affermare che:il legame tra TGA e prodotto può migliorare la reddi-

tività economica di un TGA;la costruzione di questo legame offre varie opportuni-

tà: utilizzazione di un marchio di Denominazione di Ori-gine Protetta (DOP) o può essere usata per differenziare il prodotto nell’ambito di un mercato già differenziato;

la sovrapposizione di una razza esotica con un TGA nell’area di allevamento può ostacolare l’instaurazione di un legame tra TGA e prodotto;

in alcuni casi, il legame tra prodotto e TGA-ambiente sembra essere più appropriato del legame tra prodotto e TGA.

La diversità biologica deve essere considerata anche ai fini della produzione di ‘beni materiali’ o ‘servizi’, quali, a esempio, i servizi di gestione e di ‘presidio am-bientale’ di aree geografiche altrimenti destinate a essere abbandonate, con tutti gli effetti conseguenti.

Considerando che ogni alimento è influenzato dal bio-territorio di origine, risulta di particolare rilievo l’iden-tificazione di biomarcatori molecolari (specificità mole-colari) che vanno a caratterizzare e, quindi, a dare rilie-vo a prodotti strettamente legati alla tradizione; queste biomolecole, si auspica, possano essere inserite nell’eti-chettatura che va applicata al prodotto stesso, in modo da attuare quello che è stato previsto dal regolamento CE 1924/2006 ‘Health and Nutrition Claims’, entrato in

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vigore dal 1. luglio 2007.Per l’identificazione di queste biomolecole, molto in-

teressante risulta l’applicazione della ‘Scienza Omica’ che studia, con sistema analitico, le macromolecole non più singolarmente, ma in modo ‘olistico’, quali compo-nenti di una complessa ‘rete biologica’. La ‘biomica’, parte della scienza ‘omica’, comprende:

genomica: si occupa dell’identificazione, quindi della caratterizzazione del genoma (insieme delle informazio-ni e delle loro interazioni di ‘natura genetica’ presenti in un individuo);

trascrittomica: si occupa dell’identificazione, quindi della caratterizzazione del ‘potenziale di espressione’ o ‘trascrittoma’ [insieme delle molecole di RNA (RNAo-ma) e delle loro interazioni presenti in una cellula, in un organismo o in un sistema biologico in ogni istante del proprio ciclo della vita];

proteomica: si occupa dell’identificazione, quindi della caratterizzazione, del ‘proteoma’ (insieme delle proteine nonché delle relative isoforme multiple e dei loro frammenti presenti in una cellula o in un organismo o in un sistema biologico in ogni istante del proprio ciclo vitale);

aromomica: si occupa dell’identificazione e della ge-nesi delle molecole odorose e gustative che caratteriz-zano un prodotto alimentare, nonché dello studio delle interazioni aromatiche in base alle loro proporzioni re-lative;

glicomica: si occupa dell’identificazione, quindi della caratterizzazione del glicoma (insieme dei glucidi e del-le loro interazioni presenti in una cellula o in un organi-smo o in un sistema biologico in ogni istante del proprio ciclo vitale);

lipidomica: si occupa dell’identificazione, quindi del-la caratterizzazione del lipoma (insieme dei lipidi e delle loro interazioni presenti in una cellula o in un organismo o in un sistema biologico in ogni istante del proprio ciclo vitale);

metabolomica: si occupa dell’identificazione, quindi della caratterizzazione del metaboloma (insieme dei me-taboliti e delle loro interazioni presenti in una cellula o in un organismo o in un sistema biologico in ogni istante del proprio ciclo vitale).

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L’aLLevaMento ovino deLL’itaLia

MeridionaLe continentaLe

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La storia dell’allevamento animale parte dalla rivolu-zione agricola agli inizi del Neolitico (10 - 12 mila a.C.) con la domesticazione di specie vegetali ed animali. Gli ovini, forse per la loro mitezza, per la taglia ridotta e per la capacità di fornire i prodotti più vari, sono stati tra i primi animali, subito dopo il cane e insieme alle capre (l’associazione tra cane, pecora e capra è alla base del-la pastorizia) ad attrarre le attenzioni di domesticazione nelle steppe a Sud del Mar Caspio, in un’area estesa dal-la Turchia fin quasi al Nord della Cina.

Tra le prime ricchezze del nucleo familiare vi fu il possesso di pecore e capre, da cui si ricavava il sostenta-mento nutritivo, come latte per il consumo giornaliero, che poi si riuscì anche a conservare trasformato in for-maggi, e come carne dell’agnello, nelle due fasi stagio-nali di disponibilità, e degli animali a fine carriera. Dalla lana e dalla pelle si ricavavano, invece, abiti e calzature per la difesa dalla variabilità del clima.

Le greggi ovine e caprine trovarono un habitat ido-neo anche in aree povere; così si diffusero sul territorio, diversificandosi con la formazione di moltissime razze e determinando la prima struttura economico-sociale; ca-ratteristica di questi animali è, infatti, la notevole adatta-bilità a condizioni climatiche ed ambientali assai diverse e la buona capacità di utilizzazione dei foraggi, che con-sente loro di trarre il proprio fabbisogno da qualsiasi tipo di pascolo, anche su terreni marginali.

A partire dal XIX secolo, l’allevamento animale, dopo circa 10.000 anni durante i quali, era stato portato avanti in modo sostenibile, consentendo alle varie po-polazioni di specie domestiche di adattarsi alle diverse condizioni locali, ha subito una violenta rivoluzione. La pratica della selezione per le caratteristiche fenotipiche ha portato alla frammentazione delle popolazioni iniziali con una conseguente perdita di variabilità genetica cui va aggiunto la perdita di interi pool genici abbandonati perché non in grado di competere sul piano produttivo. Fortunatamente da qualche anno va sempre più diffon-dendosi la consapevolezza non solo della necessità della salvaguardia delle risorse, ma anche quella della rico-

gnizione delle razze esistenti e della valutazione delle relative peculiarità genetiche.

L’allevamento della pecora è oggi diffuso in tutto il mondo, particolarmente nelle aree in cui abbondano i pascoli e dove si pratica un tipo di agricoltura estensiva, come in America del Sud e in Oceania; è tipico l’esempio delle pecore che l’uomo ha portato e straordinariamente diffuso in Australia e Nuova Zelanda, con una grande varietà di razze. Nei paesi caratterizzati da un’agricol-tura intensiva, invece, l’allevamento ovino ha subito un evidente declino. Con oltre un miliardo di capi, gli ovini rappresentano la specie animale allevata più diffusa nel mondo; oggi il paese con il maggior patrimonio ovino è la Cina, seguito da Australia e India.

In Europa la loro adattabilità ha permesso, con il pas-sare del tempo, una diversa specializzazione fra Nord e Sud: nel Nord Europa, grazie all’abbondanza del pasco-lo estivo, la pecora era utilizzata esclusivamente per la produzione di carne e di lana; nel Sud la gestione e lo sfruttamento dell’allevamento è stato condizionato dai lunghi periodi di carenze dei pascoli del piano e quin-di dalla necessità di transumare le greggi; l’ovinicoltura non si è specializzata ed ha sfruttato tutte le produzioni ricavabili: lana, carne e latte.

Nell’Europa mediterranea, durante gli ultimi secoli, l’allevamento dei piccoli ruminanti è stato strettamente associato alla storia dell’uomo e le civiltà si sono svi-luppate in stretta relazione con gli oliveti, i vigneti e gli allevamenti ovino e caprino.

L’allevamento ovino è parte integrante dei tradizionali sistemi agricoli della regione: mentre il bovino è sempre stato ed è ancora il ruminante per eccellenza del Nord Europa, la pecora lo è per l’area mediterranea. I piccoli ruminanti, infatti, sono adatti per natura a pascolare nelle terre povere e marginali, particolarmente in condizioni climatiche ed ambientali difficili ed utilizzano ottima-mente la classica vegetazione mediterranea, costituita per oltre il 90% da superfici a “macchia” o distese aride e subaride, per ragioni climatiche e pedologiche inadatta a qualsiasi forma di agricoltura intensiva. Questa regione

le origini

D. Cianci, E. Castellana, E. Ciani, E. Pieragostini

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42l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

presenta una varietà di ecosistemi, condizioni ambientali e sistemi di produzione specifici con numerose razze-po-polazioni ovine, molte delle quali derivate dalla Merino, oppure pecore a coda grassa originarie dell’Asia o del Nord Est come la Zackel.

Il consumo di carne nel Sud Europa era soprattutto ri-volto agli agnelli nati in fine inverno ed agli animali vec-chi a fine carriera; gli agnelli nati in autunno venivano destinati in primo luogo alla rimonta e solo l’eccedenza era avviata alla macellazione per le festività natalizie. Si è consolidata così la tradizione, che permane anco-ra oggi, che vede i Paesi del Nord Europa consumare agnelli pesanti (agnelloni macellati a sei-otto mesi e 35-40 kg) e quelli dei Paesi del Bacino del Mediterraneo, al di sotto della linea Bordeaux-Trieste-Istanbul, orientarsi prevalentemente verso l’agnello da latte o abbacchio, macellato a 10-15 kg (agnello mediterraneo).

Nella maggior parte delle regioni del mondo le pecore sono allevate per la produzione di carne, lana o pellame e mai per il latte. Al contrario, nelle regioni del bacino Me-diterraneo, ma anche nel Sud Ovest dell’Asia, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, la mungitura della pecora è largamente praticata. La produzione del latte è così la principale caratteristica dell’attività ovina di questa re-gione ed acquista maggiore importanza per il fatto che il 73% della produzione mondiale è concentrata attorno al Mediterraneo, dove invece si produce solamente il 16% del latte bovino e il 34% del latte caprino del mondo.

La produzione di lana, ottenuta con razze deriva-te dalla spagnola merino, è concentrata oggi nei Paesi lontani dai mercati europei, verso i quali non potevano essere avviati latte e carne. Sono perciò forti produttori l’Australia e la Nuova Zelanda, ma anche il Sud Africa e l’Argentina, che progressivamente hanno fatto perdere interesse, per competitività in qualità ed economia, alle lane prodotte in Europa.

In Italia l’allevamento ovino non è stato mai molto diffuso nelle Regioni settentrionali, ma ha conservato ed anzi sviluppato un buon interesse nelle Regioni centra-li, soprattutto Lazio e Toscana; nelle isole l’ovinicoltura è sempre molto radicata (la Sardegna da sola possiede circa il 40% del patrimonio nazionale). Nell’Italia Meri-dionale Continentale l’allevamento della pecora, che ha subito un brusco ridimensionamento negli ultimi decen-ni, ha una lunga e solida storia, come documentato da numerosi reperti archeologici del periodo neolitico. Cir-ca le tecniche di allevamento si hanno notizie storiche di come, a partire dall’epoca romana, azioni di migliora-

mento vennero perseguite dai vari popoli che si stabiliro-no e dominarono in queste regioni; Greci, Romani, Goti, Longobardi, Saraceni.

In generale, porre attenzione all’origine delle razze non ha solo il senso di esaurire una curiosità storica, ben-sì di capire meglio da dove vengono i geni la cui espres-sione oggi verifichiamo e di quali ipotetiche pressioni selettive sono il risultato. L’Italia Meridionale, nella sua composizione peninsulare ed insulare, vanta una anti-chissima tradizione pastorale e di razze autoctone che per le loro caratteristiche produttive, come nel caso della Comisana ed ancor più della Sarda, hanno varcato i con-fini della loro isola, rispettivamente Sicilia e Sardegna, per diffondersi in tutto il territorio nazionale. Entrambe queste razze appartengono al subgruppo dei discendenti dell’audad (ovini brachiceri selvatici del Nordafrica); in particolare, mentre nel caso della razza Sarda sembra che l’isolamento geografico sia il principale responsabile del pool genico attuale, nel caso della Comisana sembra che all’origine ci siano ovini del Mediterraneo (paesi asiati-co-africani) incrociatesi con ovini siciliani (EAAP).

Circa le razze autoctone pugliesi Altamurana, Lecce-se e Gentile di Puglia va ricordato che l’allevamento del-le pecore in Puglia data da tempo immemore, come do-cumentato da numerosi reperti archeologici del periodo neolitico. Non altrettanto documentata è invece l’origine delle varie razze; già negli scritti di Plinio il Vecchio (Na-turalis Historia, VIII, 190), di Varrone (Res rusticae II, 2.19 ) e di Columella ( De re rustica, VII, 2.3 ) si riferi-sce della presenza in Puglia di due distinti tipi di pecore, una dal vello compatto delicato ed una con vello aperto lungo. Certamente il flusso genico che ha interessato la popolazione umana di questa terra di conquista non ha lasciato indenne le popolazioni autoctone di animali do-mestici le quali sicuramente sono venute in contatto con altri pool genici importati dai vari conquistatori.

In questa ricerca di radici, non siamo in grado di va-lutare fino in fondo, in termini di archeologia dei geni, il peso dell’informazione riportata dal Mannarini secondo la quale la pecora “Moscia” deve aver avuto come proge-nitori gli ovini di razza asiatica o Siriana del Sanson (Ovis aries asiatica) e propriamente quelli della varietà detta dai tedeschi di Zachel. Questa derivazione, secondo una monografia del 1878 citata da Ferrante (Ferrante, 1966) viene fatta risalire all’epoca delle invasioni saracene. Ma se è così, che fine ha fatto la moscia di cui parlano le fonti storiche romane? Il dato più certo è quello relativo alla diversificazione della cosiddetta pecora “Moscia”

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le origini43

dalla quale, nel corso dei secoli, in relazione alle con-dizioni ambientali e all’indirizzo dato dagli allevatori si sono differenziate nettamente due razze, l’Altamurana e la Leccese; la prima con vello tendenzialmente bianco, la seconda con muso ed arti a pigmentazione scura che costituisce una protezione nei confronti dell’Hipericum crispum, (volgarmente detto fumolo) molto frequente nel Salento e il cui contatto provoca dermatiti nei sog-getti dalla pelle rosata (Petazzi et al. 2002). Un recente lavoro (Peter et al., 2007) ha valutato la diversità gene-

tica e eventuali suddivisioni di 57 razze ovine europee e mediorientali, delinea per la razza Altamurana, una delle tre razze dell’Italia meridionale contenuta in questo stu-dio, una origine mista europea-mediorientale coerente con il riferimento alla pecora di Zackel. Sempre secondo detto studio (Peter et al., 2007), per entrambe le altre due razze, la Laticauda e la Gentile di Puglia la componen-te europea prevale a discapito di quella medio orientale, che è tuttavia, comunque, non trascurabile.

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La disamina dei numerosi studi di carattere archeolo-gico, storico e scientifico fino ad oggi prodotti sui temi allevamento e transumanza mostra con certezza che l’al-levamento ovino era diffuso già in epoca molto remo-ta nella quasi totalità delle regioni europee, benché in misura ovviamente variabile. La geografia del territorio creava, infatti, condizioni particolarmente favorevoli, esistendo nel continente europeo molte regioni incolte, piuttosto estese in Spagna e Bassa Sassonia, più modeste sulle coste del mare del Nord, Borgogna, in Inghilterra e nell’Italia Meridionale (nella nostra Puglia); e se forte-mente l’allevamento ovino poteva diffondersi in pianura e negli altipiani, ancora di più si sviluppava nelle regioni montuose, dai Pirenei alle Sierras spagnole, dagli Ap-penni italiani ai Balcani e ai Carpazi.

Il legame tra pianura e montagna aveva in questo caso una motivazione essenzialmente naturale: in alcune regioni la fine dell’inverno metteva migliaia di ovini in cammino verso gli alpeggi, altrove l’inizio della cattiva stagione spingeva le greggi verso la pianura, come acca-deva nella transumanza tra Abruzzo, Puglia e Lazio, od anche in Borgogna. Mediante il ricorso alla transumanza o all’alpeggio i proprietari di armenti riuscivano a sfrut-tare alternativamente pascoli estivi, resi fertili da piogge e nevicate durante la cattiva stagione, e pascoli invernali, più adatti, come quelli del Tavoliere di Puglia o della Sabina, allo svernamento delle greggi. Tutto ciò con il risultato evidente di assicurare al bestiame le migliori condizioni possibili ed aumentare, insieme alla qualità e quantità delle produzioni animali, il reddito riveniente dall’allevamento.

È accertata ormai da autorevoli ricercatori l’importan-za assunta dal fenomeno dell’allevamento transumante già in età romana tardo-repubblicana e primo-imperiale, ma evidenti risultano anche gli elementi di continuità che legano quel fenomeno ed i fattori che lo hanno deter-minato sia al periodo pre e proto-storico che all’età me-dioevale: la transumanza è certamente legata alle strut-ture profonde e non modificabili, almeno per lunghissi-mo tempo, di alcune aree geografiche, nonché al peso

che le condizioni ambientali ebbero sul permanere, nel tempo, di modi tipici di utilizzazione del suolo. Se per quanto riguarda la Daunia abbiamo sicure testimonian-ze sulla diffusione dell’allevamento ovino in età arcaica, non disponiamo però, almeno fino al II secolo a.C., di chiari indizi storici ed archeologici di contatti effettivi tra Daunia e montagna appenninica; sembra che solo da quel periodo si instauri tra Daunia ed area frentana un tipo di transumanza a medio e piccolo raggio, mentre la grande transumanza si svilupperà soltanto in epoca post-annibalica grazie a fattori e condizioni ambientali nuovi, quali la grande disponibilità di terre occupate, la facilità di reperimento di manodopera servile, i maggiori mezzi finanziari.

Ed in effetti una grande transumanza aveva bisogno per il suo stesso sviluppo di condizioni politiche par-ticolari, che potevano essere garantite solo da un forte organismo centrale di gestione e controllo, capace di re-golare i rapporti tra allevatori e agricoltori, mediandone le esigenze ed i conflitti. Con tali condizioni la transu-manza orizzontale viene a rappresentare una forma di razionalizzazione economica ed una fonte di sicura ed immediata redditività. Nella Daunia, quindi l’alleva-mento transumante sembra essere stata una delle forme di sfruttamento avviate nell’immediato dopoguerra anni-balico: la fonte che Strabone utilizza per la sua Geogra-fia, ovvero Posidonio, colloca nei dintorni del Gargano un fiorente centro di attività laniera, che si sviluppa pro-prio sfruttando le possibilità offerte dal periodico trasfe-rimento delle greggi dall’Appennino ai pascoli invernali della Daunia.

Numerosi sono, a questo proposito, i riferimenti di Varrone, e di Cicerone. Orazio poi definisce Lucera “rinomata” per la produzione laniera e cita anche l’esi-stenza di un lanarius lucerino. L’instaurarsi del diretto dominio romano nelle aree centro-meridionali della no-stra penisola genera tra il II ed il I secolo a.C. profonde trasformazioni nel settore economico: con le massicce confische seguite alle guerre annibaliche l’ager publicus romanus si amplia enormemente, le classi più elevate ac-

la storia dell’allevamento ovino nel mezzogiorno

A. Muscio, M. Albenzio, A. Sevi

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46l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

cumulano ricchezze e le impiegano nella terra, la piccola proprietà contadina declina a favore di aziende di più largo respiro, le terre si spopolano a seguito delle emi-grazioni in Spagna e nella Gallia cisalpina.

Tutto ciò provoca una alterazione significativa dell’economia e dell’agricoltura dell’Italia centro-me-ridionale, che trova nell’allevamento nuove forme di investimento con sbocchi anche nelle forniture di lana e pelli per l’esercito. Il vantaggio maggiore per i picco-li allevatori consiste nel pascolo gratuito, sancito dalla legge agraria del 111 a.C., che inquadra e definisce un fenomeno preesistente che andava però assumendo di-mensioni e carattere nuovi. Le testimonianze di Varrone ci rendono noti tutti i problemi organizzativi dell’alleva-mento transumante di quel tempo tra Sabina, Appennino centrale ed Apulia: a seguito della crescente richiesta del mercato, soprattutto della capitale, l’allevamento ovino assume un “carattere capitalistico” che andò sempre più evolvendosi, e l’imperatore divenne presto il più grande proprietario di greggi oltre che il maggior proprietario terriero.

Queste condizioni cadono in età tardo-imperiale, al-lorché Roma declina come mercato; il sistema della tran-sumanza va disorganizzandosi, anche per l’assenza di un efficace controllo da parte del potere centrale, e diventa sempre più occasione di abusi, vessazioni ed illegalità; l’accostamento tra pastori e briganti diventa sempre più frequente. E tuttavia la transumanza è sempre in atto, nel corso dei cosiddetti secoli bui, fino alla Costituzione di Guglielmo II, intorno al 1172. Essa dimostra che non è mai venuto meno, fino al XII secolo, il carattere fi-scale, ovvero pubblico, di un’estensione enorme di terre incolte, nonostante il venir meno dei poteri dello Stato e la ricostituzione certa dei patrimoni cittadini; questo perché l’ambiente naturale e le condizioni geografiche imponevano un certo tipo di sfruttamento del suolo.

Tuttavia una frattura vi fu per la transumanza, almeno al tempo della guerra gotica: il declino demografico e la crescita delle terre incolte influirono sulla regressione del fenomeno ed anche sul suo sostanziale spostamento dall’area centrale appenninica all’area tirrenica e roma-na. La depressione, aggravata da epidemie e dalla disce-sa di sempre nuove popolazioni barbariche, continuerà per lungo tempo: gli spazi disabitati si allargano, il pae-saggio degrada con erosioni ed impaludamenti malarici, con conseguenze rilevanti anche sul clima; la popolazio-ne, abituata dalla pax romana a vivere tranquillamente dispersa nelle campagne, comincia a concentrarsi in vil-

laggi e borghi per necessità di difesa; infine il bisogno di badare a se stessi genera una regressione verso forme di economia naturale e di autosufficienza, con una generale tendenza alla concentrazione della proprietà terriera. In questo contesto anche il carattere pubblico delle calles e delle viae difficilmente poteva scomparire: si può spie-gare anche in questo modo la coincidenza tra le calles romane e preromane con i tracciati dei tratturi dell’età aragonese.

Incomincia già nel IV secolo la conversione di città in centri fortificati e si moltiplicano i castella. Proprio nel fenomeno dell’incastellamento, secondo la nota tesi del Toubert, è da ricercarsi l’origine del sottosviluppo meri-dionale, e proprio tra X e XII secolo le radici di quella tensione tra agricoltura e pastorizia che sarà una costante nella storia del Mezzogiorno. L’incastellamento, che si intensificherà in età normanna, avrebbe reso ancor più rigida la tendenza meridionale al vivere accentrato ed alle conseguenti scelte economiche, creando quelle con-trapposizioni tra il cultum a carattere intensivo e l’in-cultum pastorale che impediranno a lungo l’integrazione fra quei settori, essendo i castra incapaci di superare le proprie mura ed estendere la colonizzazione.

Se, come sembra, era necessario un ettaro di buon pascolo per assicurare la sopravvivenza annua di tre o quattro ovini, possiamo facilmente immaginare quanto il pascolo superasse il coltivato, quanto le terre incolte, aride e disabitate superassero in estensione città e castel-li. Tra le prove più conclusive di tale status è la testimo-nianza topografica di agri deserti, ma da non trascurare è la riflessione sulla stessa legislazione barbarica, che ci mostra una economia pastorale dai caratteri impressio-nanti: raccolta di prodotti spontanei, pascolo di animali su grandi estensioni di terre incolte.

La legislazione longobarda è ricca di norme minu-te che riguardano il pascolo e che non hanno la pari in quelle relative all’agricoltura. E se Paolo Diacono indica nell’economia del pascolo brado il settore più compro-messo a causa della penuria di braccia, il suo interesse denota pure l’importanza che la pastorizia riveste ancora all’interno dell’economia generale del Paese. Benché si sostenga da più parti che il fenomeno della transuman-za prescinda dai mutamenti strutturali della politica, e si configuri essenzialmente come ragione di sopravvi-venza, tuttavia un elemento caratterizzante l’Italia Me-ridionale in età barbarica ci spinge ad una certa cautela in proposito: infatti allorché viene a mancare la stabilità politica, nel periodo tra le grandi invasioni e l’XI secolo,

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viene a mancare anche l’unità tra la regione abruzzese e quel suo entroterra economico che il Tavoliere di Puglia e la Sabina erano stati fin dall’età più antica, con il con-seguente sconvolgimento di equilibri secolari e l’insel-vatichimento delle calles.

La grande transumanza subisce certamente in queste condizioni una lunga battuta d’arresto, ma non scompa-re del tutto, come testimonia la documentazione relati-va ad alcune zone abruzzesi, e la piccola transumanza continua con la stessa intensità a cercar di sopravvivere finché in età federiciana, col riaccorpamento dell’area abruzzese con il Tavoliere, comincia a stabilirsi una fitta rete di masserie ed anche la transumanza autunnale può riprendere vigore.

In seguito all’ampliarsi della grande proprietà fondia-ria, originato dalla redistribuzione delle terre, e all’au-mento delle aree destinate al pascolo, nell’età normanna l’allevamento ovino conosce, infatti, un notevole in-cremento quantitativo e qualitativo. La ricca documen-tazione disponibile ci dà molte notizie sulle modifiche introdotte nell’uso delle terre incolte, sottoposte al re-gime della foresta. Questa ha un significato non tanto botanico o geografico, bensì istituzionale e comporta un irrigidimento ed una limitazione sensibile dei diritti di pascolo: se per i latifondisti si trattò di trovare il sistema per incrementare il latifondo, per i piccoli allevatori la riduzione delle terre comuni operata dalla legislazione normanna comportò invece una contrazione dell’attività pastorale, così che i signori normanni divennero i mag-giori allevatori del paese.

Inizia qui un processo di concentrazione delle risorse allevatoriali nelle mani della Corona, dei feudatari, delle abbazie e dei grandi proprietari, ai quali tutti perveniva-no non solo i prodotti, da utilizzare o vendere, ma anche i proventi di quegli iura che la legge impose, tra l’altro, sulla trasformazione e sulla commercializzazione inter-na ed estera di quei prodotti. Commercializzazione che fu molto intensa, poiché i Patti intercorsi tra Guglielmo II ed i genovesi tra il 1156 ed il 1157, nonché la docu-mentazione commerciale disponibile per il secolo suc-cessivo, citano lana, cuoio, pelli e velli di agnello come generi di esportazione di primaria importanza. Né si può trascurare, perché indicativa della ripresa della transu-manza, la concessione del diritto di libero pascolo sul Gargano, elargita nel 1110 da Ruggero I.

Le leggi emanate in età normanna sembrano costitu-ire l’anello di congiunzione legislativo fra transumanza di età antica e Dohana Menae pecudum. Il rigore che

le caratterizza sui delitti di abigeato fu stemperato dalla costituzione Ut delieti fines emanata da Federico II, ma l’esame di tutte nel loro insieme denota una situazione in grande evoluzione: si aumentava infatti la normativa per rispondere alla crescita del settore pastorale, che doveva pur essere di natura transumante se le greggi stabulanti venivano colpite dallo ius stallae.

L’intensità dell’attività allevatoriale prosegue per la minuziosa regolamentazione delle masserie regie, che sembra voler stabilire un rapporto più equilibrato tra agricoltura e pastorizia. Gli Statutum massariarum di età manfrediana costituiscono per noi interessantissimi documenti di vita allevatoriale e di etologia animale, se-gno del crescere di interessi naturalistici che ebbero alte tradizioni nell’età normanno-sveva. Tra XI e XII secolo l’intenso commercio transmarino tra i porti pugliesi di Siponto, Barletta, Trani, Bari, Brindisi, Otranto, Taran-to e tutto l’Oriente, i paesi sud-occidentali europei, la Tunisia, Tripoli e varie località dell’Africa settentrionale prevedeva una intensa circolazione di bestiame nostra-no, esportato in cambio del rame e dello stagno spagnoli, delle spezie e delle sete orientali.

Il vescovo Liutprando di Ravenna ci informa che ad opera dei mercanti amalfitani la lana pugliese veniva in-trodotta sia in Italia settentrionale che all’estero e che anche i pisani trafficavano in Puglia ed in Sicilia nel cor-so del XII secolo in bestiame e cereali. Sia in età federi-ciana che in età angioina l’esportazione di bestiame ovi-no viene rigidamente controllata a fini protezionistici, e permessa soltanto dietro apposita autorizzazione; non vi è inoltre una frequente importazione, ed infatti una sola volta è testimoniato, nei Registri angioini, l’acquisto di alcuni arieti della Barberia: ma siamo già nel 1278, nel periodo cioè in cui le coste pugliesi e calabre comincia-no ad essere predate dalle scorrerie aragonesi.

In seguito, le difficoltà finanziarie angioine consegne-ranno ai banchieri e ai mercanti fiorentini tutte le attività produttive dello Stato, compromettendo seriamente an-che l’allevamento del bestiame. Nel complesso, il lungo periodo intercorrente tra mondo antico e mondo moderno si configura, anche per la storia dell’allevamento ovino, come un ciclo evolutivo, con una sostanziale continuità tra epoca romana ed epoca altomedioevale. Ci furono, però, delle oscillazioni se non fratture nella forma al-levatoria della transumanza, significativi adattamenti e non immobilità, pur rimanendo innegabile la vocazio-ne naturale dei nostri territori, poiché certamente i vari gruppi sociali via via emergenti nelle regioni meridionali

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si posero comunque in modo diversificato di fronte ai fe-nomeni allevamento e transumanza nel corso dei secoli che dal III al X videro l’evoluzione del mondo romano a mondo moderno e lo sviluppo dell’economia feudale.

Certamente, la maggiore razionalizzazione di quei fenomeni avviene in età aragonese con la istituzione della Dogana delle pecore nel 1447. Tale istituzione condizionò per quattro secoli tutta la “Puglia piana” e il territorio che dall’Abruzzo si estendeva fino alla ter-ra di Bari, comprendendo anche le provincie viciniori molisane, irpine, basilische e campane. L’istituzione della Dogana codificò, in un rigido sistema amministra-tivo, giudiziario e fiscale, l’economia di tale territorio, costituendo, per l’enormità della estensione, il potere dei governanti (i Doganieri) e la ricchezza amministra-ta, sia fiscale che mercantile, un vero e proprio regno nel Regno, con peculiari caratteristiche tali da poterla considerare unica nella storia d’Italia e d’Europa. Il 1 agosto infatti, Alfonso d’Aragona, vinta ogni resisten-za nella ventennale guerra che lo aveva opposto agli Angioni, instaura la sua dinastia nel Regno di Napoli e inizia il consolidamento della sua Monarchia e, per que-sto, lo sfruttamento della pastorizia abruzzese-pugliese, per farne uno dei cespiti fiscali più ricchi del Regno. Nacque così quella che è stata definita l’industria regia delle pecore che non tardò a divenire, oltre che ricca fonte fiscale, un pilastro politico delle monarchie che si succedettero nel Regno, Aragonesi, Spagnoli, Austria-ci e Borbone, il cui mantenimento e conservazione fu considerato un punto di riferimento costante del potere politico centrale dell’”ancien regime” contro ogni for-ma di rinnovamento e cambiamento, postulato da eco-nomisti ed innovatori, e che sacrificò per quattro secoli alla “ragion di stato”, elites politiche e culturali, imprese private, allevatori, pastori, agricoltori e contadini, e tutto questo in nome della “Ragion Pastorale”, per dirla con il ben noto testo sulle vicende doganali, scritto nel 1731 da Stefano De Stefano che lavorò più di trent’anni come giudice doganale a Foggia e fu poi Presidente della Do-gana.

L’istituzione della Dogana ha posto alcuni problemi storiografici ai quali ci pare opportuno accennare. Il pri-mo riguarda la questione se tale istituto sia nato dal “ge-nio” di Alfonso o se il Sovrano si sia ispirato alla lunga storia e tradizione dell’allevamento pastorale in Capita-nata o, ancora, dall’analoga organizzazione della tran-sumanza in Spagna, la Mesta. Altro problema è quello che attiene alla “vocazione pastorale” della Capitanata,

un problema che, specie alla luce degli ultimi 50 anni di storia agricola del Tavoliere, possiamo affermare sia stato spesso all’origine di tanti errori storici e di conflitti delle vicende della Capitanata.

In realtà la “scelta” pastorale fatta da Alfonso d’Ara-gona fu dovuta a quel concorso di circostanze storiche, a quel contesto di situazioni, dallo spopolamento della Capitanata a seguito delle guerre che resero impossibili le coltivazioni, al bisogno di entrate fiscali, all’esempio “redditizio” della Mesta spagnola, alle richieste di lana delle città tessili italiane, alla tradizione spagnola favo-revole alla pastorizia, senza le quali l’istituzione dogana-le non sarebbe stata né conveniente né possibile. Certo è che essa modificò in pochi decenni radicalmente la “fi-losofia” sul territorio della Capitanata non solo in senso agronomico, ma anche culturale.

C’è infine il problema della “longevità” della istitu-zione, ben trecentocinquanta anni di una struttura, che sopravvisse a mutamenti di governi, guerre, calamità naturali, carestie, difficili congiunture economiche, ten-sioni interne e lotte feroci per interessi contrastanti etc. etc. Una spiegazione valida ci viene data da John Mari-no che asserisce quella “longevità” essere scaturita dal Buon Governo (rifacendosi al noto titolo di uno scrittore della Dogana del XVII sec., il Gaudiani) che assicurò il mantenimento dell’istituzione Doganale per l’opera me-diatrice dei governanti, da Alfonso d’Aragona a Ferdi-nando il Cattolico, da Filippo II a Carlo di Borbone, che garantirono, in definitiva, un sistema che offriva giusti-zia e legalità in un mondo di soprusi feudali e di poteri ecclesiastici, una sicura tutela del mondo pastorale ed agricolo e questo da parte di una forte autorità politica centrale.

Un’ipotesi valida certamente per tutte le Dogane ar-mentizie, ma tutta da verificare per la Dogana di Foggia e che contrasta con la realtà e le vicende difficili, tumul-tuose, spesso drammatiche, della sua storia. Non pos-siamo tuttavia chiudere queste note riguardanti la sto-ria dell’istituzione doganale senza accennare al capitolo importante che è quello dell’opposizione, che spesso di-venne ostilità e avversione, all’esistenza della Dogana. Ci riferiamo non soltanto ai riformatori settecenteschi, agli economisti illuministi, dal Galiani al Cimaglia, al Palmieri al Filangieri, al Galanti, ma al ceto agrario, ai gruppi mercantili, agli allevatori “poveri” contro i “mas poderosos”, padroni dei pascoli più ricchi, ai giuristi che si opponevano allo strapotere del Tribunale speciale, agli oppositori della corrotta burocrazia doganale.

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La storia della Dogana è fatta anche di conflitti di classe, di feroce antagonismo fra allevatori e agricoltori, fra riformatori e conservatori, fra produttori e commer-cianti, fra piccoli e medi proprietari, senza contare l’op-posizione “politica” (basta pensare alla rivolta a Foggia di Sabato Pastore con Masaniello e alla Foggia “giacobi-na” nel 1799). L’istituzione della Dogana creò un impat-to profondo e duraturo sulla Capitanata, condizionando e modellando non solo il territorio ma la popolazione e la società civile, rendendo stabile e permanente quel fe-nomeno storico della transumanza, comune a tanti paesi del Bacino del Mediterraneo (sul quale scrisse pagine famose il Braudel) con i suoi tratturi, ed i pastori, con le loro consuetudini, religiosità e costumanze che hanno fatto parlare di “civiltà pastorale”, ed ispirato scrittori, poeti ed artisti. Sotto la spinta di tale istituzione venne a configurarsi tutto il “paesaggio agrario” della Capitanata nei secoli XVI - XVII - XVIII, da Camillo Porzio, nel 1580, così descritto “È provincia assai giovevole alle altre del Regno ma in quanto a sé la più inutile che vi sia perché malissimo abitata di non buona area, priva di alberi e di legna, poverissima d’acqua”.

Tale è, infatti, in quegli anni, la immensa pianura del Tavoliere, piatta e desolata, per il forzato obbligo di de-stinare le terre al pascolo delle sterminate mandrie di ovi-ni che in autunno scendevano dall’Abruzzo e dal Molise, priva di insediamenti rurali e contadini, per il divieto di inseminare le terre, di costruire case rurali e stabulari, di creare muri di contenimento che ostacolassero i pascoli, di piantare alberi, e che diedero al Tavoliere di Puglia quell’aspetto che il Galiani nel ‘700, definiva simile “al deserto africano o alla barbara Tartaria”. Centro dell’isti-tuzione doganale fu certamente - dopo un breve periodo iniziale nel quale la Dogana ebbe sede a Lucera (1468) - Foggia, che divenne la prima città del Regno, subito dopo Napoli, per popolazione e importanza economica e per valenza amministrativa e giudiziaria, ancora oggi rimarchevole in alcuni dei suoi monumenti, il Palazzo della Dogana, il seicentesco Epitaffio, punto di arrivo dei grandi tratturi, il Piano della Croce, la Fiera. Ruolo determinante ebbe poi il potere giudiziario con il Foro privilegiato della Dogana in quanto l’istituzione dogana-le aveva sancito la giurisdizionalità di tale Foro su tutti coloro i quali nel Regno esercitavano la pastorizia o era-no interessati all’industria armentizia, facendo di Foggia una delle più importanti sedi giudiziarie del Regno.

La struttura amministrativa e giurisdizionale della Dogana delle Pecore di Foggia, fu organizzata, nei se-

coli del suo funzionamento, come una “macchina” de-stinata a regolare, con norme precise ed efficaci, tutto il complesso mondo della pastorizia che faceva capo ad essa. Una “macchina” burocratica, con una struttura pi-ramidale e gerarchica, che rispondeva al potere centrale a Napoli, la Regia Camera della Sommaria. Alla testa c’era il Doganiere, di nomina regia, nel quale si racco-glievano tutti i poteri amministrativi e giurisdizionali. Non c’era nel Regno magistrato di più ampia autorità, particolarmente sentita nella città di Foggia, anche nei confronti dei Reggimentari (i pubblici amministratori). Il Doganiere era anche il Presidente del Tribunale della Dogana. Compiti del Doganiere erano la “professazio-ne” (la conta) degli animali, la distribuzione dei pascoli e degli erbaggi, l’esazione della “fida” (le tasse sui pa-scoli) e la cura perché tutti i momenti della transumanza, e i commerci durante la Fiera funzionassero nel migliore dei modi.

Altri funzionari della Dogana erano l’Uditore, giudi-ce di tutte le cause doganali e il Credenziere, di nomina Regia, procuratore del fisco ed esattore della “fida”, che era di fatto, come veniva appellato, una “spia del Re”, messo a quel posto a controllare le operazioni del pri-mo, il quale, appunto per questo, entrò spesso in con-trasto con il Doganiere. Funzionari minori erano ancora il “Percettore” (cassiere ed economo), che rivestiva un ruolo importantissimo poiché gestiva tutte le entrate del-la Dogana; il “Mastrodatti”, (Segretario del Doganiere e conservatore degli atti e dell’Archivio), i “Cavallari”, addetti all’assistenza dei pastori e sorveglianti del buon andamento di tutta la Dogana, che, di fatto, dovevano essere gli “occhi” del Doganiere; ed ancora lo scrivano delle “terre salde”, lo scrivano delle “passate”, luogote-nenti, ed un immenso sciame di subalterni ed addetti agli uffici. Il Tribunale della Dogana aveva poi un proprio organico oltre l’Uditore e l’Avvocato fiscale, quale l’Av-vocato dei Poveri, e vari giudici togati.

Altri personaggi autorevoli nella gestione della Do-gana erano i Compassatori, o Regi Agrimensori, che cu-ravano la misurazione dei terreni della Dogana, e i Pe-satori di lana. Questa, dei Pesatori, riguardava una delle funzioni più importanti della Dogana. Essi, riuniti in “paranze”, erano eletti dagli allevatori e l’eletto poteva durare in carica tutta la vita e doveva riscuotere la fiducia sia da parte degli allevatori che della pubblica autorità. Compito dei pesatori era quello di procedere alla pesa e all’imballaggio della lana prodotta che veniva rinchiusa in grossi sacchi – “balloni” - che venivano infondaca-

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ti nei capaci magazzini della città ancora oggi esistenti. Tutta la produzione laniera verificata dai pesatori era cal-colata in rubbi che equivalevano a kg. 8,91. Il personale della Dogana gestiva tutto il territorio ad essa affidato che comprendeva sia i terreni a pascolo del Tavoliere di Puglia che altri, ubicati in terra di Bari, in Basilicata e in Abruzzo, questi ultimi amministrati dalla Doganella di Abruzzo, diretta da un Luogotenente della Dogana.

Accanto a tali strutture “ufficiali”, operava anche - e rivestiva altrettanta importanza - una organizzazione parallela quella della “generalità dei pastori” volta a sal-vaguardare gli interessi degli allevatori, con a capo tre sindaci o deputati, con il compito, appunto, di tutelare la pastorizia nei molteplici rapporti sia con la Dogana che con i terzi. Tutta la superficie amministrata della Dogana era divisa in un certo numero di dipartimenti detti loca-zioni, (per cui i proprietari delle greggi erano detti ”lo-cati”) divise a loro volta in poste. Le locazioni maggiori erano 23, di diverso valore dato dalla qualità dei pascoli. In genere le locazioni erano occupate dalle stesse “na-zioni” o paesi di provenienza: ad esempio la locazione di Candelaro dal Comune di Roccaraso, quella di Ca-stiglione da Lucoli, Sant’Andrea da Pescocostanzo, ecc. Per ogni locazione era stabilito il numero di pecore che essa poteva accogliere.

Le “poste” erano molto più numerose (da 350 a 500) e di minori dimensioni. Anche esse erano assegnate per lo più agli stessi “locati”. Tuttavia, tutto il sistema delle concessioni dei pascoli dava luogo a favoritismi, illeci-ti, alla corruzione degli ufficiali della Dogana, creando conflitti fra ricchi e titolati proprietari di gregge e i pa-stori più poveri. Non tutto il Tavoliere era destinato alla pastorizia ed infatti una parte del territorio era riservato alla coltura agricola, in genere alla cerealicoltura. Erano le terre di “portata” con le loro masserie che venivano seminate col sistema a rotazione le quali durante il ripo-so ritornavano al pascolo e quindi sotto il potere doga-nale. Un capitolo importante pertanto delle vicende della Dogana è quello riguardante i rapporti fra agricoltura e pastorizia, una storia lunga, difficile che vide prevalere, nell’uso dei terreni, ora l’una ora l’altra parte. Possiamo comunque dire che il rapporto pascolo-coltivazioni era di 60% al pascolo e 40% a uso agricolo; un rapporto che spesso si modificò a favore dell’agricoltura (52% a 48% nel 1700) ma che, a causa della rotazione biennale, e del-la porzione di terre destinate al pascolo bovino, rimase sempre a favore della pastorizia.

Sul fenomeno della pastorizia transumante sono stati

scritti molti volumi di notevole valore storiografico, ma quella che ci riguarda è una particolare forma di tran-sumanza che si riferisce solo ad un tipo di allevamento, quello ovino e la cui migrazione è a carattere stagionale. Due sono le nazioni mediterranee nelle quali tale feno-meno ha assunto maggiore rilevanza storica ed economi-ca: la Spagna con la sua Mesta e l’Italia Meridionale con la sua Dogana. In Spagna, dopo la cacciata dei Mori dalle pianure meridionali dell’Estremadura e della Mancia, gli allevatori settentrionali provenienti dalle montagne della Galizia, delle Asturie, del Leon e della Castiglia, intorno al 1150, iniziarono i loro spostamenti autunnali di pecore alla ricerca di pascoli invernali. In Italia meridionale sul versante Adriatico della penisola, dalle montagne degli Abruzzi e del Molise gli allevatori presero a scendere verso la “Puglia Piana”, il Tavoliere di Foggia, con le loro greggi.

In Spagna come in Italia meridionale, tale migrazione di pastori diede vita a un sistema di vita, unico e caratte-ristico, che ha configurato il loro territorio dalle lontane origini preistoriche fino a ieri. Le greggi transumanti, che comprendevano milioni di pecore, avevano bisogno di strade ampie e protette, con sicuri riposi, per le so-ste notturne (il viaggio durava da 4 a 6 settimane). Tali strade erano chiamate tratturi ed erano larghe 60 passi napoletani (uguali a 111 metri). Queste vie erbose fra l’Abruzzo, il Molise e la Capitanata si può dire siano sempre esistite, ma furono ufficialmente istituite, con tutte le loro regole e discipline, agli inizi del 1500. I prin-cipali tratturi lunghi oltre 200 Km. erano tre: L’Aquila-Foggia, il più importante, detto il tratturo del Re che era lungo 243 Km.; il Celano-Sulmona- Foggia, il Pescasse-roli-Castel di Sangro-Foggia, i quali percorrevano strade diverse per giungere nel Tavoliere, ma di fatto ne esiste-vano molti altri di raccordo, i “tratturelli” e “bracci” che si collegavano ai tratturi maggiori.

Lungo i tratturi era proibito sconfinare, seminare, piantare alberi o porre ostacoli. Anche se passavano at-traverso proprietà private erano esentati da tasse ed an-gherie. Si trattava di una vera e propria rete stradale di oltre 3mila km che attraversava ben 13 province interes-sate alla transumanza. Particolare rilevanza nella struttu-ra della viabilità tratturale avevano i “riposi” cioè le aree destinate a far riposare e pascolare le greggi transumanti nel loro cammino fino al Tavoliere. Essi erano numerosi lungo i tratturi e le pecore in transito potevano fermarsi per 24 ore. Ma i più importanti erano i “riposi generali” che erano destinati ad ospitare tutte le greggi prima di

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entrare nelle “locazioni” nei pascoli cioè loro assegnati, sotto la guida degli ufficiali della Dogana, cavallari e po-staioli, per non creare disordini e contestazioni.

Tali “riposi generali” erano tre: quello del Saccione, lungo la costa Abruzzese al nord della Capitanata, nel terreno fra il Fortore, il Trigno e il Sangro, il più este-so; poi quello della Murgia, fra Andria e Corato a Sud e quello del Gargano nella zona di Apricena. Anche l’en-trata delle greggi nel Tavoliere avveniva attraverso passi ben stabiliti (essi erano 7 e cioè Guglionesi, Ponterotto, Motta, Biccari, Ascoli, Meffi e Spinazzola) ove erano controllati ai fini fiscali. La migrazione ricorrente, due volte l’anno, di queste immense greggi, accompagnate da grandi “famiglie” di pastori, di butteri, di “quatrari”, con carovane di muli, asini, cavalli, cani da pastore, at-trezzature per vivere sei mesi lontano da casa, pali e reti per gli stazzi, per accamparsi, doveva essere uno spetta-colo certamente suggestivo ed imponente.

Tutto questo mondo era anch’esso organizzato con ri-gide gerarchie e precise mansioni. A capo il “massaro” uomo di fiducia del proprietario; sotto di lui “il sotto-massaro” o caciaro incaricato della mungitura e della fabbrica dei formaggi; il capo buttero addetto al vettova-gliamento e alla vendita delle produzioni ovine; i butteri addetti al bestiame “grosso” (cavalli, muli, asini, buoi). C’erano poi i pastori divisi in categorie: gli scortellari (addetti alle pecore gravide), i carosatori (per la tosa), il buttericchio, il quatraro (ragazzo che aiutava tutti, ultimo della gerarchia). Accanto a questo personale stabile ecco poi il variopinto mondo che viveva ai margini: i fiscellari (che facevano i contenitori dei formaggi e delle ricotte), il sorciaro (contro i topi), il luparo (contro i lupi), i fer-rai, bastai, il “bassettiere” che acquistava le bassette, le pelli cioè delle pecore e degli agnelli macellati ed infine pifferai e zampognari.

Il patrimonio ovino che operava nelle terre della Do-gana, con i suoi privilegi, diritti e criteri, era assai cospi-cuo. L’”esercito” di pecore che venivano a pascolare nel Tavoliere era immenso. Si calcola che esso oscillasse da un milione e mezzo a due milioni di capi. Da documenti archivistici che fanno riferimento alle entrate fiscali si ha notizia anche di presenze maggiori; nell’anno 1580, ad esempio, sotto il Governo del Doganiere Fabrizio Di Sandro, si parla di 4.250.000 pecore con un introito di 450.000 ducati ed analogamente nel 1604 di 5.500.000 pecore con un introito di circa 300.000 ducati.

Si trattava di veri ducati ma di pecore inesistenti in quanto i terreni a pascolo non avrebbero potuto contene-

re così gran numero di animali. Ciò era dovuto alla fin-zione praticata dagli allevatori di dichiarare un maggior numero di pecore - e di pagarne la tassa - per avere più pascoli a disposizione, la qual cosa conveniva anche alla Dogana. La finzione contabile definiva tali pecore come “pecore in aerea”: e cioè pecore in aria. Comunque dopo la Mesta Spagnola che poteva contare su 3 milioni di capi quella del Tavoliere era la più grossa concentrazio-ne pastorale dell’Europa mediterranea.

Il calendario delle emigrazioni delle greggi tran-sumanti corrispondeva al ciclo agricolo. Le greggi si muovevano dall’alpeggio estivo prima delle piogge, all’inizio dell’autunno. L’anno pastorale pertanto dura-va da settembre ad aprile e i pastori potevano tornare in Abruzzo solo dopo aver venduto la lana e gli altri pro-dotti dell’allevamento e proceduto al pagamento della “fida”, tanto è vero che era proibito tornare in patria con gli animali “lanuti”. Le greggi partite il 15 settembre do-vevano giungere al Fortore entro i primi di novembre ed entrare gradualmente nelle “locazioni” a loro destinate entro il 25 novembre, giorno di Santa Caterina. Analo-gamente, il ritorno ai pascoli estivi doveva aver luogo dal 25 marzo all’8 maggio. Tutto il movimento delle greggi era regolamentato con norme precise affinché la “macchina” pastorale potesse muoversi e funzionare in maniera precisa.

Il mondo della pastorizia transumante era un mondo chiuso, di tempi lunghissimi, di cicli sempre uguali, se-gnati dall’evolversi delle stagioni, in “paesaggi” e spazi immobili - montagna, pianura -, in cui operava il pastore, che faceva parte di una struttura sociale fissa e consuetu-dinaria. Uno dei problemi più importanti dell’allevamen-to ovino era quello dell’alimentazione del bestiame che era naturalmente quello proveniente dai pascoli naturali. Le terre al pascolo del Tavoliere non erano affatto unifor-mi, per la presenza di terreni più ricchi di pastura, meno acquitrinosi e quindi più ambiti dagli allevatori, contro quelle “poste” il cui terreno era pieno di radici, arbusti e piante spontanee spinose, che erano dette “frattose”. Per cui il fitto, la locazione dei terreni, scatenava una con-correnza, una grande conflittualità per la conquista delle “locazioni” non solo con i migliori erbaggi ma per quelle collocate in terreni in declivo, che consentivano il flusso delle acque e la più facile costruzione dei provvisori ri-coveri, “scariazzi”, per il riposo delle greggi.

Fra le “locazioni” le migliori erano considerate quella di Rignano, che occupava i terreni attorno al Candelaro e quella di Orta, nella zona fra Orta Nova, Stornara e

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Cerignola, la peggiore quella di Canosa. Quanto alla loro validità, visti con l’occhio odierno i pascoli del Tavolie-re non erano certamente ottimali. Lasciate a se stesse le immense pianure erano per lo più contaminate da acque stagnanti e quindi anche da erbe palustri (giunchi, can-ne, ferule, ecc.). La maggior parte delle erbe erano poco adatte o inutili per le greggi (saponaria, convolvo, bosso, corniolo, ecc) o addirittura velenose (il lupino, la cicuta, i ranuncoli, la segale cornuta). Le erbe più abbondanti erano la medica, la cicoria, il cardoncello, la gramigna, ecc.

L’allevamento del tempo avveniva per gruppi di 200-250 pecore che era considerato ottimale e che aveva una struttura organizzativa unica. Il problema principale era quello di mantenere sempre dello stesso numero e in equilibrio tale gregge. L’arco biologico dell’esistenza della specie, che oggi è di circa 13 anni, a quel tempo superava raramente gli 8 anni, una longevità alquanto bassa; per quanto riguarda la fertilità, le pecore rimane-vano fertili dal 18esimo mese fino al 7imo anno, ma rag-giungevano la prima età riproduttiva a 3 anni. Per ogni gregge di 200 pecore si tenevano 10 montoni, che in te-oria, potevano ingravidare da 15 a 20 pecore l’anno, che a loro volta poteva sopportare gravidanze di uno o due agnelli, ma in pratica il rapporto era di circa 0,5 agnello per pecora, un tasso di fertilità anch’esso molto basso anche per il fatto che gli accoppiamenti erano lasciati alla natura.

Con tale produzione gli allevatori tentavano di avere la migliore produzione di lana, carne e formaggio con la certezza che le greggi invecchiassero in modo unifor-me, sostituendo le pecore giovani, di meno di 4 anni, a quelle invecchiate di 7 anni. In tal modo il gregge veni-va ringiovanito costantemente. Il periodo di gestazione era mediamente di 5 mesi (140-160 d). La riproduzione delle pecore era dunque limitata a due stagioni imme-diatamente prima e dopo la transumanza, in primavera e in autunno. Le pecore che concepivano a settembre, prima che lasciassero il pascolo estivo, davano alla luce gli agnelli a fine febbraio, agnelli che erano tutti macel-lati data la scarsità di nutrimento invernale. Le pecore messe incinte a novembre partorivano gli agnelli alla fine di marzo e aprile giusto in tempo per la Pasqua. Le pecore che concepivano alla fine di marzo producevano gli agnelli “primaticci” che nascevano nei pascoli estivi abruzzesi ed erano commercializzati alle fiere di Lancia-no, di L’Aquila e di Tagliacozzo.

Un diffuso sistema considerato essenziale per la buo-

na crescita degli armenti e per proteggerli dalle malattie era quella di somministrare loro notevoli quantità di sale. Tale era l’importanza di questo sistema che della distri-buzione se ne occupava la stessa Dogana - con vantag-gio cospicuo da parte dell’Arredamento delle saline di Puglia (Barletta) -, la quale si incaricava di distribuire ai pastori a prezzo conveniente la quantità di sale necessa-ria alle loro greggi che era valutata in 2 tomoli di sale per ogni cento pecore al prezzo di circa 40 grani a tomolo, un debito comunque per gli allevatori da pagarsi insieme alla fida. Sulle tecniche c’è da sottolineare il fatto che le consuetudini secolari e molti pregiudizi erano spesso motivo di rifiuto di ogni innovazione. Per esempio un luogo comune assai diffuso era quello che l’accoppia-mento coi merinos portava all’aborto.

Anche per gli stazzi c’erano convinzioni radicate: ad esempio, che gli escrementi non andavano tolti e per-tanto le pecore potessero giacere su strami di letame in-durito, l’ostilità per la ventilazione dei ricoveri (nemico della pecora è il vento), le rastrelliere (la pecora mangia a terra), che la coda andava tagliata, ecc. Il momento più importante era quello della tosatura che aveva luogo in aprile. Le greggi venivano condotte in zone con corsi d’acqua dove erano lavate dopodiché si procedeva alla tosatura. La tecnica per la tosa, effettuata da specializzati “carosatori”, caratterizzava una delle professioni tipiche del mondo pastorale; dopo aver abbandonato il primitivo e barbaro sistema di svellere, di strappare la lana dal-la pelle della pecora, avveniva mediante lunghe forbici che causavano spesso ferite sulla pelle degli animali che venivano cauterizzate con pece. La tosatura si svolgeva come una festa accompagnata come era, da canti, balli, libagioni.

L’allevamento ovino diede vita ad una grande indu-stria dei prodotti della pastorizia: la lana, i formaggi, le carni, le pelli che furono fonte di un imponente, per i tempi, movimento economico. Naturalmente tale pro-duzione ebbe, nel lungo periodo, momenti diversi di contrazione ed espansione, dovuto a vari motivi: a cause naturali quali le epizozie, le fluttuazioni climatiche, le pestilenze, le carestie, le angherie baronali, guerre e a cause economiche, quali difficili congiunture non solo nel Regno ma europee, le crisi laniere, cadute di prezzi, che erano assai frequenti tanto da poter dire che la storia economica della Dogana è la storia delle sue ricorrenti crisi.

Va tenuto presente inoltre che tale produzione era le-gata alla commercializzazione dei prodotti per cui le sue

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vicende sono strettamente correlate all’andamento dei mercati, alla loro domanda e offerta. Questo era partico-larmente importante per il mercato laniero. Ci sono stati dei momenti infatti in cui la lana di Foggia godette di un mercato assai favorevole - durante la guerra dei cento anni - che tagliò fuori la lana inglese dai mercati europei. Altro periodo favorevole fu alla fine del 1500 durante il quale la lana abruzzese era considerata fra le migliori d’Europa e si può dire che l’industria dei panni fioren-tina e veneziana vivesse sulla produzione acquistata sul mercato di Foggia. Una stagnazione della domanda si ebbe nel 600 durante il periodo spagnolo, a causa delle ripetute guerre intraprese dalla Spagna e dalla concor-renza del basso prezzo della lana castigliana.

Diversi erano i tipi di lana prodotti. Innanzi tutto la lana “maiorina” o maggiolina che formava la maggior parte della produzione, l’85% circa. Si trattava di lana bianca fine prodotta dalla Gentile che trovava un otti-mo mercato. C’era poi la lana “agostina”, che nasceva dalle pecore tosate in estate in Abruzzo e non commer-cializzata a Foggia, di minor valore e la lana “agnellina” prodotta dagli agnelli. Accanto a questi tre tipi di lana di maggior pregio c’era la produzione di minor valore: la lana “nera” proveniente dalle altre razze allevate, la Moscia e la Carapellese, meno remunerative e che ave-vano uno specifico mercato interno per i panni ruvidi e i materassi. E infine la “castratina”, “matricina” (prodotta dalle pecore infeconde), la lana “sboglia” (proveniente dalla tosatura delle estremità dei corpi delle pecore).

Per quanto attiene alla produzione laniera e alla sua commercializzazione, nel corso dei vari secoli siamo in grado di avere un quadro preciso tramite i documenti dell’Archivio di Stato di Foggia e ciò a causa dell’ob-bligo di vendere tutto il prodotto tramite la Fiera. Tutta la produzione era infatti registrata dai Regi Pesatori che indicavano con precisione qualità e quantità di lana, pro-prietà, acquirenti. Per il ‘400 e ‘500 mancano dati precisi che cominciano ad esserci col secolo XVII. Tuttavia sap-piamo che la desertificazione del Tavoliere, la mancanza di concorrenza da parte dei coltivatori e quindi la ricca disponibilità dei pascoli favorirono la pastorizia e la pro-duzione laniera. Essa si aggirava mediamente sui qua-ranta, cinquantamila rubbi, dai quali si ebbe comunque un ottimo ricavato per la fortunata congiuntura e l’otti-mo mercato che aveva la lana foggiana.

Nel ‘600 la produzione laniera fu, in generale al di sotto degli anni precedenti e visse alterne vicende, spes-so negative, con una forte diminuzione di vendite e di

prezzi a causa delle difficoltà di mercato e per la pessi-ma amministrazione vice reale spagnola (alla ricerca di denaro per le guerre di Fiandra, la guerra dei trent’anni), l’imperversante banditismo, le rivoluzioni (Masaniello), le pestilenze (la grande peste del 1656). I capi di bestia-me ovino, presenti nel Tavoliere si ridussero da 2 milioni alla fine del ‘500 a 600 mila nel 1635. Comunque la pro-duzione laniera si aggirò mediamente sui 60.000 rubbi per giungere alla fine del ‘600 a 81.645. Il ‘700, cessa-to il difficile periodo vicereale spagnolo e subentrato ad esso quello austriaco e poi dei Borbone, fu un secolo di forte crescita economica per la Capitanata, anche se se-gnato da due grandi catastrofi, lo spaventoso terremoto del 1731 a Foggia e la carestia e la moria avvenute in tut-ta la Capitanata nel famoso anno “della fame”, il 1764.

La produzione laniera rimase stabile anche nella pri-ma metà dell’800 anche se la concorrenza delle lane extra-europee fece svalutare la produzione foggiana e crollare i prezzi. Il secondo prodotto della produzione ovina era quello dei formaggi o, come si diceva allora, dei caci. Si trattava di una produzione notevole, specie se si tiene conto della scarsa attitudine lattiera della Gen-tile, che proveniva dal latte prodotto da oltre un milione di pecore e che veniva commerciato in prodotti freschi (ricotte e butirri) ma per la maggior parte in caci pecorini stagionati. Il formaggio non veniva quasi mai lavorato dai pastori che si limitavano a raccoglierlo in pasta che veniva venduta ai commercianti (chiamati “quaratini” da Corato in terra di Bari) che li confezionavano in forme di varie grandezze (di 20, 30, 80 e 100 rotoli = 890 gr. di peso) per venderli.

Va ricordato che il consumo di formaggi freschi e stagionati costituiva a quei tempi una integrazione ali-mentare necessaria e di largo consumo. Le vendite av-venivano a peso, per cantaio, che equivaleva a circa 90 Kg. Anch’essi per una parte cospicua venivano commer-cializzati alla Fiera di Foggia. I dati a partire dal 1700, riportano una produzione assai variabile di anno in anno, per ovvie ragioni, con una media da cinquanta a sessan-tamila cantaie, con punte di 70, 80 mila negli anni ‘56-’59 e ‘63-’65. Il mercato del formaggio pecorino era in-tegrato dal formaggio di vacca, proveniente dal bestiame “grosso” allevato nelle masserie, che produceva i famosi caciocavalli che avevano un ottimo mercato.

Se prendiamo come numero base ancora un milione di pecore si vede che a un tasso di fecondità di 0,5 agnelli per pecora, si hanno 450 mila agnelli dei quali 300 mila da destinarsi al macello. Un numero notevolissimo di

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animali, con un florido mercato che si teneva a Foggia in primavera ed in Abruzzo in autunno. I dati che abbiamo (si riferiscono solo al ‘700 e riguardano solo il bestiame primaverile) parlano di una media annua commercializ-zata di 40-60 mila agnelli (con punte fino a 96 mila nel 1782) e di 20-30 mila castrati (con punte di 40 mila nel 1785). I compratori venivano dalla Toscana, dall’Um-bria, dalla Romagna e soprattutto dallo Stato Pontificio, come ricorda il Galanti. Quest’ultimo incontrò gravi problemi per l’approvvigionamento di carne ovina alla città di Roma, per l’abitudine di macellare agnelli di un mese di vita di peso modesto. Lo Stato Pontificio dovette perciò adottare, in alcuni territori, provvedimenti fina-lizzati a ostacolare questa pratica di allevamento impo-nendo che l’età di macellazione degli agnelli fosse pari almeno a 7-8 mesi.

Nonostante ciò, gli allevatori non rispettarono tali re-gole e nel 1586, Sisto V fu costretto, per regolamentare il mercato della carne a Roma, a istituire la “precetta-zione degli agnelli”, ossia impose che l’età minima per vendere gli agnelli fosse di 8 mesi. Unica eccezione a tale provvedimento fu fatta per un tipo genetico autoc-tono ovino chiamato ‘moretto-nero’. L’esclusione dal mercato di Roma determinò un incremento di questa popolazione poiché per gli allevatori era più redditizio macellare gli agnelli a un mese e trasformare il restante latte in formaggio. A causa della sua massiccia diffusio-ne, il tipo genetico autoctono ‘moretto-nero’ rappresentò la popolazione-razza di base impegnata negli incroci con il tipo genetico ‘berbero’(progenitore dell’attuale razza barbaresca) importato dai Borboni. Nel 1789, in seguito al preponderante incremento numerico della popolazione di ‘moretti’ a scapito delle altre razze, Pio IV abrogò la ‘precettazione degli agnelli’ e tornò d’uso comune ma-cellare gli agnelli a un mese di vita e trasformare il latte di ovino in formaggio; quest’ultima attività divenne l’at-tività economicamente più redditizia degli allevatori.

Ultimo prodotto il pellame: quello delle pecore e degli agnelli che, in misura certamente minore, era comunque una fonte di entrata della pastorizia. Esso, per la scarsa quantità, non era commercializzato dagli organi “uffi-ciali”, ma da mercanti ed incettatori detti “bassettieri”, che rivendevano, quelle di agnello, nel napoletano alle industrie di guanti e quelle di pecora, destinata alla con-fezione della cartapecora, per lo più a industrie romane e fiorentine. Il 25 febbraio 1806 segna l’inizio del de-cennio napoleonico, che emanò rivoluzionarie e radicali leggi tra cui, quella che investiva la provincia di Foggia

e le regioni vicine: la legge 21 maggio 1806, che sanciva l’abolizione della Mena delle Pecore di Foggia. Giun-ge così a termine la lunga storia di questa istituzione la cui abolizione ebbe conseguenze profonde nell’econo-mia della Capitanata e del Regno. La legge che “affran-cava” l’immensa proprietà della Dogana, vendendola ai “locati” o ai migliori offerenti annullò per sempre la “Ragion Pastorale”, modificando profondamente la struttura agraria del territorio, specie per quanto attiene al rapporto pastorizia-agricoltura, a favore di quest’ulti-ma, anche se è pur vero che per agricoltura va intesa la monocultura cerealicola. L’ultimo dei grandi Doganie-ri, Giuseppe Gargani, allontanato dai Borbone dopo il glorioso periodo della Repubblica napoletana del 1799 e rimesso al suo posto da Giuseppe Buonaparte, restò nel-la sua carica solo due mesi, per assistere alla fine della secolare istituzione e, avendo subito l’umiliazione della perdita del suo immenso potere, subito dopo ebbe a mo-rirne. Come è noto, la “rivoluzione” dei napoleonidi - di Giuseppe Buonaparte prima e di Gioacchino Murat dopo - non poté sortire tutti i suoi effetti perché essa ebbe vita breve e la Restaurazione - con il ritorno dei Borbone - si preoccupò di ristabilire quell’equilibrio nella vita delle campagne che l’abolizione della Dogana aveva rotto.

I Borbone tuttavia né poterono né vollero restaurare semplicemente la vecchia Dogana e diedero vita ad una nuova disciplina delle terre del Tavoliere con l’istituzio-ne del Demanio del Tavoliere, alle dirette dipendenze del potere centrale e sul quale si accese una furiosa polemica con gli economisti del tempo. L’ultimo periodo borbo-nico (1815-1860) visse perciò in bilico fra l’esigenza di mantenere il vecchio regime vincolistico, sia pure con le opportune modifiche e le nuove esigenze, che nasceva-no dalla borghesia agraria insofferente di tale regime e dell’isolamento dell’economia del Regno nei confronti del resto dell’Italia e dell’Europa.

E pertanto la “liberalizzazione”, iniziata nel periodo napoleonico non poté non continuare negli anni succes-sivi sotto la monarchia restauratrice dei Borboni (sancita dalla legge del 13 gennaio 1817). Infatti nel periodo fra il 1806 e il 1860 furono dissodate nel Tavoliere 56.000 versure, che furono destinate alle culture cerealicole e arboricole. Con l’Unificazione cessa definitivamente il regime della vecchia Dogana. Come è noto l’abolizione del Tavoliere e l’affrancamento delle sue immense pro-prietà, avvenne nel modo peggiore, senza tener conto degli interessi dei fittuari e delle popolazioni rurali e di scelte innovative agronomiche e tecniche. Prevalse l’in-

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teresse da parte del Governo - nella persona del rigido difensore del pareggio del bilancio dello Stato, oberato dai debiti di guerra, il Ministro Minghetti - a liquidare il patrimonio della Dogana (oltre 300.000 ettari) al fine di avvantaggiarne il più possibile le finanze statali.

Il valore delle terre da riscattare fu stabilito in 22 vol-te il canone di fitto da pagarsi in 15 rate annue. Ma tale riscatto, coattivo, costrinse all’indebitamento la maggior parte dei censuari. Ciò diede il via alla speculazione da

parte del capitale finanziario e commerciale, e i terreni della Dogana finirono per dar vita all’enorme proprietà latifondistica che caratterizzò la Capitanata dell’800. La semina dissennata di cereali portarono alla distruzione dei pascoli e di fatto alla fine della pastorizia. Si inizia così nel Mezzogiorno e nella Capitanata quel processo perverso che porterà alla crisi agraria e alla conflittualità delle campagne negli anni di fine secolo.

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Nel XIX secolo la maggior parte degli italiani viveva d’agricoltura, ma ciò nonostante l’Italia non era in gra-do di autosostenersi per quanto riguardava i generi ali-mentari, a causa della cattiva utilizzazione dei già scarsi capitali. Le colture piú praticate erano anche le meno remunerative poiché l’agricoltore medio non possedeva adeguati mezzi finanziari per effettuare investimenti in colture arboree (vigneti, oliveti, mandorleti), che neces-sitavano anche di 10 anni per dare i primi frutti. I fiumi erano privi di argini e vaste erano le porzioni di territorio pianeggiante paludose e infestate dalla malaria che rima-nevano incolte; per contro, scarsi erano gli appezzamenti irrigati razionalmente. Gli stessi terreni dissodati veni-vano abbandonati dalle coltivazioni dopo pochi raccolti, perché il proprietario preferiva dissodarne altri, anche per sfuggire all’imposta fondiaria. Quest’agricoltura aggravava la scarsità di terreni coltivabili e la mancan-za di generi alimentari. La diffidenza delle popolazioni contadine verso le innovazioni, il permanere di antiche superstizioni e la grave ignoranza tecnica, contribuivano a rendere ancora piú penosa la situazione. Ovviamente tali fattori si manifestavano con maggiore intensità nel-le regioni meridionali, in cui era largamente presente il latifondo. Nel Mezzogiorno, infatti, le condizioni econo-miche generali, ma soprattutto dell’agricoltura, che rap-presentava il maggior settore economico, mostravano un quadro ancora piú arretrato rispetto all’Italia settentrio-nale. Se si eccettua il tronco ferroviario Napoli-Portici (il primo in Italia a essere costruito), nel Regno di Napoli non esistevano altre strade ferrate. I collegamenti strada-li, laddove esistevano, versavano in uno stato di comple-to abbandono ed erano alla mercé di numerose bande di briganti, che rendevano difficili e insicuri i commerci.

Nell’antico Regno delle due Sicilie era presente un modesto settore industriale nel ramo tessile e meccani-co, tuttavia tutto addensato intorno alla città di Napoli e fortemente protetto da sussidi e commesse statali. Il re-sto dell’industria era costituito da lavorazioni primitive e artigianali. La causa di tanto divario è riconducibile, non solo al differente regime di proprietà fondiaria o alle

condizioni naturali, ma anche alla produzione agricola e alla forma di conduzione adottata.

Nel Settentrione, l’eliminazione della feudalità si ebbe prima rispetto al Sud e ciò consentì un piú precoce affrancamento delle categorie agricole e la conseguente formazione di una nuova classe di piccoli e medi im-prenditori rurali. Nel Mezzogiorno, invece, la grande proprietà feudale cominciò a decadere solo agli inizi del XIX secolo, grazie alle leggi sulla eversione della feuda-lità emanate dal governo napoleonico il 2 agosto 1806, che si possono considerare un primo tentativo di riforma fondiaria. Tale legge stabiliva che una parte dei demani feudali fosse assegnata in libera proprietà agli ex baroni, mentre l’altra doveva essere assegnata ai comuni nell’in-teresse dei cittadini.

In ogni feudo i “commissari ripartitori” dovevano stabilire la parte da distaccarsi per il comune e quella da lasciare a disposizione degli ex baroni. Questa prima azione riformatrice fallì, principalmente, perché i comu-ni erano governati da “galantuomini” che trassero un enorme profitto sui terreni da assegnare ai loro ammini-strati. Un altro impedimento era rappresentato dai costi d’acquisto dei fondi, che non potevano essere sostenuti dai poveri contadini. Coloro che, con enormi sforzi, ri-uscirono ad acquistarli dovettero rivenderli dopo breve tempo a causa della mancata redditività degli stessi.

Il Regno Sabaudo, per far fronte a un enorme debito pubblico, dovette impegnarsi in una politica di privatiz-zazione dei beni dell’asse ecclesiastico e demaniale. Tali vendite impegnarono tutto il periodo che va dall’Unità alla fine del secolo XIX. Manlio Rossi Doria (1982), nel suo Cent’anni di questione meridionale, pose l’accento proprio su questa nascente classe di borghesi rentiers, conservatori e reazionari, individuando in costoro la cau-sa del mancato decollo dell’agricoltura nel Mezzogiorno (e con essa di tutta l’economia), nel regno borbonico pri-ma e nello Stato unitario poi.

Inoltre, mentre il Settentrione mostrava una fitta rete di centri urbani ben collegati tra di loro e un tessuto agri-colo caratterizzato da insediamenti rurali stabili e ben

l’ovinicoltura e l’economia agricola del ‘900 nel mezzogiorno

F. d’Angelo, A. Sevi, A. Muscio

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distribuiti, nel Mezzogiorno la popolazione era concen-trata in grossi centri abitati mal collegati. Queste diffe-renze erano determinate, in maniera pronunciata, dalla presenza della malaria che, nel Mezzogiorno, assume-va una maggiore gravità rispetto al Nord, comportando l’impossibilità del formarsi d’insediamenti rurali stabili e pregiudicando, anche, il tipo di agricoltura attuabile. Nelle assolate e igienicamente insalubri lande meridio-nali, soprattutto nelle zone interne, il latifondo diveniva il solo modo possibile di coltivare la terra.

Un’altra causa di differenziazione del Sud, rispetto al Nord, risiedeva nello sfavorevole regime delle piog-ge (abbondanti d’inverno e scarse nei caldi mesi estivi) che indirizzava l’agricoltura meridionale verso la cere-alicoltura e la pastorizia, per lo piú con bestiame ovi-no e caprino. Questo stato di cose era rafforzato anche dalle svantaggiate condizioni orografiche. Infatti, nel Meridione i terreni giacenti in pianura rappresentavano solo il 18% della superficie produttiva, mentre la collina occupava il 53%, contro il 36% e il 19% del Nord. A una situazione di scarsa fertilità, si aggiungeva un esteso dissesto idrogeologico causato da disboscamenti dissen-nati. Infine, se nel Centro-Nord la proprietà contadina, la mezzadria (soprattutto nel centro) e l’affittanza erano molto diffuse, nel Mezzogiorno imperava il latifondo su cui gravava una sterminata massa di poveri braccianti e piccolissimi proprietari. Subito dopo l’unificazione, nonostante le difficoltà già illustrate, l’agricoltura meri-dionale attraversò un primo periodo di sviluppo dovuto all’esportazione verso i paesi del nord Europa (soprattut-to la Francia) di prodotti tipici dell’agricoltura meridio-nale quali: vino, olio e agrumi. L’olivicoltura si diffuse, in modo particolare, sulle colline adriatiche, abruzzesi e molisane, nelle “terre” di Bari e Otranto, nel Salernitano, nella Calabria Meridionale e nella Sicilia Orientale, co-sicché la produzione di olio meridionale si quadruplicò. L’exploit della produzione vinicola, dovuta anche alla distruzione della viticoltura francese, causata dalla infe-stazione della fillossera, ebbe una notevolissima espan-sione soprattutto in Puglia e in Sicilia, ma vennero rico-perte di lussureggianti agrumeti anche le zone costiere della penisola Sorrentina e della Calabria. Tutto questo sembrava proiettare l’immagine di un Mezzogiorno fi-nalmente avviato al superamento della sua miseria ata-vica, ma il processo interessò solamente le zone litorali alle quali si contrapponevano le sterminate aree interne a cerealicoltura estensiva. Malgrado ciò, nell’agricoltura meridionale si registrò un consistente flusso di investi-

menti fondiari. Questo andamento favorevole, purtrop-po, venne interrotto bruscamente nel 1888 con la svolta protezionistica e con l’entrata in vigore della nuova ta-riffa doganale. La politica protezionistica, intrapresa dal governo per proteggere la nascente industria del Nord, provocò l’immediata ritorsione da parte della Francia (principale importatore dei nostri prodotti agricoli), cau-sando il crollo delle esportazioni meridionali.

Per salvaguardare le esigenze commerciali del Sud, il governo introdusse il dazio sui cereali, tutelando cosí le colture estensive e danneggiando quelle intensive. Si favorì il latifondo, sanzionando in maniera definitiva l’alleanza tra il grande capitale del Nord e la borghesia agraria del Sud che, secondo Gramsci e Sereni, fu la vera causa del sottosviluppo del Sud. Le classi contadine vi-dero deteriorarsi il loro potere di acquisto: il prezzo del grano cresceva e i loro salari reali diminuivano. Questo, unitamente a una straordinaria espansione demografica, produsse, come conseguenza, un’ondata di emigrazio-ni oltreoceano. È fra la prima guerra mondiale, e il tu-multuoso dopoguerra, che l’ordine borghese dei campi si rompe sotto il peso dell’inflazione monetaria e della contestazione contadina. La borghesia terriera riceve un primo colpo con la pesante situazione economica crea-tasi nel dopoguerra, che vide la comparsa di una galop-pante inflazione, che colpì le rendite agrarie. Di questa situazione si avvantaggiò il ceto contadino, grazie alle rimesse degli emigranti e a un incremento dei redditi da lavoro agricolo. I razionamenti imposti dagli eventi bel-lici avevano rivalutato l’economia della terra.

Il ceto contadino riesce ad acquistare, dalla grande proprietà, circa un milione di ettari (equamente riparti tra Nord, Centro e Sud). L’inchiesta INEA del 1938 mo-strò una pronunciata espansione della piccola proprietà contadina, soprattutto nel Mezzogiorno. I governi libera-li, per far fronte alla protesta sociale delle classi contadi-ne, con il D.L. n. 1970 del 10 dicembre 1917, istituirono l’Opera nazionale combattenti, allo scopo di concorre-re allo sviluppo economico e al miglior assetto sociale del paese. Nell’immediato dopoguerra, l’ONC riuscì a distribuire all’incirca 40.000 ettari, ma la sua azione fu bloccata dall’avvento del fascismo. Il regime adottò la politica dalla cosiddetta “quota 90” che, combinandosi con i nefasti effetti del great crash nel 1929, provocò una rivalutazione delle posizioni debitorie nei confronti delle banche e una caduta verticale dei prezzi dei pro-dotti agricoli. I piccoli e medi proprietari videro la loro condizione peggiorare in modo drammatico e molti di

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l’ovinicoltura e l’economia agricola del ‘900 nel mezzogiorno59

essi furono costretti a vendere. Per garantire la pace so-ciale, il regime emanò una serie di provvedimenti per l’agricoltura, che possono essere schematizzati in 3 assi principali:

- politica granaria;- politica doganale;- bonifica integrale.La politica granaria, mirando al raggiungimento

dell’autosufficienza alimentare, penalizzò fortemente i restanti comparti agricoli. I prodotti tipici della montagna subirono una drastica riduzione dei prezzi. L’estendersi delle colture granarie sacrificava le colture foraggere e i pascoli, producendo un calo sensibile negli allevamen-ti. Gli effetti negativi che la politica granaria ebbe nelle aree montane, e soprattutto nel Mezzogiorno, vennero amplificati dalla politica demografica.

Le regioni meridionali avevano già visto crescere la loro popolazione da 9,5 milioni a circa 13 milioni d’abi-tanti nel periodo compreso tra l’Unità e il Censimento del 1921. Questa enorme pressione demografica sulla terra fu la principale protagonista delle modificazioni interve-nute nel paesaggio agrario, a cominciare dal massiccio disboscamento che sottrasse al pascolo degli altipiani gran parte dei 3-4 milioni di ettari riconvertiti lungo un secolo e mezzo alla cerealicoltura estensiva o promiscua e alle coltivazioni arboree. Tra il 1921 e il 1951, la sola popolazione meridionale aumentò da 13 milioni a 17,4 milioni di unità. Dopo la seconda guerra mondiale, que-sto enorme surplus demografico diventerà uno dei fattori condizionanti la vita politica e sociale della giovane Re-pubblica Italiana.

Lo strumento della bonifica integrale, voluto con l’importante legge n. 215 del 13 febbraio 1933, fu messo in atto per molteplici finalità:

- finalità idraulico-agrarie: si voleva incrementare la superficie agraria disponibile rendendo utilizzabili i ter-reni paludosi;

- finalità igienico-sanitarie: l’obiettivo era quello di sradicare la piaga della malaria;

- finalità sociali: si cercava di venire incontro alla fame di terra in quegli anni.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, le condizio-ni socio-economiche dell’Italia erano disastrose. Infat-ti, il reddito nazionale era dimezzato rispetto al 1939 e il deficit statale in continuo aumento. In agricoltura, vi erano danni incalcolabili che derivavano dalla diminuita produttività del terreno, in conseguenza della mancanza di fertilizzanti e di manodopera prolungatasi negli anni

della guerra. L’agricoltura era anche gravata da carenze strutturali che il regime fascista aveva contribuito ad ac-centuare. Se si eccettua l’opera di bonifica e di massiccia colonizzazione effettuata nell’Agro Pontino e, in pochi altri comprensori, il latifondo rimase dominante nel Mezzogiorno, nella Maremma Toscana e nell’Italia insu-lare. Nel resto del Paese, la situazione era grosso modo la seguente: le terre migliori di pianura erano gestite, in prevalenza, dal medio e grande agricoltore, con salariati fissi e avventizi. Tra le pianure produttive del Nord e le lande meridionali, dominava, in tutta l’Italia centrale, la mezzadria: una forma di conduzione giuridicamente arretrata ed estremamente vessatoria nei confronti del mezzadro.

La piccola proprietà contadina registrava una superfi-cie percentualmente non dissimile alla grande proprietà; addirittura il 42% delle terre lavorabili di proprietà pri-vata nel Mezzogiorno erano in mano ai contadini, cioè una percentuale nettamente superiore a quella dell’Italia centrale (34,6%). Ma l’inchiesta INEA-Medici mise in evidenza la forte polarizzazione della proprietà fondia-ria. Da un lato, vi erano circa 8 milioni di proprietari che possedevano dei veri e propri fazzoletti di terra, dall’altro le proprietà al di sopra dei 100 ha coprivano il 26% della superficie totale della proprietà privata, ma appartenevano a soli 21.400 possidenti. La debole con-sistenza della media proprietà diventava piú evidente nel Mezzogiorno, dove Abruzzo e Campania presentavano una maggiore incidenza della piccola proprietà, mentre Puglia, Basilicata e Calabria registravano piú alte per-centuali della grande.

Tuttavia, una situazione fondiaria già di per sé squi-librata diventava patologica in quelle zone in cui coe-sistevano la grandissima proprietà e quella particellare. La popolazione rurale che viveva al suo interno, non potendo sopravvivere con gli insufficienti redditi deri-vati dagli esigui appezzamenti, si riversava nel latifondo come bracciantato o come piccoli affittuari. Oltre che gli inconvenienti avvertibili sul piano produttivistico, nel-la situazione fondiaria erano insite le principali cause delle gravi condizioni sociali esistenti in una larga parte dall’agricoltura italiana. Lo spettro della disoccupazione riguardava circa 2,1 milioni di unità.

Per ciò che concerne gli occupati nel settore agrico-lo, la situazione al 1951 era la seguente: sull’agricoltura gravava il 42% della forza lavoro, a cui, però, corrispon-deva il 28% del PLN. Questo dato mascherava profondi squilibri territoriali: nel Mezzogiorno (non consideran-

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60l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

do l’Italia insulare), gli addetti al settore primario rag-giungevano il 55,2% della forza lavoro, contro il 35% dell’Italia settentrionale. Dagli atti della Commissione parlamentare inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla (Camera dei Deputati, 1953) risultò un dato avvilente: l’Italia meridionale, che pur possedeva il 44% della superficie agraria, contribuiva a malapena per il 33% alla PLV. Scarso era l’utilizzo dei concimi per interventi di fertilizzazione e del tutto irrilevante il grado di meccanizzazione.

Tali problematiche ebbero un grande ruolo nello sca-tenare le lotte agrarie del dopoguerra.

La lotta per il riscatto delle campagne, da parte della popolazione contadina del Sud, ebbe il suo inizio nelle contrade calabresi, dove migliaia di contadini occupa-rono il latifondo del Marchesato di Crotone. Per con-trastare questa pericolosa situazione, l’allora governo di Unità Nazionale emanò, nel biennio 1944-1945, una serie di interventi legislativi noti come “decreti Gullo”, dal nome del ministro comunista dell’Agricoltura che se ne fece il principale interprete. Gli interventi governa-tivi riguardavano un ampio spettro di problematiche: si andava dal decreto Luogotenenziale (d’ora in poi deno-minato d.L.) n. 279 del 19/10/1944, che disciplinava a cooperative la concessione di terre incolte o mal colti-vate, al d.L. n. 311/44 sui contratti di colonia parziaria, mezzadria impropria e partecipazione. Il d.L. n. 274 del 25/10/1944, interveniva sui demani comunali e il d.L. n. 156 del 5/04/1945 dichiarava illegale il sub-affitto dei fondi rustici.

L’intervento dello Stato non fu molto gradito ai lati-fondisti, che adoperarono ogni mezzo per vanificarlo; ma altri ostacoli si frapposero alla buona riuscita degli inter-venti governativi, in primis la scarsa competenza tecnica e amministrativa e ancor piú le scarse risorse finanziarie delle costituende cooperative. Per Manlio Rossi Doria, la proliferazione improvvisata di enti cooperativi aveva accentuato la frantumazione del “Latifondo contadino”, che riproduceva una agricoltura assurda senza rotazioni, senza sistemazione dei terreni e lavorazioni approfondi-te, la monocoltura estensiva, la disoccupazione stagiona-le acuta e socialmente la lotta di tutti contro tutti.

Una cosí grande sproporzione tra bisogni insoddisfat-ti e aspettative disattese non poteva non produrre una nuova stagione di conflitti, che interessarono il periodo 1947-1949. Anche in questo caso, il governo democri-stiano-liberale dell’On. De Gasperi rispose con un prov-vedimento calmiere che non intaccò la grande proprietà

agraria, sebbene a quest’ultima andò di traverso: la legge n. 929/47, per la massima occupazione in agricoltura. La legge impegnava, o doveva impegnare, i grossi proprie-tari fondiari a reinvestire parte della rendita fondiaria al fine di aumentare la loro domanda di lavoro e riassorbire parte dell’enorme disoccupazione agricola.

Alla vigilia delle leggi di riforma, la situazione nel Mezzogiorno non poteva che essere delle peggiori. Con la legge sulla “Piccola Proprietà Contadina” (decreto le-gislativo n. 114, del 24 febbraio 1948) e con il seguente provvedimento del 5 marzo 1948, n. 121, che istituiva la “Cassa per la piccola proprietà contadina”, si concesse-ro mutui trentennali al modico tasso del 3,5% grazie ai quali chiunque (nell’ambito dei lavoratori rurali) sarebbe potuto diventare proprietario del suo “pezzo di terra”.

Da un punto di vista numerico, la legge fu un suc-cesso: il Mezzogiorno risultò interessato dal 41% degli acquisti. Purtroppo l’ampiezza media dei lotti fu di 1,73 ettari, insufficienti per rispondere alle esigenze di una popolazione affamata. I problemi strutturali pertanto re-stavano intatti.

“Ancor oggi il grave problema alimentare italiano ri-sulta strettamente connesso con l’importante problema agrario meridionale e questo costituisce, per comune ri-conoscimento, uno dei punti piú deboli dell’economia nazionale; d’altra parte le angustie meridionali nascono anzitutto dalla bassa produttività agraria di quelle regio-ni”, cosí Vincenzo Rivera inizia il suo studio sul “Pro-blema agronomico del Mezzogiorno” (1925).

Infatti, mentre il Sud aveva un prodotto medio di meno di otto quintali di frumento raccolto a ettaro, l’Ita-lia settentrionale aveva un prodotto medio di circa 13 quintali, a sua volta, assolutamente inferiore a quello delle altre regioni di Europa, che arrivavano a produrre fino a 31 quintali per ettaro. Il problema era di natura essenzialmente tecnica, completamente ignorato fino, a oggi, dalle classi dirigenti italiane, le quali non avevano saputo far altro che creare il mito dell’intensificazione della cultura del frumento, per emancipare la nostra na-zione dall’importazione straniera. Questo mito divenne la divisa dei passati governi, i quali credevano che il basso reddito dipendesse da scarso amore del contadi-no per il frumento; ignorando, invece, che l’estensione delle terre aride, dedicate a tale genere di coltivazione nell’Italia meridionale, superava di gran lunga quella di ogni altra regione di Europa.

Tutti gli scrittori che si sono occupati dell’argomento, hanno unanimemente identificato come principale causa

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l’ovinicoltura e l’economia agricola del ‘900 nel mezzogiorno61

di riduzione dei prodotti in Italia, il difetto di piovosità. Negli anni ‘20, mentre a Torino cadevano ogni anno 994 millimetri di pioggia e vi erano 84 giorni piovosi, men-tre a Milano cadevano 1.011 millimetri di pioggia e si notavano 119 giorni piovosi, a Foggia cadevano soltanto millimetri 476 e si notavano 82 giorni di pioggia, e a Bari ne cadevano 583 millimetri e si notavano 103 giorni di pioggia. Mentre il maximum di precipitazione annua cadeva nell’Italia settentrionale proprio nella primavera, nell’Italia Mediterranea vi cadeva il minimun, cosicché, nel Mezzogiorno, la siccità cominciava con l’inalzarsi della temperature, quando nel settentrione iniziava, in-vece, un periodo di pioggie abbondanti.

Tutto ciò portava, quindi, squilibri nella crescita del-la pianta, perché questa sviluppava solo quel poco che permette il piú basso dei due fattori, secondo un feno-meno espresso in agronomia dalla cosí detta legge del minimum. Ne deriva che la vita vegetativa, piú intensa nel Nord, veniva racchiusa nel periodo che va da mar-zo a novembre, offrendo alla cultura del frumento ogni possibilità di sviluppo, mentre nel Sud era stretta dal set-tembre all’aprile, segnando, invece, nei mesi di massima attività della pianta, maggio e giugno, una precipitosa discesa nei fattori della produzione. Ciò, forse, spiega certe predilezioni dei nostri agricoltori per le culture che, come il prato invernale e forse anche l’olivo, potevano giovarsi della ripresa della vita dell’ottobre e del novem-bre.

L’irregolare distribuzione delle acque era, dunque, secondo il Rivera, la causa principale della difficoltà di coltivazione del frumento nell’Italia Meridionale. Ma a essa si aggiungevano altresí due fattori non meno impor-tanti quale la luce e il calore. Il clima meridionale pre-sentava, confrontato a quello settentrionale, la seguen-te caratteristica: intensità luminosa maggiore e numero delle ore di luce minore. Questa caratteristica portava profonde modificazioni sia nella formazione fogliacea che in quella radicale della pianta e, conseguentemente, determinava delle profonde alterazioni nel bilancio ali-mentare di essa, interrompendone assai spesso l’attività fotosintetica.

Dopo la seconda Guerra Mondiale la zootecnia ha subito profonde trasformazioni, soprattutto a causa dell’instaurarsi della globalizzazione dei mercati e della tendenza all’esodo dalle campagne verso i centri urbani.

La conseguente scomparsa di figure e modelli culturali e sociali legati ai vecchi modelli agricoli ha contribuito a modificare i connotati della zootecnia del Mezzogior-no d’Italia. Fino al perido immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale, l’allevamento del bestiame rispondeva ai seguenti obiettivi:

- ricavare derrate alimentari di alto valore biologi-co da fonti vegetali o da sottoprodotti non utilizzabili dall’uomo;

- disporre di energia facilmente impiegabile nel lavo-ro dei campi e nei trasporti;

- approvvigionarsi di fertilizzanti per mantenere il po-tenziale produttivo della terra.

A partire dagli anni ’50 l’attività zootecnica ha gra-dualmente cessato di essere un modo di utilizzare sot-toprodotti per trasformarsi in un’impresa rispondente ai criteri di mercato. Il numero di aziende è diminuito, mentre sono aumentate le consistenze e le dimensioni aziendali, oltre che le produzioni unitarie.

Nel trascorso sessantennio mutamenti importanti sono intervenuti negli indirizzi e nelle tecniche di allevamen-to in ovinicoltura; il patrimonio ovino nazionale passò da circa 12 milioni di capi, nel 1930, a circa 10 milioni di capi nel 1993 (Dati ISTAT). A fronte di tale riduzione, le produzioni lattee e carnee hanno fatto registrare dei discreti aumenti, mentre tendenza opposta si è osserva-ta per la produzione di lana. Anche il quadro razzologi-co ha subito mutamenti, favorendo un consolidamento dell’indirizzo lattifero (oltre il 50% del patrimonio ovino nazionale), a scapito delle razze vocate alla produzione di carne (circa 3.7% del totale) e di lana (6.1%).

Tali eventi hanno portato ad una forte contrazione numerica di alcune pregevoli razze da carne e da latte, a vantaggio di razze lattifere. I prodotti lattiero-caseari ovini, infatti, continuano a riscuotere successo, sia sui mercati nazionali, che internazionali. I consumi nazio-nali di carni ovine, al contrario, si mantengono su livelli modesti. Le cause di questo fenomeno vanno ricercate nella concorrenza da parte dei mercati esteri, nella con-suetudine di avviare alla macellazione molto precoce-mente gli agnelli eccedenti la quota di rimonta, nonchè nella stagionalizzazione dell’offerta. La mancanza di marchi di qualità relativi alle carni ovine incide infine notevolmente sulla capacità degli agnelli nazionali di competere con quelli di provenienza estera.

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63

Aspetti geografici

La catena appenninica, che caratterizza la gran parte del territorio meridionale, costituisce una sorta di ossa-tura della penisola italiana e risulta concatenata a Nord Ovest alla catena alpina, a Sud invece continua con i ri-lievi della Sicilia Settentrionale, che a loro volta conti-nuano con i rilievi del Nord Africa. Dal punto di vista geologico possiamo distinguere l’Appennino settentrio-nale, centro-meridionale, l’Arco Calabro-Peloritano e le Maghrebidi siciliane. La catena, nel suo insieme, è lunga circa 1.000 km. I suoi rilievi sono di modesta altezza, pochi superano i 2.000 m: il tratto più elevato è quello laziale-abruzzese (Gran Sasso 2.912 m), la vetta più ele-vata è l’Etna (3.323 m s.l.m.). La morfologia dei rilievi è, in generale, piuttosto blanda con monti arrotondati e dolci nella parte settentrionale, un po’ più aspri e di tipo calcareo dolomitico nella parte centro meridionale.

L’Appennino settentrionale comprende la catena che si estende dall’area ligure-piemontese al Lazio e Abruz-zo, ed è delimitata a Sud dagli accavallamenti dell’Ap-pennino centro meridionale sull’Appennino settentrio-nale nella zona del Gran Sasso. A sud di questa zona e fino alla linea di Sangineto in Calabria si estende l’Ap-pennino Meridionale, a Sud del quale e sino alla linea di Taormina (Sicilia) si estende l’Arco Calabro-Peloritano, a Sud-Sud Ovest di Taormina inizia la catena maghrebi-de siciliana. Appennino settentrionale e centro meridio-nale sono molto diversi dal punto di vista stratigrafico e strutturale, analogie maggiori si trovano tra l’Appennino centro meridionale e la catena siciliana.

Per quanto riguarda l’evoluzione della catena sono state formulate diverse ipotesi dovute non solo alle di-verse posizioni delle varie scuole ma anche a fattori og-gettivi che rendono difficile il prelievo e l’interpretazio-ne dei dati. L’Appennino settentrionale iniziò la sua for-mazione con l’apertura della Tetide, il mare primordiale, quando la Pangea cominciò a suddividersi e circa cinque milioni di anni fa raggiunse forme e posizioni simili a

quelle che possiamo osservare oggi. Dal punto di vista morfologico, le caratteristiche della catena appenninica dipendono dall’evoluzione tettonica subita, cui si so-vrappongono i processi di erosione, trasporto e deposito che contribuiscono a modellare i rilievi.

Tre sono le cause che modellano i rilievi: agenti (l’ac-qua, il vento, l’uomo), fattori (le caratteristiche del rilie-vo, la litologia, la stratificazione, la tettonica) e condizio-ni (intervallo spazio temporale entro i quali si instaurano condizioni climatiche all’origine del modellamento). Questi tre tipi di cause, combinate tra loro, determinano i vari processi morfogenetici che possono essere di tipo chimico o fisico: da ciò segue che le forme di una catena sono il prodotto di diverse cause e quindi non rimangono costanti. Vengono perciò a cadere opinioni diffuse, retag-gio delle teorie fissiste del XIX secolo, che davano per vecchie le catene montuose arrotondate e invece giovani quelle frastagliate; ciò risulta evidente nell’osservazione di alcune forme del paesaggio del nostro Appennino: il pedeappennino presso la pianura con le sue gobbe ar-rotondate si è formato dopo le Alpi Apuane con le loro vette frastagliate.

La distribuzione delle specie arboree ed arbustive in Italia risente notevolmente del clima e della morfolo-gia delle diverse aree, la flora nazionale è caratterizzata da una forte differenziazione nella distribuzione e nella struttura della vegetazione. Pertanto è possibile suddivi-dere la flora in tre grandi gruppi: quella autoctona delle Alpi, quella dell’Appennino centrale e settentrionale, quella dell’Appennino meridionale e delle isole. All’in-terno di queste categorie si trovano poi ulteriori raggrup-pamenti dovuti a condizioni climatiche e pedologiche particolari, ad esempio all’interno del gruppo di specie tipiche delle Alpi si trovano alcune più diffuse nelle Alpi orientali e altre nelle occidentali.

Il clima rappresenta l’insieme di fattori che maggior-mente influisce sulla distribuzione della vegetazione. Il clima, considerato in tutti i suoi componenti (temperatu-ra, precipitazioni, ecc), esercita sulla copertura vegeta-le un’azione che produce la modifica della vegetazione

il territorio

F. d’Angelo, C. Carrino, E. Castellana, A. Muscio

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64l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

stessa, per adattarsi a quella determinata situazione am-bientale. Esistono molte classificazioni climatiche, tra le quali molto interessante è la classificazione fitoclimatica del Pavari (1916), che permette un inquadramento cli-matico della vegetazione forestale. Tale classificazione si basa su alcuni caratteri termici (temperatura media annua, temperatura media del mese più freddo, tempera-tura media del mese più caldo, media delle temperature massime estreme, media delle temperature minime estre-me) e pluviometrici (precipitazioni annue, precipitazioni del periodo estivo, umidità atmosferica relativa media). Questa classificazione consente di suddividere l’intero globo in aree con caratteri climatici assimilabili e quindi di poter confrontare tra loro aree fitoclimatiche italiane e di altri Paesi. Ciò consente, ad esempio, di stabilire se una pianta alloctona può essere piantata in una zona ita-liana. Poichè questa suddivisione tiene conto del clima, la variazione è sia in senso altitudinale che latitudina-le, pertanto, si potrà avere la stessa zona fitoclimatica nell’alta montagna dell’Appennino centrale e nella bas-sa collina delle Alpi austriache. Ogni fascia altitudinale viene definita “zona”. Esistono 5 zone cosí denominate, dal basso verso l’alto: Lauretum, Castanetum, Fagetum, Picetum, Alpinetum. I nomi attribuiti alle zone sono trat-ti dalla specie che caratterizza la zona stessa (nella zona del Castanetum la specie più diffusa è il castagno). I limi-ti altitudinali attribuiti alle diverse zone sono solamente indicativi. La zona del Lauretum si estende fino a una altezza di 400 m s.l.m. nell’Italia settentrionale e fino a 900 m s.l.m. nell’Italia meridionale e insulare. Alcune zone (Lauretum, Castanetum, Fagetum, Picetum) sono poi state ulteriormente suddivise in sottozone, in base a caratteri unicamente pluviometrici (con siccità estiva e senza siccità estiva).

Caratteristiche climatiche

Le osservazioni sul clima appenninico risentono della mancanza, peraltro rilevabile in ogni altra zona montuo-sa, di stazioni di rilevamento con lunghe serie di dati. Inoltre, la notevole articolazione del rilievo rende com-plessa la definizione di linee climatiche generali.

Tra i dati utili per evidenziare le caratteristiche clima-tiche, quelli di precipitazione (pioggia e neve) sono ab-

bastanza soddisfacenti essendo le stazioni di rilevamen-to ben distribuite e con lunghi periodi di misurazioni, scarsi sono, invece, i dati di temperatura dell’aria e del vento. Un’importante sezione del Servizio Meteorologi-co dell’aeronautica Militare ha sede sul Monte Cimone (2.139 m): lì vengono misurate anche l’eliofania e la ra-diazione solare, dati molto importanti anche dal punto di vista biogeografico ed economico.

Per quanto riguarda il vento al suolo, questo risulta da una componente climatica generale e da componen-ti morfologiche locali; ciò è particolarmente evidente in zone montuose dove le forme del rilievo, gli attriti e gli ostacoli incontrati influiscono fortemente sulla circola-zione atmosferica. Fattori importanti sono l’orientamen-to e la profondità delle valli e l’altezza dello spartiacque: nell’Appennino il crinale ha un andamento nord-ovest/sud-est con le valli orientate in senso ortogonale e i ven-ti prevalenti sono per lo più in direzione da nord-est e sud-ovest. Le precipitazioni atmosferiche sono in diret-to rapporto con l’altitudine, influenzate anche da altre variabili quali l’inclinazione, l’esposizione, la ventosità. Le aree di maggior piovosità si trovano nella parte cen-trale e occidentale del crinale tosco-emiliano e lungo lo spartiacque tra l’Emilia e la Liguria; in alcune zone si superano i 2.000 mm all’anno. La frequenza delle preci-pitazioni presenta un andamento analogo a quello della quantità, pur con maggiori irregolarità spaziali. I mesi con il maggior numero di giornate piovose risultano in generale maggio e novembre, quello piú scarso luglio. La neve cade normalmente da ottobre a maggio, il mese piú nevoso è generalmente gennaio, seguito da febbra-io e dicembre, mentre marzo è di solito piú nevoso di novembre. La nevosità varia sensibilmente da un anno all’altro, molto piú della piovosità, si tratta, infatti, di un fenomeno molto incostante. Inoltre, fattori topogra-fici particolari possono giocare un ruolo molto impor-tante nel favorire o impedire l’accumulo della neve che cade. Anche la durata della neve al suolo dipende da vari fattori quali quantità e regime delle precipitazioni anche liquide, la temperatura dell’aria, durata e intensità di so-leggiamento, frequenza e qualità dei venti. La maggior durata si riscontra, generalmente, in gennaio, febbraio è piuttosto simile, marzo e dicembre si equivalgono fino a circa 1.000 m, a quote superiori la durata risulta mag-giore in marzo rispetto a dicembre. L’altezza del manto nevoso è generalmente massima in gennaio nelle località di fondovalle e collina, alla maggiori altitudini si sposta fino alla prima decade di marzo.

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il territorio65

Le Regioni

La Puglia

La Puglia, chiamata anche ‘il tacco d’Italia’, si esten-de per 19.347 kmq nell’estremo sud-est delle penisola. Conta 4.068.167 abitanti e confina a nord e a est con il Mare Adriatico, a sud con il Mare Ionio e a ovest con la Basilicata, la Campania e il Molise. La Puglia è la regio-ne più orientale d’Italia: il capo d’Otranto, nel Salento, dista circa 80 km dalle coste dell’Albania. È bagnata dal Mar Adriatico e dal Mar Ionio.

Le acque interne sono scarse; gli unici fiumi che hanno un’importanza rilevante sono l’Ofanto e il For-tore, il primo percorribile solo per il tratto finale, scende nell’Adriatico, il secondo segna il confine con il Moli-se; mentre fiumi meno importanti sono il Candelaro e il Carapelle. Tra le acque interne l’unica utilizzata per la potabilizzazione è il Lago di Occhito situato tra il Molise e la Puglia. La Puglia presenta un arcipelago nel Mare Adriatico, le Isole Tremiti, che comprendono le isole di San Nicola, di San Domino, di Capraia. Altre isole nel Mar Ionio sono le Isole Cheradi di San Pietro e di San Paolo.

Gli aspetti più interessanti e originali degli ambienti salmastri si possono rilevare nelle zone in cui si ha il contatto con la vegetazione “climacica”. Percorrendo la costa adriatica verso Sud, nel tratto tra Termoli e Rodi Garganico, le alluvioni del fiume Fortore hanno formato i laghi costieri di Lesina, allungato lungo la linea di co-sta, e di Varano e scavato nella massa rocciosa del Gar-gano. Qui di notevole interesse è proprio la duna sabbio-sa su cui si sviluppa una macchia mediterranea a ginepri (Juniperus oxicedrus) che, nonostante la forte pressione antropica, conserva ancora un aspetto selvaggio. Più a Sud, oltre il promontorio garganico, si trovano una serie di laghi più o meno bonificati o trasformati che costitui-scono il complesso delle Saline di Margherita di Savoia. Qui forse l’aspetto più evidente è il contatto con la vege-tazione “sinantropica”, tuttavia non mancano angoli ove sussiste ancora un certo grado di naturalità, forse legata proprio all’azione selettiva dell’ambiente salino. Nella penisola salentina l’idrografia superficiale è praticamen-te assente e le condizioni primarie per la formazione di bacini costieri sembrano assenti. Nonostante ciò, grazie anche alla presenza di polle di risorgiva, non mancano

le zone umide costiere. Sul versante adriatico, notevoli sono i Laghi Alimini, ove il contatto con la vegetazio-ne climacica avviene con formazioni boscose a quercia spinosa (Quercus coccifera), mentre su quello ionico in-teressanti sono le numerose paludi, ora in buona parte scomparse, che si sviluppano da Gallipoli verso Taranto. In particolare è da sottolineare la presenza di particolari formazioni costiere, dette spunnulate, nelle quali il mare, in seguito al fenomeno carsico cui sono soggette le piat-taforme carbonatiche delle Murge, per sifonamento for-ma delle caratteristiche piscine. Sui bordi rocciosi e sulle tasche di terra rossa si sviluppa una vegetazione alofila che, verso l’entroterra, sfuma con una gariga arida a timo arbustivo (Thymus capitatus) con presenza anche di spi-naporci (Sarcopoterium spinosum), specie relitta situata al limite occidentale del suo areale distributivo.

Al margine settentrionale del Gargano, fra Lesina, Rodi Garganico e Peschici, si trovano i laghi di Lesina e di Varano. Il Lago di Lesina (definito da molti una lagu-na) ha una forma ellittica allungata e presenta due colle-gamenti artificiali con il mare: a occidente il Canale Ac-qua Rotta, modellato sull’antico letto del fiume Fortore, e a oriente il Canale dello Schiapparo. La sua superficie complessiva è di oltre 50 kmq, ma la profondità massi-ma non supera i 2 metri. Più a oriente si trova il Lago di Varano, dalla forma quadrangolare e con una superficie di oltre 60 kmq, ora però in riduzione, poiché la sua parte più orientale è in fase di impaludamento. Anch’esso è collegato al mare con due canali: il più orientale è utiliz-zato anche come darsena; l’alimentazione avviene anche attraverso sorgenti subacquee.

In Salento, nei dintorni di Otranto, si trovano due ba-cini lacustri collegati fra loro: i Laghi Alimini. Quello settentrionale, più esteso, è circondato da tre lati da li-velli rocciosi formati dal consolidamento delle antiche linee di costa e da una vasta area paludosa, mentre verso il mare il limite è dato dall’area dunale; alcune di queste dune superano i 10 m di altezza. Il cordone costiero, lar-go in alcuni punti poche decine di metri, è interrotto da un canale che ospita uno stabilimento ittico e permette lo scambio di acque fra il lago e il mare, pur essendo pre-sente anche una alimentazione legata a sorgenti di acqua dolce. Lo stesso lago è collegato attraverso un canale (conosciuto come Lu Strittu) a un bacino più piccolo po-sto a meridione (Alimini piccolo o Fontanelle) dalle ca-ratteristiche differenti in quanto, alimentato da sorgenti carsiche, ha prevalentemente acque dolci. Il lago è cir-condato da aree paludose.

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66l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

Lungo la costa pugliese è presente il Lago Salinella presso la foce del Bradano e lo stesso Mare Piccolo di Taranto era in passato un lago costiero di origine carsica. La successione più rilevante di laghi costieri e stagni re-trodunali era quella che in passato, in particolare prima dei massicci interventi di bonifica, punteggiava la costa tirrenica dalla Campania alla Toscana. Oggi di questi ba-cini restano solo alcuni frammenti che sono però, in al-cuni casi, particolarmente significativi. L’area dei Campi Flegrei a Nord di Napoli accoglie alcuni piccoli bacini residuali come il Lago di Fusaro e quello di Patria.

I terreni pugliesi sono prevalentemente costituiti da formazioni calcaree ricoperte da un sottile strato di terra rossa - dai rilievi garganici al rialto murgiano, all’appen-dice delle Murge tarantine e alle Serre salentine - o di terra bruna, come nelle alte Murge, in aree del Tavoliere e della Fossa premurgiana. La terra rossa poggia preva-lentemente su roccia calcarea, per uno spessore general-mente non superiore a una ventina di centimetri. Laddo-ve questo spessore diventa maggiore, come nelle falde di alture, avvallamenti e conche, la terra rossa offre la pos-sibilità di ottenere ottime produzioni, specie per talune colture (frumenti, leguminose, ecc.), sebbene opponga resistenza alle lavorazioni meccaniche.

Le terre adriatiche del Salento centro-meridionale sono caratterizzate da sabbioni argilloso-calcarei, co-nosciuti col nome di “pietra leccese”, calcare granulare, marnoso o marnoso arenaceo, poco duro e diversamente permeabile. Dopo i calcarei compatti, come estensione in Puglia, possiamo annoverare i terreni individuati con i1 nome di “tufi”: sabbiosi calcarei di origine costiera. Essi affiorano diffusamente nella penisola salentina e in tutto il fianco meridionale delle Murge; inoltre accompa-gnano il litorale adriatico, specie da Bari a Brindisi e ri-salgono fino all’insenatura di Gioia del Colle. Le argille pugliesi presentano due tipologie: sotto argille marnose (denominate “creta”) e sopra argille sabbiose. Questi tipi di terreno rappresentano depositi marini fangosi, anche profondi, che ricorrono, in tipi prevalentemente argillo-si, in un’area unica ed estesa nella Fossa premurgiana, intorno alle Murge tarantine; mentre, in tipi di terreno prevalentemente sabbioso verso il Tavoliere e in alcune zone del Salento. Riguardo alla fertilità, per struttura e composizione, abbastanza fertili sono le terre sui tufi e le sabbie argillose; mentre, sono in genere poco fertili le sabbie, le argille marnose e i terreni alluvionali sabbio-si.

Sotto il profilo orografico, la Puglia può considerarsi

distinta in cinque zone:- Gargano,- Tavoliere,- Sub-Appennino Dauno,- Murge (comprensive delle Serre salentine),- Pianure costiere (comprensive della Valle dell’Ofan-

to e della Pianura Salentina).Il clima della Puglia è caratterizzato da un andamen-

to variabile e incostante sia della temperatura che della piovosità. Gran parte della regione registra temperature medie annue che oscillano tra 16 e 17 gradi centigradi; tali medie sono superiori solo nella zona litoranea del ca-nale di Otranto e nel golfo di Taranto. Temperature me-die inferiori si hanno, invece, nella zona più elevata delle Murge, in alcune aree interne del Tavoliere, del Gargano e del Sub-Appennino Dauno. L’escursione annua della temperatura si aggira, per gran parte della regione, sui 16 gradi e giunge sino a oltre i 20 gradi nel Tavoliere.

La piovosità media annua oscilla tra i 500 e i 700 mm. In poche aree scende sotto i 500 mm, mentre è superiore a 1.000 mm nell’alto Gargano. La piovosità, in Puglia, oltre a essere generalmente scarsa, si presenta anche molto irregolare.

Le alte temperature estive e la scarsa piovosità deter-minano le condizioni per le quali classificare la Puglia quale regione italiana con il piú elevato “indice di ari-dità”. Sul clima influisce anche il fatto che la regione, essendo priva di grandi rilievi montuosi, è aperta a tutte le correnti aeree, dal maestrale della valle del Rodano alla bora dell’alto Adriatico nel corso dell’inverno e ai venti sud-occidentali caldi e asciutti nel periodo estivo. Tali condizioni, aggiunte a un praticamente inesistente reticolo idrografico superficiale e alla natura carsica del suolo che causa la percolazione delle acque meteoriche in falda profonda, concorrono a determinare una situa-zione di complessivo deficit idrico della regione, tale da rendere necessario l’approvvigionamento di acqua da fonti extra-regionali.

La presenza di estesi latifondi ha storicamente favori-to la concentrazione della popolazione in grandi centri da cui i braccianti si muovevano ogni giorno per raggiun-gere i campi da lavorare. Le attività economiche sono rivolte soprattutto al terziario (54% della popolazione in età lavorativa); l’industria occupa oltre il 23%, mentre l’agricoltura impegna ancora un buon numero di lavora-tori (8,9%); i disoccupati si mantengono sotto al 14%.

L’agricoltura pugliese è caratterizzata da una forte varietà di situazioni produttive, direttamente collegate

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a differenziazioni territoriali che vedono contrapporsi alle aree interne svantaggiate del Gargano, del Sub Ap-pennino Dauno, della Murgia e del Salento, aree forti di pianura (Tavoliere, Terra di Bari, Litorale barese, Arco ionico tarantino) particolarmente favorevoli allo svilup-po dell’attività agricola.

Il settore agricolo partecipa alla formazione del pro-dotto interno lordo regionale per poco più del 6%; valore superiore a quanto registrato nel Mezzogiorno e a livel-lo nazionale. Secondo i dati di cadenza decennale e di provenienza censuaria elaborati dall’ISTAT, nel 2000 le aziende agricole pugliesi erano poco più di 352.500 (il 24% delle aziende del Mezzogiorno). Rispetto al 1990 (data del penultimo censimento), le aziende agricole pugliesi hanno registrato un leggero aumento (+1%), mentre quelle del Meridione e dell’Italia in generale un decremento. Di contro a quanto ora visto per le aziende, la Superficie Agricola Utilizzata (SAU) ha registrato un decremento sia a livello regionale che nazionale. Da ciò discende che in tutti gli areali di osservazione si assiste a una diminuzione della SAU media aziendale, in misura più spiccata in Puglia. L’estensione della SAU in Puglia è pari quasi a 1.250.000 ettari e rappresenta il 21,2% del-la SAU del Mezzogiorno e il 9% della SAU italiana. La Superficie Agricola Totale (SAT) regionale, diversamen-te da quanto avviene nel Mezzogiorno e in Italia, è quasi tutta coltivata: la SAU pugliese, infatti, è pari al 91% dell’intera SAT regionale, di contro al dato del Mezzo-giorno (73%) e dell’intero Paese (67,4%).

In riferimento all’orientamento tecnico economico e alla dimensione economica delle aziende pugliesi, è ne-cessario evidenziare che più del 90% delle aziende agri-cole risultano specializzate; tra queste primeggiano quel-le dedite all’olivicoltura, che rappresentano il 48% delle aziende totali (specializzate + miste) e coprono poco piú del 23% della SAU regionale, realizzando un Reddito Lordo Standard (RLS) pari al 27% del RLS complessi-vamente prodotto in regione. Significativa è anche l’inci-denza delle aziende cerealicole e vitivinicole, soprattutto per la produzione di vini non classificati.

Le aziende zootecniche interessano il 5% della SAU. Le aziende zootecniche pugliesi dedite all’allevamento di bovini rappresentano, con 35 capi in media per azien-da, il 55% del totale delle aziende zootecniche. Le azien-de che allevano ovini, con circa 88 capi in media per azienda, hanno, invece, un peso del 31% sul totale delle aziende zootecniche regionali.

L’agricoltura pugliese, con una PLV nel 2001 di

poco inferiore ai 3,5 miliardi di euro, rappresenta l’8% dell’intera produzione agricola nazionale. La struttura-zione per prodotti della PLV pugliese è significativa-mente differente da quanto riscontrabile a livello nazio-nale, ove risultano preponderanti le attività zootecniche (quasi il 34% sulla PLV agricola complessiva), seguite dalle coltivazioni erbacee (37%) e per ultime dalle ar-boree (24%). L’agricoltura regionale, invece, è caratte-rizzata dalla prevalenza delle coltivazioni arboree (47%) ed erbacee (38%), lasciando agli allevamenti una quota limitata della PLV totale (9,4%).

Analizzando il valore della produzione regionale dei singoli settori, è possibile notare, per ciò che riguarda le coltivazioni permanenti, la prevalenza dell’olivicoltura (46% sul valore produttivo delle colture arboree e 22% sulla PLV regionale) e della viticoltura (40% sulle coltu-re arboree e 20% sul totale regionale). Tra le colture er-bacee, il gruppo di prodotti al quale è ascrivibile il valore piú elevato di produzione è rappresentato dalle patate e dagli ortaggi che hanno un’incidenza pari al 61% sul va-lore produttivo delle coltivazioni erbacee e del 23% sulla PLV regionale. La cerealicoltura, rappresentata quasi to-talmente dal frumento duro (76%), incide per il 22% sul totale delle coltivazioni erbacee e per poco piú dell’8% sulla PLV regionale.

L’incidenza dei consumi intermedi sulla PLV è pari, nel 2001, al 24,2%; il valore è in linea con la media del Mezzogiorno (26,4%), ma inferiore a quello nazionale (32%). Tale valore, che in generale rappresenta un in-dice di bassa intensità e di basso contenuto tecnologi-co dell’agricoltura, deve anche essere letto in termini di maggiore razionalizzazione dell’impiego di concimi, antiparassitari e mangimi, per i quali si sostituisce all’ac-quisto il reimpiego di prodotti aziendali. Tale risultato va quindi valutato anche per le ripercussioni positive in termini di impatto sull’ambiente e sulla salubrità stessa delle produzioni.

L’industria agroalimentare pugliese partecipa alla for-mazione del valore aggiunto di quella nazionale per solo il 5,2%, pur avendo fatto registrare negli ultimi anni una tendenza all’incremento, sia pure lieve, in valori assolu-ti. Infatti, negli ultimi 4 anni il tasso di crescita è stato di circa l’11%. La maggioranza delle industrie agroali-mentari pugliesi si occupa prevalentemente della prima trasformazione dei prodotti, con scarso impiego di tec-nologie avanzate e con il conseguimento di produzioni a basso valore aggiunto e con limitato o nullo contenuto di servizi. Nel complesso, l’industria agroalimentare pu-

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gliese, pur potendo contare su una notevole disponibilità e diversificazione di materie prime, all’attualità soffre di problematiche di carattere strutturale e di una bassa at-tenzione alle esigenze del mercato, soprattutto in termini di qualificazione dei prodotti.

Le esportazioni relative al settore primario contano per oltre il 50% del totale agroalimentare e riguardano quasi esclusivamente prodotti agricoli e orticoli, che comprendono la frutta, gli ortaggi, i cereali, le oleagino-se, diretti prevalentemente verso i Paesi dell’Unione Eu-ropea. Tra i prodotti trasformati prevalgono le bevande, in calo del 17% rispetto al 2000, e gli olii e gli altri grassi vegetali. Questi ultimi costituiscono circa il 47% degli omologhi flussi commerciali verso l’estero del Mezzo-giorno, come i prodotti della carne e a base di carne.

Relativamente al sistema forestale, facendo un’ana-lisi delle peculiarità del patrimonio forestale presente in Puglia, occorre sottolineare che la superficie censita nel 2000 è pari a 116.529 ettari e, nonostante il continuo in-cremento registrato negli ultimi decenni, l’indice di bo-scosità (ossia il rapporto tra la superficie forestale e la superficie totale regionale) con il 5,2% permane a livelli decisamente bassi, ultimo nella classifica delle regioni italiane e ben lontano dalla media nazionale (22%) e del Mezzogiorno (16%). L’esiguità del patrimonio boschivo regionale, sotto il profilo quantitativo, è confermata da un altro indicatore, quale la superficie forestale per abi-tante che, sempre nel 2000, ha assunto il valore di 287 mq.

Le particolari condizioni pedoclimatiche hanno, co-munque, assicurato una buona diversificazione del pa-trimonio boschivo pugliese e una sua ricchezza sotto il profilo della biodiversità. Infatti, in Puglia sono presenti quasi tutte le differenti tipologie forestali che caratteriz-zano il territorio nazionale, fatta eccezione per le fustaie alpine. La distribuzione dei boschi in funzione delle for-me di governo mette in luce la sostanziale equivalenza tra le superfici destinate a fustaia e quelle a ceduo (con una leggera prevalenza della prima forma). La superfi-cie forestale pugliese è distribuita sul territorio in ma-niera non omogenea e, infatti, ben il 48,6% si concentra nella provincia di Foggia, mentre il 25,5% ricade nella provincia di Taranto e il 21,5% nella provincia di Bari. Nelle altre due province è localizzato solo il 4,4% delle superfici.

Seppur di dimensioni ridotte, il patrimonio forestale pugliese si contraddistingue per una interessante presen-za della Macchia mediterranea (oltre 15.000 ettari) che

rappresenta circa il 5,7% di quella complessiva italiana e il 10,5% di quella del Mezzogiorno, e che pone la Pu-glia al quarto posto tra le regioni italiane con maggior presenza di tale tipologia di bosco (dopo Toscana, Sarde-gna e Lazio). La Macchia Mediterranea, oltre a svolgere importanti funzioni ambientali, caratterizza il territorio sotto il profilo paesaggistico conferendogli quelle carat-teristiche estetiche che esercitano un forte richiamo per il turismo. La Macchia Mediterranea è sostanzialmente concentrata nella provincia di Taranto con quasi 11.000 ettari (oltre il 71%), mentre più distanziata è la provincia di Foggia dove sono presenti oltre 3.000 ettari. Quest’ul-tima provincia si caratterizza per la presenza di oltre il 62% delle fustaie e il 43% dei cedui presenti nell’intera regione.

Nel periodo 1994-1999 la superficie forestale re-gionale è cresciuta di 425 ettari (+ 0,37%) e ciò gra-zie all’incremento della tipologia di bosco fustaie e, in particolare, delle fustaie di latifoglie. Tale fenomeno è strettamente legato all’attuazione in Puglia del Regola-mento Comunitario 2080/92 che ha previsto, tra le varie misure, la realizzazione di opere di imboschimento che, per l’appunto, hanno riguardato le latifoglie miste con una prevalenza di querce (Autorità Ambientale Puglia, 2002). Il bosco è considerato, quindi, una risorsa a va-lore ambientale per le molteplici funzioni che assolve, pur essendo interessato, più di quanto avvenga in Italia, dagli incendi, soprattutto di origine dolosa. La provincia che nel 2002 è stata maggiormente interessata da incendi è Taranto con 803 ettari, di cui quasi 600 ettari di super-ficie boscata (44% della superficie totale percorsa e una superficie media per incendio di quasi 31 ettari), seguita da Bari e da Foggia.

I boschi pugliesi hanno un importante ruolo nella pre-venzione dei fenomeni erosivi, nella regimazione delle acque, nella valorizzazione del paesaggio, nel fornire spazi per scopi turistico-ricreativi. In tal senso si evi-denzia un decremento costante nel tempo dell’utilizzo agricolo dei suoli e una contenuta estensione delle super-fici boscate per il verificarsi, nelle zone di collina e nelle aree interne, di fenomeni di dissesto idrogeologico e di progressivo spopolamento delle zone rurali “marginali”. È preoccupante lo stato di degrado in cui versa l’am-biente in alcune aree della Puglia: nella parte montuosa settentrionale, il Sub-Appennino Dauno, è frequente il rischio di frane; nelle rimanenti zone interne, l’estrazio-ne mineraria ha arrecato gravi danni sia al suolo che al sistema di smaltimento delle acque. A tutto questo si è

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sommato il progressivo abbandono del territorio sempre meno economicamente conveniente per l’utilizzazione agricola.

Le principali problematiche relative alla difesa del suolo in Puglia riguardano situazioni di rischio e di de-grado imputabili a disordine idrogeologico:

- aree soggette a dissesto per frana ed erosione del suolo (Sub-Appenninno Dauno);

- aree soggette a dissesto per arretramento di coste alte ed erosione di litorali sabbiosi;

- aree interne soggette a dissesto per subsidenza (ad es. Lucera, zona dell’Incoronata);

- aree soggette a dissesto per sprofondamento legato sia a fattori naturali (zone intensamente carsificate, come quelle dell’area di Castellana Grotte) che a fattori antro-pici (ad es. Canosa di Puglia costruita su un dedalo di gallerie e cave sotterranee);

- aree soggette a dissesto per allagamento ed esonda-zione, concentrate soprattutto nella penisola Salentina e nell’arco jonico;

- aree a rischio sismico (aree del Gargano e del Tavo-liere e anche altre vaste aree).

Nelle zone più fertili in pianura si è assistito al feno-meno della salinizzazione delle falde acquifere dovuta all’eccessivo emungimento delle stesse che ha provocato l’infiltrazione delle acque marine nelle falde freatiche.

Il progressivo spopolamento delle zone rurali mar-ginali (di montagna e di collina) e la progressiva con-centrazione delle produzioni agricole intensive nelle aree più fertili della pianura hanno accentuato il com-plesso dei problemi ambientali legati all’attività agrico-la. Di particolare rilievo è il problema della limitatezza, sia come dimensione che come funzionalità, della rete scolante a servizio dei terreni agricoli. A fronte di una piovosità generalmente limitata ma concentrata in alcuni periodi dell’anno (vernino-primaverile), sono frequenti i fenomeni di allagamento dei suoli agricoli alla cui insuf-ficiente capacità di drenaggio si somma la difficoltà di smaltimento delle acque piovane.

Si possono individuare alcune macrotipologie di aree rurali da non considerarsi esaustive della molteplicità di situazioni presenti in Puglia. In primo luogo vi sono i territori più difficili della regione (Gargano, ad esempio) nei quali le caratteristiche orografiche limitano le pro-duzioni agricole e la infrastutturazione. Si tratta, però, di aree nelle quali l’abbondanza di risorse naturalistiche e la forte attrattività turistica costituiscono elementi di forza da valorizzare. Al contempo esse soffrono del-

le difficoltà di sviluppo legate alla mancanza di servizi essenziali e alla limitata diversificazione e integrazione delle attività produttive, che, nell’insieme, causano fe-nomeni di spopolamento e scarsa stabilità occupaziona-le. A tale area è assimilabile, anche, il Sub-Appennino Dauno che costituisce un areale per il quale gli interventi di valorizzazione dovrebbero essere ancora più decisi. Altra area di rilievo è costituita dalla Murgia barese e tarantina, nella quale è particolarmente diffusa l’attività zootecnica e, conseguentemente, l’insediamento sparso sul territorio. In tali ambiti sono notevoli i rischi di ab-bandono dell’attività, legati in primo luogo alla carenza di acqua potabile necessaria tanto agli usi civili quanto all’allevamento degli animali.

Ulteriore aggregato è costituito dai territori nei quali si realizza una intensa attività agricola. Si tratta di sva-riate aree (tavoliere, litorale barese e brindisino, parte dell’arco jonico salentino) con accentuati fenomeni di specializzazione produttiva. Ultima grande tipologia è costituita da tutte le altre aree della regione che, di fat-to, presentano caratteristiche intermedie rispetto a quelle precedentemente evidenziate e, a loro volta, una marcata differenziazione interna. Trasversale a tutti i territori ru-rali della regione vi è la presenza di piccoli borghi. Que-sti piccoli centri, pur lontani dalle caratteristiche proprie dei villaggi mittel e nord-europei, rappresentano l’ossa-tura della presenza umana nelle aree rurali, quali punto di aggregazione sociale e di fornitura di primi servizi.

L’Abruzzo

La Regione cominciò a chiamarsi Abruzzo dal latino Aprutium, nel Medioevo, poi successivamente con il Re-gno di Napoli fu divisa in due parti: Abruzzo Ulteriore e Abruzzo Citeriore. Nel 1860 con l’Unità d’Italia, alla regione era annesso anche il Molise, da cui fu separata nel 1963.

Gli Abruzzi sono situati tra l’Appennino e la costa adriatica. I confini sono così composti: a nord dalle Mar-che e un tratto di Lazio, a est dal Mare Adriatico, a sud dal Molise e a ovest dal Lazio. Nella costa adriatica sfo-ciano il Tronto e i corsi d’acqua che scendono dal Gran Sasso e dalla Maiella, situati al confine con le Marche; mentre a carattere torrenziale sono l’Aterno-Pescara,

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70l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

il Sangro e il Trigno, i quali segnano il confine con il Molise. L’influenza del mare mitiga le coste abruzzesi rendendo il clima mite e mediterraneo. La parte interna della Regione ha un clima più continentale con inverni freddi ed estati molto calde. La pioggia e le nevi cadono in abbondanza dal periodo invernale fino alla primavera. Una costante siccità caratterizza l’estate.

Per circa 120 km il litorale costiero si estende con una pianura lineare, fermata per un solo tratto dal promonto-rio della Punta della Penna, dove ci sono delle alte co-stiere rocciose che spiovono sul mare. La costa è molto fertile e ben coltivata. Le piantagioni agricole scendono fino ad arrivare a ridosso delle spiagge, raramente più larghe di 100 m.

La Regione è prevalentemente montuosa e collino-sa, fino a scendere ad est dove troviamo la fascia pia-neggiante della costa. Gli Appennini sono ricoperti da desolati prati e da boschi con poca vegetazione. Il pa-esaggio collinare cambia, dando vita a verdi distese e a ricchi corsi d’acqua. Ulteriore panorama è quello dato dalla zona costiera dove si ha nella parte interna a soli cinquanta chilometri, il paesaggio Appenninico. Que-sta Regione comprende l’Appennino Abruzzese che è composto dai Monti della Laga, dal Gran Sasso e dalla Maiella. Più spostati nel centro ci sono il Monte Velino e Monti della Meta. Nella parte più a ovest sono compre-si i Monti Simbruini e il gruppo del Monte Cornacchia. Una caratteristica di rilievo è data dalle grandi conche pianeggianti come la Conca Aquilana, la Conca del Sul-mona e la Conca del Fucino: furono tutte dei laghi nel tempo scomparsi. La Conca del Fucino è stata l’unica ad essere stata creata artificialmente, prosciugando il lago. Alle spalle della costa, troviamo la zona collinare com-posta dai terreni argillosi sabbiosi e a volte corrosi dalle acque provenienti dalle montagne. Il terreno e il clima non consentono forti colture in questa regione, anche se l’agricoltura ha un grosso peso per l’economia.

La regione Abruzzo è stata ed è tuttora oggetto di nu-merosi fenomeni di dissesto di varia natura ed entità, a causa della complessa situazione geolitologica del suo territorio, delle condizioni climatiche caratterizzate da rilevanti escursioni termiche e precipitazioni distribuite in maniera non uniforme nello spazio e nel tempo. Le frane, che costituiscono il fenomeno di dissesto più ap-pariscente e pericoloso hanno lasciato e lasciano spesso nel paesaggio abruzzese tracce profonde: le dimensioni che caratterizzano fenomeni segnalati nel territorio re-gionale sono molto varie ed oscillano tra 200 ettari (fra-

ne di maggiore estensione) fino a 50 ettari. Le cause che incidono in maniera più diretta sulla

predisposizione del territorio ad eventi franosi consisto-no nella presenza, a tratti anche rilevante, di rocce incoe-renti, pseudocoerenti e poco coerenti che, nelle zone ca-ratterizzate da ripidi pendii, presentano un elevato grado di franosità, in quanto sono sufficienti piccole variazioni di pendio per rompere un equilibrio sostanzialmente pre-cario.

Oltre che dai fenomeni franosi, il territorio abruzze-se è interessato da diffusi fenomeni di erosione che rag-giungono talvolta intensità ed estensione tali da provo-care danni anche più gravi di quelli provocati dalle frane. Si tratta di fenomeni che comportano l’asportazione di ingenti quantità di terreno spesso coltivato, o coltivabile, con conseguente danno rilevante per le attività prima-rie.

La destinazione del territorio per l’uso agricolo è piut-tosto consistente, con una Superficie Agricola Utilizzata (SAU) di 432 mila ettari, circa il 40% della superficie territoriale, di cui 183 mila ettari a seminativi, 166 mila a prati permanenti e pascoli e 83 mila a coltivazioni per-manenti (ISTAT - Censimento agricolo 2000).

Scendendo nel dettaglio delle utilizzazioni agricole, si evidenzia come nell’ambito dei seminativi le principa-li colture, in termini di superfici, sono i cereali (91 mila ettari), le foraggiere avvicendate (48 mila ettari), le orti-ve (9 mila ettari), le piante industriali (8 mila ettari), cui seguono la barbabietola da zucchero, le patate e i legu-mi secchi. Dunque, tra i seminativi prevalgono le pro-duzioni cerealicole, (Indagini congiunturali dell’ISTAT, 2004), si distribuiscono in maniera disomogenea rispetto alle province: nella sola provincia di Chieti viene colti-vato il 44% sulla produzione complessiva regionale

Tra le colture permanenti, la vite e l’olivo rappre-sentano di gran lunga i settori di maggiore importanza. Nella provincia di Chieti è concentrato quasi l’80% del-la produzione vitivinicola abruzzese, mentre la restante parte è suddivisa tra le province di Teramo e Pescara (la viticoltura della Valle Peligna rappresenta appena il 2% della produzione regionale). L’uva da tavola si trova pre-valentemente nel chietino (98%). L’olivicoltura è con-centrata nella province di Chieti (57%), Pescara (25%) e Teramo (13%), dove sono presenti le tre DOP sull’olio riconosciute dall’Unione Europea. Le superfici olivate registrate presso le Camere di Commercio provinciali come DOP sono circa 3,5 mila ettari, con un’incidenza del 7% sull’intera superficie olivicola regionale.

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il territorio71

La copertura boschiva in Abruzzo rappresenta circa il 21% del territorio, rispetto al dato nazionale, con punte estreme presenti nella provincia dell’Aquila.

Nello specifico, la superficie forestale, secondo i dati ISTAT (2003), è di circa 228 mila ettari, di cui il 78% di proprietà pubblica e il 22% di privati.

Per avere un indice della ripartizione della superficie forestale nelle diverse tipologie sulla base dei dati ISTAT (2003) emerge una superficie totale pari a 227.651 ettari di boschi, distribuiti in netta prevalenza in montagna. Di questi, 104.594 ettari sono fustaie, costituite in preva-lenza da latifoglie (75.507 ettari, di cui la maggior parte a faggio); le fustaie di resinose si estendono su 13.612 ettari (quasi 8.000 dei quali pinete), mentre quelle miste occupano poco meno di 15.475 ettari. I cedui occupano una superficie pari a 122.634 ettari e sono prevalente-mente semplici (76.195 ettari contro 46.439 ettari di ce-dui composti). Quasi trascurabile (poco più di 400 ettari) la vegetazione tipica della macchia mediterranea. I dati Istat forniscono notizie anche riguardo alla superficie re-gionale forestale per categorie di proprietà: in Abruzzo la gran parte delle superfici boscate (quasi l’80%) sono di proprietà pubblica, di queste il 73% ai comuni e la re-stante parte allo stato e regione o ad altri enti pubblici.

Nel periodo dal 1991 al 2002 sono stati percorsi da incendio oltre 11.000 ettari di bosco, pari a poco meno del 5% della superficie forestale totale della regione, su una superficie globale pari a circa 26.000 ettari (2.200 ha/anno).

Tra le aree naturali e seminaturali a vegetazione er-bacea e/o arbustiva, la classe più largamente rappre-sentata è costituita dalle praterie e pascoli naturali (131 mila ettari), che si trovano quasi esclusivamente nelle zone di montagna in aree di crinale, sui pianori carsici e sulle pendici che non consentono un pieno sviluppo della vegetazione arborea o arbustiva. Tra le più vaste estensioni di prateria possono citarsi i pianori di Campo Imperatore sul Gran Sasso, gli Altopiani delle Rocche e dei Piani di Pezza, i Piani di Campo Felice e le vicinanze dei Piani di Cinquemiglia (comune di Rivisondoli). Va sottolineato come l’azione antropica del pascolo abbia esteso artificialmente questo tipo di utilizzo del suolo e che nelle zone più marginali il bosco stia riconquistan-do superficie a scapito dei pascoli non più utilizzati. Gli arbusteti sono molto presenti nell’area pur mancando estensioni omogenee notevoli. Sono presenti soprattutto nelle aree collinari e montane dove negli ultimi decenni si è verificato un progressivo abbandono dell’allevamen-

to e dell’agricoltura. Nell’ambito della classe a vegeta-zione naturale e semi-naturale sono, infine, comprese anche aree di transizione cespugliato-bosco: queste solo in parte rappresentano forme ecotonali bosco-arbusteto proprie delle formazioni naturali, ma più frequentemente riguardano aree agricole prima coltivate ed oggi abban-donate alla naturale ricolonizzazione da parte del bosco.

Negli Abruzzi troviamo i primati nella produzione di fichi, carote e uva da tavola. Nelle conche pianeggianti altre colture in genere diffuse sono quelle del grano, pa-tate, barbabietole e tabacco. Buona anche la produzio-ne di frutta e ortaggi. La liquirizia nella zona di Atri e lo zafferano nella Conca Aquilana sono i prodotti tipici dell’Abruzzo. In questa Regione si trovano ancora no-tevoli allevamenti di ovini che però vanno a diminuire sempre più nel tempo. La transumanza, cioè il trasferi-mento dei greggi, per farli pascolare nel periodo inver-nale, nelle zone pugliesi del Tavoliere delle Puglie o in quelle dell’Agro Romano sta scomparendo. Per quanto sia possibile, si preferiscono gli allevamenti di ovini ad ogni altro tipo di animale da allevamento. L’allevamento dei bovini sta crescendo gradatamente.

La superficie agricola, che risulta di circa 409.200 et-tari presenta una riduzione tra le due indagini Istat del 2003 e del 2000(-5%), esattamente uguale alla riduzione riscontrata per le aziende facendo restare immutata la di-mensione media aziendale. Tuttavia, dai dati dell’inda-gine 2003 si colgono modifiche sostanziali alla struttura interna ai differenti comparti produttivi: le aziende zoo-tecniche si sono dimezzate, e quelle con bovini si sono ridotte del 25% rispetto al Censimento del 2000, anche se è aumenta la dimensione media degli allevamenti, passando da 14 a 18 capi adulti per azienda.

Guardando l’evoluzione del settore nel passato de-cennio (tra i due Censimenti 1990-2000), si evidenzia una ulteriore riduzione sia nel numero di aziende sia nel-la superficie agricola (rispettivamente del 22% circa e del 17% circa). Tale riduzione non ha ridotto la produt-tività complessiva del settore, difatti negli anni novanta la produzione lorda vendibile dell’Abruzzo, espressa a prezzi costanti, è aumentata del 4% ed il valore aggiunto del 18%.

Secondo i dati censuari relativi alle caratteristiche tipologiche (anno 2000), emerge che su circa 82 mila aziende, l’84% abbiano redditi lordi annui al di sotto di 9.600 Euro. La situazione non varia di molto se si analiz-zano le dimensioni economiche delle aziende nell’anno 2003.

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72l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

Da un punto di vista produttivo emerge che le aziende specializzate sono molto più numerose di quelle ad or-dinamenti misti, rappresentando circa l’80% del totale. Tra le aziende specializzate spiccano quelle dedite alle coltivazioni permanenti, che producono il 40% del red-dito dell’agricoltura regionale ed impiegano il 44% del-le giornate di lavoro. Si tratta principalmente di aziende olivicole, viticole; queste aziende si caratterizzano però per una dimensione fisica piuttosto contenuta con di-mensioni medie pari a poco più di 1 ettaro, per le azien-de olivicole, e 3 ettari, per quelle viticole. Anche da un punto di vista economico tali aziende sono piccole, ben il 97% delle aziende olivicole e l’83% di quelle viticole ha un reddito inferiore ai 9.600 Euro, la maggior parte di queste aziende si colloca quindi nella fascia dell’agricol-tura non professionale, si pensi che quasi la metà delle aziende specializzate nelle colture permanenti non pro-duce per la vendita ma solo per l’autoconsumo.

In termini di superfici le aziende più importanti sono invece quelle specializzate nell’allevamento di bovini o ovini; pur essendo numericamente limitate (3,6 mila aziende, il 4,5% del totale), gestiscono oltre il 40% della superficie agricola, rappresentata principalmente da pa-scoli e colture foraggiere. In questo gruppo di aziende è molto più diffusa la componente professionale, difatti le aziende con un reddito superiore ai 9.600 Euro rappre-sentano circa il 40% per le aziende specializzate negli ovini e il 76% per le aziende specializzate nell’alleva-mento bovino.

Confrontando gli andamenti tra i due Censimenti, si evidenzia una tendenza alla specializzazione produttiva nei settori agricoli, le aziende specializzate sono dimi-nuite dell’11% mentre quelle miste del 48%, le superfici coltivate, -11% nelle aziende specializzate, - 35% nelle miste, e una riduzione ancora maggiore nell’impiego di manodopera, -22% nelle aziende specializzate e -50% nelle aziende miste.

Da un punto di vista economico il settore agricolo regionale presenta andamenti più rassicuranti: la produ-zione lorda vendibile, pari a 1.177 milioni di euro (anno 2004), con un incremento medio annuo di quasi un punto percentuale

Il panorama delle produzioni con riconoscimento co-munitario d’origine e con marchi di qualità, è piuttosto consistente e presente in molti comparti produttivi re-gionali.

Per la zootecnia l’unico riconoscimento IGP è quello del Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale, ricono-

scimento comune alle aree interne di tutte le regioni che si affacciano sull’Appennino, dalla Campania all’Emilia – Romagna passando appunto per l’Abruzzo.

L’ultima nata tra le DOP abruzzesi è lo Zafferano dell’Aquila che ha avuto l’iscrizione definitiva nel regi-stro delle Denominazioni di Origine Protetta nel 2005. Lo zafferano è uno dei prodotti sicuramente più caratte-ristici delle zone interne, che ha nel territorio di Navelli una delle più antiche testimonianze di qualità e tipicità. In tale regione si contano oltre 78 prodotti agroalimenta-ri definiti “tradizionali” ai sensi del D.L. 173/98 art. 8 e del successivo D.M. 350 del ’99.

Per quanto riguarda i vini si annoverano tre Deno-minazioni di Origine Controllate: il Montepulciano d’Abruzzo e il Montepulciano d’Abruzzo Cerasuolo, il Trebbiano d’Abruzzo, ilControguerra ed una denomina-zione DOCG, il Montepulciano d’Abruzzo Colline Te-ramane.

Il Molise

Nella storia il Molise ha subito diverse dominazioni. Questo territorio divenne infatti terra dei Sanniti, succes-sivamente conquistata da Longobardi, Saraceni, Bizan-tini, per divenire poi terra di Federico II. Fu allora che la regione prese il nome Molise, in quanto tra i diversi feu-di nei quali era divisa, prevalsero i conti Molise. Più tar-di nella Regione si abbatté un crollo economico-sociale, che continuò anche dopo l’annessione al Regno d’Italia, dove il Molise insieme agli Abruzzi formarono un’unica Regione. Nel 1963 il Molise si divise dagli Abruzzi per essere indipendente.

L’estensione del Molise va dall’Appennino alla co-sta adriatica, ed è compreso dal fiume Trigno nella parte settentrionale e il fiume Fortone nella zona meridionale. Confina a nord con gli Abruzzi e il Mar Adriatico, ad est con la Puglia, a sud con la Campania e ad ovest con il Lazio e un piccolo tratto di Abruzzo. La superfice del-la regione, di 4438 km2, è divisa quasi equamente tra zone montuose, il 55,3% del territorio, e zone collinari, il 44,7% del territorio.

I fiumi sono tutti a carattere torrentizio. I principa-li del versante adriatico sono il Fortone che sfocia però in zona pugliese, il Trigno e il Biferno che scende dal

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Matese. Il paesaggio è prevalentemente montuoso e col-linoso. Anche nelle pianure coltivate si trova il terreno roccioso. Caratteristici sono i muretti intorno ai pode-ri fatti dai contadini togliendo le pietre dalla terra che lavorano. I prati dove pascolano le pecore sono molto secchi e rocciosi. La zona montuosa comprende i Monti della Meta, nell’ultimo tratto di Appennino Abruzzese e i Monti del Matese e l’Appennino Sannita che compon-gono la parte settentrionale dell’Appennino Campano. Nel Matese le montagne più elevate sono il Miletto e il Muria. La parte orientale scende verso il mare con tratti collinosi molto rotondeggianti. Le montagne e le colline sono molto aride e a causa della composizione del ter-reno argilloso si sono formati profondi solchi. La costa del Molise è lunga circa 38 km, è molto pianeggiante ad esclusione della zona del promontorio di Termoli dove è stato costruito un porto artificiale ora sede della Guardia Costiera e principale attracco per le isole Tremiti. Il por-to è collegato con la Croazia ed ha un attivissimo can-tiere navale.

Il clima è tipicamente continentale con inverni freddi ed estati calde. Solo sulla costa il clima è mite. Le pre-cipitazioni nevose abbondano nelle zone montuose; le piogge scarseggiano nei mesi estivi.

La regione è tra le meno popolate d’Italia (densità 72ab/kmq) e la gran parte della popolazione vive nelle città e nei paesi dell’interno, sulle pendici dei monti e delle colline perché le coste sono prive di buoni porti. Le comunicazioni sono sempre state difficili ma negli ultimi anni, dopo la costruzione dell’autostrada del Sole e della costiera adriatica, sono stati realizzati anche i collega-menti trasversali che hanno decisamente ridotto, se non eliminato, l’isolamento della regione rispetto alle princi-pali correnti del traffico nazionale. Il Molise ha sempre sofferto per il relativo isolamento e per le difficoltà nei collegamenti con i centri principali delle regioni vicine.

Il sistema produttivo regionale riproduce a livello lo-cale il fenomeno della terziarizzazione dell’economia che si sta verificando nel nostro paese.

La composizione settoriale dell’economia regionale rilevabile dai dati di contabilità regionali ISTAT al 2005, evidenzia una predominanza netta del comparto dei ser-vizi che concorre per il 69,7% circa alla formazione del valore aggiunto regionale, a fronte della minore inciden-za del settore industriale (comprensivo delle Costruzio-ni) - pari al 26,3% - e un’ancora minore peso del settore primario (3,9%).

Le dinamiche di sviluppo dei periodi più recenti e in

particolare nel periodo 2000/2005, evidenziano una cer-ta ripresa del settore industriale il cui valore aggiunto fa registrare nel quinquennio in esame un rafforzamento del 2,2%, mentre per il comparto agricolo si riscontra una flessione di modesta rilevanza (-0,2%) ed infine per il settore dei servizi una crescita dell’1%.

Nel settore terziario, determinanti per la composi-zione del valore aggiunto sono stati essenzialmente i comparti dei servizi vari ad imprese e famiglie, del com-mercio e delle riparazioni, della Pubblica Amministra-zione; poco determinante è, invece, il settore alberghiero e della ristorazione. Le produzioni trainanti nell’ambito del settore industriale molisano sono quelle tradizionali: l’agroalimentare, il tessile e l’abbigliamento, che sono anche i settori tipici del Made in Italy. A queste produ-zioni prevalenti si aggiungono, con peso minore, i settori della chimica, della gomma e della metalmeccanica.

Il PIL regionale, che nel 2005 rappresenta lo 0,4% del prodotto lordo nazionale e l’1,7% di quello della ri-partizione Mezzogiorno, è cresciuto in media nel corso dell’ultimo decennio del 2,1%; i dati ISTAT per l’ultimo quinquennio relativi al Prodotto Interno Lordo a prezzi concatenati (anno di riferimento 2000) mostrano inve-ce una crescita meno pronunciata e pari in media allo 0,2%.

Si verifica un costante decremento dei terreni agricoli a vantaggio di altre attività e dell’espansione dei centri abitati. Tale fenomeno è evidenziato dalla contrazione del rapporto SAT/superficie territoriale che passa dal 77,5% del 1990 al 66,7% del 2000 e, in generale, dalla riduzione della superficie agricola totale, della superfi-cie agricola utilizzata e del numero delle aziende, sep-pur con andamenti e intensità diversificati. Nel decennio 1990-2000 si verifica pertanto una riduzione complessi-va nel numero di aziende pari a circa il 18%, riduzione superiore a quella registrata nello stesso periodo nell’in-sieme delle regioni meridionali.

L’analisi dei dati ISTAT 2000 sull’utilizzazione del-la SAU per le principali coltivazioni agricole mette in luce una presenza estremamente diffusa delle coltivazio-ni di cereali che si estendono su una superficie pari ad oltre 98 mila ettari (45,6% della SAU regionale), con un’incidenza pari al 60% circa della SAU a seminativi. La rimanente quota della SAU risulta prevalentemente occupata da prati permanenti e pascoli ( 38 mila ettari), e solo in misura ben più contenuta da coltivazioni legno-se agrarie (vite, olivo e fruttiferi) che occupano circa 21 mila ettari. Si osserva che, rispetto al 1990, a fronte di

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una riduzione complessiva nei valori assoluti di SAU, aumenta l’incidenza relativa sulla stessa dei seminativi e delle coltivazioni legnose, mentre diminuisce quella dei prati permanenti.

Le aziende con coltivazione di cereali si riducono di circa 8.000 unità, pari al 27%, mentre minore (-10%) è la riduzione della corrispondente superficie; ciò determina un incremento della superficie media a cereali per azien-da, che passa da 3,8 ha a 4,7 ha.

Per quel che riguarda la viticoltura, tra il 1990 ed il 2000 il numero delle aziende si è ridotto di ben 7581 uni-tà e le superfici di 2.157 ha, a conferma della piena attua-zione dei programmi di estirpazione promossi ed attuati dall’intervento pubblico (nazionale e comunitario) con-seguenti la crisi determinata dal problema delle crescenti eccedenze del vino sul mercato europeo. Anche per la viticoltura, la riduzione nel numero di aziende interessa-te risulta superiore alla riduzione delle superfici, deter-minandosi quindi un incremento della superficie vitata media per azienda. Prosegue inoltre l’aumento, già veri-ficato nel 1996, della incidenza delle superfici destinate a vini a denominazione di origine (DOC e DOCG).

Al di là delle tendenze registrate negli ultimi anni, oc-corre sottolineare l’esigua estensione media dei processi colturali delle aziende molisane. In molti casi, tale am-piezza si colloca intorno ad 1 ettaro, con unica eccezione per il frumento, per le piante industriali e per le colture foraggiere che raggiungono dimensioni medie tra i 4 ed i 5 ettari per azienda. I principali limiti allo sviluppo della viticoltura molisana possono essere correlati alla pre-valenza di produzioni destinate alla fasce più basse del mercato vinicolo (vini da tavola), nonché alla notevole concentrazione dei vigneti nelle classi di età da 5 a 10 e da 10 a 20 anni, con una piattaforma varietale domina-ta dalla presenza di vitigni tradizionali (Montepulciano, Trebbiano e Sangiovese).

In generale, le condizioni strutturali del comparto olivicolo regionale sembrano delineare un quadro meno debole di quello del comparto viti-vinicolo, anche se l’ampiezza media della coltivazione per azienda appare leggermente sottodimensionata (0,6 ettari circa) rispetto all’opportunità di migliorare le tecniche di conduzione degli oliveti. Anche la massiccia presenza di coltura pro-miscua (58% della coltivazione, secondo i dati di fonte regionale) comporta la necessità di orientare in modo più puntuale le future scelte degli agricoltori, relegando la presenza di piante sparse esclusivamente nelle zone di presidio (o salvaguardia ambientale e paesaggistica),

ovvero nelle aree di olivicolura marginale, sicuramente meno estese rispetto all’attuale consistenza. Le princi-pali coltivazioni irrigate (numero di aziende e relativa superficie irrigata) risultano la barbabietola da zucchero, il frumento duro, il granoturco da granella.

Secondo i dati più recenti (2008), circa 33 970 azien-de agricole coltivano 214 940 ettari di superficie agricola utilizzata, con una superficie media di 6,4 ha di SAU (su-perficie agricola utilizzata) per azienda. Il 32,8% (145 300 ha) del territorio regionale è coperto da foreste.

La superficie coltivata può essere divisa approssima-tivamente in tre parti: 72% di seminativi, 18% di pascoli permanenti e 10% di colture permanenti. In termini di dimensione economica aziendale: il 34,3% delle aziende sono al di sotto di 1 UDE (unità di dimensione europea), il 68,9% è inferiore a 4 UDE e appena lo 0,2% ha più di 100 UDE. Il 76,9% del territorio regionale è considerato svantaggiato, con una netta prevalenza di zone montane. Una delle principali produzioni agricole della regione è rappresentata dalle colture erbacee (43,7%), in prevalen-za cereali (22,5%), seguiti da patate e ortaggi (9,8%), foraggi verdi (7,1%) e piante industriali (4%). Un altro settore importante è il settore zootecnico (38,6%) nel quale predomina l’avicoltura, che rappresenta oltre i 4/5 della produzione regionale di carne.

L’estensione delle superfici boscate è di 70.985 Ha, poco più del 16% dell’intero territorio regionale, valore leggermente inferiore all’indice di boscosità registrato a livello nazionale (17%), e si ripartisce in modo presso-ché uniforme tra le due province. Le forme prevalenti di copertura sono i cedui, sia semplici che composti (70% dell’intera superficie boscata). Le fustaie, che occupano il restante 30% della superficie, sono prevalentemente composte da latifoglie ed in particolare faggio (30% del-le fustaie). Tra le resinose, la specie più diffusa è il pino, che ricopre oltre 1.000 ha di superficie, pari a quasi il 30% della superficie complessiva occupata dalle fusta-ie di resinose. I boschi sono localizzati soprattutto nelle aree montane delle due province.

Da un punto di vista vegetazionale, le specie mag-giormente diffuse sono il faggio (Fagus silvatica) alle quote più elevate, il cerro (Quercus cerris) e, in misura ridotta, il pino, nelle corrispondenti fasce fitoclimatiche. La presenza del faggio interessa maggiormente i rilievi montani meridionali (Monti del Matese) ed occidentali (rilievi prossimi al Gruppo delle Mainarde ed ai Monti della Meta), in popolamenti per lo più governati a fusta-ia. Il faggio risulta talvolta consociato con l’abete bianco

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e con il cerro, la roverella ed il frassino nella fascia infe-riore del suo areale.

Nel corso degli anni ‘90 si verifica un sostanziale au-mento delle superfici boscate, a causa anche delle poli-tiche di rimboschimento comunitarie e nazionali attuate in questi stessi anni. Tale incremento, complessivamente pari a più di 9.000 ha, ha interessato in modo particolare i cedui.

La Campania

La zona intorno a Capua al tempo dei Romani si chiamava Agro Captano, successivamente diventò Agro Campano ed infine Campania. Questo era il nome con cui si identificava la zona della fascia litorale tirrenica. Con il passare dei secoli ci furono numerose divisioni della zona, tra cui il Ducato di Napoli, il Ducato di Be-nevento, il Principato di Salerno ed il Ducato di Amal-fi. Con la costituzione del Regno d’Italia nel 1861, la Regione riportò il nome di Campania, ma con confini nettamente più estesi.

Il territorio campano è situato tra l’Appennino Cam-pano ed il Mar Tirreno. A nord la Campania confina con il Lazio ed il Molise, ad est con la Puglia e la Basilicata e sia a sud che ad est con il Mar Tirreno. La Campania ha la più alta densità di popolazione tra le regioni italiane (419,4 ab/kmq), ma è la seconda, dopo la Lombardia, per numero totale di abitanti.

I fiumi principali della Campania sono il Volturno, il Garigliano sul confine col Lazio, il Calore affluente del Volturno ed il Sele. Tutti questi fiumi hanno sfogo nel Mar Tirreno. Altri corsi d’acqua come il fiume Ofanto sfociano del Mare Adriatico. Il territorio consta la pre-senza di piccoli laghi vicino alla costa, come il Lago d’Averno che è di origine vulcanica, il Fusaro costiero e il Lago di Matese che è invece di origine carsica.

La Campania è una delle regioni più rigogliose di ve-getazione. Il clima nella fascia costiera, nelle pianure e nelle isole è molto mite. Nelle zone di montagna, nono-stante le abbondanti nevicate invernali, il clima è piut-tosto dolce.Il mare è un elemento molto importante nei panorami del territorio. Nella costa si trovano numero-se insenature, golfi, ripide scogliere, penisole e baie. Le isole situate di fronte alla costa contrastano con le rocce

e con i colori particolari della natura. Una particolarità delle Regione è la presenza di vulcani. Uno di essi è il Vesuvio, che anche se inattivo, non è spento e domina tutto il Golfo di Napoli. Ai vulcani si deve la fertilità del-la pianura sottostante. Un diverso aspetto della Campa-nia è dato dalla zone montuosa composta da cime aride e spoglie, dove le coltivazioni e le comunicazioni sono scarse, spesso rese inagibili dalle nevicate invernali.

Il territorio campano è costituito dall’Appennino Campano che scende verso la costa tirrenica con cate-ne montuose alternate e gruppi montuosi posizionati in modo irregolare. Il gruppo della Sella di Conza divide l’Appennino Campano da quello Lucano. A nord sono situati i Monti del Matese ai quali appartiene la cima più alta della Regione con i suoi 2050 metri. Si prosegue con i Monti del Sanni, i Monti dell’Irpinia ed il gruppo dei Monti Picentini. La Penisola Sorrentina è formata dai Monti Lattari. La ricca zona del Cilento, compresa tra il Golfo di Salerno e il Golfo di Policastro, dà vita ad una fiorente produzione agricola e zootecnica. Le co-ste sono frastagliate e formano quattro golfi: il Golfo di Gaeta, il Golfo di Napoli, il Golfo di Salerno ed il Golfo di Policastro. A nord troviamo il Golfo di Gaeta che per metà è territorio laziale. La costa si presenta regolare e pianeggiante. In un solo tratto viene interrotta dalla foce del Delta Volturno. Scendendo più a sud troviamo, com-preso tra Capo Miseno e la Punta Campanella, il Golfo di Napoli. La costa si presenta con alte scogliere roccio-se molto spioventi nelle estremità del Golfo, fino a scen-dere con ampie distese pianeggianti nella parte centrale. Situato tra la Penisola Sorrentina e Punta Licosa si trova il Golfo di Salerno che si presenta con alte coste rocciose e spioventi nelle estremità fino a chiudersi verso il centro della Piana del Sele, zona pianeggiante bonificata quasi completamente nelle zone acquitrinose. Nella parte me-ridionale, a sud della Punta Licosa scende nel mare l’Al-topiano del Cilento con una costa molto frastagliata, alta e rocciosa. Capo Palinuro è l’unico posto caratterizzato da coste sabbiose. Scendendo la costa verso sud ci sono pendii costieri alti fino a 500 m dal mare, ricchi di grotte e spettacolari insenature. Nell’estremo sud campano è situato il Golfo di Policastro, proprio a confine con la Basilicata. Il Golfo di Napoli racchiude le Isole Parteno-pee, Ischia, Capri e Procida.

Gran parte del territorio campano è montuoso e scar-so d’acqua, quindi le uniche zone agricole sfruttate per la coltivazione sono quelle pianeggianti a ridosso delle zone costiere, come Napoli Caserta e Salerno che, favo-

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rite dai terreni vulcanici molto fertili, dall’abbondanza di acqua e dal clima ottimale, hanno una grossa produt-tività. La Campania si pone ai vertici per la qualità e la produttività dei prodotti agricoli. Detiene i primati nella produzione, distribuita a livello nazionale, di pomodoro, patate, melanzane, peperoni, piselli, fichi, albicocche, susine e ciliegie. Per agevolare la produzione di questi prodotti più redditizi, i terreni utilizzati per la produzio-ne di cereali sono stati ridotti. Molto importante è anche la produzione di agrumi, di vino, di olio; oltre che canapa e tabacco. Dalla Campania viene distribuita quasi tutta la canapa del mercato italiano. L’allevamento è costituito in buona parte da bovini e bufali, caratteristici delle Re-gione. Nelle zone montane si trovano gli allevamenti di ovini, specialmente capre. Il mare non offre una ricca pesca e di conseguenza viene poco praticata. Le uniche zone sfruttate sono quelle adiacenti alle coste dove si pe-scano molluschi e crostacei, componenti primari della la cucina campana.

Nel territorio campano le acque superficiali sono in-teressate da tre tipologie di alterazioni:

- denaturalizzazione dei corsi d’acqua, degli argini, delle aree golenali;

- inquinamento dei corsi d’acqua;- alterazione delle caratteristiche idrogeologiche.La denaturalizzazione è effetto delle modifiche dei

corsi d’acqua, e della cementificazione degli alvei, con distruzione della naturalità degli stessi. In generale gli effetti principali dell’inquinamento sono dovuti agli ap-porti fognari, alla sistematica captazione delle sorgenti e all’abusivismo edilizio. Il depauperamento qualitativo e quantitativo delle risorse idriche sotterranee rappresenta una delle problematiche più ampie e complesse nell’am-bito del tema “degrado ambientale”. In Campania esisto-no diverse zone vulnerabili e in molte di queste si sono già manifestati fenomeni di degrado delle falde sotter-ranee.

Un esempio è rappresentato dalla piana del Sarno. Questo territorio è sempre stata un’area densamente abitata e la notevole antropizzazione è stata determina-ta dalla presenza di una agricoltura estesa ed altamente produttiva, associata ad una varietà e complementarietà di attività industriali e artigianali. La incompletezza del-la rete fognaria, la dotazione episodica di impianti di de-purazione a livello comunale e la esiguità delle industrie che applicano il pretrattamento delle acque reflue hanno seriamente compromesso il reticolo idrografico. L’agri-coltura intensiva presente in tale area costituisce un’al-

tra fonte inquinante: le acque di irrigazione trasportano direttamente verso la falda concimi chimici, diserbanti e pesticidi utilizzati per migliorare la produzione agricola. Inoltre la grande diffusione dei prelievi da pozzi singo-li determina un inquinamento della falda profonda per miscelazione con quella superficiale, a causa dei sistemi difettosi con cui spesso vengono condizionati i pozzi.

Lo stato delle coste campane mostra una diffusa ten-denza regressiva. I circa 400 km di coste sono per il 40% basse e sabbiose (Piane del Volturno e del Sele) e per il restante 60% alte e rocciose (Penisola Sorrentina Cilen-to). Per quanto concerne lo Stato trofico, la fascia marina costiera presenta caratteristiche disomogenee riguardo la presenza di nutrienti. Il golfo di Napoli è soggetto a forti pressioni antropiche ma è comunque un sistema aperto alla circolazione del Tirreno. In base a studi condotti dal-la stazione zoologica “A. Dohrn” di Napoli, si evidenzia che il regime delle acque del golfo di Napoli è più vici-no all’oligotrofia che all’eutrofia e che dagli anni ‘80 le acque tendono a diventare sempre più oligotrofiche. La parte interna del Golfo di Napoli, tuttavia, nella fascia li-torale orientale ha subito un processo di eutrofizzazione in prossimità dei centri abitati. Le aree più eutrofizzate, sono in corrispondenza degli apporti di nutrienti ad ope-ra del Sarno e dello sbocco di Cuma.

Il golfo di Salerno presenta una omogeneità trofica con le acque tirreniche più esterne, come risulta da uno studio coordinato dalla stazione zoologica.

Relativamente alla balneabilità, l’inquinamento ma-rino della Campania è imputabile principalmente alla cementificazione delle coste, al sistema di depurazione insufficiente ed all’inquinamento fluviale. Il concentrar-si delle abitazioni lungo la costa ha portato ad un aumen-to degli scarichi fognari. L’industria dell’estrazione dei materiali di cava rappresenta una delle attività con mag-giore impatto ambientale per le trasformazioni prodotte al suolo, alle acque ed al paesaggio.

Per quanto riguarda Il dissesto idrogeologico in Cam-pania, il territorio regionale campano si estende per 13596 kmq dei quali il 14,6% attribuibile a zone di pia-nura, il 34,6% ad aree montuose ed il 50,8% a settori collinari. Analogamente a gran parte delle altre regioni del meridione d’Italia, la Campania è ricca di fenomeni di dissesto idrogeologico, in atto o potenziali. Ciò è de-terminato sia dalla natura geologica dei terreni affioranti che dall’uso improprio del suolo. Tra le fenomenologie di dissesto più ricorrenti sono le frane e le alluvioni. La casistica relativa ai comuni interessati da movimenti fra-

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nosi nell’ambito delle province campane vede il triste primato delle province di Avellino e Salerno (rispettiva-mente con 50 e 51 comuni interessati da frane), seguiti da quelle di Napoli e Benevento (con 39 e 36 comuni interessati) ed infine quella di Benevento (15 comuni).

In definitiva, le pendenze medie elevate, la sfavore-vole combinazione di fattori stratigrafico-strutturali ed idrologico-idrogeologici sono alla base della fragilità intrinseca del territorio campano e permettono di indi-viduare diffusi siti in condizione di equilibrio limite. Relativamente al rischio vulcanico, pur essendo i feno-meni vulcanici di tipo naturale, il loro livello calamitoso dipende non solo dalla tipologia dell’eruzione ma anche e soprattutto dalla pressione antropica nelle zone più prossime al vulcano. Nel territorio campano tale pres-sione assume valori limite: la Campania presenta la più elevata concentrazione di vulcani d’Italia che a sua volta è uno dei paesi del mondo a più elevata concentrazione di vulcani. Le aree vulcaniche (Vesuvio, Campi Flegrei, Ischia) coincidono perfettamente con quelle a più eleva-ta densità demografica ed insediativa. L’area di rischio coincide con la conurbazione costiera da Pozzuoli a Ca-stellammare di Stabia , con l’aggiunta dei Campi Flegrei e dell’area vesuviana.

L’agricoltura campana nel 2005 si è mantenuta ai pri-mi posti nelle graduatorie nazionali in diversi comparti: quello ortofrutticolo, che risulta il più sviluppato, con un Produzione Lorda Vendibile pari al 15% di quella na-zionale e al 38% di quella regionale, quello delle con-serve alimentari, della produzione lattiero-casearia, del-la floricoltura e del tabacco. Ciò è dovuto anche ad una decisa crescita nei livelli di produttività del lavoro nel settore, che ha comportato un avvicinamento ai valori nazionali, anche se il divario rimane ancora molto am-pio. Il comparto agroindustriale mantiene in Campania un peso significativo sul totale dell’economia regionale, pari al 5,7% in termini di valore aggiunto, all’8,3% come numero di occupati e al 21% in termini di esportazioni (valori superiori a quelli medi nazionali). Anche il bio-logico è in forte espansione: il numero di aziende che adottano questo metodo di produzione è aumentato di circa 7 volte dal 1996 al 2003, superando le 1.700 unità e passando dal 2% al 3,6% sul totale nazionale, ma oc-cupando ancora solo il 3% della SAT rispetto al 6,9% medio nazionale.

Le strutture produttive sono estremamente fram-mentate e tale caratteristica condiziona in modo nega-tivo l’agricoltura campana. Nel periodo intercensuario

(1990-2000), la SAU si è ridotta del 9,8%, aggravando la già ampia frammentazione fondiaria e accentuandone la polarizzazione: circa il 56% delle aziende agricole han-no meno di 1 ettaro di SAU, mentre quelle di dimensione superiore ai 5 ettari sono meno del 10%. Una rilevanza ancora limitata, anche se in crescita nell’ultimo decen-nio, assume l’offerta di prodotti agricoli con marchi di qualità.

Per quanto riguarda la produzione vinicola (1,8 mi-lioni di ettolitri, pari al 3,8% del totale nazionale), va segnalato che solo il 23,8% dei prodotti ha un marchio DOC, DOCG o IGT (contro il 33% del Mezzogiorno e il 58,1% del dato nazionale).

L’allevamento è costituito in buona parte da bovini e bufali, caratteristici delle Regione. Nelle zone montane si trovano gli allevamenti di ovini, specialmente capre. Il mare non offre una ricca pesca, che, di conseguenza, vie-ne poco praticata. Le uniche zone sfruttate sono quelle adiacenti alle coste dove si pescano molluschi e crosta-cei, componenti primari della la cucina campana.

La Campania con l’istituzione dei due Parchi Nazio-nali – Cilento e Vallo di Diano e Vesuvio – e delle undici aree protette regionali, Parchi e Riserve Naturali, si pone tra le prime regioni d’Italia come superficie territoriale protetta (3.403,49 kmq pari al 25 % della superficie re-gionale).

La Basilicata

Prima di essere conquistata dai Romani, questa Re-gione si chiamava Lucania. Successivamente con l’im-peratore Augusto, che la unì con Bruttium, l’attuale Ca-labria, cominciò a chiamarsi Basilicata, che deriva dal greco basilikos (governatore e principe). Più tardi con la conquista dei Normanni rimasero il nome ed i confini attuali. Nel periodo compreso tra il 1932 ed il 1947 la Regione si chiamò nuovamente Lucania. Oggi il nome è ritornato Basilicata, ma gli abitanti si chiamano Luca-ni. La densità di popolazione è molto bassa, 60ab/kmq e la gran parte degli abitanti vive nell’interno, nelle due province e in alcuni centri di media grandezza (Melfi, Lagonegro, Maratea, Pisticci) che, generalmente, sorgo-no su rilievi al riparo dalle piene dei fiumi, e che sono collegati tra loro da una rete stradale in pessime condi-

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78l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

zioni. Da notare che Matera è l’unico capoluogo di pro-vincia italiano non ancora collegato alla linea ferroviaria nazionale.

La Basilicata trova i suoi confini a nord con la Puglia, ad est ancora con la Puglia ed il Mar Ionio, a sud con la Calabria e ad ovest con il Mar Tirreno e la Campania. Gran parte del territorio è montuoso e collinoso, scavato da spaziose e sinuose vallate, fino a scendere nella breve fascia di pianura costiera. La zona montuosa si presenta arida e priva di vegetazione. I rilievi sono composti dai monti dell’Appennino Lucano: M. Serranetta (1472 m.), M. Pollino (2248 m.), M. Serra Dolcedorme (2267 m.), M. Sirino (2007 m.), M. Papa (2000 m.), M. Volturino (1836 m.). Nell’area del Vulture, nel nord-ovest della regione, è presente un vulcano spento, il Monte Vulture.

Le colline, il 45,1% del territorio della regione, sono di tipo argilloso e soggette a fenomeni di erosione che danno luogo a frane e smottamenti che sono spesso cau-sa di problemi di collegamento stradale tra i comuni. La larghezza della pianura della Basilicata si aggira attorno a i 20-30 km dalla costa, ed è meno della decima parte del territorio. La più estesa è la Piana del Metaponto che occupa la parte meridionale della regione, lungo la co-sta ionica. La Piana del Metaponto, un tempo paludosa, bonificata solo nel secolo scorso, è formata dai depositi alluvionali dei fiumi che sfociano nel Golfo di Taranto.

I fiumi sono tutti a carattere torrentizio. I principali scendono dall’Appennino nella pianura ionica. Questi sono il Bradano, il Basento, l’Agri ed il Sinni. In alcune zone si trovano le gravine, zone nelle quali le acque sca-vano profondi crepacci spioventi. Ci sono alcuni laghi di tipo vulcanico, come quelli di Monticchio, ed alcuni bacini artificiali costruiti per poter regolare la acque dei fiumi, usate nell’irrigazione e nella produzione di ener-gia elettrica. I bacini più importanti sono quello di Bra-dano, sull’Agri e sul Pertusillo.

Il clima è tipicamente continentale, anche se la Re-gione è bagnata nei due versanti, dal mare; inoltre è bat-tuta dalle caldi correnti meridionali che prosciugano la poca umidità esistente.

A ridosso della Campania troviamo la fascia montuo-sa dell’Appennino Campano, mentre nella parte orienta-le troviamo la zona collinare che scende man mano che si arriva al mare. Le coste sono lungo il Mar Ionio, basse e uniformi, i tratti sabbiosi si alternano a foci di fiumi, a zone acquitrinose ed a paludi. Il versante costiero oc-cidentale, al contrario, è alto e spesso si presenta con profondi dirupi.

L’agricoltura è la principale fonte economica, ma produce redditi bassi. Le colture principali sono i cerea-li, le barbabietole da zucchero, l’ulivo, la vite, gli agru-mi ed il tabacco. Notevole è la produzione di pomodori, mandorle, fragole, noci e fichi. L’allevamento è costitu-ito nella maggior parte dalla pastorizia ovina e caprina, dalle quali si produce una considerevole quantità di lana e formaggio. Abbastanza numerosi sono i suini, mentre più scarsi sono i bovini.

La Regione Basilicata dispone di grandi quantità di risorse idriche avendo, tra l’altro, attraverso opere di modificazione del regime idraulico e la realizzazione di invasi, reso disponibile più di un terzo dei deflussi super-ficiali, depurati delle acque sorgentizie, con una capacità totale di circa 900 milioni di metri cubi.

L’intero territorio regionale (circa 1 milione di ha) è caratterizzato da elevata sismicità che si è più volte ma-nifestata in tempi storici anche recenti. Circa 200.000 ettari della superficie regionale sono interessati da feno-meni erosivi e di dissesto.

I dati del censimento dell’agricoltura del 2000 han-no fatto registrare, rispetto al censimento del 1990, una diminuzione del numero delle aziende agricole lucane dell’1,7%. Dall’esame dei dati dell’indagine strutturale Istat del 2003, si evince un ulteriore e più drastico calo, facendo registrare un’uscita di oltre 7.400 unità rispetto all’ultimo dato censuario.

Contemporaneamente la superficie agricola utilizzata (SAU) è diminuita di circa il 12%, valore inferiore alla riduzione della superficie agricola totale (SAT) pari al 16,84%.

Il tradizionale paesaggio agricolo lucano, come quel-lo italiano, è costituito da seminativi, che rappresentano il 62% della SAU e il 46,5% circa della superficie agri-cola totale, con punte molto elevate nell’Alto Bradano dove i seminativi sfiorano il 90% della SAU.

Tra il 1990 e il 2000 si è tuttavia verificata una fles-sione di circa 50 mila ettari della superficie destinata a seminativi (-13,4%), con una conseguente diminuzione del suo valore medio per azienda che è passato da 6,19 a 5,98 ettari. Le colture prevalenti continuano ad essere quelle cerealicole con circa il 45% di SAU; rappresen-tate da oltre 210 mila ettari a frumento. Le coltivazioni legnose agrarie coprono il 10,5% della SAU (56.265 et-tari) e sono praticate dal 70,3% delle aziende. L’olivo è la coltivazione più diffusa (28.750 ettari) con un incre-mento sia del numero delle aziende (+7,6%) sia della superficie (+12%) rispetto al decennio precedente.

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Gli ettari investiti nella coltivazione della vite sono 8.737 distribuiti in circa 24.000 aziende. Rispetto ai dati con quelli del 1990 si nota come si sia verificata una forte contrazione sia del numero delle aziende viticole (-35%) sia della relativa superficie investita (-33,6%). Questo dato non riguarda tuttavia le produzioni di qualità, che sono al contrario in netta espansione e costituiscono una delle produzioni agricole più floride: la vite per la produ-zione di vini DOC ha avuto un incremento del 498,9% in termini di aziende agricole, con un aumento del 192,2% della superficie investita.

Segnali positivi si sono avuti per gli agrumi e i frut-tiferi che registrano, tra i due censimenti, aumenti sia in termini di aziende (+47,2%) che di superficie investita (+34,5%). Infatti la Basilicata è un’importante regione ortofrutticola, nota per la qualità delle produzioni preco-ci, soprattutto fragole, albicocche e pesche.

In diminuzione, invece, i terreni investiti a pascoli e a prati permanenti (-18%) e a boschi (-21%). Le aziende che praticano l’allevamento del bestiame, al 2000, sono 20.306 in diminuzione rispetto al dato del precedente censimento(-29,2%).

Il ridimensionamento del comparto zootecnico appare evidente anche in termini di consistenza degli allevamen-ti, infatti il numero di “capi grossi” scende da 667.000 a 599.000. I capi bovini diminuiscono a livello regionale del 10%, mentre la contrazione dei capi ovini appare più contenuta (-5,7%) rispetto a quella degli allevamenti ca-prini che subiscono una perdita di oltre 43.000 capi. La maggiore diminuzione del numero di aziende allevatrici rispetto ai capi ha determinato un aumento delle dimen-sioni medie, in termini di capi allevati, delle aziende zo-otecniche lucane. L’unico elemento positivo è dato dagli allevamenti di suini, che aumentano dell’11,1%.

Le dinamiche evolutive degli allevamenti non hanno inciso in maniera significativa sulla loro distribuzione territoriale dal momento che le attività zootecniche con-tinuano ad essere localizzate soprattutto in provincia di Potenza (89%).

La contrazione del numero di allevamenti bovini ha influenzato negativamente sia la quantità di latte prodot-to, sia il comparto della carne.

Emergono di contro alcuni segnali positivi del com-parto zootecnico. Nell’area nord occidentale della re-gione, caratterizzata dalla forte vocazione e presenza di aziende agrozootecniche nei tre prevalenti filoni (bovi-no, suino e ovicaprino) e dalla presenza di due prodotti caseari a denominazione comunitaria.

Per quanto riguarda gli allevamenti dei suini, in Basili-cata sono allevati 82.096 capi, distribuiti in 11.639 azien-de (dati ISTAT 2000), con una media di 7 capi/azienda; poche sono le aziende di medie-grandi dimensioni (>400 capi) e molte con pochissimi capi, segno quest’ultimo, di una persistente e radicata tradizione dell’allevamento ad uso familiare indirizzato prevalentemente all’autocon-sumo. La quasi totalità della produzione regionale è in-dirizzata verso i canali di trasformazione e commercia-lizzazione presenti fuori regione (prosciutti del marchio Parma e San Daniele), mentre la rimanente parte viene commercializzata come prodotti indifferenziati a livello di mercati locali.

Relativamente all’andamento del valore della produ-zione di beni e servizi agricoli, va evidenziato che i dati relativi alla Basilicata mostrano un andamento negativo dal 2000 in poi, in controtendenza con il dato nazionale, con una punta di riduzione del 20% nel 2002. Dal 2003 si registra un miglioramento del valore della produzio-ne, protrattasi fino al 2004, per poi invertire di nuovo il segno nel 2005.

La composizione della produzione vede una preva-lenza delle coltivazioni erbacee, in particolare dei cere-ali, seguita dalla zootecnia e dalle coltivazioni arboree. Il valore della produzione dei cereali, a seguito anche della riforma della PAC del 2003, ha subito nel 2005 una consistente riduzione.

La superficie forestale regionale della Basilicata, come risulta dai risultati provvisori della seconda fase dell’Inventario Forestale Nazionale e dei Serbatoi Fo-restali di Carbonio, è pari a 365.324 ettari (circa il 35% della superficie regionale. L’indice di boscosità è pari al 35,6%. Si evidenzia una prevalenza dei cedui (51,6%) . Le fustaie incidono per il 37,7% e la rimanente parte è coperta dai popolamenti transitori (10,8%)

Le foreste svolgono un ruolo strategico in quanto fon-te di energia rinnovabile, fattore di protezione dalle ca-tastrofi naturali, serbatoi di carbonio, funzione tampone contro i cambiamenti ambientali.

Relativamente al settore vitivinicolo, nell’ultimo de-cennio le novità del comparto si registrano soprattutto sulla filiera. Infatti ai viticoltori si è affiancato via via nel tempo un numero sempre crescente di imprese di trasfor-mazione. Pur essendo ancora significativa la presenza di aziende contadine che trasformano il prodotto destinan-dolo all’autoconsumo o al mercato locale allo stato sfuso, è in costante crescita il numero di imprese orientate alla produzione di vini di qualità in bottiglia, valorizzati con

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un marchio specifico. A tal proposito, per regolamentare in forma sempre più capillare e sistematica le produzioni di vino, la Regione, nel 2001, ha istituito il Catasto viti-vinicolo regionale attraverso il quale vengono catalogate le aziende produttrici. La Basilicata è tradizionalmente terra di vini ed, oltre all’Aglianico, altre produzioni di qualità stanno venendo alla ribalta. Dal maggio 2003 la Basilicata ha una nuova DOC il vino a denominazione di origine controllata Terre dell’Alta Val d’Agri. Nel 2005 è stata riconosciuta dal MIPAAF la DOC. “Mate-ra”, che racchiude al suo interno la produzione viticola della provincia. Nei comuni di Roccanova, Castronuovo Sant’Andrea e Sant’Arcangelo si produce il Grottino di Roccanova che, dal 2000, è già IGT ed ha avviato il ri-conoscimento della DOC.

Relativamente alla produzione di olio, in regione esi-stono 69 marchi commerciali di cui 43 in provincia di Matera e 26 in provincia di Potenza8. Da poco nel pa-norama regionale degli olii extravergini si sono aggiunti due marchi di olio certificato ottenuti nell’alta valle del Sauro nei comuni di Corleto Perticara, Guardia Perticara e Missanello e l’olio di Montemurro ottenuto nei comuni dell’Alta Val d’Agri. Si tratta di due produzioni di nic-chia, promosse soprattutto per diffondere l’approccio di filiera e le procedure di certificazione volontaria. L’olio lucano del Vulture si fregia del marchio DOP transitorio che interessa il territorio di nove comuni (Melfi, Rapolla, Barile, Rionero in Vulture, Atella, Ripacandida, Maschi-to, Ginestra, Venosa) con un potenziale produttivo che coinvolge circa 5.000 coltivatori per un totale di qua-si 3.000 ettari. In quest’area l’olivo, insieme alla vite, rappresenta un elemento dell’identità paesaggistica ed ambientale. Alla DOP del Vulture è seguita la richiesta di riconoscimento della DOP Lucana, in corso di perfe-zionamento.

Anche nel settore della trasformazione casearia, si ri-leva un’accresciuta dinamicità. I caseifici distribuiti su tutto il territorio regionale sono 182, con un incremento del 25% negli ultimi 5 anni e l’affermarsi di produzioni, quali il Pecorino di Filiano e il Canestrato di Moliterno, già certificati con marchi europei.

Nel 1994 la Regione Basilicata ha recepito e attiva-to il regolamento CEE 2078/92 con il programma di incentivi per l’agricoltura rispettosa dell’ambiente. Il programma si prefiggeva la tutela dell’ambiente natura-le e la difesa della salute pubblica, nonché il garantire un reddito adeguato per gli agricoltori. Tale programma nel 1997 è stato riproposto. Anche l’uso delle biomasse

per fini energetici sta attirando in Basilicata grande in-teresse. Nel 2000 la Regione, con il programma regio-nale per lo sviluppo delle filiere energetiche PROBIO-Basilicata, ha avviato un processo di approfondimento sulle tematiche connesse alla produzione di energia dalle biomasse vegetali ed una serie di azioni concrete finaliz-zate a promuovere iniziative imprenditoriali. Da questo programma è nato il progetto interregionale “Risorse Agro-forestali-energetiche per il Mezzogiorno e lo Svi-luppo Economico Sostenibile”(RAMSES I), predisposto dalle regioni Basilicata, Calabria e Campania che vede il Dipartimento Agricoltura, Sviluppo Rurale, Economia Montana come capofila. A questo progetto ha fatto segui-to, coinvolgendo altre regioni meridionali, RAMSES II, in scadenza nel 2007. In Basilicata il progetto RAMSES sta dando un importante contributo alla concretizzazione della potenzialità di produzione di energia rinnovabile da biomasse agro-forestali. Sono state individuate due aree specifiche per l’attuazione di progetti dimostrativi: la Collina Materana e il Camastra Alto-Sauro. Significa-tivi sono i dati emersi in relazione alle potenzialità pro-duttive di colture forestali a ciclo breve o brevissimo, in asciutto e in irriguo, per la produzione di biomassa per fini energetici, e di colture erbacee per la produzione di biomassa, per la produzione di biodiesel e bioetanolo, anche in sostituzione di colture cerealicole eccedenta-rie.

Il comparto frutticolo lucano si presenta altamente competitivo, con ottimi risultati sia a livello produtti-vo sia a livello economico. Buono è anche il trend delle esportazioni, anche se negli ultimi anni la bilancia com-merciale lucana ha visto crescere le importazioni di frut-ta fresca. A fronte di una media nazionale di produzione positiva, la produzione di uva da tavola in Basilicata si è notevolmente ridotta. Le ragioni di una così brusca ri-duzione sono molteplici: l’offerta eccessiva di prodotto che ha determinato forti cali di prezzo, la concorrenza dei Paesi del Mediterraneo, l’utilizzo di poche cultivar non sempre gradite sul mercato. In Basilicata la coltu-ra del pero è in continua ascesa, soprattutto nelle aree interne, sia in termini di SAU (si è passati dai 50 ha dei primi anni ’80 agli oltre 242 del 1996) sia in termini di PLV (aumentata di oltre il 100% negli ultimi 10 anni). Gli agrumi costituiscono la coltivazione più importante nell’ambito delle arboree da frutto, sia per superfici oc-cupate che per risvolti economici. Arancio e clementine, insieme a limone e mandarino occupano complessiva-mente il 57% della SAU frutticola. Le prime due specie

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sopra descritte sono quelle che consentono i maggiori margini di guadagno, soprattutto le clementine.

La Calabria

Il territorio della Calabria era anticamente abitato dai Bruzi, fu poi occupato dai Greci che lo chiamaro-no Betia. Successivamente i Romani lo trasformarono in Bruttium. Il popolo Calabro, invece, era situato nella Penisola Salentina che si chiamava Calabria. Nei secoli a seguire ci fu uno spostamento di nome. Già ai tempi di Carlo Magno l’antica zona del Bruzio si chiamava Ca-labria.

La Calabria, popolata da oltre 2.000.000 di abitan-ti, è la regione più meridionale della penisola italiana. Saldata a nord con la Basilicata, è contesa nei suoi due versanti dal Mar Ionio ad est ed il Mar Tirreno ad ovest. Il paesaggio si mischia tra i continui aspetti montuosi e collinari che scendono quasi sul mare, lasciando qual-che tratto pianeggiante nelle zone dove sfociano i fiumi. Due solchi dividono la penisola calabrese in tre gruppi montuosi ricchi di verdi boschi, pascoli e acque sorgive. La conformazione del terreno isola i centri urbani dove si accentra la popolazione. I rilievi della Calabria sono costituiti dal Monte Pollino, dal Monte Pellegrino che termina l’Appennino Lucano, dall’Appennino Calabro e dalla Catena Costiera che si estende lungo la fascia co-stiera occidentale. Nella parte centrale si trova il Grup-po della Sila. La Sila è zona montuosa più estesa della Regione. La cima più alta è il Monte Botte Donato alto quasi 2000 m. Sono distinte tre parti: la Sila Grande nel centro, la Sila Greca a nord e la Sila Piccola a sud. La Sila è una zona molto ricca di acqua e vegetazione. Nella parte meridionale della Calabria troviamo l’ultimo grup-po delle Serre ed il Massiccio dell’Aspromonte.

Inserite tra la parte montuosa e la costa sorgono delle colline interrotte da zone pianeggianti: la Piana di Sibari sulla costa ionica e la Piana di S. Eufemia e di Gioia Tauro sul Tirreno. Le coste sono alte e dirupate nel ver-sante tirrenico, mentre sono basse e sabbiose sul versan-te ionico. Tra le regioni della penisola meridionale, la Calabria è quella con il più grosso sviluppo costiero. Sul Mar Ionio si aprono i golfi di Taranto e il Golfo di Squil-lace, mentre nella parte Tirrenica si trovano quello di S.

Eufemia e di Gioia.I fiumi sono a carattere torrentizio ed i loro corsi sono

brevi in quanto le montagne sono vicino alla costa. Du-rante l’inverno e specialmente in primavera, a causa del-lo scioglimento delle nevi e dell’abbondanza delle piog-ge, i fiumi scendono molto violentemente, straripando ed inondando la terra fertile. Durante l’estate la maggior parte dei fiumi rimangono asciutti. I fiumi più impor-tanti sono il Crati con gli affluenti Coscile e Muscone e il Neto con l’affluente Vitravo. I due fiumi nascono dalla Sila e sfociano nel Mar Ionio, mentre altri di minor importanza sono il Savuto ed il Massina che sfociano nel Tirreno. La Calabria è priva di laghi naturali. Con le varie costruzioni di canali e dighe, si sono formati arti-ficialmente tre grossi bacini alimentati da dei corsi d’ac-qua della Sila, tra cui il Lago Arvo, il Lago di Cacita ed il Lago Ampollino.

Grazie all’influsso del mare il clima di questa Regio-ne è prevalentemente mediterraneo, mentre all’interno, nelle zone montuose, il clima è più rigido con abbondan-ti precipitazioni.

L’attività agricola coinvolge la maggior parte degli abitanti della Calabria, anche se si limita ai soli spazi pianeggianti. Lungo le coste si sviluppano colture red-ditizie come barbabietole da zucchero, tabacco, fiori, or-taggi, ulivi ed arance. Tipiche colture di questa regione sono il cedro ed il bergamotto, il quale viene esportato in tutto il mondo. Molto abbondante è anche la coltivazione di fichi e mandorli. Le zone collinari vengono coltivate a viti. La pastorizia è in declino, mentre fiorenti sono gli allevamenti di bovini. Sebbene la Calabria sia circon-data dal mare, la pesca non è molto sviluppata. Tipica è la pesca del pescespada nelle zone vicino allo Stretto di Messina, Bagnara Calabra e Scilla.

Il territorio calabrese è fortemente caratterizzato dalla presenza di una diffusa pericolosità e vulnerabilità che non riguarda più solo le aree montane e collinari, ma investe diffusamente le aree costiere dove gli elementi vulnerabili influenzano negativamente ed in modo cre-scente lo sviluppo socio-economico. La pianificazione e la gestione del territorio calabrese richiedono attenti studi per limitare gli effetti del diffuso dissesto idro-ge-omorfologico. Il rapido sollevamento della crosta terre-stre, verificatosi nel periodo quaternario, ha, difatti, dato origine, nel territorio regionale, a versanti acclivi su cui sono attivi fenomeni erosivi e movimenti di massa. Inol-tre, le ricerche condotte in campo geomorfologico hanno evidenziato che questi fenomeni, per la loro ampiezza,

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diffusione e gravità rappresenta no il principale mecca-nismo morfogenetico-evolutivo di controllo nei profili dei versanti naturali. La regione è, infatti, soggetta a di-namiche evolutive ancora attive, con franamenti diffusi ed anche particolarmente imponenti ed interferenti con l’ambiente antro pico. La Calabria è anche una regione ad elevato rischio sismico, situazione, questa, che va ad amplificare ulteriormente il rischio idrogeologico.

La penisola calabrese è, inoltre, caratterizzata da cor-si d’acqua di breve lunghezza, con dislivelli notevoli e pendenze decisamente elevate. Tali caratteri, somma-ti alla particolare composizione litologica, all’assetto strutturale ed al regime pluviometrico, danno luogo a trasporti solidi consistenti con regimi di flusso di tipo torrentizio. Di conseguenza, si verificano facilmente pie-ne rovinose con esondazioni ed allagamenti, che danno luogo ad effetti disastrosi nelle piane alluvionali, spesso sede di insediamenti urbani ed industriali.

Alla diffusione di fenomeni franosi si sovrappongono fenomeni di erosione intensa. I fattori antropici, l’attivi-tà estrattiva non regolata, l’urbanizzazione incontrollata delle aree costiere, la costruzione di invasi, l’elimina-zione delle dune costiere hanno aggravato negli anni più recenti le condizioni di vulnerabilità e di rischio del territorio. Il 40,1% del territorio calabrese è interessa-to da livelli di attenzione per rischio idrogeologico che vanno dall’elevato al molto elevato. Di rilevante gravità appaiono anche diverse situazioni di rischio idraulico, che risultano connesse ad alcune caratteristiche specifi-che del deflusso fluviale nella regione (esaltate, in tempi recenti, dai mutamenti nel regime delle precipitazioni conseguenti ai cambiamenti climatici registrati a scala planetaria), al cattivo stato di manutenzione dei bacini idrografici e dei corsi d’acqua, a situazioni localizzate di interferenza negativa tra opere antropiche e deflusso fluviale e, infine, alla quasi totale assenza della valuta-zione del rischio idraulico. Infine forti dinamiche erosive costiere (il territorio regionale si sviluppa in 700 km. di coste) riguardano ormai gran parte delle coste calabresi.

La forestazione per molti anni in Calabria ha svolto una funzione importante, contribuendo ad un forte incre-mento del patrimonio boschivo e riducendo conseguen-temente in modo significativo i rischi di dissesto idroge-ologico nella regione. La storia recente dello sviluppo della forestazione in Calabria parte nel periodo fra le due guerre e negli anni immediatamente successivi alla se-conda guerra mondiale e si caratterizza per un’intensa attività di prelievo di materiale legnoso che porta rapida-

mente ad un enorme impoverimento del patrimonio bo-schivo regionale. All’inizio degli anni ’50 la situazione di molti terreni della fascia montana era pericolosamente compromessa e soggetta ad intensi fenomeni erosivi e di instabilità dei versanti con enormi rischi, puntualmente confermati da fenomeni alluvionali per molti centri abita-ti. Le alluvioni dei primi anni ’50 stimolano un momento di intensa attività programmatoria sfociato nelle Leggi speciali per la Calabria e nei conseguenti investimenti in termini di rimboschimento e di consolidamento dei baci-ni con particolare attenzione ai versanti più instabili.

La realtà forestale della Calabria è una delle più in-teressanti d’Italia: per vastità delle aree boscate, indice di boscosità, potenzialità e diversificazione della produ-zione legnosa, molteplicità dei popolamenti, specificità mediterranea di alcune formazioni, varietà dei paesaggi, ruolo storico, culturale e sociale.

Da dati ISTAT 2003, la ripartizione della superficie boscata, valutata in 480.511,00 Ha, risulta essere rap-presentata da: Fustaie 303.035 ettari (63,1%), Cedui 166.383 (34,6), Macchia mediterranea 11.093 (2,3). I boschi naturali sono costituiti da 360.000 ettari (75,0%), mentre i rimboschimenti da Ai boschi naturali sono da ascrivere i Querceti (specie varie) per circa 102.000 ettari (28,3%), i Castagneti per 95.000 ettari (26,4), le Faggete per 74.000 ettari (20,5), le Pinete (specie varie) per 55.000 ettari (15,3), i Popolamenti misti (anche di resinose e latifoglie) per 31.000 ettari (8,6) le Abetine per 2.000 ettari 0,6), gli Ontaneti-cipresseti-pioppeti-acereti (specie varie) per 1.000 ettari (0,3); b) ai boschi artificiali le Pinete di laricio per 35.000 ettari (29,2), gli Eucalitteti (specie varie) per 26.000 ettari (21,7), le Pi-nete di pini mediterranei (d’Aleppo, domestico e marit-timo) per 22.000 ettari (18,3), le Abetine di douglasia per 4.000 ettari (3,3), nonché sulle restanti superfici for-mazioni di specie endemiche (castagno, cerro, farnetto, ontano napoletano, abete bianco, pino loricato, noce, acero montano, ecc.) ed esotiche (pino austriaco, pioppi euro-americani, pino insigne, abete greco, acacie, cedro atlantica, pino strobo, cipresso arizonica, abete rosso, larice giapponese, pino silvestre, quercia rossa Com-plessivamente, tra boschi naturali e artificiali produttivi, è possibile valutare in 1,4-1,8 milioni di mc la massa asportabile ogni anno, senza intaccare il preesistente e consistente capitale legnoso. Secondo dati ISTAT 2003, l’utilizzazione legnosa è di circa 667.450 mc di cui la le-gna per combustione è di 341.324 mc. mentre il legname da lavoro è di 326.126 mc.

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La Calabria è una delle 4 regioni italiane (insieme a Piemonte, Lombardia, Trentino) che contribuisce mag-giormente, con circa il 60%, alla produzione di legname da lavoro. Nonostante la Calabria sia dotata di un enor-me patrimonio forestale ed abbia un potenziale produtti-vo molto elevato (si stima un incremento potenziale an-nuo di produzione pari a 1 milione di mc), il mercato del legno non ha ancora assunto una dimensione adeguata sia a causa dei costi elevati che a causa di una domanda di legname di qualità.

A livello regionale la superficie complessiva del si-stema delle aree naturali protette (parchi nazionali e re-gionali, riserve terrestri e marine) copre una percentuale pari al 13,8% del territorio calabrese. Le principali aree protette sono: il Parco Nazionale del Pollino (interessa 32 comuni calabresi su circa 100.000 ettari), il Parco Na-zionale dell’Aspromonte (interessa 37 comuni su circa 70.000 ettari), la Riserva Marina di Isola Capo Rizzuto (interessa principalmente due comuni su circa 13.000 et-tari).

La superficie interessata alla viticoltura in Calabria ammonta a Ha 13.459 ettari, di cui circa il 20% è iscritta agli albi delle Doc.. Analizzando il dato provinciale si evidenzia che la coltivazione dell’uva da vino prevale nella provincia di Cosenza con 5.581 ettari, seguita da Crotone (3.295 ettari), Reggio Calabria (2.237 ettari), Catanzaro (1.439 ettari) e Vibo Valentia (907 ettari). Li-mitando l’analisi ai soli vini Doc si rileva invece una ele-vata concentrazione delle superfici coltivate nella pro-vincia Crotone pari al 76,4% della produzione comples-siva regionale. In Calabria le aziende del comparto sono 34.291 di cui solo il 7,69% produce vino Doc. Facendo un confronto degli ultimi due censimenti si assiste ad una diminuzione consistente del numero delle aziende pari al 41%. Considerando gli anni che vanno dal 2000 al 2004 il valore della produzione calabrese di vino si attesta mediamente intorno ai 31 milioni di euro e pesa in media l’1,5% sul totale dell’agricoltura regionale. In particolare, negli anni dal 2000 al 2004 la produzione di vini IGT è stata pari in media a 36.000 ettolitri. Per quan-to riguarda, invece, i vini Doc in base ai dati disponibili si registra una produzione media pari a 58.000 ettolitri. In termini di quantità, con una produzione media nel pe-riodo 2000-2004 pari a 597 mila tonnellate, la Calabria riveste un ruolo poco rilevante nel contesto sia della pro-duzione del mezzogiorno che dell’Italia con un’inciden-za rispettivamente del 2,84% e del 1,2%. Analizzando la produzione media degli ultimi cinque anni di vini Igt,

pari a 26 mila tonnellate, il ruolo della Calabria nel con-testo italiano si riduce ulteriormente in quanto l’inciden-za della media degli ultimi cinque anni della produzione regionale risulta pari allo 0,24%.

La produzione olivicola raggiunge una quota del 28,2% con 105.000 aziende olivicole ed una superfi-cie di 166,7 mila ettari destinata a tale coltivazione. Di questi 166,7 mila ettari, in seguito all’introduzione del Reg. CE 2078792, il 16,7% è stato destinato alla pro-duzione biologica e/o integrata che dovrebbe rappresen-tare il 25% della produzione di olive complessive. La Calabria produce il 25% dell’olio nazionale ma solo il 3% dell’olio imbottigliato. Infatti, mentre tutta la pro-duzione di olive viene trasformata in Calabria, solo il 10% dell’olio trasformato viene imbottigliato in Regio-ne. In Calabria sono attivi 1.342 frantoi che trasformano 10,6 milioni di quintali di olive producendo 2,2 milioni di quintali di olio. La maggior parte dei frantoi risulta di piccole dimensioni e con un periodo di lavorazione di 4 mesi all’anno. L’attività svolta si connota per una forte presenza del servizio di molitura a favore dei produttori locali. La principale sfida per i produttori calabresi resta l’innalzamento della qualità e l’ampliamento dell’offerta nel segmento dei prodotti di alta qualità.

La Calabria si pone al secondo posto in Italia per la produzione agrumicola, con una produzione media di 7,4 milioni di quintali su circa 41 mila ettari di superficie (il 61% circa è rappresentato da arance, il 25% da clemen-tine ed il restante 14% da limoni, mandarini, pompelmi, bergamotti e cedri).

Secondo dati ISTAT 2000, nel comparto ortofrutticolo regionale risultano occupate 29.007 aziende ortive (per 11mila ettari di superficie), 28.284 aziende fruttifere (per 24mila ettari di superficie), 18.284 aziende produttrici di patate (per 5mila ettari di superficie circa) e 14.963 aziende produttrici di legumi secchi (4mila ettari di su-perficie circa). Le coltivazioni ortofrutticole che hanno un peso maggiore in termini di numero di aziende agri-cole produttrici sono la patata, il pomodoro da mensa e il castagno, coltivazioni che incidono sul dato nazionale rispettivamente con il 14,2%, il 17,6% e il 18,7%. La produzione ortofrutticola calabrese in valore, dal 2000 al 2004, presenta un incremento maggiore rispetto alla produzione nazionale e risulta aumentata con una per-centuale maggiore, in controtendenza, quindi, rispetto alla produzione nazionale, in particolare per alcune pro-duzioni prevalenti come agrumi e patate. Un calo più evidente rispetto a quello nazionale si evidenzia nella

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produzione di pomodori, mentre cavolfiori e cavoli e pesche e kiwi risultano in forte crescita. La produzione regionale di orticole in volume è in aumento, ma risul-tano in calo le colture prevalenti quali il pomodoro e la patata. In aumento, invece, la produzione di finocchio, cavolfiore e cavoli. Stabile la produzione dei legumi fre-schi. Tra le colture protette, in aumento dal 2000 sia in termini di produzione che di superfici, si evidenzia la produzione di pomodoro, zucchina e melanzana. In au-mento anche la produzione di lattuga, indivia, cetriolo e fragola. In aumento la produzione regionale di frutta, anche tra le colture prevalenti come pesche, kiwi e uva da tavola. Tranne che per gli agrumi, tutte le altre super-fici investite a frutticoltura sono in aumento. Il compar-to orticolo occupa l’8,5 % della SAU totale regionale e la sua importanza è data dal valore quantitativo del-le produzioni conseguibili, sia come primizie sia come prodotti tardivi. Le orticole di pieno campo interessano circa 45.000 Ha, mentre quelle in coltura protetta 358 ha. Sono localizzate in aree limitate della regione (lametino, vibonese, sibaritide, valle del crati). Le colture protette hanno conosciuto un aumento notevole della superficie investita in seguito all’applicazione del Regolamento CE n° 2081/93. L’analisi della produzione orticola calabrese

su quella nazionale evidenzia una marcata specializza-zione territoriale della produzione di pomodori e patate, limitata quest’ultima in un’area (l’altopiano silano) che presenta caratteristiche pedoclimatiche ed altimetriche indispensabili alla coltura.

Un discorso a parte deve essere fatto per le produzioni minori, quali ad esempio la cipolla rossa di Tropea che, pur non rappresentando produzioni trainanti per l’agri-coltura calabrese, costituisce un importante risorsa non solo economica ma anche sociale e culturale per lo stret-to legame che esse hanno con il territorio. Tali prodotti hanno una dimensione locale e sono fortemente tipizzati e riconosciuti come prodotti validi dai consumatori ca-labresi.

Per quanto riguarda la destinazione della produzione orticola, la maggior parte dei prodotti è commercializza-ta fresca, essendo l’industria della trasformazione, sep-pur con le dovute eccezioni, ancora debole.

Il comparto vivaistico è particolarmente dinamico soprattutto in due aree della Calabria: la piana di Siba-ri dove operano circa 15 aziende vivaistiche nel settore agrumicolo e olivicolo, e la zona del lametino che pre-senta una realtà vivaistica di valenza internazionale.

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L’Italia Meridionale Continentale possedeva un pa-trimonio ovino di grande rilievo quantitativo e di alto pregio, oggi in via di sempre maggiore erosione. Per la variabilità climatica ed orografica del territorio, l’ovini-coltura meridionale è infatti partecipe della eterogeneità tra sistemi di produzione intensivi a tecnologie evolu-te ed alti input (ai quali tenta di adeguarsi) e sistemi di produzione a bassi input ancora fortemente radicati alle tradizioni, anche se talora rivisitate per la evoluzione dei mercati e delle normative nazionali e comunitarie.

Tuttavia. il desiderio di adottare razze e tecniche più intensive, ha fatto spesso trascurare la loro messa a pun-to in coerenza con le risorse ambientali locali e con le dinamiche dei mercati di consumo. L’abbandono delle razze, delle tecniche di allevamento e dell’organizza-zione aziendale alle quali gli allevatori erano abituati, per dedicarsi a razze e tecniche nuove ad elevati input, selezionate o studiate per ambienti diversi, non ha avuto un grosso riscontro sui mercati; infatti, malgrado i consi-stenti investimenti, non sono stati raggiunti i livelli pro-duttivi e la capacità di remunerazione attesi. I limiti di competitività hanno trovato compensazione nei mercati locali, ma non hanno evitato la penetrazione di prodotti di largo consumo provenienti da altre regioni italiane o dall’estero, volti ad assicurare la copertura della quota di consumi legati all’innalzamento dei redditi e all’espan-sione demografica.

Tutto ciò ha indotto a meditare sull’utilità di conser-vare o di ripristinare la variabilità genetica attraverso la ricerca dell’originale diversità nelle razze autoctone. Oggi, nonostante ancora permanga la tendenza di gran parte degli allevatori ad orientarsi verso l’efficienza pro-duttiva, anche in relazione ai surplus di produzioni di origine animale dell’UE è frenata la corsa alle razze spe-cializzate a vantaggio dei sistemi misti; vanno evolven-dosi perciò le metodologie di allevamento che favorisca-no le produzioni tipiche e di qualità e la sostenibilità, per le quali le razze autoctone sono maggiormente adatte.

Lo scenario zootecnico meridionale è perciò molto più complesso di anni addietro, perché sono profonda-

mente modificate le condizioni del contesto locale, le strutture e le tecnologie produttive, la competizione sui mercati, ma anche la domanda dei consumatori. L’evo-luzione della situazione da una parte frena le speranze, ma dall’altra consente fiducia nell’affrontare gli scenari futuri, perché mostra le potenzialità rilevanti del settore, che certamente non possono e non devono andare per-dute.

L’allevamento ovino dell’Italia Meridionale Conti-nentale è ancora depositario di interessanti popolazio-ni rustiche che permangono talora a livello di reliquia, attentamente valutate dal mondo della ricerca, ma scar-samente considerate da quello dell’imprenditoria. Tali popolazioni sono allevate ancora tradizionalmente, la maggior parte al pascolo o a sistema semi-intensivo ma con livelli produttivi molto variabili sia per le risposte riproduttive che per la produzione del latte e della car-ne. Ormai prossime alla soglia dell’estinzione, ma ben adattate all’ambiente, le razze rustiche sono facilmente utilizzabili con metodologie di allevamento biologico. Il valore unitario delle produzioni biologiche, più elevato rispetto a quelli della zootecnia tradizionale, potrebbe essere in grado di compensare le perdite dovute alla mi-nore capacità produttiva.

Il problema principale è oggi, però, quello della chia-ra identificazione genetica delle razze autoctone perché le tipologie conservate sono spesso alterate dall’abuso di consanguineità e da interventi (incroci) mirati al mi-glioramento dei caratteri produttivi; si è formato così un quadro non sempre perfettamente adeguato, pur essendo ipotizzabile che la variabilità residua possa essere suffi-ciente al ripristino degli equilibri genetici auspicabili per il raggiungimento di una popolazione stabilizzata.

La consistenza della popolazione ovi-caprina è al ter-zo posto in Italia, dopo quelle avicola e suinicola. Gli ovini rappresentano la realtà maggiore, in quanto l’al-levamento caprino è quasi sempre complementare e secondario rispetto a quello ovino. Il patrimonio ovino nazionale, dopo ampie oscillazioni, che lo hanno visto passare nell’ultimo secolo dai circa quindici milioni di

il Patrimonio

E. Castellana, E. Ciani, D. Cianci

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capi del 1920 a meno di dieci milioni di unità nel 1960, è sceso negli ultimi anni sotto ai sette milioni di capi, allevati per oltre il 50% nelle Isole, per il 4% appena nell’Italia Settentrionale e suddivisi, per il restante 45%, in parti pressoché uguali, tra le regioni del Centro e del Meridione d’Italia.

Il ‘5° Censimento generale dell’agricoltura’ (ISTAT, 2000) individua in 97.018 le aziende presenti sul terri-torio nazionale, per un totale di 6.810.389 capi ovini. Rispetto al censimento del 1990 il numero delle aziende che allevava ovini è diminuito ben del 40,5%. Una tale flessione ha interessato, tra le regioni del mezzogiorno, in particolare la Puglia dove, nel 2000, rispetto al 1990, il 50,8% in meno delle aziende allevavano ovini (Tab. 1). La Puglia, con i suoi 413.000 capi, è al settimo posto nella graduatoria nazionale per la consistenza del patri-monio ovino, ma, relativamente al volume delle produ-zioni, è al secondo posto per numero di capi macellati, al quarto per la produzione di lana succida ed al quinto per la produzione di latte (Sevi & Muscio, 1995).

Tabella 1. Variazioni percentuali del numero di azien-de e di capi ovini nel decennio 1990 - 2000 (Censimenti ISTAT, 1990 e 2000).

Il declino della popolazione e del numero di alleva-menti è imputabile alla crisi strutturale cui è andata in-contro la zootecnia italiana la quale ha avuto come effetto principale la scomparsa degli allevamenti familiari e di quelli di dimensioni ridotte non specializzati. Gli alleva-menti ovi-caprini hanno avuto meno di altri le risorse per far fronte ai cambiamenti imposti dalla globalizzazione dei mercati e dall’adeguamento alle nuove norme, ad esempio sulla qualità igienico-sanitaria del latte. A que-

sto, nel comparto ovi-caprino si sono aggiunti altri fatto-ri congiunturali, fra i quali cambiamenti socio-culturali, per cui con l’affermarsi di nuovi stili di vita difficilmente gli allevatori prossimi al pensionamento vengono sosti-tuiti dalle giovani generazioni ed i pesanti effetti delle emergenze sanitarie (Blue Tongue, Scrapie, etc.).

Le aziende di piccole dimensioni sono diminuite in misura molto maggiore rispetto a quelle medio-grandi, di conseguenza il numero di capi si è generalmente ri-dotto; alla flessione osservata nel numero delle aziende che allevano ovini e nelle consistenze regionali, però, si contrappone, sempre nel decennio 1990-2000, un incre-mento del numero medio di capi per azienda, che da 54 è passato a 70 e la Puglia, preceduta da Sardegna (194), Toscana (120) e Sicilia (109), ha superato la media na-zionale con 89 capi/azienda.

Al fine di fornire una più puntuale informazione ri-spetto al passato, il censimento del 2000 ha dettagliato ulteriormente la categoria degli ovini, distinguendoli in tre classi: pecore da latte (pecore in carriera), altre peco-re (pecore al termine della carriera riproduttiva, pecore a riposo e agnelle montate) e altri ovini (agnelli maschi e femmine di età inferiore ad un anno, agnelloni, castrati e montoni, nonché le femmine di età superiore ad un anno che non hanno mai partorito e non sono incluse nelle classi delle pecore).

Con la suddetta distinzione è stato possibile traccia-re il seguente quadro: le pecore sono allevate in 90.947 aziende per un totale di 6.096.823 capi; nel 43 % degli allevamenti ovini sono presenti pecore in carriera, men-tre nel 70 % si allevano “altre pecore” (diverse da quelle da quelle in carriera). In pratica soltanto nel 13 % delle aziende l’allevamento di pecore è misto. Con 4,4 milioni di capi le pecore in carriera rappresentano il 65,1% del patrimonio nazionale di ovini ed il 72,1% delle pecore nel complesso; con 2,8 milioni di capi il 62,9% delle pe-core in carriera è concentrato soltanto nell’Italia Insula-re dove rappresenta, tra l’altro, il 79,2% del patrimonio ovino della circoscrizione.

Di tali aliquote la Sardegna si attribuisce rispettiva-mente valori del 53,9% e dell’85,0%. Il restante 37,1% è quasi tutto ripartito tra Italia Centrale (22,0%) e Me-ridionale (13,2%), con punte del 9,9% nel Lazio e del 3,1% in Calabria. Per quanto riguarda, invece, la cate-goria degli altri ovini il 42 % degli allevamenti presenta un patrimonio di appena 713.566 capi (in media 17 capi per allevamento). Anche per questa categoria, l’aliquota più significativa risulta dislocata in Sardegna (37,4% del

Regione n. aziende n. capiMolise -40,2 % -17,0 %Campania -42,3 % -5,5 %Puglia -50,8 % -37,8 %Basilicata -26,8 % -5,7 %Calabria -43,2 % -28,4 %Sicilia -46,9 % -45,3 %Sardegna -28,0 % -10,3 %

ITALIA -40,5 % -22,1 %

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il Patrimonio87

corrispondente patrimonio nazionale), seguita dalla Sici-lia (12,7%) (Tab 2).

Confrontando i risultati del 5° Censimento dell’Agri-coltura del 2000 con quelli dell’indagine annuale sul patrimonio ovi-caprino del 2004, si evince, a differenza dell’intervallo 1990-2000, un aumento delle consistenze a livello nazionale da 6.810.000 capi, di cui 6.097.000 pecore, nel 2000 a 8.106.043, di cui 7.255.043 pecore, nel 2004 (Tab 3).

Responsabili di tale incremento sono ancora le regio-ni dell’Italia insulare, Sardegna, in particolare e Sicilia. In queste due regioni si allevano prevalentemente 4 raz-ze ovine, Sarda, Comisana, Valle del Belice e Pinzirita. Tra queste, per la spiccata vocazione lattifera, la Sarda e la Comisana hanno attirato l’attenzione di molti alle-vatori, soprattutto pugliesi, lucani e calabresi, i quali si sono orientati sempre più verso queste due tipologie a di-scapito delle razze autoctone a performances produttive inferiori. La Comisana, però, rispetto alla Sarda, riscuote più successo perchè sembrerebbe adattarsi meglio agli ambienti alloctoni.

Consultando la banca dati dell’Asso.Na.Pa. è stato possibile delineare un quadro generale della distribu-zione in termini razziali del patrimonio ovino dell’Italia meridionale continentale.

In tutta l’Italia meridionale continentale è evidente la notevole presenza delle razze Sarda e Comisana; in

Puglia, seppure le razze ovine più allevata restano anco-ra la Moscia Leccese (in Salento) e la Gentile di Puglia (in provincia di Foggia), si osserva negli anni un pro-gressivo incremento dell’allevamento delle razze sarda e siciliana. In Molise, invece, accanto alla Gentile di Pu-glia permane l’allevamento della Merinizzata Italiana. La Basilicata primeggia tra le regioni del Mezzogiorno d’Italia per l’introduzione dell’allevamento della pecora Sarda e Comisana, seguite solo dalla Merinizzata Italia-na. In Campania è l’allevamento della razza autoctona Laticauda ad occupare ancora una posizione di primo piano.

Tra le razze ovine autoctone dell’Italia meridionale continentale ancora reperibili troviamo l’Altamurana e la Leccese in Puglia, la Gentile in Puglia, Calabria, Basi-licata e Molise, Laticauda e Bagnolese in Campania.

La consistenza dell’Altamurana è di appena 580 sog-getti distribuiti in 4 aziende (Asso.Na.Pa., 2006) tutte sul territorio pugliese; di queste 2 sono Istituti sperimentali. Il sistema di pascolamento è permanente ed in piccoli greggi. Oggi sulla Murgia barese l’allevamento della pecora Altamurana è stato ormai quasi completamente sostituito principalmente con le razze Sarda e Comisana,

Regioni n. capi

Totale Pecore Altri oviniDa latte Altre

Italia Meridionale Continentale

Molise 113.160 25.748 67.062 20.350Campania 227.232 84.901 113.966 28.365Puglia 217.963 116.688 82.817 18.458Basilicata 335.757 117.120 178.469 40.168Calabria 237.016 137.969 72.506 26.541Italia Insulare

Sicilia 708.182 398.424 219.020 90.738Sardegna 2.808.713 2.388.231 153.299 267.183Italia Meridionale 1.412.741 585.964 667.241 159.536ITALIA 6.810.389 4.433.675 1.663.148 713.566

Tabella 2. Il Patrimonio ovino dell’Italia Meridionale Continentale (ISTAT, 2000).

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ma anche Valle del Belice e Delle Langhe. Nella provin-cia di Foggia gli originari allevatori dell’Altamurana si sono rivolti all’incrocio con razze di maggior mole, prin-cipalmente per migliorarne l’attitudine alla produzione della carne. La razza Altamurana è tra le popolazioni ovi-ne dell’Italia Meridionale, quella che prima e più di ogni altra ha subito attentati genetici e dai circa 200.000 capi censiti negli anni ‘50 è oggi ridotta a non più di 200 capi in purezza, tanto da dover essere classificata, secondo la Watch List della FAO, come razza danneggiata. Eppure ancora negli anni ’50 se ne vantavano le caratteristiche di rusticità e di bontà qualitativa delle produzioni, che gli allevatori ricordano volentieri ancora oggi.

La Leccese è allevata soprattutto nelle aziende salen-tine ma anche in Basilicata e Calabria; ha una consisten-za di circa 2600 soggetti distribuiti in 36 aziende. Un più rapido incremento delle produzioni è stato ricercato dagli allevatori inizialmente attraverso incroci di insan-guamento con arieti di varie origini, portando la razza a differenziarsi in tre tipologie morfologiche, che ancora oggi si possono riconoscere: la Leccese grande, media e piccola. Quest’ultima è la tipologia originaria mentre le altre sono state ottenute attraverso l’incrocio con razze a maggior mole. In seguito ad incroci tra la pecora Lecce-se e l’ariete Montenegrino, sporadicamente con il Ber-gamasco, e a volte con il Gentile di Puglia, si è ottenuta la pecora detta di razza Fasanese. Oggi anche l’alleva-mento della pecora Leccese è stato quasi completamente sostituito con le razze a più spiccata vocazione lattifera, Sarda e Comisana soprattutto; pertanto si è anch’essa ri-dotta tanto da dover essere classificata, secondo la Watch

List della FAO, come razza critica o danneggiata man-tenuta. Le performances produttive della pecora Leccese si mantengono ancora a livelli tali da soddisfare abba-stanza le esigenze degli allevatori che continuano per-tanto a sostenere tale allevamento nonostante le diverse difficoltà tra cui spiccano la carenza di manodopera ed il mancato riconoscimento ed apprezzamento della qualità delle produzionidel prodotto di qualità.

La consistenza della razza Gentile di Puglia (Asso.Na.Pa del 2006) è di circa 6620 soggetti allevati in 36 aziende distribuite tra Puglia, Calabria e Molise. La raz-za viene allevata in pianura, in collina e in montagna. Il sistema di allevamento comprende: i sottosistemi pa-storale, semipastorale, stanziale brado e non brado, in piccoli, medi e grandi greggi. L’esiguità del patrimonio allevato, caratterizzato da una rapida ed inarrestabile di-minuzione negli ultimi decenni, è da attribuire alla mi-nore presenza sul mercato delle carni ovine dell’agnello nazionale, surclassato, in termini di prezzo, dall’agnello merinizzato di importazione. La modesta attitudine latti-fera e l’ancora bassa percentuale di parti gemellari han-no ulteriormente contribuito alla pratica di incroci indi-scriminati che hanno avuto come unico esito quello di ridurre drasticamente il numero dei greggi in purezza.

La razza Laticauda è diffusa soprattutto in Campania, ma anche in Calabria e Basilicata (Asso.Na.Pa, 2006) per

2000 2004

Regione Totale Pecore Totale PecoreMolise 113.160 92.810 143.625 125.294 Campania 227.232 198.867 256.423 227.676 Puglia 217.963 199.505 241.464 222.061 Basilicata 335.757 295.589 365.690 331.684 Calabria 237.016 210.475 258.814 232.595 Sicilia 708.182 617.444 820.662 742.404 Sardegna 2.808.713 2.541.530 3.603.912 3.165.545 Mezzogiorno 4.929.636 4.412.179 6.012.613 5.342.450

ITALIA 6.810.389 6.096.823 8.106.043 7.255.043

Tabella 3. Variazioni del patrimonio ovino dell’Italia Meridionale Continentale tra il 2000 ed il 2004 (ISTAT, 2000 e 2004).

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il Patrimonio89

un totale di 9104 soggetti distribuiti in circa 180 aziende. Viene allevata nella media collina, con sistema stanziale non brado, in greggi medio piccoli che vanno dai 20 ai 100 capi di consistenza.

Il tipo di allevamento più diffuso, quello poderale-familiare, nell’ultimo decennio, ha subito una drastica variazione: sono quasi completamente estinte le realtà allevanti 2÷5 capi, mentre sono aumentati gli allevamen-ti con consistenza maggiore, che in determinate realtà aziendali diventano ad elevate numerosità e con sistema stallino. Gli allevatori campani manifestano sempre più frequentemente la necessità di incrociare il TGA (Tipo Genetico Autoctono) Laticauda con la razza Lacaune o Ile de France. Tale decisione scaturisce dalla scarsa domanda di agnelli laticauda che, sebbene con carne di ottima qualità, hanno un peso ritenuto eccessivo. A tale problematica si aggiunge la scarsa produzione di latte e la assenza di un indotto dei prodotti derivati.

La consistenza della razza Bagnolese (Asso.Na.Pa., 2006) è di appena 44 soggetti distribuiti in 4 aziende in provincia di Salerno. Gli animali vengono allevati in greggi di piccole dimensioni, costituiti da soggetti Ba-gnolese con presenza saltuaria di capi appartenenti ad altri tipi genetici. In passato, il sistema di allevamento

prevalente era quello pastorale basato sulla transuman-za; oggi, invece, si assiste ad una razionalizzazione del sistema di allevamento con l’abbandono del sottosistema pastorale e una tendenza all’adozione di quello stanziale brado, caratterizzato dall’utilizzo di risorse pabulari pa-scolive, nonché l’integrazione alimentare in ricoveri ove si effettuano anche operazioni di caseificazione.

La presenza del TGA in precedenza (fine degli anni Settanta) era molto più diffusa nell’acrocoro dei monti Picentini, attualmente il baricentro di allevamento si è spostato verso la Piana del Sele per la presenza di con-dizioni di allevamento che determinano costi di produ-zione più contenuti. L’alimentazione è molto variabile nel corso dell’anno. Essendo prevalente l’allevamento senza terra, vengono utilizzati principalmente pascoli demaniali e, ove possibile, viene attuata la transumanza di tipo verticale. Gli allevatori manifestano difficoltà nel reperire pascoli adatti al fabbisogno degli animali.

A tale problema, si affianca la difficoltà di reperire manodopera per la gestione del gregge. Nonostante le difficoltà incontrate gli allevatori della razza Bagnolese manifestano soddisfazione per le performances produt-tive che il TGA offre.

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La pastorizia “tradizionale” è un’attività zootecni-ca che richiede un notevole sacrificio da parte di chi la pratica; il mantenimento degli animali richiede la pres-soché costante permanenza all’aperto con scarse prote-zioni dalle intemperie. A differenza dei Paesi del Nord Europa, dove gli ovini vengono allevati praticamente allo stato brado con una ridotta necessità di manodope-ra, in Italia gli ovini vengono allevati prevalentemente per la produzione del latte, con la conseguente necessità di mungere gli animali due volte al giorno, con ovvi alti costi di gestione.

Le nuove tecnologie di allevamento, quali la stabu-lazione semi fissa, l’alimentazione che abbina mangimi e foraggi, l’introduzione di nuovi vaccini e di farmaci per la terapia delle piú importanti malattie, la mungitura meccanica, sono ormai sufficientemente conosciute e, se ben applicate, consentono di ridurre i costi di manodo-pera, e di ottenere latte e carni di buona qualità sia dal punto di vista igienico sia merceologico.

D’altra parte, l’allevamento tradizionale allo stato brado, oltre alle difficoltà gestionali per gli operatori, presenta aspetti negativi che non possono essere trascu-rati. Alcune malattie infettive degli ovini, incluse le zoo-nosi, non sono facilmente controllabili ed esistono rischi sia per la salute e il benessere degli animali sia per la qualità igienico sanitaria del latte e delle carni prodotte.

L’ambiente in cui vivono gli animali è spesso conta-minato da sostanze chimiche che, pur non provocando danni evidenti negli animali, per la presenza di loro resi-dui possono compromettere la qualità igienico sanitaria degli alimenti prodotti. Infine, le nuove conoscenze in materia di contaminanti naturali stanno facendo emerge-re il problema delle micotossine che possono costituire un rischio molto importante per la presenza dei loro re-sidui nel latte.

Mentre per i contaminanti ambientali e le sostanze naturali, gli allevatori debbono “subire” la situazione esistente e, in una certa misura, possono confidare in un sostegno da parte delle Autorità pubbliche che ricono-scono i danni subiti a causa di fenomeni non controlla-

bili, completamente diversa è la gestione delle sostanze chimiche e dei farmaci che, volontariamente, vengono somministrati agli animali e il cui uso può comportare pericoli per la salute pubblica. La presenza nel latte di residui di antibatterici può essere un elemento negativo nella caseificazione per gli effetti sui processi di matu-razione dei formaggi ed esiste un rischio consistente di ottenere prodotti qualitativamente inferiori.

Il problema maggiore è, però, quello della presenza di residui che non interferiscono nei processi di caseifica-zione e che, comunque, non sono ricercati con apposite analisi; in questi casi, l’allevatore che commette l’in-frazione ha la possibilità di sfuggire ai controlli anche perché, alle volte, i residui sono al di sotto dei limiti di sensibilità dei metodi. Si tratta di una situazione di reale pericolo, soprattutto per i formaggi destinati all’esporta-zione in Paesi importatori che effettuano controlli in tal senso.

Altro problema, negli ovini, è quello delle malattie in-fettive per le quali, per diversi motivi, non sempre è pos-sibile intervenire con efficacia nella profilassi e/o nella terapia. Il problema è maggiormente sentito nell’alleva-mento delle razze-popolazioni autoctone caratterizzate da una bassa consistenza in cui eventi infettivi possono ulteriormente contrarre la popolazione effettiva con con-seguente diminuizione della variabilità genetica (bottle-neck o collo di bottiglia) o, addirittura, determinarne la scomparsa. In entrambi i casi, il costo genetico dell’in-sorgenza della malattia infettiva è enorme, pertanto, per le popolazioni a bassa consistenza i piani di igiene e pro-filassi dovrebbero essere seguiti con maggiore attenzio-ne.

Nel caso recente della febbre catarrale maligna, nono-stante l’ampia diffusione della malattia e l’indubbio in-teresse economico esistente, non era disponibile nessun vaccino registrato nell’UE, per cui è stato necessario ri-correre a un vaccino di importazione. Le nostre autorità sanitarie hanno, comunque, avuto un parere preliminare favorevole da parte dell’UE condizionato ad alcuni vin-coli per dare la maggiore sicurezza possibile.

gli asPetti igienico - sanitari

M. Albenzio, A. Sevi, A.Rando, N. Castellano

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92l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

La brucellosi è un problema non ancora risolto poiché, da ormai molti anni, è stata abbandonata la vaccinazione e la prevenzione viene fatta mediante “stamping out” dei focolai. Tuttavia, è noto che, in alcune zone, la malattia è ancora presente e ciò è dimostrato dal fatto che, in Italia, si verificano annualmente molti casi di brucellosi uma-na, probabilmente a causa di contatti diretti con animali ammalati o anche a seguito del consumo di prodotti lat-tiero – caseari contaminati. Facendo riferimento a quan-to precedentemente citato sull’impatto delle malattie in-fettive sulle popolazioni a bassa consistenza, è da notare che lo “stamping out” da brucellosi è stato responsabile della recente scomparsa dell’ultimo nucleo di ovini di razza Gentile allevati nella regione Calabria. Abbiamo perso definitivamente un patrimonio genetico (serbatoio di geni) costituito piú di cinquant’anni fà.

La Scrapie (encefalopatia spongiforme trasmissibi-le – EST - degli ovini e caprini) è una malattia causata da prioni patogeni e, dalle informazioni disponibili, non avrebbe le caratteristiche di una zoonosi; pertanto, è sta-ta considerata una malattia di minore interesse per la sa-lute umana. La comparsa della BSE ha suscitato enorme preoccupazione per tutte le Encefalopatie trasmissibili e, per quanto riguarda il settore ovino le preoccupazioni sono aumentate a seguito di alcuni recenti studi che di-mostrerebbero la possibilità che la BSE sia passata dai bovini agli ovini con un conseguente aumentato rischio per i consumatori di prodotti alimentari derivanti appun-to dagli ovini. È conosciuta da oltre 200 anni e, a oggi, non vi sono evidenze che il consumo da parte dell’uomo di carni di ovini e caprini infetti costituisca un rischio per la salute pubblica. I piccoli ruminanti, però, sono suscet-tibili anche all’infezione da parte dell’agente della BSE, dal potenziale zoonosico purtroppo noto. Sebbene non vi sia ancora prova di una vera circolazione dell’agente della BSE nelle popolazioni ovine e caprine, nel 2005 è stato confermato in Francia un caso naturale di BSE in una capra nata prima del bando delle farine del 2001 e regolarmente macellata nel 2002.

In seguito a infezione con BSE, i piccoli ruminanti manifestano una malattia indistinguibile dalla Scrapie dal punto di vista sia clinico sia patogenetico. Infatti, similmente alla Scrapie e diversamente dalla BSE nel bovino, la distribuzione dell’infettività in ovini infettati sperimentalmente con BSE, indica un ampio coinvolgi-mento del tessuto linfatico già nelle prime fasi del pe-riodo di incubazione. A un mese dall’infezione, gli ovini con genotipo suscettibile presentano infettività significa-

tiva negli intestini, linfonodi, tonsille, stomaco e milza. A malattia conclamata, l’infettività negli organi men-zionati risulta dello stesso ordine di grandezza di quella riscontrata nel sistema nervoso centrale. Gli organi/tes-suti che, allo stato attuale delle conoscenze, presentano o potrebbero presentare infettività in caso di BSE, sono: testa, colonna vertebrale, milza, tessuto nervoso periferi-co, tonsille e tutti i linfonodi, fegato, pancreas, placenta, tutto l’apparato gastroenterico dall’esofago al retto. È, inoltre, in corso di pubblicazione uno studio sulla pre-senza di proteina prionica patologica (PrPsc) nei musco-li di pecore infettate sperimentalmente con BSE.

È, quindi, evidente come la tutela della salute pub-blica nei confronti della BSE negli ovini e caprini sia molto piú difficile rispetto alla BSE nel bovino, in cui la rimozione dei materiali specifici a rischio (SRM) ri-sulta molto efficace. Per questo motivo, la riduzione al minimo del rischio di destinare, inconsapevolmente, al consumo umano ovini e caprini con BSE può essere ot-tenuta attuando una strategia che combina tre approcci separati: sorveglianza attiva e test per distinguere BSE da Scrapie; rimozione degli SRM; selezione genetica per i caratteri di resistenza alle EST. La combinazione di azioni diverse si rende necessaria perché ognuna delle tre presenta alcuni limiti e da sola non può quindi garan-tire sufficiente sicurezza.

In base al Reg. 999/2001 (CE) e successive modifi-che, dal 2002 é stato introdotto anche per i piccoli rumi-nanti un sistema di sorveglianza attiva basato sull’esame con test rapidi di un campione annuale che è stato per l’Italia, nel 2005, pari a 10.000 ovini e 60.000 caprini regolarmente macellati, oltre a tutti gli ovini e caprini morti in stalla. Le dimensioni piú ampie del campione di caprini sono dovute alla segnalazione del caso di BSE naturale in questa specie. I test rapidi, però, non sono in grado di distinguere se la positività eventualmente ri-levata sia originata da Scrapie o BSE. L’unico metodo per avere conferma della presenza di BSE in un ovino o in un caprino è l’inoculazione di materiale cerebrale dell’animale positivo in un pannello di topi di laborato-rio. La determinazione della presenza di BSE avviene in base al tempo di incubazione della malattia nei topi e al profilo delle lesioni spongiotiche nelle diverse aree cerebrali, caratteristiche che risultano costanti in caso di BSE. Questa prova, tuttavia, risulta dispendiosa e, quin-di, non applicabile a tutti i casi di EST, e richiede, inol-tre, due anni per ottenere i risultati.

Recentemente sono stati messi a punto metodi mo-

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gli asPetti igienico - sanitari93

lecolari di discriminazione. Si tratta di un ELISA, un metodo di immunoistochimica e di alcuni metodi di we-stern blot, che si basano sull’analisi della affinità a di-versi anticorpi, della resistenza alle proteasi e del pattern elettroforetico della PrPsc, che risultano diversi tra BSE e Scrapie. Questi metodi non sono ritenuti dare un esito sicuro, ma possono essere utilizzati per evidenziare, in modo rapido, casi di EST ovine e caprine “inusuali” e indicativi di BSE. Con questi strumenti quindi, il Reg. 36/2005, che modifica il Reg. 999/2001, stabilisce che ogni caso rilevato con i test rapidi venga analizzato con uno dei metodi di tipizzazione molecolare. Se in seguito a tale analisi, un campione risulta sospetto di BSE, deve essere inviato al Laboratorio Comunitario di Riferimen-to, che lo sottoporrà a un ring test tra laboratori selezio-nati, facenti parte di un gruppo di esperti, che effettue-ranno altre analisi molecolari. Se si conferma il sospetto, il campione viene sottoposto ad analisi di tipizzazione con prova biologica.

Dal gennaio 2005, momento di inizio di questo nuovo sistema di sorveglianza, in Europa nessun caso di posi-tività per EST negli ovini e caprini è stato ritenuto so-spetto di BSE in seguito ad analisi molecolare. In Italia è stato anche condotto dal centro di riferimento (CEA) uno studio retrospettivo su casi provenienti da focolai rilevati a partire dal 2002 e nessuno di essi ha presentato caratteristiche simili a quelle della BSE.

La suscettibilità alle EST negli ovini dipende dal ge-notipo della PrPsc, relativamente ai codoni 136, 154, 171. Queste tre triplette nucleotidiche polimorfe codi-ficano per sette alleli: A136R154Q171 (ARQ), VRQ, TRQ, ARR, AHQ, ARH, ARK. La frequenza e l’assor-timento di questi alleli è differente nelle varie razze, al-cune delle quali possiedono tutti gli alleli, con relativi genotipi, mentre altre sono caratterizzate dalla presenza dei due soli alleli ARQ e ARR. Gli alleli VRQ e ARQ sono associati alla suscettibilità alla Scrapie, mentre l’al-lele ARR conferisce resistenza. La Scrapie si presenta occasionalmente in pecore ARR/ARQ e ARR/VRQ, tut-tavia, per un certo livello di esposizione all’infezione, la probabilità di infettarsi è piú bassa per un soggetto ete-rozigote per l’allele ARR. Inoltre, nella fase preclinica, la PrPsc non sembra essere presente nel sistema linfatico di animali con tali genotipi. Ovini ARR/ARR sembra-no resistenti alla Scrapie, in quanto nessun caso certo di Scrapie è stato rilevato in questi animali, sebbene non si possa affermare con certezza una resistenza assolu-ta. Per quanto riguarda la BSE, i dati a oggi disponibili

indicano che la relazione tra genotipi e suscettibilità ge-netica è simile tra Scrapie e BSE. Per la BSE, però, si è riusciti a provocare malattia, a bassa incidenza, in ovini ARR/ARR, solo in seguito a inoculazione per via intra-cerebrale. È quindi ragionevole pensare che, se presente, l’infettività nei tessuti di animali con genotipo resistente o semiresistente sia molto bassa e costituisca un rischio inferiore per l’uomo.

Per questo motivo, a seguito della Decisione 2003/100/CE, ogni Stato Membro ha introdotto un pia-no di selezione genetica per la resistenza alle EST ovine con lo scopo di aumentare la frequenza dell’allele ARR e ridurre gli alleli suscettibili. In particolare, si devono selezionare gli ovini di razza pura iscritti ai libri genea-logici o di particolare valore genetico al fine di aumenta-re la frequenza dell’allele ARR, eliminare VRQ e ridurre ARQ. Il programma di selezione fissa i seguenti requisiti minimi: castrazione o macellazione di tutti i riproduttori maschi portatori dell’allele VRQ; divieto di spostamento delle pecore portatrici dell’allele VRQ, eccetto che per l’invio al macello; impiego per la riproduzione dei soli maschi inclusi nel programma. Ci si propone in tal modo di arrivare a una certificazione delle greggi in base al loro livello di resistenza genetica alle EST. I livelli minimi previsti dalla Decisione sono i seguenti: livello I: greggi composte unicamente da ovini con genotipo ARR/ARR; livello II: greggi la cui progenie discende esclusivamen-te da montoni con genotipo ARR/ARR.

Per quanto attiene il grado di resistenza dei vari geno-tipi, vengono individuati cinque gruppi:

gruppo 5: genotipo ARR/ARR = pecore e arieti molto resistenti;

gruppo 4: genotipo ARR/AHQ-ARH-ARQ = geneti-camente resistenti (se vengono usati per la riproduzione, la progenie deve essere attentamente selezionata);

gruppo 3: AHQ/AHQ-ARH-ARQ o ARH/ARH-ARQ o ARQ/ARQ = geneticamente poco resistenti (l’uso per la riproduzione deve essere limitato e la progenie deve essere attentamente selezionata);

gruppo 2: ARR/VRQ = geneticamente suscettibili (non possono essere usati per la procreazione a meno che non si trovino in un contesto di programma di ripro-duzione controllato);

gruppo 1: VRQ / AHQ-ARH-ARQVRQ = genetica-mente molto suscettibili (non possono essere usati per la riproduzione).

Nel luglio 2003, l’Asso.Na.Pa ha provveduto a far campionare soggetti appartenenti alle 17 razze ovine

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94l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

iscritte al Libro Genealogico (LG); complessivamente sono stati effettuati oltre 9.333; la loro distribuzione tra le razze iscritte al LG è riportata nella tabella 1:

Tabella 1. Distribuzione per razza e sesso del numero di soggetti sottoposti ai test per la Scrapie (dati Asso-NaPa).

RazzaSesso Totale

M FMoscie Leccese 42 61 103Sarda1 97 89 186Sarda2 2.113 2.262 4.375Massese 143 329 472Barbaresca 80 50 130Comisana 167 511 678Altamurana 4 38 42Appenninica 244 157 401Gentile di Puglia 161 143 304Laticauda 188 158 346Sopravissana 41 52 93Delle Langhe 149 134 283MerinizzataItaliana 260 101 361

Bergamasca 120 246 366Pinzirita 2 335 337Fabrianese 157 202 359Biellese 116 110 226Valle del Belice 171 100 271Totale 4.255 5.078 9.333

1campione raccolto limitatamente al territorio penin-sulare

2 campione rilevato in Sardegna e analizzato dall’Isti-tuto Zootecnico e Caseario per la Sardegna

I risultati sono riportati nella tabella 2:

Tabella 2. Risultati per razza dei test Scrapie effettua-ti nel 2003 (dati AssoNaPa).

RAZZA ARR AHQ ARQ VRQMoscie Leccese 45,20 4,30 49,50 1,10Sarda1 26,90 6,52 66,31 0,27Sarda2 43,07 7,67 49,26 0,00Sarda3 42,26 7,57 50,16 0,01Massese 50,00 2,10 46,50 1,40Barbaresca 24,70 0,60 74,10 0,60Comisana 41,30 2,20 55,20 1,20Altamurana 36,90 0,00 63,10 0,00Appenninica 38,00 2,60 56,60 2,60Gentile di Puglia 36,00 3,10 59,60 1,20Laticauda 54,40 3,50 41,20 1,00Sopravissana 44,00 3,00 51,20 1,80Delle Langhe 32,80 0,20 65,80 1,20MerinizzataItaliana 42,20 3,50 47,90 6,40

Bergamasca 10,50 3,70 82,90 2,80Pinzirita 29,50 2,90 67,00 0,60Fabrianese 22,90 1,40 71,50 4,30Biellese 20,90 3,60 70,40 5,20Valle del Belice 25,30 1,40 69,70 3,30

Come si evidenzia nella tabella 3, l’unica razza con un valore di frequenza dell’allele ARR molto basso è la Bergamasca; infatti, solo due soggetti (1 maschio e 1 femmina) risultano avere genotipo ARR/ARR. Per-tanto, attuando il programma di selezione per questa importante razza ovina a prevalente attitudine carne, ci potrebbero essere dei seri problemi per la riproduzio-ne di individui ‘Scrapie resistenti’. Tra le razze del II gruppo, la Fabrianese, la Biellese e la Valle del Belice presentano il valore piú alto dell’allele VRQ; nel cam-pionamento eseguito per queste tre popolazioni, infatti, ci sono rispettivamente 25, 21 e 17 soggetti con almeno un allele altamente suscettibile. Tutte le popolazioni ri-entranti in questo gruppo, inoltre, presentano un valore molto piú alto rispetto alla media (60,14) della frequen-za dell’allele ARQ che, purtroppo, rende gli ovini su-

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gli asPetti igienico - sanitari95

scettibili alla Scrapie. Le popolazioni appartenenti al III gruppo mostrano un valore dell’allele ARR in media del 36% circa; il valore dell’allele VRQ è alto cosí come in tutte le altre popolazioni, ma nella media; la frequenza dell’allele VRQ, invece, non è elevata. Le popolazioni del IV gruppo sono quelle aventi una frequenza elevata dell’allele ARR. Appare evidente, in conclusione, che il futuro di queste popolazioni sarà tanto piú roseo quanto piú alta sarà la frequenza dell’allele ARR e piú bassa quella dell’allele altamente suscettibile.

Questa attività richiede la collaborazione di tutti gli allevatori e i risultati che verranno ottenuti non sono fa-cilmente prevedibili. Infatti, attualmente, nessuno può ponderare i rischi derivanti:

dalla eliminazione di un numero elevato di animali che dovranno essere gradualmente sostituiti da animali geneticamente resistenti alla Scrapie;

dall’aumento dell’inincrocio dovuto all’utilizzo di un numero effettivo di riproduttori maschili molto basso;

dai probabili effetti dovuti al fenomeno di hitch-hi-king dei geni che, essendo localizzati nelle vicinanze del locus PrPsc, avranno lo stesso coefficiente di selezione dell’allele ARR di questo locus.

I problemi di carattere sanitario possono ripercuotersi negativamente anche sulla sicurezza degli alimenti che vengono prodotti, sia perché contaminati da microrgani-smi responsabili di zoonosi alimentari, sia per la presen-za di residui di sostanze chimiche derivanti da trattamen-ti farmacologici o dalla contaminazione ambientale dei foraggi o dell’acqua di abbeveraggio.

I batteri patogeni che possono determinare casi di ma-lattia alimentare in seguito al consumo di formaggi sono numerosi. I principali sono rappresentati da Staphilococ-cus aureus, Listeria monocytogenes, Salmonella spp (S. enteritidis, S. dublin e S. typhimurium) ed Escherichia coli patogeno. È difficile definire in modo organico la reale incidenza delle tossinfezioni dovute ai formaggi di

pecora e di capra, anche perché i risultati dei programmi di sorveglianza sono riportati, in genere, in forma aggre-gata.

I problemi di sicurezza dei prodotti ottenuti dal latte dei piccoli ruminanti mostrano alcune specificità legate alle condizioni sanitarie degli allevamenti, alle condizio-ni igieniche della raccolta, alla strutture o alle tecnologie utilizzate per la trasformazione. Nella produzione pri-maria, le tecnologie di allevamento e di alimentazione degli animali, il loro stato sanitario e le modalità di rac-colta e di conservazione del latte influenzano, in misu-ra determinante, le specie e il livello di contaminazione microbica. Nelle fasi successive questi fattori condizio-nano l’efficacia degli ostacoli introdotti nel corso della trasformazione.

Le tecniche di mungitura, non sembrano avere inci-denza sulla prevalenza delle mastiti (Bergonier et al., 2003), mentre esercitano, invece, una selezione delle specie microbiche agenti di mastite subclinica. Nel cor-so di indagini condotte in ovini appartenenti alla popo-lazione Churra (Gonzalo et. al., 1998), è stato osservato che negli allevamenti dove viene praticata la mungitura meccanica, rispetto a quelli in cui la mungitura è manua-le, l’isolamento di S. aureus risulta piú frequente (5,2% vs 2,1% dei patogeni isolati). La prevalenza degli Stafi-lococchi coagulasi negativi, i principali agenti di masti-te subclinica nella pecora da latte (Mameli e Cosseddu, 1973; Cosseddu, 1996), al contrario diminuisce (71,6% vs 91,5%).

L’efficienza degli ostacoli in grado di controllare la contaminazione microbica del prodotto e le possibili ri-contaminazioni nelle successive fasi del processo, dallo stoccaggio del latte in azienda alla trasformazione e sta-

Gruppo Frequenza dell’allele resistente TG/TGA/TGAA

I gruppo ARR<20 Bergamasca

II gruppo 20<=ARR<30 Barbaresca, Pinzirita, Fabrianese, Biellese, Valle del Belice

II gruppo 30<=ARR<40 Altamurana, Appenninica, Gentile di Puglia, Delle Langhe

IV gruppo ARR>=40 Leccese, Sarda, Massese, Comisana, Laticauda, Sopravvissana, Merinizzata Italiana

Tabella 3. Frequenze dell’allele resistente nelle razze ovine italiane.

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96l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

gionatura dei formaggi, hanno importanza determinante per la ‘sicurezza’. Nelle tecnologie casearie gli ostacoli sono diversamente applicati con risultati estremamente variabili sulle caratteristiche dell’ecologia microbica dei prodotti. Un ruolo fondamentale esercitano, al riguardo, i trattamenti con il calore, la rapidità e il valore finale di acidificazione della cagliata, gli starter microbici, la cottura e la stufatura della cagliata, le modalità di sala-gione, il livello e la rapidità di riduzione dell’umidità nel formaggio, la competizione microbica e le modificazio-ni che i microrganismi inducono sulle caratteristiche del prodotto, la durata e la temperatura della maturazione e della stagionatura (Marth et Steele, 2001). Un’appro-priata combinazione di ostacoli atti a controllare la mi-croflora sembra poter garantire la sicurezza dei prodotti lattiero-caseari (CAC, 2004), rispetto al ricorso esclusivo ai trattamenti microbicidi, che hanno piú volte dimostra-to di non essere una garanzia assoluta per la prevenzione delle malattie alimentari.

Le norme specifiche di igiene (Regolamento CE 853/2004) non apportano sostanziali innovazioni nella produzione primaria relativamente ai requisiti sanitari degli allevamenti, dei locali e delle attrezzature, della mungitura, della raccolta e del trasporto. I criteri per il latte crudo alla produzione considerano esclusivamente parametri rilevanti per l’igiene e per la sanità della mam-mella, mentre i parametri di valutazione della qualità del latte sono compresi in una normativa specifica. Per il latte di pecora e di capra, il tenore in germi rappresenta l’unico criterio microbiologico di riferimento con valori di 1.500.000 u.f.c./ml, per il latte destinato a prodotti a base di latte pastorizzato, e 500.000 u.f.c./ml, per il lat-te destinato alla produzione di formaggi a latte crudo e termizzato.

Gli Stati membri, con l’autorizzazione dell’Autorità

competente, possono mantenere o stabilire misure na-zionali per quanto riguarda il tenore di germi e il conte-nuto in cellule somatiche per la produzione di formaggi con periodo di stagionatura di almeno 60 giorni e degli altri prodotti lattiero-caseari che, come la ricotta e il bur-ro, derivano dal processo di produzione di tali formaggi, purché ciò non pregiudichi il conseguimento degli obiet-tivi del regolamento. Anche la Commissione, assistita dal ‘Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali’ può autorizzare, per la produzio-ne di alcuni prodotti lattiero-caseari, l’impiego di latte crudo non conforme ai requisiti previsti per il tenore di germi e di cellule somatiche. Gli Stati membri possono, inoltre, adottare specifiche disposizioni atte a vietare, o limitare, l’immissione sul mercato del latte, o della cre-ma, crudi per il consumo umano diretto, cui è senz’altro associato un rischio microbiologico elevato.

I principi della flessibilità nell’applicazione delle mi-sure di controllo igienico hanno notevole interesse per le produzioni tradizionali, frequenti nel settore dei piccoli ruminanti. Per prodotti tradizionali (art.7 del Regola-mento CE, 2074/2005) si intendono quelli storicamente riconosciuti o prodotti secondo riferimenti tecnici codifi-cati e metodi di produzione tradizionali, oppure protetti, come prodotti alimentari tradizionali, dalla legislazione comunitaria, nazionale, regionale o locale. Deroghe na-zionali individuali o generali, sono applicabili per:

- consentire l’utilizzazione ininterrotta di metodi tra-dizionali in una qualsiasi delle fasi della produzione, tra-sformazione o distribuzione degli alimenti;

- tenere conto delle esigenze delle imprese alimentari situate in regioni soggette a particolari vincoli geografi-ci;

- in altri casi, limitatamente a requisiti strutturali, la-yout o attrezzature.

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97

L’allevamento ovino va assumendo sempre maggio-re importanza in Italia, soprattutto per la produzione del latte, in considerazione della sostenuta richiesta di formaggi ovini che spuntano prezzi anche elevati. Ma il latte ovino assume importanza rilevante in Italia anche per l’utilizzazione diretta come alimento, rispetto ad altri Paesi europei, come Spagna e Grecia, in cui la destina-zione è quasi esclusivamente indirizzata alla trasforma-zione casearia.

Secondo dati FAOSTAT (2005) la produzione di latte ovino in Italia si attesta intorno a 820,000 tonnellate, va-lore superato a livello mondiale solamente dalla Cina. Il 48% di tale produzione deriva da pecore di razza Sarda allevate in Sardegna. In Italia gli ovini da latte sono cir-ca cinque milioni, concentrati per la quasi totalità nelle Isole e nelle regioni meridionali, con una produzione che si aggira intorno alle 85.000 tonnellate di formaggio, va-lore che colloca il nostro Paese tra i maggiori produttori in ambito UE insieme alla Grecia.

In questo comparto, tuttavia, le maggiori preoccupa-zioni provengono dalle recenti direttive comunitarie che, imponendo limiti molto severi in materia di caratteristi-che igieniche del latte da trasformare e da commercializ-zare, potranno porre un freno alla commercializzazione dei prodotti caseari ovini di lavorazione aziendale, in considerazione delle scadenti condizioni igienico-am-bientali in cui molto spesso le filiere versano.

Infatti i limiti per la conta batterica a 30°C, stabiliti dall’Unione Europea con la Direttiva 92/46 modificata dalla Direttiva 94/71 per la produzione di latte ovino (e caprino) sono i seguenti:

- < 1.500.000 u.f.c./ml per i prodotti basati su latte sottoposto a trattamento termico

- < 500.000 u.f.c./ml per i prodotti basati su latte non sottoposto a trattamento termico

I sistemi di pagamento a qualità del latte ovino che potrebbero contribuire al miglioramento degli aspetti igienici, sono previsti solo in alcuni Stati europei, tra cui l’Italia, mentre in alcuni Paesi extra-europei (USA, Canada, Nuova Zelanda, Israele e Taiwan) i sistemi di

pagamento sono implementati su scala regionale. In Sardegna recentemente è stato stabilito che il sistema di pagamento del latte ovino debba essere individuato at-traverso parametri definiti da una commissione costituita da allevatori, industrie e Giunta Regionale.

Per attuare tale sistema sono richiesti alcuni pre-re-quisiti, come la presenza di laboratori qualificati per le analisi e la raccolta dei campioni, una organizzazione interprofessionale che garantisca le analisi stesse ed una assistenza tecnica agli allevatori per il miglioramento della qualità del latte (Pirisi et al., 2007). Tali requisiti rendono chiaramente ardua la realizzazione del sistema di pagamento descritto, considerata la tipologia, la dislo-cazione geografica e la variabilità dei sistemi produttivi degli allevamenti ovini presenti sul nostro territorio.

La valorizzazione del latte ovino e dei prodotti da esso derivati dovrebbe puntare su peculiarità e modalità di produzione tipiche delle singole aree geografiche. In-fatti le caratteristiche chimico-fisiche e microbiologiche del latte influenzano le proprietà sensoriali e la compo-sizione chimica dei formaggi durante la fase di matura-zione (Lau et al., 1991, Pinna et al., 1999, Pirisi et al., 1999a,b). Ad esempio, una carica batterica molto bassa, dovuta a trattamenti termici, può avere effetti deleteri sulla microflora lattica nativa. Sarebbe pertanto auspica-bile definire i limiti per la conta batterica del latte, diver-sificandoli in base alle diverse tipologie di formaggi da produrre (Pirisi et al., 2007).

Inoltre è importante sottolineare che le attuali meto-diche utilizzate per la definizione della qualità del latte non considerano alcuni parametri, come il contenuto in caseine ed in grasso, con particolare attenzione agli acidi grassi con valenza nutrizionale, che assumono un ruolo fondamentale nelle caratteristiche dei prodotti caseari.

Il concetto di qualità del latte dovrebbe inoltre assu-mere una più ampia connotazione, coinvolgendo anche aspetti correlati al benessere animale ed all’impatto am-bientale dei sistemi di produzione.

Queste attese di qualità e le normative europee, del-le quali molti allevatori-trasformatori si lamentano, in-

la commercializzazione

F. d’Angelo, N. Castellano, A. Sevi, A. Rando

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98l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

coraggiano però sempre più la migliore qualificazione delle produzioni locali sotto la definizione di “Prodotti Agroalimentari Tradizionali” che rappresentano un bi-glietto da visita dell'Agricoltura italiana di qualità. Nel settore caseario, con il termine prodotti tradizionali si intendono quei formaggi le cui metodiche di lavorazio-ne, conservazione e stagionatura risultino consolidate nel tempo, omogenee per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo non inferiore ai venticinque anni. Il “sistema” dei prodotti tradiziona-li è regolamentato dal Decreto Mipaaf 18 luglio 2000 (Elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizio-nali)

Contrariamente al latte bovino, il latte ovino come tale è raramente usato per l’alimentazione umana. La tradizione vuole che il latte ovino sia consumato sotto forma di prodotti, come lo yoghurt e il formaggio. L’ori-gine del formaggio s’intreccia con le origini dell’uomo e delle società primitive e la loro capacità di praticare le diverse tecniche agricole, fra queste, in modo particola-re, la domesticazione degli animali e il loro allevamento. Gli animali di piú facile e antica domesticazione, il bo-vino, la pecora e la capra, hanno lasciato tracce del loro allevamento già 6.000 anni a.C. in alcune isole greche e in Asia Minore. L’uomo primitivo ha avuto la necessità di sfruttare, il piú a lungo possibile, le notevoli capacità nutritive del latte e la soluzione a tale problema è stato il frutto, in parte, del suo impegno e, in parte, del caso. Casualmente, infatti, è stata ottenuta la prima cagliata della storia, almeno secondo quanto narra una legenda araba in base alla quale un mercante, dovendo attraver-sare il deserto, portò con se alcuni alimenti tra cui del latte fresco contenuto in una bisaccia fatta di stomaco di pecora. Il caldo, il movimento e gli enzimi presenti sulla parete dello stomaco di pecora, riattivati dal calore, acidificarono il latte e contribuirono a precipitare le pro-teine, in esso contenute, in piccoli grumi, dando luogo alla cagliata.

Nei secoli successivi, l’arte casearia si perfezionò e si trasformò, mantenendo, tuttavia, costanti gli elementi di base: latte, sale, calore, caglio, cosí come, successiva-mente, è stato codificato dalla legislazione italiana che definisce il formaggio o cacio quale prodotto che si rica-va dal latte intero o parzialmente o totalmente scremato, oppure dalla crema, in seguito a coagulazione acidica o presamica, anche facendo uso di fermenti e di sale da cucina. Queste lavorazioni danno luogo ad una varietà di specialità locali, che vanno dai prodotti di lusso di alta

qualità nel Nord del bacino mediterraneo (per esempio Roquefort in Francia, Manchego in Spagna, Fiore Sardo e Pecorino Romano in Italia, Feta e Manouri in Grecia, Cachcaval in Bulgaria, ecc.) a quelli che costituiscono una importante componente a basso costo del consumo di ogni giorno (per esempio lo yoghurt ed il formaggio tipo Feta nei Paesi Balcanici, Turchia, Medio Oriente, Iran e Afghanistan). Nelle agricolture delle aree svantag-giate, dove è praticata la mungitura dell’ovino (per es. la regione del Sahel e il Nord Africa), il latte dei piccoli ruminanti può essere considerato come una fonte indi-spensabile di proteine animali (Boyazoglu, 1982).

Escludendo il pecorino Sardo e il Romano, la produ-zione del formaggio derivato dal latte ovino, in Italia, assume per lo più un carattere regionale o zonale, rispon-dendo a una tipicizzazione esclusivamente legata alla popolazione da cui deriva, al bioterritorio e alla lavora-zione tradizionale a esso applicata. L’elenco aggiornato al 2004 dei prodotti agroalimentari tradizionali delle Re-gioni italiane (Decreto MIPAAF 22-7-2004, G. U. 18-8-2004) comprende molti formaggi ovini dei quali riporta, oltre al territorio interessato, la descrizione sintetica del prodotto, delle metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura, dei materiali e delle attrezzature specifi-che utilizzati per la preparazione e il condizionamento, dei locali di lavorazione, conservazione e stagionatura, nonché tutti gli elementi che comprovino che le meto-diche siano state praticate in maniera omogenea e se-condo regole tradizionali per un periodo non inferiore ai 25 anni. Naturalmente il tutto deve essere garantito negli aspetti relativi alla sicurezza alimentare del proces-so ed ai materiali di contatto. Le Regioni dell’Italia Me-ridionale Continentale godono di una lunga storia nelle produzioni casearie tipiche, come testimonia l’elenco di formaggi di pecora tradizionali riportato:

Basilicata: formaggi di pecora: pecorino, canestrato di Moliterno stagionato in fondaco (IGP), pecorino di Filiano (DOP); formaggi misti: pecorino misto, paddrac-cio, caciocotto, ricotta, ricotta al peperoncino, ricotta dura salata, ricotta forte, ricotta salata

Calabria: formaggi di pecora: pecorino del Monte Poro, pecorino del Pollino, pecorino della Locride, peco-rino della vallata “Stilaro Allaro”, pecorino di Vezzano, pecorino crotonese, pecorino primo sale, ricotta di peco-ra; formaggi misti: pecorino misto, canestrato felciata, furmaggiu du quagliu, musulupu dell’Aspromonte, pe-corino con il pepe, ricotta ricotta affumicata, ricottone salato

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la commercializzazione99

Campania: formaggi di pecora, pecorino di Bagnole-se, pecorino di carmasciano, pecorino di Laticauda, pe-corino fresco e stagionato, pecorino salaprese, pecorino Monte Marzano, ricotta di Laticauda, ricotta essiccata di pecora, ricotta pecorina fresca ed essiccata - ricotta sala-prese; formaggi misti. È stata predisposta una proposta per il ricoscimento del “Pecorino Laticauda Sannita”

Puglia: formaggi di pecora: canestrato pugliese (DOP), pecorino, pecorino di Maglie, pecorino foggia-no, scamorza di pecora, caciofiore, caciogargano, peco-rino brindisino, pecorino leccese, formaggi misti: cacio, cacioricotta, ricotta, ricotta forte, ricotta marzotica lec-cese ricotta salata o marzotica.

Molise: formaggi di pecora: pecorino di Capracotta; formaggi misti: formaggio di Pietracatella, pecorino del Matese, cacioricotta

Relativamente al settore delle carni ovine, v’è da os-servare che i consumi, pur mostrando un lieve aumento negli anni, si mantengono su livelli assai modesti, occu-pando gli ultimi posti nella scala dei consumi nazionali sia in valore assoluto che percentuale. Le cause di que-sto fenomeno sono molteplici ed alcune con radici molto profonde; prima fra tutte è la consuetudine di avviare alla macellazione in età precoce gli agnelli eccedenti la quota di rimonta; tale consuetudine che, affermatasi soprattutto in funzione necessità di evitare la faticosa transumanza agli agnelli troppo giovani oltre che per usufruire adeguatamente dei pascoli delle pianure al di-sotto delle linea Bordeaux-Trieste-Istanbul, ha consoli-dato nel consumatore dell’area mediterranea, la spiccata preferenza verso la carne dell’agnello da latte (Cianci, 1975). Il modesto peso degli agnelli avviati alla macella-zione impedisce perciò di raggiungere l’autosufficienza nel settore della produzione di carne ovina (tasso di au-toapprovvigionamento pari al 55% circa). L’allevatore, dal canto suo, nelle attuali condizioni, non trova conve-niente prolungare il periodo di allevamento dell’agnello, in quanto paga il più elevato peso di macellazione rag-giunto con una drastica riduzione del prezzo unitario di vendita e con una diminuzione del quantitativo di latte da destinare al caseificio.

D’altra parte, l’adeguamento del consumatore ad un prodotto diverso da quello tradizionale è reso difficile dalla ancora lenta destagionalizzazione dell’offerta, che vede concentrate le vendite solo in alcuni periodi dell’an-no, sia per motivi di natura mercantile che per fattori di natura fisiologica, legati alla stagionalità dell’attività ri-produttiva degli ovini. Non si può inoltre ignorare il fatto

che la carne ovina di produzione nazionale è stata sem-pre commercializzata in Italia come prodotto anonimo; i nostri agnelli, infatti, pur avendo caratteristiche quali-tative peculiari e pregevoli (sapidità, tenerezza, colore, ecc.) rispetto a gran parte di quelli di provenienza estera, non risultano competitivi con essi in termini di prezzo.

Per consentire la valutazione dell’agnello da latte mediterraneo con criteri diversi da qualli adottati per l’agnello pesante del Nord, l’Unione Europea, su richie-sta italiana, accettò (Regolamento CEE N. 2137/92 del 23-7-1992) di ufficializzare una griglia di valutazione specifica (chiamata poi correntemente “griglia mediter-ranea”) che finalmente riconobbe alla nostra produzio-ne le sue caratteristiche di pregio fino a qual momento tremendamente penalizzate dall’applicazione per tutte le tipologie di agnelli da carne della griglia Europ adat-ta solo ai grossi agnelli del Nord Europa. In Italia sono sorte anche altre iniziative a difesa della produzione di agnelli nostrani con marchi di qualità istituiti da Asso-ciazioni Nazionali di Produttori (Unapoc, Uiaproc) ma anche da piccole realtà locali.

Un esempio positivo di commercializzazione ef-ficiente di carne ovina è rappresentato dal Marchio dell’Agnello delle Dolomiti Lucane che è inserito nella piattaforma “Italia Alleva” e che, attraverso l’emanazio-ne di un disciplinare di produzione, rappresenta, garanti-sce e promuove presso gli acquirenti lo sforzo produttivo di un gruppo numeroso di allevatori di ovini. Il disci-plinare stabilisce la denominazione e la zona di produ-zione (essenzialmente comuni montani della provincia di Potenza e quelli ricadenti nel Parco Regionale delle Piccole Dolomiti Lucane – Gallipoli Cognato), la razza (Merinizzata), le tecniche di allevamento, la procedura di macellazione con le relative categorie in funzione del peso della carcassa, le caratteristiche al consumo e i con-trolli. Un simile approccio dovrebbe essere utilizzato in maniera più generalizzata per i prodotti ottenuti dalle po-polazioni ovine autoctone che non possono competere, da un punto di vista quantitativo, con le razze cosmopo-lite selezionate. In questo caso, l’insieme “razza e bio-territorio”, sotto il controllo di un Ente di certificazione, dovrebbe garantire un elevato livello qualitativo e, quin-di, fornire quel valore economico aggiunto che potrebbe convincere gli allevatori a continuare ad allevare animali di una determinata razza in un determinato bioterritorio. La conseguenza di queste considerazioni è che nel di-sciplinare sopra citato manca un riferimento alla razza Gentile di Puglia che fino a qualche decennio fa era la

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100l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

popolazione ovina maggiormente allevata in Basilicata e che, attualmente, è relegata ad un solo grosso allevamen-to (circa 500 capi) a Grumento Nova e a qualche picco-lo gregge (massimo 20 capi) nella zona montuosa delle Dolomiti Lucane. È facile prevedere che qualora la razza Gentile di Puglia rientrasse nel disciplinare dell’Agnello delle Dolomiti Lucane assisteremmo ad una inversione di tendenza nella consistenza di questa popolazione in Basilicata, con la conseguente salvaguardia del suo pa-trimonio genetico fortemente adattato a condizioni am-bientali estremamente difficili.

Non risulta che gli agnelli delle razze autoctone

dell’Italia Meridionale Continentale godano di altre specifiche protezioni, salvo quelle in preparazioine per l’agnello Laticauda.

Per superare il problema della competitività dei pro-dotti di provenienza estera o anonima occorre puntare su organismi di controllo o certificazione che garantiscano la qualità del prodotto finito in termini di provenienza e tecniche di allevamento e che si interfaccino con la gran-de distribuzione o con associazioni di utenti (Slow Food o ristoratori) disposte a pagare un prezzo più alto per un prodotto con caratteristiche specifiche di razza o tipiche di una regione o zona di allevamento.

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102l’allevamento ovino dell’italia meridionale continentale

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Le razze autoctone deLL’itaLia

MeridionaLe continentaLe

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L’origine e l’area di allevamento E. Castellana, E. Ciani, D. Cianci

La razza ovina Altamurana, con una lunghissima tra-dizione di allevamento nella Murgia di Nord Ovest, si è selezionata nelle aree più povere della dorsale pugliese ed ha visto periodi di particolare attenzione ed espansio-ne per le sue doti di rusticità, ma anche per le pregevoli qualità della sua lana, determinate dall’ideale rapporto tra vello e sottovello, che ne garantiva una perfetta ido-neità alla destinazione “materasso”, meglio della lana di ogni altra razza a vello aperto.

Deriva dalla razza popolazione cosidetta «Moscia», le cui origini sembrano risalire alla razza asiatica o si-riana del Sanson (Ovis aries asiatica) e più propriamente alla sottorazza chiamata Zackel dai Tedeschi e Tzourka-na dai Romeni (Pacces et al. 1878, cit. da Ferrante, 1966; Mannarini, 1912, cit. da Visicchio, 1931; De Paolis, 1954) giunta in Puglia all’epoca delle invasioni sarace-ne Dalla primitiva ed unica razza, nel corso dei secoli, in relazione alle condizioni ambientali e all’indirizzo dato dagli allevatori, si sarebbero originate in seguito due sottorazze: la «Moscia Barese o «della Murgia» o «Altamurana» a vello e faccia completamente bianchi e la «Moscia Leccese» o più semplicemente «Moscia» o «Leccese» a faccia ed arti neri della quale esistono sog-getti neri anche nel vello (Jovino, 1930; Visicchio, 1931; Ovile Nazionale di Foggia, 1932), che deriverebbe dalla primitiva per selezione contro la ipericodermatosi, der-matite da fotosensibilizzazione provocata dalla ingestio-ne di Hypericum triquetrifotium Turra o H. crispum L. (Montemurro, 1963) molto frequente nel Salento e local-mente detto «fumolo».

Il crollo del materasso (e del cuscino) di lana ha mol-to contribuito alla riduzione del tornaconto economico degli allevamenti di questa razza e gli allevatori hanno tentato di trovare maggiori soddisfazioni ai propri bilan-ci, soprattutto nelle espressioni quantitative della produ-zione del latte. Si è determinato così un rapido decadi-

mento demografico della pecora Altamurana con l’intro-duzione di animali di altre razze di varie provenienze; gli allevamenti che hanno conservato una base genetica Altamurana hanno quasi tutti praticato incroci e metic-ciamenti con la Moscia Leccese o con razze provenienti da altre aree italiane (Sicilia e Sardegna), provocando una violenta deformazione dell’originale genotipo. Del-la pecora Altamurana sono state così trascurate le non più remunerative proprietà della lana, ma sono state an-che troppo spesso sottovalutate le proprietà qualitative del latte, migliori rispetto a quelle delle razze di nuova introduzione.

Verso la fine degli anni 50, gli ovini di razza Alta-murana erano allevati, a sistema brado, prevalentemente nelle piccole e medie aziende della provincia di Bari, nel comune di Altamura e nei territori di Andria, Bitonto, Corato, Minervino, Ruvo, Spinazzola e Terlizzi ed in mi-nore quantità anche della provincia di Foggia. Nel 1958 la razza era localizzata genericamente nella Murgia ba-rese e l’area di allevamento estesa a comprendere, oltre alle Provincie di Bari e Foggia, anche quelle di Potenza e Matera. Oggi l’areale di diffusione della razza Altamu-rana è limitato a pochi allevamenti delle province di Bari e di Foggia.

I soggetti di razza Altamurana, di mole medio-piccola, ma costituzionalmente robusti e precoci nello sviluppo, si sono rivelati buoni utilizzatori dei pascoli murgiosi, sfruttando in maniera più che soddisfacente la scarsa ve-getazione delle Murge, con pascoli spesso in pendenza, su terreni poco profondi e rocciosi, molto siccitosi. I pa-scoli della Murgia sono molto estesi ma poco ricchi di essenze pabulari, in genere presentano una vegetazione a scarso sviluppo a causa del particolare regime pluviome-trico cui soggiace la regione, dello spessore del terreno e della dispersione dell’acqua nel sottosuolo.

la razza altamurana

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106le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

L’allevamento ovino della MurgiaE. Castellana, L. Tedone

L’allevamento ovi-caprino ha costituito tradizional-mente l’attività zootecnica trainante nell’areale della Murgia dove, per le peculiari caratteristiche pedologiche e morfologiche, non sussistevano opportunità alternati-ve di produzione agricola. L’erba dei pascoli murgiani rappresentava l’alimento principale del gregge, talvolta integrato dalle limitate quantità di foraggio che si colti-vava nelle lame e sostituito, in estate, (pascolo statonico) dalle ristoppie della fossa Bradanica. Questa pratica era tipica di un sistema agro-pastorale integrato, nel quale i contadini lasciavano pascolare le greggi nei terreni a riposo (che venivano così naturalmente concimati), in cambio di precisi quantitativi di formaggio. Questo si-stema fu incentivato attraverso l’organizzazione della rete di masserie, iazzi e tratturi.

Verso la fine degli anni settanta, il sistema di alleva-mento ovino comincia ad essere di tipo brado stanziale, lo spostamento nelle ristoppie non da il risultato di una volta e si effettua meno frequentemente. La meccanizza-zione della cerealicoltura, l’uso dei diserbanti, l’anticipo della rottura delle ristoppie, non consentono più al greg-ge di alimentarsi e rimanere nelle aziende cerealicole se non poco tempo e con relativi risultati. La transumanza, che offriva notevoli vantaggi per la salute del gregge, cominciò ad effettuarsi solo per motivi sanitari.

Oggi il sistema di allevamento è semibrado, i ricove-ri rimangono rudimentali ed il governo del gregge non sempre può essere adeguato. Il ciclo vegetativo del pa-scolo della Murgia è molto breve perciò spesso accade che il gregge venga condotto al pascolo solo per fare ginnastica motoria. A volte, durante l’anno, il gregge

Figura 1. Evoluzione del patrimonio.

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la razza altamurana107

compie una breve transumanza dall’Alta Murgia verso le zone pedemurgiane.

Il paesaggio agricolo attuale dell’Alta Murgia è per-ciò il prodotto di varie attività umane, soprattutto il di-sboscamento e gli incendi, che, attraverso la distruzione della originaria copertura arborea, hanno prodotto feno-meni di dilavamento e di erosione dello strato fertile di terreno, impedendo la ricrescita del bosco ed inducendo gli agricoltori, negli anni più recenti, a dissodare e fran-tumare il basamento calcareo per aumentare la superficie coltivabile con nuovi terreni. Negli anni ‘80 il 10% del territorio, è stato dissodato e messo a coltura.

La nutrizione degli ovini è basata essenzialmente sul pascolo naturale, solitamente di bassa qualità, e non co-stantemente integrato da foraggi o sottoprodotti; poco diffuso è l’impiego di foraggi conservati ad integrazione del pascolo e l’uso di concentrati per le pecore in latta-zione. L’allattamento artificiale è quasi assente.

In Puglia la destinazione a prati-pascoli è il 6% della

SAU ed una distribuzione disomogenea, con un’inciden-za maggiore nelle zone collinari e montane della Murgia barese. La stessa percentuale della SAU (6%) è interessa-ta dalle aziende zootecniche, che però assorbono il 3,6% delle giornate lavorative e contribuiscono, per una quota limitata (11,1%), alla PLV dell’agricoltura pugliese. Il peso delle aziende con allevamenti ovini sul totale delle aziende agricole è basso e con ampia variabilità, perché i mutamenti socio-economici e le radicali trasformazio-ni territoriali intervenute in questi ultimi decenni hanno alterato gli equilibri del passato, determinando una dra-stica riduzione del numero di aziende (-54% nel decen-nio 1990-2000) e, contemporaneamente, del numero di capi allevati (-60% nello stesso periodo di riferimento), evidenziando i segnali di una grave crisi della zootecnia

Figura 2. Consistenze Provinciali della Razza Alta-murana. (Banca Dati Asso. Na.Pa.).

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108le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

ovina murgiana. La dimensione media del gregge è re-lativamente piccola con una media di latte prodotto per capo oscillante tra 30 e 50 kg per lattazione. La mungitu-ra ha un inizio tardivo a 4-6 settimane per la produzione dell’agnello da macello, a 90-100 giorni per la quota di rimonta. La mungitura meccanica è praticamente inesi-stente e non sono praticate la sincronizzazione dei calori e la fecondazione artificiale.

La significativa contrazione numerica dei capi ovini allevati nell’Italia Meridionale Continentale ha avuto ripercussioni severe soprattutto nei confronti della pe-cora di razza Altamurana, che tra le popolazioni ovine dell’Italia Meridionale, è quella che prima e più di ogni altra ha subito attentati genetici e dai circa 200.000 capi censiti negli anni ’50 ed alle oltre 100 mila unità ancora allevate in purezza negli anni ’70, è passata alle attuali consistenze di circa 300 unità distribuite in quattro al-levamenti nelle province di Bari e di Foggia (fig.1 e 2) e deve essere classificata, secondo la Watch List della FAO, come razza endagered maintained (razze critiche: femmine < 100; riproduttori ≤ 5; popolazione totale ~ 100 in riduzione; razze a rischio: femmine 100-1000; ri-produttori 5-20; popolazione totale ~ 100 in crescita o ~ 1000 in riduzione; razze critiche o a rischio mantenute; razze delle due categorie ma sotto controllo di manteni-mento pubblico).

Autoctona dell’areale della Murgia barese, la pecora Altamurana è una razza a triplice attitudine, particolar-mente rustica e ben adattata all’ambiente povero e fru-gale dei pascoli murgiani. La razza Altamurana non ha subito il processo di modernizzazione che ha coinvolto altre razze, anche di recente introduzione nell’area, a causa delle risposte produttive ritenute insoddisfacenti dagli allevatori, nonostante che ancora negli anni ’50 se ne vantassero le caratteristiche di rusticità e di bontà qualitativa delle produzioni. Fino ai primi anni ‘80, sia per la sua consistenza che per l’entità delle sue produzio-ni, la pecora Altamurana rappresentava ancora una delle popolazioni di maggiore interesse del meridione penin-sulare d’Italia e gli allevatori ricordano oggi volentieri queste proprietà anche se ormai nelle aziende dell’area di origine (Murge baresi), un rapido incremento delle produzioni è stato ricercato, già da molti anni, attraverso l’incrocio con l’affine razza Leccese. Oggi sulla Murgia barese l’allevamento delle pecore moscie (Altamurana e Leccese), è stato ormai quasi completamente sostituito con razze a più spiccata vocazione lattifera, Sarda e Co-misana soprattutto, ma anche Valle del Belice e Langhe.

Anche nella provincia di Foggia, dove l’Altamurana era ampiamente diffusa negli anni ’50-’60, gli allevatori si sono rivolti all’incrocio con razze di maggior mole, principalmente per migliorarne l’attitudine alla produ-zione della carne.

Ciò nonostante, l’allevamento ovino in questo com-prensorio riveste ancora oggi dimensioni quantitative di rilievo tali da rappresentare un tema di interesse tecni-co, economico e sociale, nonché ambientale e politico, anche perché si riflette sulla necessità di valorizzare il territorio attraverso la migliore integrazione tra risorse economiche ed ambientali, favorendo la salvaguardia e la valorizzazione di ambienti nei quali i caratteri di mar-ginalità comportano un continuo degrado.

L’ecosistema dell’area di origineV. Marzi, L. Tedone, M. Fracchiolla, E. Castellana

a) Le caratteristiche pedologiche La Murgia, area d’origine dell’Altamurana, è un rilie-

vo geografico che dall’Ofanto si spinge sino all’esterno della penisola salentina, in gran parte costituito da rocce calcaree. Situata al centro della Puglia, in territorio mes-sapico, si presenta come un lungo altopiano arido carat-terizzato da un tappeto di pietre affioranti. Il nome deri-verebbe dal latino murex (sporgenza rocciosa) ed infatti la pietra calcarea emerge in modo diverso: a blocchi, a scaglie, a pezzetti.

I terreni murgiani sono prevalentemente costituiti da formazioni calcaree ricoperte da un sottile strato di terra rossa (Murge di Nord-Ovest) o di terra bruna (alte Mur-ge e Fossa premurgiana). Queste terre, sia rosse che bru-ne, si prestano a diversa utilizzazione agraria in rapporto al sottosuolo su cui poggiano, al grado di permeabilità e, soprattutto, al loro spessore. Per gran parte della sua estensione, la terra rossa ha uno spessore non superiore ad una ventina di centimetri; dove lo spessore è maggio-re (avvallamenti, conche), la terra rossa può fornire buo-ne produzioni, soprattutto per talune colture (frumento, leguminose, ecc).

Il tavolato calcareo presenta delle diversità tra la parte nord-occidentale e quella sud-orientale sia dal punto di vista geomorfologico che del paesaggio floristico, fauni-stico e degli insediamenti umani. Le Murge nord-occi-

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la razza altamurana109

dentali prendono il nome di Alta Murgia e si estendono dall’Ofanto all’insellatura di Gioia del Colle. L’area, dal punto di vista altimetrico, va dai circa 300 metri del ver-sante nord-orientale ai 679 metri di Monte Caccia. Ori-ginariamente l’Alta Murgia era caratterizzata da ampie superfici boschive, soprattutto quercete (con le varietà vallonea, fragno, farnetto e quercia spinosa), nelle quali Federico II trovava le condizioni favorevoli per la caccia con il falcone per la presenza di caprioli, cervi, cinghia-li, lupi e altre specie animali oggi del tutto scomparsi. L’Alta Murgia, segnata da fenomeni carsici (grandi do-line, lame, inghiottitoi), attualmente si presenta come un pascolo arido e pietroso, con lievi ondulazioni. È coper-ta da una modesta vegetazione erbacea punteggiata da qualche carrubo secolare e da rada macchia mediterranea di asfodeli, cardi turchini, cespugli di lentisco, di timo, a volte di corbezzoli.

Le Murge sud-orientali hanno altitudini meno eleva-te, mantenendosi intorno ai 400-550 m. La vegetazione naturale è più ricca e varia della restante parte dell’al-topiano. Si conservano i boschi, nei quali dominano i fragni; notevole è la presenza di specie di origine bal-canica (Salvia triloba, Campanula versicolor), mentre il pascolo ha un’estensione ridotta. Dalle quote più alte l’altopiano degrada sul mar Ionio con scarpate solcate da profonde incisioni carsiche denominate gravine, cui fanno seguito verso il mare incisioni più dolci e a fon-do piatto e largo, le cosiddette lame. Con il decrescere della quota, il clima si fa più caldo e secco ed appaiono tipiche formazioni sempreverdi dominate dal leccio. La vegetazione costiera di questa parte della sub-regione, è molto diversa nei due versanti; formazioni a quercia da sughero sono presenti sul versante adriatico mentre sullo Ionio dominano estese pinete d’Aleppo.

Si tratta di un sistema ecologico che, oltre ad essere influenzato dalle situazioni climatiche, è il “prodotto” di una attività antropica susseguitasi nel corso dei secoli; accanto a trasformazioni recenti, infatti, si possono no-tare forme storiche, che hanno costruito nuovi equilibri del paesaggio.

b) Il climaIl clima dell’area dell’Alta Murgia è di tipo sub-me-

diterraneo con due stagioni favorevoli alla vegetazione, la primavera e l’autunno, intercalate da due stagioni cri-tiche (inverno e estate); l’aridità estiva, in particolare, impone un riposo biologico per la gran parte delle specie erbacee. Presenta infatti un andamento variabile della

temperatura e della piovosità con temperature medie an-nue che oscillano tra 16 e 17 °C ed escursione annua in-torno ai 16 °C. Temperature inferiori si hanno solo nella zona più elevata delle Murge. Il mese più freddo è gen-naio con temperature medie sui 7°C e minime che spesso scendono sotto lo zero. I mesi più caldi sono luglio e/o agosto, secondo le annate e le località, con medie intorno ai 25°C.

La piovosità annua, generalmente scarsa e irregolare, oscilla tra i 500 e i 700 mm. In poche aree scende sotto i 500 mm. Le piogge sono concentrate nel periodo autun-no-invernale, con valori medi annuali che oscillano tra i 578 mm di Altamura e i circa 700 mm di Santeramo. Le precipitazioni nevose sono concentrate sopra i 500 m slm ma non sono presenti tutti gli anni.

Le alte temperature estive e la scarsa piovosità quali-ficano le Murge come area ad elevato “indice di aridità” che impone un riposo biologico per la gran parte delle specie erbacee e determina una sospensione dell’accre-scimento delle fanerofite.

c) I pascoliL’ecosistema dei pascoli della Murgia è di grande va-

lenza naturalistica, in quanto rappresenta uno degli ultimi esempi di pseudosteppa mediterranea presente nell’Italia peninsulare e uno dei più importanti del Mediterraneo. Sono state censite circa 1.500 specie che rappresentano il 25% dell’intero patrimonio floristico nazionale e ca-ratterizzano tre principali tipi fisionomici

Il primo tipo si riferisce alle steppe su suolo roccioso, prevalentemente diffuse sul versante confinante con la Fossa Bradanica. Il secondo tipo ha una distribuzione a chiazze ed è rappresentato da una prateria steppica su cui si rinvengono specie arbustive quali Prunus webbii, Rhamnus saxatilis, Pyrus amygdaliformis, Prunus spino-sa, Quercus pubescens ecc.. Il terzo tipo è rappresentato da boschi radi a Quercus pubescens la cui componente arbustiva ed erbacea è rappresentata dalle stesse com-ponenti floristiche dei due tipi sopra citati. Si rinviene con maggiore frequenza lungo il versante orientale e ha confini confusi con i caratteristici boschi a roverella del margine adriatico.

A tali ambienti è d’obbligo aggiungere quelli dei ter-reni storicamente destinati alle produzioni vegetali e successivamente abbandonati; alcuni, abbandonati or-mai da decenni, erano destinati alla coltivazione conso-ciata del mandorlo e dell’olivo. In essi ormai si rinviene una rinaturalizzazione molto spinta e un conseguente

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110le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

assetto vegetazionale simile a quello della steppa. Altri terreni sono stati abbandonati molto più recentemente, come conseguenza dei mutamenti nella Politica Agricola Comunitaria la quale ha modificato le modalità di con-ferimento degli aiuti, non più legati al numero di ettari coltivati e alla specie colturale.

Tale mutamento, unito alla caduta dei prezzi del com-parto cerealicolo ed al contemporaneo aumento dei prez-zi degli input produttivi, hanno determinato una situa-zione di progressivo abbandono dei terreni a seminativi. Tali terreni si trovano in una situazione ecologica di tran-sizione e pongono anche interessanti interrogativi sulla loro sorte produttiva. È presumibile che molti di questi possano essere sottoposti ad un fenomeno di “cicatrizza-zione” con le steppe circostanti andando a costituire una preziosa risorsa pabulare (Fracchiolla e Tedone, 2006).

La vegetazione erbacea è senza dubbio quella predo-minante in ogni ambiente. Pantanelli (1942), nel descri-vere i pascoli dell’Alta Murgia scrive “Ad una principa-le vegetazione che si sveglia in Ottobre dopo la siccità estiva e raggiunge il suo massimo sviluppo in Maggio, segue una vegetazione minore che, nata in primavera, sfida la siccità estiva, almeno nei primi mesi, e chiude il suo ciclo in agosto o settembre. Ma già nei primi mesi di Settembre germinano parecchi semi col favore dell’umi-dità notturna ed ai primi di Ottobre la Murgia ritorna a verdeggiare” .

Le specie aromatiche sono presenti anche in maniera importante. Secondo molti Autori, è soprattutto il sub-strato povero e arido a stimolare la produzione, da parte delle piante, di oli essenziali, nei quali si concentrano le sostanze volatili responsabili dei diversi profumi. Mol-te di queste appartengono alla famiglia delle Labiatae, quali le varie specie di Thymus, Mentha, Borago e l’aci-no pugliese (Acinos suaveolens), pianta la cui presenza è segnalata solo in Puglia e Basilicata. Non mancano anche altre famiglie con importanti caratteristiche aro-matiche quali quella delle Rutaceae (Ruta graveolens) e Umbrelliferae (Foeniculum spp. ecc.). Tradizionalmen-te, si sostiene che questi aromi vengano trasferiti anche nel latte delle pecore e delle vacche al pascolo, fatto che rende i formaggi maggenghi particolarmente gustosi.

Ben rappresentata è anche la famiglia delle Liliaceae con gli asfodeli, dalle fioriture primaverili gialle (Aspho-deline lutea) e bianche (Asphodelus microcarpus). L’ur-ginea (Urginea marittima) è un’altra specie rinvenibile in grandi quantità. Presenta la caratteristica peculiare di fiorire in piene estate, emettendo uno scapo fiorale alto

più di un metro, sul quale svetta una pannocchia di fio-rellini bianchi. Quando, in questo periodo, quasi tutta la vegetazione è secca, i fiori di urginea spiccano in manie-ra solitaria. Interessanti sono le fioriture delle liliacee au-tunnali quali il Crocus thomasii (zafferano di Thomas), la sternbergia (Sternbergia lutea) i ciclamini (Cyclamen spp.), piante che formano tappeti molto ampi colorati.

Riguardo al ruolo ecologico di tutte queste specie va ricordata l’importanza nei processi di pedogenesi. Infat-ti i loro rizomi e i bulbi si insinuano nel calcare frattu-randolo. Esse, inoltre, sono caratterizzate da grossi bul-bi ipogei i quali forniscono, alla morte della pianta, un apporto ancora maggiore di sostanza organica utile alla genesi di suoli fertili e potenzialmente colonizzabili da specie meno pioniere (Bianco, 1962).

Ben rappresentate sono anche le specie appartenenti alla famiglia delle Leguminosae, i cui generi più comuni sono Medicago, Vicia, Trifolium e Lathyrus. La famiglia delle Asteraceae merita anche particolare attenzione, vi-sto il gran numero di generi e specie presenti. Si tratta di piante pienamente adattate al clima arido. Alcune di queste sono specie non tipiche e pressoché ubiquitarie (si pensi alle varie specie di cardo); altre, quali lo Scoly-mus maculatum (cardoncello), per citare la più famosa, oltre ad essere caratteristiche della steppa hanno anche valore etnobotanico in quanto entrano nella tradizione culinaria dei luoghi.

Una menzione a parte meritano le orchidee selvati-che, presenti in almeno una ventina di specie, oltre a nu-merose forme ibride. Si tratta di specie “nobili”, sia per il fatto di avere come areale di propagazione proprio le steppe, sia per il fatto di essere indicatrici di un assetto ecologico in buono stato.

Quella fatta è solo una sintetica trattazione dei prin-cipali lineamenti botanici di un territorio nel quale si rinviene ancora un ingente patrimonio di biodiversità la cui magia proviene, occorre segnalarlo con forza, da una continua e lunga sinergia tra clima, ecologia e attività antropica. Approfondimenti puntuali possono essere tro-vati nei lavori di diversi Autori che, sia nel passato che in tempi più o meno recenti, hanno indagato sull’argomen-to; a tal proposito, si suggeriscono gli scritti di Palan-za (1900), Fiori (1914), Zodda (1942), Gavioli (1947), Messeri (1948), Bianco (1962), Bianco et al. (1990), Medagli et al. (1993), Terzi (2000-2001) e Medagli & Gambetta (2003), Forte et al. (2005).

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la razza altamurana111

I caratteri di razza

I soggetti di razza Altamurana sono a vello bianco aperto e di mole medio-piccola; costituzionalmente ro-busti e precoci nello sviluppo, sono buoni utilizzatori dei pascoli murgiosi. L’Altamurana è ricordata come una pecora a triplice attitudine: latte, carne e lana. La lana, pur considerata tra le migliori lane italiane da materas-so, è divenuta un prodotto marginale del gregge visto lo scarso peso economico dovuto al rapido progresso delle fibre sintetiche e dei materassi a molle. Il latte e la carne della pecora Altamurana non hanno mai garantito forti guadagni sia per la mole medio-piccola che per le scarse produzioni di latte. Queste motivazioni hanno spinto gli allevatori ad orientarsi verso un miglioramentodella pro-duzione del latte attraverso l’incrocio prima con l’affine razza Leccese e poi con razze a più spiccata vocazione lattifera.

Norme tecniche allegate al disciplinare del Libro Ge-nealogico della Specie Ovina

Lo Standard e le norme tecniche della razza Altamu-rana sono state approvate con D.M 22 aprile 1987, che ha recepito modifiche rispetto al D M del 1958. Qui di seguito si riporta il testo del 1987; sono evidenziate le variazioni rispetto al 1958.

Caratteri tipici Taglia: medio-piccola (50 kg nei maschi e 35- 40 nel-

le femmine),Testa: leggera, alquanto allungata, con profilo monto-

nino e presenza a volte di corna corte nei maschi, acorne e profilo generalmente rettilineo nelle femmine; orec-chie piccole con portamento orizzontale; ciuffo di lana in fronte.

Collo: piuttosto lungo e poco muscoloso Tronco: regione dorso lombare a profilo rettilineo;

diametri trasversi sufficentemente sviluppati; groppa spiovente più lunga che larga; addome rotondo e volumi-noso; coda lunga e sottile; mammella sviluppata globo-sa, ben attaccata, con pelle fine e capezzoli mediamente sviluppati.

Arti: lunghi e dritti con appiombi regolari; unghielli solidi generalmente di colore avorio.

Vello: bianco, aperto, costituito da bioccoli appuntiti, esteso con filamenti pendenti, lunghi e lucenti; coprente regolarmente il tronco, il collo, la base del cranio e la coda; lana corta nella regione sterno-ventrale; filamenti

mediamente corti sulla parte superiore degli arti e quasi sempre assenti nella parte inferiore; presenza di alcuni peli morti nel sottovello.

Pelle e pigmentazione: pelle sottile, elastica e di colo-re bianco rosato con lieve picchiettatura o piccole mac-chie rotondeggianti e di colore scuro o grigiastro sulla

Caratteri biometrici (1987)

Soggetti Adulti Maschi Femmine

Media C V Media C V

Altezza al garrese (cm) 71 3,8 65 4,1

Altezza alla groppa (cm) 71 3,9 65 4,0

Altezza toracica (cm) 32 5,1 29 4,9

Larghezza media groppa (cm) 23 6,7 21 7,7

Lunghezza tronco (cm) 72 5,3 66 4,1

Circonferenza toracica (cm) 91 4,6 84 5,5

Peso (Kg) 53 12,4 39 10,9

Caratteri biometrici (1958)

Soggetti di 18 mesi Maschi Femmine

Media C V Media C V

Altezza al garrese (cm) 69 4,2 61 4,4

Altezza alla groppa (cm) 69 3,9 64 4,4

Altezza toracica (cm) 28 9,0 16 9,3

Larghezza media groppa (cm) 21 7,8 19 7,3

Lunghezza tronco (cm) 168 5,0 63 3,5

Circonferenza toracica (cm) 84 7,1 77 5,3

Peso (Kg) 38 20,6 30 12,2

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112le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

faccia, nelle zone orbitali e nelle parti inferiori degli arti; lingua, palato ed aperture naturali rosei, ma talvolta con piccole macchie scure.

Caratteri riproduttivi Fertilità (intesa come rapporto percentuale tra il nu-

mero delle pecore partorite ed il numero delle pecore av-viate alla monta): 90% (1958 = 97)

Prolificità (intesa come rapporto percentuale tra gli agnelli nati ed il numero delle pecore partorite): 112% (1958 = 111)

Fecondità annua (intesa come rapporto percentuale tra gli agnelli nati ed il numero delle pecore matricine): 123%.

Cicli estrali per almeno 10 mesi; riduzione di fertilità nei 2 mesi più freddi.

Età media al primo parto: 15 mesi.

Caratteri produttivi Razza ovina a prevalente attitudine alla produzione

del latte (1958)

Latteproduzione media per una lattazione tipo di 180 gior-

ni

percentuale media di grasso nella lattazione: 8% (1958); 7,5% (1987)

percentuale media di proteine nella lattazione 6,5% (1987)

resa in formaggio: ( fresco a 24 ore) 18-20%resa in ricotta: 8-10%

Carne:Accrescimento dell’agnello (kg)

Lanaproduzione media in sucido maschi: 18 mesi kg 2,4; adulti kg 3femmine: 18 mesi kg 1,8; adulti kg 2

Finalità della Selezione L’indirizzo produttivo è teso ad esaltare, in soggetti di

discreta mole, costituzionalmente robusti, corretti nella morfologia, precoci nello sviluppo e buoni utilizzatori dei pascoli murgiosi, l’attitudine alla produzione del latte e, subordinatamente, della carne, (solo 1958) sostenendo nel contempo l’attitudine alla produzione della lana la quale, per le sue caratteristiche di lunghezza, lucentezza ed elasticità, è particolarmente adatta per la confezione dei materassi, stoffe grossolane, coperte

Il miglioramento, pertanto è impostato sulla selezione mediante l’accertamento delle capacità funzionali delle pecore nei confronti principalmente della produzione del latte e sull’impiego di arieti capaci di trasmettere alla discendenza buoni caratteri morfo-funzionali.

(solo 1987) Il Comitato di Razza (CdR) definisce i metodi, gli strumenti e gli schemi operativi per realiz-zare gli obiettivi selettivi di cui sopra. Il CdR dispone inoltre annualmente la pubblicazione e la divulgazione di liste di animali di particolare pregio cui gli allevatori facciano riferimento per la realizzazione di un più celere progresso genetico.

(Il modesto numero di soggetti controllati non per-mette una efficace azione selettiva sulla razza; gli alle-vatori delle Murge hanno perciò ricercato miglioramenti con l’incrocio con l’affine razza Leccese o con razze a migliore capacità lattifera quali la Comisana e la Sarda. Nella provincia di Foggia gli allevatori dell’Altamurana si sono rivolti invece all’incrocio con razze di maggior mole, per migliorare l’attitudine alla carne).

Iscrizione al Registro Genealogico Giovane Bestiame: vengono iscritti al RGGB soggetti

maschi e femmine di età inferiore ad un anno, nati negli allevamenti del LG da madre iscritta al RGP e da padre iscritto al RGA oppure da madre iscritta al RGP e da

1958compreso il latte

poppato

1987esclusi i primi 30

giorni

1° lattazione Kg. 60 in 180 giorni

litri 40 in 100 giorni

2° lattazione Kg. 65 in 180giorni

litri 60 in 180 giorni

3° lattazione Kg. 70 in 180 giorni

litri 65 in 180 giorni

Sesso nascita 30gg 60 gg 90 gg 6 mesi 1 annomaschi 3,2 8 12,0 15,6 22 30femmine 3,0 7,5 11,0 14 18 26

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la razza altamurana113

seme conforme alle norme previstePecore: vengono iscritte al RGP le pecore provenienti

dal RGGB purché con giudizio di tipicità razziale e com-plessivo superiore a soglie definite dal relativo Comitato di razza (CdR) che abbiano partorito almeno una volta e che siano sottoposte a controllo funzionale con produ-zioni o valutazioni genetiche (se disponibile) superiori alle soglie definite periodicamente dal CdR.

Arieti: vengono iscritti al RGA gli arieti di età supe-riore a 8 mesi. L’iscrizione è permanente, ma l’abilita-zione alla monta in LG è subordinata all’aggiornamento delle soglie delle valutazioni genetiche periodicamente predisposte dal CdR.

Vengono iscritti gli arieti provenienti dal RGGB pur-ché con giudizio di tipicità razziale e complessivo supe-riore a soglie definite dal CdR con valutazione genetica superiore ai minimi periodicamente predisposti dal CdR (se disponibile).

Per l’impiego degli arieti in I.A., oltre a tutte le ca-ratteristiche richieste per l’iscrizione al RGA, gli arieti

devonol avere giudizio di tipicità razziale e complessivo superiore alla soglia stabilita dal CdR ed avere una va-lutazione genetica (se disponibile) per i caratteri oggetto di selezione superiore ai minimi definiti periodicamente dal CdR per l’uso in I.A.

Variazioni ai requisiti richiesti per l’iscrizione potran-no essere apportate su conforme delibera del CdR.

Difetti morfologici e genetici comportanti l’esclusio-ne dall iscrizione a LG

Difetti tollerabili: filamenti rossastri sull’occipite; assenza di ciuffo lanoso o ciuffo molto corto in fronte; vello poco lucente; ventre scoperto nelle femmine adul-te; singoli e radi filamenti grigiastri nel vello; unghielli scuri.

Difetti da eliminare: corna nelle femmine; corna lun-ghe ed a spirale molto aperta nei maschi; vello macchia-to; macchie scure molto estese sulla faccia e sugli arti; ventre sprovvisto di lana nei maschi; presenza nel vello di molto pelo morto; molto sottovello.

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115

L’origine e l’area di allevamento

La derivazione più probabile del tipo genetico autoc-tono ovino Bagnolese, per le particolari caratteristiche somatiche, sembra essere l’ovino di razza Barbaresca.

La zona di allevamento della Bagnolese è identifica-bile nel comune di Bagnoli Irpino (AV) dove sarebbero allevati circa 5.000 soggetti anche se solo 1.500 ricon-ducibili per le loro caratteristiche somatiche a questa popolazione (Zicarelli, 1988). Nella Regione Campania i soggetti appartenenti al tipo genetico Bagnolese vengo-no stimati intorno ai 35.000 capi (Barone et al., 1999), mentre nel 1983 Rubino et al. Stimavano una consisten-za pari a circa 20.000 capi.

L’area di diffusione interessa principalmente i monti Picentini, gli Alburni, il Vallo di Diano, la Piana del Sele (province di Salerno e di Avellino) e, marginalmente, la pianura del Casertano e le colline del Beneventano.

Questo tipo genetico riveste notevole interesse per le sue caratteristiche riproduttive e produttive, che sono da ritenersi più che soddisfacenti in relazione all’ambiente in cui è allevato. Gli animali vengono allevati in greggi di piccole e medie dimensioni (50 ÷ 300 capi), raramente costituiti solo da soggetti Bagnolese data la contempo-ranea presenza di capi appartenenti ad altri tipi genetici e ad altre popolazioni, comportando inevitabilmente un alto grado di meticciamento.

Se fino a una decina di anni fa il sistema di alleva-mento prevalente era quello ‘pastorale’, caratterizzato dall’utilizzazione scalare di aree pascolive fra di loro piú o meno lontane, oggi è in atto una tendenza all’adozione di quello ‘stanziale brado’ caratterizzato dall’utilizza-zione delle risorse alimentari pabulari di vasti territori, nonché dall’integrazione alimentare in ricoveri utilizza-ti, alcune volte, anche per le operazioni casearie (Rubino et al., 1983). L’utilizzazione dei pascoli, già di per sé inadeguati rispetto al carico di animali, è effettuata, nel-la maggioranza dei casi, in modo irrazionale, con gravi ripercussioni non solo sulla produttività delle stesse aree pascolive pabulari, e di conseguenza su quella degli ani-

mali, ma anche sullo stato sanitario, favorendo il diffon-dersi di malattie infettive e di parassitosi interne.

L’allevamento ovino

In Campania, l’agricoltura riveste un’importanza ri-levante con un numero di aziende pari a 70.278; rispetto al censimento del 1990 c’è stata una diminuzione pari al 26,8 % del numero di aziende.

Il patrimonio zootecnico, in Campania, è uno dei più significativi d’Italia con 7.188.265 capi di bestiame cosí suddiviso: 212.267 bovini, 130.732 bufali, 227.232 ovi-ni, 49.455 caprini, 141.772 suini, 4.967 equini, 5.765.546 avicoli e 656.294 conigli; rispetto al censimento del 1990 c’è stata una diminuzione del 17 % di capi allevati.

La regione Campania si colloca nel panorama dell’al-levamento ovino del Meridione, tra le regioni con un discreto patrimonio. In particolare, la consistenza nume-rica di capi ovini è cosí rappresentata: Avellino 59.281, Benevento 69.337, Caserta 39.718, Napoli 984 e Salerno 57.912 capi.

La configurazione orografica della Campania fa assu-mere all’allevamento ovino una particolare importanza. Infatti, molte zone un tempo coltivate a grano, per fame di terra, potrebbero trovare il loro equilibrio con un as-setto sostanzialmente silvo-pastorale, in particolare le zone collinari e di montagna.

Con un equivalente di 471.775 Unità Bovino Adulto (UBA), la Campania ha riscontrato un contenuto accre-scimento del proprio patrimonio zootecnico regionale (+ 5,0) presentando, di conseguenza, un rapporto UBA/SAU di 0,79 superiore a quello del 1990 (0,68). Tale in-cremento è il risultato del marcato aumento registrato dagli allevamenti avicoli e attenuato dalle flessioni veri-ficatesi per tutte le altre specie di bestiame considerate.

Per il settore ovino, (4,8 % delle UBA totali) la ridu-

la razza bagnolese

D. Matassino, N. Castellano, C.E. Rossetti, C. Incoronato, M. Occidente

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116le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

zione del patrimonio è stata solo del 5,5 % e l’indice di specializzazione risulta abbastanza alto (0,18) e stazio-nario.

Il patrimonio ovino della Campania, attualmente, am-monta a 227.232 capi, distribuiti per provincia come di seguito precisato:

Provincia Numero di capiAvellino 59.281Benevento 69.337Caserta 39.718Napoli 984Salerno 57.912Totale 227.232

Esso rappresenta il 3,34 % del patrimonio nazionale e la produzione che detto settore fornisce incide per cir-ca il 10 % sulla produzione lorda vendibile zootecnica regionale.

In questo quadro la razza ovina Bagnolese riveste notevole interesse come Tipo Genetico Autoctono per le sue prestazioni produttive e riproduttive in relazione all’ambiente in cui viene allevato. Rubino et al. (1983) hanno rilevato che il TGA Bagnolese, pur praticando da sempre la transumanza fra l’acrocoro dei monti Picen-tini e la Valle del Sele, ha raggiunto, oggi, una capacità riproduttiva e produttiva degna di attenzione. La sua ori-gine non è nota, tuttavia, è possibile individuare alcune caratteristiche somatiche molto simili a quelle della Bar-baresca.

Nel comune di Bagnoli Irpino, sito in provincia di Avellino, gli autori rilevano una consistenza di circa 20.000 capi; la sua area di diffusione interessava prin-cipalmente i Monti Picentini con diramazione nella pia-nura del Casertano e nella Valle del Sele. Globalmente, integrando i dati di Carena e di Rubino (1979) con altre fonti, la consistenza complessiva di questo tipo genetico poteva essere stimata intorno ai 30 - 35 mila capi.

Barone et al. (1993) hanno effettuato uno studio per definire alcune caratteristiche somatiche del TGA Ba-gnolese. La ricerca è stata condotta su 630 capi suddivisi per categoria: 160 agnelle di 5, 6, 12 e 18 mesi di età e 470 pecore di 2, 3, 4, 5 anni e oltre. I soggetti proveni-vano da 9 allevamenti, di cui 8 in provincia di Salerno e 1 in provincia di Avellino. Fatta eccezione per 2 di essi, ubicati nel Salernitano e rappresentativi del sottosiste-

ma pastorale, gli altri ricadevano tutti nel sottosistema stanziale brado. Su ciascun soggetto sono state rilevate le seguenti misure somatiche: altezza al garrese, altez-za alla croce, altezza del torace, larghezza della grop-pa anteriore, media e posteriore, lunghezza del tronco, circonferenza del torace. Sono stati calcolati gli indici di lunghezza relativa del tronco, di altezza toracica e di sviluppo corporeo (indice corporale tronco-torace).

Orsillo (a.a. 1995-96) nella sua tesi di laurea “Stu-dio dell’attitudine alla caseificazione del latte del tipo genetico ovino Bagnolese” ha messo in evidenza le va-riazioni dei parametri lattodinamometrici del latte ovino del TGA Bagnolese in funzione di alcuni fattori quali l’azienda, l’ordine di parto, lo stadio di lattazione, il tur-no di mungitura, il pH, la quantità di latte prodotto e la composizione dello stesso.

L’ecosistema dell’area d’origine

a) Le caratteristiche pedologiche Il territorio delle province interessate, Avellino, Be-

nevento e Caserta, zona appenninica dell’Italia Meridio-nale, è caratterizzato da una serie di massicci montuosi, intervallati da altopiani e vallate, più o meno piccole, a volte senza sbocco, rese fertili da una infinità di piccoli ruscelli e fiumiciattoli, con scarsissime portate stagiona-li, che durante l’estate mettono a nudo i loro letti ciotto-losi.

La totalità dei fiumi, con percorsi quasi paralleli, a partire dal Sangro, dal Trigno, dal Biferno, dal Fortore e dall’Ofanto sfociano nell’Adriatico, mentre il solo Vol-turno, con il suo affluente Calore, sfocia nel Tirreno. Il territorio interessato è aspro, impervio, ma, nello stesso tempo, pittoresco, caratterizzato da pascoli disseminati di pietre, cespugli, arbusti ed erbe aromatiche, con pre-senza, a volte, di boschi di querce (nelle zone meno alte) e di faggi, mentre, nelle zone in cui non predomina il calcare, di castagneti.

b) Il climaLe temperature medie annue restano comprese tra i

10 °C e i 15 °C, con minime nelle zone più elevate co-munque attestate tra i 5 °C e gli 8 °C. Tale situazione genera una distribuzione delle isoterme congruente con

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la razza bagnolese117

l’adattamento altimetrico dei luoghi.Il regime delle precipitazioni risulta localmente con-

dizionato, anche in maniera rilevante, dalla presenza di rilievi calcarei; le zone più piovose sono quelle del Ma-tese e dell’Alta Irpinia con più di 2.000 mm di precipi-tazioni annui, spesso nevosi, mentre le zone interne del beneventano sono quelle meno piovose con 500 ÷ 600 mm annui.

Frequenti sono i temporali estivi pomeridiani.

c) I pascoliIn Campania, fino agli anni 80 del secolo scorso,

l’allevamento ovino era fondamentalmente di tipo tran-sumante, dovuto soprattutto a ragioni di tipo struttura-li. Esisteva ancora il concetto ‘romantico’ del “pastore errante” che, durante il periodo invernale, trasferiva il proprio gregge nel seminativo del piano.

Con il trascorrere degli anni il concetto di ‘pastore’ si è andato trasformando, i greggi hanno assunto una con-sistenza maggiore e quelli composti da 3 o 4 capi sono rari e vengono mantenuti solo per una produzione ‘fa-miliare’. Si è andata affermando sempre di più la figura del pastore inteso come un vero e proprio allevatore, con condizioni di vita e di lavoro uguali agli altri imprendi-tori impegnati nelle altre attività zootecniche.

Negli anni addietro, la manodopera utilizzata era ge-neralmente di tipo familiare: i ragazzi conducevano le pecore al pascolo, mentre al lavoro di stalla provvedeva la stessa persona che si occupava della cura del bestiame bovino, poiché, generalmente, le due specie venivano te-nute nella stessa stalla. Attualmente resta la conduzione familiare dell’allevamento ovino che può essere affian-cata da manodopera esterna per quegli allevamenti con gregge superiore ai 200 capi.

Negli anni passati esisteva la figura del ‘raccoglito-re’: nel periodo della monta e precisamente da giugno a settembre, le pecore venivano affidate a un uomo che, generalmente disponeva di un ariete di grosso sviluppo e di buona conformazione.

Attualmente, l’allevamento ovino utilizza le produ-zioni provenienti dalle coltivazioni permanenti, costitu-ite quasi esclusivamente dai pascoli naturali. In alcune zone, negli ambienti più vicini alla Mefite che utilizzano pascoli più esposti alle esalazioni sulfuree, gli alimenti presentano valori di solfuri, solfati, solfiti, ecc., molto più elevati e tali valori si riscontrano anche nei prodotti finiti (formaggio).

Nelle aree più lontane e più riparate da tali esalazioni

l’aroma, pur conservando la sua caratteristica impronta, è più delicato, più amabile e meno penetrante.

Inoltre, se si considera che spesso nei pascoli vi è la presenza di erbe aromatiche quale la menta, il timo ser-pillo, l’origano, il finocchio selvatico (solo per citarne qualcuno) e soprattutto il trifoglio – nelle sue diverse varietà, tra cui il ladino – si capisce quanto caratteristica possa essere la presenza di aromi nel latte che gli confe-riscono qualità organolettiche difficilmente riscontrabili altrove,.

I caratteri di razza

Norme tecniche allegate al disciplinare del Registro Anagrafico della Specie Ovina

L’ovino Bagnolese è iscritto al Registro Anagrafico che rappresenta lo strumento per la conservazione e la salvaguardia delle popolazioni ovine che sono state am-messe e ne promuove la valorizzazione. Esso è regolato da un apposito Disciplinare approvato con DM 28 marzo 1997 in accordo con la normativa comunitaria.

Caratteri esteriori: taglia: medio – grandetesta: piuttosto leggera con profilo montonino, più

accentuato nel maschio; il maschio presenta spesso ro-buste corna avvolte a spirale e dirette dal basso verso l’alto all’infuori; orecchie medio-grandi portate orizzon-talmente e talvolta leggermente pendenti

collo: robusto, ben unito alla spalla e al garresetorace, dorso e lombi: larghi, allungati e muscolosilinea dorso-lombare: leggermente ascendente in sen-

so antero posteriorearti: in appiombo, lunghi, robusti, asciutti, provvisti

di unghielli di colore grigio scuro e ben conformativello: bianco, costituito da bioccoli conici, ricopre

completamente il tronco a esclusione della faccia ven-trale, della regione inferiore del collo, della testa e degli arti; testa, collo e estremità degli arti presentano delle picchiettature nere tipiche che, in alcuni soggetti, posso-no essere delle ampie macchie nere

pelle e pigmentazione: elastica e di colore rosa chia-ro.

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118le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

Caratteri riproduttivi:

fertilità (a) (intesa come rapporto percentuale tra il numero delle pecore partorite ed il numero delle pecore matricine): 93 %

prolificità (b) (intesa come rapporto percentuale tra gli agnelli nati ed il numero delle pecore partorite): 170%

fecondità annua (c) (rapporto percentuale tra gli agnelli nati ed il numero delle pecore matricine): 141 %

nascite(d) concentrate nel periodo ottobre – genna-io

età(e) media al primo parto: 13 mesi

Caratteri produttivi: razza ovina a preminente attitu-dine alla produzione di carne e di latte

LatteProduzione indicativa: litri 120 ÷ 200, compreso il

latte poppato dall’agnello; la composizione chimica cen-tesimale media del latte risulta la seguente:

(a) la percentuale di grasso raggiunge il valore di 7,92 (c.v. = 34 %) e di 7,86 (c.v. = 28 %), rispettivamente nelle primipare e nelle secondipare;

(b) la percentuale di proteine raggiunge il valore me-dio di 6,20 e 6,24, rispettivamente rispettivamente nelle primipare e nelle secondipare;

(c) la percentuale di lattosio tende ad assumere valori più elevati nelle primipare 4,87 (c.v. = 9 %), rispetto alle pecore dei successivi ordini di parto, nelle quali il valore medio è compreso fra 4,70 e 4,77 %;

(d) la percentuale di sostanza secca assume il valore di 19,15 e di 19,11 (c.v. = 14 e 13 %), rispettivamente

Caratteri biometrici:

Caratteri BiometriciEtà 18 mesi Adulti

maschio femmina maschio femminax c.v., % x c.v., % x c.v., % x c.v., %

Altezza al garrese, cm 69 4 62,3 5 73,1 4 64,6 5

Altezza alla groppa, cm 70 2 63,3 6 74,5 4 66,4 1

Altezza toracica cm 33,7 5 29,8 7 36,6 5 32,1 4

Larghezza media groppa, cm 22,7 7 19,8 10 24,1 4 22,3 7

Lunghezza tronco, cm 69 6 66,7 5 76,8 3 70,3 5

Circonferenza toracica, cm 89,3 6 82,5 3 99,3 3 90,9 5

Peso, kg 68,3 6 49,7 9 80,3 5 58,3 7

Carne

peso medio dei soggetti in kg (pesi approssimati a 100 g)

Sesso PartoEtà

nascita 45 d 90 d 6 mesi 1 annoMaschio singolo 6,3 21,1 32,8 46,9 70,5

gemellare 3,3 12,6 30,0 46,3 70,2Femmina singolo 5,2 19,0 32,1 42,5 62,5

gemellare 2,8 11,5 29,1 40,7 68,8

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la razza bagnolese119

nelle primipare e nelle secondipare; (e) il pH non presenta variazioni significative in rela-

zione all’ordine di parto (6,62, c.v. = 2%).Prodotto derivato del latte: pecorino che, per area ge-

ografica, è abbinato al comune di Bagnoli Irpino (AV) e viene anche detto “Casu r’ pecura”; è un formaggio prodotto con latte crudo prodotto con solo latte di pecora Bagnolese (o malevizza) allevata al pascolo e utilizzato sia fresco che stagionato come formaggio da tavolo o da grattugia.

LanaProduzione media in sucido: arieti kg 3,0; pecore kg

1,8 di qualità grossolana. Lo standard prevede anche che per la scelta dei ripro-

duttori si debba tener presente anche: difetti tollerabili:(a) estese macchie agli occhi, alla

testa e agli artidifetti da eliminare(b) : vello pigmentato; corna in

ambo i sessiInoltre, i soggetti di razza Bagnolese, per essere am-

messi all’azione selettiva devono:presentare i caratteri esteriori previsti dallo stan-(a)

dard;raggiungere il punteggio minimo di cui alla sche-(b)

da di valutazione somatica;raggiungere i seguenti pesi minimi:(c)

maschio: a 12 mesi kg 50; adulto kg 85 (d) femmina: a 12 mesi kg 40; adulta kg 55 (e)

Finalità della selezione Attualmente l’orientamento è quello di esaltare l’at-

titudine alla produzione del latte e della carne. Gli stru-menti tecnici per perseguire tale obiettivo sono:

controllo della paternità e della maternità per (i) l’individuazione degli arieti da sottoporre alle prove di progenie, anche in vista dell’utilizzazione dell’insemi-nazione strumentali

controlli funzionali per la fertilità, per la prolifi-(ii) cità e per la produzione di carne e di latte al fine di ope-rare un miglioramento genetico per tali caratteristiche.

Scheda di valutazione somatica

Elementi di valutazione

Punteggio

a disposizione minimo per l’iscrizione

Maschio Femmina Maschio Femmina

1) Caratteristiche di razza 30 30 24 18

2) Caratteristiche attitudinali (Sviluppo e Mole) 30 30 24 18

3) Conformazione 30 30 24 18

4) Vello 10 10 8 6

Totale punti 100 100 80 60

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121

L’origine e l’area di allevamento

Il patrimonio ovino pugliese, a causa delle continue occupazioni e dominazioni straniere susseguitesi nel cor-so dei secoli, è stato storicamente caratterizzato da greg-gi promiscui, frutto di incroci fortuiti. Nel Medioevo gli allevatori diedero vita alle prime importazioni di razze straniere, al fine di migliorare le produzioni delle razze ovine autoctone. L’origine della razza ovina Gentile di Puglia è oggetto di animate controversie tra gli storici. L’opinione maggiormente diffusa è che le razze ovine pugliesi fossero, fino all’inizio dell’età moderna, carat-terizzate da produzioni di scarso valore. Si attribuisce all’introduzione di arieti merinos spagnoli nella seconda metà del Quattrocento il progressivo miglioramento del patrimonio ovino pugliese, fino a quel momento costi-tuito quasi esclusivamente da pecore leccesi. La razza ovina Gentile di Puglia sarebbe quindi frutto di incroci tra pecore locali di scarso pregio e merinos spagnoli.

Altobella e Muscio, che hanno condotto approfonditi studi circa la questione dell’origine della razza Gentile di Puglia, sostengono un’ipotesi opposta a quella comu-nemente diffusa. Essi infatti sottolineano che non esiste alcuna documentazione che attesti importazioni di meri-nos spagnoli in Puglia. Esistono invece fonti documenta-rie che riportano dell’esistenza, in Puglia di una pecora a lana fina, già prima dell’introduzione di merinos spagno-li. Fonti antiche, risalenti all’età romana, descrivevano pecore a lana bianca con un vello assimilabile a quello della razza Gentile, diffuse sul territorio pugliese.

Sia Plinio che Varrone dividevano in due classi le pecore pugliesi: le pellitae o tectae, dal vello bianco e soffice, diffusesi da Taranto alla Daunia, e le coloniche, dalla lana irta e pelosa, affini alle pecore mosce o leccesi. Le prime venivano allevate con un sistema stanziale, per prevenire qualunque inquinamento del bianco manto, mentre le seconde venivano allevate con un sistema bra-do o transumante. Sono stati rinvenuti alcuni reperti ar-cheologici, nei pressi del fiume Carapelle, che ritraggo-no pecore con caratteristiche tipiche della razza Gentile

di Puglia, risalenti all’epoca degli antichi Dauni. Nella Naturalis Historia Plinio descrive le razze ovine presen-ti in Spagna in età romana, come caratterizzate da lana rossa o nera, ma non vi è cenno a pecore dal vello bian-co. Tali pecore sarebbero invece comparse nella penisola iberica dopo il 60 d.C., a seguito di importazioni di arieti provenienti dalla Puglia. Secondo queste e numerose al-tre testimonianze dell’epoca, la pecora merina spagnola sarebbe pertanto derivata da una razza pugliese, e non il contrario. Esistono anche documentazioni storiche che inducono a pensare che la razza Gentile si sia diffusa dalla Puglia verso il nord-Africa e la Spagna, già nel I secolo a.C., ad opera delle invasioni saracene.

L’allevamento di questa razza ovina subì una lunga battuta d’arresto nel periodo medioevale, per riprendere intorno al XIII secolo, come fonte di lana pregiata per importanti centri tessili industriali dell’Italia Settentrio-nale. I capi di bestiame ovino, presenti nel Tavoliere, si ridussero da due milioni alla fine del ‘500 a seicentomila nel 1635. Il ‘700, cessato il difficile periodo vicereale spagnolo e subentrato ad esso quello austriaco e poi dei Borbone, fu un secolo di forte crescita economica per la Capitanata e Foggia. Nel 1806, con l’abolizione della Mena delle Pecore di Foggia giunse a termine la lunga storia di questa istituzione. La struttura agraria del terri-torio venne modificata profondamente, specie per quan-to attiene al rapporto pastorizia-agricoltura, a favore di quest’ultima. La pratica della monocoltura cerealicola portò alla distruzione dei pascoli ed alla fine della pasto-rizia. Il progressivo decadimento che ha caratterizzato, nei secoli a seguire, l’allevamento della razza Gentile nel Tavoliere di Puglia costituisce un problema di ancora difficile analisi.

la razza gentile di Puglia

A. Muscio, F. d’Angelo, M. Albenzio, A. Sevi

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122le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

L’evoluzione del patrimonio

Il patrimonio ovino nazionale, dopo ampie oscilla-zioni, che lo hanno visto passare nell’ultimo secolo dai circa quindici milioni di capi del 1920 a meno di dieci milioni di unità nel 1960, si è attestato negli ultimi anni intorno agli undici milioni di capi, allevati per oltre il 50% nelle Isole, per il 4% appena nell’Italia Settentrio-nale e suddivisi, per il restante 45%, in parti pressoché uguali, tra le regioni del Centro e del Meridione d’Italia. La Puglia, con i suoi 413.000 capi, è al settimo posto nella graduatoria nazionale per la consistenza del patri-monio ovino, ma, relativamente al volume delle produ-zioni, è al secondo posto per numero di capi macellati, al quarto per la produzione di lana succida ed al quinto per la produzione di latte (Sevi et Muscio, 1995).

La consistenza della razza Gentile di Puglia (Asso.Na.Pa 2004) è passata, nell’ultimo cinquantennio, da circa 1 milione di capi a 4587 soggetti allevati in 30 aziende distribuite tra Puglia, Basilicata, Abruzzo, Cala-bria e Molise nel 2004 ed a 2816 soggetti in 29 aziende nel 2006. La razza viene allevata in pianura, in collina e in montagna. Il sistema di allevamento comprende: i sottosistemi pastorale, semipastorale, stanziale brado e non brado, in piccoli, medi e grandi greggi. L’esiguità del patrimonio allevato, caratterizzato da una rapida ed inarrestabile diminuzione negli ultimi decenni, è da attri-buire alla minore presenza sul mercato delle carni ovine dell’agnello nazionale, surclassato, in termini di prezzo, dall’agnello merinizzato di importazione. La modesta attitudine lattifera e l’ancora bassa percentuale di parti gemellari hanno ulteriormente contribuito alla pratica di incroci indiscriminati che hanno avuto come unico esito quello di ridurre drasticamente il numero dei greggi in purezza.

Caratteristiche morfologiche e produttive

Gli allevatori di Gentile hanno cercato di recuperare il mancato reddito incrociando la razza originaria con tipi genetici da carne e da lana come la Merino o de-rivate quali la Merino Rambouillet, la Merino Precoce, la Wüttemberg e la Sopravissana che hanno attuato un

miglioramento morfologico senza deprimere eccessiva-mente la qualità del vello. Oggi perciò le femmine gio-vani presentano frequentemente dimensioni piuttosto elevate soprattutto nell’altezza al garrese, alla groppa e nella circonferenza toracica. Anche i maschi adulti sono piuttosto conformi al tipo ideale, ad eccezione della mi-sura della circonferenza toracica, anche in questo caso notevolmente superiore rispetto allo standard sia sul to-tale del campione che in quasi tutte le aziende conside-rate. L’utilizzazione come miglioratori di arieti di razza Berichonne du Cher, Ile de France o di arieti di razze da latte (Comisana) ha portato invece ad un notevole peg-gioramento delle ottime caratteristiche del filamento la-noso tipiche di questa razza (Pollidori et al., 1989).

Negli ultimi anni il Comitato di Razza ha riscontrato la presenza di circa 80 diversi tipi genetici e soltanto il 13% di greggi in purezza. È necessario quindi innanzi-tutto ripristinare una maggiore omogeneità genetica in seno alla razza, per poi puntare ad un costante lavoro di selezione e di miglioramento, i cui obiettivi principa-li, come già accennato, dovrebbero essere rappresentati dall’aumento della prolificità, dall’aumento del peso alla nascita dell’agnello e dall’incre mento della produzione lattea delle pecore.

È stata effettuata, come per la razza Sopravissana (Sarti et Panella, 2000), una revisione dello standard di razza che definisca con chiarezza il tipo genetico originarinario. Tale necessità deriva dal fatto che alcu-ne aziende, situate in pianura e, quindi, con situazioni manageriali più favorevoli, presentano animali di taglia superiore rispetto ai massimi previsti dallo standard, e questo porterebbe perciò alla loro esclusione dal Libro Genealogico. Questo indirizzo, allo stato di cose, risulta prioritario, anche ai fini della conservazione di un patri-monio genetico e zootecnico di grande pregio.

Ad esso però si dovrebbe affiancare il ricorso all’in-crocio di prima generazione con l’impiego di arieti di razze estere specializzate per la produ zione della carne. Infatti, tale forma di incrocio, che mira a sfruttare i po-sitivi effetti dell’eterosi, per la sua natura non ostacole-rebbe il contemporaneo la voro di miglioramento sulle greggi in purezza ed, anzi, condotto in armonia con gli indirizzi individuati e segnalati dalla ricerca scientifica, può evitare indiscri minate e talvolta scriteriate mesco-lanze genetiche, i cui negativi effetti è poi difficile ar-ginare. È chiaro che l’adozione dell’incrocio industriale deve tener conto della combinabilità esistente tra i diver-si tipi genetici e della capacità di adattamen to degli arieti

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la razza gentile di Puglia123

Anno 2004

Provincia Maschi Rimonte Femmine Rimonte Totale n.aziende

Campobasso 54 10 285 36 339 3

Catanzaro 0 0 21 0 21 1

Foggia 47 7 513 11 560 5

Isernia 7 1 108 13 115 1

L’ Aquila 35 15 330 89 365 4

Matera 2 1 174 72 176 2

Potenza 32 3 2979 95 3011 14

Totale soggetti 177 37 4410 316 4587

Anno 2005

Provincia Maschi Rimonte Femmine Rimonte Totale n.aziende

Campobasso 57 8 231 113 288 3

Foggia 44 10 471 84 515 5

Isernia 7 0 108 3 115 1

L’ Aquila 55 16 313 73 368 3

Matera 3 1 131 37 134 3

Potenza 20 0 991 25 1011 12

Totale soggetti 186 35 2245 335 2431

Anno 2006

Provincia Maschi Rimonte Femmine Rimonte Totale n.aziende

Bari 1 1 4 4 5 1

Campobasso 60 8 433 0 493 3

Cosenza 0 0 21 0 21 1

Foggia 43 0 731 0 774 4

Isernia 3 0 73 0 76 1

L’Aquila 47 9 647 12 694 4

Matera 1 0 99 5 100 2

Potenza 11 0 639 0 650 13

Totale soggetti 166 18 2245 21 2813

Tabella 1. Consistenze Provinciali della Razza (Banca Dati Asso.Na.Pa.).

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124le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

di razze estere alle nostre condizioni pedoclimatiche. In tal senso, valide indicazioni provengono sia dal lungo lavoro di ricerca, condotto anche su altre razze autoctone pugliesi, che dal lavoro di meticciamento attra verso il quale, impiegando sangue Gentile di Puglia, Ile de Fran-ce e Wurtten berg, si è giunti alla costituzione di una li-nea sintetica da carne, il Trimeticcio appunto.

a) L’incremento demografico e le tipologie di agnelli da carne

Nel nostro Paese non vi sono vere e proprie razze specializzate nella produzione della carne, tali da poter reggere il confronto con alcune pregiate razze estere, quali le francesi Ile de France e Berrichonne du Cher o l’inglese Suffolk per citarne alcune. Razza per secoli selezionata ed allevata per la produzione della lana, an-che la Gentile di Puglia non presenta le caratteristiche proprie degli ovini «da carne». La taglia, infatti, è media (70 kg nei maschi e 40-45 kg nelle femmine), la capacità di crescita non è molto elevata, il tasso di gemellarità contenuto (15-20% in media), le masse muscolari non molto abbondanti. Nondimeno si può lavorare su questa razza, ed è questa una strada già intrapresa da alcuni lu-stri, per migliorarne l’attitudine alla produzione di carne, anche in considerazione del fatto che il tipo ovino da lana presenta caratteristiche morfologiche molto simili a quello da carne, essendo anche per la produzione della lana richiesto un forte sviluppo del dorso e della parte superiore degli arti. Infatti l’agnello da latte presenta un peso di macellazione pari a 10-11 Kg a 30 giorni e di 20-22 Kg a 90 giorni di età.

b) La qualità e la trasformazione del latteLa pecora Gentile di Puglia fa registrare una modesta

produzione di latte che, per di più, viene per la quasi totalità destinato all’allattamento dell’agnello. La pro-duzione di latte al secchio è infatti di 30-35 Kg al netto di quello del primo mese. Queste circostanze potrebbero far sembrare velleitaria qualsiasi considerazione su un eventuale potenziamento e valorizzazione di tale produ-zione. Tuttavia, vale la pena sottolineare che in presenza di condizioni alimentari appropriate la produttività del-la pecora Gentile può aumentare facilmente (20-25%); inoltre, il latte della pecora Gentile, per tenore in grasso ed in proteine, ben si presta alla trasformazione lattiero-casearia per la produzione di formaggio con riconosci-mento di tipicità.

Il Canestrato Pugliese - riconosciuto D.O.C. con

D.p.r. del 10 set. 1985 e D.O.P. nel 1996 con il reg. (Ce) n.1107/96 - è un formaggio a pasta dura non cotta, ot-tenuto da latte intero di pecora. Il suo nome deriva dai canestri di giunco pugliese, entro cui lo si fa stagiona-re, che rappresentano uno dei prodotti più tradizionali dell’artigianato pugliese. Il vero Canestrato Pugliese si produce in un periodo stagionale che va da dicembre a maggio, periodo questo legato alla transumanza delle greggi dall’Abruzzo alle piane del Tavoliere Pugliese. Di fatto, questo formaggio deve la sua diffusione proprio alla transumanza.

c) La lanaLa produzione di lana attualmente è pari a 5-7 Kg nei

maschi e 3,5-5 Kg nelle femmine per anno,

La razza Gentile di Puglia produce la migliore lana tessile del nostro Paese ed una delle più apprezzate al mondo. La lana gentile, similmente a quella delle altre migliori razze merinizzate, è caratterizzata da:

- notevole estensione sul corpo dell’animale, del qua-le ricopre anche la te sta, la regione sternale ed addomi-nale, la porzione libera degli arti e lo scroto;

- bioccoli serrati e compatti, chiusi, di forma cilindri-ca e di lunghezza infe riore ai 12 cm;

- elevata finezza, con diametro delle fibre inferiore ai 25 micron;

- forte densità di fibre, con valori superiori alle 40 fibre per mm2 di pelle; - rapporto tra follicoli secondari (sottovello) e follicoli primari (vello) molto vantaggioso e compreso fra 15 e 25.

I caratteri di razza

Norme tecniche allegate al disciplinare del Libro Ge-nealogico della Specie Ovina (1997)

Caratteri tipiciTaglia: media.Testa: a profilo leggermente montonino, con corna

robuste ed a spirale regolare nel maschio; a profilo ret-tilineo, con presenza di corna poco sviluppate in circa il 10% delle femmine.

Collo: corto e robusto nel maschio, più lungo e sottile nella femmina.

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la razza gentile di Puglia125

Tronco: lungo, mediamente largo. Garrese largo e più basso della groppa nel maschio, sottile e leggermente più basso della groppa nella femmina; torace alto profondo, con costole arcuate nel maschio, meno alto e profondo con costole meno arcuate nella femmina. Linea dorso-lombare rettilinea. Groppa mediamente larga, lievemen-te inclinata posteriormente.

Arti: solidi e relativamente corti.Vello: bianco, a lana fine, costituito da bioccoli pri-

smatici, con assenza di peli canini, ricopre completa-mente il tronco compresa la faccia ventrale, la fronte, le guance, gli arti anteriori sino al ginocchio ed i posterio-ri sino al nodello. Assenza di pliche cutanee. Pagliolaia poco sviluppata.

Pelle e pigmentazione: Sottile, rosea. Lingua, palato ed aperture naturali generalmente sprovviste di pigmen-

tazione. Talora si nota la presenza di piccole macchie nere o marrone alle orecchie, al musello ed all’occhio.

Caratteri riproduttivi:Fertilità (intesa come rapporto percentuale tra il nu-

mero delle pecore partorite ed il numero delle pecore avviate alla monta): 90%.

Prolificità (intesa come rapporto percentuale tra gli agnelli nati ed il numero delle pecore partorite): 120%.

Fecondità annua (rapporto percentuale tra gli agnelli nati ed il numero delle pecore matricine): 108%

Età media al primo parto: 18 mesi.

Caratteri produttivi:Razza ovina a preminente attitudine alla produzione

di carne e lana, con utilizzazione del latte.

Caratteri biometrici:

Caratteri Biometrici Età 18 mesi Adultimaschio femmina maschio femmina

Altezza al garrese, cm 68 5,1 61 3,6 71 5,2 62 4,6

Altezza alla groppa, cm 69 5,5 62 3,9 72 5,3 64 5,6

Altezza toracica cm 30 5,0 28 4,4 33 6,5 29 5,9

Larghezza media groppa, cm 26 7,7 20 10,1 22 8,5 20 6,6

Lunghezza tronco, cm 71 4,5 65 5,3 73 5,2 65 5,9

Circonferenza toracica, cm 92 6,4 85 6,9 94 5,2 85 6,7

Peso, kg 58 11,9 42 13,1 67 12,9 43 11,4

- Carne

peso medio dei soggetti in kg (pesi approssimati a 100 g)

Sesso PartoETÀ

nascita 45 gg 90 gg 6 mesi 1 annoMaschio singolo 3,9 14,0 22 32 45

gemellare 2,9 13,0 19 25 34Femmina singolo 3,7 12,5 19 25 34

gemellare 2,7 11,5 19 25 34

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126le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

- Latte: produzione indicativa: litri 80-100 (8-11% di grasso), compreso quello pop-

pato dall’agnello.- Lana: produzione media in sucido:Arieti Kg 6,0Pecore Kg 3,5Qualità molto fine.

Finalità della selezioneRiguardo la razza Gentile di Puglia l’orientamento at-

tuale è di esaltare l’attitudine alla produzione della carne, conservando, nel contempo, l’ottima produzione della lana (frutto di secolare opera di miglioramento) attraver-so il controllo genetico dei riproduttori, la diffusione del-la fecondazione artificiale, la selezione morfo-funzionale e la esaltazione della gemellarità. L’attitudine alla produ-zione della carne potrebbe essere migliorata attraverso la riduzione del periodo di interparto con l’obiettivo di avere tre parti in due anni. Nelle femmine verranno os-servati con particolare attenzione i caratteri di precocità, fertilità, prolificità e attitudine materna (non disgiunta da una opportuna produzione latte) sia per l’allattamento che per la produzione di formaggi tipici.

Scelta dei riproduttoria) Difetti tollerabili: pagliolaia, se poco sviluppatab) Difetti da eliminare: vello pigmentato, regioni in-

feriori del tronco scoperte di lana; estese pliche cutanee sul tronco; presenza di abbondante pagliolaia; corna ec-cessivamente sviluppate nelle pecore.

c) Scheda di valutazione somatica

Identificazione e requisiti richiesti per l’iscrizione al Libro Genealogico dei soggetti di razza Gentile di Puglia

- Registro genealogico del giovane bestiame (Art. 12 del Regolamento del Libro Genealogico)

Al Registro Genealogico del Giovane Bestiame sono iscritti, alla nascita, gli agnelli maschi e femmine in pos-sesso dei seguenti requisiti stabiliti dalla Commissione Tecnica Centrale del Libro Genealogico delle razze ovi-ne su proposta del Comitato di Razza e cioè:

Agnelli: maschi e femmine nati negli allevamenti iscritti al Li-

bro Genealogico e figli di: - Padre iscritto al Registro Genealogico degli Arieti; - Madre iscritta al Registro Genealogico delle Peco-

re.Agnelle: nate negli allevamenti in attesa di iscrizione al Libro

Genealogico e figlie: - di padre iscritto al Registro Genealogico degli Arie-

ti; - di madre proveniente dalla produzione ordinaria e

iscritta al Registro Genealogico PecoreRegistro genealogico degli arieti (Art. 13 del Rego-

lamento del Libro Genealogico) Al Registro Genealogico degli Arieti sono iscritti i

capi in possesso dei seguenti requisiti stabiliti dalla Com-

Scheda di valutazione somatica

Elementi di valutazione

Punteggio

a disposizione minimo per l’iscrizione

Maschio Femmina Maschio Femmina

1) Caratteristiche di razza 30 30 24 18

2) Caratteristiche attitudinali(Sviluppo e Mole) 30 30 24 18

3) Conformazione 30 30 24 18

4) Vello 10 10 8 6

Totale punti 100 100 80 60

Page 127: Book Final Version

la razza gentile di Puglia127

missione Tecnica Centrale del Libro Genealogico delle razze ovine su proposta del Comitato di razza e cioè:

- provenienti dal Registro Genealogico del Giovane Bestiame;

- che abbiano raggiunto l’età minima di 10 mesi;- che abbiano riportato nella valutazione morfologica

almeno 80 punti;- che abbiano raggiunto alla iscrizione i pesi minimi

previsti dallo standard di razza alle età tipiche.Registro genealogico delle pecore (Art. 14 del Rego-

lamento del Libro Genealogico)Al Registro Genealogico delle Pecore sono iscritti i

soggetti provenienti dal Registro Genealogico del Gio-vane Bestiame o in ogni caso tutti quelli in possesso dei requisiti morfologici, funzionali e genealogici individua-li stabiliti dalla Commissione Tecnica Centrale del Libro Genealogico delle razze ovine su proposta del Comitato di Razza e cioè:

- provenienti dal Registro Genealogico Giovane Be-stiame;

- che abbiano partorito almeno una volta;- che abbiano raggiunto nella valutazione morfologi-

ca un punteggio minimo di 60 punti;

- che abbiano raggiunto alla iscrizione i pesi minimi previsti dallo standard di razza alle età tipiche

Al Registro Genealogico delle Pecore possono anche essere iscritti tutti quei soggetti di ascendenza scono-sciuta o provenienti dalla produzione ordinaria purché:

- siano in possesso delle caratteristiche di razza e ab-biano raggiunto nella valutazione morfologica un pun-teggio minimo di 70 punti;

- abbiano partorito almeno una volta;- abbiano raggiunto alla iscrizione i pesi minimi pre-

visti dallo standard di razza all’età di adulto

Difetti morfologici e genetici comportanti l’esclusio-ne dell’iscrizione al LG

Difetti tollerabiliDeficienza di ciuffo fronteDifetti da eliminareVello pigmentatoRegioni inferiori del tronco scoperte di lanaEstese pliche cutanee sul troncoPresenza d’abbondante pagliolaiaCorna nelle pecore.

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L’origine e l’area di allevamento

Come la razza sia giunta in Italia e abbia dato origini a un ovino con le attuali caratteristiche morfo-funziona-li, non à molto chiaro. Sarebbe logico supporre che tale ovino sia il risultato di incroci e meticciamenti, spesso casuali e protratti, quasi certamente in modo disconti-nuo, per un lungo periodo di tempo, dell’ovino locale, ascrivibile alla più estesa popolazione appenninica, con la pecora Berbera o Barbaresca, di origine nord africana, con la quale ha in comune parecchie caratteristiche tra le quali, forse la più immediata, è la coda adiposa, volu-minosa, espansa nel primo tratto. Sulla pecora Berbera l’Enciclopedia Treccani così riporta: “pecora Berbera a coda grassa che popola tutte le regioni dell’Africa Set-tentrionale (Libia, Tunisia, ecc.). Essa ha il vello abba-stanza sviluppato , aperto, più o meno giarroso, esten-dendosi in tutto il corpo sino alla fronte, alle guance, al ginocchio, al garretto; il colore è bianco con macchie nere, marrone o rossicce, più sovente sulla testa; il peso medio è di 35 ÷ 45 kg nelle femmine e di 45 ÷ 60 kg nei maschi; la produzione di carne è assai buona.”

Ma non è chiaro come e quando gli ovini Berberi sia-no arrivati in Italia e particolarmente in Campania, anche se il Mazzone (cit. da Pelosi, 1991) afferma che importa-zioni notevoli di ovini Berberi avvennero durante la do-minazione Borbonica; l’area principale di allevamento era, allora, nella vecchia provincia di Napoli e, solo in tempi più recenti, si spostò nella provincia di Capua.

I primi studi su questo tipo genetico, a nostra cono-scenza, risalgono al 1937, quando Gaetano Nevano si interessò della popolazione ovina allevata nel Sannio e del loro miglioramento e così la descrisse: “… ha taglia vantaggiosa con linea dorso-lombare poco corretta e frequente vuoto retroscapolare. La testa non è pesante, il profilo nasale tende al montonino; la faccia sovente ha macchie di colore marrone di varia intensità ed esten-sione e le orecchie, di grandezza normale, sono dirette in basso e indietro. Gli altri hanno sviluppo armonico col tronco. Il vello, piuttosto chiuso, ha bioccoli di forma

tronco-conica che si estendono sino al sincipite, al terzo inferiore dell’avambraccio e della gamba e ai margini del ventre che, pertanto, risulta scoperto. La coda, molto grassa, larga e appiattita, si prolunga, assottigliandosi, fino a quasi la linea dei garretti.”

In particolare, il Nevano concentrò il suo studio sugli ovini allevati nei comuni di Castello D’Alife, di Pietra-roia, di Morcone e di San Giorgio La Molara, rilevando le caratteristiche somatiche. La ricerca evidenziò una no-tevole discordanza nelle caratteristiche somatiche degli ovini Laticauda allevati nelle province di Avellino e Be-nevento ed risultati lasciano supporre che il tipo genetico Laticauda si sia formato in seguito a una serie di incroci e di meticciamenti non sempre oculati e, certamente, non condotti secondo una rigorosa metodica razionale (Pelo-si, 1991).

Con decreto ministeriale dell’11.05.1981 è stato isti-tuito il Libro Genealogico del Tipo Genetico Ovino La-ticauda, considerato uno dei più pregiati tipi genetici da carne italiani.

Il tipo genetico ovino Laticauda è, attualmente, alleva-to nelle province di Benevento, Avellino e Caserta, non-ché sul Matese e in Calabria e presenta caratteri somatici e produttivi ben definiti, soprattutto grazie all’opera di selezione svolta. È diffuso nelle zone di bassa e media collina poste a un’altitudine compresa tra i 200 ÷ 400 metri s.l.m. e la sua consistenza numerica, dei soli capi Laticauda iscritti al LG, risulta essere pari a 3.212 (ag-giornamento al 31.12.05).

Occorre precisare che tale tipo genetico, in passato, veniva allevato solo in aziende di tipo familiare in nume-ro di 5 ÷ 10 pecore per azienda, e solo successivamente si è potuto assistere alla nascita di allevamenti di mag-giori dimensioni.

L’allevamento è di tipo stanziale e la manodopera utilizzata è generalmente quella della famiglia coloni-ca stessa. L’alimentazione è basata sul pascolo per tutto l’anno; nel periodo invernale, logicamente, si effettua una integrazione con l’utilizzo di fieno di sulla, di lupi-nella e di erba medica, e di paglia di avena o di orzo.

la razza laticauda

D. Matassino, N. Castellano, C.E. Rossetti, C. Incoronato, M. Occidente

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130le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

L’ecosistema dell’area d’origine

a) Le caratteristiche pedologiche Il territorio delle province interessate, Avellino, Be-

nevento e Caserta, zona appenninica dell’Italia Meridio-nale, è caratterizzato da una serie di massicci montuosi, intervallati da altopiani e vallate, piú o meno piccole, a volte senza sbocco, rese fertili da una infinità di piccoli ruscelli e fiumiciattoli, con scarsissime portate stagiona-li, che durante l’estate mettono a nudo i loro letti ciotto-losi.

La totalità dei ‘fiumi’, con percorsi quasi paralleli, a partire dal Sangro, dal Trigno, dal Biferno, dal Fortore e dall’Ofanto sfociano nell’Adriatico, mentre il solo Vol-turno, con il suo affluente Calore, sfocia nel Tirreno. Il territorio interessato è aspro, impervio, ma, nello stesso tempo, pittoresco, caratterizzato da pascoli disseminati di pietre, cespugli, arbusti ed erbe aromatiche, con pre-senza, a volte, di boschi di querce (nelle zone meno alte) e di faggi, mentre, nelle zone in cui non predomina il calcare, di castagneti.

Un bioterritorio particolare è quello della provincia di Avellino, in particolare la collina medio alta che circon-da la valle d’Assanto, caratterizzata dalla presenza della Mefite, fenomeno appartenente alla categoria del vulca-nesimo minore (come vulcani di fango), con emissione di anidride carbonica e acido solfidrico che, in certa mi-sura, influenzano l’ambiente circostante. Le esalazioni sulfuree, oltre a conferire all’aria che si respira il tipico odore che emana l’H2S, depositano a terra fiori di zol-fo che sublima. Tutto l’habitat finisce così con l’essere caratterizzato dalla presenza di zolfo – compresi, ovvia-mente, i suoi composti organici e inorganici – che, nella zona più vicina alla Mefite, conferisce al suolo la tipica colorazione giallognola.

b) Il climaLe temperature medie annue restano comprese tra i

10 °C e i 15 °C, con minime nelle zone più elevate co-munque attestate tra i 5 °C e gli 8 °C. Tale situazione genera una distribuzione delle isoterme congruente con l’adattamento altimetrico dei luoghi.

Il regime delle precipitazioni risulta localmente con-dizionato, anche in maniera rilevante, dalla presenza di rilievi calcarei; le zone più piovose sono quelle del Ma-tese e dell’Alta Irpinia con più di 2.000 mm di precipi-tazioni annui, spesso nevosi, mentre le zone interne del

beneventano sono quelle meno piovose con 500 ÷ 600 mm annui.

Frequenti sono i temporali estivi pomeridiani.

c) I pascoliIn Campania, fino agli anni 80 del secolo scorso,

l’allevamento ovino era fondamentalmente di tipo tran-sumante, dovuto soprattutto a ragioni di tipo struttura-li. Esisteva ancora il concetto ‘romantico’ del “pastore errante” che, durante il periodo invernale, trasferiva il proprio gregge nel seminativo del piano.

Con il trascorrere degli anni, il concetto di ‘pastore’ si è andato trasformando, i greggi hanno assunto una con-sistenza maggiore e quelli composti da 3 o 4 capi sono rari e vengono mantenuti solo per una produzione ‘fa-miliare’. Si è andata affermando sempre di più la figura del pastore inteso come un vero e proprio allevatore, con condizioni di vita e di lavoro uguali agli altri imprendi-tori impegnati nelle altre attività zootecniche.

Negli anni addietro, la manodopera utilizzata era ge-neralmente di tipo familiare: i ragazzi conducevano le pecore al pascolo, mentre al lavoro di stalla provvedeva la stessa persona che si occupava della cura del bestiame bovino, poiché, generalmente, le due specie venivano te-nute nella stessa stalla. Attualmente resta la conduzione familiare dell’allevamento ovino che può essere affian-cata da manodopera esterna per quegli allevamenti con gregge superiore ai 200 capi.

Negli anni passati esisteva la figura del ‘raccoglito-re’: nel periodo della monta e precisamente da giugno a settembre, le pecore venivano affidate a un uomo che, generalmente disponeva di un ariete di grosso sviluppo e di buona conformazione.

Attualmente, l’ovino Laticauda, grazie alla sua mole e alle sue buone caratteristiche produttive è un anima-le che ben si presta a un allevamento di tipo stanziale ed utilizza le produzioni provenienti dalle coltivazioni permanenti, costituite quasi esclusivamente dai pascoli naturali. In alcune zone, negli ambienti più vicini alla Mefite che utilizzano pascoli più esposti alle esalazioni sulfuree, gli alimenti presentano valori di solfuri, solfati, solfiti, ecc., molto più elevati e tali valori si riscontrano anche nei prodotti finiti (formaggio).

Nelle aree più lontane e più riparate da tali esalazioni l’aroma, pur conservando la sua caratteristica impronta, è più delicato, più amabile e meno penetrante.

Inoltre, se si considera che spesso nei pascoli vi è la presenza di erbe aromatiche quale la menta, il timo ser-

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la razza laticauda131

pillo, l’origano, il finocchio selvatico (solo per citarne qualcuno) e soprattutto il trifoglio – nelle sue diverse varietà, tra cui il ladino – si capisce quanto caratteristica possa essere la presenza di aromi nel latte che gli confe-riscono qualità organolettiche difficilmente riscontrabili altrove,.

d) L’agricoltura e l’allevamento animaleIn Campania, l’agricoltura riveste un’importanza ri-

levante con un numero di aziende pari a 70.278; rispetto al censimento del 1990 c’è stata una diminuzione pari al 26,8 % del numero di aziende.

Il patrimonio zootecnico, in Campania, è uno dei più significativi d’Italia con 7.188.265 capi di bestiame cosí suddiviso: 212.267 bovini, 130.732 bufali, 227.232 ovi-ni, 49.455 caprini, 141.772 suini, 4.967 equini, 5.765.546 avicoli e 656.294 conigli; rispetto al censimento del 1990 c’è stata, in generale, una diminuzione del 17 % di capi allevati.

La regione Campania si colloca nel panorama dell’al-levamento ovino del Meridione, tra le regioni con un discreto patrimonio. In particolare, la consistenza nume-rica di capi ovini è cosí rappresentata: Avellino 59.281, Benevento 69.337, Caserta 39.718, Napoli 984 e Salerno 57.912 capi.

La configurazione orografica della Campania fa as-sumere all’allevamento ovino una particolare importan-za. Infatti, molte zone, un tempo coltivate a grano, per fame di terra, potrebbero trovare il loro equilibrio con un assetto sostanzialmente silvo-pastorale, in particolare le zone collinari e di montagna.

In Campania la popolazione ovina Laticauda ammon-ta a 2.938 capi concentrati nelle province di Avellino, Benevento e Caserta. La Laticauda è allevata per lo più a regime semistallino in piccoli o piccolissimi greggi aziendali. È in ovino di taglia grande molto apprezzato per la frequente

Con un equivalente di 471.775 Unità Bovino Adulto (UBA), la Campania ha riscontrato un contenuto accre-scimento del proprio patrimonio zootecnico regionale (+ 5,0) presentando, di conseguenza, un rapporto UBA/SAU di 0,79 superiore a quello del 1990 (0,68). Tale in-cremento è il risultato del marcato aumento registrato dagli allevamenti avicoli e attenuato dalle flessioni veri-ficatesi per tutte le altre specie di bestiame considerate.

Per il settore ovino, (4,8 % delle UBA totali) la ridu-zione del patrimonio è stata solo del 5,5 % e l’indice di specializzazione risulta abbastanza alto (0,18) e stazio-

nario.Il patrimonio ovino della Campania, attualmente, am-

monta a 227.232 capi, distribuiti per provincia come di seguito precisato:

Provincia Numero di capiAvellino 59.281

Benevento 69.337Caserta 39.718Napoli 984Salerno 57.912Totale 227.232

Esso rappresenta il 3,34 % del patrimonio nazionale e la produzione che detto settore fornisce incide per cir-ca il 10 % sulla produzione lorda vendibile zootecnica regionale.

I caratteri di razza

Le caratteristiche biometriche rilevate dal Nevano e an-che dal Bocchini, dell’Ispettorato Provinciale dell’Agri-coltura di Benevento, in una relazione di quest’ultimo presentata in occasione della Rassegna Compartimentale ovina di razza Laticauda, svoltasi a Venticano (AV) il 16 dicembre 1962, trovano ampia rispondenza con quanto rilevato dal Mazzone, dall’Enciclopedia Treccani e dal-la Nuova Enciclopedia Popolare a cura del Boccardo (1884) (cit. da Pelosi, 1991).

Notizie sulle caratteristiche somatiche della pecora Laticauda sono state fornite da:

a) Raffaele Mazzone (cit. da Pelosi, 1991): “ taglia vantaggiosa, intelaiatura scheletrica solida, sviluppo dei diametri trasversali notevoli. Statura media al gar-rese, per la pecora 71,8 cm, per l’ariete 81,3 cm; peso medio 53,2 kg nella pecora adulta e 86,2 kg nell’ariete. Pigmentazione del palato, della lingua, della pelle, del-le aperture naturali normalmente color carnicino. Testa dolicocefala, con profilo montonino, particolarmente accentuata nel maschio di media grandezza e coperta di lana corta fino alla fronte. Guance e naso assai spesso macchiettate di nero e di bruno, mentre non mancano i

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132le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

soggetti che presentano tale colorazione estesa su tut-ta la faccia. Corna normalmente presente nel maschio, triangolari, ravvolte a spirale di lato; assenti nelle fem-mine. Orecchie di media grandezza, rivolte indietro e al-quanto pendenti. Collo medio, muscoloso specialmente nel maschio. Tronco ben sviluppato, ossatura forte, pet-to largo, costato ben arcuato, ventre di media ampiezza. Coda coperta di lana lunga, si presenta larga e appiat-tita, grossa alla base e prolungantesi assottigliata fino al di sotto dei garretti. Nella femmina le mammelle sono ampie, ben attaccate, con pelle fine e capezzoli divari-cati. Gli arti sono alti ma robusti, con appiombi buoni, articolazioni larghe, unghielli scuri. Vello generalmente bianco, semiaperto, ricoprente tutto il corpo, all’infuori della regione sterno-addominale in cui la lana è scarsa, corta e giarrosa. Si arresta alle guance; sugli arti ante-riori giunge fino a poco sotto all’articolazione omero-radiale e in quelli posteriori a metà gamba.”

b) Nuova Enciclopedia Popolare a cura del prof. Ge-rolamo Boccardo, UTET (1984): “ la seconda è quella a coda grassa, laticaudata, che offre altresì una statura elevata, a testa grossa, naso convesso, orecchie larghe e pendenti, due o quattro corna dirette indietro, spina dorso-lomare saliente,groppa bassa, coda grossissima e terminata in due lombi, uno dei quali mezzano e gracile, formato dagli ultimi coccigei e due laterali voluminosi e ripieni di pinguedine…”.

Norme tecniche allegate al disciplinare del Libro Ge-nealogico della Specie Ovina (1958 e 1987)

Il Ministro dell’agricoltura e delle foreste direzio-ne generale della produzione agricola, con Decreto del 22 Aprile 1987, approva il nuovo standard e le nuove

Norme Tecniche della razza Laticauda, nonché il rego-lamento dei controlli funzionali e il Regolamento delle Manifestazioni Ufficiali delle razze ovine da carne.

Caratteri esteriori: taglia: grandetesta: pesante, a profilo montonino, più accentuato

nel maschio che nella femmina, acorne, con presenza di cercine calloso nel maschio. Orecchie grandi e portate lateralmente in basso

collo: lungo e robusto nel maschio, lungo più sottile nella femmina

tronco: lungo e largogarrese: tendente al tagliente nel maschio, meno nel-

la femminatorace: alto, profondo, con costole arcuate in entram-

bi i sessilinea dorso-lombare: rettilineagroppa: larga e generalmente spioventearti: solidi e lunghi nel maschio, esili e lunghi nella

femminavello: bianco, poco serrato, costituito da bioccoli pri-

smatici, con presenza di pelo canino, ricopre completa-mente il tronco ad esclusione della faccia ventrale del tronco, della regione inferiore del collo, della fronte, delle guance, degli arti anteriori fino al ginocchio e po-steriori fino al garretto

pelle e pigmentazione: sottile, rosea. Lingua, palato e aperture naturali generalmente sprovviste di pigmen-tazione. Frequente presenza di piccole macchie nere, marrone o rosse alle palpebre, al musello, alle orecchie e agli arti.

Caratteri biometrici

Caratteri BiometriciEtà 18 mesi Adulti

maschio femmina maschio femminax c.v % x c.v % x c.v % x c.v %

Altezza al garrese, cm 77 7,3 69 5,2 82 3,4 71 4,4Altezza alla groppa, cm 79 6,5 72 5,3 84 3,3 74 4,4Altezza toracica cm 32 7,4 29 7,6 37 4,9 32 5,7Larghezza media groppa, cm 22 6,3 20 8,3 24 7,8 22 8,8Lunghezza tronco, cm 77 6,5 68 5 83 4,6 71 5Circonferenza toracica, cm 92 9,7 84 7,2 102 6,1 92 6,1Peso ,kg 81 14,1 62 15,8 95 15,7 69 16,9

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la razza laticauda133

Caratteri riproduttivifertilità (intesa come rapporto percentuale tra il nu-

mero delle pecore partorite ed il numero delle pecore matricine): 97 %

prolificità (intesa come rapporto percentuale tra gli agnelli nati ed il numero delle pecore partorite): 180 %

fecondità annua (rapporto percentuale tra gli agnelli nati ed il numero delle pecore matricine): 175 %

nascite concentrate nel periodo ottobre – gennaioetà media al primo parto: 12 mesi

Caratteri produttivirazza ovina a preminente attitudine alla produzione

di carne. Attitudine carneProdotto: Agnello Laticauda (allegato I)Peso medio dei soggetti in kg (pesi approssimati a

100 g)

Attitudine latteProduzione indicativa: litri 120÷140, compreso il lat-

te poppato dall’agnello; la composizione chimica cen-tesimale media del latte evidenzia un tenore in sostanza secca del 20 %, uno in grasso del 8,63 % e uno in protei-ne del 5,42 %.

Prodotto derivato del latte: pecorino Laticauda (alle-gato II)

Attitudine lana Produzione media in sucido: arieti kg 3,0; pecore kg

1,8 di qualità grossolana.

Lo standard prevede anche che per la scelta dei ripro-duttori si debba tener presente anche:

difetti tollerabili: estese macchie agli occhi, alla testa e agli arti

difetti da eliminare: vello pigmentato; corna in ambo i sessi

Inoltre, i soggetti di razza Laticauda, per essere am-messi all’azione selettiva devono:

- presentare i caratteri esteriori previsti dallo stan-dard;

Sesso PartoEtà

nascita 45 d 90 d 6 mesi 1 anno

Maschiosingolo 5 18 28,5 45 70gemellare 3,8 15 23,5 42 68

Femminasingolo 4 15,5 24 37 55*gemellare 3,4 13,5 21,5 35 53*

* soggetti prevalentemente gravidi

Elementi di valutazione

Punteggioa disposizione minimo per l’iscrizione

Maschio Femmina Maschio Femmina1) Caratteristiche di razza 30 30 24 18

2) Caratteristiche attitudinali (Sviluppo e Mole)

30 30 24 18

3) Conformazione 30 30 24 18

4)Vello 10 10 8 6

Totale punti 100 100 80 60

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134le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

- raggiungere il punteggio minimo di cui alla scheda di valutazione somatica;

- raggiungere i seguenti pesi minimi:maschio: a 12 mesi kg 69; adulto kg 90 (i) femmina: a 12 mesi kg 54; adulta kg 65 .(ii)

Iscrizione al Registro Genealogico Giovane Bestiame (Art. 12 del Regolamento del Libro Genealogico):

Al Registro Genealogico del Giovane Bestiame sono iscritti, alla nascita, gli agnelli maschi e femmine in pos-sesso dei seguenti requisiti stabiliti dalla Commissione Tecnica Centrale del Libro Genealogico delle razze ovi-ne su proposta del comitato di Razza e cioè:

Agnelli: maschi e femmine nati negli allevamenti iscritti al Libro Genealogico e discendenti da:

padre iscritto al Registro Genealogico degli Arie-(i) ti;

madre iscritta al Registro Genealogico delle Pe-(ii) core

Agnelle: nate negli allevamenti in attesa di iscrizione al Libro Genealogico e figlie:

di padre iscritto al Registro Genealogico degli (i) Arieti;

di madre proveniente dalla produzione ordinaria (ii) e iscritta al Registro Genealogico Pecore.

Iscrizione al Registro Genealogico degli Arieti (Art. 13 del Regolamento del Libro Genealogico):

Al Registro Genealogico degli Arieti sono iscritti i capi in possesso dei seguenti requisiti stabiliti dalla Com-missione Tecnica Centrale del Libro Genealogico delle razze ovine su proposta del Comitato di razza e cioè:

provenienti dal Registro Genealogico del Giova-(i) ne Bestiame;

che abbiano raggiunto l’età minima di 10 mesi; (ii) che abbiano riportato nella valutazione somatica (iii)

almeno 80 punti; che abbiano raggiunto alla iscrizione i pesi mini-(iv)

mi previsti dallo standard di razza alle età tipiche

Iscrizione al Registro Genealogico delle Pecore (Art. 14 del Regolamento del Libro Genealogico)

Al Registro Genealogico delle Pecore sono iscritti i soggetti provenienti dal Registro Genealogico del Gio-vane Bestiame o in ogni caso tutti quelli in possesso dei requisiti morfologici, funzionali e genealogici individua-li stabiliti dalla Commissione Tecnica Centrale del Libro Genealogico delle razze ovine su proposta del Comitato

di Razza e cioè: provenienti dal Registro Genealogico Giovane (i)

Bestiame; che abbiano partorito almeno una volta; (ii) che abbiano raggiunto nella valutazione somati-(iii)

ca un punteggio minimo di 60 punti; che abbiano raggiunto alla iscrizione i pesi mini-(iv)

mi previsti dallo standard di razza alle età tipiche.Al Registro Genealogico delle Pecore possono anche

essere iscritti tutti quei soggetti di ascendenza scono-sciuta o provenienti dalla produzione ordinaria purché:

siano in possesso delle caratteristiche di razza e (i) abbiano raggiunto nella valutazione somatica un punteg-gio minimo di 70 punti;

abbiano partorito almeno una volta; (ii) abbiano raggiunto alla iscrizione i pesi minimi (iii)

previsti dallo standard di razza all’età di adulto

Finalità della selezione Per quanto riguarda l’indirizzo da dare all’allevamen-

to di ovini Laticauda, è chiaro che bisogna curare parti-colarmente la produzione del latte, dalla quale diretta-mente consegue la produzione della carne, cercando, nel contempo, di esaltare la già buona e rinomata fecondità, senza, tuttavia, trascurare la mole dei soggetti da alleva-re.

Per perseguire tali scopi è stata attuata una rigorosa selezione fenotipica, conseguente all’attuazione di rigidi controlli funzionali.

L’approfondimento di tale lavoro ha sempre trovato ostacolo nell’eccessivo frazionamento degli allevamen-ti, aggravato, peraltro, dalla frequente assenza dell’ariete nei singoli allevamenti, appunto a causa della loro ridot-ta dimensione numerica.

Il Comitato della Razza Laticauda ha considerato questa situazione di precarietà continua in cui viveva la razza e, nell’impossibilità di preparare un programma generale, che avrebbe investito notevoli risorse finanzia-rie, ha individuato una prima azione da intraprendere per la conservazione di questo ingente e importante patrimo-nio, consistente nella costituzione e nel funzionamento di un centro arieti riproduttori in cui fosse agevole il con-trollo di soggetti di alta e sicura genealogia da concedere in uso agli allevamenti iscritti al libro genealogico du-rante l’epoca della monta.

Il Comitato della razza ovina Laticauda ha anche con-siderato che grande importanza, in questo indirizzo di miglioramento, può assumere l’ausilio dell’introduzione

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l’ovinicoltura e l’economia agricola del ‘900 nel mezzogiorno135

della Inseminazione Strumentale (IS), onde avere uno strumento valido e sicuro per la ulteriore estensione raz-zologica e per la moltiplicazione su larga scala di arieti riproduttori di grande pregio.

Inoltre, il Comitato ha anche considerato l’importan-za di procedere a una più profonda selezione di carcas-se idonee alla richiesta del consumatore; per questo è stato attuato un programma che prevedeva la ricerca e la sperimentazione dei vari tagli delle carcasse e la pre-parazione degli stessi. È stato rilevato che le carni degli ovini Laticauda sono particolarmente sapide perché pri-ve del famoso sapore ‘ircino’, impropriamente detto tale dal punto di vista tecnico, di cui risentono quasi tutte le carni degli agnelli delle altre razze ovine: ciò è dovuto alla scarsa rappresentatività degli acidi caprilico e ca-pronico; sembra ciò sia dovuto al fatto che tali composti

si formano in animali non dotati di grande precocità di accrescimento, ciò che per la razza Laticauda non è, dato che gli agnelli raggiungono il peso standard della macel-lazione in pochissimi giorni (20 – 25 d contro i 50 – 60 d delle altre razze).

Attualmente l’orientamento è quello di esaltare l’at-titudine alla produzione della carne e del latte. Gli stru-menti tecnici per conseguire tali finalità sono:

controllo della discendenza per l’individuazione (a) degli arieti miglioratori da utilizzare anche con la pratica della Inseminazione Strumentale (IS);

selezione morfo-funzionale; (b) controllo della fertilità; (c) controllo della prolificità per elevare la percen-(d)

tuale dei parti gemellari; selezione per tali caratteristiche. (e)

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allegati137

ALLEGATO 1

PROPOSTA DI DISCIPLINARE DI PRODUZIONE IGP “AGNELLO LATICAUDA”

Art. 1.Denominazione

L’Indicazione Geografica Protetta (IGP) “Agnello Laticauda” è riservata esclusivamente alla carne di agnelli nati, allevati e macellati che siano in regola con le norme dettate dal presente disciplinare di produzione e identificazione.

Art. 2Zona di produzione

L’area geografica di produzione delle carni di “Agnello Laticauda” è rappresentata dal territorio cosí suddiviso:(a) provincia di Avellino: territori dei comuni di: Ariano Irpino, Bonito, Carife, Casalbore, Castel Baronia,

Flumeri, Fontanarosa, Frigento, Gesualdo, Grottaminarda, Guardia dei Lombardi, Melito Irpino, Mirabella Eclano, Montecalvo Irpino, Paternopoli, Rocca San Felica, San Nicola Baronia, San Sossio Baronia, Sant’Angelo A Scala, Scampitella, Sturno, Torella dei Lombardi, Trevico, Vallata, Vallesaccarda, Venticano, Villamaina, Villanova del Batista e Pungoli

(b) provincia di Benevento: territori dei Comuni di: Apice, Ampollosa, Arpaia, Baselice, Bonea, Bucciano, Buonalbergo, Campolattaro, Campoli del Monte Taburno, Casalduni, Castelfranco in Miscano, Castelpagano, Castelvenere, Castelvetere in Val Fortore, Forchia, Fragneto l’Abate, Fragneto Monforte, Frasso Telesino, Ginestra degli Schiavoni, Molinara, Guardia Sanframondi, Melizzano, Moiano, Montefalcone di Val Foltore, Montesarchio, Morcone, Paduli, Pannarano, Paolisi, Paupisi, Pesco Sannita, Pietraroja, Ponte, Pontelandolfo, Reino, San Giorgio La Molara, San Lupo, San Marco dei Cavoti, San Salvatore Telesino, San Bartolomeo in Galdo, San Lorenzello, San Lorenzo Maggiore, Santa Croce del Sannio, Sant’Agata dei Goti, Sant’Arcangelo Trimonte, Sassinoro, Solopaca, Tocco Caudio, Torrecuso e Vitulano

(c) provincia di Caserta,: territori dei Comuni di: Ailano, Alife, Allignano, Baia e Latina, Caiazzo, Calvi Risorta, Casigliano, Capriati al Volturno, Castel di Sasso, Castello del Matese, Ciorlano, Conca della Campania, Dragoni, Fontegreca, Formicola, Gallo, galluccio, Giano Vetusto, Gioia Sannitica, Letino, Liberi, Marzano Appio, Mignano Montelungo, Piana di Monteverna, Piedimonte Matese, Pietramelara, Pontelatone, Prata Sannita, Pratella, Presenzano, Raviscanica, Riardo, Rocca d’Evandro, Roccamonfina, Roccaromana, Rocchetta e Croce, San Gregorio Matese, San Pietro Infine, San Potito Sannitico, Sant’Angelo d’Alife, Tora e Picilli, valle Agricola.

Gli agnelli, maschi e femmine, macellati a un’età compresa tra i 50 e i 130 giorni devono provenire da allevamenti iscritti al Libro Genealogico, con ovini di ascendenza nota.

Art. 3Metodologia di allevamento

Gli agnelli devono essere allattati naturalmente dalle madri fino allo svezzamento. Successivamente la base alimentare deve essere rappresentata da fieni provenienti da prati naturali o artificiali della zona geografica indicata.

In aggiunta è permesso l’uso di mangimi concentrati, semplici o composti, con l’addizione di integratori minerali e vitaminici.

La razione deve essere calcolata in modo da assicurare livelli nutritivi alti (> 0,8 UF/kg di ss) e una quota proteica compresa tra il 15 ÷ 18 % in funzione dello stadio dell’animale.

I soggetti dovranno essere identificati non oltre i 30 giorni dalla nascita mediante apposizione sul padiglione auricolare sinistro di idonea fascetta o bottone auricolare contenente sul fronte i codici di identificazione dell’allevamento completo di lettere e cifre e, sul retro, il numero progressivo del capo.

Per quanto attiene i ricoveri, essi dovranno garantire condizioni adeguate alla produzione di carne di qualità; in particolare tali condizioni riguardano: la densità degli animali, il ricambio d’aria, l’illuminazione, la pavimentazione, la distribuzione degli alimenti e dell’acqua di bevanda, gli interventi sanitari.

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Art. 4Macellazione

Fermo restando la normativa nazionale comunitaria, la macellazione dovrà essere eseguita entro 24 ore dal conferimento al mattatoio mediante recisione netta della vena giugulare, si procede poi allo spellamento e recisione della testa e delle parti distali degli arti. Successivamente, la carcassa dovrà essere sviscerata, eccetto dei reni.

La macellazione deve avvenire in mattatoi idonei, situati all’interno della zona di produzione, al fine di evitare fenomeni di stress per gli animali; particolare cura va prestata al trasporto e alla sosta prima della macellazione evitando l’utilizzo di mezzi cruenti per il carico e lo scarico degli automezzi e la promiscuità con animali provenienti da allevamenti diversi.

Nel rispetto delle normative vigenti, la refrigerazione delle carcasse deve essere effettuata in modo da evitare il fenomeno della contrattura da freddo.

Le carcasse degli agnelli sono suddivise in due categorie:(a) leggere: di peso tra 8 e 13 kg, prive di testa e corata(b) pesanti: di peso superiore ai 13 kg, prive di testa e corata.Secondo quanto previsto dai Regolamenti Comunitari, devono rispondere alle seguenti caratteristiche:(a) leggere:

(i) colore della carne: rosa chiaro o rosa, il rilievo va fatto sui muscoli interni delle pareti addominali (valutazione secondo griglia mediterranea)

(ii) consistenza delle masse muscolari: solida (assenza di sierosità)(iii) ingrassamento: 2 – 3 (valutato secondo la griglia mediterranea)(iv) consistenza del grasso: solido, il rilievo va fatto sulla massa adiposa che sovrasta l’attacco della coda a

temperatura ambiente di 18 – 20 °C(v) colore del grasso: bianco o bianco crema (valutato secondo la griglia mediterranea)

(b) pesanti:(i) colore della carne: rosa o rosa scuro(ii) conformazione: non inferiore a R (valutato secondo la griglia comunitaria)(iii) consistenza delle masse muscolari: solida(iv) ingrassamento: 2 – 3 – 4 (valutato secondo la griglia comunitaria)(v) consistenza del grasso: solida(vi) colore del grasso: bianco o bianco crema.

Art. 5Caratteristiche chimico fisiche

L’agnello per aver diritto alla Indicazione Geografica Protetta (IGP), tenuto conto degli elementi descrittivi di cui all’art. 4 del Regolamento CEE n. 2081/92 del Consiglio del 14 luglio e dei precedenti articoli contenuti nel presente disciplinare, deve rispondere alle seguenti caratteristiche chimico-fisiche:

(a) caratteristiche chimiche:(i) sostanza secca: non inferiore al 25 % (per 100 g di carne edibile)(ii) protidi: non inferiori al 18 % (per 100 g di carne edibile)(iii) lipidi: tra il 3 – 6 % (per 100 g di carne edibile)

(b) caratteristiche fisiche:(i) calo frigo: non superiore al 6 %(ii) tenerezza (WBS) sul cotto: non superiore a 6 per kg/cm2

(iii) pH: 5,2 – 5,8 rilevato dopo refrigerazione .

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Art. 6Caratteristiche al consumo

La carne di “Agnello Laticauda” deve essere immessa al consumo provvista di particolare contrassegno a garanzia dell’origine e dell’identificazione del prodotto.

Nell’etichetta, oltre alle informazioni obbligatorie per legge, dovranno essere indicati. della carcassa, la razza di appartenenza, il mese di nascita dell’agnello, l’azienda di allevamento (denominazione e sede), il giorno e il luogo della macellazione.

Il logo deve contenere la scritta “Agnello Laticauda”.Il logo ha dimensioni di 7 x 6 cm e riporta al centro un agnello stilizzato di colore bianco contornato dalla scritta

al arco, di colore rosso, “Agnello Laticauda”.Il marchio deve essere apposto con caratteri chiari e indelebili nettamente distinto da ogni altra scritta ed essere

seguito dalla menzione di IGP.La marchiatura deve essere effettuata da un incaricato dell’organismo di controllo e impresso sulla superficie delle

carcasse:(a) nelle leggere (di peso non superiore ai 13 kg) il marchio viene applicato sulla fascia esterna dei seguenti

tagli:(i) spalla(ii) costolette(iii) lombo(iv) coscia

(b) nelle pesanti (di peso superiore ai 13 kg) il marchio viene applicato sulla fascia esterna dei seguenti tagli:(i) collo(ii) spalla(iii) costolette(iv) petto(v) lombi(vi) pancetta(vii) coscia.

Il marchio deve essere conservabile in tutte le fasi della distribuzione.La carne è posta in vendita al taglio o confezionata. La vendita al taglio può avvenire anche in punti vendita

appositamente convenzionati, i quali dietro l’impegno sottoscritto a vendere esclusivamente carne di agnello timbrata con il marchio della IGP, vengono sottoposti a ulteriori controlli e possono, pertanto, pubblicizzare tale condizione.

La carne confezionata porzionata, fresca o surgelata, è posta in vendita solo in confezioni sigillate. Il confezionamento può avvenire solo in laboratori abilitati e sotto il controllo dell’organo preposto che consente la stampigliatura del marchio della IGP sulle singole confezioni.

È comunque vietata la vendita di qualsiasi qualificazione non espressamente prevista.

Art. 7Controlli

Le funzioni di controllo devono essere esercitate in conformità con quanto previsto dall’art. 10 del Regolamento CEE 2081/92.

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Allegato 2

PROPOSTA DI DISCIPLINARE DI PRODUZIONE DOP “PECORINO LATICAUDA SANNITA”

Art. 1Nome del prodotto

La denominazione d’origine protetta (DOP) “Pecorino di Laticauda Sannita” è riservata al formaggio pecorino che risponde alle condizioni e ai requisiti stabiliti dal Reg. CEE 2081/92, da sue successive modifiche e dal presente disciplinare di produzione.

Art. 2Caratteristiche del prodotto

La DOP “Pecorino di Laticauda Sannita” designa il formaggio pecorino ottenuto esclusivamente con latte fresco crudo di pecora della razza Laticauda prodotto nelle zone delimitate all’art. 3 del presente disciplinare di produzione.

Art. 3Delimitazione area geografica

Le zone di provenienza del latte di pecora Laticauda e di produzione del “Pecorino di Laticauda Sannita”, di cui al presente disciplinare, sono delimitate nel modo seguente:

(a) provincia di Avellino, territorio dei comuni di: Ariano Irpino, Bonito, Carife, Casalbore, Castel Baronia, Flumeri, Fontanarosa, Frigento, Gesualdo, Greci, Grottaminarda, Guardia dei Lombardi, Melito Irpino, Mirabella Eclano, Monteacuto, Montecalvo Irpino, Paternopoli, Pietrastornina, Rocca San Felice, San Nicola Baronia, San Sossio Baronia, Sant’Angelo a Scala, Savignano Irpino, Scampitella, Sturno, Torella dei Lombardi, trevico, Vallata, Vallesaccarda, Venticano, Villamaina, Villanova del Battista e Zungoli;

(b) provincia di Benevento, territorio dei comuni di: Apice, Apollosa, Arpaia, Baselice, Bonea, Bucciano, Buonalbergo, Calvi, Campolattaro, Campoli del Monte Taburno, Casalduni, Castelfranco in Miscano, Castelpagano, Castelvenere, Castelvenere in Val Fortore, Cautano, Cerreto Sannita, Circello, Colle Sannita, Cusano Mutri, Faicchio, Foglianise, Foiano di Val Fortore, Forchia, Fragneto l’Abate, Fragneto Monforte, Frasso Telesino, Ginestra degli Schiavoni, Molinara, Guardia Sanfromondi, Melizzano, Moiano, Montefalcone di Val Fortore, Montesarchio, Morcone, Paduli, Pago Veiano, Pannarano, Paolisi, Paupisi, Pesco Sannita, Petraroja, Pietrelcina, Ponte, Pondelandolfo, Reino, Sant’Arcangelo Trimonte, San Giorgio del Sannio, San Giorgio la Molara, San Lupo, San Marco dei Cavoti, San Martino Sannita, San Nazzaro, San Nicola Manfredi, San Salvatore Telesino, San Bartolomeo in Galdo, San Lorenzello, San Lorenzo Maggiore, Santa Croce del Sannio, Sant’Agata dei Goti, Sassinoro, Solopaca, Tocco Gaudio, Torrecuso e Vitutlano;

(c) provincia di Caserta, territorio dei comuni di: Ailano, Alife, Alvignano,, Baia e Latina, Caiazzo, Calvi Risorta, Camigliano, Capriati al Volturno, Castel di Sasso, Castello del Matese, Ciorlano, Conca della Campania, Dragoni, Fontegreca, Formicola, Gallo, GAlluccio, Giano Vetusto, Gioia Sannitica, Letino, Liberi, Marzano Appio, Mignano Montelungo, Piana di Monteverna, Piedimonte Matese, Pietramelara, Pietravairano, Pontelatone, Prata Sannita, Pratella, Presenzano, Raviscanina, Riardo, Rocca d’Evandro, Roccamonfina, Roccaromana, Rocchetta e Croce, San Gragorio Matese, San Pietro IOnfine, San Potito Sannitico, Sant’Angelo d’Alife, Tora e Picilli, Valle Agricola.

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Art. 4Metodi di produzione

Il formaggio “Pecorino di Laticauda Sannita” può essere prodotto nelle seguenti modalità:formaggio fresco;1. formaggio semi-stagionato;2. formaggio stagionato.3.

Esso deve essere prodotto esclusivamente con latte fresco crudo di pecora di razza Laticauda, proveniente da allevamenti ubicati nella zona geografica di cui all’art. 3, ottenuto nel rispetto del processo rispondente allo standard produttivo.

Formaggio fresco:1. coagulazione: caglio naturale di ovino di Laticauda; temperatura di coagulazione 34÷38°C; durata di

coagulazione 35÷45 minuti primi;rottura grossolana della cagliata fino all’ottenimento di granuli delle dimensioni non superiori ai 3 cm di

diametro per favorire lo spurgo;estrazione della cagliata;formatura in apposito stampo di forma cilindrica che permette al siero di defluire lentamente, avente un’altezza

dagli 8 ai 10 cm ed un diametro da 10 a 12 cm, per una durata massima di 18 ore;la salatura può essere fatta sia in salamoia che a secco per un tempo di almeno 6 ore;stagionatura in ambiente avente una temperatura compresa tra 13 e 15°C ed un’umidità relativa dal 75 all’80%

per un periodo di 12÷24 ore;confezionamento in involucro idoneo con riportate, a caratteri di stampa chiari e leggibili, le indicazioni di

cui al punto h dell’art. 8 del presente disciplinare.

Formaggio semi-stagionato:2. coagulazione: caglio naturale di ovino di Laticauda; temperatura di coagulazione 34÷38°C; durata di

coagulazione 35÷45 minuti primi;rottura della cagliata fino all’ottenimento di granuli delle dimensioni non superiori ai 2,5 cm di diametro per

favorire lo spurgo;estrazione della cagliata;formatura in apposito stampo di forma cilindrica che permette al siero di defluire lentamente, avente un’altezza

dagli 6 agli 8 cm ed un diametro da 11 a 13 cm, per una durata massima di 48 ore;la salatura può essere fatta sia in salamoia che a secco per un tempo di almeno 10 ore;stagionatura in ambiente avente una temperatura compresa tra 13 e 15°C ed un’umidità relativa dal 75 all’80%

per un periodo di 24÷40 giorni;marcatura a fuoco e/o con inchiostro indelebile a fine stagionatura;confezionamento in involucro idoneo per l’avvio al mercato.

Formaggio stagionato:3. coagulazione: caglio naturale di ovino di Laticauda; temperatura di coagulazione 34÷38°C; durata di

coagulazione 35÷45 minuti primi;rottura fine della cagliata fino all’ottenimento di granuli delle dimensioni non superiori ai 2 cm di diametro

per favorire lo spurgo;estrazione della cagliata;formatura in apposito stampo di forma cilindrica che permette al siero di defluire lentamente, avente un’altezza

dagli 8 ai 14 cm ed un diametro da 15 a 25 cm, per una durata non superiore ai 7 giorni;la salatura può essere fatta sia in salamoia che a secco;

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allegati143

stagionatura in ambiente avente una temperatura compresa tra 13 e 15°C ed un’umidità relativa dal 75 all’80% per un periodo di 120 giorni;

stoccaggio in idonei locali;marcatura a fuoco a fine stagionatura;confezionamento in involucro idoneo per l’avvio al mercato.

Art. 5Prova di origine

L’origine e la storia del pecorino Laticauda sono legate, senza ombra di dubbio, alle origini e alla storia della razza ovina Laticauda. La razza si è originata attraverso meticciamenti ed incroci casuali tra la razza locale, ascrivibile alla razza Appenninica, e la razza Berbera o Barbaresca di origine Nord-Africana con la quale ha in comune parecchie caratteristiche tra cui la coda grassa, adiposa ed espansa alla base; caratteristica, questa, che ha dato origine al nome Laticauda (lata= larga; cauda= coda). L’allevamento di questo ovino ha assunto nel tempo sempre maggiore importanza per le aziende agricole della zona collinare e montane delle province di Avellino, Benevento e Caserta.

L’ovino Laticauda, seppur presente da diverso tempo nelle aziende agricole della zona di Ariano Irpino e Benevento, in numero 3-4 capi per azienda, fu elevata a rango di razza dall’applicazione della legge n. 853, meglio conosciuta come “Piano Carni della Cassa per il Mezzogiorno”, introdotto negli anni ’60-’70.

Nel contesto etnografico degli ovini allevati in Italia essa si pone come una delle realtà produttive più significative e più interessanti per le sue molteplici attitudini.

Art. 6Legame con l’ambiente

È noto che il latte ovino, ancor prima di quello bovino, è stato, durante i secoli, utilizzato quale materia prima per la produzione dei formaggi. L’uso del “pecorino classico”, con il suo caratteristico gusto forte, trova da sempre le proprie radici nelle abitudini alimentari degli abitanti delle zone di montagna e collinari, dove i greggi trovano la loro naturale collocazione. L’aspetto principale che influenza sensibilmente la produzione lattifera della pecora è senza dubbio l’ambiente, l’alimentazione; tutto questo fa supporre che il Centro-Meridione e in particolare la Campania, per la sua specifica vocazione ambientale, ha ottime attitudini per gli allevamenti ovini.

Benché non esista uno standard qualitativo e quantitativo per la caseificazione , i formaggi più comuni in queste zone appartengono al tipo incanestrato. La loro origine, che si perde nella notte dei tempi, è legata all’uso di particolari cestelle di giunco, dette canestre, abilmente lavorate e frutto di una lunga e tramandata tradizione. Nel panorama dei pecorini tradizionali della Regione Campania spicca per rigorosa tipicizzazione, legata alle particolari caratteristiche ambientali, il formaggio ottenuto con la lavorazione del latte della pecora Laticauda.

L’area in cui si è diffusa la razza Laticauda è rappresentata dalle zone collinari e montane medio-basse. L’adattamento di questa razza a queste zone è stato favorito da una caratteristica somatica del fenotipo – la coda grassa – caratteristica questa ereditata dagli ovini Nord-Africani. La conformazione somatica della coda conferisce all’animale una maggiore rusticità (capacità al costruttivismo); infatti, la larghezza della coda è dovuta a un accumulo di grasso, che si realizza durante il periodo di pascolo abbondante e rappresenta una riserva da utilizzare nei periodi di carenza alimentare pabulare. Per la presenza di arti sottili rispetto alla mole per il peso corporeo (caratteristica delle razze da carne) questo tipo genetico ha scarsa attitudine alla transumanza; pertanto, è più versato per un allevamento prevalentemente di tipo semi-brado.

L’identificazione delle zone di allevamento è da ricercarsi nelle aree collinari delle province di Avellino, Benevento e Caserta.

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Art. 7Struttura di controllo

L’accertamento della sussistenza delle condizioni tecniche di idoneità e i relativi controlli, di cui all’art. 10 del Reg. CEE 2081/92, saranno effettuati ai sensi delle normative vigenti da un organismo privato di controllo appositamente autorizzato a da autorità pubbliche designate.

I caseifici idonei alla produzione della DOP “Pecorino di Laticauda Sannita” sono iscritti in un apposito registro, attivato, tenuto e Aggiornato dall’Organismo di cui al comma precedente. Questo Organismo per procedere all’iscrizione è tenuto a verificare, anche attraverso specifici sopralluoghi, il possesso da parte del caseificio dei requisiti richiesti per l’iscrizione.

Art. 8Etichettatura e commercializzazione

Il prodotto ammesso a tutela, all’atto dell’immissione al consumo, deve avere le seguenti caratteristiche:(a) forma: cilindrica con presenza di sagomature sulla superficie esterna dipendenti dal tipo di contenitore

impiegato;(b) peso della forma intera a seconda delle seguenti tipologie:

(i) formaggio fresco: pezzatura non superiore a 500 g;(ii) formaggio semi-stagionato: pezzatura non superiore a 1 kg;(iii) formaggio stagionato: pezzatura non superiore a 2,5 kg.

(c) crosta: sottile di colore giallo arancio nel formaggio stagionato;(d) pasta: omogenea, compatta, priva di occhiature, di colore bianco o giallo arancio con una tonalità più intensa

all’esterno;(e) sapore: aromatico, piacevole, fusibile in bocca, con un caratteristico e sottile richiamo al gusto della mandorla

con note piccanti a maturazione avanzata;(f) grasso della sostanza secca non inferiore al 40% per il formaggio fresco e 50% per i formaggi semi-stagionato

e stagionato;(g) può essere commercializzato anche previo sezionamento o porzionatura, o grattugiato, o conservato in recipienti

di vetro in olio di oliva extra vergine;(h) sulla confezione contrassegnante il marchio DOP, o sulla etichetta apposta sulla stessa, devono essere riportate,

a caratteri di stampa chiari e leggibili, delle medesime dimensioni, le seguenti indicazioni:(i) “Pecorino di Laticauda Sannita” e Denominazione di Origine Protetta o la sua sigla DOP;(ii) il nome, la ragione sociale e l’indirizzo dell’azienda confezionatrice e/o produttrice;(iii) la quantità di prodotto effettivamente contenuto nella confezione espresso in conformità alle norme

vigenti.Dovrà figurare, inoltre, il simbolo grafico di cui all’allegato A, relativo all’immagine artistica del logotipo specifico

e univoco da utilizzare in abbinamento inscindibile con la DOP e il contrassegno di cui all’allegato B.Il controllo del corretto utilizzo della DOP: “Pecorino di Laticauda Sannita” per i prodotti elaborati e/o trasformati

potrà essere delegato dall’Organismo di controllo ad altro Organismo autorizzato secondo le stesse norme di cui al primo comma del precedente art. 7.

Alla DOP di cui all’art. 1 è vietata l’aggiunta di qualsiasi qualificazione aggiuntiva diversa da quelle previste dal presente disciplinare, ivi compresi gli aggettivi: tipo, gusto, uso, selezionato, scelto e similari.

È, tuttavia, consentito l’uso di indicazioni che facciano riferimento alle aziende, nomi, ragioni sociali, marchi privati di consorzi, non aventi significato laudativo e non idonee a trarre in inganno l’acquirente.

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allegati145

Art. 9Tecniche di allevamento e alimentazione

L’alimentazione delle pecore Laticauda, il cui latte è destinato alla produzione di formaggi, si basa sull’utilizzazione di foraggi locali, il che consente di mantenere vivo l’indivisibile rapporto che lega il prodotto al territorio; a tal fine si dispone che:

l’allevamento deve essere condotto evitando il sistema di stabulazione fissa;(a) i foraggi utilizzati devono essere di provenienza aziendale e/o provenire dal comprensorio di cui all’art. 3;(b) l’alimentazione di base, costituita da foraggi, può essere integrata con mangimi in grado di bilanciare solo gli (c)

apporti in proteine, minerali e vitamine;l’areale del pascolamento tipico della Laticauda deve identificarsi con le zone di cui all’art. 3;(d) l’integrazione della razione alimentare, per q. b., proveniente da aziende agricole ricadenti nei territori di cui (e)

al precedente art. 3, deve essere composta da fieni derivanti da prati polifiti e/o da trifoglio, e/o da sulla, e/o da erba medica, e/o da loietto e da cereali schiacciati e/o sfarinati.

Acqua di bevandaÈ necessario che le fonti di abbeverata siano facilmente accessibili agli animali e che l’acqua sia priva, al controllo

visivo, di alghe e di altri elementi estranei.Alimenti il cui impiego è vietato:

mangimi ottenuti da colture geneticamente modificate, secondo la normativa comunitaria vigente;(a) insilato di ogni genere, ivi compreso il pastone;(b) foraggio in fermentazione, anche se appassito; foraggio trattato con additivi per migliorarne la (c)

conservabilità;colza, ravizzone, senape, fieno greco, foglie di piante da frutto e non, aglio selvatico, coriandolo;(d) ortaggi in genere (cavoli, rape, patate, pomodori, ecc.) ivi compresi scarti, cascami e sottoprodotti vari allo (e)

stato fresco e conservato;frutta fresca e conservata nonchè tutti i sottoprodotti della frutta;(f) trebbie fresche di birra, distiller, borlande, vinacce, raspi e altri sottoprodotti umidi provenienti dall’industria (g)

birraia, enologica, saccarifera e delle distillerie;tutti gli alimenti di origine animale ed i vari sottoprodotti della macellazione compresi i grassi di origine (h)

animale e vegetale;sottoprodotti della lavorazione del riso; del pomodoro e della frutta;(i) urea e derivati; Sali di ammonio;(j) antibiotici e qualsiasi prodotto attivo e additivo non ammesso dalla vigente normativa nazionale e (k)

comunitaria.

Art. 10Prodotti derivati

I prodotti per la cui preparazione è utilizzata la D.O.P. “Pecorino di Laticauda Sannita”, anche a seguito di processi di elaborazione e di trasformazione, possono essere immessi al consumo in confezioni recanti il riferimento a detta denominazione senza l’apposizione del logo comunitario, a condizione che:

il prodotto, certificato come tale, costituisca il componente esclusivo della categoria merceologica di •appartenenza;

gli utilizzatori del prodotto siano autorizzati dai titolari del diritto di proprietà intellettuale conferito dalla •registrazione della D.O.P. “Pecorino di Laticauda Sannita”riuniti in Consorzio incaricato alla tutela dal Ministero delle Politiche Agricole. Lo stesso Consorzio incaricato provvederà anche a iscriverli in appositi registri e a vigilare sul corretto uso della denominazione di origine protetta. In assenza di un Consorzio di tutela incaricato le predette funzioni saranno svolte dal MiPAF in quanto autorità nazionale preposta all’attuazione del Reg. 2081/92.

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146le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

L’utilizzazione non esclusiva della D.O.P. “Pecorino di Laticauda Sannita” a denominazione di origine protetta consente soltanto il riferimento alla denominazione, secondo la normativa vigente, tra gli ingredienti del prodotto che lo contiene, o nel quale è trasformato o elaborato.

Art. 11Logotipo

Il simbolo grafico, della D.O.P. “Pecorino di Laticauda Sannita”, di cui all’allegato A, è rappresentato da un’immagine di forma ovale, all’interno del quale, sono raffigurati, procedendo dall’alto verso il basso: un paesaggio montano con un pascolo ed in primo piano una pecora ed una forma di pecorino.

Gli indici colorimetrici sono i seguenti:illustrazione in quadricromia;•cornice esterna dell’ovale e parte del retro della fascia: PANTONE GREEN 354 (quadricromia: 91% cyan + •

83% giallo);fascia con la denominazione del prodotto e la parola D.O.P.: PANTONE RED 032 (quadricromia: 91% cyan •

+ 87% giallo);la denominazione del prodotto“Pecorino di Laticauda Sannita”: in negativo bianca sulla fascia rossa.•

All’atto della sua ammissione al consumo Formaggio semi-stagionato e il Formaggio stagionato a denominazione di origine controllata “Pecorino di Laticauda Sannita” deve recare impresso termicamente, sulla superficie esterna di ogni singola forma, con figurazione lineare o puntiforme, il contrassegno di colore nero del PANTONE BLACK, di cui all’allegato B, che costituisce parte integrante del presente disciplinare.

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L’area di origine e di allevamento E. Castellana, E. Ciani, D. Cianci

L’origine della razza ovina Leccese sembrerebbe ri-salire alla razza asiatica o siriana del Sanson (Ovis ari-es asiatica) e più propriamente alla sottorazza chiamata Zackel dai Tedeschi e Tzourkana dai Rumeni (Pacces et al. 1878, cit. da Ferrante, 1966; Mannarini, 1912, cit. da Visicchio, 1931; De Paolis, 1954). Dalla primitiva ed unica razza si sarebbero originate in seguito due sotto-razze: la «Altamurana» (anche detta «Moscia Barese» o «della Murgia»), a vello e faccia completamente bianchi e la «Leccese» (conosciuta anche come «Moscia Lec-cese» o più semplicemente «Moscia»), a faccia ed arti neri (Jovino, 1930; Visicchio, 1931; Ovile Nazionale di Foggia, 1932). Questa ultima sottorazza, della qua-le esistono soggetti completamente neri anche nel vello, deriverebbe dalla Moscia primitiva per selezione contro la ipericodermatosi, dermatite da fotosensibilizzazione provocata dalla ingestione di Hypericum triquetrifotium Turra o H. crispum L. (Montemurro, 1963), localmente detto «fumolo». È stato infatti osservato che i soggetti con faccia ed arti pigmentati sono relativamente resisten-ti all’affezione suddetta (Jovino, 1930; Pepe, 1946) .

La razza Leccese ha una lunga tradizione di alleva-mento nell’area salentina; selezionatasi nelle aree più povere del Salento, ha visto periodi di particolare atten-zione ed espansione per le sue doti di rusticità, ma anche per la buona attitudine alla produzione del latte, che, nei decenni passati, le avevano fatto prendere il sopravvento sull’Altamurana anche nell’area murgiana, malgrado le meno pregevoli qualità della lana.

Fino ai primi anni ‘80, sia per la sua consistenza che per l’entità delle sue produzioni, la pecora Leccese rap-presentava una delle popolazioni di maggiore interesse del meridione peninsulare d’Italia. L’aumento dei costi di produzione e la riduzione del tornaconto economico degli allevamenti di questa razza, da anni ha spinto gli allevatori a cercare soluzioni che potessero dare maggio-

ri soddisfazioni ai propri bilanci, attraverso le espressio-ni quantitative della produzione del latte e della carne. L’introduzione per frazioni di sangue di razze alloctone (Bergamasca, Delle Langhe, Frisia) determinò la com-parsa di un tipo morfo-funzionale a taglia grande (detto Leccese del Capo o Capuana), ben distinto dalla iniziale pecora Leccese a taglia piccola, poi evolutosi, per i con-tinui meticciamenti, nella Leccese a taglia media che in seguito sostituì entrambe le tipologie precedenti (taglia piccola e grande) delle quali oggi permangono solo alcu-ni soggetti in pochissimi allevamenti. La scomparsa del-la pecora a taglia grande è stata provocata principalmen-te dalla sua minore capacità di adattamento all’ambiente alimentare e nosologico; mentre, rispetto alla taglia ori-ginaria, le nuove tipologie (taglia grande e media) garan-tivano un agnello allo svezzamento di maggior peso, ma anche una più elevata produzione di latte.

In alcune zone del Brindisino e della Provincia di Bari (Fasano, Ostuni, Ceglie, Monopoli, Putignano, Gioia del Colle) il miglioramento dell’attitudine alla produzione è stato tentato attraverso l’incrocio della pecora leccese con l’ariete montenegrino, a volte con il bergamasco ma anche con il Gentile di Puglia, portando alla formazione, soprattutto nella zona di Fasano, di una popolazione me-ticcia che da alcuni era stata considerata razza col nome di fasanese.

In seguito le risposte economiche non soddisfacenti hanno determinato anche per la pecora Leccese un rapi-do decadimento demografico dovuto all’introduzione di animali di altre razze di varie provenienze (soprattutto Sarda e Comisana); molti degli allevamenti che hanno conservato una base leccese hanno praticato incroci e meticciamenti con queste razze, provocando una violen-ta deformazione dell’originale genotipo; e come per la pecora Altamurana sono state troppo spesso trascurate e sottovalutate le proprietà qualitative del latte, migliori rispetto a quelle delle razze di nuova introduzione.

la razza leccese

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148le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

Caratteristiche principali dell’allevamento ovino del Salento

E. Castellana, E. Ciani, D. Cianci

Il peso delle aziende con allevamenti ovi-caprini sul totale delle aziende agricole è medio basso e con ampia variabilità, ma il carico di bestiame è, nella media, supe-riore alla media nazionale. Sebbene la loro presenza sul territorio rivela aree con la maggiore concentrazione so-prattutto sulle colline del sud barese e nelle aree salenti-ne a sud di Otranto, oggi il mantenimento del patrimonio ovino è reso sempre più difficile a causa della difficoltà nel reperimento di manodopera disponibile a dedicarsi all’attività armentizia e della scomparsa di piccole azien-de, a prevalente attività pastorale sui terreni marginali, gestite direttamente con manodopera familiare.

I pascoli del Salento sono estesi ma poco ricchi di essenza pabulare; in genere presentano una vegetazione migliore della Murgia riservata all’Altamurana, ma pur sempre a modesto sviluppo a causa del regime pluvio-metrico cui soggiace la regione, dello spessore del ter-reno e della dispersione dell’acqua nel sottosuolo. L’al-levamento è generalmente a carattere semibrado, ma il

ciclo vegetativo del pascolo è molto breve e spesso il gregge viene condotto al pascolo solo per fare ginnastica motoriaLa consistenza totale attuale di ovini e caprini nell’area salentina è di circa 52 mila capi, ma l’alleva-mento della pecora moscia è stato quasi completamente sostituito con razze a più spiccata vocazione lattifera, Sarda e Comisana soprattutto. La Moscia Leccese inte-ressa in linea di massima le province di Brindisi, Lecce e Taranto ed in particolare il territorio della penisola Sa-lentina e parte dei rilievi collinosi dell’arco Jonico, ma, negli ultimi decenni, si è estesa alle province di Bari, Matera e Potenza. Avendo subito gravi attentati geneti-ci, dai circa 200.000 capi censiti negli anni ’50, la razza ovina Leccese è oggi ridotta a poco più di 10 allevamenti e non più di 2000 capi. Eppure ancora negli anni ’50 se ne vantavano le caratteristiche di rusticità e di bontà qualitativa delle produzioni, che gli allevatori ricordano volentieri ancora oggi. Attualmente la consistenza media delle greggi oscilla tra i 70 e i 150 capi, ma esistono, ed anzi sembrano in aumento allevamenti di dimensio-ni maggiori. Le favorevoli condizioni di mercato della

Figura 1. Evoluzione del patrimonio di razza Lecce-se.

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la razza leccese149

carne ovina e del prodotti della trasformazione del latte possono far ipotizzare una prossima ripresa.

L’ecosistema dell’area di allevamento V. Marzi, L. Tedone, M. Fracchiolla, E. Castellana

II Salento è la subregione geografica più meridionale della Puglia, comunemente detta penisola salentina per-ché protesa nel mare tra il golfo di Taranto ed il canale d’Otranto. Si estende su una superficie di circa 5.800 Kmq, pari a circa il 30% della superficie regionale, e comprende tutta la provincia di Lecce, una buona parte di quella di Brindisi, escludendo l’area collinare murgio-sa, e la parte orientale della provincia di Taranto, tra il capoluogo ed il comune di Avetrana, al limite del confine con la provincia leccese. La penisola salentina, parten-do dagli ultimi rilievi collinari murgiosi del brindisino, che degradano dolcemente verso la pianura messapica, si estende quasi tutta pianeggiante, andando a costitui-re l’ampio “Tavoliere di Lecce”. Fanno eccezione nella

parte estrema della penisola le cosiddette “serre salen-tine”, costituita da tre linee di bassa altura, convergenti verso il Capo di Leuca, che non superano i 200 m di altezza. La posizione geografica, la presenza del mare e la situazione pianeggiante sono i principali fattori che contribuiscono ad una mitezza del clima, di cui l’aridità estiva è l’unico elemento negativo.

a) Le caratteristiche pedologiche Per quanto riguarda la situazione pedologica, la pe-

nisola salentina è caratterizzata da un territorio alquan-to composito che alterna superfici sub-pianeggianti ai rilievi calcarei delle serre salentine, impostati lungo la direttrice appenninica. Nel primo caso si fa riferimen-to alle aree localizzate tra Lecce e Brindisi, identificate da una superficie pianeggiante solcata da un reticolo di drenaggio non inciso ed attualmente non attivo. I ban-chi di calcare compatto, nel convergere verso la pianura messapica alla contigua pianura leccese, affondano sot-to uno strato di terreni terziari e quaternari, riaffiorando

Figura.2. Consistenze provinciali della razza Moscia Leccese.

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150le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

qua e là lungo tutto il Salento. Pertanto, si riscontra una elevata variabilità nello spessore dei terreni agrari, in al-cune zone profondi anche fino ad oltre 100 cm, in altre di modesto spessore tra 20 e 40 cm ed in altre con roccia affiorante e strato coltivabile molto superficiale di 15-20 cm. Le serre prevalgono nella porzione meridionale di questi territori e sono costituite da rilievi calcarei o calcareo-dolomitici stretti ed allungati in una direzione NNO-SSE, intervallati da solchi erosivi pianeggianti.

Fondamentalmente due sono i principali tipi di terreni presenti nel Salento, uno proveniente dal disfacimento del calcareo cretaceo, l’altro dal disfacimento del banco tufaceo calcareo del pleistocene. I primi, comunemente noti con il nome di “terre rosse”, il cui colore è dovu-to all’elevata presenza di sesquiossido di ferro, di va-rio spessore, ma quasi sempre ridotto, in media intorno ai 30-40 cm, poggianti direttamente sul substrato più o meno fratturato dalla roccia calcarea. I secondi su tufi, provenienti da calcari arenacei, costituiti da sabbia cal-carea dura mista a frammenti: fossili bianchi, giallastri o rosso-giallastri, originatisi dal disfacimento del calcare cretaceo ad opera del moto ondoso costiero. I tufi pu-gliesi, differenti per colore, struttura, porosità e durezza danno luogo a varietà di pietra locale, ma ben definiti nella qualità, con i nomi di “mazzaro” e “scorzo” se più leggeri e teneri, di ‘’carparo” se rosso-giallastro, più duri e pesanti. I terreni agrari, formatisi su di essi, derivano dal detrito tufaceo, più o meno mescolato a terra rossa dei calcari cretacei e presentano caratteri diversi, a se-conda della percentuale delle componenti, di “sfatticcio tufaceo” (terra tufigena) e di “terra rosa”, o intermedia tra i due. Pertanto, per quanto riguarda il colore, i terre-ni variano dal grigio al gialliccio, quando predomina lo sfatticcio tufaceo, dal rossiccio al rosso-bruno, quando prevale il materiale residuale del calcare cretaceo. Nel complesso, i terreni del Salento, sotto il profilo delle caratteristiche agronomiche, possono considerarsi di discreta potenzialità produttiva non tanto per i requisi-ti chimico-fisici, ma soprattutto per lo strato coltivabi-le spesso poco profondo e mediamente, intorno ai 30-40 cm, a volte molto superficiale con roccia affiorante. Nella parte adriatica del Salento centro-meridionale vi sono terre che ricoprono sabbioni argilloso-calcarei, co-nosciuti come “pietra leccese”, non molto dure e di va-riabile permeabilità. Dal punto di vista agronomico sono abbastanza fertili, per la loro struttura e composizione, le terre su tufo e le sabbie argillose; sono poco fertili le sab-bie, le argille marnose e i terreni alluvionali sabbiosi.

b) Il climaIl clima dell’area della pecora leccese, la penisola sa-

lentina stretta e protesa nei due mari, l’Adriatico e lo Io-nio, che esercitano un indubbio effetto termo-regolatore, presenta una situazione climatica abbastanza uniforme, anche per l’andamento pianeggiante del territorio. Lievi differenze si riscontrano tra i due versanti costieri; quello ionico ha una temperatura media annuale di circa 1°C su-periore a quella del versante adriatico e di 2°C superiore a quella della parte centrale del Salento La temperatura media annuale del Salento e di 16,5°C con oscillazioni tra valori massimi di 17,0°C lungo la costa Jonica ed adriatica e minime di 15,5 dell’alto Salento di Brindisi e la parte più alta della provincia di Taranto. I mesi più freddi sono dicembre, gennaio e febbraio, con tempe-ratura media di 9,1, 9,8 e 10,9 °C; i più caldi giugno, luglio ed agosto, con temperatura media di 22,2, 24,6 e 25,0°C. Il mese più freddo è gennaio, il più caldo ago-sto. Tenendo presente che le ondate di freddo possono verificarsi entro un ampio periodo, da dicembre a marzo, è evidente che in tutti gli anni si registrano temperature inferiori allo 0°C, anche se di minima durata. Le tempe-rature massime nel mese di agosto possono raggiunge-re valori intorno ai 40-42°C. Per quanto riguarda l’altra fondamentale caratteristica climatica, la piovosità, nel Salento essa si aggira in media intorno ai 650 mm, con oscillazioni tra valori massimi di 750 mm nelle zone estreme del basso Salento e valori minimi di 500 mm lungo la costa jonica tarantina, con un periodo piovoso in autunno-inverno con precipitazioni mensili anche di 60-90 mm ed un periodo siccitoso in estate con preci-pitazioni mensili di 20-30 mm. Nel Salento si riscontra pertanto una piovosità lievemente maggiore rispetto alla media regionale, particolarmente accentuata nel versan-te del basso Adriatico. Pur tuttavia, ai fini dei fabbisogni idrici delle colture agrarie, il periodo siccitoso si estende dalla fine di aprile all’inizio di settembre. L’area di alle-vamento della pecora Leccese, essendo priva di rilievi montuosi, è molto ventosa sia in inverno (dal maestrale del Rodano alla bora dell’alto Adriatico) che in estate (venti sud-occidentali caldi), con una velocità media an-nua intorno ai 3 m/s, compresa tra valori estremi di 2 e 6 m/s, che ha una certa influenza sulle colture e nell’ac-centuare il fenomeno evapotraspirativo.L’andamento dell’evapotraspirazione mensile è stimata intorno a 1,1-1,7 mm/giorno nei mesi freddi da dicembre a febbraio, intorno a 2,5 - 4,9 mm/giorno nel periodo aprile-maggio, intorno a 7,0-7,8 mm/gior no nel trimestre più caldo di

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la razza leccese151

giugno-agosto, per poi ridursi a 1-5 mm/giorno in au-tunno. Nel complesso, l’evapotraspirazione annua totale si aggira intorno ai 1000 mm, con un deficit idrico cli-matico intorno a 300-400mm/anno. Le alte temperature estive e la scarsa piovosità qualificano il Salento come area ad elevato “indice di aridità”.

c) L’ ecosistema pabulare In virtù di tale situazione pedoclimatica, la vegeta-

zione spontanea del Salento e dell’arco ionico tarantino nella linea ideale che unisce Taranto con Brindisi è con-traddistinta dalla presenza di due tipi di vegetazione cli-matogena: il Quercetum-ilicis e l’Oleo-lentiscum. Il pri-mo comprende i boschi a prevalenza di Quercus ilex che, con varie facies, ricoprono le propaggini più meridionali delle Murge, in cui il leccio si mischia alla roverella e al fragno; l’area delle gravine di Taranto, dove si rinven-gono elementi a foglie caduche dell’ Orno-Quercetum ilicis, e tutto il Tavoliere di Lecce, in cui i relitti di lec-cete sono costituiti da specie appartenenti alla classica cenosi del Viburnum-Quercetum ilicis. La degradazio-ne delle leccete, dovuta ai disboscamenti, agli incendi e al pascolo, origina in molti casi formazioni vegetali secondarie, in cui predominano le screlofille semprever-di; tali formazioni, denominate macchie e garighe, sono comuni soprattutto lungo le aree costiere, in presenza di substrati calcarei in cui, per effetto dei frequenti incen-di, riescono a sopravvivere specie acidofile come il cor-bezzolo, l’erica e il cisto. Tali condizioni favoriscono la transizione verso un tipo di vegetazione più termofila, caratterizzata dalla presenza dell’olivo selvatico (Olea europea var. sylvestris), del carrubo (Ceratonia siliqua) e del lentisco (Pistacia lentiscus); significativa in que-sta area la presenza di Pinus halepensis, specie forestale di cui è dubbio l’indigenato in Puglia, che ripropone il paesaggio vegetale tipico delle isole iugoslave del bas-so Adriatico. Frequentemente le pinete si presentano in stato di degrado per l’eccessiva densità degli individui arborei e formano popolamenti quasi monospecifici. Infine, proseguendo verso la punta della penisola sa-lentina, riprendono a dominare i coccifereti. Un’analisi storica del Salento evidenzia che all’inizio dell’Otto-cento il pascolo occupava una percentuale notevole del territorio. In particolare molto elevata è l’incidenza del pascolo lungo l’arco ionico-tarantino, con percentuali superiori al 40%, e punte del 60% nei comuni di Nardò, Manduria, Avetrana e, sul versante adriatico, nell’agro di Brindisi, zona caratterizzata fra l’altro da aree paludose.

Continuando verso sud, lungo l’adriatico, i territori di Otranto e Melendugno presentano notevoli superfici a pascolo. Nelle aree a maggiore incidenza del pascolo, notevole era la presenza delle “macchie”, definite come “terre incolte non boscose che volgarmente chiamansi macchiose perché vestite di piante di non alto fusto”, de-stinate al “pascolo delle greggi delle masserie alle qua-li appartengono”. È importante notare come i maggiori cambiamenti si siano avuti ove maggiore era la presenza di queste aree. Una bassa incidenza dei pascoli risulta nei comuni circostanti il territorio di Lecce, i comuni della zona più a sud del territorio salentino, i comuni adiacenti al territoro di Taranto (Pulsano, Lizzano, Ave-trana, Leporano, etc.). Nello stesso periodo il seminativo semplice era abbastanza diffuso, con media intorno al 45%, ma non risultava uniformemente distribuito da una zona all’altra e, talvolta, da un territorio comunale ad un altro confinante. In generale è possibile riconoscere un’area compresa tra Santa Cesarea Terme e Soleto, una zona circostante i comuni di Brindisi e comprendente i comuni di Mesagne, Latiano, San Vito dei Normanni, San Michele Salentino e Campi salentina, Torchiarolo, i comuni di Roccaforzata, Leporano, Lizzano, nel terri-torio di Taranto, ove l’incidenza dei seminativi superava il 70% (Fig.9). In tutto l’Ottocento si evidenzia uno sta-to di modesto sviluppo dell’attività agricola, limitata ad una economia di tipo cerealicolo-pastorale, incentrata su aziende medie e di grandi dimensioni, il cui fulcro è la tipica “masseria contadina”, impegnata nell’attuare più colture. Lo stato di abbandono, inoltre, è la causa della presenza di zone paludose e malariche, sia lungo le coste pianeggianti del versante adriatico e di quello ionico, sia nelle zone più interne. Solo più tardi, a partire dal pri-mo trentennio del Novecento si assiste ad un periodo di grande sviluppo delle colture legnose specializzate: non solo oliveti e vigneti, ma anche ficheti e frutteti (presen-za dominante nei giardini variamente diffusi intorno ai centri abitati della provincia). Rispetto a questa situazio-ne, dal 1929 i cambiamenti più significativi riguardano i pascoli, che subiscono una drastica riduzione, passan-do da medie superiori al 25%, a medie inferiori al 10% Interessante è considerare il discorso dei seminativi: il valore medio si attesta intorno al 40%, con casi di avan-zamento a Nardo, San Cesario e Cavallino, risultando la coltura sostitutiva dei pascoli. Nel Basso Salento, a sud di Lecce, invece, il seminativo subisce una drastica ridu-zione attestandosi al di sotto del 20%, in particolare nella zona ad est e a sud di Gallipoli. Questa zona diventa una

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zona a forte incidenza delle legnose, che raggiungono fino all’80% della SAU. Infatti, prendendo in esame la struttura dell’azienda agricola si osserva che essa è estre-mamente polverizzata: circa il 54% è costituita da unità inferiori all’ettaro, mentre appena il 3,1% è superiore a 10 ettari. In questa situazione, la conduzione è prevalen-temente diretta del coltivatore, che si serve di manodo-pera familiare con scarso ricorso a salariati. Si assiste, inoltre, ad un processo di senilizzazione degli operatori agricoli, la cui età media per circa il 60% è superiore ai 55 anni, mentre è molto basso il numero di quelli con età inferiore ai 40 anni, a conferma di uno scarso ricambio generazionale, importante per la continuità delle attività agricole.

Per completare l’analisi degli indirizzi produttivi del Salento è da constatare la modesta diffusione delle col-ture foraggiere avvicendate, intorno ai 20 mila Ha, pur in presenza di ampie aree pascolative, a conferma del con-tinuo declino dell’attività zootecnica nel Salento. Nella categoria delle foraggiere, sono prevalenti gli erbai mo-nofiti e oligofiti a ciclo autunno primaverile; piuttosto modesti gli erbai estivi ed irrigui.

I caratteri di razza

Fino agli anni ’70 la pecora leccese era considerata razza a triplice attitudine: latte-carne-lana. La produzio-ne di latte era considerata buona (100-120 litri per capo per lattazione, di cui 70 circa destinati al caseificio e 40-50 poppati dall’agnello) e la produzione della carne pre-gevole, con agnelli di peso alla nascita intorno ai 3-3,5 Kg. e di l1-12 Kg alla macellazione, dopo un periodo di allattamento di 30-40 giorni. In misura ridotta si macel-lavano agnelloni di circa 6 mesi e 20-25 Kg. La lana, infine, era catatterizzata da una elevata percentuale dei filamenti fini che ne consentiva la duplice utilizzazione e cioè come lana per tessuti e come lana da materasso.

Ma già dalla fine degli anni ’60, alla razza ovina Lec-cese cominciarono ad essere attribuite migliori capacità per la produzione del latte, incoraggiandone soprattut-to questa attitudine (Cianci et al., 1968; Bufano et al., 1978), tanto che le norme tecniche del 1987 prevedono linee di miglioramento orientate principalmente alla pro-duzione del latte. Anche molti allevatori della pecora Al-

tamurana utilizzarono arieti leccesi per il miglioramen-to della attitudine lattifera delle proprie greggi (Bellitti et al., 1970; Bellitti et al., 1974; Montemurro e Cianci, 1976; Celi et al., 1978). L’odierna pecora Leccese è di mole media (65 kg circa nei maschi e 45 nelle femmi-ne), il vello è costituito da bioccoli conici, bianco nella maggior parte dei soggetti, nero in un numerolimitato. La testa ha profilo montonino ed è provvista di corna spiralate nei maschi; ha profilo rettilineo ed è acorne nel-le femmine. Anche nei soggetti a vello bianco esistono regioni (sterno-ventrale, orecchie ed arti) pigmentate.

Il peso degli agnelli a 90 giorni è di circa 23 kg nei maschi e 19 nelle femmine. La produzione media di latte è di 80 litri per lattazione con una percentuale di grasso di circa il 7%. La produzione di lana si aggira in media sui 2-3 kg, impiegata per la produzione di materassi e tappeti. L’indirizzo di miglioramento tende alla produ-zione del latte anche ai fini di un incremento della pro-duzione ponderale negli agnelli.

Norme tecniche allegate al disciplinare del Libro Ge-nealogico della Specie Ovina.

Lo standard e le norme tecniche della razza Leccese sono state approvate con D.M 22 aprile 1987, che ha re-cepito modifiche rispetto al D M del 1958. Qui di seguito si riporta il testo del 1987; sono evidenziate le variazioni rispetto al 1958

Caratteri tipici - Taglia: generalmente media con tendenza verso un

tipo più pesante. - Testa: leggera, allungata, asciutta con profilo mon-

tonino e frequente presenza di corna a spirale aperta nei maschi, acorne o quasi, con profilo rettilineo nelle fem-mine.

- Orecchie di media grandezza con portamento quasi orizzontale nei soggetti a taglia media ed alquanto pen-dente in quelli a taglia più pesante; peli tattili neri, rividi e radi lateralmente alla bocca.

- Ciuffo di lana mediamente corto in fronte.- Collo: di media lunghezza e sottile.- Tronco: lungo, con garrese di poco inferiore all’al-

tezza alla groppa.- Fianchi e costato piuttosto piatti; coda lunga e sotti-

le; mammella sviluppata, di forma globosa, bene attac-cata, con pelle fine e capezzoli consistenti.

- Arti: lunghi e dritti con appiombi regolari; unghielli compatti generalmente di colore scuro.

- Vello: bianco nella maggior parte dei soggetti, con

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la razza leccese153

variante a vello completamente nero in un limitato nu-mero di capi, aperto, costituito da bioccoli conici, con filamenti penduli di media lunghezza ed a volte ruvidi e grossolani; esteso per tutto il corpo lasciando scoperti gli arti, le regioni mammaria e scrotale, la faccia e la gola; lana corta e rada nella regione sterno-ventrale; e sul mar-gine inferiore del collo; presenza di peli nel sottovello.

- Pelle e pigmentazione: - nei soggetti a vello bianco: pelle di color rosa carnicino, con macchie nere o nera-stre e lana corta nera nella regione sterno-ventrale; pelo nero, raso, fitto e lucido sulla faccia con lieve depigmen-tazione sulle guance; orecchie e arti neri o fittamente picchiettati, questi ultimi generalmente coperti di pelo corto e lucido; lingua, palato ed aperture naturali total-mente o parzialmente neri; - nei soggetti a vello nero: pelo, lingua, palato ed aperture naturali totalmente neri o nerastri.

Caratteri riproduttivi - valori riferiti alle pecore adul-te

Fertilità (intesa come rapporto percentuale tra il nu-mero delle pecore partorite ed il numero delle pecore av-viate alla monta): 90%.

Prolificità (intesa come rapporto percentuale tra gli agnelli nati ed il numero delle pecore partorite): 125%.

Fecondità annua (intesa come rapporto percentuale tra gli agnelli nati ed il numero delle pecore matricine): 150%.

Cicli estrali per almeno 10 mesi; riduzione di fertilità nei 2 mesi più freddi.

Età media la primo parto: 16 mesi.Caratteri produttivi (razza a prevalente attitudine

alla produzione del latte):Latte: produzione media di razza - esclusi i primi 30

giorni

Caratteri biometrici:

Maschi FemmineMedia coeff. var. Media coeff. var.

Altezza al garrese, cm 73 5,3 66 3,6

Altezza alla groppa, cm 74 4,7 68 3,4

Altezza toracica cm 33 5,7 30 4,7

Larghezza media groppa, cm 23 5,7 30 4,7

Lunghezza tronco, cm 74 5,1 22 4,0

Circonferenza toracica, cm 93 5,1 68 4,0

Peso, kg 59 16,0 45 12,6

Carne

peso medio dei soggetti in kg (assente nel 1958)

Sesso PartoEtà

nascita 45 gg 90 gg 6 mesi 1 annoMaschio singolo 4,0 12,5 23 38 60

gemellare 3,2 10,0 18 33 48Femmina singolo 3,6 11,0 19 30 42

gemellare 2,8 9,0 17 26 40

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154le razze autoctone dell’italia meridionale continentale

Primipare litri 60 in 100 giorni Secondipare litri 80 in 180 giorni Pluripare litri 90 in 180 giorni percentuale media di grasso nella lattazione 7%;percentuale media di proteine nella lattazione 6,5%.

Carne: Lana: tosa annuale o due tose nell’anno con produzio-

ne media in sucido (assente nel 1958)Arieti Kg. 3,2 Pecore Kg. 2,1 Qualità mediamente ordinaria, adatta per materassi

e tappeti.

Indirizzo di miglioramento L’indirizzo produttivo è teso ad esaltare, in soggetti di

discreta mole, costituzionalmente robusti, corretti nella morfologia, precoci nello sviluppo e buoni utilizzato-ri dei pascoli murgiosi, l’attitudine alla produzione del latte e, subordinatamente, della carne. Il miglioramento, pertanto è impostato sulla selezione mediante l’accerta-mento delle capacità funzionali delle pecore nei confron-ti principalmente della produzione del latte e sull’impie-go di arieti capaci di trasmettere alla discendenza buoni caratteri morfo-funzionali. Il Comitato di Razza (CdR) definisce i metodi, gli strumenti e gli schemi operativi per realizzare gli obiettivi selettivi di cui sopra. Il CdR dispone inoltre annualmente la pubblicazione e la divul-gazione di liste di animali di particolare pregio cui gli allevatori facciano riferimento per la realizzazione di un più celere progresso genetico (assente nel 1958).

Iscrizione al libro genealogico L’iscrizione dei soggetti di razza Leccese ai diversi

registri del LG avviene secondo le modalità sotto ripor-tate ed in conformità alle norme dettate dal Disciplinare del LG.

Iscrizione al Registro Genealogico Giovane Bestia-me

Vengono iscritti al RGGB soggetti di età inferiore ad un anno:

Maschi: nati negli allevamenti del LG :da madre iscritta al RGP e da padre iscritto al RGA

oppureda madre iscritta al RGP e da seme conforme alle nor-

me previsteFemmine: nate negli allevamenti del LG :da madre iscritta al RGP e da padre iscritto al RGA

oppure da madre iscritta al RGP e da seme conforme alle norme previste

Iscrizione al Registro Genealogico Pecore Vengono iscritte al RGP le pecore provenienti dal

RGGB purché con giudizio di tipicità razziale e com-plessivo superiore a soglie definite dal relativo Comitato di razza (CdR) che abbiano partorito almeno una volta e che siano sottoposte a controllo funzionale con produ-zioni o valutazioni genetiche (se disponibile) superiori alle soglie definite periodicamente dal CdR.

Iscrizione al Registro Genealogico ArietiVengono iscritti al RGA gli arieti di età superiore a 8

mesi. L’iscrizione è permanente, ma l’abilitazione alla monta in LG è subordinata all’aggiornamento delle so-glie delle valutazioni genetiche periodicamente predi-sposte dal CdR.

Vengono iscritti gli arieti provenienti dal RGGB pur-ché con giudizio di tipicità razziale e complessivo su-periore a soglie definite dal CdR con valutazione gene-tica superiore ai minimi periodicamente predisposti dal CdR (se disponibile). Per l’impiego degli arieti in I.A., oltre a tutte le caratteristiche richieste per l’iscrizione al RGA, gli arieti devonol avere giudizio di tipicità razzia-le e complessivo superiore alla soglia stabilita dal CdR ed avere una valutazione genetica (se disponibile) per i caratteri oggetto di selezione superiore ai minimi definiti periodicamente dal CdR per l’uso in I.A.

Variazioni ai requisiti richiesti per l’iscrizione potran-no essere apportate su conforme delibera del CdR.

Difetti morfologici e genetici comportanti l’esclusio-ne dal LG

Difetti tollerabili in entrambi i sessi: assenza di ciuffo di lana in fronte; unghielli chiari; singoli e radi filamenti neri o nerastri nel vello bianco; lieve picchiettatura sulle guance, sulle orecchie e sugli arti tendenti al marrone; presenza di qualche macchia bianca sulle aperture na-turali, sul palato o sulla lingua; presenza di folto sotto-vello.

Difetti da eliminare in entrambi i sessi: ampia pig-mentazione sulle guance, sulle orecchie e sugli arti; lieve picchiettatura sulle guance, sulle orecchie sugli arti ten-denti al rossastro.

RicorsiNel caso di esclusione dall’iscrizione al LG, operata

da un esperto o ispettore di razza, è possibile ricorrere presentando domanda al CdR che, attraverso un’appo-sita Commissione, pronuncerà un giudizio finale insin-dacabile.

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Fig.1. Statuetta fittile raffigurante un ariete (III - II sec. a. C.; produzione apula; argilla con scialbatura in latte di calce. Museo Nazionale Jatta, Ruvo di Puglia, Bari; su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia).

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Fig. 2. Rhyton sagomato a testa di ariete (sec. IV a. C.; ceramica apula a figure rosse; Museo Nazionale Jatta, Ruvo di Puglia, Bari; su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia).

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Fig. 3. Rhyton sagomato a testa di ariete (sec. IV a. C.; ceramica apula a figure rosse; Museo Nazionale Jatta, Ruvo di Puglia, Bari; su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia).

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Fig. 4. Rhyta sagomati a testa di ariete (sec. V - IV a. C.; ceramica di origine attica a figure rosse; Museo Nazionale Jatta, Ruvo di Puglia, Bari; su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia).

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Fig. 6. Ovini di razza Altamurana al pascolo in agro di Altamura, Bari (foto 1967; Azienda Sante Moramarco, per gentile concessione del Dott. Nicola Dibenedetto).

Fig. 5. Pecore di razza Leccese fotografate presso l’antica masseria fortificata Baglivi di Vernole, Lecce (foto P. Bolognini, 1984; per gentile concessione del Sig. Franco Cazzella).

Fig. 7. Ovini al pascolo in agro di Altamura, Bari (foto anni ’70; per gentile concessione del Dott. Nicola Dibenedetto).

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Fig. 8. Pecora e ariete di razza Leccese (Azienda Sperimentale Cavone dell’Amministrazione Provinciale di Bari - Spinazzola, Bari).

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Fig. 10. A sinistra: ariete di razza Leccese (Allevamento del Sig. Franco Cazzella, Lecce). A destra: ariete di razza Leccese (immagine tratta dal materiale illustrativo relativo alla 6° mostra mercato interprovinciale di ovini di razza Leccese, tenutasi nel 1985 a Poggiardo, Lecce; per gentile concessione del Sig. Franco Cazzella).

Fig. 9. Ovini di razza Leccese (Allevamento Palanzano, del Sig. Domenico Rausa - Otranto, Lecce).

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Fig. 11. Ovini di razza Leccese (Allevamento del Sig. Luigi Longo – Maglie, Lecce).

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Fig. 13. Ovini di razza Leccese (Allevamento Pacella Coluccia Bianca – Eredi, di Giovanni e Luigi Zuccaro - Nardò, Lecce).

Fig. 12. Ovini di razza Leccese e capre di razza Jonica (Allevamento Pacella Coluccia Bianca – Eredi, di Giovanni e Luigi Zuccaro - Nardò, Lecce).

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Fig. 14. Tosa delle pecore (foto anni ’70; Azienda Pasquale Disanto, Altamura, Bari; per gentile concessione del Dott. Nicola Dibenedetto).

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Fig. 15. Pecore di razza Altamurana (Azienda Sperimentale Cavone dell’Amministrazione Provinciale di Bari - Spinazzola, Bari).

Fig. 16. Ariete di razza Altamurana (Azienda Sperimentale Cavone dell’Amministrazione Provinciale di Bari - Spinazzola, Bari).

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Fig. 18. Gregge di razza Gentile di Puglia (per gentile concessione dei F.lli Carrino, Lucera, Foggia).

Fig. 17. Pascoli murgiosi in agro di Spinazzola, Bari.

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Fig. 20. Pecora con agnello di razza Gentile di Puglia (per gentile concessione dei F.lli Carrino, Lucera, Foggia).

Fig. 19. Ovino di razza Gentile di Puglia (per gentile concessione dei F.lli Carrino, Lucera, Foggia).

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Fig. 21. Gregge di razza Gentile di Puglia (foto 1935; per gentile concessione dei F.lli Carrino, Lucera, Foggia).

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Fig. 23. Ovini di razza Laticauda (in alto) e di razza Bagnolese (in basso).

Fig. 22. Ovino di razza Gentile di Puglia (per gentile concessione dei F.lli Carrino, Lucera, Foggia).

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gLi aspetti quaLificanti

deLLe razze autoctone

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La resistenza genetica alle patologie endemicheF. Ambrosini, E. Ciani, E. Castellana, D. Cianci

La ricerca agro-zootecnica in Europa si pone da tem-po come obbiettivi:

- la conservazione delle risorse: del suolo, delle ac-que, dell’aria, dell’agro-biodiversità

- la qualità dell’ambiente: riduzione dell’inquinamen-to da rifiuti urbani, industriali, agricoli (deiezioni anima-li, residui di farmaci, di molecole zootecniche, di pesti-cidi, di fertilizzanti)

- il benessere animale: lotta alle patologie, tecniche di allevamento, ricoveri

- la qualità igienica dei prodotti: assenza di patogeni e di residui di farmaci, di molecole zootecniche, di pesti-cidi, di fertilizzanti

- le qualità nutrizionali e organolettiche dei prodotti.Tutti gli obbiettivi hanno una forte componente co-

mune riconducibile alla riduzione dell’impiego di far-maci in relazione al loro potere inquinante sull’ambiente, sui prodotti di origine animale nonché sulla rinnovabilità delle risorse e sul benessere animale. Per questi motivi, sempre maggiore interesse attrae nel mondo la possibi-lità di valorizzare le capacità degli animali di difendersi dai patogeni senza o con minore necessità di aiuti farma-cologici.

Negli ovini, i limiti di questi trattamenti si sono evi-denziati soprattutto in Australia dove la crescente resi-stenza dei parassiti agli antielmintici si è accompagna-ta alla fine degli anni ‘70 ad un aumento dei costi dei trattamenti (per aumento della frequenza dei trattamenti stessi e/o per la necessità di ricorrere a sostanze farma-cologiche sempre più efficaci e di nuova generazione e, quindi, dal costo più elevato) e ad un decadimento della qualità dei prodotti. Il fenomeno crescente della farma-co-resistenza, più ancora della preoccupazione di ridurre i residui delle molecole farmacologiche nei prodotti di origine animale e nell’ambiente, ha allarmato gli alleva-tori e nuove tecniche di controllo integrato sono in corso

in varie parti del mondo con l’obiettivo di conciliare la selezione di animali produttivi con la resistenza alle pa-rassitosi.

Il parassitismo è una forma di relazione comune tra le specie animali e può contribuire notevolmente a cre-are e mantenere la variabilità genetica di una specie. Nell’ospite ruminante la resistenza ai parassiti è definita come “inizio e mantenimento delle risposte provocate nell’ospite intese a sopprimere lo stabilirsi del parassita e/o eliminare il carico parassitario”. Esso è sotto control-lo genetico a livelli diversi: specie, razze, linee e indivi-dui possono manifestare propri comportamenti.

Il parassita è un organismo complesso e la variabili-tà genetica, come per l’ospite, ne assicura l’adattamento all’ambiente e, quindi, la sopravvivenza anche in pre-senza di risposte immunitarie dell’ospite o di trattamen-ti antielmintici. Alcune ipotesi sono state formulate per spiegare l’adattamento del parassita, tra le quali la modi-ficazione del proprio comportamento antigenico o la co-pertura della funzione antigenica con proteine dell’ospi-te. Vi è quindi una evoluzione parallela dell’ospite e del parassita che porta ad un equilibrio dinamico che bilan-cia la patogenicità del parassita con la ridotta disparità antigenica tra ospite e parassita (Dineen, 1963, 1978) e mantiene la variabilità genetica sia all’interno della po-polazione ospite che del parassita.

La gran parte delle specie animali selvatiche sono re-sistenti, geneticamente, a quasi tutte le specie di patogeni endemiche dei propri ambienti di vita. Il rapporto ospite/parassita è infatti controllato in natura dalla interazione tra i genotipi dell’ospite e quelli dei patogeni che riesco-no a vivere e riprodursi; i patogeni cercano infatti per via selettiva di trovare un equilibrio con le espressioni geni-che di resistenza del proprio ospite. In questo dualismo, la prevalenza del patogeno o dell’ospite è incerta per la variabilità dei genotipi dell’una e dell’altra parte, condi-zione questa essenziale per la sopravvivenza dell’ospite ma anche del patogeno.

La domesticazione e la selezione delle specie zootec-niche hanno alterato le relazioni tra ospite e patogeno,

l’adattamento all’ambiente

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180gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

spesso in favore di quest’ultimo, così che le specie al-levate sono oggi più suscettibili alle patologie infettive ed infestive; in generale, tuttavia, esse conservano livel-li di variabilità genetica nei confronti della risposta ai parassiti tali da consentire l’ipotesi di implementazione di metodi di lotta genetica. Bisogna, tuttavia, conside-rare l’interazione tra ospite e patogeno in un contesto evolutivo globale nel quale sono compresi i caratteri di resistenza e quelli di produttività. L’ospite ed il parassita devono evolversi insieme, perché il parassita deve adat-tarsi alle variazioni genetiche imposte dai programmi di allevamento.

Nel settore veterinario, le vie allo studio a livello in-ternazionale per il controllo blando delle patologie sono molteplici e vanno dalla lotta genetica (selezione di linee resistenti) alla fitoterapia, alla agopuntura e alla omeo-patia. La lotta genetica, praticata da tempo per alcune malattie infettive (tubercolosi, brucellosi in particolare), oggi può trovare spazio per altre patologie infettive ed infestive. In alcuni Paesi c’è già la tendenza a potenziare il rendimento dell’allevamento con il minimo intervento veterinario, riducendo le perdite di animali e/o di pro-duttività attraverso la scelta di genotipi resistenti o co-munque capaci di produrre in presenza della patologia (resilienza).

È stato sostenuto che dove esiste un sistema di con-trollo (vaccinazioni, trattamenti con farmaci, isolamento degli animali dagli agenti patogeni, miglioramento sa-nitario ed eradicazione di specifiche malattie) non vi è bisogno di selezionare soggetti geneticamente resistenti. Questo è erroneo almeno per due motivi:

- volendo ridurre l’uso dei farmaci, il controllo inte-grato non può prescindere dalla scelta di razze o soggetti a maggior resistenza genetica

- dove il tentativo di eradicazione di una malattia è stato realizzato con successo, la resistenza genetica rap-presenta un sistema di salvaguardia verso la ricomparsa della malattia stessa.

Il sempre maggior interesse per una agricoltura so-stenibile rende il problema del controllo delle patologie particolarmente importante. Negli ovini, tra le malattie maggiormente diffuse, accanto alle mastiti, spiccano le parassitosi gastrointestinali, che sono un forte limite alla produttività, ma anche alla efficace definizione del piano alimentare, considerata la loro influenza negativa sull’assorbimento delle sostanze azotate.

L’uso regolare e continuo dei farmaci antiparassitari ha condotto alla selezione di ceppi parassitari resisten-

ti e, conseguentemente, al diffondersi su scala mondia-le dei fenomeni di farmaco-resistenza. L’emergenza di questi fenomeni costringe, in circolo vizioso, a cercare molecole e dosaggi sempre più efficaci, ma dannosi per il rilascio di residui non degradabili nell’ambiente e nei prodotti di origine animale.

Riguardo a quest’ultimo aspetto, vi è da tener pre-sente che la gran parte dei medicamenti somministrati richiederebbe tempi di sospensione adeguati (purtroppo non sempre rispettati) per evitare residui nei prodotti (carne, latte, formaggio) e, quindi, l’ingestione da parte del consumatore con ripercussioni, non sempre pronta-mente rilevabili, per la sua salute.

Cresce così l’attenzione alle metodologie di control-lo delle patologie che evitino di affidarsi esclusivamente all’impiego dei farmaci: l’approccio non chemioterapi-co è passato perciò negli ultimi anni dall’interesse quasi esclusivamente scientifico a quello di urgenza pratico-operativa, stimolando la ricerca di metodologie di lotta ai parassiti gastro-intestinali sempre meno dipendenti dal ricorso a farmaci antielmintici; tra queste, la possibi-lità di sfruttare le capacità genetiche di resistenza richia-ma un grande interesse, insieme alla adozione di sistemi globali di miglioramento della salute animale. Grande attenzione viene data al controllo integrato ottenuto me-diante popolazioni resistenti che richiedono un più blan-do impiego di farmaci, accompagnati da una idonea stra-tegia di gestione dei pascoli e dell’alimentazione (Cianci et Ambrosini, 2000; Ambrosini et Cianci, 2001).

Il sempre maggior interesse per una agricoltura soste-nibile rende più apprezzato il ruolo dell’IPM (Integra-ted Pest Management). La dipendenza dell’allevamento dagli aspetti commerciali e finanziari è molto grande e rende difficili rapide variazioni, ma l’obbiettivo di ridur-re l’uso degli antielmintici deve essere comunque perse-guito con ogni mezzo e la valorizzazione della resistenza genetica, insieme con opportune pratiche di gestione ed alimentazione delle greggi, è senza dubbio l’approccio più auspicabile per ridurre i costi e migliorare la qualità delle produzioni.

In questo quadro, l’identificazione di ovini genetica-mente resistenti, rappresenta un obbiettivo sostenibile per almeno tre motivazioni:

- miglioramento della qualità dei prodotti di origine animale per l’assenza di residui farmacologici con con-seguente maggiore garanzia per il consumatore

- minori spese da parte degli allevatori per la riduzio-ne dell’impiego dei farmaci

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l’adattamento all’ambiente181

- prevenzione dei fenomeni di farmaco resistenza.L’esistenza di una base genetica della resistenza ai pa-

rassiti è accettata da tempo (Whitlock et Madsen, 1958; Scrivner, 1967; Altaif et Dargie, 1978) ma, fino a pochi anni addietro, non vi era stata data molta importanza per-ché le metodologie di lotta erano basate principalmente su strategie farmacologiche. In epoche più recenti, a cau-sa anche dei crescenti fenomeni di farmaco-resistenza (Hertzberg et Bauer, 2000), l’attenzione si è focalizzata sulla identificazione di razze, linee, famiglie ed individui con diverso comportamento in termini di “host response to parasites”, al fine di dimostrare la presenza di varia-bilità genetica nella risposta agli agenti parassitari (Pfef-fer et al., 2007; Good et al., 2006; Miller et al., 2006; Mugambi et al., 2005; Gruner et al., 2004; Vanimiset-ti et al., 2004a, 2004b; Nimbkar et al., 2003; Burke et al., 2002; Gauly et al., 2002, 2001; James et al., 2002; Matika et al., 2002; Subandriyo et al., 2002; Bishop et Stear, 2001; Amarante et al., 1999; Bouix et al., 1998; Miller et al., 1998; Bisset et al., 1997, 1996; Yazwinski et al., 1980). L’osservazione di una base genetica nella risposta agli agenti parassitari ha incoraggiato verso la ricerca di geni o regioni genomiche (QTLs, Quantitative Trait Loci) associate alla resistenza ai parassiti, tra cui i parassiti gastro-intestinali negli ovini.

I primi tentativi risalgono allo studio dei polimorfismi a livello emoglobinico (Evans et al. 1963). Successiva-mente, furono compiuti alcuni studi, focalizzando l’at-tenzione sul Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC) e sfruttando principalmente marcatori RFLP (Re-striction Fragment Length Polymorphisms) che, tuttavia, fornirono solo indicazioni preliminari circa la presenza di associazione con fenomeni di resistenza nei confronti di T. colubriformis (Hulme et al. 1993). Più recentemen-te, l’avvento dei marcatori microsatellite o STRs (Short Tandem Repeats) ha aperto la strada verso la possibilità di adottare più efficaci ed esaustivi approcci di “genome scan”, grazie ai quali alcuni QTLs sono stati identificati (Beraldi et al., 2007a, 2007b; Crawford et al., 2006; Da-vies et al., 2006; Marshall et al., 2005; Beh et al., 2002; Diez-Tascon et al., 2002; Janssen et al, 2002; Okomo et al., 2002; Raadsma et al., 2002).

In aggiunta, ulteriori studi sono stati condotti a livel-lo del Complesso Maggiore di Istocompatibilità (Sayers et al., 2005; Charon et al., 2002; Paterson et al., 1998; Buítkamp et al., 1996; Outteridge et al., 1996; Schwai-ger et al., 1995) e del gene per l’interferone gamma (Col-tman et al., 2001) che hanno portato all’identificazione

di alleli associati a fenomeni di resistenza nei confronti di nematodi gastro-intestinali. Attualmente, le aspetta-tive principali provengono dall’adozione di approcci di genomica funzionale e di proteomica. Attraverso l’ado-zione, ad esempio, di microarray di cDNA sarà possibi-le studiare simultaneamente il livello di espressione di migliaia di geni, consentendo, attraverso il confronto tra soggetti resistenti e suscettibili, una più rapida identifi-cazione di geni coinvolti nei meccanismi di risposta ver-so i principali parassiti (Rowe et al., 2008; Keane et al., 2007, 2006; Diez-Tascon et al., 2004).

L’identificazione di marcatori molecolari in grado di consentire l’individuazione di soggetti dotati di mag-giore resistenza (o resilienza) nei confronti dell’agente infestante, anche in assenza di attacco parassitario, po-trebbe consentire l’implementazione di schemi di sele-zione assistita (MAS, Marker Assisted Selection); tutta-via, al momento attuale, sembra ancora verosimile che gli schemi di selezione nei confronti della resistenza alle parassitosi continueranno ad essere basati su valutazioni fenotipiche (principalmente del parametro “Faecal Egg Count”, FEC) di soggetti esposti all’agente infestante.

La conservazione del germoplasma delle razze resi-stenti è perciò fondamentale nel contesto socio-econo-mico di un Paese, anche se queste hanno spesso carat-teristiche produttive quantitativamente meno efficienti e sono perciò meno gradite negli allevamenti soprattutto dei Paesi industrializzati.

Pur tenendolo nella dovuta considerazione, non si può tuttavia generalizzare il concetto di incompatibili-tà tra resistenza e produttività, perchè esperienze come quelle di Punzoni (1987) hanno dimostrato che non vi è necessariamente relazione tra resistenza e produttivi-tà. In Toscana Benvenuti et al. (2003) hanno osservato come che, nella razza autoctona Massese, la produzione di latte non risulti pregiudicata significativamente dal livello d’infestazione ed hanno evidenziato la capacità della razza toscana di mantenere elevate performances produttive anche in presenza di un elevato tasso d’infe-stazione.

La resistenza e la produttività hanno finora proceduto, sia nelle popolazioni domestiche tropicali che in quelle dei climi temperati, in modo del tutto svincolato, perché sia i pastori nomadi che gli allevatori più evoluti hanno selezionato sempre e solo per la produttività lasciando il controllo delle patologie infettive ed infestive alla sele-zione naturale (nelle popolazioni nomadi) con la scelta dei genotipi resistenti (che perciò sono più diffusi nel-

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le razze tropicali), oppure alla lotta farmacologica nelle razze più produttive (che, pertanto, conservano i genoti-pi suscettibili e, con essi, una parte maggiore della varia-bilità genetica alla resistenza).

Le razze ovine autoctone, si sono evolute e sono pre-valentemente allevate in ambienti difficili, nei quali han-no sviluppato grandi capacità adattative ai patogeni più diffusi e ad altre limitazioni ambientali (clima, disponi-bilità quantitativa e qualitativa di alimenti); sono perciò predisposte a resistere alle patologie endemiche, perché la selezione naturale ha determinato la sopravvivenza e la moltiplicazione dei genotipi adatti all’ambiente nel quale riescono a sopravvivere, riprodursi e produrre nel-le condizioni loro offerte.

Per le patologie parassitarie, gli ovini manifestano una grande variabilità fenotipica nella resistenza dovuta ad un complesso di fattori paratipici (stato nutriziona-le, ambiente e condizioni igienico-sanitarie) e genotipici (razza, genotipo individuale), nonché alla loro interazio-ne legata soprattutto a fattori biologici (sesso, età, stadio riproduttivo, forme comportamentali) e di allevamento (sistemi e tecniche). Le condizioni che assicurano la mi-gliore interazione genotipo-ambiente sono anche quelle che garantiscono il benessere e la sanità e, quindi, il con-solidamento della resistenza.

La variabilità si ripartisce tra le fonti genetiche ed ambientali e dipende dalle razze considerate, ciascuna delle quali deve essere trattata, anche nella stessa area di allevamento, come una popolazione autonoma da tut-te le altre nel momento in cui si vogliano impostare dei programmi di selezione genetica, tenendo conto peraltro che strategie ottimali potrebbero prevedere interventi ri-produttivi combinati di incrocio o di selezione.

Nell’ambiente naturale se una popolazione si è con-servata in purezza, teoricamente possiede già il massimo della resistenza consentito dall’equilibrio ospite/pato-geno rendendo inutile un ulteriore progresso selettivo nell’ambito della stessa razza. La variabilità genetica del carattere “resistenza” in queste popolazioni è mol-to limitata; la selezione naturale ha già scelto i genotipi idonei riducendo il coefficiente di ereditabilità a valori poco utili per un ulteriore progresso selettivo, migliora-bile solo con interventi sulle condizioni ambientali, ma interessante per l’introgressione in popolazioni meno re-sistenti.

Le razze autoctone sono ancora prossime a questa condizione e l’allevamento per la resistenza deve per-ciò partire dal concetto che, salvo casi eccezionali, le

razze autoctone sono già predisposte, geneticamente, a resistere alle patologie endemiche (soprattutto di origi-ne parassitaria: tripanosomiasi e piroplasmosi), nonché a valorizzare le risorse alimentare del loro ambiente di origine.

Taluni autori hanno evidenziato che quando le razze autoctone (più resistenti) venivano sottoposte ad incro-cio con razze più produttive di diversa origine (meno re-sistenti), anche il carattere “resistenza” veniva, in misura ridotta, trasmesso ai meticci ed ai prodotti del meticcia-mento. È stato verificato che la resistenza dell’ospite all’infezione da parassiti è un carattere moderatamente ereditabile (Crowford et al., 1997). Anche nostre inda-gini condotte da anni in Italia sugli ovini consentono di ipotizzare la presenza di comportamenti genetici di razza ed individuali nella risposta alle parassitosi, dimo-strando una buona ripetibilità ed ipotesi di ereditabilità (Cianci et Ambrosini, 2000; Ambrosini et Cianci, 2000, 2001, 2002; Benvenuti et al., 2003).

Dineen (1963) ha evidenziato che “la risposta immu-nitaria dell’ospite non va guardata semplicemente come un meccanismo che può causare l’eliminazione dell’in-festione parassitaria ma, soprattutto, come un ambiente che ha un profondo effetto sulle relazioni ospite/parassi-ta”. Per tale motivo, i sistemi di allevamento estensivo e semiestensivo sembrano i più idonei perché assicurano agli animali la ginnastica motoria e la possibilità di so-cializzare necessari al loro benessere e quindi al pieno sviluppo delle funzioni immunitarie. Il pascolamento su erbai e/o prati, che pure potrebbe essere considera-to facilitante per la diffusione di patologie parassitarie, in presenza di genotipi autoctoni idonei (già acclimata-ti ed adattati all’ambiente) contribuisce invece, con le condizioni ottimali, al potenziamento della resistenza fenotipica integrandola con lo sviluppo della resistenza acquisita.

Naturalmente non bisogna trascurare (come invece purtroppo spesso avviene in queste condizioni di alle-vamento) la disponibilità, per superficie, cubatura e ma-teriali da costruzione, di ricoveri idonei ad assicurare le condizioni di igiene, luminosità, temperatura ed umidità ideali. Anche le tecniche di allevamento possono modifi-care la risposta degli animali alle infestioni parassitarie; già dalla nascita il colostro e poi il latte materno sono fonte ancora non pienamente sostituibile di immunoglo-buline.

Tra le condizioni ambientali, lo stato nutrizionale è molto importante perché influenza l’instaurarsi della in-

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l’adattamento all’ambiente183

festione e le risposte immunitarie al parassita. Vi è infatti una notevole interazione tra nutrizione e resistenza ge-netica. I fattori nutrizionali possono agire sulla funzione immunitaria provocando “immune deficiency” o “immu-ne stimulation” (sia come risposta ad agenti esterni che in forma autoimmunitaria).

Una nutrizione sana e bilanciata rappresenta un fat-tore essenziale per mantenere la piena funzionalità del sistema immunitario (Athanasiadou et al., 2008; Hou-dijk, 2008; Jackson et al., 2008; Hughes et Kelly, 2006; Dunne et al., 2004; Strani et al., 2001), anche attraverso l’interazione con lo stato sanitario della tiroide che a sua volta può condizionare disfunzioni immunologiche.

La selezione delle razze autoctone deve, perciò, es-sere integrata in obbiettivi globali di miglioramento che considerino non soltanto le unità di prodotto ottenute ma anche il valore qualitativo, e conseguentemente, com-merciale, della produzione.

Peculiarità fisiopatologiche di razze autoctone dell’Italia meridionale

E. Pieragostini e F. Petazzi

PremessaA partire dal XIX secolo, l’allevamento animale,

dopo circa 10.000 durante i quali, era stato portato avanti in modo sostenibile, consentendo alle varie popolazioni di specie domestiche di adattarsi alle diverse condizio-ni locali, ha subito una violenta rivoluzione. La pratica di selezione per le stesse caratteristiche fenotipiche ha portato alla frammentazione delle popolazioni iniziali con una conseguente perdita di variabilità genetica cui va aggiunto la perdita di interi pool genici abbandonati perché non in grado di competere sul piano produttivo. Fortunatamente da qualche anno va sempre più diffon-dendosi la consapevolezza non solo della necessità della salvaguardia delle risorse, ma anche quella della rico-gnizione delle razze esistenti e della valutazione delle relative peculiarità genetiche.

La conoscenza di una razza animale, può riguardare diversi aspetti che devono confluire a fornirne la miglio-re identificazione possibile. È così che l’approccio oli-stico al problema si presenta come l’unico possibile dal punto di vista scientifico, non solo per gli “scienziati “

ma anche per gli operatori del settore, all’ovvio scopo finale e comune, di meglio conoscere a fini applicativi immediati e futuri le caratteristiche “visibili “ e quelle più nascoste, patrimonio queste ultime, come le prime, dei singoli animali o di razze o, ancora, di razze in am-bienti particolari. È sulla base di questa considerazione, generica fin che si vuole, ma specchio di una realtà più volte vera, che la nostra ricerca ha mosso i primi passi.

In generale porre attenzione all’origine delle raz-ze non ha solo il senso di esaurire una curiosità stori-ca, bensì di capire meglio da dove vengono i geni la cui espressione oggi verifichiamo e di quali ipotetiche pressioni selettive sono il risultato. L’Italia meridionale nella sua composizione peninsulare ed insulare, vanta una antichissima tradizione pastorale e di razze autocto-ne che per le loro caratteristiche produttive hanno come nel caso della Comisana ed ancor più della Sarda var-cato i confini della loro isola, rispettivamente Sicilia e Sardegna per diffondersi in tutto il territorio nazionale. Entrambe queste razze appartengono al subgruppo dei discendenti dell’audad; in particolare, mentre nel caso della razza Sarda sembra che l’isolamento geografico sia il principale responsabile del pool genico attuale, nel caso della Comisana sembra che all’origine ci siano ovi-ni del Mediterraneo (paesi asiatico-africani) incrociatesi con ovini siciliani (Sito web EAAP-AGDB).

Circa le razze autoctone pugliesi Altamurana, Leccese e Gentile di Puglia, va ricordato che l’allevamento delle pecore in Puglia data da tempo immemore, come docu-mentato da numerosi reperti archeologici del periodo ne-olitico. Circa le tecniche di allevamento si hanno notizie storiche di come, a partire dall’epoca romana, azioni di miglioramento vennero perseguite dai vari popoli che si stabilirono e dominarono in questa regione: Greci, Ro-mani, Goti, Longobardi, Saraceni. Non altrettanto do-cumentata invece risulta l’origine delle varie razze; già negli scritti di Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, VIII, 190), di Varrone (Res rusticae II, 2.19 ) e di Columella ( De re rustica, VII, 2.3 ) si riferisce della presenza in Pu-glia di due distinti tipi di pecore, una dal vello compatto delicato ed una con vello aperto lungo. È difficile pensa-re che il flusso genico che ha interessato la popolazione umana di questa terra di conquista abbia lasciato indenne le popolazioni autoctone di animali domestici le quali sicuramente sono venute in contatto con altri pool genici importati dai vari conquistatori.

In questa ricerca di radici, non siamo in grado di va-lutare fino in fondo, in termini di archeologia dei geni, il

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peso dell’informazione riportata dal Mannarini secondo la quale la pecora “Moscia” deve aver avuto come proge-nitori gli ovini di razza asiatica o Siriana del Sanson (Ovis aries asiatica) e propriamente quelli della varietà detta dai tedeschi di Zackel. Questa derivazione, secondo una monografia del 1878 citata da Ferrante (Ferrante, 1966) viene fatta risalire all’epoca delle invasioni saracene. Ma se è così, che fine ha fatto la moscia di cui parlano le fonti storiche romane? Il dato più certo è quello relativo alla diversificazione della cosiddetta pecora “Moscia” dalla quale, nel corso dei secoli, in relazione alle con-dizioni ambientali e all’indirizzo dato dagli allevatori si sono differenziate nettamente due razze, l’Altamurana e la Leccese; la prima con vello tendenzialmente bianco, la seconda con muso ed arti a pigmentazione scura che costituisce una protezione nei confronti dell’Hipericum crispum, (volgarmente detto fumolo) molto frequente nel Salento e il cui contatto provoca dermatiti nei sog-getti dalla pelle rosata (Petazzi et al., 2002). Un recente lavoro (Peter et al., 2007), che ha valutato la diversità genetica e eventuali suddivisioni di 57 razze ovine eu-ropee e mediorientali, delinea per la razza Altamurana, una delle tre razze dell’Italia meridionale contenuta in questo studio, una origine mista europea-mediorientale coerente con il riferimento alla pecora di Zackel. Sempre secondo detto studio (Peter et al., 2007), per entrambe le altre due razze, la Laticauda e la Gentile di Puglia la componente europea prevale a discapito di quella medio orientale, che è tuttavia, comunque, non trascurabile.

Morbilità e mortalità delle MTZ (malattie trasmesse da zecche)

Alla stregua di altri paesi del bacino mediterraneo, in Puglia si riscontra la presenza di parassiti emotropici (Babesia spp., Theileria spp., Anaplasma spp.) in for-ma enzootica (Ceci et al.,1993) il cui peso economico-sanitario è sicuramente cospicuo ed è un dato quasi di norma nell’allevamento brado o semibrado in generale, non solo ovino,.

L’interazione secolare di questi patogeni con gli ani-mali autoctoni ha portato ad un tale perfezionamento la relazione ospite-parassita che, per anni, il fenomeno rappresentato da dette enzozie è stato tenuto in non cale ed ha cominciato ad assumere la dignità di problema di un qualche interesse, non solo speculativo descrittivo, solo nel momento in cui sono state avviate sempre più numerose operazioni di importazione di bovini, equini ed ovini da altri paesi.

A tal riguardo, esemplificativo è il risultato che è sta-to rilevato da Dario et al. (1991), valutando l’incidenza della piroplasmosi nella comunità degli ovini allevati presso l’Azienda silvo-pastorale “Cavone” di proprietà dell’Amministrazione della Provincia di Bari.

I dati in grafico (Fig. 1) danno la esatta misura di quanto sia diversa la mortalità entro genotipo segnando una netta demarcazione tra le razze che vivono al di sotto del 42° parallelo da quelle che vivono normalmente più a Nord. Se poi si traducono in termini ancora più con-creti queste informazioni, con uno specifico riferimento alle morti per piroplasmosi registrate in cinque anni, si constata che i casi riferibili ai soggetti Altamurani sono pressocchè inesistenti, come pure di scarsa rilevanza sono quelli che interessano i soggetti di razza Sarda o Comisana, contrariamente a quanto accade per gli ovini nordeuropei per i quali non c’è scampo.

Profilassi nei confronti delle MTZ e performance ri-produttive

La salute ed in particolare la attività di prevenzione hanno, in generale, ma soprattutto nelle attività di alleva-mento, dei costi che vengono ripagati da benefici di tipo generale e segnatamente di natura economica. Questo assioma deve essere considerato un fondamento irrinun-ciabile nella applicazione delle più diverse tecniche di allevamento all’interno di una zootecnia che si occupa di produrre al meglio sia da un punto di vista quanti-qualitativo che economico.

Accade, può accadere, che una patologia subclinica, infettiva, infestiva, metabolica, occasionale o strutturale, non sufficientemente conosciuta nella sua entità di im-patto sul benessere complessivo di una specie animale o di una razza in particolari condizioni ambientali, possa portare a valutazioni non corrette sulle effettive possi-bilità produttive della razza o della specie testata, con conseguente scelta in negativo da parte del mondo della produzione.

Per quanto riguarda il problema delle malattie emo-protozoarie in Puglia, pur non avendo quantificato la prevalenza delle infestazioni di diversi parassiti (Babe-sie, Anaplasmi, Theilerie), singole o multiple, avevamo maturato la convinzione di vivere una situazione di in-festazione diffusissima che, se da una parte non causa in generale danni gravi nel senso di una mortalità elevata nelle razze autoctone od in quelle adattate, costituisce per queste, oltre che una base di stress occulto, foriero di patologie singole e di massa, una grave forma di distur-

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bo delle produzioni, un costante motivo di erosione del reddito. Come precedentemente illustrato, per le razze non tolleranti, tali patologie sono il limite pressoché in-sormontabile per un loro possibile economico utilizzo in queste zone, a meno di tenere tali ultimi soggetti confi-nati in un regime di allevamento esclusivamente stallino, disponibili comunque a pagare a dette malattie, ad im-prevedibili scadenze, un tributo consistente di mortalità.

Accanto a questi dati di indubbio interesse va sottoli-neato che nelle razze pugliesi ed isolane, anche se i dati di mortalità sono irrilevanti e nella stragrande maggioranza dei casi interessano solo soggetti defedati o stressati, gli animali autoctoni delle regioni a MTZ enzootiche, con-traggono la malattia la quale, però non si manifesta in maniera conclamata.

Un’indagine sperimentale ha consentito di verificare, attraverso osservazioni ripetute nel corso di quattro anni, che le MTZ rappresentano un importante causa di pertur-bazione (Pieragostini et al., 1996). In particolare, parten-do dall’idea di migliorare ulteriormente la già elevata ca-pacità di risposta agli emoprotozoi da parte delle pecore autoctone pugliesi, è stato condotto un lavoro nel quale pecore in asciutta sono state sottoposte sistematicamen-te ad un trattamento profilattico, utilizzando un prodotto a base di Diminazene aceturato (Berenil, Hoechst, AG, Germania) regolarmente registrato, commercializzato e di facile reperimento sul mercato italiano. Il trattamento di profilassi è stato eseguito nel periodo primaverile con somministrazione per via parenterale di un dosaggio pari 3 mg /kg p.v. in unica somministrazione; durante tutto il periodo di osservazione non si sono osservati, in nessu-no dei soggetti tenuti sotto controllo episodi di malattia o di malessere degni di nota

In tabella 2 sono sintetizzati i risultati ottenuti da det-to lavoro che è stato condotto su pecore di razza Alta-

murana e Leccese, utilizzando il prodotto di cui sopra a dosaggi profilattici, pratica ben conosciuta secondo una ricca e consolidata letteratura.

Figura 1. (Grafico ottenuto dall’elaborazione dei dati riportati in tabella 1).

N1 Morbilità %

Mortalità2

%Altamurana 560 1,79 0,54Gentile 715 0,84 0,28Leccese 513 2,73 0,97Comisana 258 2,33 0,39Sarda 449 4,23 1,78Finish 28 75 46,43Finnish x Altamurana 188 23,04 15,96Finnish x Leccese 45 22,22 13,33Frisian 23 52,17 26,09Frisian x Altamurana 457 33,63 12,03Frisian x Leccese 319 33,85 12,23Romanov 77 45,45 31,17Romanov x Altamurana 108 40,74 35,18Romanov x Leccese 28 35,71 21,431 numero dei soggetti presenti presso l’azienda Cavone nel quinquennio 1980-84.2 mortalità calcolata sul numero dei presenti

Tabella 1. Morbilità e mortalità della piroplasmosi nelle razza Altamurana a confronto con i valori riscon-trati in razze isolane italiane, razze nordeuropee e me-ticci ottenuti dall’incrocio di queste ultime con l’Alta-murana (dati riportati da Dario et al., 1991).

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186gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

Dall’osservazione dei dati è possibile desumere la differente efficienza riproduttiva del gruppo delle pecore trattate rispetto alle non trattate; in pratica, la differenza si concretizza, in un minor numero di pecore acicliche e, soprattutto, in un maggior numero di soggetti che rie-scono a portare a fine la gravidanza con conseguente ri-caduta economica in termini di agnelli e litri di latte pro-dotti . Abbiamo così portato a termine la prima indagine relativa alla cognizione di prassi dell’allevamento che ci indicava come l’utilizzo di terapie di profilassi preven-tive nei riguardi delle piroplasmosi, effettuate in diversi allevamenti ovini composti da soggetti di razze locali, in cui solo metà dell’effettivo era trattato, consentivano in questa metà di soggetti di ottenere risultati economici di rilievo come incremento generale, risultati non quan-tificati in maniera “scientifica” nel loro complesso, ma di estremo interesse per gli allevatori, confermando ul-teriormente la situazione della piroplasmosi negli ovini autoctoni pugliesi come “malattia da scarso reddito”.

Parametri ematologici e sieroproteici in razze puglie-si

Il quadro ematologico e sieroproteico di un animale forniscono un’indicazione di valenza multipla riguardo alle sue caratteristiche fisiologiche, sanitarie e produt-tive.

ParametriAltamurana Leccese Totale

T NT T NT T NT(n = 149) (n = 259) (n = 49) (n = 89) (n = 198) (n = 348)

Fertilità(%) 93.1a 64.5b 85.7a 61.8b 91.2A 63.8B

Prolificità (%) 139.3 130.5 143.7 141.8 138.4 133.8Fecondità (%) 131.5a 88.6b 118.7a 89.7b 128.3A 89.2B

N.B. Le differenze tra medie contrassegnate con lettere diverse sono statisticamente significative (lettere minuscole: P<0.001; lettere maiuscole: P<0.0001).

Tabella 2. Medie stimate dei parametri riproduttivi nelle pecore di razza Altamurana, Leccese e nel totale della campionatura, in funzione del trattamento di pro-filassi per la piroplasmosi con Diminazene aceturato (T=trattate, NT=non trattate). Fertilità: pecore coperte/pecore al parto, Prolificità: nati/numero di parti; Fecon-dità: nati/pecore coperte. (Modificato da Pieragostini et al., 1996).

Variabiliematologiche

Leccese Altamurana Gentile di Puglia RiferimentoLSM ± SE N LSM ± SE N LSM ± SE N Range Mediana

PCV (%) 29.52±0.11 996 30.62±0.33 58 30.60±0.16 263 26 - 45 34Hb (g/dl) 9.29±0.32 996 9.84±0.11 58 10.42±0.25 263 9 - 15 11RBC (1012/l) 8.25±0.14 145 8.31±0.13 58 9.38±0.06 263 9 - 15 12MCV (fl) 36.44±0.59 145 37.91±0.52 58 32.76±0.13 263 28 - 40 34MCH (pg) 11.56±0.21 145 12.17±0.15 58 11.17±0.05 263 8 - 12 10MCHC (g/dl) 32.35±0.36 996 32.17±0.16 58 34.11±0.44 263 31 - 34 32WBC (109/l) 7.82±0.19 145 7.39±0.20 58 8.43±0.16 178 4 - 12 8N.B. Il confronto tra i valori medi riportati per le razze pugliesi e le mediana indicate per i dati di letteratura è giusti-ficato sulla base della verifica del fatto che i nostri dati seguono una distribuzione normale nel qual caso la the media coincide con la mediana.

Tabella 3. Media (LSM) ed errore standard (SE) dei parametri ematologici degli ovini di razze autoctone pugliesi a confronto con i dati di letteratura (Jain, 1993).

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- Quadro ematologicoNella definizione di un quadro di normalità di specie

la razza è sicuramente un dato da non sottovalutare come emerge dall’osservazione della tabella 3 nella quale si mostra il pattern ematologico delle razze autoctone pu-gliesi rapportato ai dati di letteratura (Jain, 1993); in par-ticolare nella tabella sono riportati i valori medi e relativi errori standard (SE) dei valori ematologici ottenuti:

analizzando i 996 campioni di sangue raccolti a. nell’indagine di popolazione effettuata in dieci diver-si allevamenti di ovini di razza Leccese dislocati nelle province di Brindisi Lecce e Taranto (Pieragostini et al., 1994 );

analizzando 294 campioni di sangue raccolti in b. una indagine di popolazione effettuata in sei allevamenti semibradi di ovini di razza Gentile di Puglia dislocati in provincia di Foggia (Pieragostini et al., 2006).

analizzando 58 campioni di sangue di pecore di c. razza Altamurana in purezza, di età compresa tra 2-6 anni d’età ed allevati presso l’Azienda sperimentale Sil-

vo-pastorale Cavone di proprietà della Amministrazione della Provincia di Bari.

Dal confronto dei dati in tabella 3, emerge che le tre razze pugliesi presentano nel loro insieme pattern ema-tologici molto simili, i quali se a loro volta vengono con-frontati con i dati di riferimento riportati nell’ultima co-lonna (Jain, 1993), risultano essere caratterizzati da eri-trociti di numero più ridotto, ma di dimensioni maggiori e con un più elevato contenuto in emoglobina.

L’idea che alcuni fattori ematologici fossero da met-tere in relazione con l’adattamento delle razze alle parti-colari condizioni ambientali era stata avanzata nel 1962 da Cresswell et Hutchings e successivamente conferma-ta sulla base dei dati di Whitelock (1963) il quale trovò che negli ovini il numero totale degli eritrociti risultava essere sotto controllo genetico. A questo proposito va sottolineato che i dati a riguardo riportati in letteratura,

Figura 2. Plot delle due prime componenti principali nella specie ovina.

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188gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

si riferiscono a razze cosmopolite, di origine prevalente-mente nordeuropea, quindi con caratteristiche genetiche ed adattative diverse quelle delle razze autoctone puglie-si.

In sintesi, da i rilievi di cui sopra, emerge la differenza di assetto ematologico eritrocitario delle razze pugliesi, tipico delle razze mediterranee e nord africane (Pierago-stini et al., 1994), rispetto ad altre razze, nordeuropee, e suggeriscono nelle prime una ottima efficienza fisiologi-ca degli eritrociti, risultato probabilmente derivante dal-la lunga coabitazione fra emoparassiti e razze autoctone, buon motivo di capacità di sopravvivenza degli animali infettati, fino al realizzarsi di una situazione di premuni-zione che sarà la garanzia per questi stessi animali per la sopravvivenza negli ambienti ad MTZ enzootiche.

A conferma della somiglianza delle razze ovine pu-gliesi vale la pena ricordare i risultati ottenuti analizzan-do i diversi pattern ematologici mediante un approccio statistico multivariato.

A differenza di molte tecniche statistiche standard, lo scopo della maggior parte delle procedure multivariate non è l’inferenza statistica, bensì quello di sintetizza-re l’informazione contenuta in numerose variabili. Tali procedure vengono classificate come tecniche di pat-tern recognition all’interno delle quali troviamo l’ana-lisi delle componenti principali (Principle Components Analysis, PCA), particolarmente importante per porre le basi di numerose procedure multivariate. Questo meto-

do viene frequentemente impiegato nella prima fase di elaborazione dei dati e serve a dare una visione generale del problema ed a capire le relazioni tra campioni, non-ché a fornire un’indicazione preliminare sul ruolo delle variabili, mettendo eventualmente in luce la possibilità di eliminarne alcune che, essendo strettamente correlate tra loro, portano informazioni simili e possono quindi essere considerate ridondanti. La PCA può, a seconda dei casi, essere usata in tutte le fasi di riduzione, descri-zione e classificazione di dati multivariati. Un aspetto di grande rilevanza nello studio di problemi multivariati riguarda la possibilità di “vedere” graficamente i dati ed in particolare la PCA fornisce una soluzione algebrica con possibili rappresentazioni grafiche molto efficaci.

Poiché una delle applicazioni tipiche della PCA è la ricerca di modelli di classificazione su dati clinici, aven-do a disposizione un ampio repertorio di dati ematologi-ci delle tre razze ovine autoctone pugliesi, Rubino et al. (2005) hanno voluto testare la efficacia della suddetta procedura nel delineare diversi pattern ematologico, in particolare per descriverne la variabilità .

Nella PCA la distribuzione della variabilità negli assi è un dato importante poiché i componenti principali sono gli assi relativi alle direzioni di massima varianza,

Soggetti PVC Hb RBC MCV MCH MCHC(%) (g/dl) (x106ml) (m3) (pg) (%)

Pecore 28.99 ± 0.42 a (929)

9.37± 0.14 a (929)

8.39 ± 0.29 (78)

35.58± 0.97 a (78)

11.70± 0.35 (78)

32.07± 0.61 (929)

Arieti 30.07± 0.61 b (67)

9.93 ± 0.19 b (67)

8.20± 0.29 (67) 37.31 ± 1.26 b (67)

11.53± 0.76 (67)

32.24± 0.72 (67)

Soggetti PVC Hb RBC MCV MCH MCHC(%) (g/dl) (x106ml) (m3) (pg) (%)

Pecore 30.96±0.30 (123)

10.50± 0.10 (123)

9.14± 0.11 (123)

33.99± 0.25 (123)

11.53± 0.09 (123)

33.96± 0.16 (123)

Arieti 30.59± 0.28 (140)

10.41± 0.09 (140)

9.64± 0.10 (140)

31.86± 0.22 (140)

10.85± 0.08 (140)

34.07±0.14 (140)

Tabella 4. Valori ematologici medi (± e.s.) in soggetti adulti di razza Leccese ripartiti per sesso (Pieragostini et al., 1994).

Tabella 5. Valori ematologici medi ( media ± s.e.) in soggetti adulti di razza Gentile di Puglia ripartiti per sesso (Pie-ragostini et al 1998).

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l’adattamento all’ambiente189

in ordine via via decrescente; la prima componente prin-cipale sarà in grado di spiegare la maggior percentuale di varianza, la seconda ne spiegherà un po’ meno, la terza meno ancora e così via, fino a che le ultime componenti contribuiranno a spiegare poco o nulla della variabili-tà presente nei dati in esame. Maggiore è la variabilità condensata nelle prime tre componenti minore è la va-riabilità residua e conseguentemente più significativa la descrizione del fenomeno rilevato.

Nel caso in esame in questo lavoro le prime tre com-ponenti ottenute dalla PCA spiegavano rispettivamente il 42%, 27%, 15%, con una conseguente variabilità residua del 16%. In Figura 2, le tre razze ovine sono pressoché sovrapposte sul primo asse (42% della variabilità), men-tre sul secondo che condensa un 27% della variabilità la Gentile di Puglia si distingue dalla Altamurana e dalla Leccese, tra loro molto simili (Rubino et al., 2005).

Dal confronto dei dati in tabella 3, si osserva che le tre razze presentano un pattern ematologico molto simile ed in particolare quello dell’Altamurana e della Leccese, mostrano valori pressoché sovrapponibili, forse a sotto-lineare la comune origine, e simili zone tradizionali di allevamento aride e poco generose quali, rispettivamen-te, il Salento e la Murgia barese. Di converso, potrebbe valer la pena ricordare che il tradizionale sito d’alleva-mento della Gentile di Puglia e quello della Leccese sono piuttosto diversi, essendo uno localizzato nella parte a nord e l’altro a sud di una regione, la Puglia che si esten-de in lunghezza per 500 Km tra il 39° ed il 42° parallelo.Tra le varie fonti di variabilità dei diversi parametri che contribuiscono al quadro complessivo di una popolazio-ne ovina, è noto che il sesso riveste un ruolo significativo ancorché di modesta entità. I dati riportati nelle tabelle 3 e 4 nelle quali sono messi a confronto i valori delle peco-re e degli arieti rispettivamente di razza Gentile di Puglia e di Leccese confermano queste indicazione dal momen-to che, come si evince dai dati riportati nella tabella 4, gli arieti Leccesi presentano valori di ematocrito (PCV), concentrazione emoglobinica (Hb%) e volume cellula-re (MCV) plusvarianti rispetto alle femmine, anche se l’entità delle differenze è modesta, tant’è che, nel caso dell’indagine sulla razza Gentile di Puglia (Tab. 5), le differenze tra i sessi sono state nascoste dalle differenze di management; infatti, detta indagine era stata condotta nel tardo autunno, quando le pecore erano da tempo rien-trate negli allevamenti in preparazione del parto, mentre la maggior parte degli arieti erano reduci dallo stress di un recente trasporto di ritorno dalla transumanza.

- Quadro proteicoIl quadro proteico risulta indispensabile per una valu-

tazione di base del metabolismo intermedio; tale valore in assoluto, e meglio ancora con il proprio frazionamen-to, è in grado non solo di discriminare a grandi linee tra diverse situazioni patologiche, ma di indicare situazioni relativamente modeste di benessere o di malessere am-bientale. In particolare il rapporto albumine globuline ed il valore assoluto delle une delle altre possono fornirci un quadro, se non preciso, sicuramente indicativo della situazione di idratazione, della congruità della alimenta-zione, della capacità di rispondere agli agenti esterni, e della intensità del momento di sofferenza eventuale.

Anche questo parametro è legato, all’interno delle diverse specie, alle razze animali e la sua definizione entro un intervallo il più possibile contenuto, per razza, rappresenta un passo avanti nella monitorizzazione dei singoli e degli allevamenti. In questa rassegna vengono riportati i risultati di indagini effettuate sulle razze Lec-cese e Gentile di Puglia (Tab. 6).

Il quadro sieroproteico della pecora Leccese è stato analizzato utilizzando i 996 campioni di sangue raccolti nell’indagine di popolazione citata precedentemente. In particolare il campione era suddiviso in dieci sottogrup-pi di circa 100 campioni provenienti da soggetti adul-ti allevati in dieci aziende diverse, delle quali, tre site in provincia di Bari, tre di Brindisi e quattro di Lecce; i maschi rappresentavano il 10% del campione totale, mentre le femmine erano pressoché equamente riparti-

Variabile Leccese GentileProteine totali (g/dl) 6.75±0.08A 7.44±0.04B

Albumina % 55.18±0.60 53.97±0.36Alfa globuline % 10.51±0.15A 8.81±0.09B

Beta globuline % 28.38±0.54A 25.36±0.32B

Gamma globuline % 5.18±0.36A 11.91±0.21B

Albumina g/dl 3.72±0.04A 3.98±0.02B

Alfa globuline g/dl 0.71±0.01A 0.65±0.01B

Beta globuline g/dl 1.91±0.05 1.91±0.03Gamma globuline g/dl 0.34±0.03A 0.90±0.02B

Albumine/Globuline 1.39±0.03A 1.21±0.02B

Tab. 6. Medie stimate ± errore standard della con-centrazione di proteine totali nel sangue e delle relative frazioni (lettera maiuscola: P<0.001; lettera minuscola: P<0.05).

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190gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

te tra gravide e non gravide. I risultati ottenuti, detta-gliatamente riportati in Pieragostini et al, 1991, hanno messo in evidenza il fatto che, tra le diverse fonti di va-riazione quali il sesso, lo stato fisiologico, l’azienda ed il sito di allevamento, queste due ultime sono risultate le più rilevanti; le differenze più significative, infatti, sono state riscontrate tra le aziende, nonché tra le province ove dette aziende erano ubicate, ciò a sottolineare come, nel caso di allevamenti semibradi, all’importanza del management si affiancano le caratteristiche pedoclima-tiche dei siti di allevamento. Le significative differenze, riscontrate in funzione del sesso e dello stato fisiologico delle pecore, ricalcano quanto atteso in letteratura con valori plus varianti a carico dei maschi da un lato e delle femmine gravide dall’altro. In questa rassegna ci sem-bra rilevante riportare i valori delle medie generali come possibile riferimento quale standard di razza.

Nel caso del quadro sieroproteico della razza Gentile di Puglia l’indagine ha riguardato un campione di 294 soggetti di entrambi i sessi (150 maschi e 144 femmine) ed appartenenti a cinque greggi diversi per storia e loca-zione, i quali complessivamente assommavano ad una popolazione di oltre 4000 ovini.

Caratteristiche fisiopatologiche e tolleranza alle MTZ: Aspetti ematologici.

Il problema delle piroplasmosi, genericamente inteso, nel mondo dell’allevamento pugliese era ben conosciuto, praticamente da sempre, nella memoria presente e pas-sata dei giovani e degli anziani, e riguardava indistinta-mente bovini, ovini, caprini ed equini; tale conoscenza era considerata come acquisita, come un fatto ineluttabi-le, non molto di più di una presenza scomoda.

Il nostro incontro, a parte le esperienze professionali sanitarie di uno di noi che confermavano questo stato, quasi di familiarità, tra l’allevamento pugliese e le MTZ, il nostro incontro scientifico, come gruppo di ricerca va-riamente composto, con questi emoparassiti (Babesie, Anaplasmi e Theillerie), è stato quasi casuale e motivo di grave ed inatteso sconvolgimento, rispetto ai valori at-tesi, in un programma che prevedeva di valutare le varia-zioni stagionali dei valori ematici fisiologici nelle razze autoctone pugliesi. Tante piccole babesie dal corpo piri-forme infestavano i globuli rossi di alcuni soggetti, ovi-ni, che presentavano variazioni significative del numero di emazie (va detto per completezza di informazione che in presenza di una infezione non massiva il rilievo mi-croscopico è particolarmente laborioso e può andare ben

oltre la valutazione numerica usuale, senza escludere in ogni caso che non rilevare positività non va considerata come assenza del reperto). La ricerca di questi parassiti, per fare chiarezza ed anche un po’ per curiosità, è sta-ta estesa quindi ai soggetti che presentavano variazioni modeste, non significative del parametro ricordato, con il riscontro di una positività pressoché totale anche nei soggetti, a questo punto solo apparentemente normali. Questo quadro mal si raccordava con l’assunto, sem-pre meno vero, “patogeno = malattia”. Abbiamo quindi ipotizzato una situazione di premunizione a questi pa-togeni che si realizzava nei soggetti in allevamento in Puglia e siamo quindi andati a curiosare, a campione, tra i preparati ematologici di ricerche precedenti, condotte in vari luoghi e su razze diverse, sempre autoctone, allo scopo di avvalorare questa ipotesi. Nel periodo giugno luglio, che per i riferimenti anamnestici degli allevatori sembrava essere il periodo in cui, con maggiore facilità, era possibile avere un riscontro di malattia sintomatica, abbiamo controllato dal punto di vista ematologico un gruppo di 50 animali di razza Altamurana che viveva-no nello stesso box, e conducevano lo stesso ritmo di stabulazione e di ricovero. Detti animali erano allevati presso l’azienda silvopastorale Cavone della provincia di Bari ed erano sotto controllo quanto alle produzioni e sottoposti periodicamente a profilassi verso le più comu-ni parassitosi; ovviamente nessun trattamento di profi-lassi veniva attuato verso le malattie emoprotozoarie. La procedura è consistita, più in particolare, nel controllare 10 animali a settimana, con una indagine microscopica puntigliosa nei riguardi della ricerca ed individuazio-ne di emoprotozoi. Durante questi due mesi in ben 28 soggetti abbiamo avuto modo di osservare situazioni di malessere caratterizzate da un modesto rialzo termico di breve durata (24-36 ore), inappetenza, mucose traslucide con, in pochi soggetti, un vago subittero; nessuna situa-zione invero riconducibile, se non in maniera modesta al quadro classico, comunemente descritto, di piroplasmosi (Tab. 7).

Abbiamo provveduto a “tener d’occhio” tutto il grup-po per il periodo estivo, ripetendo poi i controlli emato-logici all’inizio dell’autunno. Nessun soggetto è decedu-to ed il rientro alla più completa normalità nei soggetti che mostravano qualche specifico problema avveniva, da un punto di vista sintomatologico in pochi giorni, nel periodo di 2-4 settimane al massimo.

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Quadro ematologico e primo incontro con i parassiti endoeritrocitari enzootici in agnelli di razza Altamura-na.

Una delle curiosità da sanare riguardava il primo in-contro che gli ovini autoctoni avevano con i parassiti

enzootici. Per questo era necessario seguire passo pas-so la vita evolutiva degli agnelli, studiandone il quadro ematologico fino a raggiungimento della condizione di adulto e così, partendo dal periodo immediatamente pe-rinatale, furono definiti i valori ematologici standard di

Parametri ematologici Codice Sani (22) Malati (28)Ematocrito (dl/dl) (%) HCT (%) 32.34±0.55 30.26±0.50**Emoglobina (g/dl) HGB (g/dl) 9.85±0.18 9.20±0.50*Globuli rossi (x106/ml) RBC x 106 9.52±0.19 6.26±0.70**Globuli bianchi (x103/ml) WBC x 103 9.63±0.40 9.46±0.37 nsVolume Corpusculare Medio (fL) MCV (fl) 34.31±1.43 48.71±1.29**Emoglobin Corpusculare Media (pg) MCH (pg) 10.44±0.46 15.16±0.42**Concentratione di MCH (g/l) MCHC (%) 30.54±0.44 31.20±0.40 nsResistenza globulare media RGM (g%) 0.72±0.02 0.82±0.03**

Tabella 7. Confronto tra i valori ematologici riscontrati in pecore Altamurane sane e affette da babesiosi (valori medi + e.s. e livelli di significatività delle differenze; Pieragostini et al., 1988).

Età HCT % Hb g/dl RBC x106ml

WBC x103ml MCV fl MCH pg MCHC %

2 giorni 42.0 ± 4.1 13.0 ± 1.0 9.6 ± 0.9 4.5 ± 0.98 43.7 ± 3.0 13.5 ± 0.9 31.1 ± 1.347 giorni 39.7 ± 1.9 12.6 ± 0.9 8.7 ± 1.1 5.4 ± 1.6 46.2 ± 6.0 14.7 ± 2.2 31.7 ± 1.1715 giorni 39.5 ± 2.0 12.5 ± 0.7 9.0 ± 0.9 5.6 ± 2.8 44.1 ± 2.8 14.0 ± 0.5 31.7 ± 1.521 giorni 35.7 ± 1.5 11.6 ± 0.7 9.4 ± 0.8 5.3 ± 1.7 38.2 ± 3.32 12.4 ± 1.0 32.5 ± 2.130 giorni 35.4 ± 1.9 11.2 ± 0.5 9.2 ± 1.2 6.1 ± 2.5 38.7 ± 4.9 12.4 ± 1.5 31.7 ± 1.445 giorni 35.5 ± 2.0 10.8 ± 0.8 9.9 ± 1.2 7.5 ± 2.1 36.1 ± 3.8 11.0 ± 1.4 30.5 ± 1.92 mesi 34.9 ± 2.1 10.7 ± 0.4 9.8 ± 0.8 7.8 ± 1.7 35.6 ± 3.0 10.9 ± 0.9 30.6 ± 1.33 mesi 32.7 ± 1.4 10.5 ± 0.4 9.3 ± 0.8 6.8 ± 1.8 35.4 ± 3.1 11.4 ± 1.0 32.2 ± 0.94 mesi 32.6 ± 1.9 10.3 ± 0.6 9.1 ± 1.2 8.1 ± 2.0 36.2 ± 3.1 11.4 ± 1.0 31.5 ± 0.87 mesi 29.9 ± 1.4 9.1 ± 0.5 7.8 ± 0.5 7.9 ± 1.9 38.4 ± 1.3 11.7±0.6 30.6 ± 0.89 mesi 30.1 ± 1.3 9.4 ± 0.8 7.9 ± 0.7 7.3 ± 1.4 38.1 ± 2.6 11.9 ± 0.9 31.2 ± 1.512 mesi 28.5 ± 1.5 9.4 ± 0.5 7.5 ± 0.3 8.9 ± 1.4 38.0 ± 2.1 12.4 ± 0.6 32.8 ± 1.315 mesi 28.4 ± 1.5 9.3 ± 0.4 7.6 ± 0.4 8.8 ± 1.4 37.5 ± 2.5 12.2 ± 0.7 32.7 ± 1.318 mesi 28.6 ± 0.7 9.3 ± 0.3 7.8 ± 0.3 8.6 ± 1.4 36.8 ± 1.0 12.0 ± 0.5 32.6 ± 0.7

Tabella 8. Prospetto riassuntivo dei prelievi e dei risultati delle analisi ematologiche (media + d.s.) su 22 agnelli di razza Altamurana monitorati periodicamente nel corso dei primi 18 mesi di vita.

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22 agnelli di razza Altamurana per un periodo di 18 mesi di vita.

Per ogni soggetto furono effettuati 14 prelievi, rav-vicinati fino ai 45 giorni allo scopo di valutare anche lo switching emoglobinico, ovvero i tempi di sostituzione della emoglobina fetale; successivamente furono effet-tuati controlli più diradati fino al compimento di un anno e con cadenza trimestrale per gli ultimi prelievi, valutan-do su ogni campione l’emocromocitometrico completo.

I risultati ottenuti hanno consentito di acquisire una serie di informazioni che possono essere sintetizzate nei seguenti punti:

- la sostituzione della emoglobina fetale (HbF) si rea-lizza in questa razza nel periodo compreso entro le prime 5 settimane di vita;

- nei primi 5 mesi il valore degli RBC rimane pratica-mente costante con valori compresi nella media tra i 9 ed i 10 milioni e si stabilizza sui 5 mesi su valori compresi tra 7 ed 8 milioni (Tab. 8);

- i primi rilievi di emoprotozoi (Theileria spp e Ana-plasma spp.) compaiono intorno ai 7 mesi di età.

Risposta nei confronti dell’anemia.Come emerso dalla indagine riportata, sulla base del-

la valutazione di parametri di base quali HCT, HGB ed MCHC, gli animali autoctoni pugliesi dimostrano una straordinaria capacità nel mantenere un buon livello di omeostasi nel corso di TBD ed è difficile distinguere con sicurezza, se il modesto grado di anemia che si realizza in tali patologie, sia la causa o l’effetto della non su-scettibilità. In considerazione del fatto che sicuramente il sintomo dominante nella patologia di nostro interesse, ovvero l’anemia, coinvolge pesantemente la funzionalità dell’apparato eritropoietico, fu realizzata una prova utile per valutare se fosse possibile individuare una partico-lare capacità di risposta allo stimolo eritropoietico nelle razze autoctone, confrontando la risposta all’anemizza-zione sperimentale di soggetti suscettibili alle MTZ e soggetti non suscettibili (Pieragostini et Petazzi, 1999).

Allo scopo furono composti due gruppi di quattro pecore ciascuno appartenenti in un caso alla razza Ro-manov suscettibile e nell’altro, alla razza Altamurana. Tutti questi animali furono sottoposti a salassi ripetuti quotidianamente dalla vena giugulare, fino a raggiun-gere una diminuzione del PCV pari a circa il 35-40%, diminuzione equiparabile a quella osservata nei soggetti che presentano sintomi clinici da Babesie ovis (Yeruham et al., 1998). Dal confronto relativo all’andamento della

risposta allo stimolo anemizzante nelle due razze, i risul-tati più interessanti riguardaronono il fatto che, contra-riamente ai soggetti di razza Romanov, i soggetti di razza Altamurana presentavano uniformità di risposta relativa-mente a parametri ematologici quali il valore ematocrito (HCT) la concentrazione ematica di emoglobina (HGB) ed il numero dei globuli rossi (RBC) e che il confronto tra le due razze effettuato tramite i coefficienti di cor-relazione, relativamente a detti parametri, indicava una differenza altamente significativa (Tab. 9). Sulla base dei risultati ottenuti emersero le seguenti considerazioni:

- il diverso comportamento delle due razze, uniformi-tà della risposta da un lato e variabilità estrema nell’altro consente di argomentare che in un caso, quello della raz-za Altamurana, l’evento di anemizzazione sia un stress usuale da correlare alla costante pressione selettiva eser-citata dai parassiti anemizzanti presenti nell’ambiente, mentre la risposta elevata e variabile, nei soggetti di razza Romanov, testimonierebbe il fatto che per essi lo stesso stress anemizzante sia inusuale;

- al di là della valutazione della risposta nei confronti dell’anemia, va sottolineato comunque come i due grup-pi di animali presentavano sostanziali e costanti diffe-renze relativamente all’assetto ematologico che eviden-ziavano, complessivamente, una maggiore efficienza nei riguardi della anemia da parte dei soggetti di razza Altamurana, (livelli bassi di HCT, HGB e RBC contro elevati i valori di MCV, MCH, MCHC);

- apparentemente non vi erano grandi differenze nei valori assoluti eritrocitari nelle due razze confrontate ma, tuttavia, mentre i soggetti di razza Altamurana non dette-ro segni di malessere continuando a bere ed a mangiare durante tutto il periodo di sperimentazione, i soggetti di razza Romanov mostrarono chiari segni di sofferenza con abbattimento del sensorio, scarsa reattività, inappe-tenza, al punto da rendere indispensabile un intervanto di supporto con soluzione glucosata per superare lo stato di anergia.

Tabella 9. Differenze statistiche tra i coefficienti di correlazione calcolati con l’analisi di regressione uti-lizzata per confrontare le due razze quanto ai valori di HCT, HGB, RBC (Pieragostini et Petazzi 2000).

HCT HGB RBCEntro Altamurana n.s n.s n.sTra Altamurana and Romanov **** **** ****Entro Romanov *** *** ***

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l’adattamento all’ambiente193

In sintesi anche se in linea di massima la risposta pu-ramente numerica alla anemizzazione non risultò molto diversa nelle due razze, è fuori di dubbio che la razza locale dimostrò una efficienza migliore e non è da esclu-dere che questa possa essere la chiave di lettura della migliore capacità di resistere allo stress anossiemico, con una migliore capacità di produrre globuli rossi con elevata quantità di emoglobina (sferociti) e con una mi-gliore capacità di attivare il turnover degli eritrociti vec-chi e meno efficienti.

Questi risultati supportano l’ipotesi che accanto ai fattori di stress, per i quali è accettata una capacità di predisposizioni alle infezioni (Agyemang et al. 1990; Bennison et al 1998; Oppliger et al. 1998), la predispo-sizione genetica, molto importante nei soggetti non au-toctoni, gioca un ruolo importantissimo nella patogenesi e soprattutto nel manifestarsi delle patologie da MTZ.

Ruolo della milza come effetto tampone tra le eve-nienze acute e subcliniche delle MTZ negli animali tol-leranti.

Dopo avere osservato la straordinaria capacità di ri-pristino della quota eritrocitaria operata dalla milza negli ovini di razza Altamurana anemizzati sperimentalmente, il passo successivo è stato compiuto indagando sul ruolo della milza come effetto tampone tra le evenienze acute e subcliniche delle MTZ negli animali tolleranti (Petazzi et al.,1996). In effetti, nella prova precedente (Pierago-stini et Petazzi, 1999) la presenza della milza non aveva consentito di valutare eventuali differenze macrosco-piche nella capacità di recupero dalla anemia di razze diverse. Partendo dall’assunto che le malattie emopa-rassitarie non abbiano in realtà un andamento stagionale nell’allevamento legato alla presenza o meno dei vettori e che, probabilmente, la o le parassitosi, sempre presenti in forma silente, vengono limitate nel loro manifestarsi in forma violenta dalle risposte organiche ed in partico-lare della milza, era quindi necessaria la valutazione del ruolo possibile della milza nella insorgenza della forma clinica di dette malattie. Di conseguenza quattro peco-re Altamurane furono splenectomizzate ottenendo i se-guenti risultati:

la capacità di eliminare dal circolo le emazie paras-a. sitate, nel soggetto non splenectomizzato, è deputata pro-babilmente alla attività di regolazione del tournover delle emazie operato dalla milza; quelle opsonizzate vengono eliminate con contemporanea immissione in circolo di emazie giovani (sferociti) che supportano egregiamente

le necessità funzionali e, nel contempo, questi sferociti, quando presenti in quantità consistente, sono una buo-na indicazione ovvero una utile spia per una maggiore accuratezza dell’esame microscopico inteso anche come ricerca mirata degli emoprotozoi.

la anemia che si realizza nelle MTZ, anche negli b. animali autoctoni, una volta eliminato il velo della attivi-tà reintegrativa della milza, risulta legata inequivocabil-mente ad una risposta immunologica deprivativa operata dal sistema reticolo endoteliale (SRE);

Sulla base di questi risultati non è dato valutare se, effettivamente, nei soggetti tolleranti la capacità di ri-sposta legata ad un sangue “diverso” sia la chiave di volta per una risposta adattata che modula in maniera ottimale la eliminazione delle emazie parassitate evitan-do nel contempo l’instaurarsi di una risposta immuno-logia abnorme; certo però è che la presenza di piccole cariche parassitarie consente di mantenere uno stato di premunizione. Nelle razze non tolleranti la milza non sarebbe “preparata” a questa attività di ricambio rapido ma, soprattutto, il sistema immunitario parte troppo tardi per quanto riguarda una difesa efficace nei riguardi dei parassiti, ma troppo violentemente, o forse in maniera “inconsulta” contro gli eritrociti opsonizzati non consen-tendo, nonostante la straordinaria efficienza della milza, un sufficiente ripristino delle emazie sottratte.

Interessante, in ogni caso, la osservazione della so-pravvivenza di due soggetti splenectomizzati che, in condizioni di allevamento semibrado, non hanno per anni mostrato segni di malattia; a smentire probabilmen-te il ruolo della milza come unico fulcro del problema, in positivo ed in negativo, ed a rivalutare la presenza di fat-tori di tolleranza extra organi, legati sicuramente al SRE ma, probabilmente anche alle sospettate particolarità del sangue, tipiche di queste razze.

Il polimorfismo emoglobinico Molecola del sangue per eccellenza, l’emoglobina fu

al centro dei riflettori per buona parte del secolo scorso, durante il quale sono stati affrontati studi che ne han-no definito la struttura, la relazione struttura-funzione, la determinazione genetica, gli aspetti ontogenetici e fi-logenetici nonché il polimorfismo in innumerevoli spe-cie di vertebrati. La proteina completa dell’emoglobina è formata da quattro catene polipeptidiche ripiegate. I gruppi eme sono strutture non proteiche attaccate alle catene polipeptidiche e contenenti atomi di ferro che legano e trasportano ossigeno. Il tetramero fisiologica-

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194gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

mente è formato da due subunità identiche alfa e due beta disposte simmetricamente.

La presenza di un polimorfismo emoglobinico nelle pecore fu dimostrato da Harris e Warren nel 1955 i quali, sulla base della diversa mobilità elettroforetica, indivi-duarono due tipi di emoglobina chiamate HbA e HbB. Le due molecole differivano per le catene beta entrambe costituite da 145 aminoacidi, mentre le due catene alfa erano identiche (Huisman et al., 1965).

Dopo questa prima segnalazione molte sono le acqui-sizioni che si sono aggiunte e man mano che si proce-deva con gli studi, il polimorfismo emoglobinico degli ovini metteva in luce una complessità (Huisman et al., 1958; Vaskov et Efremov, 1967; Huisman et al., 1968; Vestri et Salmaso, 1981; Vestri et al., 1983) che non ces-sa di suscitare interesse soprattutto in casi, come la razza Altamurana, nei quali l’elevato polimorfismo (Tab. 10) costituisce un prezioso modello di studio.

Quanto variegato possa essere il quadro del polimor-fismo emoglobinico degli ovini è esemplificato nella figura 3 nella quale sono riportati i risultati della feno-tipizzazione di singoli soggetti adulti caratterizzati da diverso genotipo alfa e beta globinico.

Il polimorfismo emoglobinico: valore adattativo del sistema beta globinico

Considerando il sistema beta nel suo complesso, uno degli aspetti più intriganti concerne la distribuzione dell’allele HBBA che è più diffuso nelle razze ovine ori-ginatesi al di sopra del 40° parallelo (Agar et al.,1972) ed è caratterizzato da una maggiore affinità per l’O2. Sul-le tracce del lavoro di Agar et al. (1972) altri ricercatori (Huisman & Kitchen 1968; Pieragostini et al. 1994) han-no avanzato l’ipotesi che l’allele HBBA fosse in qualche modo associato ad uno svantaggio selettivo in ambienti caldo-aridi.

Ciò potrebbe sembrare in contraddizione con il fat-to che i soggetti portatori dell’aplotipo β-α ovvero gli omozigoti AA e gli eterozigoti AB siano in grado di at-tivare il gene HBBC sotto lo stimolo dell’eritropoietina, in risposta ad anemie o perdite di sangue, e, quindi, di produrre l’HbC. In realtà l’HbC, avendo una affinità per l’O2 maggiore dell’ HbA ed ancor più dell’HbB, ha una minore tendenza al rilascio dello stesso a livello periferi-

Figura 3. Focalizzazione isoelettrica in gel di poli-acrilamide di emolisati di soggetti adulti caratterizzati da diverso genotipo alfa e beta globinico. (Pieragostini et al., 2006).

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l’adattamento all’ambiente195

Razza HBA1 HBA2 HBA3 HBB RiferimentoAltamurana aL =0.927 aL =0.881

aH =0.072bA =0.095

Pieragostini et al., 2001 e Di Luccia et al., 1997(N=126) aA =0.049 aH=0.119 bB =0.822

aD =0.025 bI =0.083Gentile di Puglia aL=0.850 aL=0.752

aH =0.074bA =0.117

Pieragostini et al., 2006 (N=294) aA=0.121 aH=0.248 bB =0.832aD=0.029 bI =0.051

Leccese (N=996) aD=0.025 ? ? bA=0.103 Pieragostini et al., 1994Bergamasca + Maremmana + Sarda + Sopravvissana + Wüttenberger + Berrichon + Finnish + Ile de France =206

- aH =0.152 Calcolate da Vestri et al., 1983

- -

Bergamasca + Maremmana, + Sopravvissana + Sarda (N=128)

aD=0.024 - aH=0.063 -Calcolate da Vestri et al., 1983 e Vestri et al., 1987

Gentile di Puglia + Sarda=100 aA=0.03 aH =0.04 -

Sarda (N=258) aA=0.02 aH=0.10 * -bA=.03bB=0.89bI=0.08

Manca et al., 1993 e

Hadjjsterkotis et al., 1995

Sarda (159)aA=0.025

aH=0.085 aH=0.013bA =0.041 Alloggio et al., 2006

aD=0.0 bB =0.871 Alloggio et al., 2007 bI =0.088

Cyprus (N=24) aA=0.12 - - bA=0.17bB=0.83

Manca et al., 1993 e Hadjjsterkotis et al., 1995

Chios (N=66 aA=0.40 - -bA=0.11 bB=0.64 bX=0.24

Manca et al., 1993 e

Hadjjsterkotis et al., 1995

Churra (N=26) - - aH=0.00 - Ordas et al., 1998Manchega N=23 - - aH=0.14 - Ordas et al., 1998

Comisana (144)aA=0.101

aH=0.157 aH=0.035bA =0.051 Alloggio et al. 2006

aD=0.0 bB =0.785 Alloggio et al. 2007 bI =0.164

Valle del Belice (149)

aA=0.037

aH=0.165 aH=0.070

bA =0.020 Alloggio et al. 2006aD=0.0 bB=0.753 Alloggio et al. 2007

bI=0.227

Tabella 10. Frequenze ai loci alfa e beta nella razza ovine pugliesi confrontate con i dati riportati in letteratura.

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196gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

co (Dawson et Evans, 1965 e 1967; Huisman et Kitchen, 1968; Agar et al., 1977 Vaccaro-Torracca et al., 1980) il che comporta che gli ovini AA o AB, i quali sembrereb-bero dotati, a fronte di stimoli selettivi, di una capaci-tà di risposta aggiuntiva rispetto ai BB; in realtà, per la presenza dell’HbC risultante, sono sfavoriti in ambienti caratterizzati da patogeni endemici anemizzanti.

Nella razza Altamurana, oltre ai succitati tipi A e B è stato trovato un nuovo variante (Pieragostini et al., 1991) il quale dopo una serie di verifiche è stato iden-tificato come forma allelica del gene HBBB, uguale a quello individuato da altri ricercatori nella razza Sarda e denominato HBBI (Manca et al., 1993). Recentemente Alloggio et al. (2006; 2007) hanno dato notizia del ri-trovamento di detto variante anche nelle razze siciliane Comisana e Valle del Belice.

Recentemente Ordas (2004) ha dimostrato l’esisten-za di un cline latitudinale secondo il quale la frequenza dell’allele HBBB crescerebbe dell’ordine di 0.02 per grado di latitudine, il che andrebbe a supporto dell’idea che le variazioni fenotipiche dell’emoglobina, legate al locus HBB, abbiano un significato adattativo. In linea con i dati di Ordas, Ibeagha-Awemu ed Erhardt (2004) hanno descritto razze ovine africane monomorfiche per l’allele HBBB.

La ragione di questo fenomeno può essere individua-ta nella relazione trovata tra il genotipo HBB ed i valori ematologici. L’associazione dell’allele HBBB con valori ridotti di ematocrito fu inizialmente suggerita da Evans et Whitlock (1964) e poi da Allomby et Urquhart (1976) per poi essere confermata nell’ampia indagine sulla Lec-cese da Pieragostini et al., (1994; Tab. 11) cui si sono aggiunti i dati di Gauly et Erhardt (2002) su razze africa-ne e quelli di Pieragostini et al., (2005) sulla Gentile di Puglia; quest’ultimo lavoro ha inoltre messo in evidenza lo stesso effetto significativo del locus HBB sul volu-me corpuscolare medio (MCV) riscontrato nel caso del valore ematocrito ed uno opposto relativo alla concen-trazione corpuscolare media (MCHC). In sintesi, come

si può osservare in tabella 12, i valori di HCT ed MCV diminuiscono con l’aumento di geni HBBB, mentre pa-rallelamente aumenta il valore di MCHC.

É noto come la scoperta dei varianti anormali dell’emoglobina abbia consentito nell’uomo di deluci-dare i meccanismi molecolari che stanno alla base della funzione normale di detta molecola.

Così, in alcune popolazioni umane, uno dei mecca-nismi di compensazione per emoglobine ad alta affinità con l’ossigeno è un aumento della massa dei globuli rossi (Nagel, 1988). In analogia, i più elevati valori di HCT ed HGB nelle pecore HBBA potrebbero essere la risposta fisiologica alla alta affinità per l’ossigeno dell’HbA. Di contro la più bassa affinità per l’ossigeno dell’HbB negli eritrociti delle pecore HBBB consente di mantenere una normale pO2 nei tessuti anche con bassi valori di HCT.

Per una migliore comprensione del fenomeno è oppor-tuno osservare i dati riportati nella tabella 11 nella quale sono riportati i risultati ottenuti da un approfondimento di indagine effettuato su ovini di razza Gentile di Puglia caratterizzati da diverso genotipo al locus HBB. Il dato più interessante è quello relativo all’MCV, che sugge-rirebbe la considerazione che la diminuzione dell’HCT sia legato ad una diminuzione del volume degli eritrociti cui non corrisponde una riduzione del contenuto di emo-globina endoeritrocitaria (MCH); logica conseguenza di questi due rilievi è il significativo aumento dell’MCHC che consente di classificare gli eritrociti in normocromici o ipocromici a seconda della concentrazione di emoglo-bina. Tutti i valori ematologici registrati nei diversi feno-gruppi sono nella normalità per cui in generale i globuli

Variabile ematologica CodiceHBB

AA (n = 8) AB (n = 184) BB (n = 755)LSM SE LSM SE LSM SE

Emoglobina (g/dl) HGB 10.14 a 0.41 9.96 a 0.11 9.58b 0.07Ematocrito (dl/dl) HCT 31.91a 1.28 30.73a 0.34 29.43b 0.23Concentrazione MCH (g/l) MCHC 31.97a 1.07 32.68a 0.28 32.78a 0.20

Tabella 11. Medie (LSM) ed errore standard (SE) dei valori ematologici dei genotipi al locus HBB nella razza Leccese. Il codice fa riferimento alle abbreviazioni per le variabili usate nel testo. Medie con diverse lettere in apice differiscono significativamente (P < 0.05) (Piera-gostini et al., 1994).

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l’adattamento all’ambiente197

rossi possono essere considerati normocitici. Tuttavia poiché il valore di MCHC è direttamente proporziona-le alla concentrazione dell’emoglobina endoeritrocitaria ed alla densità degli eritrociti (Fabry et Nagel 1982), a causa del loro volume più ridotto, i globuli rossi delle pecore HBBB devono essere considerati ipercromici.

Considerando che la quantità di ossigeno rilasciata ai tessuti è correlata positivamente al flusso sanguigno ed alla quantità di O2 che esso trasporta che dipende a sua volta dalla quantità di emoglobina (Nagel, 1988), i dati in tabella 12 suggeriscono che le pecore HBBB possono contare su una efficienza respiratoria migliore di quel-la delle pecore HBBA rinforzando l’ipotesi originaria di maggiori capacità adattative agli ambienti caldo ari-di degli individui omozigoti BB, e giustificando il cline latitudinale di frequenza registrato da Ordas (2004) per l’allele HBBB.

Il polimorfismo emoglobinico: il sistema alfa globi-nico

Pur avendo già accennato al fatto che l’elevato poli-morfismo delle pecore Altamurane ha rivestito un ruolo cruciale per gli sviluppi della conoscenza del sistema ge-netico alfa globinico e della sua espressione, vale la pena sottolineare che la presenza nella popolazione dell’allele raro D (HBA1D), variante del gene in 5’, ha fornito l’op-portunità di studiare l’organizazione del relativo cluster genico.

La peculiarità dell’allele D sta nel fatto che è stato trovato sempre in associazione con due o anche tre geni alfa (Fig. 4). Ciò ha consentito di selezionare i riprodut-tori fra i portatori del gene HBA1D e di programmare gli accoppiamenti allo scopo di ottenere soggetti omozigoti per detto gene; in particolare, come è possibile desumere osservando la figura 4, i soggetti omozigoti DD sono ne-cessariamente omozigoti triplicati, eterozigoti triplicati/

quadruplicati o omozigoti quadruplicati.La particolare organizzazione del cluster con la pre-

senza di geni che producono globine diverse, ha rappre-sentato una condizione felice per la verifica dell’espres-sione dei singoli geni; infatti aplotipi alfa con geni in so-prannumero non sono infrequenti nei mammiferi, ma si tratta, nella maggior parte dei casi, di copie dello stesso gene. Nel 1986, Proudfoot aveva suggerito che, nel caso di geni duplicati, una riduzione dell’espressione fosse il risultato di un interferenza nella trascrizione operata dal gene precedente sul successivo.

Lo studio effettuato sulle pecore Altamurane ha con-sentito di generalizzare il fenomeno alle triplicazioni e quadruplicazioni, dimostrando nell’ambito del cluster alfa l’esistenza di un gradiente di espressione che da un gene al gene successivo, a partire dal valore del gene in 5’ si riduce di una quota pari al 40% del gene prece-dente (Vestri et al., 1991, Vestri et al., 1993; Vestri et al., 1994). Il polimorfismo quantitativo del sistema alfa globinico conseguente al gradiente di espressione è bene evidente nella figura 3 nella quale i diversi pattern si di-versifichino non solo per il tipo di bande emoglobiniche, ma anche per l’intensità delle stesse.

Come nota a margine, va sottolineato che dal con-fronto dei dati produttivi dei soggetti caratterizzati da aplotipi soprannumerari con quelli dei soggetti normali è risultato che non esistono differenze (Pieragostini et al., 1995).

HBB AA (n = 6) AB (n = 55) BB (n = 228)

Variabile ematologica Codice LSM SE LSM SE LSM SEGlobuli rossi (x106/ml) RBC 9.71 0.59 9.12 0.20 9.08 0.09Emoglobina (g/dl) HGB 10.79 0.52 10.41 0.18 10.09 0.08Ematocrito (dl/dl) HCT 32.48a 1.56 30.68a 0.53 29.48b 0.25Volume corpuscolare medio (fL) MCV 33.51 1.08 33.66a 0.37 32.38b 0.17Emoglobina corpuscolare media (pg) MCH 11.11 0.41 11.48 0.14 11.19 0.06

Concentratione MCH (g/l) MCHC 33.11a 0.46 34.20b 0.15 34.53c 0.07

Tabella 12. Medie (LSM) ed errore standard (SE) dei valori ematologici dei genotipi al locus HBB nella razza Gentile di Puglia. Il codice fa riferimento alle abbrevia-zioni per le variabili usate nel testo. Medie con diver-se lettere in apice differiscono significativamente (P < 0.05) (Pieragostini et al., 2005).

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198gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

Il polimorfismo emoglobinico: switching emoglobini-co negli agnelli

Il polimorfismo relativo ai fenomeni di ontogenesi che determinano la sostituzione dell’emoglobina embrionale (Kleihauer et Stöffler, 1968) con quella fetale (Breath-nach, 1963) e successivamente di questa con l’emoglo-bina adulta (Drury et Tucker, 1962, 1963; Masala et al., 1991), sono un fenomeno comune a tutti i mammiferi ed è uno dei più investigati fra gli esempi di regolazione genica.

Uno studio effettuato su 106 agnelli Altamurani (Pie-ragostini et al., 2000) ha permesso di stabilire che la so-stituzione della emoglobina fetale (HbF) si realizza in questa razza nel periodo compreso entro le prime 5 set-timane di vita; in particolare dalla analisi di regressione effettuata sui dati densitometrici di HbF rispetto ai gior-ni dalla nascita (r = 0.98) risulta che al momento della nascita gli agnelli si presentano mediamente con il 94% di HbF (c ± e.s. = 93.96 ± 2.91) ed il 6% di emoglobina adulta la cui concentrazione cresce mediamente al ritmo del 2,6% al giorno in funzione del corrispondente decre-mento dell’HbF (Fig. 5).

Il polimorfismo emoglobinico: effetto funzionale degli arrangiamenti alfa globinici sul quadro ematologico.

Anche se al momento in letteratura dati che consen-tano una comparazione di frequenze tra le diverse razze ovine sono scarsi (Tab. 10), sembra concreta la sensa-zione che nelle razze mediterranee la diffusione di indi-vidui con geni alfa in soprannumero rispetto ai normali duplicati (2/2), ovvero di portatori di arrangiamenti alfa genici triplicati o quadruplicati (3/2 e 4/2), sia maggiore rispetto a razze la cui tradizionale zona di allevamento è spostata verso latitudini con climi piu temperati. Questa idea, da un lato, e dall’altro il fatto che le razze mediter-ranee sono tolleranti nei confronti delle malattie enzo-otiche causate da parassiti endoeritrocitari (Pieragostini et al., 1988; Dario et al., 1991), hanno fatto sì che ma-turasse il desiderio di verificare se esiste una relazione tra i due fenomeni. Per verificare l’ipotesi zero ovvero la neutralità della presenza dei geni α globinici in sovran-numero era necessario studiare da un lato l’espressione dei geni stessi e dall’altro il quadro ematologico dei por-tatori di arrangiamenti triplicati e quadruplicati.

Figura 4. Aplotipi alfa globinici a tutt’oggi trovati ne-gli ovini. L’efficienza dell’espressione genica è indicata in termini percentuali in parentesi (Vestri et al., 1991).

N° agnelli N° osservazioni b ± e.s. c ± e.s.Età (gg)

dell’agnello per y = 0

Durata (gg) in circolo degli eri-

trociti fetali106 630 2,60±0.10 93,96±2.91 35.3 38.5

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l’adattamento all’ambiente199

Il primo passo è stato quello di ottenere da incroci programmati individui omozigoti per i tratti in esame il cui effetto, ancorché reale, sarebbe risultato amplificato dalla condizione di omozigosi. Nel giro di un triennio la nascita dei genotipi attesi (3/3, 4/3 e 4/4), ha permes-so di indagare l’espressione dei geni alfa negli arangia-menti triplicati e quadruplicati con la verifica del sum-menzionato gradiente di espressione riportato. Succes-sivamente, con la nascita di nuovi soggetti omozigoti è stato possibile documentare il fatto che la vita media in circolo degli eritrociti fetali di detti soggetti 3/3, 4/3 e 4/4 si aggira intorno alle cinque settimane mentre quella dei soggetti 2/2 con normale assetto duplicato va oltre le sei (Pieragostini et al., 1994b). Il fatto che i soggetti con geni alfa in soprannumero presentassero un turno-ver accelerato degli eritrociti in circolo faceva supporre che detti eritrociti venissero catturati dalla milza preco-cemente in quanto individuate come cellule senescenti. L’invecchiamento precoce degli eritrociti doveva essere quindi considerato l’effetto della presenza dei geni in so-prannumero.

Partendo dalla considerazione che in generale un surplus di geni α globinici nell’uomo si traduce in un surplus di prodotto, fu impostato un lavoro con l’obiet-tivo di verificare se ovini portatori di geni α globinici extranumerari presentavano un rapporto tra le catene α e β maggiore di 1 (ovvero un eccesso di catene α e se l’eventuale squilibrio si traducesse in differenze apprez-zabili nel quadro ematologico.

Il punto di partenza furono 15 soggetti caratterizzati

dalla presenza esclusiva di aplotipi soprannumerari ααα e αααα (DD), 20 eterozigoti ααα e αααα (ND) e 30 omozigoti αα normalmente duplicati (NN). I 65 soggetti furono sottoposti ad una serie di analisi, la prima delle quali effettuata mediante cromatografia liquida ad alta risoluzione confermò l’ipotesi di sbilanciamento del rap-porto tra le catene alfa e beta (Tab. 13; Pieragostini et al., 2003).

Dall’analisi di regressione effettuata su dati costitui-ti da coppie di osservazioni del numero dei geni alfa e del corrispondente valore di rapporto tra le catene alfa e beta è evidente la correlazione altamente significativa (r = 0.967) tra il numero di geni alfa e la quantità di globine alfa con un rapporto α/β (Fig. 6); inoltre, confrontando i valori in tabella 6 con quelli in figura 4, si può constatare la quasi perfetta corrispondenza tra i valori osservati ed i valori teorici calcolati.

Le successive indagini relative al quadro ematologico misero in evidenza come primo dato il fatto che tutti i valori osservati, pur presentando nel complesso alcune peculiarità, ricadevano entro i limiti della normalità per la specie (confr. tab. 14 e 15 con tab. 5); nel confronto tra

Figura 5. Rappresentazione grafica del fenomeno dello switching emoglobinico in agnelli di razza Alta-murana secondo l’equazione y = 2.6 x + 93.96 come da tabella sottostante. (Per ciascun soggetto sono stati effettuati un numero medio di sei prelievi nell’arco delle prime sei settimane di vita).

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200gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

i gruppi, tuttavia in tabella 14, si osservava che rispetto ai soggetti con normali arrangementi duplicati, i portato-ri di arrangiamenti soprannumerari presentavano eritro-citi meno numerosi (RBC) e più grandi (MCH) i quali inoltre come si evinceva dai dati in tabella 15 avevano una minore resistenza globulare.

Un fenomeno simile di alta frequenza di mutazio-ni a carico dei geni, dei loro arrangiamenti e della loro espressione nelle popolazioni umane si ritrova in asso-ciazione con la presenza degli emoparassiti del genere Plasmodium; in particolare, nei paesi del Mediterraneo, la risposta selettiva al Plasmodium si è concretizzata in un’alta frequenza di β-talassemie.

La storia evolutiva dei geni è spesso molto complessa e quando una nuova mutazione casuale si manifesta non

è possibile prevedere il suo effetto o il suo potenziale evolutivo. Sicuramente non si sarebbe potuto prevede-re che certi geni avrebbero causato malattie letali negli omozigoti e protetto gli eterozigoti dalla malaria. Il con-trasto tra le due opposte forze selettive, della malaria da una parte e dell’anemia falciforme e della β-talassemia dall’altra, ha prodotto un polimorfismo bilanciato: una situazione in cui il vantaggio dell’eterozigote combinato con lo svantaggio dell’omozigote mantiene il gene mu-tante ad un livello di frequenza nella popolazione basso, ma costante. L’efficacia dell’emoglobina come marcato-re genetico della resistenza alle malattie emoprotozoarie è stata dimostrata oltre che nell’uomo anche in altre spe-cie animali. Greemberg e Kendrik (1959) trovarono che razze di topi altamente resistenti al Plasmodium berghei

Numero geni alfa Numero osservazioni Media ± e.s.*2/2 = 4 30 1.005 ± 0.0213/2 = 5 12 1.145 ± 0.035

4/2 = 6 6 1.190 ± 0.0483/3 = 6 9 1.424 ± 0.0594/3= 7 4 1.517 ± 0.0384/4 = 8 5 1.660 ± 0.045

* I valori medi e gli errori standard dei valori di α/β sono stati ottenuti elaborando i dati osservati dall’integra-zione dei cromatogrammi RP-HPLC delle catene globiniche

Tabella 13. Rapporto fra le catene alfa e beta globiniche in pecore Altamurane caratterizzate da assetto α genico variabile dalla condizione di normale duplicato (2/2) fino a quella di omozigote quadruplicato (4/4).

genotipoα genico

pcv hb rbc mcv mch mchc wbc(%) (g/dl) (x106/m) (m3) (pg) (%) (x103/m)

NN (n=30)31.49± 10.61 8.87a 35.90a 12.03 33.75 8.95

0.68 ± ± ± ± ± ± 0.32 0.27 0.10 0.05 0.76 0.75

OD (n=15)31.16 9.99 7.73b 40.43b 12.88 32.05 8.04

± ± ± ± ± ± ±0.63 0.29 0.24 0.09 0.04 0.70 0.67

I valori con le lettere differiscono per P<0.05 entro la colonna; i valori senza lettere non differiscono significati-vamente entro la colonna

Tabella 14. Valori ematologici in pecore Altamurane sane, di età fra 2-5 anni, classificate sulla base dell’ arrangia-mento dei geni alfa globinici (NN= 2/2; OD= 3/3, 4/3, 4/4).

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l’adattamento all’ambiente201

possedevano tipi di emoglobine differenti da quelle del-le altre razze altamente suscettibili. Esperienze indicanti una relazione fra i tipi di emoglobine dei bovini e la re-sistenza alla theileriosi dell’est Africa furono presentate da Stobbs (1966), Burdin e Boarer (1972) e Schwellnus e Guerin (1977). Essi dimostrarono che il possesso di HbC è associato alla ridotta suscettibilità a quella malat-tia e, probabilmente, anche ad altre malattie originate da zecche in quella regione. Un’altro esempio è l’assenza di HbB nei bovini N’Dama africani, correlata con l’alta

tolleranza alla trypanosomiasi (Bangham et Blumberg 1958).

Sulla base di queste considerazioni e se è vero che la natura si ripete nei tempi e nei modi, non è irragionevole stabilire connessioni tra il polimorfismo quali- quanti-tativo dell’emoglobina degli ovini sin qui documentato con il quadro ematologico di riferimento e gli emoparas-siti soprattutto per quelli del genere Babesia e Theileria i quali, come già detto, in Puglia, esistono da sempre a tormento di ovini, equini e bovini. In altre parole, ripren-

Figura 6. a) Linea teorica costruita sulla base dell’analisi di regressione effettuata su dati costituiti da coppie di osservazioni del numero dei geni alfa (x) e del corrispondente valore di rapporto tra le catene alfa e beta (y). b) Valori di α/β calcolati in base alla retta di regressione y = 0.03 ± 0.23x in cui y è il rapporto tra le catene e x è il numero dei geni α.

numero geni alfa 2/2 = 4 3/2 = 5 4/2 = 6 3/3 = 6 4/3= 7 4/4 = 8

valori di α/β 0.96 1.17 1.21 1.35 1.5 1.71

Genotipo α genico

numero soggetti

numero osservazioni per soggetto

% NaCl

0.84 0.76 0.70 0.60nn 4 5 4.07 ± 1.97 12.70 ± 5.74 54.35 ± 8.70a 95.49±1.88od 4 5 6.65± 2.00 22.72 ± 5.80 81.84 ± 8.77b 97.73 ± 1.90

I valori con le lettere differiscono per P<0.05 entro la colonna; i valori senza lettere non differiscono significati-vamente entro la colonna.

Tabella 15. Fragilità osmotica eritrocitaria in pecore Altamurane sane classificate sulla base dell’arrangiamento dei geni alfa globinici (NN= 2/2; OD= 3/3, 4/3, 4/4). I valori in tabella sono le medie ± e.s. delle % di emolisi regi-strate alle diverse concentrazioni di NaCl.

a)

b)

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202gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

dendo quanto detto in premessa e sottolineando il fatto che la presenza dei geni α globinici in soprannumero è causa dello sbilanciamento del rapporto α/β, che a sua volta ha come effetto un accelerato turnover degli eritro-citi e che nel complesso queste peculiarità ematologiche fanno pensare ad un quadro para-talassemico, l’ipotesi zero sembra poco credibile, suggerendo, di contro che gli aplotipi soprannumerari negli ovini abbiano un valo-re adattativo in analogia a quello dei tratti beta talasse-mici nelle popolazioni umane.

Genotipo e attività riproduttiva

La funzione riproduttivaF. d’Angelo

Le razze ovine presentano una stagionalità dell’atti-vità sessuale più o meno marcata secondo la zona clima-tica nella quale si sono evolute. Come regola generale, le razze allevate nelle zone equatoriali e tropicali hanno fasi anaestrali brevi o nulle (condizionate anche da ca-renze nutrizionali), mentre quelle allevate alle maggiori latitudini dei due emisferi hanno anaestri stagionali più accentuati con una ripresa della attività sessuale quando la durata della luce diurna va decrescendo; l’apice della stagione riproduttiva si osserva in genere in corrispon-denza del solstizio d’inverno (Hafez, 1952). Questa re-gola conosce però diverse eccezioni; alcune razze ovine presentano infatti una attività sessuale ciclica durante tutto l’anno come la Romanov allevata a 58°N (Usakova et Fudelj, 1941), la Karacul a 41°N (Frolich, 1931), la Whitefaced a 51° N (Woss, 1950). La pecora di razza Sarda, allevata a 41° N, presenta una attività riprodut-tiva che risulta massima a novembre e nulla in aprile, evidenziando un comportamento analogo ad altre razze nelle quali l’estro si osserva in corrispondenza dei foto-periodi decrescenti, con il massimo dell’attività sessuale prima del giorno più breve dell’anno (Manunta et Casu, 1968). Osservazioni successive effettuate sulla stessa razza hanno messo in evidenza, negli animali pluripari partoriti nell’inverno precedente, una bassissima percen-tuale (1%) di animali ciclici alla fine del mese di maggio (Cappai et al., 1983). Anche il periodo del parto influen-za la ripresa della attività ciclica. Nella pecora di razza

Sarda infatti, nella maggior parte dei casi, si osserva un ripresa della attività ciclica dopo il parto intorno a 35 giorni in quelle partorite in autunno e 157 giorni in quelle partorite in inverno o in primavera (Naitana et al., 1990). Anche la spermatogenesi, pur non cessando del tutto, su-bisce nel corso dell’anno profonde modificazioni per ef-fetto soprattutto delle variazioni quantitative della durata della luce, che influenzano l’attività ipotalamo-ipofisaria (Ortavant et Thibault, 1956; Pellettier, 1971; Alberio, 1976; Colas, 1980). Conseguenze osservabili sono le importanti variazioni della qualità e delle caratteristiche del materiale seminale. Si può considerare l’ariete un ri-produttore stagionale, con una attività sessuale massima alla fine dell’estate e durante l’autunno, in corrisponden-za della diminuzione della durata del giorno; minima in inverno e in primavera quando si assiste all’aumento del-la illuminazione diurna (Colas et al., 1985). Negli arieti di razza Sarda, allevati a 41° di latitudine N, si assiste, rispetto a quelli delle razze allevate a latitudini superiori, ad una evoluzione anticipata dei parametri riproduttivi: la concentrazione del testosterone ematico e i diametri testicolari raggiungono i valori massimi in luglio e in agosto rispettivamente; dopo tale periodo si osserva una progressiva diminuzione di tali parametri che raggiun-gono i valori minimi in marzo (Manunta et al., 1981). Una altissima correlazione è stata riscontrata tra questi due parametri e l’andamento del volume, della concen-trazione e del numero di spermatozoi dell’eiaculato de-gli arieti della stessa razza nel corso dell’anno (Cappai et al., 1981). Un analogo comportamento si osserva negli arieti di razza Manchega per quanto riguarda le caratte-ristiche dell’eiaculato e l’evoluzione dei diametri testi-colari (Vijil, 1991). Le razze del Bacino del Mediterra-neo, come si vede, hanno un proprio ciclo riproduttivo diverso da quello delle razze del Nord Europa. Ma anche tra di loro le variazioni dell’ambiente di vita producono delle risposte riproduttive peggiorative rispetto a quelle manifestate nel loro ambiente di vita ordinario.

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l’adattamento all’ambiente203

Le risposte riproduttiveE. Pieragostini

L’andamento dei parametri riproduttivi e delle perfor-mance d’allevamento possono costituire un interessante sottolineatura dell’armonia esistente fra la specie o la razza in esame e l’ambiente in cui viene allevata. Non a caso l’ipofecondità nel caso delle bovine da latte viene utilizzata come sintomo di stress ambientale, intendendo ovviamente per ambientale anche quello che ed il quanto l’animale mangia e/o può mangiare. Con questo obietti-vo nel 1996 fu prodotto un lavoro che prendeva in consi-derazione la razza ovina Altamurana nel suo tradizionale sito di allevamento e ne confrontava le performance a quelle di altre razze allevate sulla Murgia (Pieragostini et Dario, 1996). Se il confronto relativo alla suscettibi-lità riguardo ai parassiti endoeritrocitari aveva visto le pecore di razza Comisana e Sarda competere con le raz-ze autoctone pugliesi, testimoniando che, dal punto di vista di alcuni patogeni, la latitudine colloca nell’area nordafricana la parte di Italia al di sotto del 42° paral-lelo; nel momento in cui si vanno a valutare altri aspetti fisiopatologici connessi con le produzioni delle succitate razze isolane con quelli delle pecore Altamurane e Lec-cesi, ci si rende conto di come l’aggettivo meridionale o la latitudine non siano sufficenti a definire un habitat. Come si può osservare in tabella 16, durante la stagione

di monta nella tarda primavera nella Murgia, la pecora con il più alto grado di fertilità è indubitabilmente l’Al-tamurana, seguita dalla Comisana e dalla Leccese più o meno a pari merito ed infine con grande distacco dalla Sarda; il numero di agnelli svezzati vede nuovamente in testa l’Altamurana (93%) e la Leccese (86%) seguite dalla Comisana (80%). A questo riguardo potrebbe esse-re ragionevole ipotizzare che, in un ambiente nel quale il problema per i neonati agnelli non è rappresentato dai rigori dell’inverno, ma dalla disponibilità di erba per le madri nonché per loro una volta svezzati, la selezione naturale avrebbe agito nel senso di favorire le nascite del periodo autunnale con davanti quattro o cinque mesi d’erba.

Altamurana Leccese Comisana SardaParametri riproduttivi (%)

Fertilità 85,91 69,94 75,76 43,04Prolificità 141,27 137,5 144 114,71Fecondità 121,36 96,16 109,09 49,37

Performance d’allevamento (Kg)Peso nascita 3,64 4,09 4,17 3,41Peso a 40 giorni 9,95 11,32 11,39 9,75Incrementi 0 - 40 giorni 0,157 0,179 0,177 0,156

Mortalità neonataleNati morti 1,87 4,02 5,55 -Morti entro 10 gg 3,75 4,02 5,55 -Morti dopo 10 gg 0,75 5,75 7,65 -

Agnelli svezzati 93,63 86.21 81,25 -

Tabella 16. Parametri riproduttivi, performances d’allevamento e mortalità degli agnelli (Pieragostini et Dario, 1996).

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204gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

Genotipo e nutrizioneD. Cianci, E. Castellana e E. Ciani

L’alimentazione degli ovini è, ancora oggi, affidata prevalentemente a risorse spontanee consumate dal be-stiame direttamente al pascolo. La somministrazione di integrazione all’ovile, particolarmente in periodi di minore abbondanza del pascolo, è ancora praticata con alimenti a basso costo non sempre adeguati a coprire i fabbisogni energetici, proteici e minerali degli anima-li. Ne risulta un quadro gestionale e produttivo che non può essere considerato tecnicamente razionale e che, seppure consente di limitare gli oneri finanziari, deter-mina bilanci economici certamente non favorevoli. Una significativa evoluzione della situazione non è facile da realizzare perchè richiederebbe variazioni delle tecniche di allevamento e dei piani alimentari. Senza dubbio, il settore alimentare è quello che merita le maggiori atten-zioni nella gestione delle popolazioni autoctone, per le quali la correzione delle carenze o degli scompensi più grossolani potrebbe essere realizzata con integrazioni a basso costo. Naturalmente, è necessario riuscire ad indi-viduare il più correttamente possibile le carenze stesse e, soprattutto, quelle che maggiormente determinano li-mitazioni fisiologiche nel bestiame. Uno dei metodi più interessanti di valutazione delle condizioni alimentari e nutrizionali del bestiame è il «profilo metabolico», dise-gnato dai livelli ematici di sostanze nutritive, metaboliti intermedi e finali e di enzimi, proposto da Payne et al. (1970) ed in seguito sottoposto a numerose verifiche. Fu applicato inizialmente alla valutazione delle condizioni nutrizionali degli allevamenti bovini intensivi nonchè delle eventuali «production diseases» conseguenti agli squilibri nutrizionali più frequenti in presenza di forti li-velli produttivi; ma gli stessi problemi sono individuabili per l’allevamento ovino, soprattutto nelle forme estensi-ve più diffuse nell’Italia Meridionale, per il quale le sol-lecitazioni produttive non sono particolarmente elevate, ma gli squilibri nutrizionali ugualmente presenti in virtù delle precarie ed inadeguate risorse alimentari disponibi-li. Pur considerando le maggiori difficoltà di lavoro per la presumibilmente ridotta variabilità dei componenti ematici nei livelli costantemente subcarenziali e per la minore importanza economica dei soggetti, l’estensio-ne di questo metodo di studio agli allevamenti ovini è certamente utile ed opportuna per consentire non solo la corretta valutazione a livello di grandi greggi o di aree

omogenee di allevamento, delle più preoccupanti e fre-quenti carenze, ma anche la individuazione di eventua-li condizionamenti genetici. Agli ovini hanno dedicato le loro attenzioni in Italia alcuni studiosi (Balbo et al., 1981; Zanetti et al., 1981 e 1983; Ferrari 1982; Gior-getti et al., 1982 e 1983; Magistri et al., 1983; Meli et al., 1983; Pugliese et al., 1983; Cianci et al, 1984) che hanno lavorato su razze diverse – Altamurana, Barba-resca, Bergamasca, Comisana, Leccese, Massese - evi-denziando che, anche per questa specie, le costanti ema-tiche sono estremamente variabili con le caratteristiche dell’animale (tipo metabolico, età, sviluppo e conforma-zione, attività riproduttiva, stato fisiologico) e dell’am-biente (clima ed alimentazione). Naturalmente non tutti i parametri ematochimici risentono nella stessa misura dei diversi fattori di variabilità, cosa che, da una parte, impone di allargare sempre più le ipotesi di studio e gli approfondimenti e, dall’altra, suggerisce la possibilità di utilizzare profili metabolici diversamente formulati per occasioni e scopi diversi. Di particolare interesse per gli ovini è stata considerata la presenza di condizionamenti genetici alla variabilità di alcune delle componenti ema-tiche; il che potrebbe consentire la scelta di razze, ceppi o famiglie maggiormente adatte a tollerare determinate condizioni ambientali (particolarmente alimentari). Un ampio lavoro (Cianci et al., 1983), svolto in Puglia pres-so privati allevamenti con programmazioni alimentari diversificate, ha portato a risultati pratici estremamen-te interessanti che si sono dimostrati utili per formulare suggerimenti agli allevatori sulle integrazioni alimentari più economiche ed adeguate a fronteggiare i più gravi squilibri alimentari. L’indagine fu condotta nella sta-gione primaverile su pecore in lattazione appartenenti a due ceppi geneticamente differenti della razza Leccese per valutare l’azione del trattamento alimentare e delle condizioni ambientali sulle costanti ematiche: glicemia, proteine totali, albumina, creatinina, urea, colesterolo, GOT, fosforo inorganico, calcio, sodio, potassio, rame, ferro, magnesio, ematocrito. Venne evidenziato che il metabolismo energetico e quello proteico nonchè cole-sterolemia e livello ematico di P+, Ca++ e Mg++ dipendo-no, soprattutto, dallo stato nutrizionale, ma il genotipo animale ha una interessante influenza sulla variabilità dei caratteri studiati e sulla relazione razione-profilo me-tabolico e deve essere attentamente considerato.

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205

Le razze autoctone quale fonte di alimenti funzionali e di prodotti tipici

D. Cianci, E. Castellana, E. Ciani

La ricerca del soddisfacimento quantitativo dei fab-bisogni ed un pò di esterofilia avevano fatto trascurare i prodotti delle nostre terre e delle nostre razze. L’evolu-zione tecnologica, favorendo l’aumento della produttivi-tà (e dei consumi), ha ridotto i deficit calorici e proteici, rinviato le preoccupazioni di Malthus sui limiti al pro-gresso e allo sviluppo sociale ed economico (incremento demografico e disponibilità di risorse alimentari) e de-terminato sempre maggiori attenzioni alla qualità degli alimenti.

Ed in Italia, come in tutto il mondo occidentale, la crescente offerta di prodotti alimentari ha portato il con-sumatore a dare sempre maggiore attenzione alla sicu-rezza degli alimenti ed alle scelte qualitative, spingen-dolo a riscoprire l’alimento come fattore salutistico, che coinvolge anche la qualità della vita e la conservazione dell’ambiente e della biodiversità.

La concezione attuale di produzione alimentare è per-ciò sempre più orientata a garantire qualità nutrizionali ed extranutrizionali che possano contribuire al raggiun-gimento dello stato di benessere dell’uomo. A conoscen-za delle opportunità di una alimentazione sana e senza sovrapposizioni tecnologiche, egli ha accolto con favore le innovazioni produttive che lo riavvicinino sempre più alla condizione naturale portandolo a rivalutare i prodotti di origine animale (ed i loro derivati) tipici e tradizionali che garantiscono caratteristiche organolettiche e specifi-cità nutrizionali determinate dal tipo genetico, dall’am-biente e dal sistema di allevamento tradizionale.

Ai prodotti di massa degli allevamenti intensivi ven-gono infatti addebitati severi limiti di qualità, perché:

- fruiscono di spazi ristretti in ambienti a maggior in-quinamento agricolo, industriale, urbano

- hanno un maggior dispendio economico e rischio per la salute del consumatore, in quanto, per la loro minore

resistenza genetica alle malattie infettive ed infestive en-demiche e per la crescente resistenza dei patogeni ai far-maci, devono far ricorso ad un uso di molecole farmaco-logiche sempre più efficienti; rilasciano pertanto nei loro prodotti maggiori residui di farmaci per le non sostituibili somministrazioni periodiche di antielmintici, di vaccini stabulogeni e di antibiotici (parassitosi gastrointestinali, mastiti stafilococciche, ecc) che richiederebbero tempi di sospensione adeguati (difficili da rispettare)

- nell’allevamento stallino lo stress ossidativo ed il minor apporto di antiossidanti determinano un minor li-vello di protezione; nel ltessuto muscolare dei soggetti stabulati sono presenti maggiori quantità di scatolo (aro-ma non gradevole) e di sostanze che reagiscono all’aci-do tiobarbiturico (indicatore di predisposizione all’os-sidazione) dovuto anche a una minore ingestione di a-tocoferolo rispetto ai soggetti allevati al pascolo

- sono comunque maggiori i rischi di illeciti tratta-menti con molecole zootecniche e/o farmacologgiche

Oggi il consumatore sempre più si avvicina al prodot-to tradizionale (per moda o scelta inconsapevole) spesso solo per autosuggestione perchè si diffonde la percezio-ne che i prodotti tipici siano ottenuti da animali tenuti in condizioni naturali e tradizionali e che siano più sapide e migliori le carni degli animali, non solo polli, “ruspan-ti” quindi meno stressati, meno esposti a spazi stretti, con meno molecole ed input forzanti. La diffusione de-gli alimenti tecnologici (agricoli o industriali), appiattiti su tipologie sempre più standardizzate, spinge perciò i consumatori delle società ricche a riscoprire il nuovo nel vecchio, le tradizioni alimentari legate al bioterritorio, la frugalità e la semplicità degli alimenti provenienti da risorse animali e vegetali autoctone. Inoltre sempre più si è orientati verso la ricerca negli alimenti di componen-ti che, pur se presenti in piccole quantità, giochino un ruolo fondamentale nell’assicurare una migliore qualità e maggiore durata della vita.

Fino agli inizi del ‘900 il cibo veniva considerato unicamente come fonte di generici principi nutritivi e di energia, ma presso tutti i popoli erano e sono noti ali-

la qualità delle Produzioni

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206gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

menti ai quali venivano e vengono attribuite proprietà salutistiche. La medicina empirica si è sempre avvalsa delle proprietà più o meno positive di alcuni alimenti. Ippocrate diceva: “fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo”. Attualmente è sempre più diffusa la convinzione che l’alimento, oltre a soddisfare le esigenze energetiche ed edonistiche, debba rispondere a determinati requisiti di sicurezza e contenere proprietà nutrizionali ed extranutrizionali.

L’industria, prendendo dall’agricoltura lo spunto e le materie prime, produce da alcuni decenni alimenti e preparati che soddisfano le esigenze organolettiche (ap-petibilità) e nutritive e sono anche veicolo di molecole bioattive con proprietà bionutrizionali e salutistiche per l’uomo (nutraceutici, probiotici, prebiotici, simbiotici), utilissime per assicurare i fabbisogni anche qualitativi, ma che non possono soddisfare tutte le attese del consu-matore. L’industria, con appropriate biotecnologie, può produrre molto di ciò che serve al mercato, anche di qua-lità, ma le risorse naturali offrono al consumatore, oltre al gusto del ritorno alla tradizione, anche una comples-sità di principi bionutrizionali e di proprietà organoletti-che difficilmente imitabili.

L’agricoltura, per la frammentazione degli interessi, si accorge sempre in ritardo di avere la possibilità di va-lorizzare i propri prodotti di pregio. Il prodotto tradizio-nale (tipico) è infatti anche un alimento funzionale con le sue specificità nutrizionali ed organolettiche, nonché un sistema culturale che dà attenzione al benessere dell’uo-mo ed alla sostenibilità biologica; i tipi genetici autoctoni possono assumere il ruolo di traduttori biologici perché trasformano i componenti della dieta animale in moleco-le disponibili per l’uomo. L’interazione tra tipo genetico e sistema di allevamento è stretta e significativa e la va-lorizzazione del modello produttivo merita le maggiori attenzioni da parte di settori scientifici che solo da poco hanno cominciato a scoprire l’ovinicoltura.

Le popolazioni autoctone sono, perciò, quelle piú ido-nee per la produzione di qualità e la scelta genetica deve orientarsi prioritariamente su di esse, lasciando, tuttavia, spazio al loro miglioramento genetico basato sul con-cetto di resilienza e, cioè, sulla capacità di produrre e riprodursi nelle condizioni loro offerte. Qualsiasi ger-moplasma è portatore di consolidati equilibri biologici: il clima, le risorse trofiche, la predazione, l’isolamento geografico, e/o la selezione naturale e antropica hanno portato all’evoluzione di razze, varietà e/o ecotipi, il cui successo biologico è garantito dalla capacità di adattarsi

alle condizioni ambientali, anche nosologiche, con ridu-zione degli input di molecole (zootecniche e farmacolo-giche). Inoltre, la differenziazione genetica ha garantito il grado di fitness, o di successo biologico, di un tipo ge-netico e ha influenzato la capacità al costruttivismo di un organismo nel suo ambiente, cioè la capacità di adattarsi ai cambiamenti delle condizioni ambientali (ma anche alle esigenze alimentari dell’uomo).

I tipi genetici autoctoni possono perciò svolgere un ruolo primario nella nutrizione umana come traduttori biologici perché capaci di trasformare le molecole del foraggio in molecole del latte e della carne di valore nu-trizionale, extranutrizionale e salutistico per l’uomo. È accertato che i prodotti delle popolazioni autoctone, al-levate secondo i tradizionali sistemi estensivi, hanno ca-ratteristiche specifiche che li rendono diversi dai prodotti dalle razze allevate nei sistemi intensivi e semintensivi.

Le produzioni con tecnologie a bassi input integrano il concetto di sicurezza alimentare con requisiti quali-tativi, partendo da situazioni consolidate per tipo gene-tico e tecniche tradizionali di allevamento. Il loro tipo metabolico, ad efficiente sistema di risparmio e ricupero dell’energia e delle proteine alimentari, ed il sistema di allevamento consentono, oltre allo stato di maggior be-nessere legato alla capacità di sopportare gli stress, un minor contenuto di inquinanti (ambientali e farmaco-logici) nei prodotti ed una particolare qualità del latte (dimensioni dei globuli, alte proporzioni di acidi grassi polinsaturi) e delle carni (migliori per colore, qualità dei lipidi, tipo mioglobinico, ritenzione idrica, calo di cot-tura).

Non va trascurata la capacità dei genotipi autoctoni di meglio resistere alle patologie endemiche, che evita il massiccio uso di farmaci ed il conseguente rilascio di re-sidui inquinanti nell’ambiente e nei prodotti. Una serie di esperienze (Ambrosini et al., 2001, Giuliotti et al., 2004) ha dimostrato che le popolazioni autoctone hanno carat-teristiche di resistenza agli elminti superiori alla razze alloctone. Le popolazioni autoctone sono predisposte a resistere alle patologie endemiche, perché la selezione naturale ha determinato la sopravvivenza e la moltiplica-zione dei genotipi adatti all’ambiente nel quale riescono a sopravvivere, produrre e riprodursi.

Il sistema di allevamento estensivo contribuisce non poco, attraverso il pascolamento, a determinare un gran-de valore bionutrizionale per l’uomo nei prodotti di ori-gine animale che ne beneficiano. L’attività motoria de-termina infatti, con l’esercizio fisico, un miglioramento

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la qualità delle Produzioni207

della qualità delle proteine muscolari per l’evoluzione delle tipologie delle fibre muscolari (chiare e scure) e delle proteine miofibrillari (actina e miosina) e sarcopla-smatiche; in particolare, piú elevati livelli di creatina con effetto preventivo contro i radicali liberi e maggiore ric-chezza di aminoacidi indispensabili, soprattutto aminoa-cidi ramificati (valina, leucina e isoleucina), favoriscono la sintesi dei neurotrasmettitori e dei neuromodulatori, quali le endorfine a effetto placebo (la droga della feli-cità) e di calmodulina e carnosina (controllano i livelli intracellulari del Ca++).

Inoltre l’alimentazione al pascolo è una fonte ricca di molecole biologicamente attive trasferibili al prodotto finito e comporta l’aumento degli acidi grassi monoinsa-turi e polinsaturi, nonché del livello di ω3 e del rapporto ω6/ω3 verso il valore ottimale per la nutrizione umana. Particolare significato ha l’acido linoleico coniugato per le sue proprietà antitumorali, antiaterogeniche, immuno-modulanti, batteriostatiche, antiadipogeniche, antidiabe-togene, di promotori di crescita. Le fonti principali sono il latte e i suoi derivati (meglio se ovino rispetto a bovino e caprino) e, in misura minore, la carne dei ruminanti, soprattutto se alimentati al pascolo. L’allevamento esten-sivo determina l’aumento della concentrazione anche di un’altra molecola bioattiva derivata dell’acido linoleico, l’acido α-lipoico o tiottico dotato di proprietà antiossi-dante, ipocolesterolemizzante, neurotrofica, neuropro-tettiva e di potenziamento dell’attività dell’insulina.

Anche il profilo aromatico del latte (e dei suoi deriva-ti) cambia con l’alimentazione; nel latte di ovini e bovini avviati al pascolo naturale sono stati individuati dei se-squiterpeni (non presenti nel latte di soggetti alimentati con foraggi coltivati) che contribuiscono alle caratteri-stiche sensoriali (marcatori aromatici) e svolgono anche un ruolo salutistico grazie alle loro proprietà anticance-rogene.

Vi è perciò un crescente orientamento verso la produ-zione eco-compatibile che garantisca la sicurezza igieni-ca, le proprietà salutistiche, organolettiche e nutrizionali dei prodotti di origine animale, ma anche una crescente attenzione al benessere animale e ad una politica etnolo-gica mirata alla difesa della variabilità genetica ed alla salvaguardia dei genotipi locali per la caratterizzazione dei prodotti.

I sistemi di produzione con tecnologie a bassi input:- evitano di competere con le produzioni quantitativa-

mente superiori dei climi temperato-umidi- rafforzano il polimorfismo ed il pluralismo biolo-

gico con la conservazione della biodiversità animale: le popolazioni autoctone e i tipi metabolici naturalmente selezionatisi nell’ambiente e il loro inserimento nel si-stema produttivo valorizzano le proprie capacità di for-nire produzioni di qualità in coerenzza con le risorse am-bientali disponibili

- recepiscono i concetti di sostenibilità, competizione a livello trofico, benessere animale e rispondono all’evo-luzione dei mercati verso prodotti di origine animale si-curi tipici, che rispettano le esigenze diversificate delle popolazioni con i caratteri tradizionali e simbolici (bioe-tica) di ciascuna cultura, degli usi alimentari e di vita

- integrano il concetto di sicurezza alimentare con re-quisiti qualitativi, partendo da situazioni consolidate per tipo genetico e tecniche tradizionali di allevamento

- si affermano tra i consumatori convinti di garantirsi alimenti immuni da inquinanti tecnologici

- interessano le imprese per la diversificazione dell’of-ferta

- possono essere difesi con marchi e sistemi di certifi-cazione ormai diffusi e con metodologie di analisi a loro garanzia (tracciabilità informatizzata e/o molecolare)

È perciò sempre più un motivo di preoccupazione la scomparsa dei tipi genetici che si erano consolidati nei loro ambienti di origine in secoli di selezione antropi-ca e naturale, che già si dimostrano di grande utilità per il mutare delle richieste del mercato. La conservazione del range dei tipi genetici animali e dei sistemi di alle-vamento tradizionali, può essere così la migliore scelta per i sistemi di produzione richiesti dagli obbiettivi di sostenibilità ambientale e dalle metodologie di produ-zione biologica; bisogna tuttavia lasciare spazio al loro miglioramento genetico basato sul concetto di resilienza e cioè sulla capacità di produrre e riprodursi nelle con-dizioni loro offerte. I tipi genetici autoctoni sono infatti caratterizzati da maggiore eterogeneità genetica, ma con maggiore probabilità rispetto ai tipi genetici migliorati, possono essere portatori di alleli vantaggiosi per il va-lore biologico delle loro produzioni e possono fornire ai consumatori una gamma di latti da trasformazione e di carni di qualità che meglio rispondono alle esigenze della nutrizione umana.

Anche la Politica Agricola Comunitaria (PAC) si è accorta di queste opportunità e delle aspettative del con-sumatore; prevede perciò aiuti per le imprese agricole e zootecniche che s’impegnano a reintrodurre sistemi di coltivazione o di allevamento a basso impatto ambienta-le, ad adottare sistemi riconosciuti di certificazione della

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208gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

qualità ai fini del miglioramento della sicurezza ambien-tale ed alimentare, del benessere e salute degli animali, del rispetto delle buone pratiche agricole.

Queste produzioni tuttavia trovano solo parziale va-lorizzazione nell’attuale contesto commerciale e non sempre sono supportate da adeguati strumenti normati-vi, identificativi e di controllo. La loro valorizzazione e difesa sul mercato passa, anche, attraverso la convin-zione del consumatore che deve conoscere le proprietà determinanti il pregio del prodotto e deve avere la si-curezza di non essere esposto a frodi e contraffazioni. Una opportuna educazione alimentare attraverso i mezzi di informazione, che non siano semplicemente di pub-blicità commerciale, potrebbe essere il primo passo per aumentare la fiducia del mercato nel prodotto locale. Il secondo ed importantissimo passo sarà la messa a punto di modelli di tracciabilità che si fondino sulle metodolo-gie molecolari oggi disponibili.

Nell’Italia Meridionale Continentale esistono i pre-supposti per mettere in atto forme di allevamento soste-nibile tramandateci dal passato e si va sviluppando la richiesta di prodotti vegetali e animali ottenuti con gli accorgimenti della produzione organica. La produzione vegetale ha già raggiunto livelli di ottima qualificazio-ne per le tecnologie di produzione e per quelle di difesa dalle patologie, piú chiaramente identificate e ormai ap-plicate; l’allevamento animale ha ancora dei vincoli non superati, ma diversi prodotti tradizionali degli alleva-menti animali, ivi compresi gli ovini, sono già da tempo coinvolti in un processo di rivalutazione.

Ecco perché riteniamo che le razze ovine dell’Italia Meridionale Continentale debbano essere meglio valo-rizzate; esse rappresentano infatti non solo un patrimo-nio storico e culturale di grandissimo pregio, ma anche il punto di equilibrio tra attività produttive e ambiente ed una risorsa di inestimabile valore biologico e nutrizio-nale. L’ovinicoltura dell’Italia meridionale si inserisce a

buon titolo in questo quadro perché è condotta ancora tradizionalmente: non riesce a valorizzare pienamente le nuove tecnologie (controllo della funzione riproduttiva, inseminazione strumentale, allattamento artificiale, mun-gitura meccanica, razionalizzazione del piano alimenta-re), ma è anche per questo più vicina agli obbiettivi della produzione di qualità.

Anche il Ministero della Salute ha prestato attenzione ai prodotti degli allevamenti tradizionali considerandoli alimenti con particolari proprietà funzionali e definendo-li: “cibi naturali contenenti principi attivi naturali che possiedono concrete proprietà farmacodinamiche oltre a documentate attività preventive e/o terapeutiche per determinate patologie”.

La qualità delle produzioni degli ovini autoctoni. Il caso delle razze Altamurana e Leccese

E. Pieragostini

Se consideriamo le quantità medie di latte prodot-te per singola pecora in lattazione, sicuramente quelle dei soggetti di razza Comisana o Sarda sono più elevate di quelle prodotte dalla Leccese e, ancor più, di quelle dell’Altamurana (Tab. 17). Va comunque sottolineato che i valori delle razze isolane registrati sulla Murgia sono significativamente più bassi di quelli tabellari stan-dard (Sanna, 1992) esibiti nelle loro rispettive regioni, a testimoniare la loro non perfetta armonia con questo ambiente. In particolare, nel confronto complessivo, per

Altamurana Leccese Comisana Sarda0 - 30 gg 30,37 26,57 33,39 30,4631 - Asciutta 58,66 66,88 85,45 107,720 - Asciutta 89,04 93.45 118,84 138,18Durata 154,03 155,43 167,39 174,99

1 I dati di produzione del latte al secchio sono la media di sei anni di osservazione a partire dal 1988-89 (Pierago-stini et Dario, 1996).

Tabella 17. Produzione di latte nelle fasi di allatta-mento (0-30gg) e di mungitura (31gg- asciutta)1.

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la qualità delle Produzioni209

quanto riguarda la pecora Sarda, considerando che la maggior parte delle nascite si ha verso il periodo corde-sco, la durata della lattazione e quindi la produzione del latte è limitata dalla assenza di pascolo o in alternativa, portata avanti con alimentazione all’ovile.

Tuttavia nel suo complesso il latte di questa pecora necessita un discorso a parte perché, pur essendo indi-scutibile il gap quantitativo che separa questa razza dalle altre messe a confronto, va aggiunto che in fatto di qua-lità globale, il latte prodotto da questa pecora non teme confronti. Questa affermazione si basa sull’osservazione che, accanto ai dati relativi alla composizione chimica (Tab. 18), dal punto di vista sanitario, la Altamurana ri-sulta vincente nel confronto con altre razze in pari con-dizioni di allevamento “gramo”, riguardo alla minore su-scettibilità alla mastite sia clinica che subclinica (Dario et Bufano, 1992).

A tal proposito, di sicuro interesse sono i dati riferiti alla mastite clinica (Fig. 7) che danno la misura del ta-glio in termini di carriera produttiva cui vanno incontro le razze più suscettibili, ma in tempi nei quali ci si avvia a valutare la qualità globale del latte, urge considerare con grande attenzione anche le informazioni relative all’incidenza della mastite subclinica (Fig. 7). A queste garanzie di qualità sanitaria va aggiunto il dato circa il conteggio delle cellule somatiche che mediamente è al di sotto delle 400 mila unità (Dario et Bufano, 1992).

Come si può osservare le pecore pugliesi ed in parti-colare l’Altamurana offrono le migliori garanzie di qua-lità dal punto di vista sanitario.

Sempre a proposito della composizione del latte un’in-dagine effettuata per verificare il polimorfismo ai loci lattoproteici della pecora Altamurana ha messo in evi-denza come, a parte la presenza con una bassa frequenza

del variante Welsh al locus alfa s1 caseinico (CSN1S2), la variabilità genetica sia in generale piuttosto ridotta e non sia stata registrata nessuna peculiarità interessante ai fini della trasformazione che differenzi il latte di questa pecora da quello delle altre razze (Di Luccia et al., 1989; Mauriello et al., 1990; Di Gregorio et al., 1991).

Una peculiarità preziosa della pecora Altamurana è la indiscussa scarsa suscettibilità alle malattie che inte-ressano il piede e che dà la misura della perfetta integra-zione di questa pecora con il suo ambiente nel quale il terreno è caratterizzato.

In questa sede vale la pena di riferire di un esercizio di valutazione della competitività della razza Altamura-na rispetto ad altre razze specializzate in condizioni di allevamento semibrado sulla Murgia barese.

Detto esercizio venne effettuato sulla base di dati ot-tenuti dal controllo sistematico degli animali presenti presso l’azienda Cavone, confrontando i parametri ripro-duttivi (fertilità, prolificità e fecondità) e le performance d’allevamento (peso alla nascita e allo svezzamento de-gli agnelli, mortalità degli stessi) osservate nelle razze Altamurana, Leccese, Comisana e Sarda (Tab. 18).

Questo confronto non tiene conto del fatto che, sicu-ramente, le pecore Sarde e le Comisane risultate vuote in primavera avranno trovato il modo di rimanere gra-vide nella tarda estate o in autunno e quindi, il bilancio razza per razza andrebbe fatto considerando le produ-zioni relative all’intero arco dell’anno. Va comunque considerato che se gli agnelli delle monte successive a quella primaverile non nascono in coincidenza con qual-

Altamurana Leccese Comisana SardaSostanza secca 20,79 20,74 19,52 19,37Grasso 8,55 8,48 8,03 8,04Proteine grezze 6,47 6,41 6 5,82Proteine vere 6,14 6,09 5,71 5,49Caseina 5,24 5,18 4,87 4,74Sieroproteine 0,9 0,91 0,84 0,75Lattosio 4,76 4,83 4,51 4,52Ceneri 1,01 1,02 0,98 0,99

Tabella 18. Composizione chimica del latte di pecore appartenenti a razze diverse allevate sulla Murgia.

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210gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

che ricorrenza festiva, non è facile spuntare il prezzo dell’agnello natalino, che le pecore che hanno presentato la mastite clinica spesso presentano delle recidive nelle lattazioni successive o difficoltà alla mungitura, per cui si è costretti a macellarle prima del termine naturale del-la carriera e che, comunque, per produrre in modo soddi-sfacente, le due razze succitate hanno bisogno di apporti alimentari che vanno ben oltre le magre disponibilità del pascolo della Murgia. Ad ogni buon conto va sottolinea-to che questo confronto voleva essere un richiamo a non dimenticare che, tra le tante voci che contribuiscono al bilancio di un allevamento, le spese sanitarie hanno un peso non trascurabile.

Tutti i risultati fin qui riportati sono il risultato di un’esperienza di ricerca decennale che si è avvalsa della possibilità di studiare il gruppo di ovini di razza Alta-murana allevati presso l’Azienda Silvo Pastorale Cavo-ne insieme ad altre razze specializzate sia italiane che nord europee. Intorno al 1997, l’alternarsi di vicende po-litiche ed economiche interne all’amministrazione della provincia di Bari nonché all’istituzione universitaria che aveva la gestione scientifica dell’azienda, hanno causa-to il ridimensionamento numerico del contingente ovino sia in termini di riduzione del numero delle razze che dei capi entro razza. L’Altamurana non è riuscita a sfuggire a questa logica, nonostante fosse stata inserita nel novero delle razze a rischio d’estinzione e comprese nel regola-mento 2078/ 92 (Misura D2). Il numero fu così drastica-mente ridotto a 100 capi di cui una decina di arieti e 90

pecore. Denso di nubi appare il futuro di questa pecora, quando consideriamo che il contingente attuale si aggira intorno ai 500 capi da più di un quindici anni. Alla ridot-ta dimensione del gruppo va aggiunto che esso è fram-mentato in tre sottogruppi di cui il primo è costituito dal ceppo storico allevato nell’Azienda Cavone, il secondo dal nucleo di proprietà di un affezionato allevatore di Cerignola, il quale, fino alla sua morte, ha mantenuto il gregge in strettissimo isolamento ed oggi passato sotto la tutela dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnia ed infi-ne, nel terzo caso, il gregge è stato composto da poco più di un quinquennio, attingendo da entrambi i casi prece-denti. È percio importante stabilire l’entità della variabi-lità genetica presente per poter sviluppare delle strategie di conservazione per questa razza.

Queste considerazioni a sottolineare che, anche se nel nucleo sopravvissuto le caratteristiche salienti della razza non sono in discussione, i dati di frequenze ai loci polimorfici oggetto di studio e riportati in questa trat-tazione sarebbero da riverificare per valutare i possibili effetti di deriva nonché quelli del collo di bottiglia.

Figura 7. Prevalenza della mastite clinica e subcli-nica nelle razze Altamurana e Leccese a confronto con i valori riscontrati nella Comisana e nella Sarda1.

1 Grafico ottenuto dall’elaborazione dei dati di mastite ricavati dalle indicazioni riportate da Dario e Bufano, 1992.

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la qualità delle Produzioni211

Il latte F. Toteda

La produzione lattea della pecora Altamurana, in con-siderazione del fatto che essa usufruisce di pascoli scarsi quali quelli della Murgia barese e, spesso, non riceve in-tegrazione all’ovile risulta molto variabile con gli anni. Infatti, Cuttano (1950), per lattazioni di 210 giorni, ri-porta produzioni di 109,0 Kg (range 69,0-163,0) nell’an-nata 1934-1935 e di 87,2 Kg (range 48,0-125,8) in quella successiva, mentre, Montemurro (1957) per il 1949-50 riferisce di una produzione, comprensiva del latte pop-pato, di 108,0 Kg (range 73,8–126,0).

La variazione annuale della produzione lattea viene, peraltro, confermata da uno studio più recente (Dario et Carnicella (2004) inteso a valutare l’influenza dell’an-no (dal 1993 al 1999), numero (da 1 a > 6) e tipo di parto sulla produzione quanti-qualitativa del latte in pe-core Altamurana allevate sulla Murgia barese. I risultati della ricerca evidenziano come l’annata influenzi signi-ficativamente la produzione di latte sia poppato che to-tale nonché la sua composizione chimica, relativamente a proteine, lattosio e sostanza secca; il numero di parti condiziona meno la quantità di latte prodotta ma agisce marcatamente su tutti i parametri qualitativi studiati, mentre, le pecore con due agnelli rispetto a quelle con uno producono più latte e con una composizione chimica similare.

Montemurro e Salerno (1961), controllando la pro-duzione di latte al secchio (120-240 giorni post-parto) in allevamenti siti in agro di Altamura, registrano cam-biamenti non significativi nel periodo febbraio–metà aprile (220-270 g/d) e un notevole calo quantitativo a metà maggio–giugno; la percentuale media di grasso è pari all’8,8% ed è costante nei mesi di febbraio e marzo, mentre, subisce un sensibile aumento a giugno (9,6%), in corrispondenza del calo produttivo; il contenuto pro-teico medio è pari al 7,2% e ha un andamento opposto a quello del grasso col procedere della lattazione; l’estratto secco evidenzia valori più bassi a metà febbraio (21,8%) e più elevati a metà maggio (24,7%); il residuo magro incide per il 14,1 % e, durante la lattazione, ha lo stesso andamento dell’estratto secco; il contenuto in zuccheri mediamente è pari a 5,9% con il valore minimo di 5,09 e massimo di 7,3% a 165 e 225 giorni di lattazione, rispet-tivamente; la percentuale in ceneri è di 1,05%.

Limitatamente al periodo febbraio–maggio, gli stessi Autori hanno confrontato la produzione quanti-qualita-tiva della razza Altamurana con quella della Gentile di Puglia osservando che la prima secerne circa 111,5 g/giorno di latte in più e con un maggior contenuto pro-teico (7,2 vs 7,0%) e residuo magro (14,1 vs 13,7%),

Altamurana Leccese Sarda ComisanaPecore alla monta primaverile 100 100 100 100Fertilità 86 70 43 76Prolificità 141 137 114 144Agnelli nati 121 96 49 109Agnelli svezzati 114 83 43 88Peso allo svezzamento (Kg) 10 11,3 9,7 11,4Kg di carne agnello venduti 1.140 938 417 1.003Prod. latte al secchio 55.3 73.7 110.6 97.1% casi mastite clinica 1.1 9.3 17.7 6.9% casi mastite subclinica 8.5 13.0 22.7 19.6Pecore in produzione 85 61 35 59Litri di latte al secchio prodotto 4.700 4.495 3.871 5.729

Tabella 19. Valutazione della produzione di carne e di latte derivata dalla monta primaverile di 100 pecore ap-partenenti a razze diverse allevate sulla Murgia barese presso l’azienda silvo-pastorale Cavone .

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212gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

mentre la seconda fornisce latte più ricco in grasso (9,6 vs 8,7%) ed estratto secco (23,2 vs 22,7%).

Gli effetti dello sfruttamento intensivo sulla produ-zione di latte sono stati studiati da Montemurro e coll. (1973) per la durata di 4 cicli produttivi (3 anni) su 4 gruppi di pecore Altamurana, sottoposti ai seguenti trat-tamenti alimentari: a) mantenuto all’ovile e alimentato con 1 Kg di fieno di medica e 1 Kg di concentrato/capo/giorno; b) mantenuto all’ovile e sostituendo ½ Kg di concentrato con 1 Kg di fieno; c) mantenuto al pasco-lo con integrazione all’ovile di ½ Kg di concentrato; d) tenuto al pascolo con sola integrazione di soccorso. I ri-sultati ottenuti indicano che, i gruppi a stabulazione fissa forniscono produzioni di latte inferiori rispetto a quelli tenuti al pascolo, anche se meglio alimentati per quan-tità, qualità e costanza della razione; i migliori risultati sono forniti dai soggetti che usufruiscono sia del pascolo che dell’integrazione alimentare, per i quali si registrata la maggiore produzione di latte per singolo ciclo pro-duttivo e in assoluto, un minore interparto e, quindi, più lattazioni. La qualità del latte, controllata solo nei primi due cicli produttivi, evidenzia al primo di essi una mag-giore percentuale di grasso e un minor contenuto protei-co per le pecore tenute all’ovile. La produzione di latte per Kg di peso corporeo delle pecore al parto evidenzia che un favorevole stato di nutrizione è indispensabile alla produzione, mentre, un eccessivo ingrassamento è controproducente.

La produzione lattea quanti-qualitativa di questa raz-za è stata confrontata, per sette anni, con quella della Leccese, in soggetti allevati sulla Murgia barese (Gallo et al., 1979-80) e i risultati evidenziano che, l’Altamu-rana ha una minore produzione di latte poppato (30,8 e 31,6 Kg), al secchio (38,9 e 51,6) e, quindi, totale (69,7 vs 83,2 Kg) e una durata della lattazione inferiore di cir-ca una settimana (163,3 vs 170,0 d) anche se nelle annate particolarmente difficili, da un punto di vista alimentare, sembra adattarsi meglio all’ambiente della Murgia bare-se. La percentuale di grasso del latte risulta similare tra le due razze (8,7%) e viene influenzata dall’annata e dal numero di lattazioni.

Toteda et al., (1989), invece, hanno condotto una ricerca intesa a valutare l’in fluenza del sistema di alle-vamento (confinato vs pascolo) e dell’epoca di sommi-nistrazione dell’integrazione alimentare durante la gra-vidanza su alcuni parametri produttivi e riproduttivi di pecore di razza-popolazione Altamurana, di 18 mesi di età, allevate sulla Murgia barese. Allo scopo, al momen-

to degli accoppiamenti sono stati costituiti 6 gruppi: 2 sistemi di allevamento (pascolo vs stabulazione fissa) x 3 momenti di integrazione alimentare con 400 gr/capo/giorno di concentrato (1° vs 3° vs 5° mese di gestazione). I risultati indicano che, il sistema di allevamento tradi-zionale ga rantisce le migliori performance riproduttive in termini di fertilità, prolificità e fe condità e condiziona positivamente la produzione di latte, la quale risul ta più elevata, anche se non in maniera significativa, nei sogget-ti allevati al pascolo ed in quelli riceventi l’in tegrazione alimentare sin dall’inizio della gravidanza. Di notevole interesse pratico risulta essere l’entità della produzione mostrata dalle pecore che hanno partorito due agnelli; infatti, queste, rispetto a quelle con parto singolo, hanno prodotto il 37% e il 26% in più, rispettivamente se al pa-scolo o all’ovile e, nonostante la differenza non attinga i livelli di significanza statistica, in dica notevoli doti della pecora Altamu rana in fatto di capacità materna.

In una ricerca successiva (Dario et Bufano, 1992), condotta nello stesso ambiente, la produzione lattea del-la pecora Altamurana è stata valutata sia rispetto a quella della Leccese sia a quella di due razze alloctone, quali la Comisana e la Sarda. I risultati indicano una produzione lattea similare negli ovini Altamurana e Leccese (89 – 93 l; poppato + munto) e significativamente (P < 0.01) più bassa rispetto a quanto registrato nelle pecore Comisana (118,8 l) e Sarda (138,2 l). Nelle razze autoctone, alla minore produzione lattea corrisponde una significativa (P < 0.01) riduzione della durata della lattazione (154-155 vs 167-175 giorni); peraltro, tutti i genotipi, relati-vamente alla terza lattazione nei confronti della secon-da, evidenziano un aumento della produzione lattea ma non della durata della lattazione. Gli autori segnalano, comunque, che tutte le razze oggetto di studio hanno espresso produzioni e durata delle lat tazioni più basse di quelle ripor tate in letteratura, come conseguenza di un’annata particolarmente sfavorevole.

Sulla produzione quanti-qualitativa del latte di pecora Leccese una certa influenza viene esercitata anche dallo stato sanitario della mammella che può essere rilevato attraverso il numero di cellule somatiche presenti nel lat-te. A tal proposito, Dario et al., (1992) hanno condotto una ricerca su 120 capi di terzo parto e allevati con meto-do tradizionale, allo scopo di valutare le variazioni nella concentrazione delle principali frazioni azotate del latte in relazione al contenuto di cellule somatiche, sulla base del quale sono state costituite tre classi di frequenza: la: < 300.000; 2a: 300.001 - 1.000.000; 3a: > 1.000.001 cellule.

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la qualità delle Produzioni213

Le analisi hanno riguardato campioni di latte prelevati, a intervalli di 30 giorni, dal 60° al 150° giorno post-parto.

I risultati mostrano una maggiore produzione di latte nei soggetti con il minor numero di cellule (477,4, 417,3 e 355,1 litri, rispettivamente per 1a, 2a e 3a classe) e un aumento della proteina e delle frazioni azotate del latte con l’aumentare dell’incidenza delle stesse.

Uno studio successivo (Bufano et al., 1994), sulla stessa razza, ha riguardato la valutazione dell’influenza che il numero di cellule somatiche ha su alcune caratteri-stiche fisiche, chimiche e tecnologiche del latte. In riferi-mento alla 1a, 2a e 3a classe di frequenza, si evidenzia che una maggior presenza di cellule condiziona nel latte un aumento del pH (6,73 vs 6,65-6,62; P <0,01), del conte-nuto proteico (6,3 vs 5,8-6,0%; P <0,05) e lipidico (7,93 vs 8,38%; P <0,05) e un calo significativo (P < 0,05) del lattosio. Relativamente ai parametri di caseificazione, con l’aumentare delle cellule somatiche, si osserva un significativo aumento dei tempi di coagulazione (r) e di formazione del coagulo (k20) nonché una marcata dimi-nuzione della consistenza del coagulo (a30).

Da una indagine più recente (Dario et al., 2004), del-la durata di 4 anni (1996-2000) e condotta in Puglia, si evince che la pecora Leccese produce quantità di lat-te poppato similari a quelle prodotte dalla Comisana e Sarda (33-36 l), mentre, quello munto (83,6 l) risulta significativamente (P <0.01) inferiore (110,1 e 113,8 l, rispettivamente per Comisana e Sarda). Ad incidere ne-gativamente sulla produzione di latte della Leccese ha influito anche una durata della lattazione (157 d) inferio-re a quella registrata nella Sarda (177 d) e nella Comisa-na (182 d). Il latte prodotto dalla Leccese, comunque, si presenta con una maggiore percentuale di grasso (7,8 vs 7,3), proteina (5,1 vs 4,9-5,0) e lattosio (5,0 vs 4,9).

La produzione lattea della pecora Leccese subisce anche l’influenza dell’area geografica di allevamento e risulta più bassa in prima lattazione; infatti, una indagine quinquennale (1982-1987), riguardante allevamenti di-stribuiti in provincia di Taranto, Brindisi e Lecce (Dario et Bufano, 1990) ha evidenziato che:

- le produzioni più elevate e più basse si registrano, rispettivamente nella zona di Taranto e Lecce;

- mediamente, la produzione di latte (compreso quel-lo poppato) è pari a 102.7, 111,3, 112,6 litri, rispettiva-mente, in prima, seconda e terza lattazione;

- la durata della lattazione aumenta con il numero dei parti: 152, 180 e 176 d, rispettivamente, per 1a, 2a e 3a

lattazione.

Relativamente alla composizione chimica del latte, durante tutta la lattazione, l’Altamurana evidenzia valori sovrapponibili a quelli della Leccese e significativamen-te più elevati di quelli delle due razze alloctone per quan-to riguarda: sostanza secca (20,7-20,8 vs 19,5-19,4%; P < 0,01), grasso (8,50 vs 8,0%; P < 0,05), proteine grezze (6,4-6,5 vs 5,8-6,0%; P < 0,01), lattosio (4,8 vs 4,5; P < 0,01); mentre, tra i genotipi non si evidenziano differen-ze relative al contenuto in ceneri (1,0 %).

Recentemente, l’attenzione che circonda il latte di pecora e le caratteristiche dei suoi formaggi ha spinto la ricerca verso la struttura genetica delle razze ovine autoctone da latte e la possibile esistenza di una rela-zione fra varianti genetiche dei geni che codificano per le proteine del latte e le peculiarità del latte stesso. In questa direzione, Dario et al., (2005) hanno analizzato, nell’Altamurana, la distribuzione di due principali va-rianti genetiche del gene della β-lattoglobulina (LGB*A e LGB*B) studiando, inoltre, gli effetti della sostituzio-ne della Tyr20 con la sua variante codificata His, sulla composizione del latte. Sono risultati tre genotipi diffe-renti: AA , AB, BB con frequenza genica di 18.75, 22.5 e 6.75, rispettivamente, mentre la frequenza allelica è pari a 0.625 e 0.375 rispettivamente per LGB*A e LGB*B. Circa la composizione chimica del latte, un effetto domi-nante dell’allele LGB*A fa aumentare significativamente il contenuto in grasso (AA = 7,84 vs BB = 7,48 g/100 ml; P <0.01) mentre, l’effetto dominante dell’allele LGB*B aumenta il contenuto in proteina del siero (BB, AB = 1,11 vs AA = 1,02 g/100 ml; P<0.01)

Uno studio sulla produzione lattea in rapporto al ge-notipo e al sistema di allevamento è stato condotto da Laudadio e Dario (2003) per 18 mesi. Questi autori han-no messo a confronto due genotipi (Leccese vs Comisa-na) e due sistemi di allevamento (pascolo e integrazione con unifeed in ragione di 0,5 Kg S.S. vs stabulazione fissa e alimentazione con 2,5 Kg/capo di unifeed nei pri-mi 2 mesi di lattazione e 2 kg nel periodo successivo). I risultati indicano che, il pascolamento influenza positi-vamente la quantità del latte prodotto sia nella Comisana (1023,1 vs 814,5 g; P <0.01 ) che nella Leccese (721,1 vs 520,6 g; P < 0,01) e che questa ultima razza sfrutta al meglio le potenzialità del pascolo, infatti, la maggior produzione di latte per le pecore al pascolo risultata pari al 38% contro il 25% riscontrato per la pecora Comisana. Probabilmente, ciò è dovuto alla maggiore rusticità e al fatto che, essendo la Leccese razza autoctona pugliese, risulta meglio adattata alle condizioni pedo-climatiche

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214gli asPetti qualificanti delle razze autoctone

del territorio. L’alimentazione al pascolo fa registrare una minore percentuale di grasso nel latte di entrambi i genotipi a confronto (6,92 vs 7,23 e 7,80 vs 8,38 %; P <0,01, rispettivamente per Comisana e Leccese); anche il tenore proteico del latte è favorito dalla stabulazione fissa sia nella razza autoctona (5,69 vs 5,81%; P < 0,05) che nella Comisana (5,26 vs 5,49%; P < 0,01); il fenome-no, probabilmente, va ascritto anche alla minore produ-zione lattea delle pecore a stabulazione fissa.

La carne F. Nicastro

Considerando che l’allevamento ovino oggi ha sicu-ramente assunto importanza in maggior misura rispetto al passato per la produzione della carne ed avendo osser-vato che il consumo si è indirizzato verso animali sempre più giovani ecco che si è posto in essere la revisione di indirizzi nell’allevamento ovino, soprattutto per le razze Altamurana e Leccese ormai scarsamente presente nella nostra regione nonostante la loro buona precocità per lo sfruttamento della produzione carnea.

Il tipo morfologico è particolarmente importante nel determinare l’attitudine alla produzione quanti-qualitati-va della carne. Nella pecora leccese, ma anche nelle altre razze, il tipo morfologico è di norma sufficientemente uniforme nelle femmine, che subiscono minori attenzio-ni selettive, mentre nei maschi la variabilità è maggiore per la ricerca di migliori prestazioni da trasmerttere alla discendenza e per la presenza di diversi orientamenti morfologici nella scelta dei riproduttori.

Studi precedenti hanno evidenziato nella razza Lecce-se una caratteristica di grande rilievo per le sue ordinarie e difficili condizioni di allevamento: la precocità di svi-luppo. Eccetto il peso, tutte le misurazioni già a 18 mesi raggiungono pressoché i valori definitivi; infatti, la resi-dua parte di accrescimento non è mai superiore al 5%. Lo sviluppo ponderale è invece più lento, forse anche in dipendenza delle limitate disponibilità alimentari che in-ducono l’animale ad evidenziare ancor più il differenzia-mento delle fasi dello sviluppo scheletrico e muscolare, caratteristica del quadro morfologico di tipo lattifero, al quale possiamo ascrivere la popolazione Leccese.

Le ripercussioni delle variabili condizioni alimenta-

ri giustificano inoltre l’andamento delle misure somati-che nei soggetti. ad accrescimento definito. I soggetti di tre anni che manifestano misure superiori nella media a quelli di quattro o a quelli di cinque, indicano evidente-mente la presenza di migliori possibilità alimentari nella annata in cui tali soggetti sono nati, ed attuano la mag-gior parte della loro crescita.

Circa le caratteristiche quantitative della carne per la razza popolazione Altamurana molteplici sono le espe-rienze condotte, mentre per le caratteristiche qualitative delle carni le indagini presenti in bibliografia risultano molto esigue.

L’attenzione che viene riservata alle razze-popolazio-ni autoctone, anche se poco produttive, va incrementata per proteggere la variabilità genetica. L’incrocio si è pro-posto, in questo senso, come mezzo valido per ricercare soluzioni vantaggiose per gli allevatori. La preservazione nel pool genetico della razza Altamurana, diversamente destinata alla scomparsa, ha trovato un valido sostegno nella pratica dell’incrocio “commerciale”.

In una indagine in cui sono stati utilizzati agnelli dei due sessi F1 Dorset down x Altamurani (Muscio et. al. 1979-80) con progressivo apporto di fieno nella razione, pur non avendo determinato variazioni di rilievo nelle caratteristiche chimico-bromatologiche delle carni si sono evidenziati risultati interessanti. Infatti l’incidenza degli aminoacidi indispensabili per l’uomo nella pro-teina (lisina, valina, metionina, fenilalanina, treonina, leucina e isoleucina) è del 34 – 40% circa e, in tutti i casi comunque, fatto davvero importante, essi sono pre-senti in quantità sempre superiori a quelle della proteina del tuorlo dell’uovo. Successivamente in un lavoro del 1993, Schiavone et al. hanno evidenziato in un confron-to tra soggetti Altamurani in purezza ed altri incroci di alcuni risultati interessanti. Gli agnelli Altamurani pur avendo un peso alla nascita, un peso di carcassa ed una resa più bassa, nelle caratteristiche qualitative della dis-sezione della carcassa risultano migliori. Infatti presen-tano i tagli di lombata e di spalla maggiormente presenti con il 6,8 e 21,1 %.

La necessità di salvaguardare il patrimonio genetico autoctono pugliese ed al contempo di fornire agli alleva-tori strumenti per incrementare la redditività della loro attività, ha indotto in tempi recenti a verificare gli effet-ti che l’incrocio di due genotipi autoctoni sortisce sul-la produzione dell’agnello. Sono stati pertanto valutati alcuni parametri quanti-qualitativi dell’agnello da latte tipicamente richiesto nella zona interessata dalla nostra

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la qualità delle Produzioni215

indagine, prodotto dall’incrocio della razza Gentile di Puglia con quella Altamurana, ad altissimo rischio di estinzione (<1.000 capi allevati). Gli animali sono stati allevati secondo il metodo biologico, ampiamente dif-fuso e praticato in Puglia (Schiavone et al., 2005). L’in-crocio tra le razze Gentile di Puglia ed Altamurana, per ottenere individui più confacenti alle specifiche esigenze produttive, fornisce un ibrido terminale, destinato alla sola commercializzazione per la produzione finale di carne, dalle caratteristiche quanti-qualitative migliorate.

La razza-popolazione ovina Leccese rappresenta con quella Altamurana un unico gruppo etnico (la pecora “Moscia”). Ciò nonostante, questa razza, per la tenden-za verso taglie più pesanti, ha sempre destato l’interesse degli allevatori soprattutto perché più lattifera e media-mente più prolifica in modo particolare proprio di quel-li della pecora Altamurana, che l’hanno utilizzata per il miglioramento delle rispettive greggi. A parte la realtà di questa utilizzazione, limitata ad una immissione di “sangue” in percentuali diverse, allo stato attuale la raz-za popolazione Leccese continua ad essere presente sul territorio pugliese anche se con un numero di capi parti-colarmente ridimensionato.

Condizioni climatiche ed alimentari collegate ad un processo evolutivo hanno evidenziato per l’ovino di razza leccese il prevalere dello sviluppo morfologico sull’accrescimento ponderale, con tali caratteristiche è stato già da tempo avviato un modello per lo sfruttamen-to indirizzato alla produzione della carne. Per questo in-dirizzo (produzione della carne) tendente ad evidenziare favorevolmente alcuni parametri di grande interesse zo-otecnico quali soprattutto la resa alla macellazione e la qualità delle carni sono stati realizzati alcuni programmi di incrocio tendenti a valorizzare questa razza o popola-zione. Zezza et al. (1985) in una indagine su agnelli ma-schi ottenuti da incrocio tra arieti delle razze Laticauda, Sopravissana, Suffolk e Leccese con pecore Gentile di Puglia hanno evidenziato particolari interessanti. I pesi della mezzena e dei tagli di qualità rispettivamente della lombata e spalla in soggetti di sette settimane di età ri-sultano sempre più elevati per la Leccese. Per i parametri qualitativi risulta evidente sempre alla età precedente-mente considerata una carne più tenera con un indice W.B.S sul Longissimus dorsi molto basso 1,16 Kg.. In un lavoro successivo Vicenti et al. (1993), evidenziano come il peso dei tagli della spalla e della lombata risulta più elevato in agnelli Leccesi in purezza, confrontati ad incroci Suffolk e incroci F1 Suffolk x Leccese. Anche

in questo lavoro risultano confermati per taluni aspetti qualitativi del prodotto carne i buoni risultati ottenuti per la razza popolazione Leccese .

Ulteriori ricerche (Nicastro et al., 2005) focalizza-te sulle caratteristiche qualitative delle carni di agnelli Altamurani ha evidenziato valutazioni molto simili con una perdita di cottura ed un calo di refrigerazione mol-to basso, mentre le risultanze istochimiche sul grasso di deposito hanno evidenziato una ipertrofia delle cellule adipose nei soggetti in purezza (Nicastro et al., 2006), mentre trascurabili sono risultate le variazioni chimiche riportate in un altro lavoro (Nicastro et al., 2007). In conclusione, i caratteri della razza incrociante, quali il rapido accrescimento e il favorevole sviluppo muscola-re, derivanti dall’incrocio di prima generazione Gentile di Puglia x Altamurana, sono stati apprezzabili mentre non hanno prodotto modificazioni sostanziali dei carat-teri qualitativi delle carni.

La lana

Le razze Altamurana e LecceseE. Castellana, D.Cianci, E. Ciani

La lana, detta moscia perchè priva di increspature, è formata da bioccoli lunghi quasi cilindrici alla base e co-nici in punta. È adatta per materassi e si presta anche per la fabbricazione di co perte, di tappeti ed alla lavorazione di stoffe grossolane.

Negli anni ’60 - ‘70 quando la lana era ancora una notevole fonte di reddito, indagini condotte da Salerno (1957), Salerno e Montemurro (1958), Montemurro et Cianci (1962) Bellitti et al. (1973) sulla qualità della lana negli ovini delle razze mosce, evidenziarono che le lane mosce presentano grande variabilità nella lunghez-za e nella natura dei filamenti tra regioni zoognostiche, età dei soggetti e provenienza.

La lun ghezza delle fibre è il parametro più significa-tivo delle lane da materasso perché permette di ri partirle in categorie quantitativamente e qualitativamente diver-se. Nelle lane mosce il vello è infatti composto da una frazione (40-45% del bioccolo) di sottovello (lana di tipo tessile se pur grossolana) costituito da fibre di lunghezza inferiore a 120 mm. e diametro medio di 30-35 micron;

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da una seconda frazione (15-20% del bioccolo) con fila-menti di 120-160 mm e 40-50 mi cron di diametro, che costituisce la zona intermedia, di transizione le lane tes-sili e le tipiche fibre da materas so. Infine, le classi di lun-ghezza superiori a 160 mm, rac chiudono il 35-45% del bioccolo, che rappresentano la zona dei filamenti guida con diametro medio di 50-60 micron.

In generale, pertanto, nella lana degli ovini delle raz-ze mosce risulta elevata la percentuale dei filamenti fini il che consente la duplice utilizzazione e cioè come lane da lavoro e come lane da materasso. La midollatura inte-ressa tutte le classi di finezza anche se si concentra, nelle sue di verse espressioni, nei filamenti a maggior diame-tro. Più in parti colare la midollatura continua raggiunge i maggiori valori, con canali midollari superiori al 50% del diametro della fibra, nei filamenti più grossolani ma di minor lunghezza (1-80 mm.) che si infiltrano nel-le lane fini del sot tovello. Quest’ultima considerazione permette di classificare tali filamenti come veri e propri peli, anche se la midollatura non costituisce criterio nor-mativo per tale attribuzione.

Le differenze, generalmente non sostan ziali, indicano che i soggetti appartengono allo stesso nucleo raz ziale anche se i diversi indirizzi selettivi ed i probabili mol-teplici fattori, e tra questi non ultimi quelli relativi alle disponibilità ali mentari, hanno fatto sentire in grado di-verso la loro influenza.

Il particolare equilibrio tra vello e sottovello e la li-mitata presenza di peli, con le ottime capacità di resiste-re alla rottura (polverizzazione) ed alla feltratura, fanno delle lane delle razze Altamurana e Leccese prodotti di alta qualità per le imbottiture (materassi, cuscini).

La razza Gentile di PugliaA. Muscio, M. Albenzio, A. Sevi

La razza Gentile di Puglia produce la migliore lana tessile del nostro Paese ed una delle più apprezzate al mondo. Morfologicamente e fisiologicamente il vello la-noso si distingue dalla normale copertura pilifera per due aspetti: le fibre di lana mancano della midollatura, moti-vo per cui risultano più sottili rispetto ai normali peli, e sono a crescita continua, non vanno cioè incontro a muta periodica. Per quanto riguarda l’aspetto chimico, il com-

ponente fonda mentale della lana è la cheratina, proteina fibrosa sintetizzata tramite un meccanismo a controllo poliribosomale diretto dalle cellule dei follicoli. Le mo-lecole della cheratina sono cateniformi e composte da numerosi aminoaci di, fra i quali rivestono particolare importanza l’acido glutammico, che confe risce affinità per alcune sostanze coloranti, e la cistina, alla quale sa-rebbero dovute la elasticità e la resistenza delle fibre.

La lana gentile, similmente a quella delle altre mi-gliori razze merinizzate, è caratterizzata da:

- notevole estensione sul corpo dell’animale, del qua-le ricopre anche la te sta, la regione sternale ed addomi-nale, la porzione libera degli arti e lo scroto;

- bioccoli serrati e compatti, chiusi, di forma cilindri-ca e di lunghezza infe riore ai 12 cm;

- elevata finezza, con diametro delle fibre inferiore ai 25 micron;

- forte densità di fibre, con valori superiori alle 40 fibre per mm2 di pelle; - rapporto tra follicoli secondari (sottovello) e follicoli primari (vello) molto vantaggioso e compreso fra 15 e 25.

Nel complesso, la qualità della lana viene espressa attraverso il cosiddetto titolo di filatura che, per le lane tessili, risulta sempre superiore a 60’s. Ai fini tecnologici molto importanti sono anche l’igroscopicità, il colore e la feltrabilità, che peraltro entrano in misura modesta nella formazione del giudizio di qualità e, quindi, del prezzo.

La fortuna che, soprattutto in tempi passati, ha ac-compagnato la lana gen tile, per le pregevoli caratteristi-che cui si è fatto cenno, è stata frutto non solo del meti-coloso, appassionato e costante lavoro di selezione e di incrocio con pregiate razze estere, ma anche delle favo-revoli condizioni climatiche caratte rizzanti questa parte del bacino del Mediterraneo.

Il clima infatti influenza il ritmo di accrescimento e la qualità della lana, soprattutto per azione della luce e della temperatura. In particolare, la stretta correlazione esistente fra accrescimento della lana e temperatura am-bientale è attribuita alla vasodilatazione superficiale che, aumentando con il livello termico ambientale, determina un maggiore afflusso di sangue ai follicoli e quindi una loro più intensa attività. D’altra parte l’accrescimento della lana è influenzato dall’attività tiroidea ed è quindi ipotizzabile che l’azione del clima sulla lana si estrinse-chi proprio attraverso la tiroide.

Le variazioni nell’accrescimento della lana e delle sue proprietà fisiche sono però pure legate in maniera de-terminante a fattori pedologici e nutrizio nali, anch’essi

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la qualità delle Produzioni217

dipendenti per via indiretta dal clima. Infatti, la reazione dell’accrescimento della lana ad un aumentato consumo alimentare è un riflesso dell’incremento del metaboli-smo generale, così come la minore crescita della lana a bassi livelli nutrizionali può essere dovuta ad un deterio-ramento delle capacità produttive dei follicoli.

Da un punto di vista generale, i parametri nutrizionali che maggiorente influenzano la produzione lanosa sono il contenuto di proteine della razione ed il livello energe-tico, nonché il loro rapporto (quello ottimale negli ani-mali adulti è di 12 grammi di proteine per MJ di energia metabolizzabile) ed il rapporto tra aminoacidi solforati ed energia (che dovrebbe essere pari a circa 0,5 g/MJ).

L’azione dell’alimentazione è stata da tempo indivi-duata anche nei riguardi delle caratteristiche qualitative della lana; la grande importanza assegnata alla transu-manza per la conservazione del nervo, e cioè delle pro-prietà di elasticità e resistenza, va attribuita con ogni probabilità alla ricchezza estiva dei pascoli montani più che ai fattori climatici in senso stretto. Anche una varia-zione della disponibilità di aminoacidi a livello dei fol-licoli può alterare la composizione e le proprietà fisiche della lana.

Particolare importanza hanno poi i minerali, sia che vengano somministra ti come supplemento dell’alimen-tazione direttamente agli animali, sia che ven gano distri-buiti come fertilizzanti sui terreni a pascolo. Ricerche condotte in Australia hanno evidenziato che la sola de-ficienza subclinica di selenio può provocare perdite agli allevatori stimabili in oltre dieci milioni di dollari. An-che altri micro e macroelementi, tuttavia, condizionano direttamente la crescita e la resistenza delle fibre lanose, quali il cobalto, il rame, il fosforo, lo zolfo, il magnesio, il sodio, il calcio.

L’importanza degli ormoni nel controllo della sintesi delle fibre lanose è stata inequivocabilmente dimostrata attraverso l’ipofisectomia che, qualora venga praticata, è in grado di provocare l’arresto della crescita della lana. In generale, gli ormoni condizionano la crescita e la qua-lità delle fibre lanose attraverso tre meccanismi:

- controllando direttamente la funzionalità dei folli-coli;

- ripartendo i principi nutritivi tra i follicoli e gli altri comparti dell’organi smo;

- intervenendo a mitigare gli effetti degli stress am-bientali, notoriamente responsabili dell’indebolimento delle fibre di lana.

Numerose ricerche condotte sull’argomento hanno

consentito di evidenziare che gli ormoni principalmente coinvolti nella sintesi delle fibre lanose sono rappresen-tati dai glucocorticoidi, dalla melatonina, dalla prolatti-na, dagli ormoni tiroidei e da quelli sessuali.

Questi, in estrema sintesi, i risultati delle più recenti sperimentazioni che, purtroppo, riguardano solo margi-nalmente le nostre razze ovine ed il nostro Paese, nel quale la lana rappresenta in misura sempre maggiore un prodotto marginale del gregge, concorrendo per meno del 5% ormai alla formazione della produzione lorda vendibile ovina nazionale.

È vero che tale situazione dipende in parte da circo-stanze ineluttabili, quali il rapido progresso delle fibre sintetiche, e in parte da fattori imputabili ai nostri al-levatori, come la scarsa competitività, anche qualitati-va, delle nostre lane rispetto a quelle estere; ma è anche vero che tale stato di cose dipende pure da situazioni e da indirizzi politico-economici che gli ovinicultori devono subire e che li penalizzano fortemente, vale a dire:

- carenza di sostegni alla produzione ed ai prezzi, che risultano per le nostre lane sensibilmente inferiori rispet-to a quelli garantiti in molti altri Paesi, i quali, anche per questo, ci sopravanzano ormai di diverse lunghezze nella produzione laniera;

- inerzia in materia di stipula di accordi internazionali per la commercializzazione delle nostre lane;

- confusione di competenze ed ostacoli alla erogazio-ne di contributi agricoli. essendo la lana considerata, in forza del trattato di Roma, un prodotto indu striale;

- carenza di centri di raccolta, di stoccaggio e di prima lavorazione, onde evitare il deperimento delle lane sot-toposte a lunghi tempi di giacenza prima di essere com-mercializzate.

Pertanto, prima di poter immaginare un futuro non precario, non aleatorio per la nostra produzione laniera, questi problemi vanno affrontati e, almeno in parte, ri-solti.

Il resto sarà compito dell’ovinicultore, i cui sforzi tendenti ad esaltare e migliorare tale attitudine dovran-no essere, ben inteso, in rapporto al valore commerciale e comunque tali da non pregiudicare il miglioramento delle al tre, più importanti produzioni, e cioè la carne ed il latte. D’altronde, il miglio ramento dell’attitudine alla produzione della lana è reso abbastanza agevole dalla buona ereditabilità del carattere, dalla possibilità di va-lutarla in ambedue i sessi e dalla relativa facilità del con-trollo.

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Le biotecnoLogie avanzate

per La vaLorizzazione

deLLe razze autoctone

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La specie ovina ha attività riproduttiva con andamen-to stagionale poliestrale. Nelle regioni temperate l’atti-vità è regolata dal fotoperiodo negativo con incremento dell’attività sessuale legata alla diminuzione delle ore di luce. Altri fattori possono influenzare l’andamento fisio-logico del ciclo riproduttivo, tra i quali fattori genetici (una minore sensibilità di alcune razze alle variazioni della luce), il management (effetto maschio) e il ruolo sociale (Noakes, 2001). La presente review si propone di fornire un quadro aggiornato dei contributi forniti dai gruppi di ricerca che hanno lavorato nelle tecnologie ri-produttive in vitro in questa specie con particolare ri-guardo agli aspetti biologici di base che costituiscono il fondamento per possibilità applicative.

Negli ovini sono state introdotte tecnologie di ripro-duzione assistita quali l’inseminazione artificiale (IA) e l’ovulazione multipla con Embryo Transfer (MOET) per migliorare l’efficienza riproduttiva e accelerare il mi-glioramento genetico. Sebbene la MOET per i suoi alti costi non possa sostituire la IA come tecnica riproduttiva routinaria, essa può essere applicata per la scelta di fem-mine mediante le quali ottenere la produzione di maschi con indici positivi da usare per l’IA (Smith, 1986; Ni-cholas, 1996; Cognié et al., 2003).

La produzione in vitro degli embrioni (IVP) nei pic-coli ruminanti fornisce una eccellente fonte di embrio-ni a bassi costi per la ricerca di base in biologia dello sviluppo e in fisiologia, per le applicazioni commerciali, per la messa a punto di test di valutazione della qualità del seme (O’Meara et al., 2005) e per la messa a punto di biotecnologie emergenti quali il Nuclear Transfer e la Transgenesi (Baldassarre et al., 2002; Ehling et al., 2003).

In aggiunta, l’applicazione di IVP e di transfer inter-specie o inter-razze è stata proposta come strategia per il recupero di popolazioni animali in limitato numero di capi o in rischio di estinzione (Ptak et al., 2002). Da un punto di vista sanitario l’Embryo Transfer nei piccoli ruminanti ha il potenziale di facilitare un adeguato mo-vimento internazionale del germoplasma, posto che la

gestione degli animali e degli embrioni siano condotte con adeguati standard sanitari (review di Thibier e Gue-rin, 2000). La crioconservazione di gameti ed embrioni potrebbe ulteriormente contribuire alla costituzione di greggi di genotipi desiderati, con controllo del rischio di trasmissione di malattie infettive (Wang et al., 2002), e ad una più ampia propagazione del germoplasma di pregio.

Produzione di embrioni in vivoLa produzione di embrioni ovini in vivo richiede

l’utilizzo di efficaci trattamenti per la sincronizzazione dell’estro e la superovulazione. Tuttavia, questi tratta-menti ormonali conducono a perturbazioni del trasporto del seme nel tratto genitale femminile che risultano in riduzioni significative delle percentuali di fertilizzazio-ne, gravidanze, e nati vivi dopo l’IA vaginale o cervicale o dopo accoppiamento naturale. Nella specie ovina non è ancora stata standardizzata una tecnica per l’insemi-nazione intrauterina transcervicale, date le particolarità anatomiche della cervice ovina. Impiegando la laparo-tomia o la laparoscopia, la barriera cervicale può essere superata e sono stati ottenuti risultati accettabili delle percentuali di fertilizzazione anche con seme congelato/scongelato. Pertanto la produzione di embrioni in vivo può essere ottenuta seguendo un efficiente protocollo di inseminazione intrauterina (Cognié et al., 2003; Ehling et al., 2003).

Produzione di embrioni in vitroIn molte specie di mammiferi e nella specie umana

la produzione di embrioni in vitro, mediante fertilizza-zione (IVF) di oociti maturati in vivo o in vitro (IVM), è attualmente una pratica routinaria e costituisce altresì la metodica di base dei programmi di procreazione me-dicalmente assistita. Gli ovini sono stati i primi tra le specie di mammiferi domestici ad essere utilizzati per gli studi di IVF di Dauzier e Thibault negli anni 50. I re-ports sulla nascita di progenie da IVF di ovocitimatura-ti in vitro sono giunti successivamente (Gordon, 2003).

le tecnologie riProduttive

M. E. Dell’Aquila, B. Ambruosi, A. Filannino, T. De Santis

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Contributi significativi sono stati ottenuti negli anni 80 presso l’Animal Research Station in Cambridge (Cheng et al., 1985) e sono stati preceduti da una considerevo-le mole di studi di fisiologia riproduttiva e di biologia dei gameti che hanno portato alla messa a punto dei più importanti step delle biotecniche riproduttive impiegate come validi modelli in altre specie animali e in umana (Moor et Trounson, 1977; Crozet et al., 1987; Cognié et al., 2003). Il metodo di IVP prevede tre fasi principali: la maturazione di ovociti primari provenienti da follicoli antrali, la fertilizzazione di ovociti secondari maturi con seme fresco o congelato e la coltura dei presuntivi em-brioni per 7 giorni fino alla formazione delle blastocisti che possono essere trasferite nelle riceventi o criocon-servate per un uso programmato.

Recupero e maturazione in vitro dell’ovocitaOvaie recuperate dal mattatoio offrono una fonte ab-

bondante e a basso costo di ovociti e la raccolta attra-verso aspirazione del fluido follicolare consente il recu-pero di circa 1.5-2 complessi cumulo-ovocita di qualità accettabile per ovaio nella pecora adulta (Cognié et al., 1999). Il recupero di ovociti da animali vivi avviene at-traverso laparotomia o con la tecnica dell’ovum-pick up attraverso laparoscopia (LOPU). I risultati ottenuti da di-versi gruppi con l’utilizzo di questi metodi nella pecora sono stati riassunti da Tervit (1996). In uno studio in cui è stata effettuata la LOPU, dopo trattamento con gona-dotropine, è stato riportato che possono essere prelevati in media sei ovociti per pecora selezionati per IVF, che danno luogo ad una blastocisti (Baldassarre et al., 1996) ma con un alto grado di variazione tra le donatrici. Il recupero di ovociti dopo ripetuti LOPU nella pecora non stimolata consente il recupero (Kühholzer et al., 1997; Aguilar et al., 2002) di 4-6 ovociti per femmina/prelievo. Se la qualità di questi ovociti per l’IVP verrà confermata da ulteriori studi, questo metodo potrebbe consentire la produzione di discendenza da femmine con valore ge-netico, senza effettuare trattamenti con ormoni esogeni. Una recente review (Rodriguez et al., 2006) analizza al-cuni aspetti fisici che influenzano l’aspirazione follico-lare quali la pressione di aspirazione e il diametro degli aghi. Gli autori concludono che aghi corti (18 e 20 G) e pressioni minime (10-20 ml /min) consentono ottimali percentuali di recupero.

Il sistema più comunemente usato per la maturazione in vitro di ovociti ovini al di fuori del follicolo ovarico prevede l’uso di un medium di coltura supplementato con

FSH, LH, estradiolo e 10% siero fetale di vitello (FCS). Per l’IVM di ovociti di pecora, può essere usato anche il fluido follicolare (FF) recuperato da follicoli grandi (>4 mm in diametro) come supplemento del mezzo di matu-razione composto da TCM 199 e supplementato con FSH ovino. Gli effetti positivi dell’FF vengono incrementati se il FF è recuperato da follicoli non-atretici (Cognié et al., 1995) o da follicoli di soggetti stimolati con gonado-tropine (Cognié et al., 2000). Durante la maturazione in vitro in queste condizioni, avviene l’estrusione del pri-mo globulo polare e la formazione della seconda piastra metafasica. La relativamente bassa efficienza raggiunta mediante IVM rispetto a quella ottenuta in vivo è quasi certamente correlata alla qualità dell’ovocita al momen-to del prelievo. L’acquisizione da parte dell’ovocita della competenza allo sviluppo avviene continuamente duran-te la follicologenesi, e l’influenza delle dimensioni del follicolo e dell’atresia follicolare sulla competenza allo sviluppo è stata oggetto di studi (Mermillod et al., 1999), anche se, la maturazione dell’ovocita può essere signifi-cativamente influenzata dalle componenti del terreno di coltura e dalle condizioni colturali per l’IVM.

Gli effettori molecolari che mediano l’influenza posi-tiva dell’ambiente follicolare sull’ovocita non sono stati ancora pienamente spiegati, ma alcuni dati ottenuti dopo maturazione dell’ovocita in terreni chimicamente defi-niti (non contenti siero o BSA) supportano il possibile coinvolgimento di numerosi fattori di crescita, ormoni e di peptici intraovarici. Il completamento della meiosi e le percentuali di cleavage dopo IVF sono significativamen-te incrementate in ovociti di pecora in presenza di EGF, mentre il fattore di crescita insulino-simile I (IGF-I) non sembra avere effetti sulla maturazione dell’ovocita in questa specie (Guler et al., 2000). La supplementa-zione del medium di coltura con 17-β estradiolo induce significativo incremento delle percentuali di blastocisti (Guler et al., 2000). Il possibile coinvolgimento del 17-β estradiolo nella maturazione citoplasmatica dell’ovocita è supportato da dati che riportano un suo effetto stimola-torio sulla DNA polimerasi β in ovociti di follicoli preo-vulatori ovini (Murdoch et Van Kirk, 2001). La relazione tra la concentrazione di glutatione e la competenza allo sviluppo osservata per ovociti bovini (De Matos et al., 1995) è stata confermata negli ovociti di pecora maturati in presenza di cisteamina come precursore del glutatione (De Matos et al., 1999). Come per la specie bovina (De Matos et al, 1996), il contenuto di glutatione degli ovociti ovini sembra essere un buon indicatore della competenza

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citoplasmatica e l’aggiunta di cisteamina nel medium di IVM aumenta l’efficacia dell’IVP (Cognié et al., 2002). Nella bovina è stato dimostrato che nell’IVM in condi-zioni indefinite o semi-definite altri fattori contenuti nel FF, come l’ormone della crescita, l’attivina o l’inibina, possono stimolare la maturazione dell’ovocita (review di Cogniè et al., 2003). L’identificazione del meccanismo d’azione di questi fattori contribuirà al miglioramento dell’efficienza dell’IVP negli ovini in futuro.

Capacitazione del seme e fertilizzazione in vitroSuccessivamente alla maturazione, in alcuni proto-

colli la procedura di preparazione dell’ovocita prosegue con la rimozione del cumulo ooforo che viene effettuata pipettando delicatamente gli ovociti in soluzioni conte-nenti ialuronidasi. In altri casi il complesso cumulo-ovo-cita viene trasferito tal quale al mezzo di fertilizzazione dopo alcuni lavaggi. Gruppi di 40-50 ovociti sono colti-vati in piastre a 4 pozzetti contenenti specifici medium (es: TALP-HEPES o SOF medium senza BSA) ricoperti da olio minerale. Gli spermatozoi mobili sono ottenuti centrifugando il seme congelato/scongelato su un gra-diente di Percoll discontinuo (45%/90%) per 10 min a 500 x g a temperatura ambiente. Gli spermatozoi vitali, raccolti sul fondo della frazione al 90% sono diluiti ad una concentrazione di 1x107 spermatozoi/ml ed incubati per 1 h per far avvenire la capacitazione in vitro. La ca-pacitazione dello sperma nella pecora è ottenuta in un mezzo supplementato con siero di pecora in estro inatti-vato al calore (Cheng, 1985) a differenti concentrazioni (O’Brien et al., 1997a). Per aumentare le percentuali di penetrazione dello spermatozoo nell’ovocita, gli sper-matozoi congelati-scongelati sono incubati per 1 h in SOF supplementato con di siero di pecora ed eparina. Il seme capacitato è aggiunto alla goccia di fertilizzazione ad una concentrazione finale di 1x106 spermatozoi/ml e le piastre sono incubate 17 h a 39 °C in condizioni di 5% di CO2 in aria con elevati livelli di umidità. Questo periodo di incubazione di 17 h degli ovociti con gli sper-matozoi corrisponde al tempo necessario per giungere all’osservazione dei pronuclei. Un tempo non inferiore a 9-10 h di co-incubazione dei gameti è richiesto per per-mettere una percentuale di cleavage e una produzione di blastocisti nella pecora (Kochhar et al., 1999) ottimale. Il ritardo osservato nell’interazione dei gameti potrebbe indicare che questo tempo è necessario per gli sperma-tozoi per attraversare il cumulo ooforo o che esistano differenze cinetiche nella capacitazione del seme tra i

diversi sistemi di IVF. Ulteriori studi sono richiesti per determinare se la riduzione del tempo di interazione tra seme e ovocita, e la conseguente rimozione dei prodotti del metabolismo del seme potenzialmente dannosi, pos-sano migliorare la percentuale di impianto dopo embryo transfer nei mammiferi domestici come è stato osservato nell’IVF umana (Gianaroli et al., 1996).

Coltura in vitro dell’embrione preimpiantoNumerosi studi che hanno dimostrato che l’embrio-

ne può svilupparsi in vitro e superare il blocco mitoti-co attraverso co-coltura con cellule oviduttali in terreni supplementati con siero sono stati condotti nella specie ovina (Gandolfi et Moor, 1987). La discussione su come questi metodi di coltura in vitro (IVC) sostengano lo sviluppo degli embrioni producendo fattori di crescita (Gandolfi, 1994) o semplicemente rimuovendo compo-nenti inibitori, come glucosio ed ossigeno (Watson et al., 1994), è ancora in corso. Attualmente, un comune siste-ma usato per la coltura di embrioni è il SOF con amino-acidi e BSA in assenza di siero e con presenza di cellu-le somatiche aspecifiche a 38.5 °C in 5% di O2, 5% di CO2, e atmosfera umidificata con 90% di N2 (Gardner et al., 1994). Un altro terreno di uso comune resta il TCM 199 supplementato con siero di pecora in estro. Un recente progresso nella comprensione dei requisiti dell’embrione in sviluppo risulta nello sviluppo di mezzi “sequenziali” dove i componenti cambiano secondo le necessità dell’embrione (Thompson et al., 2000). Co-munque, questi media di cultura in 2 step sono ancora usati principalmente nella medicina riproduttiva umana e nella IVP bovina (Heyman et al, 2002). Le differenze riportate nelle cinetiche di sviluppo (Thompson et al., 1997) e nell’espressione dei geni coinvolti nello svilup-po preimpianto fra embrioni prodotti in vitro ed in vivo (Niemann e Wrenzycki, 2000) mostrano che lo studio delle condizioni di cultura in vitro necessita di ulteriori approfondimenti. Dopo trasferimento a riceventi sincro-nizzate, la percentuale di sopravvivenza degli embrioni freschi di pecora prodotti in vitro è significativamente più bassa della loro controparte prodotta in vivo (Ptak et al., 1999). Perdite embrionali sono riportate tra il giorno 30 e 40 di gravidanza (Thompson, 1997; Ptak et al, 1999). Gli attuali sistemi di IVC nella pecora, che prevedono uso di siero umano (Thompson et al., 1995; Walker et al., 1996; Sinclair et al., 1999) o siero di pecora (Brown et Radziewic, 1998) come fonte di proteine, non sono associati con sviluppo anomalo dell’embrione.

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Produzione in vitro di embrioni da soggetti prepube-ri

Un considerevole interesse nella problematica della IVP è riferito alla possibilità di ottenere embrioni da ani-mali prepuberi (agnelli di 5-9 settimane). Seguendo le procedure di IVM/IVF/IVC e la stimolazione con gona-dotropine, è stato riportato che solo il 19% degli ovociti prepuberi recuperati ha raggiunto lo stadio di blastocisti 8 giorni dopo inseminazione rispetto al 65% della con-troparte adulta (Brebion et al., 1992). Il trasferimento di zigoti ottenuti dopo IVM/IVF nell’ovidutto di riceventi ha dato luogo alla nascita di agnelli (Baldassare et al., 2002). Queste evidenze suggeriscono che gli ovociti prepuberi maturati in vitro non possiedono il potenziale allo sviluppo della loro controparte adulta (O’Brien et al., 1996), ed è stata riportata elevata incidenza di poli-spermia dopo IVF di ovociti provenienti da soggetti gio-vani (O’Brien et al., 1997b), come possibile conseguen-za della dispersione dei granuli corticali. Le blastocisti prodotte in vitro da ovociti di agnello si sviluppano 1 giorno più tardi (pecora; O’Brien et al., 1997a; Ptak et al., 1999a) e la loro percentuale di sopravvivenza dopo trasferimento aumenta con l’età del donatore da 20% (1 mese; Ptak et al., 1999a) a 35-40% (4-6 mesi; O’Brien et al., 1997a; Brown et Radziewic, 1998). È stato dimostra-to un effetto benefico sulla capacità di sviluppo di ovo-citi di agnello, di un singolo trattamento con estrogeni e progesterone, prima del trattamento con gonadotropine (O’Brien et al., 1997b). Questo potrebbe suggerire che l’acquisizione della competenza degli ovociti per l’em-briogenesi nella femmina prepubere è progressiva con l’età (Presicce et al, 1997) e potrebbe essere influenzata dall’ambiente ormonale degli ovociti prima dell’IVM. Il fatto che il numero degli ovociti recuperati dalla fem-mina prepubere diminuisca significativamente con l’au-mentare dell’età delle donatrici (Baldassare et al., 2002) sembra essere bilanciato dal fatto che la loro abilità allo sviluppo è migliorata quando le donatrici hanno età più avanzata. Sarebbero comunque necessari ulteriori studi sul controllo della crescita follicolare nella femmina gio-vane usando agonisti (Maclellan et al., 1996) o antago-nisti (Cognié et al., 1999) del GnRH per minimizzare la variabilità della risposta ovarica. Approcci molecolari e cellulari, attualmente in corso, potranno aumentare la nostra comprensione della maturazione citoplasmatica degli ovociti prepuberali e permettere la produzione di una progenie da soggetti giovani per ridurre l’intervallo di generazione ed aumentare la percentuale di progresso

genetico negli schemi riproduttivi (Smith, 1986; Colleau et al., 2002). Le donatrici giovani avranno un importante ruolo nei programmi di miglioramento, soprattutto se i loro embrioni potranno essere efficientemente congelati. A nostra conoscenza, solo tre agnelli sono nati dopo tra-sferimento di 12 embrioni prodotti in vitro da donatrici di 1 mese di età e vitrificati (Ptak et al., 1999a).

La fertilizzazione in vitro come test di funzionalita’ del seme ovino

Alcuni studi sono stati condotti con la finalità di de-terminare se la qualità di seme congelato ovino possa essere valutato in modo efficace attraverso la procedura di IVF. È stato riportato che le procedure di IVF, effet-tuate attualmente, sono finalizzate alla massimizzazione delle rese nella produzione di blastocisti e non riescono a mettere in evidenza le differenze per razza o individuali che possano essere utili parametri predittivi della capaci-tà fecondante in campo (Papadopulos et al., 2005).

Crioconservazione dell’embrione e dell’ovocitaSono stati recentemente riportati avanzamenti e studi

sul ruolo di fattori che influenzano l’efficienza della crio-preservazione di embrioni degli animali domestici (Mas-sip, 2001; Dobrinsky, 2002). Embrioni di pecora sono capaci di sopravvivere alle procedure di vitrificazione e questo metodo può offrire un’alternativa economica agli attuali metodi di congelamento che richiedono una gra-duale disidratazione delle cellule embrionali (Baril et al., 2001). La vitrificazione non richiede attrezzature parti-colari e pertanto ben si adattata all’uso routinario. Inoltre questa tecnica ultra rapida può essere più adattata agli embrioni con elevata criosensitività, come quelli prodot-ti in vitro, biopsiati, o clonati (Massip et al., 1995).

Crioconservazione di embrioni prodotti in vivo Quando embrioni di pecora, freschi o vitrificati, re-

cuperati 7 giorni dopo l’estro, sono trasferiti a riceventi sincronizzate (due embrioni/ricevente), le percentuali di gravidanza (72% in entrambi i casi) ed i numeri di agnelli nati per embrioni trasferiti non risultano statisticamente diversi (60 e 50%, rispettivamente; Baril et al., 2001).

Questi risultati con embrioni vitrificati sono simili a quelli precedentemente riportati per embrioni preserva-ti attraverso congelamento lento (Heyman et al., 1987) o con gli altri metodi di vitrificazione (Naitana et al., 1997; Dattena et al., 2001). Recentemente, una promet-tente tecnica nelle pecora (Dattena et al., 2001) sembra

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essere la cosiddetta tecnica di vitrificazione con straw tirata e aperta (open pulled-straw), che ha mostrato una percentuale di sopravvivenza embrionale del 59%. Que-sto dato deve essere confermato in esperimenti in larga scala. Inoltre, è stata esaminata la possibilità di trasferire direttamente gli embrioni vitrificati dopo scongelamento (due embrioni per straw) nella pecora rispetto alla tecni-ca standard di trasferimento che comporta la rimozione dei crioproteggenti e la valutazione morfologica degli embrioni dopo scongelamento. Con la tecnica standard il 16% degli embrioni scongelati sono eliminati dopo valutazione morfologica. Il risultato, in termini di per-centuali di gravidanza e di sopravvivenza degli embrioni trasferiti, è simile tra transfer tradizionale e diretto (67 e 75% per gravidanza e 53% per sopravvivenza embriona-ria con trasferimento standard e diretto, rispettivamen-te; Baril et al., 2001). La valutazione morfologica degli embrioni congelati-scongelati non è accurata (Cocero et al., 1996) e potrebbe essere una fonte di conflitti durante lo scambio commerciale di embrioni. L’uso del transfer diretto elimina il bisogno della valutazione post sconge-lamento degli embrioni e rappresenta un potenziale gua-dagno del 7-8% in termini di progenie nata.

Crioconservazione di embrioni prodotti in vitro Ci sono differenze fondamentali nella struttura cel-

lulare (Rizos et al, 2002) e nella biochimica (Leibo et Loskutoff, 1993) tra embrioni prodotti in vivo ed in vi-tro nella pecora che influenzano significativamente la loro sensibilità al congelamento (Massip et al., 2001). Recentemente sono stati riportati risultati incoraggianti in termini di percentuali di sopravvivenza dopo trasfe-rimento di embrioni vitrificati/scongelati (24%; Ptak et al., 1999b).

Crioconservazione dell’ovocita Studi sul congelamento lento o la vitrificazione di

complessi cumulo-ovocita negli ovini sono stati riportati di recente e sono in corso tentativi di definire protocolli in cui possano essere previsti pre-trattamenti con Citoca-lasina B prima dell’aggiunta dei crioconservanti al fine di stabilizzare, rendendoli meno rigidi, gli elementi del citoscheletro (Silvestre et al., 2006).

Embryonic stem cellsAl di là dell’uso tradizionale, l’allevamento ovino

in anni recenti è diventato un’importante strumento per la ricerca in tecnologie avanzate quali la produzione di bioreattori transgenici, il cloning animale per riprodurre

genotipi di pregio e per la produzione di bioprodotti. Per tutte queste tecnologie l’isolamento e la propagazione di linee embrionali staminali è attualmente un argomento di notevole interesse e al suo interno la produzione di blastocisti da cui ottenere queste linee assume un ulte-riore configurazione di interesse da parte dei ricercatori (Zhu et al., 2007).

Somatic cell nuclear transferIl nuclear transfer (NT) usando cellule somatiche

come donatrici di materiale genetico è una tecnica ben definita in differenti specie di animali domestici sia pur ancora con bassa efficienza Numerosi studi finalizzati ad approfondire le conoscenze sulle basi biologiche dell’in-terazione tra il nucleo della cellula donatrice e il cito-plasma dell’ovocita ricevente sono stati condotti nella specie ovina come modello sperimentale da ricercatori del Roslin Institute (Edinburg, UK) del gruppo di Ian Wilmut e Keith Campbell. Questi studi hanno dimostra-to che per avviare lo sviluppo embrionale dopo NT è necessaria una stretta coordinazione tra il ciclo cellulare della cellula donatrice del nucleo (carioplasto) e della cellula ricevente (citoplasto) per prevenire danni al DNA e per mantenere la corretta ploidia dell’embrione rico-struito (review di Lee e Campbell, 2006). Sono in corso studi sul trattamento degli ovociti con molecole, come le mitogen-activated protein chinasi (MAPK) e il matu-ration promoting factor (MPF), implicate nel controllo del ciclo cellulare per incrementare l’efficienza dei pro-grammi NT (Lee et Campbell, 2006).

Applicazioni delle biotecnologie riproduttive negli ovini per la salvaguardia di popolazioni a rischio di estinzione

Sebbene le potenzialità delle biotecnologie riprodutti-ve per la salvaguardia di specie e razze in via di estinzio-ne siano considerate di non dubbia importanza, la realiz-zazione di programmi concreti a riguardo ha incontrato limitati successi ad oggi. Alcuni autori (Ptak et al., 2002) hanno riportato un programma di recupero del muflone europeo (Ovis orientalis musimon) attraverso l’applica-zione di un set integrato di biotecnologie. Il management genetico è andato dal prelievo dei gameti, produzione di embrioni in vitro e transfer interspecifico con nascita di progenie viva. In aggiunta è stata organizzata un banca per il recupero del germoplasma del muflone con seme, embrioni e cellule somatiche crioconservate.

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238le biotecnologie avanzate Per la valorizzazione delle razze autoctone

Conclusioni Nonostante i recenti miglioramenti nelle tecnologie di

produzione e di trasferimento di embrioni riportati nella letteratura, l’AI è la tecnologia riproduttiva più ampia-mente applicata nei programmi riproduttivi in paesi dove la riproduzione della pecora ha un importante impatto sull’economia. L’IVP e in particolare l’IVP di embrioni

che usano donatrici giovani ha spazio considerevole per il miglioramento e ulteriori ricerche sono necessarie per migliorare la maturazione in vitro del citoplasma ovoci-tario così come la crioconservazione di embrioni prodot-ti in vitro. L’ottimizzazione delle procedure di IVP resta una sfida importante per gli studi di produzione e diffu-sione di animali transgenici e/o clonati in questa specie.

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L’espansione delle razze da latte isolane (Sarda e Co-misana soprattutto) incoraggiata da motivi economici e sociali e dalla loro capacità di adattamento a nuove con-dizioni ambientali, se da un lato ha consentito di conte-nere il depauperamento del patrimonio ovino dell’Italia Meridionale Continentale, dall’altro ha sempre più co-stretto le razze autoctone di questa area geografica a forti riduzioni degli effettivi ed a modificare la propria struttu-ra genetica. L’effetto “collo di bottiglia” e la difficoltà di definire adeguati obbiettivi selettivi hanno determinato in queste razze una perdita di variabilità con la contrazione delle frequenze e/o la scomparsa di alleli probabilmente di interesse; ne è derivato anche un aumento dell’instabi-lità genetica delle popolazioni autoctone ancora presenti sul territorio per l’inquinamento genetico determinato da incroci con le razze che di volta in volta riscuotevano i maggiori consensi. Il recupero attivo di queste razze non è semplice, anche perché bisogna tentare una loro collo-cazione economica nel sistema produttivo. L’azione può avvalersi delle opportunità offerte dalla scienze omiche a sostegno dell’interpretazione e della conservazione della biodiversità.

L’enorme disponibilità di informazioni derivanti dai progetti di sequenziamento dei genomi delle principali specie di interesse zootecnico e non, e da metodiche di indagine “high-throughput” anche in ambito trascritto-mico, proteomico, glicomico, lipidomico e metabolomi-co ha modificato sensibilmente i connotati della ricerca biologica, segnando l’avvento di quella che è stata defi-nita ”era post-genomica”. Ciò ha determinato il crescen-te affermarsi di approcci di studio basati su concetti “oli-stici” (a discapito del più tradizionale approccio riduzio-nista) aventi per obiettivo l’integrazione tra le discipline “omiche”, finalizzata alla comprensione delle complesse interazioni esistenti negli organismi a livello sistemico, da cui la nascita della cosiddetta “systems biology” (bio-logia dei sistemi).

Notevoli sforzi sono stati compiuti, anche in ambi-to zootecnico, al fine di trarre i maggiori vantaggi dalle

emergenti discipline in termini di comprensione dei prin-cipali fenomeni biologici, attratti non soltanto dalla pos-sibilità di intervenire sugli aspetti qualitativi e quantitati-vi delle produzioni animali ma anche dalla possibilità di sfruttare le specie in selezione quali vantaggiosi modelli di studio per aspetti fisiologici e patologici di interesse in ambito umano (Magnusson, 2005; Rhind, 2002).

In particolare, grazie all’effetto catalizzatore dei pro-getti di sequenziamento dei genomi nelle principali spe-cie zootecniche, sono state introdotte nuove tecnologie “high-throughput” di analisi genomica (DNA microar-rays), sono stati compiuti notevoli sforzi per giungere alla creazione o all’arricchimento delle mappe genetiche e fisiche, sono stati individuati numerosi QTL (Quan-titative Trait Loci) ed identificati molti geni associati a caratteri di tipo mendeliano ed a caratteri di tipo quanti-tativo. Le aspettative maggiori sono riposte attualmente negli strumenti della genomica funzionale, grazie alla quale sarà possibile decifrare il significato biologico del-le informazioni genomiche in modo sistematico per tutti i geni presenti in un genoma. Tempi maggiori saranno verosimilmente necessari, invece, affinché si possano raccogliere, anche in ambito zootecnico, i primi frutti delle ricerche in ambito glicomico, lipidomico e meta-bolomico.

L’appoccio genomico

La genomica si occupa fondamentalmente dello stu-dio della struttura (genomica strutturale) e della funzione (genomica funzionale) delle diverse regioni del genoma. Tra le scienze “omiche”, essa rappresenta sicuramente la disciplina più matura. Dal 1995, anno in cui venne pub-blicata la prima sequenza completa di un genoma, quella del virus Haemophilus influenzae (Fleischmann et al., 1995), centinaia di progetti di sequenziamento genomico

le oPPortunità delle scienze omiche

E. Ciani, R. Ciampolini, F. Cecchi, E. Castellana, D. Cianci

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240le biotecnologie avanzate Per la valorizzazione delle razze autoctone

di specie rappresentative dei tre domini dei viventi sono stati completati e centinaia sono ancora in corso di svol-gimento. Relativamente alle specie zootecniche, il primo genoma pubblicato è stato quello del bovino; il progetto di sequenziamento aveva preso avvio, per iniziativa del Bovine Genome Sequencing Project, nel 2003 ed è sta-to completato nel 2004, anno della pubblicazione della prima versione (con copertura del genoma di 3.3 volte); a ciò hanno fatto seguito altre due versioni, di cui, la attuale, con copertura del genoma di 7.1 volte (http://www.hgsc.bcm.tmc.edu/projects/bovine/). Al rilascio della prima versione del genoma bovino, nel 2004, ha fatto seguito la pubblicazione del genoma di cane, pollo, coniglio, gatto e cavallo (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/genomes/leuks.cgi); è, invece, ancora in corso il pro-getto di sequenziamento del genoma suino (http://www.piggenome.org/index.php), avviato dal Swine Genome Sequencing Consortium all’inizio del 2006.

La mole di informazioni di sequenza acquisite ha consentito (I) di accelerare notevolmente la costituzione

e l’arricchimento delle mappe genetiche, fisiche e com-parate nelle varie specie (Humphray et al., 2007; McKay et al., 2007; Reed et al., 2007; Snelling et al., 2007; Huang et al., 2006; Jann et al., 2006; Sasazaki et al., 2006; Penedo et al., 2005; Takahashi et al., 2005; Com-stock et al., 2004; Larkin et al., 2003; Mellersh et al., 2000). Relativamente alla specie ovina, si veda il quadro 1. In aggiunta, (II) ha favorito la realizzazione di studi comparati che, attraverso l’ampio ricorso agli strumenti della bioinformatica ed a strategie di “in silico data mi-ning”, hanno consentito e consentiranno di gettare nuova luce sui meccanismi di evoluzione dei genomi (Faraut et al., 2008; Bourque et al., 2005; Everts-van der Wind et al., 2005; Kent et al., 2003; Margulies et al., 2003; Pevzner et Tesler, 2003a, 2003b; Thomas et al., 2003) e sulla possibilità di identificare importanti elementi re-golatori (Margulies et Birney, 2008; Cheng et al., 2007; Amemiya et Gomez-Chiarri, 2006; Defrance et Toupet, 2006; Mao et Zheng, 2006; Xie et al., 2005; Prakash et Tompa, 2005).

quadro 1

Le risorse genomiche nella specie ovina.

Per la specie ovina sono state ampiamente sfruttate le informazioni disponibili dal progetto di sequenziamento dei genomi umano, canino e bovino e la disponibilità di una collezione di BAC (Bacterial Artificial Yest) complessivamente contenenti il genoma ovino per giungere, attraverso un contenuto sforzo di sequenziamento e l’adozione di approcci comparati e di una estensiva analisi in silico, alla costruzione del primo “genoma virtuale” (Dalrymple et al., 2007). Inoltre, dopo gli sforzi iniziali per arricchire di marcatori le mappe genetica e fisica nella specie ovina (Maddox et al., 2007, 2001; Iannuzzi et al., 1999; de Gortari et al., 1998; Crawford et al., 1995), l’attenzione si è spostata dai marcatori STR (Short Tandem Repeats) ai marcatori SNP (Single Nucleotide Polymorphisms), con l’obiettivo di creare un chip di DNA ad alta densità di marcatori SNP. Grazie all’attività dell’International Sheep Genomics Consortium si è giunti (fine 2007) alla creazione di un chip pilota, contente 1536 SNP, che è stato testato su 651 soggetti appartenenti a gruppi di razze distinte ed i cui risultati sono ancora in attesa di pubblicazione. Per i prossimi mesi (metà 2008) è prevista l’ultimazione di un chip contenente oltre 60000 SNP che verrà testato su un ampio gruppo di razze al fine di produrre una prima mappa aplotipica a bassa risoluzione, una mappa fisica ad alta risoluzione sfruttando pannelli di ibridi di radiazione (Radiation Hybrid Map) ed una mappa di linkage a più alta densità. In aggiunta, il chip potrà essere utilizzato dai laboratori di ricerca impegnati nell’identificazione di marcatori associati a caratteri di interesse produttivo, riproduttivo e di adattamento.

Di seguito, alcuni link di interesse nella specie ovina:http://www.livestockgenomics.csiro.au/vsheep/(Virtual Sheep Genome)https://isgcdata.agresearch.co.nz/(International Sheep Genome Sequencing Consortium)http://www.marc.usda.gov/genome/genome.html(Sheep Genome Maps at MARC/USDA)http://www.ncbi.nlm.nih.gov/projects/genome/guide/sheep/ (sheep genome resources at NCBI)http://www.thearkdb.org/arkdb/index.jsp(ArkDB at Roslin Institute)

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le oPPortunità delle scienze omiche241

La aumentata disponibilità di marcatori molecolari (STRs, SNP, AFLP) ha significamente incrementato le opportunità di indagine della “population genetics” (ge-netica di popolazione), che ha potuto sfruttare le infor-mazioni sia di marcatori ad eredità materna (polimorfi-smi a livello del DNA mitocondriale), paterna (marcatori sul cromosoma Y) che biparentale (marcatori sugli au-tosomi), oltre alla possibilità di analizzare DNA estratto da reperti archeologici (solitamente ossa e denti) anche molto antichi (Anderung et al., 2006, 2005; Beja-Pereira et al., 2006; Bollongino et al., 2006; Götherström et al., 2005; Kim et al., 2005; Edwards et al., 2003; Leonard et al., 2002; Watanobe et al., 2002).

Ciò ha consentito di definire, ad esempio, i proces-si alla base della domesticazione delle principali specie zootecniche (Kumar et al., 2007; Lai et al., 2007; Mea-dows et al., 2007; Wayne et al., 2007; Fernández et al., 2006; Guo et al., 2006; Meadows et al., 2006; Tapio et al., 2006; Götherström et al., 2005; Larson et al., 2005; Bruford et al., 2003; Hiendleder et al., 2002; Jansen et al., 2002; Savolainen et al., 2002; Luikart et al., 2001; Kadwell et al., 2001; Kijas et al., 2001; Troy et al., 2001; Vila et al., 2001; Giuffra et al., 2000; Townsend, 2000; Hiendleder et al., 1998; MacHugh et al., 1997; Bradley et al., 1996).

In aggiunta, numerosi studi sono stati condotti al fine di definire le relazioni filogenetiche e filogeografiche tra le diverse razze (Pardeshi et al., 2007; Sardina et al., 2006; Chen et al., 2005; Meadows et al., 2005; Ostran-der et al., 2005; Joshi et al., 2004; Kikkawa et al., 2003; Kim et al., 2003; Sultana et al., 2003; Hanotte et al., 2002; Miretti et al., 2002; Hanotte et al., 2000; Loftus et al., 1994), di caratterizzare geneticamente le popola-zioni e di valutare, monitorare nel tempo e preservare i livelli di variabilità genetica presenti nelle popolazio-ni zootecniche a limitato effettivo numerico e, quindi, maggiormente esposte ai rischi di impoverimento gene-tico, depressione da inbreeding ed, in ultima analisi, di estinzione (Berthouly et al., 2008; Dalvit et al., 2008; Sodhi et al., 2008; Zhang et al., 2008, 2007; Egito et al., 2007; Gautier et al., 2007; Li et al., 2007a, 2007b; Luís et al., 2007a, 2007b; Mao et al., 2007; Martín-Burriel et al., 2007; Sechi et al., 2007; Ibeagha-Awemu et Erhardt, 2006; Iwańczyk et al., 2006; Lirón et al., 2006; Marletta et al., 2006; Tapio et al., 2006; Kim et al., 2005; Morais et al., 2005; Solis et al., 2005; Aberle et al., 2004; Chikhi et al., 2004; Ibeagha-Awemu et al., 2004; Mateus et al., 2004; Rendo et al., 2004; Irion et al., 2003; Aranguren-

Méndez et al., 2002, 2001; Kelly et al., 2002; Li et al., 2002; Giovambattista et al., 2001; Cañon et al., 2000; Kantanen et al., 2000; Martínez et al., 2000; MacHugh et al., 1998).

Anche nella specie ovina sono stati condotti numerosi studi di variabilità, principalmente sfruttando l’informa-zione genetica di marcatori STR (Cinkulov et al., 2008; Gizaw et al., 2007; Kumar et al., 2007; Lawson Handley et al., 2007; Pardeshi et al., 2007; Pedrosa et al., 2007; Peter et al., 2007; Baumung et al., 2006; Chen et al., 2006; Mukesh et al., 2006; Uzun et al., 2006; Tapio et al., 2005a, 2005b; Alvarez et al., 2004; Maiwashe et al., 2004; Walling et al., 2004; Huby et al., 2003; Arranz et al., 2001a, 2001b, 1998; Diez-Tascón et al., 2000).

Una specifica applicazione di alcuni approcci meto-dologici sviluppati nel contesto della genetica di popola-zione è rappresentata dalla rintracciabilità lungo la filie-ra produttiva e di commercializzazione di tagli di carne (quadro 2). La rintracciabilità genomica della carne può essere distinta in tracciabilità individuale ed in tracciabi-lità razziale. Nel primo caso ci si riferisce alla possibilità di sfruttare l’informazione di marcatori molecolari (soli-tamente STR) per realizzare una sorta di fingerprint ge-nomico a partire da DNA prelevato dall’animale in vita in grado di consentire la riconoscibilità, anche dopo la macellazione, di tagli di carne derivanti da uno specifico soggetto. Nel secondo caso, si fa riferimento alla possi-bilità di sfruttare l’informazione di marcatori molecolari (solitamente STR) per realizzare dei test di assegnazione popolazionistica basati su diversi approcci statistici (es. metodi di distanza, di likelihood, bayesiani), in grado di individuare l’origine razziale del campione di carne (Ciampolini et al., 2006; Liu et al., 2006; Yang et al., 2005a, 2005b; Baudouin et al., 2004; Falush et al., 2003; Koskinen et al., 2003; Bjørnstad et al., 2002; Maudet et al., 2002; Rosenberg et al., 2001; Primmer et al., 2000; Pritchard et al., 2000; Cornuet et al., 1999; Cornuet et al., 1996; Paetkau et al., 1995).

La aumentata disponibilità di marcatori molecolari (STR) nelle principali specie zootecniche ha, inoltre, permesso l’adozione di approcci di “genome scan” per la localizzazione primaria di QTL (regioni cromosomiche contenenti uno o più geni che influenzano un carattere multifattoriale) relativi ai principali caratteri quantita-tivi di interesse produttivo, riproduttivo e di resistenza alle patologie (Bagnato et al., 2008; Sahana et al., 2008; Schulman et al., 2008; Tribout et al., 2008; Cepica et al., 2007; Liu et al., 2007; Wei et al., 2007; Harder et

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al., 2006; Harmegnies et al., 2006; Sato et al., 2006; Ashwell et al., 2005; Schnabel et al., 2005; Holmberg et al., 2004; Schulman et al., 2004; Kühn et al., 2003; Viitala et al., 2003; Olsen et al., 2002). Tali studi sono stati condotti realizzando analisi di segregazione sia in incroci sperimentali, sia sfruttando strutture familiari in-formative presenti nelle popolazioni commerciali (Jan-sen, 2003; Hoeshele, 2003; Lynch et Walsh, 1998). La potenza statistica di tali analisi dipende principalmente dalla proporzione di variazione fenotipica imputabile ad uno specifico locus e dalle dimensioni della popolazione che segrega per il QTL. Infatti, a differenza dei carat-teri monogenici, per i caratteri multifattoriali non si ha una relazione diretta tra genotipo e fenotipo, in quanto singoli QTL influenzano solo una parte della varianza fenotipica, essendo, la parte restante fortemente influen-zata sia da fattori di natura ambientale sia da altri QTL (Andersson et Georges, 2004); ciò rende problematica l’identificazione precisa della localizzazione cromoso-mica del gene o dei geni sottintesi dal QTL, consentendo generalmente di mappare il QTL entro regioni cromo-somiche molto ampie, che si estendono per oltre 10-20

centiMorgan (corrispondenti a segmenti di circa 10-20 milioni di coppie di basi, conteneti centinaia di geni).

Progressi metodologici sono stati compiuti intro-ducendo approcci di Composite Interval Mapping e di Multiple Interval Mapping (Li et Wang., 2007; Yi, 2004; Cornforth et Long,2003; Hayashi et al., 2002; Kao et al., 1999; Zeng, 1993, 1994) ed approcci di fine mapping utilizzando la metodica IBD (Identical by Descent; Meu-wissen and Goddard, 2004, 2001, 2000; Perez-Enciso et al., 2003; Blott et al., 2002; Farnir et al., 2002; Grisart et al., 2002; Pong-Wong et al., 2001; George et al., 2000).

Tuttavia, rimangono ancora (I) molteplici difficoltà legate alla possibile presenza di interazioni epistatiche tra QTL diversi, ad oggi ancora difficilmente evidenzia-bili, (II) complicazioni imputabili al fatto che una parte delle mutazioni responsabili dei diversi fenotipi sono mutazioni regolatorie, per le quali sono ancora limitate le nostre capacità di analisi, a causa, ad esempio, della ancora limitata identificazione ed annotazione di regioni ad attività regolatoria nei diversi genomi finora sequen-ziali, (III) ulteriori complicazioni imputabili alla presen-za di meccanismi epigenetici che contribuiscono a deter-

quadro 2

La rintracciabilità dell’origine dei prodotti oviniLe produzioni ovine ottenute con le razze autoctone dell’Italia Meridionale sono quantitativamente limitate ma ottenute con popolazioni animali e tecniche di allevamento che sollecitano minori input tecnologici e consentono di realizzare obiettivi qualitativi di alto pregio, molto apprezzati dal mercato. Richiamano tuttavia maggiori costi per unità di prodotto e sollecitano prezzi di vendita più elevati rispetto ad un prodotto di massa. Le tentazioni di frodi commerciali sono fortissime e non possono essere tenute a freno solo attraverso i sistemi di tracciabilità informatizzati, che sono esposti ad errori per la possibilità di interferire sulla filiera con deviazioni colpose o dolose, non sempre evidenziabili dal sistema.È necessario perciò lo sviluppo di un sistema di controllo e di servizi al mondo della produzione da utilizzare anche quale leva strategica per espandere il consumo a mercati attenti alla ricerca di qualità e salubrità. Le metodologie molecolari, a supporto della piena garanzia e della corretta comunicazione con il consumatore, permettono di risalire dalla carne in commercio all’animale e/o alla sua razza. Per le carni bovine la tracciabilità individuale è già in fase operativa da parte di laboratori nazionali, mentre la tracciabilità razziale è ancora limitata a pochi gruppi di ricerca, anche se è avanzata la realizzazione di un archivio genomico completo delle razze fornitrici di carne sul mercato nazionale. Per le carni ovine il lavoro è ancora agli inizi, ma il programma di attività in corso dovrebbe costituire un buon passo nella direzione giusta per ottimizzare il panel di marcatori del profilo genomico, per migliorare le strategie statistiche e per creare un archivio genomico ovino necessario per la tracciabilità razziale. Per il latte ed i trasformati le metodologie molecolari sono al momento di difficile applicazione in relazione ai sistemi di commercializzazione e trasformazione che ovviamente interessano un prodotto di massa (latte misto) che non consente diagnosi di origine. Solo per i latti monorazza potrà essere individuata la provenienza se saranno identificati alleli privati di razza.

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minare la variabilità genetica di uno specifico carattere quantitativo.

In particolare, nella specie ovina sono stati condotti numerosi studi sia per la ricerca, con approccio posizio-nale, di QTL associati a caratteri di intresse zootecnico (Beraldi et al., 2007a, b; Duncan et al., 2007; Murphy et al., 2007; Vitezica et al., 2007; Calvo et al., 2006; Craw-ford et al., 2006; Davies et al., 2006; Karamichou et al., 2006; Barillet et al., 2005; Johnson et al., 2005a, b; Not-ter et Cockett, 2005; Purvis et Franklin, 2005; Laville et al., 2004; Walling et al., 2004; Campbell et al., 2003; Beh et al., 2002; Coltman et al., 2001; Diez-Tascón et al., 2001) sia per l’analisi strutturale e/o funzionale di geni scelti in quanto candidati posizionali e/o candidati funzionali per caratteri di produzione della carne (Ha-djipavlou et al., 2008; Freking et al., 2002; Fahrenkrug et al., 2000), del latte (Gutiérrez et al., 2007; Calvo et al., 2004; Gerencsér et al., 2002), della lana (Gratten et al., 2007; Liu et al., 2007; Finocchiaro et al., 2003), ri-produttivi (Chu et al., 2007; Chu et al., 2006; Reini et al., 2006; Bi et al., 2005; Chu et al., 2005; Hayashi et Spencer, 2005; Chu et al., 2004; Davis, 2004; Dobbins et al., 2004; Pillon et al., 2004; Rizos et al., 2004; Liu et al., 2003; Mandon-Pépin et al., 2003; Mulsant et al., 2003; Notter et al., 2003; Wu et al., 2003; Souza et al., 2001; Xing et al., 2001), e di resistenza alle patologie (Marcos-Carcavilla et al., 2008; Cosseddu et al., 2007; Marcos-Carcavilla et al., 2007; Tetens et al., 2007; Be-ever et al., 2006; Dukkipati et al., 2006; Kabaroff et al., 2006; Tammen et al., 2006; Alvarez-Busto et al., 2004; Tranulis et al., 2002; Phua et al., 1999).

Le conoscenze acquisite, grazie agli strumenti della genomica, sulla base molecolare dei principali fenotipi di interesse potranno essere di grande ausilio nell’orien-tare le scelte selettive e di miglioramento genetico delle popolazioni zootecniche attraverso l’implementazione di schemi di Marker Assisted Selection (Goddard et Ha-yes, 2007; Basrur et King, 2005; Williams, 2005; Dek-kers, 2004, Gorge, 2001; Beuzen et al., 2000; Georges, 1999; Davis et DeNise, 1998; Haley et Visscher, 1998; Spelman et Bovenhuis, 1998).

L’appoccio trascrittomico e proteomico

La trascrittomica fornisce informazioni circa la pre-senza e la diversa abbondanza di trascritti genici (mes-senger RNA, mRNA) in popolazioni cellulari diverse o in condizioni particolari (trattamenti farmacologici, quadri patologici, stadi di sviluppo embrionale, etc.) im-piegando, tra le altre tecniche (Northern blotting, Real Time PCR), anche metodologie high-throughput come DNA microarray e Serial Analysis of Gene Expression (SAGE), in grado di consentire il monitoraggio dei li-velli di espressione contemporaneamente per svariate centinaia di geni.

L’adozione di tecniche high-throughput di gene ex-pression profiling in ambito zootecnico è relativamen-te recente e si è concentrata principalmente sulle specie bovina e suina (de Koning et al., 2007; Jaffrézic et al., 2007; Ron et al., 2007; Smith et Rosa, 2007; Green et al., 2006; Reecy et al., 2006; Byrne et al., 2005; Hill et al., 2005; Gladney et al., 2004; Tao et al., 2004; Bai et al., 2003; Berthier et al., 2003; Suchyta et al., 2003).

Tuttavia, anche per la specie ovina, è stata condotta una serie di studi in ambito trascrittomico volta all’ap-profondimento delle conoscenze relative a caratteri di produzione della lana (Plowman et al., 2007; Wenguang et al., 2007), della carne (Vuocolo et al., 2006) e di re-sistenza alle patologie (Chen et al., 2007; Cosseddu et al., 2007; Keane et al., 2007; Nalubamba et al., 2007; Smeed et al., 2007; Cao et al., 2006; Keane et al., 2006; Diez-Tascón et al., 2005).

L’analisi del trascrittoma (l’insieme di tutti i trascritti di una popolazione di cellule) consente di individuare i geni che sono attivi in particolari condizioni; è, tuttavia, necessario ricordare come i livelli di mRNA non siano sempre direttamente proporzionali ai livelli di espressio-ne delle relative proteine.

Per tale motivo, spesso, gli studi di trascrittomica vengono affiancati da studi di proteomica, finalizzati alla individuazione, quantificazione, comprensione del-la struttura, delle modificazioni post-traduzionali e della funzione delle varie proteine presenti nelle diverse po-polazioni cellulari. Tra le tecniche di proteomica più fre-quentemente adottate, ricordiamo l’elettroforesi su gel bidimensionale e la spettrometria di massa, rispettiva-mente, per la separazione, l’identificazione e la quanti-ficazione delle proteine, la cristallografia a raggi x e la spettroscopia di risonanza magnetica nucleare (NMR),

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per lo studio della struttura delle proteine, la cromatogra-fia di affinità, il sistema “Yeast Two-Hybrid”, i microar-ray di proteine e l’approccio computazionale (Ben-Hur et Noble, 2005; Pazos et al., 2005) per l’identificazione delle interazioni tra proteine. A tali metodiche si posso-no aggiungere, infine, i più tradizionali saggi di Western blotting e di immunolocalizzazione cellulare mediante immunoistochimica, la citofluorimetria e la spettrofluo-rimetria.

Nella specie ovina sono stati effettuati diversi studi utilizzando elettroforesi su gel bidimensionale e/o spet-trometria di massa (Goldfinch et al., 2008; Hamelin et al., 2007; Morel et al., 2007; Choudhury et al., 2006; Jolly et al., 2006; Gatti et al., 2005; Jobim et al., 2005; Simpson et al., 2004; Lee et al., 1998; Driancourt et al., 1996), cristallografia (Coderch et al., 2007; Kaya et al., 2007; Srivastava et al., 2007; Shand et al., 2005; Eghia-ian et al., 2004; Haire et al., 2004; Megy et al., 2004; Li et al., 2002), mentre ancora pochi studi sono stati realiz-zati impiegando la tecnica NMR, principalmente per in-dagare la struttura della proteina prionica (Bertho et al., 2008; Bujdoso et al., 2005; Lysek et al., 2005), le frazio-ni di fosforo organico ed inorganico nelle feci di animali al pascolo (McDowell et Steward, 2005; Shand et al., 2005) o per più ampi studi metabolomici (Pears et al., 2007; Charlton et al., 2006;). Alcuni studi di interazio-ne proteina-proteina o di proteine con molecole diverse sono stati condotti negli ultimi anni anche nella specie ovina (Moudjou et al., 2007; Chen et al., 2006; Petrakis et al., 2006; Leak et al., 2004; Wang et al., 2004; Hundt et al., 2003). In particolare, la comprensione delle inte-razioni proteina-proteina che si realizzano, ad esempio, nelle cascate enzimatiche o nella formazione di comples-si enzimatici consentirà di meglio chiarire la struttura ed il funzionamento dei network cellulari integrati (Cusick et al., 2005).

Tecniche citofluorimetriche sono state adottate, in ambito ovino, principalmente per lo studio di specifi-che popolazioni cellulari in risposta a quadri patologici (Agnew et Colditz, 2008; Eaton et al., 2007; Thackray et al., 2005; Newland et al., 2004; Thackray et al., 2004; Barclay et al., 2002; Dunphy et al., 2002; Herrmann et al., 2001; Winstanley, 1992), anche se non appare inve-rosimile che tali metodiche potranno trovare a breve dif-fusione anche nella specie ovina (Yániz et al., 2008; de Graaf et al., 2007), ad esempio, nella valutazione della qualità spermatica e nella differenziazione di popolazioni spermatiche in base ai cromosomi sessuali, analogamen-

te a quanto già osservato per altre specie, anche di inte-resse zootecnico (Hoogendijk et al., 2008; Siemieniuch et al., 2008; Ding et al., 2007; Hamano, 2007; Koonja-enak et al., 2007a, 2007b; Klein et al., 2006; Lu et al., 2006; Spinaci et al., 2006; Aziz, 2006; Aziz et al., 2005; Brouwers et al., 2005; Gillan et al., 2005; Lukoseviciute et al., 2005; Christensen et al., 2004a, 2004b; Harkema et al., 2004a, 2004b; Lukoseviciute et al., 2004; Nagy et al., 2003; Somanath et al., 2002; Yeung et al., 2002). L’adozione di tecniche spettrofluorimetriche è stata, nel-la specie ovina, principalmente associata a studi di carat-terizzazione funzionale di proteine con funzione ATPa-sica (Dempski et al., 2005; Geibel et al., 2003a, 2003b), di proteine con funzione immunoregolatoria (Siemion et al., 1990), di glicoproteine secretorie (Srivastava et al., 2007) o per la valutazione della qualità spermatica dopo crioconservazione (Martinez-Pastor et al., 2004).

Numerosi, infine, gli studi di caratterizzazione pro-teica condotti nella specie ovina utilizzando le più tra-dizionali tecniche di immunoblotting (Andrievskaia et al., 2008; Gobet et al., 2008; Hosokawa et al., 2008; Fernández et al., 2007; Hue-Beauvais et al., 2007; Mel-rose et al., 2007; Nentwig et al., 2007; Rodríguez-Gil et al., 2007; Ushizawa et al., 2007; Vascellari et al., 2007; Chen et al., 2006; Kirat et al., 2006; Tobin et al., 2006; Beltran et al., 2005; Dolan et al., 2004; Narine et al., 2004; Heine et al., 2003; Papageorgakopoulou et al., 2002) ed immunolocalizzazione cellulare (French et al., 2007; Lodewyck et al., 2007; Melrose et al., 2007, 2005; Rodríguez-Gil et al., 2007; Arroyo et al., 2006; Yarim et al., 2006; Beltran et al., 2005; Shaikh et al., 2005; Chami et al., 2004; Advis et al., 2003; Yee et al., 2003; Melrose et al., 2003, 2002, 2000; Ivy et al., 2002; Malhotra et al., 2002; Ricke et al., 2002a, 2002b; Baltazar et al., 2001; Zieba et al., 2000; Riley et al., 2000; Ivy et al., 2000).

L’appoccio lipidomico e glicomico

La lipidomica si pone come obiettivo quello di iden-tificare, classificare e quantificare tutti i lipidi presenti nella cellula e di definirne le funzioni specifiche (Joyce et Palsson, 2006; Wenk. 2005). La cellula, infatti, sfrutta le proprietà dei lipidi sia a fini strutturali, per la costitu-zione delle membrane cellulari, che per la loro capacità

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le oPPortunità delle scienze omiche245

di influenzare e dirigere eventi associati alle membra-ne, quali i processi di trasporto mediati dalle vescicole del sistema secernente e la trasduzione dei segnali inter-cellulari. Alcuni lipidi altamente specializzati svolgono un ruolo essenziale in questi processi, come LPA (lyso-phosphatidic acid), LBPA (lysobisphosphatidic acid), ceramide, DAG (diacylglycerol). Mentre le funzioni di alcuni lipidi sono state studiate in dettaglio (fosfoinosi-tidi, LPA, sfingosina-1-fosfato, prostaglandine, ormoni steroidei ecc..), per altre categorie lipidiche sono ancora scarse le conoscenze circa il loro significato funzionale (es. plasmalogeni e glicosfingolipidi).

Larga parte dell’attenzione nei confronti della lipido-mica origina dal fatto che numerose patologie umane, quali disordini cardiovascolari, obesità, tumori, morbo di Alzheimer ed alcune malattie metaboliche congenite interessano componenti lipidiche (van Meer, 2005).

L’analisi del profilo lipidico di popolazioni cellulari richiede metodologie in grado di garantire una determi-nazione ed una quantificazione dettagliata ed accurata delle diverse tipologie di lipidi. Ciò può essere realizzato sfruttando tecniche di spettrometria di massa, sistemi di imaging in fluorescenza e microscopia elettronica, tec-niche NMR (Nuclear Magnetic Resonance) ed approcci computazionali. Tuttavia, la lipidomica può essere con-siderata una scienza emergente e ancora pochi sono i dati disponibili, principalmente riferibili a studi condotti in ambito umano o su specie di laboratorio (Masukawa et al., 2008; Poulsen et al., 2008; Cheng et al., 2008; Draisma et al., 2008; Kiebish et al., 2008; Tyurina et

al., 2008; Vellani et al., 2008; Cheng et al., 2007; Gross et Han, 2007; Han, 2007; Nag et al., 2007; Han et al., 2006; Postle et al., 2006). In ambito zootecnico (quadro 3), metodiche di spettrometria di massa sono state ap-plicate alla caratterizzazione delle componenti lipidiche e non di latte e derivati caseari (Herbrand et al., 2007; Povolo et al., 2007; Luna et al., 2005a, 2005b; Carpino et al., 2004; Guillén et Sopelana, 2004; Stefanon et al., 2004; Tavaria et al., 2004; Valeille et al., 2004; Verzera et al., 2004; Kim et al., 2003; Pinho et al., 2003; Qian et Reineccius, 2003; Taborda et al., 2003; Fernández-Gar-cía et al., 2002a, 2002b; Pinho et al., 2002; Moio et al., 2000), carne (Vasta et al., 2007; Zunin et al., 2006; Gad-gil et al., 2005; Estévez et al., 2004; Evangelisti et al., 2004; Ramírez et al., 2004; Chen et Chen, 2003; Estévez et al., 2003; Petrón et al., 2003; Gadgil et al., 2002; Fe-drigo et al., 1999) e prodotti ittici (Baron et al., 2007; Morrison et al., 2007; Nordvi et al., 2007; Horvatovich et al., 2006; Obana et al., 2005).

La glicomica si pone come obiettivo quello di ana-lizzare su vasta scala le proprietà strutturali e funziona-li delle diverse classi di glicani. Questi ultimi rivestono particolare interesse, in considerazione del fatto che, ad esempio, i glicoconiugati presenti a livello delle superfi-ci cellulari sono in grado di controllare numerosi eventi biologici quali la differenziazione cellulare, l’adesione cellulare, l’orientamento verso tessuti specifici, i mecca-nismi di riconoscimento immunologico e i processi me-tastatici (Mahal. 2008; Shriver et al., 2004). In aggiunta, la glicomica si interfaccia strettamente con la proteo-

quadro 3

Le scienze “omiche” e la caratterizzazione delle produzioni animaliGli strumenti delle scienze “omiche” possono contribuire, attraverso la loro applicazione alla caratterizzazione delle produzioni animali, alla comprensione delle proprietà qualitative, nutrizionali e salutistiche degli alimenti di origine animale, nonché alla loro valorizzazione, mediante l’individuazione degli attributi di tipicità che li contraddistinguono (Hollung et al., 2007; van de Wiela et Zhang 2007; Mullen et al., 2006; Bendixen, 2005; Chessa et al., 2005; D’Auria et al., 2005; Miranda et al., 2004; O’Donnell et al., 2004). Esempi di tali applicazioni sono rappresentati dall’analisi su carne, latte e derivati delle componenti proteiche mediante elettroforesi bidimensionale e spettrometria di massa e delle componenti lipidiche e delle frazioni volatili mediante tecniche cromatografiche associate a spettrometria di massa. La determinazione del profilo in composti volatili (VOCs, Volatile Organic Compounds), in particolare, sembra presentare interessanti potenzialità quale strumento di rintracciabilità delle produzioni tipiche e tradizionali legate a specifici contesti territoriali e/o a particolari tecnologie produttive. Numerosi studi in tal senso sono stati condotti, ad esempio, al fine di individuare, in prodotti caseari ottenuti da latte di animali tenuti al pascolo, composti, o gruppi di composti, in grado di fungere da veri e propri biomarker territoriali (Favaro et al., 2005; Chiofalo et al., 2004; Zeppa et al., 2004; Martin et al., 2003; Bugaud et al., 2002, 2001).

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246le biotecnologie avanzate Per la valorizzazione delle razze autoctone

mica, in quanto la glicosilazione rappresenta una delle modificazioni post-traduzionali in grado di influenzare l’attività biologica delle proteine (Spiro, 2008). L’ete-rogeneità dei composti glicanici e la complessità dei processi di glicosilazione complicano notevolmente le possibilità di analisi (Pilobello et Mahal, 2007) che, tut-tavia, hanno potuto trarre vantaggio da metodiche quali la spettrometria di massa (Liu et al., 2006; Zaia, 2004; Tseng et al., 2001), lo sviluppo di glycoarray (Rosenfeld et al., 2007; Comelli et al., 2006; Ebe et al., 2006; Hsu et al., 2006a, 2006b; Manimala et al., 2006, 2005; Angelo-ni et al., 2005; Kuno et al., 2005; Pilobello et al., 2005; Zheng et al., 2005; Hirabayashi, 2003), la produzione di analoghi di sintesi e gli sviluppi della glico-ingegneria, unitamente ai progressi della bioinformatica.

La glicoingegneria, in particolare, ha rivelato notevo-li potenzialità di applicazione in ambito farmacologico, consentendo di modificare favorevolmente le proprietà farmacocinetiche di proteine impiegate, o potenzial-

mente utili, a scopo terapeutico (Werner et al., 2007), quali, ad esempio, l’analogo di sintesi dell’eritropoieti-na umana (Sinclair et Elliott, 2005), la leptina (Elliott et al., 2003), l’ormone follicolo-stimolante (Perlman et al., 2003) e citochine quali Megakaryocyte Growth and Development Factor - MGDF, nota anche come trombo-poietina (Elliott et al., 2003) e interferone alfa - INF-a (Ceaglio et al., 2008).

La glicomica è una disciplina recente e, in quanto tale, non ha ancora trovato ampia diffusione in ambito zootecnico, dove, tuttavia, sono stati realizzati diversi studi di glicobiologia su aspetti specifici (Blanchard et al., 2008; Gil et al., 2008; Jones et al., 2008; Klisch et al., 2008; Broersen et al., 2007; Giménez et al., 2007; Henning et al., 2007; Loriol et al., 2007; Moudjou et al., 2007; Pabst et al., 2007; Yang et al., 2007; Faid et al., 2006; Klisch et al., 2006; Koles et al., 2005; Yonezawa et al., 2005; Nakano et al., 2004).

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271

gLi obbiettivi e i Metodi

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273

Le attenzioni riservate dalla ricerca alle attitudini pro-duttive delle razze autoctone (vedi la ricca bibliografia) consentono di avere una visione sufficiente del loro inte-resse funzionale. Questi aspetti sono stati perciò valutati senza perdere di vista l’analisi genetica che finora non era stata mai affrontata, nonostante che la conoscenza della variabilità genetica intra-popolazione sia importan-te per la gestione delle popolazioni animali a consistenze limitate, come ormai la gran parte delle razze autoctone dell’Italia Meridionale Continentale. Attenzione partico-lare è stata perciò riservata alle analisi genomiche; l’im-piego di marcatori molecolari permette infatti di effet-tuare l’analisi della struttura delle razze e/o popolazioni per la loro salvaguardia, ricostruzione e/o rigenerazione e per la programmazione della selezione. I profili ge-nomici individuali multilocus possono infatti offrire un contributo essenziale per:

- costituire una memoria oggettiva (scientifica) dei genotipi animali di interesse e della loro variabilità (ar-chivio storico biologico del germoplasma);

- mettere a disposizione, di tecnici ed allevatori, un potente strumento per la scelta conservativa, soprattutto nelle piccole popolazioni, dei genotipi autoctoni meno inquinati da attentati genetici, quali l’incrocio praticato dagli allevatori alla ricerca di miglioramenti delle rispo-ste economiche e la consanguineità imposta dal limitato numero di tipi genetici disponibili;

- favorire la scelta selettiva dei riproduttori che oscil-lano dal difetto (per consanguineità) all’eccesso (per in-crocio) di eterozigosi al fine di individuare la corretta

rassomiglianza genetica tra soggetti in grado di assicura-re una migliore combinabilità per il ripristino delle pre-rogative di purezza della razza.

L’azione è stata avviata perciò con una ricognizione delle razze e popolazioni ovine autoctone dell’Italia Me-ridionale Continentale per individuare le possibili fonti di materiale genetico di interesse, attraverso indagini preli-minari e di campo tendenti a raccogliere le informazioni esistenti ed acquisire conoscenze, mediante approfondi-mento della ricerca bibliografica, indagine anamnestica e interviste aziendali, sulla consistenza e la diffusione (numero di aziende e loro distribuzione nell’area di al-levamento) delle razze che avevano un significato per il territorio: Altamurana, Bagnolese, Gentile di Puglia, con le varietà di Capitanata, del Molise, di Basilicata e di Calabria, Laticauda, Leccese e Matesina. Queste inda-gini hanno anche consentito la caratterizzazione morfo-funzionale e produttiva delle razze allo studio.

Ci si è poi soffermati sulla caratterizzazione genetica: studio della variabilità genetica, intra e tra popolazioni, con approccio molecolare a livello del DNA genomico mediante l’analisi di marcatori microsatelliti.

Lo schema di lavoro ha previsto infine la valorizza-zione delle conoscenze acquisite attraverso l’avvio di un programma di disseminazione e di divulgazione dei risultati per informare allevatori, commercializzatori, consumatori e loro organizzazioni sugli aspetti qualifi-canti delle produzioni ottenute con le razze autoctone nei sistemi di produzione a bassi input.

D. Cianci, E. Castellana, E. Ciani

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275

Le indagini preliminari sono state sviluppate in tre fasi.

a) Incontri preliminariLa prima fase ha previsto incontri con rappresentati

delle Associazioni Regionali e Provinciali degli Alleva-tori, dei Comitati Tecnici delle razze interessate e con soggetti (tecnici ed allevatori) operanti sul territorio per presentare gli obbiettivi del progetto, ottenere suggeri-menti e considerazioni utili per lo sviluppo del lavoro e per raccogliere le informazioni esistenti, su base anam-nestica e documentaria, sulla consistenza e la diffusione degli allevamenti della razze candidate allo studio (nu-mero di aziende e loro distribuzione nell’area di alle-vamento) tendenti a delineare la situazione e ricavarne suggerimenti sulla scelta del campione di aziende per le indagini di campo.

Le domande poste ai tecnici ed agli allevatori nelle riunioni hanno riguardato innanzitutto le aree di alle-vamento, le tipologie e il numero di aziende, nonché le tipologie di animali da ammettere all’indagine per otte-nere una buona rappresentatività del campione. Ci si è poi soffermati su: numero di capi censiti di razza pura o derivati da incroci, razze utilizzate negli schemi di incro-cio, percentuale di sangue alloctono (bassa, media o alta) ed epoca di maggiore introduzione di razze alloctone, numero di aziende iscritte al Libro Genealogico, numero e tipologie di aziende e di animali da ammettere per ga-rantire la rappresentatività del campione. È stato inoltre richiesto quali miglioramenti morfologici e/o funziona-li abbianoconvinto gli allevatori ad optare per una delle tipologie genetiche tra: sviluppo dell’adulto, conforma-zione da latte o da carne, prolificità, fecondità, longevi-tà, peso dell’agnello alla nascita e/o allo svezzamento, quantità e/o qualità del latte alla mungitura, produzione di latte per anno, resa in formaggio, adattamento al clima e/o all’alimentazione, problemi igienico-sanitari, facilità di commercializzazione.

Dalle interviste condotte durante le riunioni secondo lo schema dello specifico questionario (questionario pre-

liminare), è apparsa evidente l’impossibilità di procedere allo studio sulla razza Matesina per la indisponibilità di allevamenti e soggetti riferibili alla razza stessa, che ha dovuto perciò essere esclusa dalle osservazioni. È emer-sa, anche la difficoltà di individuare per altre razze (Alta-murana, Leccese, Gentile di Basilicata e di Calabria) un ampio numero di aziende con allevamenti in purezza, in quanto gran parte degli allevatori si sono orientati ver-so razze introdotte (in purezza o per frazioni di sangue) soprattutto da altre Regioni italiane, ritenute a maggiori performances produttive e riproduttive.

b) L’indagine di campo Sulla base delle informazioni acquisite (come al pun-

to a), per assicurare la maggiore rappresentatività sul territorio, si è proceduto alla individuazione delle aree di allevamento e di un congruo numero di aziende di interesse, nelle quali sviluppare un’indagine di campo con interviste e misurazioni aziendali, per accertare le problematiche di allevamento di queste popolazioni in vista dell’analisi genomica e per analizzare le aree di al-levamento, le tipologie aziendali e le linee familiari quali fonti di variabilità (e di miglioramento) dei sistemi di al-levamento e di alimentazione e delle performances pro-duttive. Per alcune razze, come si è detto l’Altamurana, la Leccese e la Gentile di Basiicata e di Calabria, il com-pito è stato vincolato dalla contrazione del patrimonio e degli allevamenti che ha costretto a considerare tutti quelli ancora orientati all’allevamento in purezza senza poter effettuare scelte rappresentative e l’accertamento di eventuali fonti di variabilità dei sistemi di allevamen-to e di alimentazione. Gli allevamenti in purezza sono stati perciò accettati per la valutazione delle performan-ces produttive e riproduttive, nonché delle patologie più frequenti e dei mezzi di prevenzione e di lotta adottati in modo da valutare l’adattamento all’ambiente nosologi-co. Per alcune razze, oltre agli allevamenti di razza pura, sono state prese in considerazione altre aziende ritenute significative dai tecnici, ma con soggetti derivati, utili per i confronti sulle risposte funzionali.

le indagini Preliminari

E. Castellana, E. Ciani, D. Cianci

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276gli obbiettivi e i metodi

Uno specifico questionario aziendale è stato predispo-sto ed utilizzato in ciascuna Provincia dell’area di alle-vamento per raccogliere informazioni dirette sul numero di aziende con soggetti della razza in esame distinti tra animali di razza pura e non, sul livello di insanguamen-to degli eventuali meticci, con quali razze e gli anni di maggiore attività del meticciamento.

Sono stati analizzati i seguenti parametri:Provincia e Comune entro cui si effettuano le at-(a)

tività di allevamentodati anagrafici dell’allevatore, con riferimento (b)

all’epoca di avvio dell’attività allevatoriale ed alle sue fonti di aggiornamento

presenza in allevamento di soggetti di altre raz-(c) ze

superficie aziendale di proprietà con indicazio-(d) ne della superficie destinata a pascolo (ha) e/o a erbaio (ha)

superficie aziendale in fitto da privati con indi-(e) cazione della superficie destinata a pascolo (ha) e/o a erbaio (ha)

superficie aziendale in fitto pubblico con indi-(f) cazione della superficie destinata a pascolo (ha) e/o a erbaio (ha)

sistema di pascolamento (pascolo permanente, (g) pascolo + transumanza, integrazione

eventuale pascolo integrante con indicazione (h) della sua natura (terre coltivate, ristoppia)

(i) attenzioni riservate al pascolo tra cui: turnamen-to, lavorazioni del terreno, trattamenti (fertilizzanti, pe-sticidi), produzione di fieno

prestazioni riproduttive dei capi allevati, in ter-(l) mini di: stagioni riproduttive prevalenti, lunghezza della vita riproduttiva, quoziente annuo di avvicendamento, età al primo accoppiamento, numero di riproduttori per sesso, rapporto sessi riproduttivo, numero di agnelli nati per anno, percentuale di parti gemellari, età di svezza-mento degli agnelli, età e peso vivo degli agnelli alla macellazione

produzione lattea in termini di durata ed entità (m) della produzione individuale

stato di salute in termini di regolarità e cadenza (n)

dei controlli veterinari, delle operazioni di vaccinazione pianificata e di trattamenti antielmintici; percentuale di mortalità

benessere animale, in relazione alle caratteri-(o) stiche dell’ambiente di allevamento: luce, ventilazione, rumore e delle possibilità di movimento

eventuali commenti soprattutto in relazione alle (p) difficoltà nella commercializzazione ed al suggerimento di argomenti e tematiche ritenute di interesse e per le quali si ravvisa la necessità di approfondimento e/o di ricerca.

Nelle aziende e sui soggetti prescelti sono state ese-guite stime delle produzioni quantitative e analisi quali-tative al fine di definire una scheda di qualità utilizzabile per la fase di valorizzazione delle produzioni. È stato poi chiesto agli allevatori che hanno introdotto soggetti delle razze alloctone quali miglioramenti morfologici e/o fun-zionali o quali problemi si attendevano dalle tipologie genetiche prescelte in termini di: sviluppo dell’adulto, conformazione da latte, conformazione da carne, proli-ficità, fecondità, longevità, peso dell’agnello alla nasci-ta, peso agnello allo svezzamento, quantità e qualità del latte al secchio, resa in formaggio, facilità di commer-cializzazione, adattamento al clima e/o all’alimentazio-ne, problemi igienico-sanitari. Le informazioni raccolte sono state utilizzate per scegliere il campione dei sog-getti non parenti, ma rappresentativi di ciascuna realtà genetica (almeno 50 per razza o per tipologia genetica, secondo quanto adottato nei protocolli internazionali) da sottoporre alle analisi molecolari.

c) I convegni-dibattito Durante e dopo lo svolgimento delle indagini di cam-

po sono stati organizzati incontri con tecnici ed alleva-tori per discutere con maggior dettaglio i risultati e le situazioni delle razze allo studio che si delineavano dalle indagini e raccogliere le loro impressioni sulle conside-razioni che potrebbero convincere gli allevatori a tornare alla razza in purezza, sugli argomenti più interessanti per futuri interventi di assistenza, dimostrazione o ricerca e per la formulazione delle raccomandazioni conclusive del Progetto.

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277

Lo studio del polimorfismo genetico è stato effettuato a livello del DNA genomico mediante l’analisi di mar-catori Short Tandem Repeats (STRs), o microsatelliti. L’impiego di un set di marcatori permette di valutare il polimorfismo di una parte sufficientemente ampia e rap-presentativa dell’intero genoma e di studiare la variabili-tà genetica intra e tra popolazioni; fornendo la stima del livello di eterozigosi, della consanguineità e delle distan-ze genetiche tra popolazioni.

Il campione

Relativamente alle analisi genomiche, attraverso le in-formazioni raccolte con le indagini aziendali e i dati del Libro Genealogico, è stato individuato, per ogni razza, il campione dei soggetti quanto più possibile non parenti,

assortito in modo da assicurare la maggiore rappresenta-tività sul territorio di ciascuna realtà genetica.

Nel caso specifico le 6 popolazioni analizzate sono composte da soggetti di razza Altamurana (89), Bagno-lese (51), Gentile di Basilicata (79), Gentile di Puglia (84), Laticauda (51) e Leccese (97), per un totale di 451 animali (Tab. 1). I prelievi ematici sono stati eseguiti, a partire dal mese di ottobre 2005 al mese di gennaio 2006 presso le aziende individuate nel primo semestre di svolgimento dell’attività di ricerca. Il materiale biolo-gico (sangue) prelevato è stato conservato a -20°C fino al momento dell’estrazione del DNA, condotta secondo protocolli standard.

le metodologie di laboratorio

R. Ciampolini, F. Cecchi, M. Tancredi, E. Mazzanti

Razza Provincia N. allevamenti N. soggettiAltamurana Bari 2 (73; 16)Bagnolese Salerno 2 (24; 26)

Gentile di PugliaFoggia 4 (13; 14; 14; 14)

Campobasso 2 (13; 14)Gentile di Basilicata Potenza 2* (57; 22)

Leccese

Bari 1 (12)Taranto 1 (19)Brindisi 1 (15)Lecce 2 (13; 38)

LaticaudaBenevento 3 (6; 10; 11)

Caserta 1 (24)* La popolazione è costituita da 57 soggetti provenienti da uno stesso allevamento e da 22 soggetti campionati

presso un impianto di macellazione agli inizi degli anni’80

Tabella 1. Schema riassuntivo del piano di campiona-mento effettuato per ciascun tipo genetico.

Nella pagina seguente: Tabella 2. Lista dei marcatori STR scelti per i protocolli di multiplex PCR.

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278gli obbiettivi e i metodi

Locus Primers Fluorocromo*

BM1824Forward GAG CAA GGT GTT TTT CCA ATC

FAMReverse CAT TCT CCA ACT GCT TCC TTG

BM8125Forward CTC TAT CTG TGG AAA AGG TGG G

NEDReverse GGG GGT TAG ACT TCA ACA TAC G

ILSTS11Forward GCT TGC TAC ATG GAA AGT GC

FAMReverse CTA AAA TGC AGA GCC CTA CC

ILSTS5Forward GGA AGC AAT GAA ATC TAT AGC C

NEDReverse TGT TCT GTG AGT TTG TAA GC

ILSTS28Forward TCC AGA TTT TGT ACC AGA CC

NEDReverse GTC ATG TCA TAC CTT TGA GC

INRA063Forward ATT TGC ACA AGC TAA ATC TAA CC

FAMReverse AAA CCA CAG AAA TGC TTG GAA G

MAF214Forward GGG TGA TCT TAG GGA GGT TTT GGA GG

HEXReverse AAT GCA GGA GAT CTG AGG CAG GGA CG

MAF65Forward AAA GGC CAG AGT ATG CAA TTA GGA G

FAMReverse CCA CTC CTC CTG AGA ATA TAA CAT G

MAF70Forward CAC GGA GTC ACA AAG AGT CAG ACC

HEXReverse GCA GGA CTC TAC GGG GCC TTT GC

MAF209Forward GAT CAC AAA AAG TTG GAT ACA ACC GTG G

NEDReverse TCA TGC ACT TAA GTA TGT AGG ATG CTG

MAF33Forward GAT CTT TGT TTC AAT CTA TTC CAA TTT C

HEXReverse GAT CAT CTG AGT GTG AGT ATA TAC AG

MCM140Forward GTT CGT ACT TCT GGG TAC TGG TCT C

FAMReverse GTC CAT GGA TTT GCA GAG TCA G

OarAE129Forward AAT CCA GTG TGT GAA AGA CTA ATC CAG

NEDReverse GTA GAT CAA GAT ATA GAA TAT TTT TCA ACA CC

OarFCB20Forward AAA TGT GTT TAA GAT TCC ATA CAG TG

HEXReverse GGA AAA CCC CCA TAT ATA CCT ATA C

OarJMP29Forward GTA TAC ACG TGG ACA CCG CTT TGT AC

NEDReverse GAA GTG GCA AGA TTC AGA GGG GAA G

OarFCB128Forward ATT AAA GCA TCT TCT CTT TAT TTC CTC GC

FAMReverse CAG CTG AGC AAC TAA GAC ATA CAT GCG

OarFCB193Forward TTC ATC TCA GAC TGG GAT TCA GAA AGG C

FAMReverse GCT TGG AAA TAA CCC TCC TGC ATC CC

OarFCB304Forward CCC TAG GAG CTT TCA ATA AAG AAT CGG

NEDReverse CGC TGC TGT CAA CTG GGT CAG GG

OarJMP58Forward GAA GTC ATT GAG GGG TCG CTA ACC

HEXReverse CTT CAT GTT CAC AGG ACT TTC TCT G

OarVH72Forward GGC CTC TCA AGG GGC AAG AGC AGG

FAMReverse CTC TAG AGG ATC TGG AAT GCA AAG CTC

* Per convenzione si è scelto di marcare con il fluorocromo specifico i primers forward per ciascun microsatellite.

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le metodologie di laboratorio279

La scelta del panel dei marcatori microsatelliti

Sono stati selezionati 20 marcatori microsatellite per l’analisi della variabilità genetica e la caratterizzazione delle popolazioni. Tali marcatori (Tab. 2) sono stati scelti a partire dal panel di markers proposti dalla Commissio-ne ISAG/FAO per la “Measurement of Domestic Animal Diversity” (2004). Per tali marcatori sono state valutate in silico delle reazioni di amplificazione mediante mul-tiplex PCR.

Al fine di disporre di marcatori alternativi, da impie-gare in caso di problemi durante le procedure di ottimiz-zazione operativa dei protocolli di multiplex PCR, sono stati presi in considerazione anche i marcatori STR ri-portati in tabella 3.

Ring test per la valutazione della riproducibilità delle analisi molecolari

Per poter valutare la riproducibilità delle analisi molecolari, è stato organizzato un ring test a cui han-no partecipato i laboratori afferenti al Progetto, sotto la supervisione ed il coordinamento della Sezione di Gene-tica Molecolare del Dipartimento di Produzioni Animali dell’Università di Pisa (DPA). Il ring test è stato condot-to secondo le seguenti modalità:

ciascun laboratorio afferente al Progetto ha for-- nito delle aliquote di DNA dei campioni di riferimento (Tab. 4)

i primers per l’analisi dei microsatellite, forniti - dalla casa produttrice (Applied Biosystems) in forma lio-filizzata e per un quantitativo complessivo di 80 pmoli, sono stati risospesi e diluiti in H2O ad una concentrazio-ne finale di 100 µM. Da ogni stock di Primer (100 µM)

Locus Primers Fluorocromo

BM1329Forward TTG TTT AGG CAA GTC CAA AGT C

FAMReverse AAC ACC GCA GCT TCA TCC

MCM527Forward GTC CAT TGC CTC AA ATC AAT TC

FAMReverse AAA CCA CTT GAC TAC TCC CCA A

OarFCB226Forward CTA TAT GTT GCC TTT CCC TTC CTG C

HEXReverse GTG AGT CCC ATA GAG CAT AAG CTC

SRCRSP5Forward GGA CTC TAC CAA CTG AGC TAC AAG

FAMReverse GTT TCT TTG AAA TGA AGC TAA AGC AAT GC

Tabella 3. Lista dei marcatori STR alternativi.

Multiplex 1 Multiplex 2 Multiplex 3 Multiplex 4 Multiplex 5

OarFCB128 OarVH72 BM8125 MAF65 OarFCB193ILSTS11 ILSTS28 MCM140 INRA063 OarFCB304

OarAE129 MAF214 MAF33 OarFCB20 MAF70ILSTS5 OarJMP29 BM1824

OarJMP58 MAF209

Tabella 4. Lista dei marcatori STR da amplificare in ciascuna reazione di multiplex PCR.

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280gli obbiettivi e i metodi

è stata successivamente effettuata la diluizione finale di lavoro pari a 10 µM

- l’analisi dei marcatori microsatelliti è stata condotta in triplo mediante multiplex-PCR utilizzando il kit com-merciale Multiplex PCR Kit (Cat. N° 206143, QIAgen) secondo le specifiche della ditta fornitrice; le reazioni di amplificazione in multiplex PCR, per un volume finale pari a 20 µl ciascuna, sono state effettuate combinando i diversi marcatori STR come schematizzato in tabella 4.

- il protocollo di amplificazione ha previsto un ciclo di pre-denaturazione a 95°C per 15 minuti seguito da 35 cicli alle seguenti condizioni: 95°C per 30 secondi; 58°C per 90 secondi; 72°C per 60 secondi; l’amplificazione è stata quindi completata da un’elongazione finale di 30 minuti a 60°C; tali condizioni si sono rivelate ottimali per tutte le 5 reazioni di multiplex-PCR.

- una quantità di amplificato pari a 1µl è stata pre-parata con 12,5 µl di formammide denaturante e 0,5 µl di standard di corsa ROX-500 (Applied Biosystems) in provette da 0,5 ml. I campioni sono stati denaturati per 2 minuti a 95°C e caricati sul sequenziatore automatico ABI Prism 310 Genetic Analyzer che sottopone il cam-pione ad elettroforesi capillare e attraverso un fascio la-ser accoppiato ad un sistema ottico, acquisisce il segnale di fluorescenza dell’amplificato marcato e dello standard di corsa costituito da frammenti di DNA di taglia nota.

- il computer dotato di software dedicati (Genescan 2.1 e Genotyper 2.0, Applied Biosystems), elabora il dato grezzo e restituisce la taglia del frammento oggetto di studio. Il tempo di durata di ciascuna corsa è stato esteso a 25 min per permettere a tutti i frammenti di es-sere analizzati.

Problematiche riscontrateLocus OarFCB20. Tale marcatore ha manifestato fin

dall’inizio problemi di amplificazione; in nessun cam-pione testato ha prodotto segnale positivo, mentre gli al-tri marcatori presenti nella stessa reazione di multiplex PCR (MAF65, INRA063, OarJMP29, OarJMP58) non mostravano alcun problema. Purtroppo non è stato pos-sibile sostituire tale marcatore con una delle alternative previste (SRCRSP5, BM1329, MCM527, OarFCB226) per incompatibilità di range allelico e fluorocromo. Il marcatore OarFCB20 è stato analizzato anche “in sin-golo”, ovvero in una reazione di simplex PCR, utiliz-zando GoldTaq polimerasi (Applied Biosystems) e mo-dificando la temperatura di annealing (56° C); tuttavia, non è stato possibile ottenere segnali di amplificazione

per nessuno dei campioni inclusi nel Ring-Test. Ciò ha condotto alla conclusione di eliminare tale marcatore dal panel di microsatelliti da testare. Alla luce di quanto sopra, la multiplex 4, risulta composta dai loci MAF65, INRA063, OarJMP29, OarJMP58.

Locus MAF70. Per tale marcatore sono stati incontrati in alcuni casi problemi di interpretazione del dato (profi-lo omozigote/eterozigote) a causa di sovrapposizione tra gli alleli del marcatore MAF70 e gli alleli di altri marca-tori STR presenti nella multiplex 5 (Fig. 1). L’analisi “in singolo” dei campioni non facilmente classificabili, ha consentito di risolvere i dubbi interpretativi. Le condi-zioni di PCR per le analisi “in singolo” sono le seguenti: ciascuna reazione è stata realizzata in un volume finale di 10 µl, in una miscela contenete circa 20 ng di DNA ge-nomico (1 µl), 0,5 µl di primer forward (10 µM) ed una pari quantità del primer reverse, 1,2 µl di una soluzione 100µm di dNTP, 1µl di buffer 10X fornito unitamente alla Taq Gold polimerasi 5U/µl (Applied Biosystems), utilizzata in una quantità di 0,1µl nella reazione.

La reazione di amplificazione ha previsto un ciclo di pre-denaturazione a 95°C per 15 minuti seguito da 35 cicli alle seguenti condizioni:

95°C per 30 secondi,58°C per 90 secondi,72°C per 60 secondi.L’amplificazione è stata quindi completata da un’elon-

gazione finale di 15 minuti a 72°C.Locus OarAE129. Per il campione di razza Laticauda

non è stato possibile amplificare il marcatore, nonostante le ripetute prove, sia in multiplex PCR sia “in singolo”. Sembra plausibile ipotizzare la presenza, per il campione in questione, di una alterazione genomica: tale modifi-cazione potrebbe essere rappresentata da una mutazione mono- o oligo-nucleotidica della sequenza complemen-tare ai primers forward e/o reverse oppure dalla com-pleta delezione della regione contenente il microsatellite OarAE129.

Ad ognuno dei laboratori partecipanti al Progetto è stata quindi inviata aliquota dei primers (200 µl di una soluzione 100 µM per ognuno dei 19 marcatori STR definitivamente adottati), unitamente al protocollo per l’amplificazione e l’analisi dei frammenti STR ed allo schema per il riepilogo dei risultati.

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le metodologie di laboratorio281

Confronto dei risultati di genotipizzazione tra i diver-si laboratori

Le Unità Operative ConSDABI, PRIME e SPAB hanno fornito alla U.O. DPA i dati relativi alle analisi dei campioni di riferimento, condotte in triplo presso i loro laboratori. I dati forniti per ciascun microsatellite sono stati confrontati con quelli prodotti dal laboratorio DPA di Pisa, al fine di poterne verificare la coerenza ed eventualmente procedere ad una loro standardizzazione.Uno degli approcci utilizzati per la standardizzazione della designazione allelica consiste nell’inserimento, in ciascuna corsa elettroforetica, di un marker allelico. Un marker allelico è costituito da uno o più campioni di DNA che presentano, complessivamente, una serie di al-leli per un determinato locus STR i quali vengono utiliz-zati come referenza per la designazione allelica. Infatti, dopo aver caratterizzato in termini di taglia i frammenti allelici dei campioni che entrano nella costituzione del marker, gli alleli di altri campioni possono essere desi-gnati attraverso il confronto con il marker. Sebbene le condizioni elettroforetiche possano influenzare, infatti,

la mobilità e, quindi, la determinazione della taglia di un allele, gli alleli del marcatore e quelli corrispondenti del campione, quando analizzati dallo stesso strumento, presentano le stesse caratteristiche di mobilità trattando-si, in entrambi i casi, di frammenti identici e della stessa taglia. Viene riportato in figura 2 un esempio di designa-zione allelica per i campioni soggetti al ring test per il marcatore OarVH72.

Come si può osservare, i dati provenienti da tutti i laboratori e per tutti i campioni possono essere designa-ti correttamente in ciascuna specifica categoria allelica e tali categorie rimangono le stesse fra tutti i laboratori a meno di un fattore di standardizzazione applicato, in questo caso, ai campioni analizzati dal laboratorio DPA. Tale analisi e comparazione è stata condotta per tutti i 19 marcatori microsatellite.

La maggior parte dei marcatori microsatellite analiz-zati non ha presentato problemi interpretativi e di stan-dardizzazione; tali problemi invece sono stati riscontrati per due loci STR (MAF70 e BM1824) appartenenti alla multiplex 5, dove la presenza nel dato molecolare di va-

Figura 1. Elettroferogrammi dei prodotti di amplifi-cazione delle 5 reazioni di multiplex PCR per un cam-pione di riferimento del ring test.

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282gli obbiettivi e i metodi

lori “borderline” ha comportato difficoltà nella designa-zione del range allelico. Per tali marcatori microsatellite è stato necessario porre particolare attenzione al momento dell’analisi complessiva dei dati di tutti i campioni (451) sottoposti allo studio. Il locus OarJMP29 ha presenta-to un ulteriore problema, come evidenziato in figura 3; un frammento presente nel campione di SPAB risultava essere designato, infatti, in una categoria allelica diver-sa rispetto a quanto accadeva per lo stesso frammento nelle analisi condotte da DPA, nonostante le procedure di standardizzazione adottate. Nell’attuazione del ring-test è stato, pertanto, fondamentale prestare attenzione all’interpretazione dei dati molecolari per i frammenti di maggiore grandezza del locus OarJMP29.

In conclusione, l’analisi ring test è una metodologia raccomandata soprattutto quando si devono comparare dati di popolazione provenienti da laboratori diversi. Solo così operando, è possibile far emergere problematiche e elaborare strategie fra i laboratori, volte ad uniformare,

quanto più possibile i risultati sperimentali. A tal fine, nell’ambito di questo progetto si è suggerito l’utilizzo dei campioni stessi del ring test come controllo supple-mentare di ciascun laboratorio afferente, da utilizzare in ciascun gruppo di corse elettroforetiche al fine di poter fare una designazione allelica il più corretta possibile.

La categorizzazione

Per poter calcolare le frequenze alleliche di un cam-pione popolazionistico è necessaria una “nomenclatura” uniforme degli alleli dei marcatori STR utilizzati. Tale

Figura 2. Esempio di designazione allelica per il lo-cus OarVH72 di alcuni campioni utilizzati per il ring test.

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le metodologie di laboratorio283

uniformità è ancor più necessaria qualora vengano con-siderati dati provenienti da diversi laboratori (Tab. 5) e/o da strumentazioni diverse. In tal senso, i dati che emer-gono dal ring test possono essere utilizzati per standar-dizzare e facilitare la categorizzazione dei vari alleli di ciascun marcatore.

Tabella 5. Ripartizione delle attività di genotipizza-zione per i diversi campioni razziali tra i diversi Labo-ratori.

Laboratorio RazzeConSDABI Bagnolese, Laticauda

DPA Altamurana, LeccesePRIME Gentile di PugliaSPAB Gentile di Basilicata

La prima fase di tale elaborazione consiste nell’analiz-zare ogni singolo marcatore all’interno di ciascun cam-pione razziale. Si procede al calcolo dei valori massimi e minimi di taglia allelica osservati per ciascun marcatore ed al confronto con i valori di range allelico noti da lette-ratura. In tabella 6 sono riportati i risultati di tale analisi per i loci considerati.

Come si può notare, soltanto per due marcatori

Figura 3. Esempio di designazione allelica per il lo-cus OarJMP29 di alcuni campioni utilizzati per il ring test.

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284gli obbiettivi e i metodi

(MAF214 e BM1824) si osserva una elevata differenza tra il range allelico noto da letteratura e quello riscontra-to in ciascuna razza oggetto di studio.

Nel primo caso (MAF214), la differenza riscontrata è di circa 30 paia di basi (bp) in meno rispetto al valore minimo e di circa 24 bp in più rispetto al valore massimo. Nel secondo caso (BM1824), per tutte le razze analizzate il valore massimo del range allelico osservato corrispon-de al valore minimo del range noto da letteratura.

La seconda fase dell’elaborazione consiste nella co-difica degli alleli di ogni singolo marcatore. A partire dai dati ottenuti nei vari laboratori per i diversi marca-tori e per le diverse razze, si procede alla costruzione di un grafico che consente di visualizzare graficamente la dispersione dei valori di taglia dei diversi alleli. Nella

costruzione del grafico vengono considerati anche i dati provenienti dal ring test, ovvero dai campioni che sono stati contestualmente inseriti in ogni corsa elettroforeti-ca da tutti i laboratori, al fine di poter successivamente valutare la presenza di eventuali fenomeni di slittamento (shift) nei valori di taglia allelica per uno stesso fram-mento tra corse diverse e tra laboratori diversi.

In figura 4 è riportato un esempio della visualizza-zione grafica relativa alla definizione, per i diversi cam-pioni razziali, delle categorie alleliche per il marcatore BM8125.

Come si può osservare dall’esempio riportato in figu-ra 4, il microsatellite BM8125 non presenta nessun pro-blema interpretativo, risultando, per tutte le razze, net-tamente identificabili e distinguibili le diverse categorie alleliche. Inoltre, la presenza all’interno dei dati utilizza-ti per la costruzione del grafico, dei campioni considerati nelle procedure di ring test evidenzia, per gli alleli del marcatore BM8125, la corrispondenza, in termini di ca-tegoria allelica, per tutti i campioni delle diverse razze e, conseguentemente, per tutte le corse elettroforetiche e per tutti i laboratori coinvolti nelle analisi. Tale metodo-logia di analisi viene, quindi, applicata a tutti i microsa-telliti. In alcuni casi si sono tuttavia presentati problemi interpretativi. Un esempio viene riportato in figura 5.

In questo caso, i dati provenienti dalle analisi delle razze Altamurana, Gentile di Puglia e Leccese per il locus OarVH72 non consentono immediatamente una

Tabella 6. Valori di range allelico noti da letteratura ed osservati nei singoli campioni razziali.

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le metodologie di laboratorio285

identificazione netta ed univoca delle diverse categorie alleliche e richiedono un maggiore sforzo interpretativo da parte di un operatore esperto.

La terza fase della procedura di categorizzazione ha previsto il calcolo dello slittamento (shift), in termini di taglia allelica, dei dati di ciascun campione analizza-to nel ring test dai singoli laboratori rispetto allo stes-so campione analizzato dall’Unità Operativa DPA che è stata, quindi, considerata come referente. Sulla base di tale slittamento, considerato come “fattore di allinea-mento” (Tab. 7), sono stati “corretti” tutti i dati ottenuti dai campioni delle diverse razze.

Dopo aver applicato a ciascuna razza ed a ciascun marcatore i fattori di correzione riportati in tabella 7, è stato costruito, per ogni singolo marcatore, un grafico generale comprendente tutte le razze (Fig. 6).

A questo punto, la quarta fase prevede la definizione, per ciascun allele di ciascun campione, della relativa ca-

tegoria di appartenenza; in tal modo è possibile ottenere una nomenclatura allelica univoca e coerente tra le di-verse razze. In tale operazione, si tiene particolarmente conto dei valori di taglia allelica dei campioni analizzati nelle procedure di ring test; tali campioni, infatti, sono gli unici ad essere stati analizzati contestualmente dai diversi laboratori delle Unità Operative afferenti al Pro-getto. In generale, la categorizzazione è stata effettuata rispettando, per ogni allele, un range di taglia compreso tra 1,7 e 2,3 bp; solo in alcuni casi, evidenziati in rosso nella tabella 8, tale range è stato adattato alle esigenze dell’analisi.

Vengono riportati in tabella 8 i valori di range allelico per tutti gli alleli di ciascuno dei 19 marcatori; la nomen-clatura numerica si riferisce a frammenti di taglia alleli-ca crescente. In giallo sono evidenziati gli alleli “man-canti”, ovvero quegli alleli che non sono stati osservati in nessuna delle 6 razze considerate.

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286gli obbiettivi e i metodi

Figura 4. Esempio di categorizzazione allelica per il marcatore BM8125.

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le metodologie di laboratorio287

Figura 5. Esempio di categorizzazione allelica per il marcatore OarVH72.

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288gli obbiettivi e i metodi

Tabella 7. Fattori di allineamento adottati per ciascuna razza e per ciascun marcatore.

NFC= nessun fattore di correzione applicato

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le metodologie di laboratorio289

Figura 6. Esempio di categorizzazione allelica per il marcatore BM8125, dopo opportuna “correzione” dei dati.

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290gli obbiettivi e i metodi

Tabella 8. Valori di range allelico per tutti gli alleli di ciascuno dei 19 marcatori considerati nello studio.

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291

Per ogni tipo genetico sono stati determinati i para-metri classici di genetica di popolazione. Il numero di al-leli per marcatore e per razza ed il numero di alleli “pri-vati” (presenti in una sola razza) sono stati calcolati per conteggio diretto. Per rendere confrontabile il numero di alleli osservato nelle diverse razze e/o sottopopolazio-ni (quando caratterizzate da una diversa numerosità del campione in esame) è stato calcolato, usando il pacchet-to statistico FSTAT (Goudet, 2001) e/o HPRARE (Kali-nowski, 2005), il parametro “allele richness”, un indice del numero di alleli presenti in un campione popolazio-nistico indipendentemente dalle dimensioni dello stesso (Hurlbert, 1971; El Mousadik e Petit, 1996).

In aggiunta, per ciascun marcatore è stato calcolato il Polymorphic Informative Content (PIC) che, introdotto originariamente da Botstein et al. (1980), fornisce una stima del contributo di ciascun marcatore in termini di analisi di polimorfismo e consente di valutare il livello di informatività del singolo locus (Guo e Elston, 1999) in funzione del numero di alleli e della loro distribuzione di frequenza. Il PIC è stato calcolato utilizzando il software MOLKIN (Gutierrez et al., 2005).

L’analisi del rispetto delle proporzioni di Hardy-Wein-berg ed il test esatto dell’equilibrio di Hardy-Weinberg, così come l’analisi del livello di linkage disequilibrium tra coppie di loci, sono stati realizzati impiegando il sof-tware Arlequin v. 2.000 (Excoffier et al., 2005)

Dal numero di alleli condivisi tra i soggetti sono state calcolate, con la metodologia di Ciampolini et al. (1995), le similarità genetiche, sia intra-razza, come parametro di omogeneità di popolazione, sia tra coppie di razze, per stimarne il grado di differenziazione. Ogni soggetto è stato definito mediante il proprio genotipo multilocus, determinato, nel presente lavoro, da 19 loci microsatel-lite e costituito, quindi, da una serie di 38 alleli per ogni animale. Per stimare la rassomiglianza genetica tra due individui o tra due gruppi di individui, è stata calcolata la proporzione (P) di alleli comuni (A) in relazione alle 2L possibilità (L = numero di loci considerati). La ras-somiglianza genetica viene misurata come P = A/2L e la

distanza genetica come 1-P. Le rassomiglianze calcola-te tra ogni coppia di soggetti sono mediate per ottenere valori di rassomiglianza entro razze o sottopopolazioni. Per stimare la rassomiglianza (o la distanza genetica) tra razze o sottopopolazioni vengono calcolati i valori medi delle rassomiglianze tra ogni soggetto di un gruppo e ciascun soggetto del gruppo a confronto.

Il livello di differenziazione tra coppie di popolazio-ni è stato valutato anche mediante il parametro FST di Wright (1931), definito come il rapporto tra la varianza genetica fra razze e la varianza genetica entro il campio-ne totale. La significatività dell’indice di fissazione di Wright (FST) è stata testata adottando un approccio non parametrico che prevede l’uso di permutazioni, secondo quanto descritto da Excoffier et al. (1992) ed implemen-tato nel software Arlequin v. 2.000. Al fine di visualizza-re graficamente le relazioni di prossimità/differenziazio-ne genetica tra le diverse razze, sulla base dei valori di FST tra coppie di razze è stato costruito un dendrogram-ma impiegando la metodica UPGMA (Unweighted Pair-Group Method with Arithmetic Averaging). In aggiunta, è stato realizzato il Mantel test al fine di valutare la cor-relazione tra la matrice dei valori di pair-wise FST (quale parametro di differenziazione genetica tra popolazioni) e la matrice dei valori di distanza (in termini chilometrici) tra i diversi areali di allevamento delle sei popolazio-ni analizzate. La significatività della correlazione viene valutata mediante una procedura che prevede il ricorso a permutazioni (10.000 repliche) al fine di ottenere una distribuzione nulla empirica.

Per la stima delle distanze genetiche (Cavalli-Sforza e Edwards, 1967; Edwards, 1971; Nei, 1972; Rogers, 1972; Edwards, 1974; Nei, 1978; Wright, 1978) è sta-to impiegato il pacchetto statistico BIOSIS (Swofford et Selander, 1981). È stata, inoltre calcolata la distanza genetica di Mountain e Cavalli-Sforza (1997). Al fine di valutare il grado di suddivisione della popolazione to-tale in sottopopolazioni e la differenziazione tra queste, è stata condotta una analisi delle componenti principa-li (PCA; Principal Component Analysis), utilizzando il

l’analisi statistica

F. Cecchi, E. Ciani

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292gli obbiettivi e i metodi

software GENALEX v.6.1 (Peakall et Smouse, 2006). In aggiunta, al fine di verificare indirettamente la presenza di strutture genetiche criptiche all’interno del campione popolazionistico complessivamente analizzato, è stato condotto un test di assegnazione (“assignment test”) basato sul calcolo, per ciascun soggetto, dei valori di verosimiglianza (likelihood) di appartenere alla popola-zione di origine, confrontati con i valori di likelihood di appartenere ad ognuna delle altre popolazioni presenti nel dataset (Paetkau et al., 1995). Tali valori di likeliho-od vengono calcolati a partire dalle informazioni relative ai valori di frequenza allelica stimati per ciascuna delle popolazioni presenti nel dataset. L’analisi è stata con-dotta, dapprima, definendo a priori le possibili fonti di strutturazione genetica (provincia di provenienza, alle-vamento di origine) ed utilizzando il software Arlequin v. 2.000. Quindi, il test di assegnazione è stato ripetuto, impiegando il software Structure v. 2.2., (Falush et al., 2003) senza fornire alcuna informazione a priori in meri-to alla composizione delle possibili sotto-popolazioni. In questo caso, infatti, il software è in grado di raggruppare gli individui sulla base delle informazioni genotipiche, in modo che, all’interno di ciascuna sotto-popolazione, i loci esaminati risultino in equilibrio di Hardy-Weinberg ed in linkage equilibrium. Entrambi gli approcci sono stati quindi adottati per verificare la possibilità di discri-minare tra diversi campioni razziali. La verifica della bontà delle assegnazioni razzialiè possibile in questa fase di ottimizzazione della metodica dato che il lavo-ro è condotto su campioni di cui è nota la provenienza.

Quest’analisi preliminare è necessaria al fine dei valutare la fattibilità di un test di assegnazione di razza (Muburu et al., 2002).

Per valutare il flusso genico e la differenziazione ge-netica tra le razze considerate, a partire dalle informa-zioni molecolari sono stati calcolati, per tutte le possibili coppie di razze, sia il coefficiente di molecular coan-cestry (fij) (Caballero et Toro 2002), che la distanza di kinship (Dk). Tali parametri, unitamente al coefficiente di inbreeding, sono stati calcolati anche intra-razza. Tut-te le analisi sono state condotte impiegando il software Molkin.

Il coefficiente di molecular coancestry tra due indi-vidui, i e j, è la probabilità che, estratti a caso due al-leli dallo stesso locus, uno per ciascun individuo, essi siano identici per stato (Caballero et Toro, 2002; Eding et Meuwissen, 2001). Il coefficiente di molecular coan-cestry di un individuo i con se stesso è il coefficiente di self-coancestry (si), che risulta correlato al coefficien-te di inbreeding (Fi) dell’individuo i dalla formula Fi = 2si – 1. La distanza di kinship (Dk) tra due individui i e j è Dk = [(si + sj)/2] – fij (Caballero and Toro, 2002), dove fij corrisponde al coefficiente di molecular coance-stry medio di popolazione. Per calcolare il coefficiente di molecular coancestry o la distanza di kinship entro- o tra razze è sufficiente effettuare la media di tutti i valori, rispettivamente, di molecular coancestry o di distanza di kinship ottenuti dal confronto tra tutte le possibili coppie di individui che costituiscono la razza (entro-razza) o le coppie di razze da confrontare (tra-razze).

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i risuLtati

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297

Le indagini di campoE. Castellana, E. Ciani, D. Cianci

a) Gli incontri preliminariDalle interviste condotte durante le riunioni è emersa

la difficoltà di individuare un ampio numero di azien-de con allevamenti in purezza in quanto gran parte de-gli allevatori si sono orientati verso razze introdotte (in purezza o per frazioni di sangue) dalla stessa o da altre Regioni italiane, ritenute a maggiori performances pro-duttive e riproduttive.

Nella varietà di razze introdotte spiccano tre tipolo-gie: Leccese, Sarda e Comisana. La razza Leccese, per le sue maggori capacità lattifere, è stata la prima (già dagli anni ’70) a richiamare le attenzioni degli allevatori del-la pecora Altamurana, che però rapidamente si rivolse-ro anche ad altre razze che sembrarono più vantaggiose (Sarda, Comisana, Barbaresca, ecc) sia per l’allevamen-to in purezza che per incrocio con la pacora locale o con la Leccese. Oggi, seppure ci siano ancora diversi incroci è evidente l’orientamento generale degli allevatori ver-so l’allevamento in purezza delle tre tipologie sopra in-dicate. In questo ultimo periodo la razza Comisana sta raccogliendo l’approvazione di gran parte degli alleva-tori della provincia di Bari per la sua maggiore capacità produttiva rispetto alla razza Leccese. La razza sicilia-na è preferita anche alla razza Sarda, nonostante la sua produttività sia leggermente inferiore, per la maggiore resistenza alle patologie infettive ed infestive e per la capacità di adattarsi agli impervi pascoli della Murgia.

Per tutte le tipologie di allevamento non sussisto-no grosse difficoltà a commercializzare i prodotti ma i prezzi spuntati non sono soddisfacenti; perciò, agevola-ti dall’art.2 della normativa UE relativa al marchio del prodotto, gli allevatori si stanno organizzando a dotare legalmente i loro trasformati del bollino UE recante il nome dell’azienda d’origine, ritenendo di poter miglio-rare così le vendite soprattutto nei supermercati. In que-sto modo il consumatore sarebbe agevolato nell’acqui-

sto, non dovendosi più recare direttamente in azienda per essere certo di acquistare un prodotto non industriale. Sebbene si temano costi aggiuntivi per l’azienda, deter-minati dal personale tecnico qualificato per tracciare il prodotto secondo quanto imposto dal regolamento CEE, si ritiene che il problema della tracciabilità dei prodotti sia urgente ed in particolare per la carne vista la sempre più pressante concorrenza dei Paesi europei ed extraeu-ropei.

Un problema è rappresentato dal gusto del consuma-tore, evolutosi verso prodotti caseari più dolci e freschi; le risposte degli allevatori si diversificano in più corren-ti di pensiero: alcuni ritengono di dover intervenire con un’educazione alimentare direttamente nelle case e a partire dai bambini anche attraverso la pubblicizzazione del prodotto tipico; altri, invece, pensano che sia più red-ditizio rispondere alle richieste del consumatore intensi-ficando la produzione di quello per cui c’è più richiesta a discapito dei prodotti meno apprezzati seppure tipici; infine per altri non bisogna correre il rischio di unificare i gusti ma cercare di rispondere alla molteplicità di essi.

La valorizzazione del prodotto è comunque vista come unico strumento per combattere la pressione industriale, ma per fare ciò non ci sarebbe altra via che l’unirsi in società o associarsi a consorzi di tutela del prodotto. Tut-tavia, per creare delle entità aggregate, ci sarebbe biso-gno di maggiore spirito collaborativo, di figure unificanti e dell’assistenza di personale tecnico qualificato a costi contenuti. Per valorizzare la carne delle Murge è rite-nuto urgente risolvere il problema della riconoscibilità dell’origine visto che la concorrenza dei paesi europei ed extraeuropei si fa sempre più pressante.

Infine la situazione sanitaria degli allevamenti della Murgia è considerata abbastanza buona perché gli alleva-tori, sempre più giovani e preparati, sono attenti sia alla profilassi che ad una corretta alimentazione del bestiame. Gli allevatori riconoscono che numerose patologie sono state favorite dall’introduzione di razza alloctone e dal-la trasformazione dell’allevamento da prevalentemente brado a prevalentemente stabulogeno. Anche l’umidità,

la razza altamurana

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298i risultati

aumentata negli ultimi anni, avrebbe favorito l’insorgere di patologie tra cui dicroceliosi e zoppia.

b) L’indagine aziendale Sulla base delle informazioni acquisite come al punto

a), per assicurare la maggiore rappresentatività sul ter-ritorio, si sarebbe dovuto procedere alla individuazio-ne delle aree di allevamento e di un congruo numero di aziende di interesse, nelle quali sviluppare l’indagine di campo.

La razza Altamurana ha, purtroppo, facilitato questo compito, perché la tremenda contrazione del patrimonio e degli allevamenti ha costretto a considerare quelli ri-masti (l’APA di Bari ha fornito l’elenco delle aziende, iscritte al LG, ancora orientate all’allevamento in purez-za della razza) senza consentire scelte rappresentative e l’accertamento di eventuali fonti di variabilità dei siste-mi di allevamento e di alimentazione. Gli allevamenti in purezza sono stati perciò accettati per la valutazione, su base soggettiva (giudizio dell’allevatore), delle perfor-mances produttive e riproduttive, nonché delle patologie più frequenti e dei mezzi di prevenzione e di lotta adot-tati, per valutare l’adattamento all’ambiente nosologico e le possibilità della produzione biologica.

Oltre agli allevamenti di razza pura, sono state prese in considerazione altre aziende ritenute significative dai tecnici, ma con soggetti derivati Altamurana o Leccese, utili per i confronti sulle risposte funzionali. Le visite aziendali sono state complessivamente 8 ed hanno inte-ressato allevamenti in agro di Altamura, Ruvo, Santera-mo, Spinazzola e Foggia.

Notizie generali L’indagine è stata perciò condotta sulle uniche 4 azien-

de che ancora allevano soggetti della razza, 2 delle quali sono Istituti Sperimentali (Azienda Cavone, dell’Am-ministrazione Provinciale di Bari; Sezione di Foggia dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Roma). Sia gli allevamenti privati che gli Istituti, accanto alla peco-ra Altamurana, allevano anche soggetti di altre razze a performances produttive considerate quantitativamente superiori.

Dall’indagine di campo condotta nelle aziende con allevamenti di pecora Altamurana è emerso che i pochi allevatori privati che conservano questa pecora in purez-za lo fanno solo perchè legati alla razza da generazioni.

Il sistema di allevamento Nell’ambito della qualificazione dei sottosistemi di

allevamento degli ovini, basata sui criteri e sulle moda-lità di utilizzo delle risorse alimentari del territorio, la razza Altamurana, storicamente e nella attualità, è tran-sitata dalla forma pastorale pura - utilizzazione scalare di aree pascolive fra di loro più o meno lontane - a quel-la semipastorale - monticazione locale su suoli pubblici e/o privati - per consolidarsi oggi nella forma stanziale non brada - utilizzazione, prevalente o completa delle risorse alimentari pabulari con integrazione alimentare all’ovile -. Non sono presenti allevamenti a sistema stal-lino con sola alimentazione all’ovile o con stabulazione fissa o libera.

Per la sua riconosciuta capacità di vivere su suoli aridi, l’allevamento della pecora Altamurana è conservato sui pascoli dell’alta pietraia murgiana. Fino alla fine degli anni Settanta l’erba dei pascoli rappresentava l’alimento principale del gregge, integrato da foraggi coltivati nel-le lame e sostituito, in estate, dalle ristoppie della fossa Bradanica (pascolo statonico). Questa pratica era tipica di un sistema agro-pastorale, nel quale si lasciavano pa-scolare le greggi sui terreni a riposo (così naturalmente concimati).

Dai primi anni Ottanta, il sistema di allevamento del-la pecora Altamurana si stanzializza sempre più perché lo spostamento dall’Alta Murgia verso le ristoppie della zone pedemurgiane non è più economico.

La meccanizzazione e i diserbanti lasciano al gregge minori disponibilità di risorse pabulari e la transumanza, che offriva notevoli vantaggi per la salute del gregge, cominciò ad effettuarsi solo saltuariamente per motivi sanitari.

Oggi perciò il sistema d’allevamento è semibrado (o stanziale non brado) e prevede il pascolamento per-manente su aree di pascolo che non ricevono, di norma, interventi meccanici e fertilizzanti chimici; ma il coti-co murgioso è povero ed il suo ciclo vegetativo è molto breve e spesso accade che il gregge venga condotto al pascolo solo per fare ginnastica motoria. Gli allevato-ri intervistati praticano il turnamento senza trattare gli animali con antiparassitari prima di spostarli sulla nuo-va area. Solo al bisogno l’animale riceve integrazioni all’ovile costituite da fieno e mangimi riservati per lo più alle pecore in lattazione.

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la razza altamurana299

Aspetti demograficiLe femmine in produzione costituiscono dal 58% al

81%. della consistenza dei greggi. I maschi oscillano dal 2,3% al 8,5%. Il rapporto maschi/femmine è man-tenuto basso (in media 1 maschio ogni 15-20 femmine) perché la razza è utilizzata soprattutto per la produzione di carne e si tenta di potenziarne la capacità riproduttiva. Sia le femmine che i maschi di razza Altamurana hanno un’ottima precocità sessuale: le prime vengono avviate alla monta ad un età inferiore ai 15 mesi, mentre i ma-schi vengono utilizzati come riproduttori entro gli undici mesi. Negli allevamenti misti della stessa area, cioè dove si allevano più razze in purezza o incrociate, il primo accoppiamento per le femmine è più tardivo e si sposta verso i 18 mesi. La durata del periodo riproduttivo delle pecore è molto buona perché è superiore a 6 anni. Per i maschi la situazione è diversa, in quanto l’utilizzazione riproduttiva viene fatta di norma per non più di 2-4 anni anche se talora durano in carriera fino a 6 anni.

I parametri riproduttivi sono quelli propri delle razze rustiche con fertilità annuale del 90% circa, prolificità del 5-10% secondo le annate e fecondità del 100%. Gli agnelli da allevamento vengono svezzati intorno ai 3 mesi. La rimonta è prevalentemente interna, con un tas-so del 20-25%. Ogni anno muoiono, per malattie o fatti accidentali, dall’1 al 10 % dei capi.

Le attitudini produttive L’Altamurana è ricordata come pecora a triplice atti-

tudine: latte, carne e lana. La lana, pur considerata tra le migliori lane italiane da materasso, è divenuta un pro-dotto marginale del gregge visto lo scarso peso econo-mico dovuto al rapido progresso delle fibre sintetiche e dei materassi a molle; il latte e la carne da parte loro non garantivano lauti guadagni, l’uno per le scarse produzio-ni, l’altro per la piccola mole.

Razze a più spiccata vocazione lattifera hanno perciò attirato l’attenzione di molti allevatori della pecora Al-tamurana, che hanno ricercato un più rapido incremento della produzione del latte attraverso l’incrocio prima con l’affine razza Leccese poi con le razze Sarda e Comi-sana. Gli allevamenti di Altamurana ancora conservati sono ormai orientati allo sfruttamento esclusivo della produzione di carne che è stimata in funzione della per-centuale di parti gemellari (prolificità), normalmente in-feriore al 10%, e del peso dell’agnello alla macellazione, compreso tra 10-12 kg alla 4-5 settimana di vita.

Le attenzioni di allevamento riservate alle madri sono

molto più limitate (in termini di alimentazione e di at-tenzioni veterinarie) di quelle sollecitate dalle razze al-loctone. La tecnica di allevamento prevede la stagione principale dei parti in autunno (ottobre-dicembre) ed una stagione secondaria in primavera (febbraio-aprile). L’al-lattamento degli agnelli è naturale e lo svezzamento, mai artificiale, avviene entro i 3 mesi d’età.

La produzione di latte non è ben determinata in quan-to esso è utilizzato in gran parte per l’allattamento degli agnelli; tuttavia si considera una media di latte al sec-chio per capo oscillante tra 30 e 50 kg per lattazione, anche per l’inizio tardivo della mungitura (che non dura più di 100 giorni). La maggior parte del latte prodotto viene caseificato in azienda, o venduto a caseifici loca-li. In confronto con la concorrente pecora Comisana, la produzione del latte è soddisfacente (700 g contro 1050 g della Comisana) nei primi due mesi (destinati all’allat-tamento), ma è molto più limitata al secchio (290 g con-tro 540 g). Ricupera però qualcosa per la qualità (grasso 9.15 vs 8.90; proteine 6.75 vs 6.60) ma soprattutto per la ridotta presenza di cellule somatiche (300 vs 600).

Un’attività fondamentale affiancata alla fase di pro-duzione è la trasformazione dei prodotti in loco (filiera corta), che consente ai formaggi dei tipi genetici oggi presenti sulla Murgia (e delle poche pecore di razza Alta-murana ancora presenti) di caratterizzarsi come prodotto tipico e come tale aspirare al riconoscimento di Indica-zione Geografica Protetta “Pecorino dell’Alta Murgia”.

Gli elementi che caratterizzano i formaggi tipici sono la memoria storica, la localizzazione geografica, le tec-niche di produzione e la qualità della materia prima. Un prodotto “tipico” deve avere una sua chiara identità e possedere caratteristiche che lo leghino al luogo di pro-duzione per le materie prime utilizzate, per le attrezzature e i processi di trasformazione trasmessi dalla tradizione, legati ad una organizzazione artigianale, per le qualità organolettiche superiori a quelle possedute dai prodotti di massa. Questi formaggi condensano la fertilità della terra, la fragranza dei pascoli ricchi di essenze foraggere spontanee, la qualità del latte prodotto dalle razze autoc-tone, la tradizione e l’esperienza dei casari.

Nel caso della pecora Altamurana, la tipicità dei pro-dotti deriva dal suo luogo di origine l’Alta Murgia e dalla integrazione tra ambiente (clima e risorse pabulari), ge-notipi, tecniche di allevamento e di trasformazione che si sono lentamente amalgamati. Frutto di una antica tra-dizione casearia, i pecorini dell’Alta Murgia si ottengo-no ancora lavorando insieme ingredienti naturali come

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latte, sale e caglio, ottenendo produzioni caratteristiche.Quanto alla produzione della carne la pecora Alta-

murana presenta buone prestazioni per la produzione dell’agnello da latte che raggiunge a 40 giorni pesi (kg 11 nei maschi e 9.70 nelle femmine) solo leggermente al di sotto di quelli dell’agnello Ile de France e Berga-masco e rese di tutto rispetto, che si attestano intorno al 70% nei maschi e oltre i 67% nelle agnelle.

Le difficoltà presenti nella commercializzazione dei prodotti sono dovute alla presenza di catene commercia-li che desiderano acquistare i prodotti dell’allevamento in grandi partite, ma a basso prezzo perché tali prodotti sono ancora poco conosciuti e valorizzati, soprattutto nel comparto della carne.

Benessere e stato di salute Gli allevamenti di ovini Altamurani non sempre di-

spongono di ovili adeguati, che perciò utilizzano il solo ricovero notturno; sono però sotto regolare controllo veterinario; gli animali sono sottoposti a vaccinazioni pianificate e le terapie con farmaci antielmintici si ef-

fettuano in massa, 2 volte l’anno. Solo presso le aziende sperimentali gli animali vengono trattati prima di essere spostati da un pascolo all’altro.

Gli allevatori ritengono “buone” le condizioni di vita che loro riescono ad assicurare agli animali soprattut-to per possibilità di movimento, contatti sociali fra gli animali e qualità della pavimentazione. Addirittura “ot-tima” è giudicata la possibilità di movimento conside-rato che lo spazio all’aperto e al pascolo disponibile per gli animali è elevato. Tuttavia, il giudizio complessivo sull’ambiente (luce, ventilazione e rumore) è ritenuto solo sufficiente.

Locus Cromosoma Na (1) Ho

(2) He (3) P (4)

BM1824 1 4 0,618 0,66 0,433OarFCB128 2 9 0,73 0,727 0,135ILSTS028 3 9 0,551 0,836 0MAF70 4 14 0,614 0,874 0OarAE129 5 4 0,494 0,54 0,008MCM0140 6 10 0,742 0,801 0,014ILSTS005 7 6 0,494 0,712 0ILSTS011 9 5 0,618 0,605 0,755MAF33 9 13 0,854 0,864 0,023OarFCB193 11 3 0,382 0,386 0,293INRA063 14 12 0,793 0,803 0,197MAF65 15 7 0,693 0,709 0,969MAF214 16 7 0,596 0,624 0,189BM8125 17 7 0,685 0,719 0,754MAF209 17 12 0,865 0,852 0,024OarFCB304 19 7 0,449 0,531 0,336OarJMP29 24 9 0,795 0,822 0,489OarVH72 25 8 0,73 0,784 0,564OarJMP58 26 9 0,773 0,825 0,621Media 8,2 0,657 0,72

(1) Numero di alleli; (2) Eterozigosità osservata; (3) Eterozigosità attesa; (4) Probabilità

Tabella 1. Parametri di diversità genetica del cam-pione complessivo di razza Altamurana.

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la razza altamurana301

Le analisi genomicheE. Ciani, F. Cecchi, R. Ciampolini

L’analisi del polimorfismoL’analisi di caratterizzazione molecolare effettuata

mediante il panel dei 19 marcatori microsatellite prescel-ti ha consentito di mettere in evidenza nella popolazione (N = 89) un totale di 155 alleli, di cui 142 nell’alleva-mento 1 (N = 73) e 109 nell’allevamento 2 (N = 16). Tut-ti i loci sono risultati polimorfici (Tab. 1), con un numero di alleli variabile da 3 (OarFCB193) a 15 (MAF70) e un numero medio di 8,2 alleli. I loci OarFCB193 e MAF70 presentano, rispettivamente, il valore minimo ed il valore massimo di alleli anche nel campione di razza Leccese.

Per rendere confrontabile il numero di alleli osservato

nelle due sottopopolazioni (caratterizzate da una diver-sa numerosità del campione in esame) è stato calcolato, usando il pacchetto statistico FSTAT (Goudet, 2001), il parametro allele richness, un indice del numero di alleli presenti in un campione popolazionistico indipendente-mente dalle dimensioni dello stesso (Hurlbert 1971; El Mousadik et Petit 1996). Tale analisi ha evidenziato la presenza di valori confrontabili di allele richness per le due sotto-popolazioni (Tab. 2), solo leggermente supe-riore per l’allevamento 1 (5,817 vs 5,673).

L’analisi della distribuzione degli alleli nelle due sottopopolazioni (allevamenti) evidenzia la presenza di

Allele richnessLocus Pop. Tot. Allevamento 1 Allevamento 2OarAE129 3,36 3,458 2,938BM1824 3,845 3,752 4BM8125 5,086 4,982 4,935OarFCB128 5,781 5,425 6OarFCB193 2,778 2,689 3OarFCB304 4,017 3,744 4,873ILSTS11 4,017 3,663 4,938ILSTS28 7,274 7,486 5,931ILSTS5 4,254 4,055 4,813INRA63 8,26 8,25 8OarJMP29 7,456 7,636 6OarJMP58 7,234 7,158 6MAF209 4,673 4,148 5,813MAF214 8,917 8,899 7,933MAF33 9,355 8,524 7,935MAF65 4,91 4,751 5MAF70 9,267 8,804 7,75MCM140 7,341 6,56 6,933OarVH72 6,441 6,536 5Media 6,014 5,817 5,673

Tabella 2. Allele richness per il campione complessi-vo di razza Altamurana e per i due allevamenti.

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numerosi alleli privati (osservati in una sola delle due sottopopolazioni), pari al 36,7% degli alleli complessi-vamente osservati nel campione di razza Altamurana. Si tratta generalmente di alleli rari, con frequenze solita-mente inferiori al 10% (calcolate considerando la nume-rosità di ciascuna sottopopolazione), ad eccezione di al-cuni alleli osservati per i loci MAF214 (~ 12%), MAF70 (~ 15%), MAF33 (~ 16%) ed MCM140 (~ 18%).

La proporzione di alleli privati rispetto al numero di alleli osservati entro ciascuna sotto-popolazione è pari a ~ 31% per l’allevamento 1 e ~ 12% per l’allevamento 2. Il valore medio di private allele richness, calcolato utilizzando il software HP Rare (Kalinowski, 2005), è risultato pari a 1,3 per l’allevamento 1 ed 1,43 per l’al-levamento 2.

Complessivamente, l’allevamento 1 presenta oltre il 77% degli alleli privati e, tra questi, sono presenti gli alleli privati con i valori maggiori di frequenza (nessuno degli alleli privati dell’allevamento 2 presenta, infatti, valori di frequenza maggiori o uguali al 10%, calcolato rispetto alla numerosità della sottopopolazione in esa-me).

L’equilibrio di Hardy-WeinbergIl valore medio di eterozigosità osservata (Tab. 1),

calcolato utilizzando il software Arlequin (Schneider et al., 2000), è pari a 0,657, con un valore minimo di 0,382 (OarFCB193) ed un valore massimo di 0,865 (MAF209). L’analisi all’interno di ciascuna sottopopolazione ha evidenziato un valore medio di eterozigosità osserva-ta leggermente più elevato per l’allevamento 2 (0,688) rispetto all’allevamento 1 (0,650) ed un valore medio di eterozigosità attesa per la popolazione complessiva pari a 0,720. Dei 19 marcatori microsatellite analizza-ti, 4 loci (ILSTS028, MAF70, OarAE129 e ILSTS005) hanno presentato una significativa deviazione rispetto alle proporzioni attese in base all’equilibrio di Hardy-Weinberg (P < 0,01), caratterizzata da un considerevole difetto di genotipi eterozigoti. I loci in significativo di-sequilibrio nella popolazione complessiva lo sono anche nella sotto-popolazione numericamente maggioritaria, costituita da 73 soggetti, provenienti dall’allevamento A (dati non riportati). Tra le cause del difetto di genotipi eterozigoti potrebbe essere enumerata anche la presen-za di alleli nulli (Kantanen et al. 2000). Alcuni autori riportano, infatti, la possibile presenza di alleli nulli per i loci ILSTS28 (Lawson-Handley et al., 2007), MAF70 (Lawson-Handley et al., 2007), OarAE129 (Peter et al.,

2005, 2007; Lawson-Handley et al., 2007) e ILSTS5 (Lawson-Handley et al., 2007). Al contrario, nella sotto-popolazione di 16 soggetti provenienti dall’allevamento 2, 12 loci su 19 presentano delle proporzioni di genoti-pi eterozigoti superiori all’atteso, sebbene il test esatto dell’equilibrio di Hardy-Weinberg indichi che tali sco-stamenti non siano statisticamente significativi.

Per spiegare la presenza di un eccesso di genotipi ete-rozigoti normalmente vengono considerate alcune ipo-tesi:

1) il locus è linked ad un gene che presenta overdo-minanza,

2) l’eccesso di eterozigoti è dovuto ad admixture (tra popolazioni con pattern di frequenze alleliche diversi),

3) la popolazione ha subito un recente bottleneck o effetto del fondatore (con conseguente rapida riduzione del numero di alleli, seguita da una più lenta riduzione di genotipi eterozigoti, per cui si osserva un eccesso di eterozigoti rispetto al numero di alleli presenti nella po-polazione),

4) l’eccesso di eterozigoti è un artefatto dovuto all’amplificazione costante di loci multipli.

Nel contesto della popolazione in esame, la prima e l’ultima ipotesi sembrano alquanto inverosimili, consi-derato il numero elevato di loci per i quali è stato os-servato eccesso di genotipi eterozigoti. Le ipotesi 2 e 3 appaiono entrambe verosimili e possono anche aver con-corso in modo combinato a generare i pattern di diversità genetica osservati.

In tal senso, anche i risultati ottenuti impiegando il software Bottleneck (Cornuet et Luikart, 1997) non forniscono una risposta chiara, in quanto l’eccesso di genotipi eterozigoti sembrerebbe essere significativa-mente ascrivibile ad un evento di riduzione recente del-la numerosità della popolazione soltanto per il modello I.A.M. (Infinite Allele Model) utilizzando lo Standardi-zed Differences Test (P = 0,026) ed il Wilcoxon Test (P = 0,016), mentre sfiora la significatività per il Sign Test (P = 0,055). Tuttavia, nessuna significatività si osserva per gli altri due modelli mutazionali (T.P.M., Two-Phase Model; S.M.M., Stepwise Mutation Model) e ciò indu-ce ad interpretare le evidenze di bottleneck con estrema cautela, anche in considerazione del fatto che il modello I.A.M. sembra essere, in generale, meno conservativo rispetto, ad esempio, al modello SMM.

Quanto all’admixture, tale ipotesi sembra non essere supportata da valori di allele richness particolarmente elevati per l’allevamento 2, come verosimilmente atteso

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la razza altamurana303

in caso di admixture. In aggiunta, sia i maggiori valo-ri di similarità genetica, sia i minori valori di distanza di kinship ed i maggiori valori di molecular coancestry (vedi seguito) sembrerebbero indicare che la presenza di admixture possa aver giocato un ruolo solo parziale nel definire lo scenario osservato nell’allevamento 2.

Il linkage disequilibriumDal momento che due coppie di loci si trovano sul-

lo stesso cromosoma (ILSTS011/MAF33 e BM8125/MAF209, rispettivamente), il livello di linkage disequi-librium (o sbilanciamento gametico) tra tutte le possi-bili coppie di loci è stato testato mediante il software Arlequin (Schneider et al., 2000). Su un totale di 171 confronti a coppie possibili con 19 loci, 58 (33,9%) sono risultati in significativo disequilibrio (P < 0,01).

Delle due coppie di loci sintenici, soltanto ILSTS011/MAF33 è risultata in significativo disequilibrio. I risul-tati suggeriscono la presenza di un considerevole sbi-lanciamento gametico nella popolazione complessiva. La proporzione di coppie di loci in significativo dise-quilibrio nell’allevamento 1 è pari a 26,9% valore che risulta confrontabile con quello ottenuto per la popola-zione complessiva, mentre per l’allevamento 2 è pari al 0,03%; tale valore appare marcatamente inferiore rispet-to a quanto osservato nella popolazione complessiva e nell’allevamento 1; ciò risulta particolarmente strano, in considerazione anche del fatto che solitamente una ri-dotta numerosità del campione in esame può comportare una sovrastima dei livelli di LD reali, imputabile al fatto che il processo stesso di campionamento può contribuire a generare dei segnali spuri di LD (Teare et al., 2002; Latini et al., 2004; Nsengimana et al., 2004).

Tuttavia, ad una analisi più approfondita, effettuata anche alla luce dei risultati di assegnazione popolazioni-stica (vedi seguito), emerge che anche nell’allevamento 1 i livelli di sbilanciamento gametico si attestano attorno a valori molto bassi qualora vengano valutati separata-mente per le due sottopopolazioni che risultano esse-re presenti all’interno di tale allevamento. In tal caso, infatti, la proporzione di coppie di loci in significativo disequilibrio è pari allo 0,09% per il gruppo di sogget-ti “originari” dell’allevamento 1 e 0,08% per il gruppo di soggetti di provenienza “esterna” o con ascendenti di provenienza “esterna” all’allevamento 1.

I population assignment testsLa differenziazione tra le due sotto-popolazioni è sta-

ta indirettamente indagata attraverso l’adozione di un population assignment test basato su un approccio di maximum likelihood (Paetkau et al., 1995; Waser et Stro-beck, 1998). I risultati indicano che l’approccio adottato è in grado di attribuire in modo corretto alla sotto-po-polazione di origine tutti i soggetti considerati eccetto uno, che viene erroneamente attribuito all’allevamento 2. Ciò suggerisce la presenza di un marcato livello di differenziazione tra le due sotto-popolazioni, ovvero, di un elevato livello di omogeneità all’interno di ciascuna sotto-popolazione.

L’omogeneità genetica è suggerita anche dai valori di similarità genetica (Tab. 3) osservati sia nella popo-lazione complessiva (0,369), dove si osserva il valore più alto rispetto alle altre razze complessivamente con-siderate nello studio, sia nell’allevamento 1 (0,379), ed ancor più nell’allevamento 2 (0,406).

Tabella 3. Valori medi di similarità genetica per la popolazione Altamurana e per i due allevamenti.

Al fine di valutare la differenziazione genetica tra le due sotto-popolazioni è stato inoltre adottato un po-pulation assignment test basato su un approccio di tipo Bayesiano implementato nel software STRUCTURE (Pritchard et al., 2000). Ciò ha consentito di inferire la presenza di due cluster distinti (Fig. 1; 100000 burn-in period; 100000 reps; no admixture). Tutti i soggetti dell’allevamento 2 ricadono nel secondo cluster; al con-trario, circa metà dei soggetti dell’allevamento 1 ricado-no nel primo cluster (36 su 73, ovvero il 49,3%), mentre i restanti 37 soggetti ricadono nel secondo cluster.

Ad una analisi più approfondita delle assegnazioni popolazionistiche è emerso che il 76% dei soggetti at-tribuiti al secondo cluster (in verde) presentano origine “esterna” al nucleo originario dell’allevamento (presen-tano, cioè, tra i loro ascendenti riproduttori provenienti dall’esterno e tutti da uno stesso allevamento, gestito at-tualmente da un ente sperimentale, situato in provincia di Foggia). In modo analogo, il 16% dei soggetti attribuiti al secondo cluster risulta “potenzialmente” provenien-

Campione: N Media Dev. St. RangePop. Tot. 89 0,369 0,015 0,11 - 0,82Allevamento 1 73 0,379 0,015 0,13 - 0,82Allevamento 2 16 0,406 0,017 0,21 - 0,61

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304i risultati

te da riproduttori di origine esterna (si tratta di soggetti frutto di accoppiamenti avvenuti all’interno di gruppi di monta misti, in cui erano presenti arieti di origine “ester-na” all’allevamento 1 ma per i quali non è stato possibile accertare le relazioni di filiazione sulla base delle infor-mazioni cartacee). Infine, per i restanti soggetti (3, ovve-ro l’8% dei soggetti attribuiti al secondo cluster) non è stato possibile evincere, dai dati genealogici disponibili, una eventuale presenza di ascendenti “esterni” all’alle-vamento 1.

Sarebbe interessante, ma purtroppo non si dispone di tale informazione, verificare se i soggetti dell’alleva-mento 2, che vengono accomunati nello stesso cluster con i già menzionati soggetti dell’allevamento 1, condi-vidono con questi ultimi la stessa “origine” aziendale; è noto, infatti, che l’azienda 2 ha avviato l’allevamento di soggetti di razza Altamurana da non più di 5-6 anni, ed ha, quindi, acquistato tutti i soggetti.

L’analisi dei dati genealogiciNell’insieme, per l’allevamento 1, sono state recupe-

rate informazioni genealogiche per 262 soggetti (utiliz-zando 352 soggetti complessivamente inseriti nel databa-se) e per un numero massimo di otto generazioni (in un solo soggetto). In generale, le informazioni genealogi-che sono risultate abbastanza complete per le generazio-ni dalla quarta alla prima, mentre è stata riscontrata una

maggiore incompletezza del pedigree nelle generazioni più recenti (dall’ottava alla quinta), a causa della pratica sempre più frequente di costituire gruppi di monta con due o più arieti. In particolare, le consistenze numeriche per ciascuna serie di riproduttori andavano da 52 nella prima a 9 nella ottava (Tab. 4); tale contrazione numeri-ca potrebbe, in parte, essere ascrivibile all’incompletez-za dei dati relativi alle nascite più recenti ma sembra in parte anche imputabile ad una riduzione complessiva del numero di capi mantenuti in allevamento per la riprodu-zione.

Tabella 4. Consistenze numeriche per ciascuna serie di riproduttori in base alle informazioni genealogiche disponibili.

Serie N1 522 593 544 485 516 507 288 99 1

Figura 1. Rappresentazione grafica dei risultati del test di assegnazione popolazionistica realizzato median-te il software Structure.

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la razza altamurana305

Sono stati individuati 74 diversi riproduttori di sesso maschile contro 181 riproduttori di sesso femminile.

Per 31 soggetti non erano disponibili le informazioni in merito al padre e per 59 soggetti quelle relative alla madre.

In termini di gruppi familiari, le dimensioni massi-me delle famiglie su base paterna è pari a 15 soggetti, mentre il valore massimo è pari a 5 soggetti per le fami-glie su base materna. Sono state osservate, inoltre, nove famiglie di fratelli pieni, ciascuna costituita da due soli soggetti.

Il valore medio del coefficiente di inbreeding calco-lato, utilizzando il software Pedigreeviewer (Kinghorn, 1994), per i 262 soggetti per i quali si dispone di infor-mazioni genealogiche è pari a 0,00196, con un valore massimo di 0,125 (tre soggetti; Tab. 5).

Quasi certamente, il valore medio del coefficiente di consanguineità è sottostimato a causa dell’incompletez-za del pedigree dovuta alle motivazioni sopra riportate. Ciò sembra supportato dai risultati dell’analisi moleco-lare condotta utilizzando il software Molkin (Gutierrez et al., 2005), che indicano un valore medio, per il coeffi-ciente di inbreeding calcolato a partire dalle informazio-ni genotipiche ai loci considerati, pari a 0,348 per l’in-tera popolazione, 0,359 per l’allevamento 1 e 0,319 per l’allevamento 2 (Tab. 6).

Tabella 5. Coefficiente di inbreeding per i soggetti ri-sultati inbred.

ID Coefficiente di inbreeding

59748 0,0097759750 0,0019559752 0,0019518714 0,0312559764 0,12559763 0,0156259762 0,12559756 0,06254952 0,0156218768 0,125

Tabella 6. Coefficiente di inbreeding, molecular coan-cestry (fij), distanza di kinship (Dk) e similarità genetica per la popolazione Altamurana e per i due allevamenti.

Pop. Tot. Allevamento1 Allevamento 2

Self molecular coancestry (si)

0,674 0,677 0,659

Inbreeding 0,348 0,359 0,319

Molecular co-ancestry (fij)

0,287 0,297 0,338

Distanza di Kinship (Dk)

0,386 0,38 0,321

Al fine di approfondire l’analisi sul livello di inbre-eding presente nella popolazione, i soggetti per i quali erano disponibili le informazioni molecolari sono stati suddivisi, sulla base della data di nascita, in due gruppi numericamente omogenei (30 e 28 individui), costituiti, rispettivamente, da soggetti nati negli anni 1999-2000 e da soggetti nati negli anni 2004-2005. Per i due gruppi sono stati, quindi, calcolati il parametro ricchezza al-lelica (mediante il software HP-RARE, impostando la numerosità del campione “rarefatto” pari a 27 soggetti) ed il parametro FIS (mediante il software FSTAT), allo scopo di monitorare la variazione di polimorfismo inter-corsa nell’intervallo di tempo tra i due periodi conside-rati. Come è possibile osservare dalla tabella 7, si nota una certa tendenza alla riduzione della ricchezza allelica, per la quale si è passati da 6,32 a 6,03 (indicando, quindi, una perdita media, complessivamente per i 19 loci, di oltre 5 alleli in meno di cinque anni). In modo analogo, il parametro FIS (Tab. 8), indice del difetto di eterozigoti, assume un valore maggiore nel secondo gruppo, indi-cando un aumento medio del livello di omozigosi.

Conclusioni

L’insieme dei risultti indica la presenza di una for-te strutturazione genetica all’interno della popolazione Altamurana considerata. Inoltre la capacità di tracciare,

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306i risultati

all’interno dll’allevamento 1, la presenza di livelli di an-cestralità molecolare, anche relativamente lontani, ascri-vibili all’allevamento della Provincia di Foggia, sotto-linea una marcata differenziazione genetica tra le due popolazioni, verosimilmente dovuta a deriva genetica conseguente ad un prolungato isolamento riproduttivo e/o a scelte selettive divergenti nei due allevamenti.

Tali evidenze, unitamente all’osservazione che nella popolazione Altamurana considerata si riscontrano i va-lori più bassi di ricchezza allelica rispetto a tutte le altre razze allo studio, suggeriscono la nacessità di urgenti in-terventi di ricupero e conservazione, volti a favorire

- lo scambio di materiale genetico tra i diversi alle-vamenti,

- la pianificazione ed il monitoraggio degli accoppia-menti (riducendo il ricorso a gruppi di monta con più di uin ariete),

- la costituzione di nuovi nuclei di allevamneto e - l’espansione, in termini numerici, di quelli attual-

mente esistenti.A tali interventi di conservazione genetica in situ sa-

rebbe estremamente auspicabile che si potessero affian-care anche azioni mirate di salvaguardia ex situ che pre-vedano il ricorso e l’ottimizzazione, anche per la razza Altamurana, alle più avanzate tecniche di cryobanking di gameti e di embrioni, come già dimostrato con succes-so per alcure razze locali bulgare (Sabev et al, 2006)

Allele RichnessLocus 1999-2000 2004-2005OarAE129 4 3BM1824 4 4BM8125 5,89 5,96OarFCB128 4,9 5,96OarFCB193 2 3OarFCB304 4,89 3,96ILSTS11 3 3ILSTS28 8,8 7,96ILSTS5 4,9 4INRA63 9,69 9OarJMP29 7,99 6,96OarJMP58 6,9 6,96MAF209 5,79 4,93MAF214 9,79 9MAF33 8,97 9,86MAF65 4,9 5,96MAF70 8,89 8MCM140 8,69 6OarVH72 6 7Media 6,32 6,03

FIS

Locus 1999-2000 2004-2005OarAE129 0,275 -0,161BM1824 0,065 0,035BM8125 0,108 -0,142OarFCB128 -0,141 0,063OarFCB193 -0,16 0,012OarFCB304 0,118 0,189ILSTS11 -0,201 0,132ILSTS28 0,144 0,463ILSTS5 0,121 0,299INRA63 -0,042 0,156OarJMP29 -0,01 0,158OarJMP58 0,04 0,094MAF209 0,079 -0,275MAF214 -0,068 -0,125MAF33 -0,047 0,06MAF65 0,056 -0,263MAF70 0,288 0,42MCM140 0,027 0,061OarVH72 0,129 -0,023Media 0,049 0,072

Tabella 7. Valori di allele richness per le due popola-zioni individuate sulla base dell’anno di nascita.

Tabella 8. Valori di FIS per le due popolazioni indivi-duate sulla base dell’anno di nascita.

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la razza altamurana307

Le prospettiveD. Cianci, E. Castellana, E. Ciani

Le situazioni ambientali, agro-zootecniche e sociali del comprensorio di allevamento della razza Altamura-na, la Murgia, nonostante la apparente omogeneità, cre-ano uno scenario estremamente vario nel quale si indi-viduano molteplici interazioni tra uomo, animale ed am-biente; ma le potenzialità di questo territorio sono legate soprattutto alla sua rilevante valenza ambientale e, nello stesso tempo, ad una ovinicoltura in grado di esprimere prodotti di qualità.

La complessità del territorio, nel quale sistemi an-tropici e sistemi ecologici si sono modificati a vicenda, impone di valutare in stretta sinergia il valore di ogni componente. Le strategie di conservazione ambientale devono guardare perciò, contestualmente, ai programmi di rilancio dell’attività agro-zootecnica; qualsiasi proget-to di potenziamento dell’attività agricola che non tenga presente la sostenibilità ambientale sarebbe fuori luogo.

In questo processo, la zootecnia ha un ruolo predomi-nante, perché assicura non solo il presidio costante del territorio in termini di protezione e restauro, ma anche l’opportunità di aumentare o rivitalizzare l’economia dei luoghi, la possibilità di fertilizzare con materiale organi-co i terreni destinati alla produzione vegetale e quindi la possibilità di realizzare un’autentica coltivazione biolo-gica ed infine, ma non meno importante, l’arricchimento del paesaggio antropico e naturale.

Questa attività potrebbe essere lo strumento di in-contro tra necessità di preservare il grande patrimonio di biodiversità presente nelle steppe murgiane e il biso-gno di dare agli abitanti del luogo opportunità economi-che concrete. Attualmente, l’ingente valore ecologico di queste aree è acclarato, non solo dalla costituzione del Parco Nazionale della Alta Murgia, ma anche dall’inclu-sione di questo territorio nella perimetrazione delle aree SIC (Sito di Interesse Comunitario ai sensi della Diret-tiva 92/43/CEE ) e Z.P.S. (Zone di protezione Speciale designate ai sensi della Direttiva Comunitaria 79/409/CEE).

Queste perimetrazioni (nel caso dell’Alta Murgia so-stanzialmente coincidono) portano il territorio a far par-te della Rete ecologica Natura 2000, voluta dall’Unione Europea per salvaguardare le aree contenenti habitat na-turali e seminaturali o habitat di specie di particolare va-lore biologico ed a rischio di estinzione; tale inclusione viene vista da alcuni come un sistema vincolistico che si aggiunge alle già troppe procedure burocratiche alle qua-li gli imprenditori agricoli sono soggetti. Una visione più ampia, potrebbe invece condiderare l’opportunità per la Murgia di candidarsi come area degna di attenzione per il patrimonio di biodiversità e di integrità ambientale e ricavarne sostanziali ricadute economiche e sociali.

Sulle Murge da sempre, l’ambiente (pascoli ricchi di essenze foraggiere aromatiche) e i genotipi animali (la pecora Altamurana) si sono lentamente amalgamati e l’uomo ha costruito una tecnica ed una cultura (memoria storica) che valorizza queste risorse e che non possono essere facilmente sostituiti.

La razza Altamurana è senza dubbio candidabile ad una reintroduzione negli allevamenti per i suoi legami con il territorio, un’area a forte connotazione turistica; la pecora Altamurana insiste infatti su un’area rurale (colli-nare) di alto pregio paesaggistico, con tradizioni radica-te, ad elevato contenuto culturale, con incremento della superficie protetta. Tutto ciò le consente di puntare sulla tipicità e sulla qualità dei prodotti, soprattutto se com-mercializzati in filiera corta. Ed i prodotti della pecora Altamurana (agnello da latte, pecorino trasformato in loco) sono “tipici” perchè possiedono caratteristiche che lo collegano al luogo di produzione (genotipo animale, ambiente e sistema di allevamento, processo e attrez-zature di trasformazione tradizionali), e che assicurano qualità organolettiche e bionutrizionali migliori di quelle dei prodotti di massa.

Naturalmente dovranno essere risolti i problemi le-gati alla forte erosione numerica ed alla instabile strut-tura genetica; le analisi genomiche consentono tuttavia di affrontare quest’ultimo aspetto con la fiducia di una possibile stabilizzazione.

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309

Le indagini di campoD. Matassino, N. Castellano, G. Gigante,C. Incoronato, M. Occidente

La prima fase della ricerca è stata quella dell’indivi-duazione di aree di allevamento del Tipo Genetico Ovino Bagnolese partendo dai dati già forniti dal Registro Ana-grafico (RA) gestito dall’Associazione Nazionale del-la Pastorizia (Asso.Na.Pa), il cui database indica come province campane in cui è praticato l’allevamento della Bagnolese, quelle di Avellino e Salerno; in particolare, la più elevata concentrazione di allevamenti si rileva in alcune aree delle seguenti province:

Avellino(a) : agro dei comuni di Bagnoli Irpino e Frigento;

Salerno: (b) agro dei comuni di Eboli e Fisciano.Non manca qualche allevamento ‘transumante’ nelle

province di Benevento e Caserta. Le indagini sono state svolte anche con l’aiuto del

questionario di cui al paragrafo 7.1.

Aspetti demografici e attuariali

Il 65,72 % della consistenza totale del gregge, media-mente, è costituito da femmine in riproduzione, con un range che va dal 59,62 % al 76,79 %. Il 27,09 % della consistenza totale del gregge è costituito da femmine an-teparto, con un range che va dal 17,06 % al 33,72 %. Il 7,19 % della consistenza totale del gregge sono maschi, con una oscillazione che va dal 2,33 % all’8,87 %.

Dall’indagine questionaria eseguita, la situazione ca-tegoriale media risulta essere la seguente:

pecore di primo parto 14,92 %(a) pecore di secondo parto 12,71 %(b) pecore di terzo parto 11,60 %(c) pecore di quarto parto 12,15 %(d) pecore di quinto parto 11,60 %(e) pecore di sesto parto 7,73 %(f) pecore di settimo parto 6,08 %(g)

pecore di ottavo parto 10,50 %(h) pecore di nono parto 4,97 %(i) pecore di decimo parto 2,21 %(j) pecore di undicesimo parto 1,10 %(k) pecore di dodicesimo parto 2,21 %(l) pecore di tredicesimo parto 2,21 %. (m)

L’attività riproduttiva consente ottimi risultati soprat-tutto per la prolificità:

prolificità(a) (intesa come rapporto % tra il numero di anelli nati e il numero di pecore inseminate): 170 %

fertilità(b) (intesa come rapporto % di pecore partorite e il numero di pecore inseminate): 93 %

età media al primo parto(c) : 13 mesi.

Il sistema di allevamento

La caratterizzazione dei sottosistemi viene basata sui criteri e sulle modalità di utilizzo delle risorse alimentari del territorio. Tali sottosistemi, storicamente (Rubino et al., 1983), possono essere cosí schematizzati e definiti:

pastorale “puro’’: (a) utilizzazione scalare di aree pascolive fra di loro più o meno lontane; braundel (1976) distingue la transumanza in: normale, quando i proprietari delle greggi abitano in pianura; inversa, quando i proprietari risiedono in montagna;

semipastorale(b) : monticazione locale su suoli pub-blici e/o privati; sono forme di allevamento ancora dif-fuse e sono ovunque sostenute dalla disponibilità delle terre demaniali soggette a uso civico;

stanziale brado: (c) utilizzazione, prevalente o com-pleta delle risorse alimentari pabulari di vasti territori, anche pubblici, con integrazione alimentare in stalla; la base aziendale è, di norma, limitata al solo ricovero;

stanziale non brado(d) : utilizzazione delle risorse alimentari pabulari aziendali integrate con alimentazio-ne in stalla;

stallino: (e) sola alimentazione in stalla, con stabu-lazione “fissa” o “libera”.

la razza bagnolese

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310i risultati

Attualmente, gli animali vengono allevati in greggi di piccole dimensioni (50 - 350 capi), costituiti da soggetti Bagnolese con presenza saltuaria di capi appartenenti ad altri tipi genetici. In passato, il sistema di allevamento prevalente era quello pastorale basato sulla transuman-za; oggi, invece, si assiste a una razionalizzazione del si-stema di allevamento con l’abbandono del sottosistema pastorale e una tendenza all’adozione di quello stanziale brado, caratterizzato dall’utilizzo di risorse pabulari pa-scolive, nonché l’integrazione alimentare in ricoveri ove si effettuano anche operazioni di caseificazione.

La presenza del TGA (Tipo Genetico Autoctono) in precedenza (fine degli anni Settanta) era molto più dif-fusa nell’acrocoro dei monti Picentini, attualmente il ba-ricentro di allevamento si è spostato verso la Piana del Sele per la presenza di condizioni di allevamento che determinano costi di produzione più contenuti. Questo sistema di allevamento è di sicuro interesse sociale sia per le produzioni zootecniche che si ottengono, sia per lo smaltimenti dei residui colturali che, diversamente, andrebbero a costituire un considerevole impatto am-bientale.

Limitatamente agli allevamenti rilevati, l’alimen-tazione è risultata molto variabile nel corso dell’anno. Essendo prevalente l’allevamento senza terra, sono uti-lizzati principalmente pascoli demaniali e, ove possibile, è attuata la transumanza di tipo verticale; pertanto, vi è un largo uso di biomasse presenti sui terreni ove è stato completato il ciclo produttivo di un’orticoltura industria-le.

Nel periodo invernale, l’alimentazione è basata su fie-ni di sulla, lupinella o erba medica, mescolati a paglia di avena; tale alimentazione viene spesso integrata con mangimi concentrati, integratori vitaminici e minerali, oppure, come si faceva un tempo, con beveroni di crusca e l’aggiunta di minime dosi di sale pastorizio.

Nel periodo primaverile, la pecora viene alimentata al pascolo e, nelle ore più calde della giornate e durante le ore della notte vengono ricondotte nei ricoveri dove possono ricevere una integrazione alimentare.

La produzione della carne

L’attitudine prevalente dell’ovino Bagnolese è quella della produzione del latte ma fornisce anche una buona produzione di carne.

Dall’analisi dei dati scaturisce che la Bagnolese pre-

senta una buona attitudine alla produzione della carne anche se è stata ed è tuttora considerata e classificata tra le razze a duplice attitudine (carne e latte).

Infatti, l’ovino Bagnolese ha un’alta percentuale di parti gemellari; è stato evidenziato come il peso vivo de-gli agnelli a 45 giorni varia in funzione del tipo di parto (21 kg parto singolo vs 13 kg parto gemellare).

Le nascite sono principalmente concentrate nel perio-do ottobre - gennaio. Gli agnelli eccedenti alla rimonta vengono allattati per 25-30 giorni circa, se nati da parto singolo, e 35 se nati da parto gemellare e poi vengono venduti sul mercato locale per macello.

Alcuni allevatori praticano anche l’allevamento del castrato, in questo caso gli agnelli fruiscono di un pe-riodo di allattamento più lungo, dopo di che, allontanati dalla madre, vengono alimentati col solo pascolo fino al momento della vendita. La castrazione si effettua intor-no al 4 mese di età mentre la vendita avviene intorno agli 8 mesi, raggiungendo un peso di 50 – 60 kg circa, con una resa al macello di circa il 55 %.

Le pecore a fine carriera vengono eliminate a un’età compresa tra i 5 – 6 anni, di solito nel mese di agosto, dopo un periodo di ingrasso avvenuto sulle stoppie.

La qualità e la trasformazione del latte

Da studi condotti su 413 pecore del tipo genetico Ba-gnolese (Orsillo, 1996) allevate in cinque allevamenti di cui 3 in provincia di Salerno e 2 in provincia di Avellino, si è riscontato quanto segue:

(a) la percentuale di grasso raggiunge il valore di 7,92 (c.v. = 34 %) e di 7,86 (c.v. = 28 %), rispettivamente nel-le primipare e nelle secondipare; la differenza fra questi due valori non risulta statisticamente significativa; nelle pecore dei successivi ordini di parto (3. e 4. e oltre) la percentuale di grasso si attesta intorno a valori di 8,12 e 8,22 (c.v. = 28 e 25 %), rispettivamente; tale incremento risulta significativo soltanto fra le secondipare e le quar-tipare e oltre (P<0,05);

(b) la percentuale di proteine non varia fra le primi-pare e le secondipare (valore medio 6,20 e 6,24, rispet-tivamente); tale percentuale aumenta significativamente nelle pecore di 3. e di 4. parto e oltre (6,46 e 6,42 rispet-tivamente; P<0,001);

(c) la percentuale di lattosio tende ad assumere valori più elevati nelle primipare 4,87 (c.v. = 9 %), rispetto alle pecore dei successivi ordini di parto, nelle quali il valore

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la razza bagnolese311

medio è compreso fra 4,70 e 4,77 %; la differenza fra le medie non risulta statisticamente significativa;

(d) la percentuale di sostanza secca assume il valore di 19,15 e di 19,11 (c.v. = 14 e 13 %), rispettivamen-te nelle primipare e nelle secondipare; il valore più alto (19,66) si rileva nelle pecore di 4. parto e oltre; queste ultime differiscono significativamente dalle primipare e dalle secondipare (P<0,01);

(e) il pH non presenta variazioni significative in rela-zione all’ordine di parto (6,62, c.v. = 2 %).

Dalle analisi delle caratteristiche lattodinamometri-che è stato osservato che:

(a) la produzione di latte rilevata al controllo influen-za solo la durata della fase enzimatica (P<0,05);

(b) le percentuali di grasso, di proteine e di lattosio in-fluenzano significativamente quasi tutte le caratteristiche lattodinamometriche (P<0,05);

(c) il pH, oltre a determinare un effetto significativo sulla durata della fase enzimatica (P<0,001), influenza (P<0,05) anche la velocità di formazione del coagulo (K

10, K20 e K

30), e la consistenza dello stesso nella prima

fase della coagulazione (a5; P<0,01);(d) il turno di mungitura determina differenze signifi-

cative sulla durata della fase enzimatica (P<0,01) e sulla velocità di formazione del coagulo (K

20 e K

30; P<0,05);

(e) l’azienda e il controllo entro l’azienda, come era da attendersi, influenzano significativamente (P<0,001) tutte le caratteristiche lattodinamometriche considerate;

(f) l’ordine di parto non è risultato significativo.

Dallo stesso studio si rileva che:(a) all’aumentare della distanza dal parto, a parità

dell’effetto della quantità di latte prodotto al controllo, della percentuale di grasso, di proteine e di lattosio e del pH:

(i) la durata della fase enzimatica tende ad au-mentare fino a raggiungere un valore piú alto di circa il 4 % a 240 giorni di lattazione rispetto a quello osservato a 30 giorni dal parto;

(ii) passando da 1 a 5 mesi dal parto, si osserva un aumento (P<0,001) della velocità di coagulazione (K10, K20 e K30), dall’11 al 14 %; dopo i 5 mesi tale carat-teristica diminuisce;

(iii) la consistenza del coagulo aumenta (P<0,001) dal 5 al 10 % passando da 1 a 4 mesi dal parto, per poi diminuire (P<0,001);

(b) aumentando la quantità di latte prodotto al con-

trollo da 100 a 1.500 g, a parità dell’effetto della distan-za dal parto, della percentuale di grasso, di proteine, di lattosio e del pH:

(i) aumenta la durata della fase enzimatica di cir-ca il 18 % (P<0,001);

(ii) diminuisce la velocità di coagulazione del 30 (K

10), del 56 (K

20) e del 79 (K

30) per cento (P<0,001);

(iii) diminuisce (P<0,001) la consistenza del co-agulo di circa il 22 % (a

5), del 4 % (a

10), del 12 % (a

20) e

del 10 % (a30

);(c) all’aumentare della percentuale di grasso dal 4 al

15 %, a parità dell’effetto della distanza dal parto, della quantità di latte prodotto al controllo, della percentuale di proteine e di lattosio e del pH:

(i) aumenta la durata della fase enzimatica di quasi il 17 % (P<0,001);

(ii) diminuisce la velocità coagulazione (P<0,001) del 45 % (K

30), del 17 % (K

10) e del 12 % (K

20);

(iii) aumenta leggermente (2 - 4 %) la consisten-za del coagulo misurata a 10 (a

10) a 20 (a

20) e a 30 (a

30)

minuti; (d) passando dal 4 all’8 % di proteine, a parità dell’ef-

fetto della distanza dal parto, della quantità di latte pro-dotto al controllo, della percentuale di grasso, di lattosio e del pH:

(i) aumenta la durata della fase enzimatica (P<0,001) del 19 %;

(ii) aumenta la velocità di coagulazione, del 12 % (P<0,05) misurata a un’ampiezza di 10 mm (K

10),

del 23 % (P<0,001) misurata a 20 mm (K20

) e del 28 % (P<0,001) a 30 mm (K

30);

(iii) aumenta (P<0,001) la consistenza del coa-gulo del 30 % (a

5), del 16 % (a

10) dell’11 % (a

20 e a30);

(e) all’aumentare della percentuale di lattosio dal 3 al 7 %, a parità dell’effetto della distanza dal parto, della quantità di latte prodotto al controllo, della percentuale di grasso, di proteine e del pH:

(i) diminuisce (P<0,001) di circa il 36 % la dura-ta della fase enzimatica;

(ii) aumenta (P<0,001) la velocità di coagulazio-ne del 60 % (K

10), del 63 % (K

20) e del 52 % (K

30);

(iii) aumenta di circa il 10 % la consistenza del coagulo misurata dopo 5 minuti (a

5), resta pressoché

stabile quella misurata a 10 minuti (a10

), e diminuisce (P<0,01 e P<0,001 rispettivamente) di circa il 6 % quel-la misurata a 20 (a

20) e a 30 minuti (a

30);

(f) nel campo di variazione del pH da 6 a 7,2, a pari-tà dell’effetto della distanza dal parto, della quantità di

Page 312: Book Final Version

312i risultati

latte prodotto al controllo, della percentuale di grasso, di proteine e di lattosio:

(i) si allunga (P<0,001) del 50 % la durata della fase enzimatica;

(ii) diminuisce la velocità di coagulazione del 16% (K

10; P<0,01); (iii) diminuisce la consistenza del coagulo del

7% (a30; P<0,05) .

Dai tempi antichi, sulla base di una radicata tradizio-ne e di uno standard qualitativo e quantitativo per la ca-seificazione, i formaggi più diffusi in Campania sono del tipo incanestrato. La loro origine si perde nella notte dei tempi ed è legata all’uso di particolari cestelle di giunco, dette canestre, abilmente lavorate e frutto di un’antica tradizione.

Nel panorama dei pecorini tradizionali della Regione Campania, spicca il formaggio ottenuto con lavorazione del latte dell’ovino Bagnolese. Tale formaggio, per area geografica, è abbinato al comune di Bagnoli Irpino (AV) e viene anche detto “Casu r’ pecura”; è prodotto con solo latte di pecora Bagnolese (o malevizza) allevata al pascolo e utilizzato sia fresco che stagionato come for-maggio da tavolo o da grattugia.

È un formaggio riscaldato a circa 37 °C, coagulato con caglio naturale di agnello Bagnolese, dopo circa 30 minuti dall’aggiunta del caglio si rompe la cagliata a dimensione di nocciola, si lascia depositare e si toglie il siero per la produzione della ricotta, contemporane-amente la cagliata viene passata nei cesti di vimini (fu-scelle), successivamente si procede alla salatura.

I risultati in dettaglio

Provincia di Avellino

(a) Aziende Sono state prese in considerazione le aziende ricaden-

ti in 2 comuni: Bagnoli Irpino e Frigento e, complessiva-mente, 4 allevamenti in cui è presente il TGA Bagnolese.Nel Comune di Bagnoli Irpino é stato censito il mag-giore numero di allevamenti (3), mentre nel Comune di Frigento è stato censito un solo allevamento.

La superficie media delle aziende è di ha 21,00 ± 16,97 (c.v., 81 %).

Le aziende presentano una superficie media totale più alta nel Comune di Bagnoli Irpino: 33 ha di cui 31,67 ha a pascolo; mentre le aziende con una superficie media

totale più bassa si rilevano nel Comune di Frigento, 9 ha in totale di cui 5 ha a pascolo.

(b) Consistenza aziendaleLa consistenza media aziendale è di capi 202 ± 175,36

(c.v, 87 %). Fra i Comuni presi in considerazione, Ba-gnoli Irpino presenta il maggior numero di ovini con-trollati (circa 978 capi), mentre nel Comune di Frigento si registra il più basso numero di capi controllati (circa 78).

Rapporto sessi riproduttivo(c) Complessivamente, per ogni allevamento controllato,

si rileva un’incidenza media di pecore per ariete pari a 38,4 ± 18,95 (c.v., 49 %), il più alto numero di pecore per ogni ariete in servizio (circa 51,79) si registra nel comune di Bagnoli Irpino, il più basso numero di pecore per ogni ariete (circa 25) in quello di Frigento.

(d) Agnelli nati per annoComplessivamente, negli allevamenti controllati si ri-

leva mediamente un numero di agnelli nati per anno pari a 343,33 ± 311,6 (c.v., 91 %).

(e) Lunghezza della vita riproduttiva delle pecoreNegli allevamenti censiti, la vita media delle pecore

è stata di anni 4,83 ± 0,24 (c.v., 5 %), con un valore più elevato (circa 5 anni) nel comune di Frigento e un va-lore più basso (circa 4,67 anni) nel comune di Bagnoli Irpino.

(f) Età al primo accoppiamento delle agnelle L’età al primo accoppiamento delle agnelle è risulta-

ta, mediamente, di mesi 10,50 ± 0,71 (c.v., 7 %), il valore più basso (circa 10 mesi) si è registrato nel comune di Frigento e il valore più alto (circa 11mesi) nel comune di Bagnoli Irpino.

(g) Quoziente annuo di avvicendamento Il quoziente annuo di avvicendamento negli alleva-

menti presi in considerazione è risultato, mediamente, pari al 10 % in entrambi i comuni.

(h) Età svezzamento agnelli L’età allo svezzamento, mediamente, è stata di mesi

2,83 ± 0,24 (c.v., 8 %), con una lieve distinzione tra ba-gnoli Irpino e Frigento (2,67 vs 2,83).

(i) Percentuale di parti gemellari delle pecore in al-

Page 313: Book Final Version

la razza bagnolese313

levamentoNegli allevamenti considerati é emerso che il 70,83 %

± 1,18 (c.v., 2 %) delle pecore danno parti gemellari.

(j) Peso alla macellazione degli agnelli negli alleva-menti

Il peso alla macellazione degli agnelli è risultato di kg 18,67 ± 0,94 (c.v., 5 %), con valore più alto in quel-li degli allevamenti dei comuni di Bagnoli Irpino (circa 19,33 kg) e valori più bassi in quello del comuni di Fri-gento (circa 18 kg).

(k) Età alla macellazione degli agnelli L’età alla macellazione degli agnelli, prodotti negli

allevamenti censiti, è risultata pari a giorni 73,33 ± 9,43 (c.v., 13 %), con valore più basso (circa 66,67 giorni) negli allevamenti del comune di Bagnoli Irpino e valore più elevato (circa 80 giorni) nel comune di Frigento.

(l) Produzione lattea individuale (durata e produzio-ne) riferita al periodo in cui si attua la mungitura, che può iniziare anche prima dell’allontanamento dell’agnello:

la durata della lattazione nelle pecore control-(i) late è risultata mediamente pari a giorni 111,67 ± 2,36 (c.v., 2 %), con valore più elevato nel comune di Bagnoli Irpino (circa 113 giorni) e valori più bassi nel comune di Frigento (circa 110 giorni);

la quantità di latte prodotto da ogni pecora è (ii) risultata mediamente di litri 90,83 ± 1,18 (c.v., 1 %), con una produzione più elevata nel comune di Bagnoli Irpino (circa 92 litri) e una produzione più bassa (circa 90 litri), nel comune di Frigento.

Provincia di Salerno

(a) Aziende Sono state prese in considerazione le aziende ricaden-

ti in 2 comuni: Eboli e Fisciano e, complessivamente, 2 allevamenti in cui è presente il TGA Bagnolese .

La superficie media delle aziende è di ha 20,00 ± 26,87 (c.v., 134 %). Le aziende presentano una superfi-cie media totale più alta nel Comune di Fisciano: 39 ha di cui 38 ha a pascolo.

(b) Consistenza aziendaleLa consistenza media aziendale è di capi 208,5 ±

146,37 (c.v, 70 %). Fra i Comuni presi in considerazione, Fisciano presenta il maggior numero di ovini controllati

(circa 312 capi), mentre nel Comune di Eboli si registra il più basso numero di capi controllati (circa 105).

(c) Rapporto sessi riproduttivoComplessivamente, per ogni allevamento controllato,

si rileva un’incidenza media di pecore per ariete pari a 17,64 ± 5,15 (c.v., 29 %), il più alto numero di pecore per ogni ariete in servizio (circa 21,29) si registra nel comune di Fisciano, il più basso numero di pecore per ogni ariete (circa 14) in quello di Eboli.

(d) Agnelli nati per annoComplessivamente, negli allevamenti controllati si ri-

leva mediamente un numero di agnelli nati per anno pari a 379 ± 330,93 (c.v., 87 %).

(e) Lunghezza della vita riproduttiva delle pecoreNegli allevamenti censiti, la vita media delle pecore è

risultata di anni 4 in entrambi i comuni.

(f) Età al primo accoppiamento delle agnelle L’età al primo accoppiamento delle agnelle è risulta-

ta, mediamente, di mesi 10 ± 1,41 (c.v., 9 %), il valore più basso (circa 9 mesi) si è registrato nel comune di Fisciano e il valore più alto (circa 11 mesi) nel comune di Eboli.

(g) Quoziente annuo di avvicendamento Il quoziente annuo di avvicendamento negli alleva-

menti presi in considerazione è risultato, mediamente, pari al 12,5 % ± 3,54 (c.v., 28 %), il valore più basso (circa 10 %) si è registrato nel comune di Fisciano e il valore più alto (circa 15 %) nel comune di Eboli.

(h) Età svezzamento agnelli L’età allo svezzamento, mediamente, è risultata di

mesi 2 negli allevamenti di entrambi i comuni.

(i) Percentuale di parti gemellari delle pecore in al-levamento

Negli allevamenti considerati é emerso che il 77,5 % ± 3,54 (c.v., 5 %) delle pecore danno parti gemellari.

(j) Peso alla macellazione degli agnelli negli alleva-menti

Il peso alla macellazione degli agnelli è risultato di kg 17,00 ± 1,41 (c.v., 8 %), con valore più alto in quelli degli allevamenti dei comuni di Eboli (circa 18 kg) e

Page 314: Book Final Version

314i risultati

valori più bassi in quello del comuni di Fisciano (circa 16 kg).

(k) Età alla macellazione degli agnelli L’età alla macellazione degli agnelli, prodotti negli

allevamenti censiti, è risultata pari a giorni 70 negli alle-vamenti di entrambi i comuni.

(l) Produzione lattea individuale (durata e produzio-ne) riferita al periodo in cui si attua la mungitura, che può iniziare anche prima dell’allontanamento dell’agnello:

la durata della lattazione nelle pecore control-(i) late è risultata mediamente pari a giorni 120 negli alle-vamenti di entrambi i comuni;

la quantità di latte prodotto da ogni pecora è (ii) risultata mediamente di litri 105 ± 7,07 (c.v., 7 %), con una produzione più elevata nel comune di Eboli (circa 110 litri) e una produzione più bassa (circa 100 litri), nel comune di Fisciano.

La situazione igienico-sanitaria

Uno dei problemi sanitari maggiormente riscontrati negli allevamenti di ovini di razza Bagnolese nell’ambi-to della Regione Campania è la profilassi delle Encefa-lopatie Spongiformi Trasmissibili (EST).

L’urgenza di effettuare un piano di lotta alle EST, le quali danno all’animale la suscettibilità all’agente BSE, mentre animali genotipicamente resistenti alle scrapie, malattia non pericolosa né per l’animale né per l’uomo, hanno la possibilità di sviluppare resistenza alla BSE.

Inoltre, per gli allevamenti di Bagnolese un annoso problema è anche quello della Brucellosi, debellabile solo se tutti gli allevatori decideranno, o meglio, accet-teranno di sottoporre i propri greggi ai regolari controlli sanitari.

Problematiche sollevate dagli allevatori

Durante lo svolgimento dell’indagine gli allevatori censiti in provincia di Avellino e, più precisamente, nel comune di Bagnoli Irpino, hanno manifestato difficoltà nel reperire pascoli adatti al fabbisogno degli animali; ciò, riferiscono, è causato dall’ostruzionismo dell’ammi-nistrazione locale per la concessione della fida pascoli. A tale problema, si affianca la difficoltà di reperire mano-

dopera per la gestione del gregge. Gli allevamenti censiti sono a conduzione familiare. Gli allevatori trasformano la maggior parte del latte in formaggi. La vendita dei prodotti caseari avviene per mezzo dello spaccio Azien-dale e a richiesta nelle salumerie dei Comuni limitrofi.

Gli allevatori risentono della poca attenzione delle Istituzioni e delle Organizzazioni di categoria per la non istituzione del Libro Genealogico per il TGA Bagnolese; tuttavia, gli allevatori manifestano soddisfazione per le performance produttive che il TGA offre.

Le analisi genomicheD. Matassino, C. Incoronato, M Occidente, N. Ca-

stellano, R. Pasquariello, F. Pane

Entro il tipo genetico, l’elaborazione dei dati è stata eseguita su un campione rappresentativo sia della razza sia dei due allevamenti presi in esame.

Campione rappresentativo della razza (n = 50 sog-getti)

La caratterizzazione molecolare ha evidenziato la presenza di un numero totale di alleli pari a 153, la cui ripartizione per locus è riportata nella tabella 1.

Come si evince dalla tabella 1, tutti i loci indagati, entro i limiti del campo di osservazione, sono risultati polimorfici, con un numero di alleli compreso nel range 3÷13 e con un valore medio pari a 8,053 ± 2,697 (c.v. = 33 %).

Il locus piú polimorfico è risultato INRA063 con 13 alleli, mentre quello meno polimorfico è risultato Oa-rAE129 con 3 alleli.

Come si può rilevare dalla tabella 1 e dal grafico 1, il valore della ricchezza allelica ‘rarefatta’ stimata varia da un minimo di 3,000 (locus OarAE129) a un massimo di 10,429 (locus INRA063).

L’ ‘eterozigosità osservata’ varia da un valore mini-mo pari a 0,367 per il locus meno polimorfo ‘OarAE129’ a uno massimo pari a 0,882 per il locus ‘OarJMP29’, con un valore medio pari a 0,700 ± 0,146 (c.v. = 21%); l’ ‘eterozigosità attesa’ varia da un valore minimo di 0,611 per il locus meno polimorfo ‘OarAE129’ a uno massimo

Page 315: Book Final Version

la razza bagnolese315

pari a 0,855 per il locus ‘MAF70’ con un valore medio pari a 0,749 ± 0,091 (c.v. = 12%) (Tab. 2).

Dei 19 marcatori microsatellite complessivamente analizzati (Tab. 2), 5 sono risultati in significativo dise-quilibrio rispetto alle proporzioni di equilibrio di Hardy-Weinberg:

OarAE129 e BM1824 ((a) P = 0,001), con un consi-derevole difetto di genotipi eterozigoti;

ILSTS11 ((b) P = 0,001), ILSTS28 e INRA063 (0,01<P<0,05), con un leggero eccesso di genotipi ete-rozigoti.

Inoltre, è stato possibile individuare la presenza di

Tabella 1. Numero di alleli e ricchezza allelica ‘ra-refatta’ stimata entro e indipendentemente dal locus mi-crosatellite.

Microsatellite

NomeAlleli Rcchezza Allelica

‘Rarefatta’ StimataN

BM1824 4 3,998OarFCB128 8 6,319ILSTS28 11 8,962MAF70 12 9,166OarAE129 3 3,000MCM140 10 8,853ILSTS5 7 6,160ILSTS11 7 6,568MAF33 7 6,705OarFCB193 7 5,486INRA063 13 10,429MAF65 5 4,988MAF214 6 5,434BM8125 7 6,437MAF209 10 8,634OarFCB304 8 6,395OarJMP29 10 8,614OarVH72 7 6,576OarJMP58 11 9,418

x 8,053 6,955

σ 2,697 1,985

c.v.% 33 28

Microsatellite

NomeEterozigosità

PAttesa Osservata

BM1824 0,715 0,471 0,001OarFCB128 0,786 0,725 0,409ILSTS28 0,776 0,647 0,033MAF70 0,855 0,843 0,138OarAE129 0,611 0,367 0,001MCM140 0,834 0,765 0,05ILSTS5 0,630 0,529 0,172ILSTS11 0,804 0,824 0,001MAF33 0,741 0,824 0,184OarFCB193 0,594 0,510 0,151INRA063 0,842 0,824 0,035MAF65 0,734 0,745 0,929MAF214 0,712 0,608 0,507BM8125 0,572 0,588 0,329MAF209 0,830 0,863 0,464OarFCB304 0,749 0,725 0,345OarJMP29 0,834 0,882 0,407OarVH72 0,762 0,745 0,259OarJMP58 0,851 0,824 0,704

x 0,749 0,700

σ 0,091 0,150

c.v.% 12 21

Tabella 2. ‘Eterozigosità attesa’ e ‘osservata’ e de-viazione dall’equilibrio di Hardy-Weinberg entro cia-scun locus microsatellite.

Page 316: Book Final Version

316i risultati

una tendenza (0,05<P<0,20) verso:un difetto di genotipi eterozigoti per il (a) locus

MAF33;un eccesso di genotipi eterozigoti(b) per i loci

MAF70, MCM140, ILSTS5 e OarFCB193.Per alcuni loci indagati, la maggiore tendenza all’ec-

cesso di:‘omozigosità osservata’ (a) potrebbe essere dovuta

all’aumento di accoppiamenti tra soggetti parenti, come può essere rilevato dal valore del ‘coefficiente moleco-lare di inbreeding’ (inincrocio o consanguineità per sta-tus 0,299) riscontrato nel campione complessivamente indagato;

‘eterozigosità osservata’ (b) potrebbe essere ascri-vibile all’introduzione di riproduttori, specialmente maschili, provenienti da altri allevamenti non indagati al momento; comportamento gestionale, quest’ultimo, abbastanza praticato dagli allevatori.

Mediante il software Arlequin è stato stimato:il grado di (a) associazione, in senso statistico,

non casuale tra alleli di due loci diversi;il livello di(b) disequilibrio da linkage (LD), li-

mitatamente a loci associati.I risultati ottenuti dall’elaborazione con il software

Arlequin hanno evidenziato un livello di ‘disequilibrio’ tra gli alleli dei 19 loci microsatelliti notevolmente conte-

nuto; infatti sui 171 confronti possibili (pairwise), solo il 7% è risultato in significativo ‘disequilibrio’ (P<0,01).

L’analisi del livello di ‘linkage disequilibrium’ tra al-leli di loci sintenici, intesi come loci appartenenti allo stesso cromosoma [nella fattispecie ILSTS011/MAF33 (cromosoma 9) e BM8125/MAF209 (cromosoma 17)], ha evidenziato che nessuna delle due coppie contribui-sce allo sbilanciamento osservato.

Il valore medio di ‘similarità genetica’ (0,344 + 0,014) suggerisce, nei limiti del campo di osservazio-ne, la presenza di un buon livello di omogeneità nel tipo genetico Bagnolese in parte imputabile alle modalità di gestione della razza (accoppiamento tra soggetti parenti, criteri di scelta del quoziente di avvicendamento, ecc.), nonché alla consistenza molto modesta della stessa.

Grafico 1. Variazione della ricchezza allelica ‘rare-fatta’ per locus nel campione rappresentativo della raz-za.

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la razza bagnolese317

Parametro Allevamento

1 (N =24) 2 (N = 26) x ± σ c.v., % x ± σ c.v., %

numero medio di alleli per locus 6,052 ± 1,508 25 6,736 ± 2,642 39ricchezza allelica ‘rarefatta’ media per locus 5,966 ± 1,452 24 6,588 ± 2,485 38eterozigosità media osservata per locus 0,721 ± 0,180 25 0,684± 0,159 23eterozigosità media attesa per locus 0,730± 0,077 10 0,743± 0,109 15

Locus Microsatellite

Allevamento 1 2

EterozigositàP

EterozigositàP

Attesa Osservata Attesa OsservataBM1824 0,668 0,417 0,029 0,750 0,538 0,001OarFCB128 0,784 0,750 0,997 0,759 0,731 0,623ILSTS28 0,762 0,583 0,199 0,790 0,731 0,071MAF70 0,835 0,917 0,223 0,867 0,769 0,213OarAE129 0,591 0,318 0,016 0,668 0,423 0,010MCM140 0,788 0,833 0,573 0,789 0,692 0,243ILSTS5 0,652 0,500 0,081 0,643 0,538 0,153ILSTS11 0,793 0,833 0,234 0,771 0,808 0,026MAF33 0,693 0,750 0,851 0,775 0,885 0,237OarFCB193 0,624 0,583 0,395 0,597 0,462 0,495INRA63 0,755 0,833 0,261 0,892 0,808 0,129MAF65 0,770 0,833 0,929 0,715 0,654 0,845MAF214 0,592 0,542 0,233 0,786 0,692 0,913BM8125 0,662 0,750 0,547 0,430 0,423 0,184MAF209 0,738 0,750 0,659 0,841 0,962 0,948OarFCB304 0,793 0,917 0,364 0,690 0,538 0,069OarJMP29 0,785 0,917 0,321 0,825 0,885 0,078OarVH72 0,766 0,750 0,978 0,685 0,731 0,158OarJMP58 0,824 0,917 0,674 0,848 0,731 0,593x 0,730 0,721 0,743 0,684

σ 0,077 0,180 0,109 0,159

c.v.% 10 25 15 23

Tabella 3. Alcuni parametri del grado di polimorfismo genetico entro l’ allevamento.

Tabella 4. ‘Eterozigosità attesa’ e ‘osservata’ e deviazione dall’equilibrio di Hardy-Weinberg entro ciascun locus microsatellite distintamente per allevamento.

Page 318: Book Final Version

318i risultati

Campione rappresentativo dei due allevamenti

Parametri indicatori del grado di polimorfismo gene-tico

La tabella 3 riporta alcuni parametri indicatori del grado di polimorfismo genetico entro l’allevamento:

L’allevamento 2 evidenzia, rispetto all’allevamento 1:

un piú elevato ma non significativo numero me-(a) dio di alleli per locus (6,736 ± 2,642 vs 6,052 ± 1,508);

un maggiore ma non significativo valore medio (b) del parametro ricchezza allelica ‘rarefatta’ per locus (6,588 ± 2,485 vs 5,966 ± 1,452);

un valore medio di (c) ‘eterozigosità osservata’ per locus minore ma non significativo (0,684±0,159 vs 0,721±0,180).

La tabella 4 riporta l’ ‘eterozigosità attesa’ e ‘osserva-ta’ nonchè la deviazione dall’equilibrio di Hardy-Wein-berg entro ciascun locus microsatellite relativamente ai due allevamenti.

Allevamento 1. Nell’allevamento 1, rispetto alle pro-porzioni di equilibrio di Hardy-Weinberg:

i (a) loci BM1824 e OarAE129 sono risultati in si-gnificativo disequilibrio (0,01<P<0,05) ascrivibile a di-fetto di ‘eterozigosità’;

per il (b) locus ILSTS5 è stata rilevata una tendenza (0,05<P<0,20) verso un difetto di ‘eterozigosità’.

Allevamento 2. Nell’allevamento 2, rispetto alle pro-porzioni di equilibrio di Hardy-Weinberg , 3 loci sono risultati in significativo disequilibrio, ascrivibile:

a difetto di genotipi eterozigoti [(a) loci BM1824 (P=0,001) e OarAE129 (P=0,01)];

a eccesso di genotipi eterozigoti [(b) locus ILST11 (0,01<P<0,05)].

Inoltre, vi è una tendenza (0,05<P<0,20) verso: un difetto di genotipi eterozigoti per i (a) loci

ILSTS28, ILSTS5, INRA63, BM8125 e OarFCB304;un eccesso di genotipi eterozigoti per i (b) loci

OarJMP29 e OarVH72.La presenza di un numero maggiore di loci in di-

sequilibrio legato a difetto di ‘eterozigosità osservata’ nell’allevamento 2 potrebbe essere dovuta all’aumento di accoppiamenti tra soggetti parenti che l’allevatore è solito praticare, come può rivelarsi anche dal più elevato valore del ‘coefficiente molecolare di inincrocio’ osser-vato per il campione rappresentativo di tale allevamento rispetto a quello dell’allevamento 1 (0,316 vs 0,277).

Esclusività Nei limiti del campo di osservazione, l’analisi della

distribuzione degli alleli nei due allevamenti ha eviden-ziato la presenza di un numero di alleli ‘esclusivi’ o ‘di-scriminanti’ o ‘privati’ pari a 63 (41% degli alleli com-plessivamente individuati); la ripartizione dei predetti alleli per allevamento è riportata nella figura 1. Di essi, solo 10 hanno una frequenza superiore al 10 % (alleli ‘rari’) e si ripartiscono come riportato nello schema 1.

Sebbene la contenuta numerosità dei campioni dei sog-getti suggerisca di interpretare con estrema cautela i dati osservati, la presenza di uno o più allele/i ‘esclusivo/i’, se ulteriormente confermata, potrebbe rivestire notevo-le significato operativo ai fini della rintracciabilità di un prodotto.

Parametri di differenziazione genetica

Test ‘population assignment’ - L’adozione di un test ‘population assignment’ basato su un approccio di maxi-mum likelihood (massima verosimiglianza) ha consenti-to di attribuire in modo corretto tutti i soggetti conside-rati a ciascun allevamento suggerendo la presenza di un elevato livello di omogeneità all’interno di ciascun alle-vamento e quindi di un buon livello di differenziazione tra i due. Quanto detto è convalidato anche dai valori di ‘similarità genetica’ osservati entro ciascun allevamento (Tab. 5).

Figura 1. Distribuzione numerica degli alleli privati negli allevamenti.

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la razza bagnolese319

Coancestralità molecolare

Dalla tabella 6 emerge che:(a) nell’allevamento 1, rispetto all’allevamento 2, vi

sarebbe, apparentemente, un: più elevato valore del ‘(i) coefficiente medio di

concestralità molecolare’ (‘molecular coancestry’) (fij);minore valore della (ii) ‘distanza di kinship’ (Dk); più basso valore del coefficiente molecolare di (iii)

inbreeding (inincrocio o consanguineità per status) ; più basso valore del coefficiente di (iv) self mole-

cular coancestry;

Allele ‘raro’ Frequenza allelica, % Locus Allevamento

118 25 OarFCB128 1185

11,5 INRA63 2189161 10,4 OarJMP58 2121 22,9

MAF2091

127 13,5 2215 19,2 MAF214 2136 18,8 MAF65 1161 14,6 MCM140 1127 14,6 OarVH72 1

Schema 1. Alleli ‘rari’ riscontrati e loro relativa frequenza al locus.

Allevamento x σ c.v. %

1 0,389 0,014 3,602 0,360 0,017 4,72

Tabella 5. Valore medio (x), deviazione standard (s) e coefficiente di variazione (c.v. %) della ‘similarità genetica’ distintamente per allevamento.

Parametro Allevamento

1 2

self molecular coancestry (si) 0,638 0,658

inbreeding 0,277 0,316

molecular coancestry medio dell’in-tera popolazione (fij)

0,291 0,274

distanza media di kinship (Dk) 0,348 0,383

Tabella 6. Alcuni parametri di ‘coancestralità molecolare’ distintamente per allevamento.

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320i risultati

risultati, questi, indicativi dell’esistenza di una mag-giore omogeneità genetica dei soggetti appartenenti all’allevamento 1, supportata anche dai maggiori valori di similarità genetica osservati. Tale omogeneità non sa-rebbe però ascrivibile alla maggiore incidenza di accop-piamenti tra soggetti parenti che invece risulterebbero nell’allevamento 2, come testimoniato dai valori più alti del ‘coefficiente molecolare di inincrocio.

Conclusioni

Dall’insieme dei dati osservati, l’allevamento 1 sem-bra essere quello caratterizzato da un apparente livello di variabilità genetica minore per la presenza di valori meno elevati di

- ricchezza allelica ‘rarefatta’ stimata; - distanza di kinshipnonché di valori più alti di - ‘similarità genetica’; - ‘molecular coancestry’.Questa maggiore ‘omogeneità genetica’ sarebbe da

ascrivere meno ad accoppiamenti tra soggetti parenti e più alle modalità di gestione riproduttiva e produttiva della razza, nonché alla consistenza molto modesta della stessa.

La ridotta numerosità dei campioni suggerisce estre-ma prudenza nell’interpretazione dei risultati non con-sentendo di trarre conclusioni definitive; pertanto, è au-spicabile proseguire l’attività di tipizzazione incremen-tando il numero dei soggetti indagati.

Le prospettive Matassino D., Castellano N.

Il tipo genetico Bagnolese è indubbiamente degno di maggiore diffusione nel proprio bioterritorio di alle-vamento. Il suo germoplasma è dotato infatti di grande capacità al costruttivismo che consente a questo TGA

(tipo genetico autoctono) di utilizzare al meglio le carat-teristiche difficili del territorio di allevamento (province di Avellino e Salerno); non manca qualche allevamento transumante nelle province di Benevento e di Caserta.

La comunità allevatoriale, concentrata sul bioterrito-rio del lago Laceno, in agro di Bagnoli Irpino (AV), si sta organizzando in modo da ridurre notevolmente la transu-manza con la realizzazione di ricoveri invernali localiz-zati sullo stesso bioterritorio e con un’utilizzazione ca-searia del latte in micro-caseifici siti nell’area urbana di Bagnoli Irpino; l’attività turistica tipica del lago Laceno favorisce la diffusione e la valorizzazione dei prodotti locali ottenuti da questo TGA, nel periodo sia invernale (presenza di attività sciistica) sia estivo (presenza di nu-merose strutture recettive alberghiere e private).

La produzione vendibile in carne e latte, del TGA Bagnolese, per anno per pecora, pur non raggiungendo quella dell’altro TGA campano, è di grande interesse, ri-sultando pari in media, a circa 306 Euro.

In particolare, dalla produzione della carne (agnello a 90 giorni di età), considerando 3 parti in 2 anni, si otten-gono 123 Euro per anno e per pecora, dai soggetti a parto singolo e circa 253 Euro dai soggetti a parto gemellare.

Dalla produzione del latte (a circa 150 giorni di lat-tazione), sempre considerando 3 parti in 2 anni, la pro-duzione vendibile varierebbe tra i 173 Euro e i 196 Euro per anno per pecora.

Vi sono tuttavia alcuni problemi che frenano l’espansione della razza Bagnolese, legati soprattutto al fatto che un rilevante numero di allevamenti Bagnolese rientra nella categoria degli allevamenti senza terra. Ciò comporta:

aleatorietà nella consistenza degli allevamenti;(a) una transumanza di tipo (b) semipastorale con l’uti-

lizzazione di risorse alimentari pabulari anche molto distanti dall’area di origine (Comune di Bagnoli Irpino, segnatamente bioterritorio del Lago Laceno);

possibilità di contaminazione degli allevamenti (c) con l’insorgere di patologie;

scarsa applicazione di norme igienico-sanitarie (d) in grado di prevenire alcune malattie;

ridotta possibilità di un costante rapporto tra (e) l’allevatore e l’attività di consulenza tecnica da parte dell’organizzazione degli allevatori; ciò determina una:

scarsa possibilità di contattare gli allevatori per (i) una informazione permanente e per uno scambio costrut-tivo sulle problematiche cogenti degli allevamenti;

assenza di organizzazione; la produzione lat-(ii)

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la razza bagnolese321

tiero-casearia e carnea è avulsa da un qualsiasi conte-sto nazionale. Come conseguenza di questa disorganiz-zazione è frequente la commercializzazione di prodotti contraffatti;

impossibilità, stante l’attuale livello organizza-(iii) tivo, di effettuare controlli funzionali sia per la biopoiesi lattea che per quella carnea;

utilizzazione delle superfici pascolive delle (iv) aree demaniali, che viene praticata, normalmente, in forma non corrispondente ai canoni di un pascolamento razionale;

scarsa, se non nulla, applicazione di (v) buone pra-tiche di gestione, specialmente delle aree pascolive.

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323

Le indagini di campoF. d’Angelo, R. Marino, M. Caroprese, A. Santillo, M. Albenzio

a) Notizie generali Sulla razza Gentile di Puglia, a cura del Dipartimento

PrIME dell’Università di Foggia è stata effettuata la ri-cerca delle aree di allevamento e delle aziende, nonché la raccolta delle informazioni esistenti mediante ricerca bibliografica e indagine anamnestica.

Seguendo i suggerimenti dell’Associazione Provin-ciale degli Allevatori di Foggia sono state individuate sei aziende, di cui quattro situate nella provincia di Foggia e due nella provincia di Campobasso, nelle quali effet-tuare i rilievi aziendali, mediante questionario, dei dati gestionali e morfo-funzionali, la raccolta dei dati sulle produzioni quantitative e qualitative, i campionamenti e le analisi sul latte e sul sangue ed i rilievi alla macella-zione.

Gli stessi compiti sono stati affidati all’U.O. del Dipartimento di Scienze delle Produzioni Animali dell’Università della Basilicata per ricerche sugli ovini di razza Gentile allevati in Basilicata e Calabria. In tutto sono state individuate tre aziende (due in Basilicata e una in Calabria) in cui si allevano ovini di razza Genti-le in purezza. In seguito alla manifestazione della bru-cellosi nell’azienda dell’A.R.S.S.A. di Molarotta (CS) in cui erano presenti una cinquantina di capi e a causa della scarsa consistenza in uno degli allevamenti lucani la raccolta dei campioni è stata effettuata soltanto presso l’azienda Di Trani in provincia di Potenza.

Da un primo esame dei risultati emersi negli incontri preliminari emergono alcune problematiche comuni alle diverse aziende, riguardanti in particolare la scarsa pro-duzione di latte, lo scarso tasso di gemellarità, il basso peso degli agnelli alla macellazione e la difficoltà nella commercializzazione dei prodotti. Alcuni allevatori pra-ticano incroci con altre razze, al fine di incrementare le performances produttive. Desta anche preoccupazione

l’elevato tasso di mortalità denunciato da taluni alleva-tori, anche se su questo dato potrebbero giocare un ruolo non indifferente, almeno nell’immediata attualità, gli ef-fetti del vaccino contro la Blue tongue.

b) L’indagine aziendale Sono stati sottoposti agli allevatori dei questionari

per il rilevamento dei dati gestionali e morfo-funzionali, al fine di raccogliere informazioni riguardanti la razza Gentile di Puglia. In quasi tutte le aziende intervistate sono emerse problematiche riguardanti la commercializ-zazione dei prodotti. È emersa la volontà di quasi tutti gli allevatori di preservare la razza Gentile di Puglia dal rischio di estinzione e di potenziarne le produzioni, in particolare aumentando il numero di parti gemellari e la produzione di latte.

È stato scelto un campione di soggetti rappresentativi della razza Gentile di Puglia (16 arieti e 47 pecore), su cui sono stati prelevati campioni ematici e valutati, tra-mite misurazioni dirette, i seguenti parametri biometrici: altezza al garrese, altezza alla groppa, altezza toracica, larghezza media della groppa, lunghezza del tronco, cir-conferenza toracica e peso. I soggetti individuati per lo studio sono pecore gravide di razza Gentile di Puglia in purezza, ove possibile, non legate tra loro da stretti lega-mi di parentela.

Il sistema di allevamentoTutte le aziende sottoposte all’indagine allevano

Gentile di Puglia in purezza e risultano iscritte al Libro Genealogico. Dalla dislocazione geografica (montagna, collina, pianura) delle aziende sottoposte ad indagine ri-sulta evidente che le aziende collocate in zone pianeg-gianti ricoprano una maggiore superficie aziendale (400-500 ettari), rispetto a quelle site in zone collinose (120 ettari) e montuose (100-250 ettari). È inoltre interessante osservare come le aziende poste in aree collinose riesca-no a praticare un allevamento di tipo estensivo, mentre le altre aziende ricorrono a tecniche di allevamento di tipo semi-intensivo (con ricovero notturno ed invernale) e ad

la razza gentile di Puglia

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324i risultati

eventuale transumanza nei mesi più freddi.

Aspetti demograficiLa numerosità degli ovini di razza Gentile di Puglia

allevati presso le aziende coinvolte nello studio è mag-giore di 500 capi per tutte le aziende, tranne per una che ne possiede 400. L’allevamento della razza è in tutte le aziende vocato alla produzione di latte e carne, mentre in una sola azienda si produce anche lana, destinata ad es-sere filata per la realizzazione di capi di abbigliamento.

La situazione veterinariaIn tutti gli allevamenti coinvolti nello studio gli ani-

mali sono sotto costante controllo veterinario e vengo-no sottoposti a controllo parassitario due volte l’anno. Solo alcuni allevatori praticano trattamenti antielmintici. Per gli animali introdotti dall’esterno vengono effettuati trattamenti e quarantena. Solo in una azienda vengono adottate cure omeopatiche.

Attitudini produttivePer quanto concerne gli aspetti riproduttivi, il rappor-

to tra soggetti maschi e femmine risulta mediamente pari a 1/25. L’età del primo accoppiamento per le femmine è piuttosto variabile, con valori inferiori a 15 mesi in tre aziende, compresi tra 15 e 18 mesi in due aziende e supe-riori a 18 mesi in una sola azienda. I dati riportati in let-teratura relativi a molte razze e ambienti pedoclimatici indicano che la comparsa del primo calore (pubertà) pre-senta un’ampia variabilità in rapporto all’età (5-6-15-18 mesi) e al peso (26-52 kg) che normalmente corrisponde al 40-70% dello sviluppo dell’animale adulto.

Per quanto riguarda i maschi, invece, questo dato è uniformemente pari a undici mesi in tutte le aziende. La pubertà dell’ariete corrisponde alla capacità di riprodur-si. Si verifica, in accordo con la nostra indagine tra i 5 e gli 11 mesi; ad un’età variabile con la razza ed i fat-tori ambientali in senso lato, che possono influenzare lo sviluppo morfo-fisiologico dell’animale. Sia nelle razze da latte che da carne tanto i maschi quanto le femmine iniziano la carriera riproduttiva dai 10 ai 12 mesi. Nelle greggi, invece, allevate con il sistema estensivo gli ac-coppiamenti sono ritardati sui 15-18 mesi.

Il tasso di parti gemellari risulta compreso tra il 10 ed il 25% in cinque allevamenti, mentre in uno solo il tasso di gemellarità raggiunge un valore del 25%. La gemella-rità è piuttosto ridotta in accordo con i dati riportati per la razza in letteratura. Anche il numero di agnelli nati

per anno è omogeneo in tutti gli allevamenti e risulta superiore a 100 capi. Gli agnelli vengono svezzati a 3 mesi, tranne in due casi in cui lo svezzamento viene leg-germente anticipato. La carriera riproduttiva dei maschi raggiunge valori superiori ai 6 anni in quattro aziende e compresi tra 4 e 6 anni nelle restanti due aziende, mentre per le femmine la carriera riproduttiva supera i 6 anni in tutti gli allevamenti, eccetto in uno che non raggiunge tale valore.

La quota di rimonta risulta inferiore al 20% in quattro aziende, compresa tra 20% e 30% in una azienda e supe-riore al 30% nella restante. La mortalità annuale presen-ta valori molto variabili nelle diverse aziende, compresi tra meno di 10 e più di 50 capi.

La produzione del latteGli aspetti quantitativi legati alla produzione di latte

sono riportati in tabella 1. La durata della lattazione as-sume valori inferiori a 140 giorni in quattro allevamenti e compresi tra 140 e 250 giorni nelle restanti due azien-de. La quantità di latte prodotto da ogni singola pecora nel corso della lattazione è inferiore a 50 litri in tre del-le aziende, mentre è compreso tra 50 e 100 litri in due aziende e tra 100 e 200 litri in una sola azienda.

La pecora Gentile fa registrare, come si vede, una modesta produzione di latte, concentrata nei primi mesi di lattazione e per lo più destinato all’allattamento dell’agnello.

Il latte prodotto al secchio è destinato in parte alla trasformazione casearia in azienda ed in parte alla ven-dita al caseificio. La ridotta produzione giustifica valori elevati dei singoli componenti del latte come grasso e proteine, come riportato in tabella 1.

La composizione quanti–qualitativa del latte prodot-to da pecore appartenenti alla razza Gentile di Puglia, proveniente dalle aziende sottoposte all’indagine, è stata valutata su circa 150 campioni di latte individuale. Su tutti i campioni di latte fresco sono stati misurati il pH, il contenuto in grasso, proteine e lattosio, ed il contenuto in cellule somatiche del latte. La misura del pH è stata effettuata tramite un pHmetro dotato di elettrodo a vetro (pH meter GLP 22, Crison Instruments S.p.a.- Espana).

La determinazione del contenuto in grasso, proteine e lattosio è stata eseguita seguendo le procedure di la-boratorio standardizzate in accordo con le direttive dell’ International Diary Federation, mediante il Milko Scan (Milko Scan 133B; Foss Electric, Dk 3400 Hillerød, Denmark).

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la razza gentile di Puglia325

La conta delle cellule somatiche è stata eseguita uti-lizzando lo strumento Fossomatic 90 (Foss Electric) me-diante l’applicazione del metodo opto-fluometrico. Ai fini di tale metodo si considerano le particelle aventi una intensità di fluorescenza minima dovuta alla colorazione del DNA del nucleo.

I bassi valori di lattosio registrati potrebbero essere invece ascritti ad un effetto combinato imputabile sia alla minore presenza nella dieta di carboidrati non strut-turali sia alle carenze di cure igieniche a livello azienda-le. Anche in un precedente lavoro (Ragni et al, 2001) è emersa sia una minore produzione di latte ed una ridotta durata della lattazione, sia una concentrazione in lattosio nel latte di pecore di razza Gentile di Puglia inferiore, ri-spetto ad altre razze (Comisana, Altamurana e Leccese).

Vale la pena sottolineare che, poiché il lattosio rap-presenta il componente osmoticamente attivo del latte, oscillazioni di tale nutriente sono legate a più impor-tanti variazioni nella produzione del secreto. In effetti, l’indagine questionaria evidenzia che le aziende stu-diate sono caratterizzate da un sistema di allevamento semi-intensivo, ossia basato principalmente sulla tecnica del pascolamento con integrazione in stalla. La minore concentrazione di lattosio potrebbe essere, pertanto, im-putata ad una carenza energetica ascrivibile ad una mi-nore integrazione di concentrati nella dieta. Inoltre, la bassa concentrazione di lattosio nel latte potrebbe essere dovuta anche alla ridotta funzionalità della ghiandola mammaria nel processo di sintesi, a seguito di fenomeni mastitici. A conferma di ciò, gli elevati valori registrati a carico del pH ci inducono a pensare che gli anima-li potrebbero essere affetti da processi infiammatori, a carico della ghiandola mammaria, anche non manifesti clinicamente.

In precedenti esperienze (Albenzio et al., 2003), ab-biamo rilevato che l’allattamento naturale rappresenta

una delle principali fonti di colonizzazione della ghian-dola mammaria e di contaminazione batterica del latte. Alla luce di questa affermazione, considerato che, nelle aziende oggetto dell’indagine, gli agnelli sono stati al-lattati naturalmente, si potrebbe ipotizzare che il redo abbia veicolato, nel corso della suzione, batteri capaci di colonizzare il canale del capezzolo. Tali batteri potreb-bero essere responsabili di infiammazioni a carico della mammella, anche non manifeste clinicamente. Questa riflessione potrebbe, ancora una volta, giustificare gli elevati valori di pH e i bassi valori di lattosio rispetto ai dati riportati in letteratura (Sevi et al., 1998; Perna et al., 2000) per il latte prodotto da pecore Gentile di Puglia.

Analizzando i singoli componenti del latte in fun-zione dell’azienda emergono differenze significative (P<0.001) tra le stesse. L’elevata variabilità dei compo-nenti tra le aziende, in termini di contenuto in grasso, proteine e lattosio del latte prodotto, potrebbe essere ascritta alle differenze nel management di allevamento (alimentazione, cure igieniche, collocazione geografica dell’azienda). Considerato che il latte ovino viene com-pletamente destinato alla trasformazione casearia, questo risultato potrebbe apparire allarmante nel momento in cui si cerca di destinare il latte di Gentile alla produzione di formaggi tipici. Infatti, l’elevata variabilità registrata a carico dei componenti principali del latte, responsabi-li del processo di trasformazione casearia, si potrebbe riflettere negativamente sulla standardizzazione del for-maggio prodotto.

È riportato anche in un precedente lavoro (Pinto et al., 1979) come la Gentile di Puglia presenti una va-

Azienda P 1 2 3 4 5 6 ESM AziendapH 6.87a 6.85a 7.17c 6.72b 6.82a 7.10c 00:03 ***Grasso 10.86a 12.00c 8.29b 8.12b 9.21d 10.41a 00:03 ***Proteine 7.64b 8.06c 6.76a 6.90a 7.49b 7.44b 00:13 ***Lattosio 3.79b 3.76bc 3.32a 4.09d 4.19d 3.56c 00:08 ***a, b, c, d, Valori medi all’interno delle stesse righe seguiti da lettere diverse differiscono significativamente con P< 0.05; *** P< 0.001

Tabella 1. Valori medi della composizione chimica del latte in funzione delle aziende oggetto dell’indagine sperimentale. Valori medi ± ESM (errore standard medio).

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326i risultati

riabilità nella produzione e nella composizione chimica del latte, maggiore rispetto ad altre razze, soprattutto nella fase dell’asciutta. Durante tale periodo la Genti-le presenta produzioni molto inferiori rispetto ad altre razze (Pinto et al., 1979, Ragni et al., 2001), anche a causa dell’allontanamento del redo. È noto infatti come la Gentile di Puglia manifesti un’elevata attitudine ma-terna, che si riflette in uno stimolo della gallattopoiesi dell’agnello durante le fasi dell’allattamento ed in un brusco calo produttivo in coincidenza dello svezzamen-to, influendo così anche sulla durata della lattazione.

Anche i pochi dati presenti in letteratura riguardo alla variabilità genetica della razza (Moioli et al., 2006) confermano la presenza di una elevata eterogeneità al suo interno, imputabile alla mancanza di schemi selet-tivi specifici verso una delle attitudini produttive (latte, carne, lana), più che ad incroci con altre razze caratte-rizzate da migliori performance produttive.

La produzione della carneI dati relativi alla produzione della carne sono stati

elaborati partendo da un campione di circa 100 agnelli provenienti dalle diverse aziende coinvolte nello studio. Nel complesso ne è emerso uno scenario fatto di luci e di ombre. Tra gli elementi positivi vi sono certamente i dati confortanti relativi all’accrescimento medio degli agnelli, quelli relativi ai pesi al macello ed alle rese di macellazione, che scaturiscono da un innalzamento, per quanto non marcato, dell’età di macellazione, la buona collocazione delle carcasse nella griglia di valutazione UE, con una netta prevalenza di carcasse di categoria B (da 7,1 a 10 kg) ed una del tutto sporadica presenza di carcasse di II qualità. L’elemento meno positivo è legato alla forte variabilità rilevata in molti dei parametri pro-duttivi, indice probabilmente di un’ampia variabilità ge-

netica e/o di una diversa qualità del management azien-dale. Resta poi, come punto dolente e tuttora irrisolto, la mancanza di disciplinari di produzione e, conseguen-temente, di un marchio d’origine che consenta alle car-casse degli agnelli Gentili di Puglia di ricevere la giusta gratificazione dal mercato.

Nel dettaglio, dalla tabella 2 si evince che l’età media di macellazione del campione di agnelli da noi consi-derato si attesta intorno a 50 giorni di età, sia pure con forti oscillazioni (da meno di 40 e fino ad 80 giorni di età), legate soprattutto alla concentrazione delle vendite nell’immediata prossimità del Natale e della Pasqua. Il peso vivo al macello si attesta intorno ai 14 kg, con ac-crescimenti medi che superano, sia pur di poco, e con forte variabilità inter-aziendale, i 200 g/die. I pesi in car-cassa sono superiori agli 8 kg per rese di macellazione che si attestano su valori di poco superiori al 60%.

Le valutazioni relative alle caratteristiche quali-quan-titative della carne sono state effettuate (nel mese di apri-le 2006) su un numero rappresentativo di agnelli, tramite rilievi del peso della carcassa, ed ove possibile delle rese di macellazione, nonché della qualità della carcassa sulla base dei criteri UE – griglia Mediterranea.

Dal grafico relativo (Fig. 1) alla ripartizione degli agnelli per classi di accrescimento si evidenzia che il 50% del campione considerato nello studio ha fatto regi-strare incrementi ponderali superiori ai 200 g/die, men-tre solo il 5% dei soggetti ha presentato accrescimenti inferiori ai 160 g/die e poco più del 20% accrescimenti compresi tra 160 e 180 g/die.

La ripartizione delle carcasse in classi di peso (Fig.

Pesi vivi, accrescimenti e rese al macello di agnelli Gentili di Puglia

Età di macellazione

Peso vivo al macello Accrescimento Peso carcassa

a caldoPeso carcassa

a freddo Resa a caldo Resa a freddo

giorni Kg g/d kg kg % %

49,4 14,04 208,8 8,55 8,05 61,27 60,04

Dev. St. Dev. St. Dev. St. Dev. St. Dev. St. Dev. St. Dev. St.

± 10,3 ± 2,89 ± 41,4 ± 1,43 ± 1,16 ± 2,33 ± 1,90

Tabella 2. Pesi vivi, accrescimenti e rese al macello di agnelli Gentili di Puglia.

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la razza gentile di Puglia327

2) evidenzia una larga preponderanza di carcasse di peso compreso tra gli 8 ed i 9 kg, percentuali molto simili (in-torno al 25%) di carcasse rientranti nelle classi di peso da 9 a 10 e da 10 ad 11 kg, una modesta percentuale (poco più del 5%) di carcasse di peso superiore ad 11 kg.

Circa i 2/3 delle carcasse considerate hanno dato rese comprese tra il 60 ed il 63%, valori che possono consi-derarsi del tutto soddisfacenti. Della restante parte, circa la metà (19%) ha presentato una resa compresa tra il 57 ed il 60%, mentre le classi di resa in carcassa con valo-ri superiori al 63% o inferiori al 57% hanno raggiunto un’incidenza pari a circa il 10% ciascuna (Fig. 3).

Nessuna delle carcasse valutate (Fig. 4) è risultata ap-partenere alla categoria A (peso fino a 7 kg), mentre oltre l’80% è rientrato nella categoria B (peso compreso fra 7,1 e 10 kg) e la restante parte nella categoria C (da 10,1 a 13 kg). Per quasi tutte le carcasse (97%) il colore del

muscolo è rientrato nelle classi “Rosa” o “Rosa chiaro”, mentre l’adiposità si è sempre attestata su valori com-presi tra 2 e 3. Pertanto, salvo qualche rara eccezione, le carcasse (Fig. 5) sono state valutate di I qualità con riferimento agli standard previsti dalla “Griglia Mediter-ranea” (Reg. CEE n. 2137/92 e n. 461/93).

Considerati i lusinghieri risultati della valutazione della carcassa, ulteriore impulso alla valorizzazione del-le carni dell’agnello Gentile di Puglia potrebbe deriva-re da indagini specificatamente rivolte alla valutazione dietetico-nutrizionale delle carni, con particolare riferi-mento alla composizione acidica del grasso. Alla luce del sistema di allevamento tipicamente estensivo adotta-to per l’allevamento degli ovini Gentili di Puglia, tali in-dagini potrebbero fornire interessanti risultati in termini di contenuto di acidi grassi poli-insaturi e, in particolare, di acidi grassi della serie ω3.

Figura 1. Ripartizione per classi di accrescimento delle carcasse di agnelli Gentili di Puglia.

Figura 2. Ripartizione per classi di peso delle carcas-se di agnelli Gentili di Puglia.

Figura 3. Ripartizione delle carcasse di agnelli Gen-tili di Puglia per resa a caldo.

Figura 4. Ripartizione delle carcasse di agnelli Gen-tili di Puglia per categoria commerciale.

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328i risultati

I caratteri biometriciLa tabella 3 contiene i dati relativi ai caratteri biome-

trici rilevati nel corso dell’indagine, che vengono messi a confronto, in tabella 4, con quelli riportati dagli stan-

dard ufficiali di razza. Gli elementi di maggiore interes-se che emergono dalla loro analisi sono due: il primo è relativo alla maggiore omogeneità dei dati della nostra indagine rispetto a quelli contenuti nel disciplinare mi-

Caratteri biometrici Maschi Femmine

n. media min. max ds CV n. media min. max ds CV

Altezza al garrese 16 73,3 69 78 2,8 3,9 47 58,9 53 67 2,6 4,4

Altezza alla groppa 16 75,9 70 80 3,1 4,1 47 61,7 55 71 3,1 5

Altezza toracica 16 32,1 30 34 0,9 2,8 47 28,1 25 32 1,6 5,9

Larghezza toracica 16 20,2 17 25 1,9 9,7 47 18,6 14 25 1,8 10

Larghezza media della groppa 16 16 14 18 1,2 7,8 47 16,5 13 18 1,3 8,3

Larghezza anteriore della groppa 16 19,5 15 22 1,9 10 47 20,8 16 23,5 1,6 7,9

Lunghezza del tronco 16 77,4 73 90 4,1 5,3 47 69,4 61 76 3,2 4,6

Circonferenza toracica 16 95,9 87 105 4,7 4,9 47 88,5 80 100 5,5 6,2

Caratteri biometrici

Dati ministeriali Popolazione oggetto della sperimentazione

Maschi Femmine Maschi Femmine

Media CV Media CV Media CV Media CV

Altezza al garrese 71 5,2 62 4,6 73,3 3,9 58,9 4,4

Altezza alla groppa 72 5,3 64 5,6 75,9 3,1 61,7 5

Altezza toracica 33 6,5 29 5,9 32,1 2,8 28,1 5,9

Larghezza media della groppa 22 8,5 20 6,6 20 7,8 21 8,3

Lunghezza del tronco 73 5,2 65 5,9 77,4 5,3 69,4 4,6

Circonferenza toracica 94 5,2 85 6,7 95,9 4,9 88,5 6,2

Tabella 3. Caratteri biometrici medi rilevati nel corso della sperimentazione.

Tabella 4. Confronto tra i caratteri biometrici della razza Gentile di Puglia riportati nel disciplinare di produzione ministeriale (1997) e quelli registrati nella popolazione oggetto dell’indagine.

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la razza gentile di Puglia329

nisteriale del 1997; per tutti i parametri infatti, con la sola eccezione della larghezza media della groppa nelle femmine e della lunghezza del tronco nei maschi, i dati raccolti nella nostra indagine presentano un coefficiente di variabilità più contenuto, talvolta dimezzato, rispetto agli standard ufficiali.

Il secondo elemento di interesse è legato alla diver-sa evoluzione dei dati biometrici osservato nei maschi e nelle femmine coinvolti nella nostra indagine; i maschi infatti evidenziano un prevalente aumento delle misure longitudinali, con spostamento verso caratteristiche do-licomorfe, mentre le femmine denunziano nel comples-so un trend opposto.

Le analisi genomicheF. d’Angelo, M. Albenzio, A. Muscio

La caratterizzazione molecolare realizzata impiegan-do il panel di 19 marcatori microsatellite prescelti ha evidenziato la presenza di 184 alleli nella popolazione complessiva (N = 84). Tutti i loci sono risultati polimor-fici, con un numero di alleli compreso tra 4 (BM1824) e

15 (OarJMP29) e con un valore medio pari a 9,68 (Tab. 1).

Per rendere confrontabile il numero di alleli osservato nelle sottopopolazioni costituite dai sei diversi alleva-menti (caratterizzate da una numerosità leggermente di-versa del campione) è stato calcolato, usando il pacchetto statistico FSTAT, il parametro allele richness (Tab. 2), un indice del numero di alleli presenti in un campione po-polazionistico indipendentemente dalle dimensioni dello stesso. (Hurlbert, 1971; El Mousadik e Petit, 1996). Tale analisi ha evidenziato i valori maggiori di allele richness medio nell’allevamento 3 (FG) ed i valori minori negli allevamenti 1 (FG) e 2 (FG).

L’analisi della distribuzione degli alleli nelle sei sotto-popolazioni, definite sulla base dell’allevamento di origi-ne dei soggetti, evidenzia la presenza di numerosi alleli privati (osservati in una sola delle sei sottopopolazioni), pari al 23% degli alleli complessivamente osservati nel campione di razza Gentile di Puglia; di questi, il 32% sono stati osservati nell’allevamento 3 e la restante fra-zione ripartita in modo pressoché omogeneo tra tutti gli altri allevamenti. Si tratta generalmente di alleli rari, con frequenze solitamente inferiori al 10% (calcolate con-

Figura 5. Carcasse di agnelli Gentili di Puglia.

Page 330: Book Final Version

330i risultati

siderando la numerosità di ciascuna sottopopolazione), ad eccezione di cinque alleli osservati, rispettivamente, per l’allevamento 6 (INRA63; 18%), per l’allevamento 4 (MAF70; 11%), per l’allevamento 3 (OarJMP29; 11% e BM8125; 14%), e per l’allevamento 2 (OarFCB304; 15%).

Il numero maggiore di alleli privati (5) è stato osser-vato per il locus MAF214, che aveva mostrato 12 al-leli nella popolazione complessiva, mentre i marcatori BM1824 e OarVH72 non hanno presentato alleli priva-ti.

Il valore medio di eterozigosità osservata è pari a 0,683, con un valore minimo di 0,357 (OarAE129) ed un valore massimo di 0,869 (MAF209). Il valore medio di eterozigosità attesa per la popolazione complessiva è pari a 0,767, con un valore minimo pari a 0,547 (Oar-

FCB193) ed uno massimo pari a 0,883 (MAF70). Dei 19 marcatori microsatellite complessivamente

analizzati, quattro loci (OarAE129, ILSTS28, ILSTS5 e MAF33) hanno presentato una significativa deviazio-ne rispetto alle proporzioni attese in base all’equilibrio di Hardy-Weinberg (P< 0,01), caratterizzata per tutti i quattro loci da un considerevole difetto di genotipi ete-rozigoti.

L’analisi all’interno di ciascuna sottopopolazione ha evidenziato valori medi di eterozigosità osservata mag-giori per l’allevamento 4 e minori per gli allevamenti 1 e 2 (Tab. 3). In termini di rispetto delle proporzioni dell’equilibrio di Hardy-Weinberg, sono risultati in si-

Locus Cromosoma Na Ho He POarAE129 5 6 0,357 0,71 0BM1824 1 4 0,524 0,67 0,014BM8125 17 6 0,524 0,591 0,277OarFCB128 2 8 0,714 0,776 0,374OarFCB193 11 6 0,536 0,547 0,568OarFCB304 19 11 0,762 0,765 0,145ILSTS11 9 8 0,702 0,756 0,584ILSTS0028 3 11 0,452 0,827 0ILSTS0005 7 9 0,69 0,841 0,001INRA063 14 12 0,795 0,822 0,912OarJMP29 24 15 0,805 0,841 0,624OarJMP58 26 12 0,843 0,792 0,399MAF214 16 12 0,786 0,796 0,905MAF209 17 11 0,869 0,832 0,977MAF33 9 10 0,69 0,833 0MAF65 15 9 0,663 0,729 0,519MAF70 4 15 0,774 0,883 0,217MCM0140 6 11 0,75 0,801 0,043OarVH72 25 8 0,738 0,768 0,122Media 9,68 0,683 0,767 Na : numero di alleli; Ho: eterozigosità osservata; He: eterozigosità attesa; P: valore di probalità

Tabella 1. Parametri di diversità genetica dei sogget-ti di razza Gentile di Puglia.

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la razza gentile di Puglia331

gnificativo (P< 0,01) disequilibrio i loci OarAE129 (al-levamenti 1, 4 e 5), ILSTS28 (allevamenti 2, 4, 5 e 6), MAF33 (allevamento 5), tutti caratterizzati da un consi-derevole difetto di genotipi eterozigoti.

Dal momento che due coppie di loci si trovano sul-lo stesso cromosoma (ILSTS011/MAF33 e BM8125/MAF209, rispettivamente), il livello di linkage disequi-librium (o sbilanciamento gametico) tra tutte le possibili coppie di loci è stato testato mediante il software Arle-quin. Su un totale di 171 confronti a coppie possibili con 19 loci, 7 confronti (4%) sono risultati in significativo disequilibrio (P< 0,01) per la popolazione complessiva. Nessuna delle due coppie di loci sintenici, è risultata in significativo disequilibrio nella popolazione. L’analisi dello sbilanciamento gametico nelle sotto-popolazioni

evidenzia, inoltre, come nessuna delle due coppie sinte-niche contribuisca a tale sbilanciamento in nessuna delle sotto-popolazioni.

I risultati indicano la presenza di un livello molto contenuto di sbilanciamento gametico anche nelle sotto-popolazioni (allevamenti), con il 2,9% dei possibili con-fronti a coppie di loci in significativo disequilibrio per l’allevamento 2 e proporzioni inferiori per tutti gli altri allevamenti, sebbene le numerosità contenute dei cam-pioni popolazionistici suggeriscano di interpretare con

Allele RichnessLocus 1 2 3 4 5 6OarAE129 3 3 5 5 4 4BM1824 3 4 3 4 4 4BM8125 5 3 4 3 4 4OarFCB128 6 6 6 5 7 4OarFCB193 3 4 3 5 3 3OarFCB304 5 7 7 5 4 6ILSTS11 6 4 7 5 5 6ILSTS28 6 7 8 5 7 7ILSTS5 7 6 6 7 7 7INRA063 6 7 9 5 5 4OarJMP29 8 9 7 9 7 8OarJMP58 8 6 6 5 9 8MAF209 5 6 8 9 9 7MAF214 6 7 7 5 6 7MAF33 6 7 5 7 7 9MAF65 5 5 5 4 5 6MAF70 10 8 9 10 7 9MCM140 5 4 8 6 7 6OarVH72 4 4 6 7 6 6Media 5,63 5,63 6,26 5,84 5,95 6,05Ho: eterozigosità osservata; He: eterozigosità attesa; P: valore di probalità

Tabella 2. “Allele richness” per le sottopolazioni de-finite in base all’allevamento e per la popolazione totale di Gentile di Puglia.

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332i risultati

cautela i dati osservati.La differenziazione tra le sei sotto-popolazioni è sta-

ta indirettamente indagata attraverso l’adozione di un population assignment test basato su un approccio di maximum likelihood. I risultati indicano che l’approc-cio adottato è in grado di attribuire in modo corretto alla sotto-popolazione di origine tutti i soggetti considerati (100% di corrette attribuzioni).

Ciò suggerisce la presenza di un marcato livello di differenziazione tra le sei sotto-popolazioni, ovvero, di un elevato livello di omogeneità all’interno di ciascuna sotto-popolazione.

L’omogeneità genetica all’interno dei singoli alleva-menti è testimoniata anche dai valori di similarità ge-netica (Tab. 4) relativamente elevati e sempre maggiori rispetto a quanto osservato per la popolazione comples-

siva (0,318). Il valore maggiore di similarità genetica è stato riscontrato per l’allevamento 6 (0,388) e quello mi-nore per l’allevamento 2 (0,350).

Le distanze genetiche ed i coefficienti di coancestry (Tab. 5) sono stati calcolati sulle due province di prove-nienza degli allevamenti (Foggia e Campobasso), consi-derate come sotto-popolazioni della popolazione totale esaminata.

Per la popolazione della provincia di Foggia è emer-sa la presenza di una maggiore omozigosità individuale, rappresentata dal coefficiente di self molecular coance-stry (si), ed un coefficiente di inbreeding più elevato tra

Allev. 1 Allev. 2 Allev. 3Locus Ho He P Ho He P Ho He POarAE129 0 0,612 0 0,308 0,625 0,021 0,643 0,81 0,086BM1824 0,462 0,714 0,119 0,692 0,72 0,86 0,643 0,664 1BM8125 0,462 0,628 0,402 0,538 0,643 1 0,571 0,646 0,412OarFCB128 0,769 0,815 0,155 0,769 0,791 0,461 0,786 0,751 0,957OarFCB193 0,462 0,495 1 0,846 0,711 0,599 0,5 0,563 1OarFCB304 0,769 0,775 0,584 0,846 0,834 0,312 0,714 0,709 0,693ILSTS11 0,769 0,831 0,386 0,615 0,618 1 0,786 0,778 0,934ILSTS28 0,538 0,766 0,128 0,231 0,874 0 0,714 0,86 0,043ILSTS5 0,846 0,831 0,94 0,538 0,809 0,036 0,571 0,836 0,081INRA63 0,846 0,812 0,661 0,846 0,84 0,986 0,714 0,788 0,511OarJMP29 0,692 0,778 0,164 0,692 0,892 0,21 0,714 0,759 0,267OarJMP58 0,846 0,831 0,891 0,615 0,726 0,533 1 0,788 0,439MAF214 0,846 0,702 0,235 0,692 0,831 0,146 0,714 0,746 0,172MAF209 0,846 0,735 0,481 0,769 0,766 0,972 0,929 0,892 0,564MAF33 0,846 0,822 0,67 0,692 0,883 0,218 0,571 0,815 0,03MAF65 0,615 0,766 0,102 0,769 0,769 0,827 0,5 0,714 0,317MAF70 0,769 0,898 0,477 0,769 0,855 0,454 0,643 0,836 0,097MCM140 0,615 0,708 0,526 0,692 0,603 0,868 0,786 0,836 0,711OarVH72 0,692 0,748 0,122 0,692 0,732 0,324 0,714 0,743 0,933Media 0,668 0,751 0,664 0,764 0,695 0,765

Tabella 3. Rispetto delle proporzioni di Hardy Wein-berg nelle sotto-popolazioni di Gentile di Puglia (alleva-menti). [continua]

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la razza gentile di Puglia333

i soggetti. Il valore più elevato della distanza media di kinship (Dk) (Caballero et Toro, 2002), accompagnato dal valore inferiore del coefficiente di molecular coan-cestry medio dell’intera popolazione fij nella provincia di Foggia sembra deporre per una maggiore differenzia-zione ancestrale di questa popolazione, rispetto a quella della provincia di Campobasso.

Dai confronti tra le due province (Tab. 6) emergono dei valori intermedi rispetto a quelli calcolati singolar-mente sulle due province per i parametri si, inbreeding, fij e Dk.

Dalle statistiche F di Wright (1978) sulla popolazio-ne totale, sembra emergere che la varianza maggiore all’interno della popolazione totale sia da attribuire alla presenza di inbreeding all’interno della popolazione, più

che ad una strutturazione in sotto-popolazioni. Nelle tabelle 7, 8 e 9 vengono riportati i valori di

coancestry, distanza media di Kinship e coefficiente di inbreeding per i singoli allevamenti, confrontati per pro-vincia di appartenenza.

Gli allevamenti caratterizzati dal più elevato valore di inbreeding e self molecular coancestry sono gli alleva-menti 1 e 2 della provincia di Foggia, mentre quelli con i valori più bassi al loro interno sono l’allevamento 1 della provincia di Campobasso e l’allevamento 3 della pro-

Allev. 4 Allev. 5 Allev. 6Locus Ho He P Ho He P Ho He POarAE129 0,357 0,802 0,002 0,308 0,711 0,002 0,5 0,643 0,221BM1824 0,5 0,743 0,036 0,385 0,582 0,089 0,5 0,73 0,072BM8125 0,5 0,672 0,062 0,615 0,628 0,858 0,571 0,598 0,845OarFCB128 0,857 0,786 0,181 0,692 0,757 0,892 0,429 0,519 0,246OarFCB193 0,5 0,561 0,383 0,385 0,44 0,668 0,5 0,405 1OarFCB304 0,571 0,688 0,024 0,846 0,72 0,505 0,786 0,683 0,944ILSTS11 0,643 0,733 0,205 0,769 0,735 0,882 0,714 0,77 0,887ILSTS28 0,5 0,804 0,008 0,385 0,843 0 0,357 0,873 0ILSTS5 0,857 0,886 0,695 0,615 0,855 0,406 0,786 0,86 0,357INRA63 0,786 0,794 0,867 0,846 0,766 0,935 0,714 0,704 0,254OarJMP29 0,929 0,87 0,818 0,846 0,837 1 0,929 0,804 0,736OarJMP58 0,857 0,696 0,458 0,846 0,865 0,64 0,857 0,802 0,297MAF214 0,786 0,741 0,115 0,692 0,791 0,706 0,929 0,833 0,983MAF209 0,929 0,817 0,893 1 0,855 0,998 0,786 0,86 0,087MAF33 0,786 0,823 0,148 0,615 0,865 0,001 0,714 0,849 0,639MAF65 0,643 0,638 0,42 0,615 0,495 1 0,786 0,751 0,899MAF70 0,786 0,934 0,199 0,846 0,8 0,936 0,786 0,855 0,886MCM140 0,857 0,802 0,651 0,846 0,812 0,646 0,714 0,767 0,445OarVH72 0,786 0,735 0,919 1 0,8 0,784 0,571 0,783 0,351Media 0,707 0,764 0,692 0,745 0,68 0,741 Ho: eterozigosità osservata; He: eterozigosità attesa; P: valore di probalità

Tabella 3. Rispetto delle proporzioni di Hardy Wein-berg nelle sotto-popolazioni di Gentile di Puglia (alle-vamenti). [fine]

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334i risultati

vincia di Foggia. La distanza media di kinship assume un valore maggiore nella popolazione della provincia di Foggia, soprattutto nell’allevamento 2, mentre assume il valore minore nell’allevamento 1 della provincia di Campobasso.

Il coefficiente di molecular coancestry medio di po-polazione è risultato essere più elevato negli allevamenti 1 e 4 della provincia di Foggia e nell’allevamento 2 della provincia di Campobasso, mentre è più basso nell’alle-vamento 2 della provincia di Foggia.

È interessante osservare come il valore di FST tra le due province sia inferiore rispetto al valore di tale pa-rametro tra gli allevamenti interni alle province. Tale ri-sultato sembrerebbe indicare che la suddivisione della popolazione complessiva in sottopopolazioni sia princi-palmente ascrivibile al fattore “allevamento” piuttosto che al fattore “provincia”.

Il parametro FIS ha mostrato un valore maggiore tra le due province piuttosto che tra i diversi allevamenti ed anche i valori di self molecular coancestry e di in-breeding sono più elevati tra le due province, che tra i due allevamenti della provincia di Campobasso e tra gli allevamenti 3 e 4 della provincia di Foggia.

Gli altri confronti tra gli allevamenti della provincia di Foggia evidenziano invece valori di self molecular co-ancestry ed inbreeding maggiori rispetto al confronto tra le due province.

Questi risultati sembrano indicare una strutturazione in sottopopolazioni, principalmente ascrivibile alla pre-senza di inbreeding nella provincia di Foggia. La popo-lazione della provincia di Campobasso presenta invece una minore differenziazione di tipo ancestrale, ma una minore presenza di inbreeding ed omozigosità.

I risultati relativi alle distanze genetiche (Nei, 1987, Reynolds et al., 1983, Caballero et Toro, 2002) eviden-ziano maggiori distanze tra alcuni allevamenti interni alle province, rispetto alle distanze tra le due province. In particolare i due allevamenti della provincia di Cam-pobasso e le coppie di allevamenti 1 - 2 e 1 - 3 della pro-vincia di Foggia sono risultati essere quelli più distanti tra loro, mentre quelli più simili gli allevamenti 2 e 4 della provincia di Foggia.

Attraverso il software Structure è stata analizzata la struttura di popolazione. È stata simulata la suddivisione della popolazione totale in un numero di sotto-popola-zioni compreso tra 1 e 8, al fine di trovare il valore che presentasse la probabilità di likelihood maggiore. Effet-tuando l’analisi con un modello “no admixture”, nel qua-

Campione N Media Dev.St. Range1 13 0,37 0,017 0,18 - 0,582 13 0,35 0,015 0,08 - 0,533 14 0,364 0,017 0,18 - 0,534 14 0,374 0,018 0,18 - 0,535 13 0,368 0,017 0,21 - 0,666 14 0,388 0,018 0,24 - 0,68

Totale 82 0,318 0,014 0,08 - 0,68

Tabella 4. Valori di similarità genetica entro la razza ed entro i singoli allevamenti.

Foggia CampobassoN° 55 27Self molecular coancestry (si) 0,663 0,652Inbreeding 0,326 0,304Molecular coancestry medio dell’intera popolazione (fij)

0,237 0,262

Distanza media di kinship (Dk) 0,426 0,390

Tabella 5. Coefficiente di inbreeding, molecular coancestry (fij) e distanza media di kinship (Dk) nella razza Gentile di Puglia: elaborazioni effettuate per Provincia.

Foggia-Campobasso

Self molecular coancestry (si) 0,659Inbreeding 0,319Molecular coancestry medio dell’intera popolazione (fij)

0,234

Distanza media di kinship (Dk) 0,414Nei’s standard Distance 0,047Reynolds Distance 0,015FIS 0,098FST 0,015FIT 0,111

Tabella 6. Coefficiente di inbreeding, molecular co-ancestry (fij) e distanza media di kinship (Dk) nella razza Gentile di Puglia: confronti tra le due Province.

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la razza gentile di Puglia335

le viene calcolata la probabilità che ogni soggetto appar-tenga ad una popolazione senza considerare la possibili-tà che ci siano antenati comuni con le altre popolazioni, si è ottenuta la likelihood più probabile per un numero di sotto-popolazioni pari a tre.

Le popolazioni assegnate più nettamente sono state gli allevamenti 1, 2 e 5, i cui soggetti sono stati attri-buiti a tre popolazioni ben distinte tra loro. I soggetti degli allevamenti 3, 4 e 6 si sono invece suddivisi tra le popolazioni di attribuzione degli allevamenti 1 e 5. In particolare l’allevamento 4 sembrerebbe avvicinarsi maggiormente all’allevamento 1, mentre gli allevamenti 3 e 6 all’allevamento 5. L’allevamento 2 si è invece di-

stinto da tutti gli altri. Anche nella suddivisione in quat-tro sotto-popolazioni, gli allevamenti 1, 2 e 5 sono risul-tati essere quelli con la maggiore attribuzione corretta di soggetti. L’allevamento 4 si è nuovamente avvicinato in misura maggiore all’allevamento 1 e gli allevamenti 3 e 6 si sono suddivisi tra le popolazioni di attribuzione delle aziende 1 e 5. L’allevamento 2, anche in questo caso, è risultato essere nettamente differente dagli altri. Suddividendo la popolazione in un numero di sotto-po-polazioni maggiore di quattro, si sono invece ottenute attribuzioni meno nette dei soggetti alle effettive popo-lazioni di appartenenza.

Effettuando la stessa analisi con il modello “admixtu-

Campobasso Allev. 1 - Allev. 2 Allevamento 1 Allevamento 2N° 27 13 14Self molecular coancestry (si) 0,652 0,647 0,657Inbreeding 0,304 0,295 0,313Molecular coancestry medio dell’intera popolazione (fij) 0,262 0,279 0,304Distanza media di kinship (Dk) 0,36 0,368 0,353Nei’s standard Distance 0,114Reynolds Distance 0,041FIS 0,018FST 0,040FIT 0,058

Tabella 7. Coefficiente di inbreeding, molecular coancestry (fij) e distanza media di kinship (Dk) nella razza Gentile di Puglia: elaborazioni effettuate per i due allevamenti della provincia di Campobasso.

Foggia Allev 1 Allev 2 Allev. 3 Allev. 4N° 13 14 14 14Self molecular coancestry (si) 0,667 0,670 0,653 0,663Inbreeding 0,333 0,341 0,305 0,325Molecular coancestry medio dell’intera popolazione (fij) 0,290 0,269 0,274 0,288Distanza media di kinship (Dk) 0,376 0,401 0,379 0,375

Tabella 8. Coefficiente di inbreeding, molecular coancestry (fij) e distanza media di kinship (Dk) nella razza Gentile di Puglia: elaborazioni effettuate per i quattro allevamenti della provincia di Foggia.

Page 336: Book Final Version

336i risultati

re”, che include la possibilità che i soggetti abbiano degli antenati comuni nelle diverse popolazioni, si è ottenuta la likelihood maggiore per un numero di sotto-popola-zioni pari a due popolazioni. In tutti gli allevamenti, ad eccezione dell’azienda 4, la maggioranza dei soggetti sono stati assegnati correttamente. Gli allevamenti 1 e 6 sono stati assegnati ad un cluster di appartenenza, men-tre gli allevamenti 2, 3 e 5 ad un altro cluster. I soggetti dell’allevamento 4 sono stati invece suddivisi pressoché equamente tra i due gruppi.

I risultati scaturiti da questa assegnazione sembrano confermare il fatto che la strutturazione in sottopopola-zioni non sia rappresentata dalle due province di appar-tenza, ma che vi siano delle somiglianze maggiori tra alcuni allevamenti appartenenti a province diverse, piut-tosto che all’interno della provincia di origine.

L’analisi genomica degli ovini di razza Gentile alle-vati in Basilicata

C. Senese, P. Di Gregorio, A. Rando

Le stesse analisi sono state effettuate sui campioni di DNA ottenuti da 57 individui di razza Gentile allevati in Basilicata in una azienda sita nel comune di Grumento Nova (Pz) e su 22 campioni di DNA estratti nel 1982 da campioni ematici raccolti al macello da ovini della stessa razza. L’intervallo di tempo intercorso tra la raccolta dei due gruppi di campioni, molto probabilmente, dovreb-be corrispondere a 6-7 generazioni. In Tabella 10 sono riportati i risultati relativi al numero di alleli e all’etero-zigosità attesa e osservata nei 19 loci considerati. Sol-tanto in tre casi (OARFCB193, MAF209 e MCM0140) l’eterozigosi osservata è leggermente superiore a quella attesa, mentre per tutti gli altri loci l’eterozigosi attesa è superiore a quella osservata. In quattro casi (BM1824, ILSTS0005, INRA063 e MAF214) la frequenza de-gli eterozigoti osservati è significativamente minore (P<0,05) rispetto alle attese di Hardy-Weinberg. Questi risultati potrebbero essere dovuti alla presenza di alle-li nulli che certamente nelle analisi di popolazione dei loci microsatelliti non possono essere esclusi, a stratifi-cazione genetica del campione analizzato o a inincrocio. In tabella 11 si possono osservare dei valori dei coeffi-

Foggia

Allev. 1

vs.Allev. 2

Allev. 1vs

Allev. 3

Allev. 1vs

Allev. 4

Allev. 2vs

Allev. 3

Allev. 2vs

Allev. 4

Allev. 3vs

Allev. 4N° 27 27 27 28 28 28Self molecular coancestry (si) 0,669 0,659 0,665 0,662 0,667 0,658Inbreeding 0,337 0,319 0,329 0,323 0,333 0,315Molecular coancestry medio dell’intera popolazione (fij)

0,245 0,248 0,264 0,412 0,257 0,253

Distanza media di kinship (Dk) 0,389 0,377 0,376 0,390 0,388 0,377Nei’s standard Distance 0,138 0,137 0,095 0,127 0,083 0,110Reynolds Distance 0,046 0,046 0,034 0,041 0,029 0,038FIS 0,080 0,051 0,057 0,071 0,076 0,048FST 0,045 0,045 0,034 0,040 0,029 0,037FIT 0,122 0,094 0,089 0,108 0,102 0,083

Tabella 9. Coefficiente di inbreeding, molecular coancestry (fij) e distanza media di kinship (Dk) nella razza Gentile di Puglia: confronti tra i quattro allevamenti della provincia di Foggia.

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la razza gentile di Puglia337

Locus N° sogg N° Alleli range Ho He P s.d.

OarAE129 69 6 132,63-162,99 0,594 0,640 0,249 0,0003BM1824 77 4 167,17-174,36 0,506 0,627 0,029 0,0002BM8125 77 6 103,91-117,50 0,649 0,784 0,157 0,0003OarFCB128 78 6 107,96-125,10 0,782 0,787 0,129 0,0003OarFCB193 79 6 100,35-121,47 0,570 0,539 0,932 0,0002OarFCB304 79 10 162,16-180,68 0,709 0,722 0,450 0,0004ILSTS11 78 6 267,25-282,53 0,667 0,725 0,448 0,0005ILSTS0028 70 11 124,06-175,31 0,729 0,751 0,480 0,0003ILSTS0005 78 7 183,83-199,69 0,590 0,696 0,004 0,0001INRA063 79 11 155,44-190,00 0,747 0,829 0,030 0,0001OarJMP29 78 13 110,56-157,12 0,782 0,830 0,371 0,0004OarJMP58 74 11 128,26-168,42 0,811 0,865 0,173 0,0004MAF214 76 10 153,51-253,56 0,632 0,646 0,046 0,0002MAF209 79 10 102,28-129,74 0,848 0,825 0,958 0,0002MAF33 78 12 118,86-142,38 0,808 0,846 0,074 0,0002MAF65 79 8 120,32-141,87 0,658 0,723 0,273 0,0003MAF70 78 17 130,32-163,31 0,833 0,907 0,354 0,0003MCM0140 76 9 171,10-192,12 0,855 0,851 0,161 0,0003OarVH72 69 7 120,79-135,78 0,725 0,757 0,295 0,0006Ho: eterozigosità osservata; He: eterozigosità attesa; P: valore di probalità

Tabella 10. Numero alleli, eterozigosità attesa e osservata per ogni marcatore nella razza Gentile di Basilicata.

Potenza 2006 Potenza 1982N° 57 22Self molecular coancestry (si)

0,650 0,631

Inbreeding 0,299 0,262Molecular coancestry medio dell’intera popolazione (fij)

0,268 0,253

Distanza media di kinship (Dk)

0,381 0,378

Tabella 11. Coefficiente di inbreeding, molecular coancestry (fij) e distanza media di kinship (Dk) nella razza Gentile di Basilicata: elaborazioni effettuate per gruppi.

Potenza 2006 Potenza 1982N° 57 22Self molecular coancestry (si)

0,650 0,631

Inbreeding 0,299 0,262Molecular coancestry medio dell’intera popolazione (fij)

0,268 0,253

Distanza media di kinship (Dk)

0,381 0,378

Tabella 12. Coefficiente di inbreeding, molecular coancestry (fij) e distanza media di kinship (Dk) nella razza Gentile di Basilicata: confronti tra i due gruppi.

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338i risultati

cienti di self molecular coancestry (0,650) e di inbre-eding (0,299) molto elevati anche se minori rispetto ai dati di Foggia e Campobasso. Questi dati, accoppiati con i risultati del coefficiente di self molecular coancestry (0,631) e di inbreeding (0,262) sensibilmente minori osservati nel campione raccolto un quarto di secolo fa e con la drastica riduzione della consistenza della po-polazione di razza Gentile (che dovrebbe portare ad un ulteriore aumento della consanguineità), pone dei seri problemi sul futuro di questa popolazione. Il confronto tra i due gruppi (Tab. 12) evidenzia distanze genetiche maggiori rispetto a quelle osservate tra gli allevamenti delle province di Foggia e Campobasso (Tab. 5). Di con-seguenza, qualora i due gruppi esaminati fossero rappre-sentativi della popolazione, sembrerebbe che gli effetti dell’attività selettiva dell’uomo nell’arco di un quarto di secolo siano superiori rispetto agli effetti delle decisio-ni dei diversi allevatori che agiscono sulla scelta dei ri-produttori del proprio allevamento nelle due province di Foggia e Campobasso. Questo risultato potrebbe essere spiegato dalla convergenza negli obiettivi di selezione e/o dall’elevato coefficiente di inbreeding.

Conclusioni

Alla luce dei risultati ottenuti, è emerso che la razza Gentile di Puglia risulta essere caratterizzata da due ten-denze contrapposte. Infatti, da un lato la popolazione ha evidenziato una elevata eterogeneità genetica, dall’altro un discreto eccesso di omozigosi. Le cause della etero-geneità osservata potrebbero risiedere nel fatto che, in tempi non recenti, la razza Gentile di Puglia sia stata sottoposta a numerosi incroci con altre razze ovine mag-giormente produttive, come testimoniato dalla presenza di alleli privati rari e dalla bassa similarità genetica. È anche plausibile che i singoli allevatori abbiano operato incroci con razze diverse, a seconda degli intenti selettivi, determinando così una discreta differenziazione geneti-ca, evidenziata dai bassi valori di molecular coancestry medio di popolazione e dall’elevato valore di distanza di kinship. La strutturazione in sottopopolazioni sembre-rebbe invece imputabile ad effetti di deriva genetica e di inbreeding, considerata la drastica contrazione numerica subita dalla popolazione e l’esiguo numero di arieti.

Per quanto concerne la produzione del latte e del-la carne i dati di questa sperimentazione confermano un’elevata variabilità tra le aziende oggetto di studio,

ascrivibile alle differenze nel management di allevamen-to (alimentazione, cure igieniche, collocazione geografi-ca dell’azienda, obiettivi selettivi differenti).

Il recupero delle razze ovine autoctone, come la Gen-tile di Puglia, potrebbe essere perseguito attraverso la valorizzazione delle produzioni. Ad esempio, l’attenzio-ne verso la cura dell’igiene dell’allevamento potrebbe rappresentare un punto di forza nella produzione di for-maggi tipici, come il Canestrato Pugliese, prodotto a partire da latte crudo.

Per quanto attiene la produzione della carne, consi-derati i lusinghieri risultati della valutazione della car-cassa, ulteriore impulso alla valorizzazione delle carni dell’agnello Gentile di Puglia potrebbe derivare da inda-gini specificatamente rivolte alla valutazione dietetico-nutrizionale delle carni, con particolare riferimento alla composizione acidica del grasso.

Prospettive

La razza Gentile di Puglia ha patito notevolmente per le difficoltà che hanno attanagliato la nostra ovinicoltu-ra, senza beneficiare, se non marginalmente, delle favo-revoli prospettive che si andavano delineando nel settore lattiero-caseario.

I risultati di questa sperimentazione confermano in-fatti che la razza Gentile di Puglia produce contenuti vo-lumi di latte, ma di ottime qualità, che tuttavia soffre di una elevata variabilità tra le aziende oggetto di studio, ascrivibile alle differenze nel management di allevamen-to (alimentazione, cure igieniche, collocazione geografi-ca dell’azienda).

Per quanto attiene la produzione della carne, consi-derati i lusinghieri risultati della valutazione della car-cassa, ulteriore impulso alla valorizzazione dell’agnello Gentile di Puglia potrebbe derivare da indagini specifi-catamente rivolte alla valutazione dietetico-nutrizionale delle carni, con particolare riferimento alla composizio-ne acidica del grasso.

Il futuro della razza Gentile di Puglia, come di tanta parte della nostra ovinicoltura, passa, a nostro avviso, attraverso alcune tappe obbligate, la prima delle quali è rappresentata dalla tipizzazione e promozione dei pro-dotti, necessarie a ritagliare per essi lo spazio di merca-to che meritano e reclamano. Tuttavia, ad un’adeguata e doverosa azione di sostegno da parte delle istituzioni, non solo in termini di tutela della tipicità delle derrate

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la razza gentile di Puglia339

ovine, ma anche di strutture ed infrastrutture efficienti, deve affiancarsi l’azione degli allevatori, i quali, con il contributo dei mezzi e delle innovazioni messi a loro disposizione da tecnici e ricercatori in materia di mi-glioramento genetico, di alimentazione, di tecniche ri-produttive, sono chiamati a ricoprire il ruolo di primi e più importanti promotori delle produzioni zootecniche al cospetto di consumatori informati ed esigenti, capaci di distinguere genuinità e salubrità dei prodotti e che, in presenza di una varietà di scelta quasi illimitata, per sce-gliere esigono qualità certa e costante nel tempo.

A nostro avviso gli interventi necessari a conseguire un significativo miglioramento dell’attitudine produttiva per la carne, assolutamente necessario anche alla luce del pesante deficit carneo del nostro Paese, sono da rav-visare in:

- miglioramento genetico, attraverso la selezione di individui e linee genetiche caratterizzate da mole e capa-cità di accrescimento superiori, nonché da elevato tasso di gemellarità;

- ricorso all’incrocio industriale con l’impiego di raz-ze estere specializzate nella produzione della carne;

- adozione di adeguate tecnologie di alimentazione sia per le pecore allattanti che per gli agnelli;

- impiego dello svezzamento precoce ed allungamen-to del periodo di allevamento, con conseguente immis-sione sul mercato di carcasse più pesanti;

- ricorso a trattamenti alimentari e ambientali in grado di migliorare l’efficienza riproduttiva.

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341

Le indagini di campoD. Matassino, N. Castellano, G. Gigante,C. Incoronato, M. Occidente

La prima fase della ricerca è stata quella dell’indi-viduazione di aree di allevamento del Tipo Genetico Ovino Laticauda partendo dai dati già forniti dal Libro Genealogico (LG) gestito dall’Associazione Nazionale della Pastorizia (AssoNaPa), il cui database indica come province campane in cui è praticato l’allevamento della Laticauda, quelle di Avellino, Benevento e Caserta; in particolare, la più elevata concentrazione di allevamenti si rileva in alcune aree delle seguenti province:

(a) Provincia di Avellino: Agro dei comuni di Casalbore, Gesualdo, Grottaminarda, Montecalvo Irpino, Rocca San Felice, Villanova del Battista;

(b) Provincia di Benevento: Agro dei comuni di Baselice, Buonalbergo, Castelpagano, Castelfranco in Miscano, Morcone, San Giorgio la Molara, San Marco dei Cavoti;

(c) Provincia di Caserta: Agro dei comuni di Calvasi, Gioia Sannitica, San Potito Sannitico.

Le indagine sono state svolte anche con l’aiuto del questionario di cui al paragrafo 7.1.

Aspetti demografici e attuariali

Della consistenza totale del gregge, mediamente, il 74,12 % è costituito da femmine in riproduzione, con un range che va dal 55,97 % al 83,33 %. Il 21,52 % della consistenza totale del gregge è costituito da femmine an-teparto, con un range che va dal 14,71 % al 33,58 %. Il 4,37 % della consistenza totale del gregge sono maschi, con una oscillazione che va dall’1,54 % al 10,55 %.

Dall’indagine questionaria eseguita, la situazione ca-tegoriale media risulta essere la seguente:

pecore di primo parto 13,86 %(i) pecore di secondo parto 12,13 %(ii)

pecore di terzo parto 10,40 %(iii) pecore di quarto parto 10,80 %(iv) pecore di quinto parto 9,97 %(v) pecore di sesto parto 9,53 %(vi) pecore di settimo parto 8,67 %(vii)

pecore di ottavo parto 7,80 %(viii) pecore di nono parto 6,50 %(ix) pecore di decimo parto 3,81 %(x) pecore di undicesimo parto 3,99 %(xi) pecore di dodicesimo parto 0,87 %(xii)

pecore di tredicesimo parto 1,65 %(xiii) Le nascite sono principalmente concentrate nel perio-

do ottobre - gennaio. Le pecore ‘a fine carriera’ vengo-no eliminate a un’età di i 5 ÷ 6 anni, di solito nel mese di agosto, dopo un periodo di finissaggio avvenuto sulle stoppie.

L’attività riproduttiva consente ottimi risultati sia per la prolificità che per la fertilità:

(a) prolificità (intesa come rapporto % tra il numero di agnelli nati e il numero di pecore inseminate):

(i) parti singoli: 16,3 % (ii) parti gemellari: 75 % (iii) parti trigemini : 8 % (iv) parti quadrigemini: 0,6 % (v) parti quinquigemini: 0,1 %(b) fertilità (intesa come rapporto % di pecore parto-

rite e il numero di pecore inseminate): 97 %(c) età media al primo parto: 12 mesi.

Il sistema di allevamento

La caratterizzazione dei sottosistemi viene basata sui criteri e sulle modalità di utilizzo delle risorse alimentari del territorio. Tali sottosistemi, storicamente (Rubino et al., 1983), possono essere cosí schematizzati e definiti:

pastorale “puro’’: (a) utilizzazione scalare di aree pascolive fra di loro più o meno lontane; braundel (1976) distingue la transumanza in: normale, quando i proprietari delle greggi abitano in pianura; inversa,

la razza laticauda

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342i risultati

quando i proprietari risiedono in montagna;semipastorale(b) : monticazione locale su suoli pub-

blici e/o privati; sono forme di allevamento ancora dif-fuse e sono ovunque sostenute dalla disponibilità delle terre demaniali soggette a uso civico;

stanziale brado: (c) utilizzazione, prevalente o com-pleta delle risorse alimentari pabulari di vasti territori, anche pubblici, con integrazione alimentare in stalla; la base aziendale è, di norma, limitata al solo ricovero;

stanziale non brado(d) : utilizzazione delle risorse alimentari pabulari aziendali integrate con alimentazio-ne in stalla;

stallino: (e) sola alimentazione in stalla, con stabu-lazione “fissa” o “libera” .

Attualmente, la Laticauda viene allevata nella media collina, in forma stanziale non brado, in greggi medio piccoli che vanno dai 20 ÷ 100 capi di consistenza. Il tipo di allevamento più diffuso, poderale-familiare, nell’ultimo decennio, ha subito una variazione nel senso che sono quasi completamente estinte le realtà allevanti 2 ÷ 5 capi, mentre sono aumentati gli allevamenti con consistenza maggiore, che, in determinate realtà azien-dali, si concretizzano con una elevate numerosità e con sistema stallino.

L’alimentazione delle pecore nel periodo invernale, è basata sul fieno di sulla, lupinella, erba medica, mescola-to a paglia di avena; tale alimentazione viene spesso in-tegrata con mangimi concentrati, integratori vitaminici e minerali, oppure, come si faceva un tempo, con beveroni di crusca con l’aggiunta di minime dosi di sale pastori-zio. Nel periodo primaverile, la pecora viene alimentata al pascolo e nelle ore più calde della giornata e durante le ore della notte vengono ricondotte nei ricoveri dove possono ricevere una integrazione alimentare.

La produzione della carne

L’attitudine prevalente dell’ovino Laticauda è quella della produzione della carne. A tal proposito il Comita-to della razza ovina Laticauda ha stilato una proposta di disciplinare di produzione dell’IGP Agnello Laticau-da (allegato I), redatto dal ConSDABI, con il quale si norma l’allevamento dei soggetti, maschi e femmine, da destinare alla macellazione, nonché le due tipologie di carcasse previste:

(a) leggera: di peso compreso tra gli 8 e i 13 kg, priva di testa e corata

(b) pesante: di peso superiore ai 13 kg, priva di testa e corata.

La carne confezionata porzionata, fresca o surgelata, proveniente da tali agnelli può essere immessa al consu-mo solo in confezioni sigillate.

La caratteristica più importante di questo ovino è il parto gemellare che è quasi la norma, mentre frequente è il parto trigemino.Gli agnelli eccedenti al quoziente di avvicendamento (rimonta) vengono allattati per 25-30 giorni circa, se nati da parto singolo, e 35 se nati da parto gemellare e poi vengono venduti sul mercato locale per macello. Alcuni allevatori praticano anche l’allevamento del castrato, in questo caso gli agnelli fruiscono di un periodo di allattamento più lungo; dopo di che, allonta-nati dalla madre, vengono alimentati con il solo pascolo fino al momento della vendita. La castrazione si effettua intorno ai 4 mesi di età mentre la vendita avviene intorno agli 8 mesi, raggiungendo un peso di 50 – 60 kg circa, con una resa al macello di circa il 55 %.

La qualità e la trasformazione del latte

L’attitudine prevalente dell’ovino Laticauda è certa-mente quella della produzione della carne, ma, a questa, non va disgiunta una buona produzione di latte, almeno nei primi mesi di lattazione, poiché, naturalmente, deve far fronte alle maggiori esigenze degli agnelli nati da parto plurimo. In definitiva la Laticauda potrebbe essere classificata tra quelle razze a duplice attitudine: carne – latte.

Gli studi (Matassino et Zullo, 1991) effettuati su 117 lattazioni individuali della durata di 120 giorni, è stato evidenziato che nei primi 60 giorni di lattazione vengo-no prodotti mediamente 58 kg di latte, che rappresentano circa il 56 % della produzione totale media relativa ai 120 giorni (circa 105 kg). Data l’elevata variabilità di questi valori (c.v. = 28 %), vi sono soggetti che produco-no oltre 180 kg di latte in 120 giorni di lattazione; questi valori tendono ad avvicinarsi molto alle produzioni me-die delle razze a spiccata attitudine alla produzione del latte, quali Comisana, Sarda, Massese, ecc..

Nell’ambito di questo studio è stata considerata la va-riazione della produzione di latte distintamente per tipo di parto ed è stato rilevato che, entro le primipare, quelle con parto gemellare tendono a produrre, mediamente per capo, più latte rispetto a quelle di parto singolo (112,8 kg vs 98,15 a 120 giorni di lattazione). Ciò indurrebbe a

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la razza laticauda343

ipotizzare che il parto gemellare determini una variazio-ne positiva nella complessa fisiologia della produzione lattea, dato che la madre deve far fronte alle esigenze di 2 agnelli; tuttavia questo è un aspetto da approfondire dato che lo stesso andamento non si verifica in soggetti di ordine di parto superiore al primo.

La composizione chimica centesimale media del latte evidenzia un tenore in sostanza secca del 20 %, uno in grasso dell’8,63 % e uno in proteine del 5,42 %. Se que-sti dati venissero confermati da ulteriori studi, si avrebbe che la Laticauda produce un latte con la maggior percen-tuale di grasso rispetto ad altri tipi genetici italiani e con una buona percentuale di proteine, come risulta dallo schema di seguito riportato (Matassino et Zullo, 1991):

Tipo genetico grasso, % proteine, %Bagnolese 8,3 6,2Laticauda 8,6 5,4

Altamurana 7,5 6,5Leccese 7,0 6,5Comisana 6,5 5,2Delle Langhe 6,5 5,5Massese 6,2 5,3Sarda 6,0 5,3

Dai tempi antichi, sulla base di una radicata tradizio-

ne e di uno standard qualitativo e quantitativo per la ca-seificazione, i formaggi più diffusi in Campania sono del tipo incanestrato.

La loro origine si perde nella notte dei tempi ed è le-gata all’uso di particolari cestelle di giunco, dette cane-stre, abilmente lavorate e frutto di una antica tradizione.

Nel panorama dei pecorini tradizionali della Regione Campania, spicca per rigorosa tipicizzazione, legata alle particolari caratteristiche ambientali, il formaggio otte-nuto con lavorazione del latte dell’ovino Laticauda.

Il latte dell’ovino Laticauda presenta una peculiare composizione chimica che è responsabile dell’unicità, sia di produzione che organolettica, del pecorino. Infatti, l’alto tenore di grasso lo rende ideale e vantaggioso per i caseifici perché sinonimo di elevata resa alla trasforma-zione, mentre la presenza di acido capronico e caprini-co, in percentuali minori rispetto alle altre razze ovine, è responsabile di pregevoli qualità organolettiche che nel prodotto finale, si manifestano con particolari e tipici

aroma e sapore.In particolare, il basso contenuto di acido capronico

e caprinico non altera il caratteristico gusto, bensí ne ac-cresce la naturale fragranza, rendendo il prodotto privo di quello sgradevole odore normalmente riconoscibile nei formaggi di ovini. Infine, ulteriore nota caratteristica che arricchisce il sapore del pecorino di Laticauda è la presenza, già nel latte fresco crudo, di un sottile gusto di mandorla.

Tale pecorino è prodotto solo ed esclusivamente con latte fresco crudo di ovino Laticauda ed è commercializ-zato sotto forma di formaggio fresco, semi – stagionato e stagionato.

La coagulazione del latte, ottenuta esclusivamente con caglio naturale di ovino Laticauda, viene effettuata a una temperatura di coagulazione compresa tra i 34 e i 38 °C per un tempo pari a 35 – 45 minuti. Dopo la rottura della cagliata in granuli delle dimensioni non superio-ri ai 2, 2,5 e 3 cm di diametro, rispettivamente per il formaggio fresco, semi – stagionato e stagionato, viene effettuata l’estrazione e il passaggio della stessa in appo-siti stampi dalla forma cilindrica e dalle varie dimensio-ni, cosí come riportato nella proposta di disciplinare di produzione del ‘DOP Pecorino Laticauda’ (allegato II), redatto dal ConSDABI.

La salatura può avvenire sia in salamoia che a secco per un tempo variabile a seconda delle dimensioni delle forme.

I risultati in dettaglio

Provincia di Avellino - Aziende Sono state prese in considerazione le aziende ricadenti

in 6 comuni: Casalbore, Gesualdo, Grottaminarda, Mon-tecalvo Irpino, Rocca San Felice, Villanova del Battista e, complessivamente, 20 allevamenti in cui è presente il TG Laticauda .

Nel Comune di Montecalvo Irpino è stato censito il maggiore numero di allevamenti (7), mentre nei Comuni di Gesualdo, Grottaminarda, Villanova del Battista è sta-to censito un solo allevamento.

La superficie media delle aziende è di ha 5,43 ± 2,00 (c.v., 37 %).

Le aziende presentano una superficie media totale più alta nel Comune di Casalbore: 7,8 ha di cui 3,3 ha a pa-

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344i risultati

scolo; mentre le aziende con una superficie media totale più bassa si rilevano nel Comune di Gesualdo 2 ha in totale di cui 1 ha a pascolo.

- Consistenza aziendaleLa consistenza media aziendale è di capi 24,53 ±

14,35 (c.v, 58 %). Fra i Comuni presi in considerazione Casalbore presenta il maggior numero di ovini controlla-ti (circa 250 capi), mentre nel Comune di Gesualdo si re-gistra il più basso numero di capi controllati (circa 10).

- Rapporto sessi riproduttivoComplessivamente, per ogni allevamento controllato,

si rileva un’incidenza media di pecore per ariete pari a 17,32 ± 7,76 (c.v., 45 %), il più alto numero di pecore per ogni ariete in servizio (circa 28) si registra nel comune di Casalbore, il più basso numero di pecore per ogni ariete (circa 7) in quello di Grottaminarda.

- Agnelli nati per annoComplessivamente, negli allevamenti controllati si ri-

leva mediamente un numero di agnelli nati per anno pari a 36,01 ± 21,82 (c.v., 61 %).

- Lunghezza della vita riproduttiva delle pecoreNegli allevamenti censiti, la vita media delle pecore è

risultata di anni 6,72 ± 0,56 (c.v., 8 %), con un valore più elevato (circa 7 anni) nei comuni di Gesualdo, Grottami-narda, Rocca San Felice e Villanova del Battista e un va-lore più basso (circa 5 anni) nel comune di Casalbore.

- Età al primo accoppiamento delle agnelle L’età al primo accoppiamento delle agnelle è risulta-

ta, mediamente, di mesi 10,54 ± 1,03 (c.v., 10 %), il va-lore più basso (circa 9 mesi) si è registrato nel comune di Villanova del Battista e il valore più alto (circa 10 mesi) nel comune di Rocca San Felice.

- Quoziente annuo di avvicendamento Il quoziente annuo di avvicendamento negli alleva-

menti presi in considerazione è risultato, mediamente, pari al 10,67 % ± 2,16 (c.v., 20 %), con valore più eleva-to (circa il 15 %) nel comune di Casalbore e valore più contenuto (circa 9 %) nel comune di Rocca San Felice.

- Età svezzamento agnelli L’età allo svezzamento, mediamente, è risultata di

mesi 2,5 ± 0,55 (c.v., 22 %), con una netta distinzione

per gli allevamenti dei comuni di Montecalvo Irpino, Rocca San Felice e Villanova del Battista, che praticano lo svezzamento a circa 3 mesi, e i comuni di Casalbore, Gesualdo e Grottaminarda, che praticano uno svezza-mento all’età di circa 2 mesi.

- Percentuale di parti gemellari delle pecore in alle-vamento

Negli allevamenti considerati in tutta la Provincia é emerso che il 65,88 % ± 4,66 (c.v., 7 %) delle pecore danno parti gemellari, con valore più elevato (circa 70 %) nel comune di Villanova del Battista e valore più bas-so (circa 60 %) nei comuni di Gesualdo e Grottaminar-da.

- Peso alla macellazione degli agnelli negli alleva-menti

Il peso alla macellazione degli agnelli è risultato di kg 18,90 ± 0,91 (c.v., 5 %), con valore più alto in quel-li degli allevamenti dei comuni di Rocca San Felice e Villanova del Battista (circa 20 kg) e valori più bassi in quelli dei comuni di Gesualdo e Grottaminarda (circa 18 kg).

- Età alla macellazione degli agnelli L’età alla macellazione degli agnelli, prodotti negli

allevamenti censiti, è risultata pari a giorni 78,6 ± 6,94 (c.v., 9 %), con valore più basso (circa 70 giorni) negli allevamenti dei comuni di Gesualdo e Grottaminarda e valore più elevato (circa 85 giorni) nel comune di Rocca San Felice.

- Produzione lattea individuale (durata e produzione) riferita al periodo in cui si attua la mungitura, che può iniziare anche prima dell’allontanamento dell’agnello:

la durata della lattazione nelle pecore control-(i) late è risultata mediamente pari a giorni 94,14 ± 13,96 (c.v., 15 %), con valore più elevato nel comune di Rocca San Felice (circa 116 giorni) e valori più bassi nei comu-ni di Gesualdo e Grottaminarda (circa 80 giorni);

la quantità di latte prodotto da ogni pecora è ri-(ii) sultata mediamente di litri 65,43 ± 6,58 (c.v., 10 %), con una produzione più elevata nel comune di Rocca San Fe-lice (circa 76 litri) e una produzione più bassa (circa 60 litri), nei comuni di Gesualdo,Grottaminarda e Villanova de Battista.

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la razza laticauda345

Provincia di Benevento

- Aziende In provincia di Benevento sono stati presi in conside-

razione le aziende ricadenti in 8 comuni: Buonalbergo, Baselice, Castelfranco in Miscano, Castelpagano, San Giorgio la Molara, San Marco dei Cavoti, Morcone, per un totale di 17 allevamenti in cui è presente il TG Lati-cauda.

Nel comune di Castelfranco in Miscano é stato censi-to il maggiore numero di allevamenti (6), mentre in cia-scuno dei comuni di Castelpagano, Morcone, San Marco dei Cavoti è stato censito un solo allevamento.

Le aziende con allevamenti di TG Laticauda che pre-sentano una superficie media totale più alta si rilevano nel Comune di Buonalbergo: 30 ha, di cui 19 ha a pasco-lo e 4,5 ha a erbaio; mentre le aziende con allevamenti aventi una superficie media totale più bassa si rilevano nel Comune di Morcone: 5 ha in totale, di cui 2 ha a pascolo.

Le aziende zootecniche censite nei Comuni di Buo-nalbergo e Castelfranco in Miscano, contrariamente alle aziende presenti negli altri Comuni, fanno ricorso a su-perficie in fitto esclusivamente da privati.

Nel comune di Buonalbergo si rileva che le superfici prese in fitto costituiscono il 50 % del totale utilizzato, mentre nel comune di Castelfranco in Miscano le super-fici prese a nolo costituiscono circa il 16 % del totale utilizzato.

La superficie media aziendale in provincia di Bene-vento è di ha 13,88 ± 9,19 (c.v., 66 %).

- Consistenza aziendaleComplessivamente per ogni allevamento controllato

si rileva una consistenza media di capi pari a 90,04 ± 44,97 (c.v., 50 %). Fra i comuni presi in considerazione, Castelfranco in Miscano presenta il maggior numero di ovini controllati (circa 700), mentre il comune di Mor-cone registra il minor numero di capi controllati (circa 60). Nei comuni di Circello e Castelpagano i capi rilevati manifestano caratteristiche morfologiche non conformi allo standard del TG Laticauda.

Negli allevamenti dei comuni di Castelfranco in Mi-scano e San Marco dei Cavoti, oltre ai soggetti confor-mi allo standard risultano presenti anche altri soggetti con caratteristiche morfologiche non conformi allo stan-dard.

La consistenza media per allevamento più elevata si

rileva nel comune di Buonalbergo (circa 179 soggetti); mentre la consistenza media per allevamento più bassa si rileva nel comune di Baselice (circa 32 soggetti).

Nel comune di Castelfranco in Miscano, ove esiste il maggior numero di animali controllati, la consisten-za media per allevamento è di circa 116 soggetti, di cui circa 18 soggetti sono meticci, quindi non conformi allo standard.

- Rapporto sessi riproduttivoComplessivamente, per ogni allevamento controllato

si rileva un’incidenza media di pecore per ariete pari a 32,08 ± 16,83 (c.v., 52 %) con valore più alto, circa 65 pecore per ogni ariete in servizio, nel comune di Buonal-bergo e valore più basso, circa 12 pecore per ogni ariete in servizio, nel comune di Baselice.

- Agnelli nati per annoComplessivamente, il numero medio di agnelli nati

per anno negli allevamenti censiti è di 148,1 ± 76,63 (c.v., 51 %).

(e) Lunghezza della vita riproduttiva delle pecore Complessivamente, la vita media in allevamento delle

pecore è risultata di anni 5,4 ± 0,78 (c.v., 14 %), con un valore più elevato (circa 7 anni) nel comune di Baselice e più basso (circa 4 anni) nel comune di Buonalbergo.

- Età al primo accoppiamento delle agnelle L’età al primo accoppiamento delle agnelle è risultata

mediamente di mesi 11,35 ± 1,35 (c.v., 12 %), il valore più basso (circa 9 mesi) si è riscontrato nel comune di San Marco dei Cavoti e il valore più alto (circa 13 mesi) nei comuni di Castelpagano e Morcone.

- Quoziente annuo di avvicendamento Il quoziente annuo di avvicendamento negli alleva-

menti presi in considerazione è risultato mediamente pari a 10,83 % ± 2,31 (c.v., 21 %), con valore più elevato (circa il 15 %) nel comune di San Giorgio la Molara e valore più contenuto (circa 7,5 %) nel comune di Base-lice.

- Età svezzamento agnelli L’età allo svezzamento, mediamente, è risultata ugua-

le per tutti gli allevamenti considerati: 3 mesi.

- Percentuale di parti gemellari delle pecore in alle-vamento

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346i risultati

Complessivamente, negli allevamenti considerati é emerso che l’incidenza percentuale delle pecore che danno parti gemellari è pari al 69,58 % ± 3,93 (c.v., 6 %), con valore più elevato (circa il 77,5 %) nel comune di Baselice e valore più basso (circa il 63,33 %) nel co-mune di Castelfranco in Mescano.

- Peso alla macellazione degli agnelli negli alleva-menti

Il peso alla macellazione degli agnelli, negli alleva-menti rilevati è risultato di kg 18,27 ± 1,32 (c.v., 7 %), con valore più alto (circa 20 kg) nel comune di San Mar-co dei Cavoti e valore più basso (circa 16,33 kg) nel co-mune di Circello.

- L’età alla macellazione degli agnelliL’età alla macellazione degli agnelli, prodotti negli

allevamenti censiti è risultata pari a giorni 70,21 ± 10,93 (c.v., 16 %), con valore più basso (circa 60 giorni) nei co-muni di Buonalbergo, Castelpagano e Morcone e valore più elevato (circa 90 giorni) nel comune di Baselice.

- Produzione lattea individuale (durata e produzione) riferita al periodo in cui si attua la mungitura che può iniziare anche prima dell’allontanamento dell’agnello:

la durata della lattazione nelle pecore control-(i) late è risultata mediamente pari a giorni 110 ± 9,64 (c.v., 9 %), con valori più elevati (circa 120 giorni) nei comuni di Buonalbergo, Castelpagano, Morcone e con valori più bassi (circa 95 giorni) nel comune di Baselice;

la quantità di latte prodotto per ogni pecora, (ii) negli allevamenti controllati, è risultata mediamente pari a litri 75,73 ± 7,15 (c.v., 9 %) con produzione più elevata (circa 86 litri) nel comune di Circello e una più bassa (circa 67 litri) nel comune di Castelfranco in Miscano.

Provincia di Caserta

- Aziende In provincia di Caserta sono stati presi in considera-

zione 3 comuni: Calvasi, Gioia Sannitica e San Potito Sannitico e, complessivamente, 3 allevamenti in cui è presente il TG Laticauda

In ciascuno dei comuni di Calvasi, Gioia Sannitica e San Potito é stato censito un solo allevamento.

Complessivamente, le aziende rilevate presentano una superficie media è di ha 73,67 ± 83,97 (c.v., 114 %).

Le aziende con allevamenti di TG Laticauda presen-tano una superficie media più alta nel Comune di Gioa Sannitica:150 ha di cui 75 ha a pascolo e 30 ha a erbaio; mentre l’azienda con una superficie media totale più bas-sa si rileva nel comune di Calvasi: 16 ha in totale di cui 6 ha a pascolo 5 ha a erbaio.

L’azienda zootecnica censita nel comune di Gioia Sannitica, contrariamente alle aziende presenti negli al-tri comuni, fa ricorso a superficie in fitto esclusivamente da privati. Nel comune di Gioia Sannitica si rileva che le superfici prese in fitto costituiscono il 12 % del totale utilizzato.

- Consistenza aziendale Complessivamente, per ogni allevamento controllato,

si rileva una consistenza media di capi 579 ± 516,1 (c.v., 89 %).

Fra i comuni presi in considerazione Gioia Sanniti-ca presenta il maggior numero di ovini controllati (circa 1.164), mentre nel comune di Calvasi si registra il più basso numero di capi controllati (circa 188).

- Rapporto sessi riproduttivoComplessivamente, per ogni allevamento controllato,

si rileva un’incidenza media di pecore per ariete pari a 49,24 ± 48,15 (c.v., 98 %).

Nell’azienda del comune di Gioia Sannitica, media-mente, si rileva il più alto numero di pecore per ogni ariete in servizio (circa 104), mentre nell’allevamento del comune di Calvasi ogni ariete serve circa 22 pecore, seguito dall’allevamento del comune di San Potito San-nitico con circa 20 pecore per ogni ariete in servizio.

- Agnelli nati per annoComplessivamente, il numero medio di agnelli nati

per anno negli allevamenti censiti è di 962 ± 877,3 (c.v., 91 %).

- Lunghezza della vita riproduttiva delle pecoreNegli allevamenti censiti, la vita riproduttiva in al-

levamento delle pecore è risultata mediamente di anni 5,33 ± 0,58 (c.v., 11 %), con un valore più elevato (circa 6 anni) nel Comune di Calvasi e più basso (circa 5 anni) nei comuni di Gioia Sannitica e San Potito Sannitico.

- Età al primo accoppiamento delle agnelle L’età al primo accoppiamento delle agnelle è risultata,

mediamente, di mesi 11 ± 1,00 (c.v., 9 %), il valore più

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la razza laticauda347

alto (circa 12 mesi) nel comune di Calvasi e il valore più basso (circa 10 mesi) nel comune di Gioia Sannitica.

- Quoziente annuo di avvicendamento Il quoziente annuo di avvicendamento, negli alleva-

menti presi in considerazione, è risultato, mediamente, pari a 11,67 % ± 2,89 (c.v., 25 %), con valore più elevato (circa il 15 %) nel comune di Calvasi e con valore più contenuto (circa il 10 %) nei comuni di Gioia Sannitica e San Potito Sannitico.

- Età allo svezzamento agnelli L’età allo svezzamento, mediamente, è risultata di 3

mesi, uguale per tutti gli allevamenti considerati.

- Percentuale di parti gemellari delle pecore in alle-vamento

Negli allevamenti considerati é emerso che le pecore che danno parti gemellari sono il 68,33 % ± 2,89 (c.v.,% 4), con valore più elevato (circa il 70 %) nei comuni di Gioia Sannitica e San Potito Sannitico e valore più basso (circa il 65 %) nel comune di Calvasi.

- Peso alla macellazione degli agnelli Il peso alla macellazione degli agnelli è risultato, me-

diamente, di kg 20 ± 2,00 (c.v., 10 %), con valore più alto (circa 22 kg) nel comune di Gioia Sannitica e valore più basso (circa 18 kg) nel comune di Calvasi.

- Età alla macellazione degli agnelliL’età alla macellazione degli agnelli prodotti negli al-

levamenti censiti è risultata, mediamente, pari a giorni 73,33 ± 5,77 (c.v., 8 %), con valore più basso (circa 70 giorni) nei comuni di Calvasi, Gioia Sannitica e valore più alto (circa 80 giorni) nel comune di San Potito San-nitico.

- Produzione lattea individuale (durata e produzione) riferita al periodo in cui si attua la mungitura che può iniziare anche prima dell’allontanamento dell’agnello:

la durata della lattazione nelle pecore control-(i) late è risultata, mediamente, pari a giorni 123,3 ± 5,77 (c.v., 5 %), con valori più elevati (circa 130 giorni) nel comune di Calvasi e valori più bassi (circa 120 giorni) nei comuni di Gioia Sannitica San Potito Sannitico;

la quantità di latte prodotto dalle pecore è risul-(ii) tata, mediamente, pari a litri 85 ± 13,23 (c.v., 16 %), con una produzione più elevata (circa 100 litri) nel comune

di San Potito Sannitico e una produzione più bassa (circa 75litri) nel comune di Gioia Sannitica.

La situazione igienico-sanitaria

Uno dei problemi sanitari maggiormente riscontrati negli allevamenti di ovini di razza Laticauda nell’ambito della Regione Campania è la profilassi delle Encefalopa-tie Spongiformi Trasmissibili (EST).

L’urgenza di effettuare un piano di lotta alle EST, le quali danno all’animale la suscettibilità all’agente BSE, mentre animali genotipicamente resistenti alle scrapie, malattia non pericolosa né per l’animale né per l’uomo, hanno la possibilità di sviluppare resistenza alla BSE. Uno dei test genetici a cui è stato sottoposto l’ovino La-ticauda è stato perciò quello per la Scrapie.

La scrapie, volgarmente detta ‘pecora pazza’, può es-sere facilmente controllata in quanto essa si manifesta nei soggetti portatori di determinati geni.

Da indagini condotte dall’Associazione Nazionale della Pastorizia (Asso.Na.Pa.) è emerso che il grado di resistenza alla patologia in oggetto varia in funzione del genotipo, come riportato nello schema seguente:

Grado di resistenza Genotipo/imolto resistente ARR/ARR

geneticamente resistente ARR/AHQ; ARR/ARH; ARR/ARQ

geneticamente poco resistente

AHQ/AHQ;AHQ/ARH;AHQ/ARQ; ARH/ARH; ARH/ARQ; ARQ/ARQ

geneticamente suscettibile ARR/VRQgeneticamente molto suscettibili

AHQ/VRQ; ARH/VRQ; ARQ/VRQ; VRQ/VRQ

Sembrerebbe assodato che gli unici ovini da utilizza-

re come riproduttori dovrebbero essere quelli molto resi-stenti, cioè che presentano nel loro patrimonio genetico la coppia allelica ARR/ARR; questa scelta non sempre è possibile in quanto il numero di tali animali non è suffi-ciente a soddisfare le esigenze annuali.

L’Asso.Na.Pa ha presentato i risultati del programma Scrapie che aveva come scopo la determinazione del-le frequenze alleliche e genotipiche delle razze ovine di

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348i risultati

maggiore pregio genetico. In totale sono state effettuate 4.958 analisi genotipiche. Complessivamente sono stati eseguiti 9.333 test per la scrapie, di cui 346 su Laticauda (188 maschi e 158 femmine).

I valori fanno rilevare che la Laticauda, per quanto at-tiene alla resistenza alla ‘scrapie’, presenta una frequen-za dell’allele ARR di ben il 54,4 %, classificandosi – in base ai dati ora disponibili – al primo posto tra i vari TG ovini allevati in Italia, come riportato nella seguente tabella:

Tipo genetico (TG) Frequenza dell’allele ‘ARR’, %

Laticauda 54,40

Massese 50,00Leccese 45,20Sopravissana 44,00Sarda 43,07Merinizzata 42,20Comisana 41,30Appenninica 38,00Altamurana 36,90Gentile di Puglia 36,00Delle Langhe 32,80Pinzirita 29,50Valle del Belice 25,30Barbaresca 24,70Fabrianese 22,90Biellese 20,90Bergamasca 10,50

Utilizzando il metodo MAS (molecular assisted se-lection), nella scelta dei riproduttori sia maschili che femminili, specialmente di quelli destinati al quozien-te di avvicendamento aziendale o extraziendale o alla rimonta, nel giro di pochi anni sarà possibile allevare tutti soggetti portatori dell’allele ARR, quindi sani per la ‘scrapie’.

La selezione assistita dal molecolare (MAS, molecu-lar assisted selection) è possibile solo se gli allevatori sono iscritti all’Associazione Provinciale degli Alleva-

tori di competenza, che, fra gli altri compiti, ha quello di eseguire le direttive impartite dall’Asso.Na.Pa.

L’Asso.Na.Pa., a sua volta, è deputata a eseguire i de-liberati del Comitato Nazionale di razza; tale Comitato per la Laticauda renderà, prossimamente, obbligatorio il testaggio genetico per la ‘scrapie’ per tutti i soggetti da iscrivere o iscritti al Libro Genealogico.

La commercializzazione

Il Pecorino di Laticauda è commercializzato in for-me di varie dimensioni ed è caratterizzato da un colore giallo arancio. Secondo la tradizione, la stagionatura di questo formaggio deve avvenire in canestre che, in pas-sato, avevano dimensioni di circa 20 cm di diametro e 12 cm di altezza, consuetudine questa legata alla ridot-ta disponibilità di latte sia per le piccole dimensioni dei greggi di Laticauda che per la consuetudine di destinare il latte prevalentemente all’accrescimento degli agnelli. Oltre alla produzione di formaggio, era abitudine diffusa produrre la ricotta salata, stagionata esclusivamente in forme di circa 400 grammi e utilizzata per lo più come condimento per la pasta prodotta in casa.

A oggi, pur mantenendo inalterati i processi di lavo-razione che garantiscono la genuinità e il rispetto delle tecniche tradizionali, la produzione di formaggio peco-rino risente della necessità di far fronte ai bisogni e alle abitudini alimentari dei moderni consumatori, ben più complesse e sofisticate di quelle riscontrabili solo qual-che anno fa. Di conseguenza, alla classica forma di pe-corino stagionato, attraverso un naturale processo di di-versificazione, si affiancano, sul mercato, formaggi dalla veste innovativa quali:

formaggi stagionati (tempi di stagionatura 4 – 6 (a) mesi);

formaggi semi – stagionati (tempi di stagionatura (b) 24 – 40 giorni);

formaggi freschi aromatizzati, generalmente, con (c) erbe di bosco;

formaggi speciali con aggiunta di ingredienti (d) (pepe, peperoncino, origano e noci);

formaggi sott’olio.(e)

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la razza laticauda349

Problematiche sollevate dagli allevatori

Durante lo svolgimento dell’indagine, gli allevatori censiti nelle diverse realtà hanno manifestato la necessi-tà di incrociare il TG Laticauda ‘in purezza’ con la razza Lacaune o Ile de France.

Tale decisione è scaturita dalla scarsa domanda di agnelli Laticauda. La mancata domanda, sebbene la car-ne sia di ottima qualità, scaturisce dalla considerazione che il peso dei predetti agnelli risulta eccessivo. A tale problematica si aggiunge la scarsa produzione di latte e la non presenza di un indotto promozionale dei prodotti derivati.

Infine, gli allevatori hanno manifestato disappunto per la revoca della corresponsione del premio.

Le analisi genomicheD. Matassino, C. Incoronata, M. Occidente, N. Castellino, R. Pasquitiello, F. Pane

Entro il tipo genetico, l’elaborazione dei dati è stata eseguita su un campione rappresentativo sia della razza sia dei quattro allevamenti presi in esame.

Campione rappresentativo della razza (n=51 sogget-ti)

La caratterizzazione molecolare ha evidenziato la presenza di un numero totale di alleli pari a 153, la cui ripartizione per locus è riportata nella tabella 1.

Come si evince dalla tabella 1, tutti i loci indagati, en-tro i limiti del campo di osservazione, sono polimorfici, con un numero di alleli compreso nel range 4÷12 e con un valore medio pari a 8,05 ± 2,21 (c.v. = 27 %).

I loci piú polimorfici sono risultati INRA063 e MAF209, entrambi con 12 alleli, mentre quelli meno po-limorfici OarAE129 e BM1824, entrambi con 4 alleli.

Come si rileva dalla tabella 1 e dal grafico 1, il valo-re della ricchezza allelica ‘rarefatta’1 stimata varia da un minimo di 3,092 (locus OarAE129) a un massimo di

1 Ricchezza allelica ‘ rarefatta’ stimata (allele richness): parametro che stima il numero medio di alleli per locus di una popolazione corretto mediante il metodo di rarefazione di Hurlbert S.H. (1971).

7,154 (locus INRA063). L’ ‘eterozigosità osservata’ varia da un valore mini-

mo pari a 0,362 per il locus meno polimorfo OarAE129 a uno massimo pari a 0,882 per il locus piú polimorfo INRA063, con un valore medio pari a 0,707 ± 0,119 (c.v. = 17%); l’ ‘eterozigosità attesa’ varia da un valore mini-mo di 0,587 per il locus OarFCB304 a uno massimo pari a 0,895 per il locus INRA063, con un valore medio pari a 0,741 ± 0,090 (c.v. = 12%) (tabella 2).

Dei 19 marcatori microsatellite complessivamente analizzati (tabella 2), 3 sono in significativo disequilibrio rispetto alle proporzioni di equilibrio di Hardy-Weinberg ascrivibile a difetto di genotipi eterozigoti:

OarAE129 ((a) P = 0,0000);ILSTS5 e MAF214 (0,01<P<0,05).(b)

Inoltre, è stato possibile individuare la presenza di una tendenza (0,13<P<0,20) verso:

un difetto di genotipi eterozigoti per i (a) loci MAF33 e MAF70;

un eccesso di genotipi eterozigoti(b) per i loci Oar-FCB193 e OarFCB304.

Per alcuni loci indagati, la maggiore tendenza all’ec-cesso di:

‘omozigosità osservata’ (c) potrebbe essere dovuta all’aumento di accoppiamenti tra soggetti parenti, come può rivelarsi dal valore (0,287) del coefficiente moleco-lare di Inbreeding (inincrocio o consanguineità per sta-tus) stimato nel campione complessivamente indagato;

‘eterozigosità osservata’ (d) potrebbe essere ascrivi-bile all’introduzione di riproduttori, specialmente ma-schili, provenienti da altri allevamenti non indagati al momento; comportamento gestionale, quest’ultimo, ab-bastanza praticato dagli allevatori.Mediante il software Arlequin è stato stimato:

il grado di (a) associazione, in senso statistico, non casuale tra alleli di due loci diversi;

il livello di(b) disequilibrio da linkage (LD), limita-tamente a loci associati.

Il valore del livello di disequilibrio tra gli alleli dei 19 loci microsatelliti è risultato abbastanza contenuto; infatti, sui 171 confronti possibili (pairwise), soltanto 17 (10%) sono risultati in significativo disequilibrio (P < 0,01).

L’analisi del livello di ‘linkage disequilibrium’ tra al-leli di loci sintenici, intesi come loci appartenenti allo stesso cromosoma [nella fattispecie ILSTS011/MAF33 (cromosoma 9) e BM8125/MAF209 (cromosoma 17)], ha evidenziato che soltanto la coppia ILSTS11/MAF33

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350i risultati

contribuisce allo sbilanciamento osservato.La presenza di un buon livello di omogeneità gene-

tica all’interno della popolazione è attestata dal valore medio ottenuto (0,356 + 0,016) di ‘similarità genetica’; questa ‘similarità genetica’ viene definita come P = A/2L [ove P rappresenta la quota di alleli comuni (comunanza allelica) tra individui di una popolazione in relazione al

numero di loci esaminati (L)]. Nei limiti del campo di osservazione, tale omogeneità genetica sarebbe da ascri-vere alle modalità di gestione della razza (accoppiamen-to tra soggetti parenti, criteri di scelta del quoziente di avvicendamento, ecc.), nonché alla consistenza molto modesta della stessa.

Microsatellite

Nome Alleli Ricchezza Allelica ‘Rarefat-

ta’ stimataNBM1824 4 3,148OarFCB128 8 5,532ILSTS28 10 4,482MAF70 9 5,755OarAE129 4 3,092MCM140 10 5,394ILSTS5 7 4,632ILSTS11 7 4,397MAF33 8 4,585OarFCB193 6 4,085INRA063 12 7,154MAF65 8 4,615MAF214 8 4,883BM8125 7 4,229MAF209 12 6,669OarFCB304 6 3,144OarJMP29 11 6,402OarVH72 8 4,229OarJMP58 8 5,818

x 8,05 4,855

σ 2,21 1,13

c.v.% 27 23

Tabella 1. Numero di alleli e ricchezza allelica ‘ra-refatta’ stimata entro e indipendentemente dal locus mi-crosatellite.

Microsatellite

NomeEterozigosità

PAttesa OsservataAttesa Osservata

BM1824 0,656 0,627 0,530OarFCB128 0,811 0,843 0,578ILSTS28 0,650 0,686 0,948MAF70 0,826 0,686 0,174OarAE129 0,662 0,362 0,000MCM140 0,814 0,686 0,395ILSTS5 0,774 0,627 0,013ILSTS11 0,714 0,706 0,298MAF33 0,728 0,686 0,152OarFCB193 0,613 0,745 0,166INRA063 0,895 0,882 0,539MAF65 0,734 0,765 0,400MAF214 0,735 0,647 0,047BM8125 0,635 0,608 0,246MAF209 0,865 0,863 0,237OarFCB304 0,587 0,627 0,132OarJMP29 0,853 0,843 0,389OarVH72 0,691 0,706 0,721OarJMP58 0,833 0,843 0,768

x 0,741 0,707

σ 0,090 0,119

c.v.% 12 17

Tabella 2. ‘Eterozigosità attesa’ e ‘osservata’ e devia-zione dall’equilibrio di Hardy-Weinberg entro ciascun locus microsatellite.

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la razza laticauda351

Campione rappresentativo dei quattro allevamenti

Parametri indicatori del grado di polimorfismo ge-netico

La tabella 3 riporta alcuni parametri indicatori del grado di polimorfismo genetico entro l’allevamento.

L’allevamento 4 evidenzia un: numero medio di alleli per (a) locus (7,000 ± 1,62;

c.v. = 23 %) significativamente più elevato rispetto allo:allevamento 1 ((i) P=0,0006)allevamento 2 ((ii) P=0,025) e 3 (P=0,035);

valore medio del parametro (b) ricchezza allelica

Parametro

Allevamento 1

(N =6) 2

(N = 10)3

(N = 11)4

(N = 24)x ± σ c.v.,% x ± σ c.v., % x ± σ c.v., % x ± σ c.v., %

numero medio di alleli per locus

4,158 ± 1,278 31 5,473 ±

1,846 39 5,632 ± 1,783 32 7,000 ±

1,622 23

ricchezza allelica ‘rarefatta’ media per locus

4,158 ± 1,278 23 4,603 ±

1,329 29 4,588 ± 1,245 27 4,759 ±

0,929 20

eterozigosità media osservata per locus

0,703 ± 0,213 30 0,605 ±

0,233 39 0,753 ± 0,173 23 0,729 ±

0,108 15

Tabella 3. Alcuni parametri indicatori del grado di polimorfismo genetico entro l’ allevamento.

Grafico 1. Variazione della ricchezza allelica ‘rarefatta’ per locus nel campione rappresentativo della razza.

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352i risultati

‘rarefatta’ per locus (4,759 ± 0,929; c.v. = 20 %) mag-giore, ma non significativo, rispetto agli allevamenti 3 (P=0,644), 2 (P=0,687) e 1, sebbene rispetto a quest’ul-timo vi sia una contenuta tendenza biologica verso la si-gnificatività (P=0,114);

discreto valore di (c) ‘eterozigosità osservata’ (0,729).

Equilibrio di Hardy-WeinbergLa tabella 4 riporta l’ ‘eterozigosità attesa’ e ‘osser-

vata’ nonché la deviazione dall’equilibrio di Hardy-Weinberg entro ciascun locus microsatellite relativa-mente agli allevamenti 2, 3 e 4. L’allevamento 1 è stato escluso data la modestissima consistenza del campione esaminato e dello stesso allevamento.

Locus Microsatellite

Allevamento

2 3 4

EterozigositàP

EterozigositàP

EterozigositàP

Attesa Osservata Attesa Osservata Attesa Osservata

BM1824 0,674 0,500 0,229 0,714 0,545 0,645 0,704 0,750 0,806

OarFCB128 0,832 0,700 0,392 0,814 1,000 0,712 0,777 0,792 0,468

ILSTS28 0,442 0,500 1,000 0,719 0,727 0,863 0,732 0,708 0,659

MAF70 0,837 0,400 0,009 0,749 0,818 0,862 0,827 0,750 0,148

OarAE129 0,808 0,000 0,000 0,679 0,400 0,240 0,670 0,478 0,102

MCM140 0,689 0,700 0,857 0,749 0,818 1,000 0,797 0,667 0,712

ILSTS5 0,711 0,500 0,282 0,788 0,818 0,189 0,803 0,625 0,079

ILSTS11 0,774 0,400 0,011 0,714 0,909 0,440 0,673 0,708 0,375

MAF33 0,795 0,900 1,000 0,593 0,636 0,848 0,705 0,625 0,115

OarFCB193 0,663 1,000 0,028 0,519 0,545 1,000 0,635 0,708 0,550

INRA063 0,926 0,700 0,054 0,913 1,000 0,893 0,867 0,875 0,805

MAF65 0,763 0,700 0,400 0,827 0,909 0,231 0,731 0,750 0,623

MAF214 0,800 0,800 0,952 0,576 0,727 1,000 0,816 0,625 0,01

BM8125 0,621 0,400 0,024 0,723 0,636 0,613 0,663 0,625 0,042

MAF209 0,895 0,800 0,171 0,913 0,909 0,221 0,789 0,833 0,368

OarFCB304 0,363 0,300 1,000 0,610 0,727 0,050 0,623 0,750 0,345

OarJMP29 0,911 0,700 0,068 0,775 0,909 0,960 0,830 0,917 0,590

OarVH72 0,647 0,700 0,24 0,593 0,455 0,128 0,765 0,750 0,419

OarJMP58 0,795 0,800 0,796 0,797 0,818 0,405 0,851 0,917 0,575

x 0,734 0,605 0,724 0,753 0,750 0,729

σ 0,143 0,233 0,107 0,173 0,073 0,108

c.v.% 10 15 10 15 10 15

Tabella 4. ‘Eterozigosità attesa’ e ‘osservata’ e deviazione dall’equilibrio di Hardy-Weinberg entro ciascun locus microsatellite distintamente per allevamento.

Page 353: Book Final Version

la razza laticauda353

Allevamento 2. Rispetto alle proporzioni dell’equili-brio di Hardy-Weinberg, nell’allevamento 2, un maggio-re numero di loci è risultato deviare significativamente dall’ equilibrio:

(a) OarAE129 (P=0,000);(b) MAF70 (P<0,01); (c) BM8125, OarFCB193 e ILSTS11 (P<0,05);inoltre, è stata osservata una tendenza (0,05<P<0,20)

verso il difetto di ‘eterozigosità’ per i loci INRA063, OarJMP29 e MAF 209; come può rivelarsi anche dal va-lore del coefficiente molecolare di inbreeding (0,392), l’eccesso di omozigosità osservata potrebbe essere do-vuto all’aumento di accoppiamenti tra soggetti parenti che l’allevatore è solito praticare.

Allevamento 3. Nell’allevamento 3, rispetto alle pro-porzioni dell’equilibrio di Hardy-Weinberg, un solo lo-cus, il MAF209, è risultato in significativo (P= 0,05) di-sequilibrio ascrivibile a eccesso di ‘eterozigosità’, men-tre vi è una tendenza (0,05<P<0,20) verso la condizione di disequilibrio per i loci ILST5 e OarFCB304.

Allevamento 4. Rispetto alle proporzioni di equilibrio di Hardy-Weinberg:

nessun (a) locus è risultato in disequilibrio altamente significativo;

solo due (b) loci sono risultati in significativo dise-quilibrio ascrivibile a difetto di eterozigosità:

(i) MAF 214 (P = 0,010);(ii) BM8125 (0,01<P<0,05).

Vi è una tendenza (0,05<P<0,20) verso il difetto di genotipi eterozigoti per i loci MAF70, OarAE129, MAF33 e ILSTS5.

Esclusività Nei limiti del campo di osservazione, l’analisi della

distribuzione degli alleli nei quattro allevamenti ha evi-denziato che la maggior parte degli alleli risultano ‘comu-ni’ ai quattro allevamenti indagati. Gli alleli ‘esclusivi’ o ‘discriminanti’ o ‘privati’ risultano, complessivamente, pari a 29 ( circa 19 % del totale degli alleli individuati) e, per allevamento, si ripartiscono come evidenziato nella figura 1.

Di essi, gli alleli con frequenza superiore al 10%, che per convenzione vengono definiti ‘rari’, sono risultati solo 4, cosí ripartiti:

allele 118 relativo al • locus BM8125 presente nell’al-levamento 4 con una frequenza pari al 10,4%;

allele 161 relativo al • locus INRA063 presente nell’al-levamento 1 con una frequenza pari al 25%;

allele 123 relativo al• locus MAF33 presente nell’al-levamento 2 con una frequenza pari al 15%;

allele 124 relativo al • locus OarJMP29 presente nell’allevamento 2 con una frequenza pari al 25%.

Figura 1. Distribuzione numerica degli alleli privati negli allevamenti.

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354i risultati

Analisi future, eseguite su un numero più elevato di soggetti, potrebbero condurre a identificare altri al-leli ‘privati’ da impiegare o come marcatori molecolari probabilistici per l’attribuzione di un soggetto a un de-terminato allevamento oppure ad annullare quest’ultima funzione discriminante. Indubbiamente, una presenza di uno o più allele/i ‘esclusivo/i’ potrebbe rivestire notevo-le significato operativo ai fini della rintracciabilità di un prodotto.

Parametri di differenziazione genetica

Test ‘population assignment’ - La differenziazione tra i quattro campioni rappresentativi degli allevamenti è stata indirettamente indagata con il test ‘population as-signment’ basato su un approccio di maximum likelihood (massima verosimiglianza). I risultati indicano che l’ap-proccio adottato è stato in grado di attribuire in modo corretto tutti i soggetti considerati a ciascun allevamen-to, suggerendo la presenza di una scarsa variabilità entro l’allevamento e di un marcato livello di differenziazio-

ne tra i quattro allevamenti. Quanto detto è convalidato anche dai valori di ‘similarità genetica’ osservati entro ciascun allevamento; dall’esame della tabella 5 si evince che il valore medio della ‘similarità genetica’ varia da un minimo di 0,351 dell’allevamento 2 a uno massimo di 0,442 per l’allevamento 1 (incremento % pari a circa 21).

FST (Inbreending or Fixation index of subpopulation relative to the total population) - La valutazione del parametro FST (Inbreending or Fixation index of subpo-

pulation relative to the total population) ha evidenziato l’esistenza di un certo livello di differenziazione tra gli allevamenti (tabella 6):

(a) minore tra l’allevamento 4 e l’allevamento 3 (0,017);

(b) maggiore tra l’allevamento 1 e l’allevamento 2 (0,073).

Tutti i confronti si sono rivelati significativi con va-lori di P<0,01. Risulta che l’allevamento 3 ha periodi-camente introdotto riproduttori (specialmente maschili) provenienti dall’allevamento 4; mentre gli allevamenti 2 e 1 non sono stati oggetto di scambio di riproduttori, ma il quoziente di avvicendamento (sia maschile che fem-minile) è stato sempre intraziendale.

I valori di ‘FST’ e quelli di ‘similarità genetica’, con-fermano, rispettivamente, quanto osservato con il test ‘population assignment’ ovvero un certo livello di diffe-renziazione tra i quattro allevamenti e la ‘scarsa varia-bilità genetica’ entro ciascun allevamento.

Coancestralità molecolare Dalla tabella 7 emerge che:(a) nell’allevamento 1 vi sarebbe, apparentemente,

un: (i) più elevato valore del coefficiente medio di

‘moecular coancestry’ 2(fij) (0,370);

2 Applicando la definizione di Malecot (1945) ai marcatori molecolari, Caballero e Toro (2002) hanno rielaborato il coefficiente ‘coancestry’, considerando, tuttavia, l’identità per status piuttosto che quella per discendenza; pertanto, questi Autori, a partire dai dati molecolari, hanno definito il coefficiente di ‘molecular coancestry’ tra due individui o tra due gruppi come la probabilità che due alleli dello stesso locus nei due individui o gruppi siano identici per status.A causa della elevata correlazione tra il coefficiente ‘coancestry’ calcolato a partire dai dati molecolari ed il coefficiente di ‘coancestry’ calcolato a partire dai dati genealogici, tale parametro

Allevamento Similarità Genetica

x σ c.v. %

1 0,442 0,024 5,42 0,351 0,016 4,63 0,417 0,020 4,84 0,365 0,015 4,1

Tabella 5. Valore medio (x), deviazione standard σ e coefficiente di variazione (c.v. %) della ‘similarità gene-tica’ distintamente per allevamento.

Allevamento FST

1 2 3 41 02 0,073 03 0,051 0,049 04 0,048 0,038 0,017 0

Tabella 6. Valori di ‘FST’: confronto tra gli allevamen-ti.

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la razza laticauda355

(ii) minore valore della ‘distanza di kinship’ (Dk) (0,287);

(b) nell’allevamento 4 vi sarebbe, apparentemente, un: (i) valore ridotto del coefficiente medio di ‘mole-cular coancestry’ (fij) (0,271); (ii) valore piuttosto elevato della ‘distanza di kin-ship’ (Dk) (0,364) .

Dal grafico 2 si rilevano valori dei parametri self mo-lecular coencestry (si) (autocoancestralità) e di inbree-ding (inincrocio o consanguineità per status), apparen-temente, più:

elevati nell’allevamento 2; fenomeno ascrivibile (a) in buona parte all’accoppiamento tra soggetti parenti che l’allevatore pratica dato il ridotto numero di arieti pre-senti in azienda;

bassi nell’allevamento 3, a conferma del fatto che (b) quest’ultimo allevamento è caratterizzato da una discre-ta variabilità genetica; ciò era atteso se si considera che l’allevamento 3 può essere definito un ‘allevamento sto-rico della provincia di Benevento’, con buon grado di ‘apertura’, nonché, sempre a livello provinciale, l’alle-vamento con una maggiore consistenza numerica a livel-lo sia totale che di arieti presenti nel gregge.

Conclusioni

Dall’insieme dei dati osservati, sembra possibile met-

può essere convenientemente impiegato in analisi genetiche a fini conservativi (Alvarez et al., 2005). In aggiunta, il coefficiente di ‘molecular coancestry’, inteso come parametro stimante l’entità di verosimiglianza genetica di due popolazioni a un dato locus, è correlato alle principali distanze genetiche utilizzate per gli studi popolazionistici (Eding e Meuwissen, 2001; Caballero e Toro, 2002), tra cui la ‘distanza di kinship’ (Dk); quest’ultima intesa come parametro stimante l’entità di diversificazione genetica fra due popolazioni a un dato locus.

tere in evidenza la presenza di un livello di variabilità genetica:

(a) maggiore all’interno dell’allevamento 4; in esso si riscontrano apparentemente valori elevati di

(i) ricchezza allelica ‘rarefatta’ stimata (ii) ‘eterozigosità’ (iii) distanza di ‘kinship’nonché valori piú bassi di (i) ‘similarità genetica’

(ii) ‘molecular coancestry’(b) minore all’interno dell’allevamento 1; in esso si

riscontrano apparentemente valori meno elevati di (i) ricchezza allelica ‘rarefatta’ stimata (ii) ‘eterozigosità’

(iii) distanza di ‘kinship’nonché valori più alti di

(i) ‘similarità genetica’ (ii) ‘molecular coancestry’.

La ridotta numerosità dei campioni suggerisce estre-ma prudenza nell’interpretazione dei risultati non con-sentendo di trarre conclusioni definitive; pertanto, è au-spicabile proseguire l’attività di tipizzazione incremen-tando il numero dei soggetti indagati.

Le prospettiveD. Matassino, N. Castellano

La pecora Laticauda rappresenta un genoma autoctono largamente presente nel bioterritorio sin dalla fine del 1.500 a.C. ed è degno di maggiore diffusione non solo nel proprio bioterritorio di allevamento. Indubbiamente questa razza, che è già presente in altre regioni oltre alla Campania (Calabria e Molise), ha un potenziale di espansione di ottima rilevanza, anche per la notevole professionalità degli allevatori, che hanno acquisito una visione molto interessante dal punto di vista imprenditoriale. È perciò la sola razza dell’Italia

ParametroAllevamento

1 2 3 4

molecular coancestry medio dell’intera popolazione (fij) 0,370 0,320 0,296 0,271distanza media di kinship (Dk) 0,287 0,376s 0,311 0,364

Tabella 7. Alcuni parametri di ‘coancestralità molecolare’ distintamente per allevamento.

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356i risultati

Meridionale Continentale oggetto, annualmente, di performance test sugli arieti

Sicuramente le attenzioni di allevamento dedicate all’ovino Laticauda sono anche stimolate dalla buona redditività realizzabile, che è caratterizzata dalla capacità di fornire prodotti (formaggio e carne) di particolare valore nutrizionale, extranutrizionale e salutistico, utilizzando fondamentalmente micro-superfici di pascolo durante l’intero anno.

Da una serie di stime eseguite utilizzando dati aziendali e con un incremento nella razionalizzazione della tecnica di allevamento, riguardante sia il momento riproduttivo che quello produttivo, sono scaturiti infatti valori economici molto interessanti.

Dalla produzione della carne (con agnello a 90 giorni di età), considerando 3 parti in 2 anni, si ottiene una produzione vendibile, per anno per pecora, pari a circa 120 Euro per parto singolo, circa 255 Euro per parto gemellare e 324 Euro per parto trigemino; considerando 2 parti in 1 anno, la produzione vendibile, per anno per pecora, risulta invece pari a circa 178 Euro per parto singolo, circa 255 Euro per parto gemellare e 432 Euro per parto trigemino.

La produzione vendibile del latte per anno per pecora (a circa 120 giorni di lattazione), considerando 3 parti in 2 anni, varierebbe tra i 140 Euro e i 179 Euro; inoltre, sulla base del valore medio, in relazione al tipo di parto, la produzione vendibile risulterebbe pari a 156 Euro nel parto singolo e 159 Euro nel parto gemellare. Considerando invece 2 parti in 1 anno, la produzione vendibile, per anno per pecora, varierebbe tra i 187 Euro e i 239 Euro.

Accomunando la produzione di carne e quella di latte, in media, annualmente, si potrebbe avere un valore della produzione vendibile pari a:

3 parti in 2 anni:(a) (i) 275 Euro per parto singolo; (ii) 413 Euro per parto gemellare; (iii) 483 Euro per parto trigemino;

2 parti in 1 anno:(b) (i) 385 Euro per parto singolo; (ii) 467 Euro per parto gemellare; (iii) 644 Euro per parto trigemino.

Vi è perciò l’interesse della Regione Campania alla sua valorizzazione produttiva, con particolare riferimento alla valutazione delle qualità del formaggio e della carne sotto l’aspetto proteomico, lipidomico (CLA e profilo acidico), colorimetrico, reologico e istochimico; la Regione ha finanziato alcune ricerche inerenti:

(a) tipizzazione genetica mediante cariotipo e stabilità genomica stimata con il test dello scambio tra cromatidi fratelli (Sister Chromathid Exchange, SCE);

(b) analisi al locus sede del segmento di DNA codificante αs1-caseina e β-lattoglobulina;

(c) tipizzazione a 19 loci microsatelliti;(d) costituzione della banca del DNA.È inoltre già disponibile una proposta di disciplinare

DOP per la produzione di Pecorino di Laticauda; e IGP per l’Agnello Laticauda

L’attuale sistema di allevamento comporta però il sorgere di problematiche assolutamente da risolvere:

approvazione dei due disciplinari citati;(a) assenza, quasi totale, di consulenza all’allevatore (b)

ai fini sia di migliorare la tecnica di allevamento che di

Grafico 2. Alcuni parametri di ‘coancestralità molecolare’ distintamente per allevamento.

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la razza laticauda357

organizzare adeguate linee di commercializzazione del prodotto caseario e carneo;

il permanere , ancora, di una forte presenza (c)

dell’allevamento poderale;presenza, in un certo numero di allevamenti, di (d)

arieti non di razza Laticauda.

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359

Le indagini di campoE. Castellana, E. Ciani, D. Cianci

a) Gli incontri preliminariDalle interviste condotte durante le riunioni secondo

lo schema dello specifico questionario, anche per la raz-za Leccese è emersa la difficoltà di individuare un ampio numero di aziende con allevamenti in purezza, tra i quali eseguire delle scelte, in quanto gran parte degli alleva-tori si sono orientati verso razze introdotte (in purezza o per frazioni di sangue) soprattutto da altre Regioni italiane, ritenute a maggiori performances produttive e riproduttive.

La Leccese, evolutasi negli anni addietro nelle tre ti-pologie morfologiche, piccola (il tipo originario), media e grande, è oggi rappresentata principalmente da alle-vamenti di taglia media. Solo una azienda mantiene la tipologia di taglia piccola mentre pochissimi allevano la taglia grande. Nel comprensorio di origine e, fino a pochi decenni addietro, di allevamento esclusivo della razza Leccese, molti allevatori le hanno affiancato razze ritenute a più spiccata vocazione lattifera come la Sarda e la Comisana. Gli allevatori che conservano questa pe-cora in purezza, ormai in numero limitato, sono legati alla razza da generazioni. Negli ultimi anni è la razza Sarda a raccogliere il gradimento anche di gran parte de-gli allevatori salentini per la sua produttività, maggiore peso dell’agnello alla macellazione e produzione di latte. Tuttavia gli allevatori incontrati hanno riconosciuto di essere passati troppo in fretta ad altre razze senza appli-care una adeguata opera di selezione perdendo spesso in qualità del prodotto; infatti, il latte della pecora Leccese è più ricco di nutrienti e la resa è superiore rispetto a quello della pecora Sarda per la quale si osserva una più lenta coagulazione ed una minore consistenza del coa-gulo. Colpevoli della situazione negativa degli alleva-menti ovini, oltre ai fattori economici, sarebbe proprio la mancata salvaguardia del prodotto, non valorizzato sul mercato. Il problema della tracciabilità dei prodotti, in particolare per la carne, è quanto mai urgente. L’assi-

stenza di personale tecnico qualificato a costi più diluiti, il ripristino di iniziative come fiere e mostre mercato, una adeguata propaganda del prodotto, riconosciuto come tipico, attraverso la realizzazione di un discipli-nare di produzione rappresentano gli unici strumenti per combattere la pressione dei caseifici industriali e la con-correnza dei Paesi europei ed extraeuropei; ma per fare ciò occorrerebbe unirsi in società o, secondo alcuni, as-sociarsi a consorzi di tutela del prodotto.

Alla luce di quanto si verifica per la macellazione in azienda, spesso eseguita illegalmente, gli allevatori incontrati suggeriscono, anche per facilitare i controlli sanitari, di favorire la legalizzazione di quanto finora si è effettuato di nascosto, essendo le cause scatenanti la il-legalità nella vendita dei prodotti proprio l’eccessivo ri-gore nel rilasciare le autorizzazioni e i costi delle norme applicative, esorbitanti per le piccole e medie aziende. Inoltre alcune norme sono applicate solo da pochi, che tra l’altro sono costretti a subire oltre a controlli e spese piuttosto elevate, una concorrenza sleale.

b) L’indagine aziendale Sulla base delle informazioni acquisite come al punto

a), si è proceduto all’individuazione delle aree di alleva-mento ed è stata sviluppata un’indagine su un congruo numero di aziende di interesse, individuate in modo da assicurare la maggiore rappresentatività sul territorio, nelle quali sviluppare l’indagine questionaria. Scopo dell’indagine è stato analizzare le aree di allevamento, le tipologie aziendali e le linee familiari quali fonti di va-riabilità (e di miglioramento) dei sistemi di allevamento, di alimentazione e delle performances produttive.

La razza Leccese ha facilitato il compito, perché la contrazione del patrimonio e degli allevamenti ha co-stretto a considerare pressocchè tutti quelli rimasti. Le APA di Bari, Lecce e Taranto e l’ASL di Brindisi han-no fornito l’elenco delle aziende, iscritte e non al LG, ancora orientate all’allevamento della razza senza dover ricorrere a scelte rappresentative ed all’accertamento di eventuali fonti di variabilità dei sistemi di allevamento e

la razza leccese

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360i risultati

di alimentazione. Tutti gli allevamenti sono stati accetta-ti per la valutazione, su base soggettiva (giudizio dell’al-levatore), delle performances produttive e riproduttive, nonché delle patologie più frequenti e sui mezzi di pre-venzione e di lotta adottati, per valutare l’adattamento all’ambiente nosologico e le possibilità della produzione biologica.

Oltre agli allevamenti di soggetti di razza Leccese, sono stati presi in considerazione altre aziende ritenute significative dai tecnici, ma con soggetti derivati Lecce-se, utili per i confronti sulle risposte funzionali. Le visite aziendali nel Salento sono state complessivamente 10 ed hanno interessato allevamenti in agro di Nardò, Maglie, Brindisi, Fasano, Cellino San Marco, Carovigno, Stat-te, Mottola e Manduria; di queste solo in 6 è allevata la razza ovina Leccese. Le dimensioni degli allevamen-ti sono principalmente di medio-alta consistenza (150-300 capi); solo due allevamenti sui 10 controllati hanno meno di 50 capi e solo 1 più di 300.

Il sistema di allevamento Nell’ambito della qualificazione dei sottosistemi di

allevamento degli ovini, basata sui criteri e sulle moda-lità di utilizzo delle risorse alimentari del territorio, la razza Leccese, come l’Altamurana, storicamente e nella attualità, è transitata dalla forma pastorale pura (utiliz-zazione scalare di aree pascolive fra di loro più o meno lontane) a quella semipastorale (monticazione locale su suoli pubblici e/o privati) per consolidarsi oggi nella forma stanziale non brada (utilizzazione, prevalente o completa delle risorse alimentari pabulari con integra-zione alimentare all’ovile); non sono presenti alleva-menti a sistema stallino con sola alimentazione all’ovile, con stabulazione fissa o libera.

Per la riconosciuta capacità della pecora Leccese di vivere su suoli aridi, il suo allevamento si è sviluppato sui pascoli poveri e talora rocciosi del Salento. L’erba dei pascoli rappresentava l’alimento principale del greg-ge, talvolta integrato da limitate quantità di foraggio, so-stituito, in estate dalle ristoppie. Questa pratica era tipica di un sistema agro-pastorale integrato, nel quale i pro-prietari delle terre lasciavano pascolare le greggi altrui nei terreni a riposo (che venivano così naturalmente con-cimati), in cambio di precisi quantitativi di formaggio.

Verso la fine degli anni Settanta, il sistema di alleva-mento della pecora Leccese comincia ad essere di tipo brado stanziale, lo spostamento nelle ristoppie non da il risultato di una volta e si effettua meno frequentemente.

La meccanizzazione della cerealicoltura, l’uso dei diser-banti, l’anticipo della rottura delle ristoppie, non consen-tono più al gregge di alimentarsi e rimanere nelle azien-de cerealicole se non poco tempo e con relativi risultati. All’ovile le integrazioni sono solo al bisogno con fieno e foraggio e solo raramente con mangimi. Il pascolo è lavorato ogni 6 mesi, ed è trattato quasi sempre con fer-tilizzanti naturali; il fieno si produce non più di una volta l’anno. Oggi il sistema d’allevamento è semibrado e pre-vede il pascolamento permanente su aree di pascolo piut-tosto estese e mai lavorate; solo al bisogno l’animale ri-ceve integrazioni all’ovile costituite da fieno e mangimi. Viene praticato il turnamento dei pascoli ma gli animali non sono trattati prima di essere spostati da un pascolo all’altro. La tecnica di allevamento prevede la stagione principale dei parti in autunno (ottobre-dicembre) ed una stagione secondaria in primavera (febbraio- aprile). Per quanto riguarda i parametri riproduttivi, è da evidenziare che l’età alla prima monta è piuttosto precoce, sia nelle femmine che nei maschi: le prime vengono saltate ad un età inferiore ai 15 mesi, al più tardi entro i 18 mesi, mentre i maschi vengono avviati alla monta tra gli 8 e gli 11 mesi. Il numero di femmine viene mantenuto bas-so in rapporto agli arieti, aggirandosi mediamente su 1 maschio ogni 15-20 femmine. Un allevamento mantie-ne addirittura un rapporto più basso (1:10). I parametri riproduttivi sono quelli propri delle razze rustiche con fertilità annuale del 90% circa, prolificità del 10-25% secondo le annate e fecondità del 100-110%. Ogni anno muoiono, per malattie o fatti accidentali, dall’1 al 10 % dei capi. La vita delle pecore, intesa come durata del pe-riodo riproduttivo, è di norma superiore a 6 anni; per i maschi la situazione è diversa, in quanto l’utilizzazione riproduttiva viene fatta fino a circa 4 anni, anche se al-cuni allevamenti impiegano i maschi per oltre 6 anni. La rimonta è prevalentemente interna, con un tasso che non supera il 20%, data la durata della carriera riproduttiva delle femmine. Una quota di rimonta superiore al 30% è presente in due allevamenti, ma probabilmente per mo-tivi commerciali. L’allattamento degli agnelli è naturale e lo svezzamento, mai artificiale, avviene entro i 3 mesi d’età, anche per gli agnelli da allevamento; tuttavia due allevamenti svezzano gli agnelli ad età superiore.

Le attitudini produttive La pecora Leccese è ricordata come una pecora a tri-

plice attitudine: latte, carne e lana. La lana, pur conside-rata tra le buone lane italiane da materasso, è divenuta un

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la razza leccese361

prodotto marginale del gregge visto lo scarso peso eco-nomico dovuto al rapido progresso delle fibre sintetiche e dei materassi a molle. I pochi allevamenti di Leccese in purezza sono sempre orientati allo sfruttamento delle produzioni del latte e della carne, che assicurano agli al-levatori le buone risposte produttive da loro dichiarate, soprattutto dei tipi a taglia media e grande, ma non ga-rantiscono gli attesi guadagni sia per la mole che per le produzioni di latte.

La produzione di latte oscilla tra i 100 ed i 200 kg di latte per anno per capo, per una durata della lattazione di 130-180 giorni. Il latte prodotto è utilizzato sia per l’al-lattamento degli agnelli che per la trasformazione. Pro-duzioni minori, comprese tra 50 e 100 litri, si osservano per l’allevamento di piccola mole. La maggior parte del latte prodotto viene caseificato in azienda.

In confronto con la concorrente pecora Comisana e come anche per la razza Altamurana, la produzione del latte è soddisfacente nei primi due mesi (960 g pro die, contro 1050 g della comisana), ma è più limitata al sec-chio (risipettivamente 390 g contro 540 g). Ricupera però in qualità (9.10 % di grasso della Leccese contro lo 8.90 % della Comisana; 6.70% vs 6.60% di proteine) so-prattutto per la ridotta presenza delle cellule somatiche (410 mila per ml nel latte della Leccese e 600 mila nel-la Comisana) Una difficoltà caratteristica della pecora Leccese è rappresentata dall’applicabilità dei sistemi di mungitura meccanica; perciò molti allevatori di Leccese continuano a preferire la mungitura a mano, nonostan-te le insistenze delle ASL che vedono nella mungitura meccanica un notevole progresso per l’igiene del latte. I responsabili delle ASL incontrati auspicano che gli al-levatori possano essere incoraggiati attraverso contributi all’acquisto e quindi all’utilizzo delle mungitrici.

Uno strumento fondamentale di valorizzazione af-fiancato alla fase di produzione è la trasformazione dei prodotti in loco (filiera corta), che consentirebbe ai for-maggi della pecora Leccese, oggi elencati come prodotti tradizionali (pecorino leccese, pecorino di Maglie, pe-corino brindisino) di caratterizzarsi come prodotti tipi-ci e come tali aspirare al riconoscimento di Indicazione Geografica Protetta, condensando la memoria storica, la localizzazione geografica, le tecniche di produzione e la qualità della materia prima, che conferiscono loro una chiara identità che li lega al luogo di produzione per le materie prime utilizzate, per le attrezzature e i processi di trasformazione trasmessi dalla tradizione (la maggior parte dei produttori è ancora legato ad una organizzazio-

ne artigianale), per le qualità organolettiche superiori a quelle possedute dai prodotti di massa.

Questi formaggi condensano la fertilità della terra, la fragranza dei pascoli ricchi di essenze foraggere sponta-nee, la qualità del latte prodotto dalla razza Leccese, la tradizione e l’esperienza dei casari, che si sono lentamen-te amalgamati. Frutto di una antica tradizione casearia, i pecorini leccesi si ottengono ancora lavorando insieme ingredienti naturali come latte, sale e caglio, ottenendo produzioni caratteristiche.

L’attitudine alla carne viene sfruttata anche nella attuale razza Leccese di taglia media, nella quale sono presenti elevate frazioni di sangue Bergamasco. Accan-to alla buona fecondità, la macellazione dell’agnello, di norma alla 4-6 settimane di vita, assicura un peso vivo fino a 16 kg ed una resa del 67 – 69 %. Per la Leccese di taglia piccola sono presenti anche agnelli macellati a 6-8 settimane ed a peso inferiore. Molti allevatori orien-tati verso un più rapido incremento della produzione del latte hanno perciò optato per l’incrocio con razze a più spiccata vocazione lattifera. Il risultato di tali incroci sono stati una maggiore quantità di latte al secchio oltre ad un aumento della mole, un incremento della prolifi-cità al 15% nella taglia piccola, al 20-25% nella media, fino al 30% nella grande.

Difficoltà vi sono tuttavia nella commercializzazione dei prodotti sia per la presenza di catene commerciali che desiderano acquistare grandi partite a basso prezzo sia perché essi sono ancora poco conosciuti e valorizzati, soprattutto nel comparto della carne.

Benessere e stato di salute Tutte le aziende visitate sono sotto controllo veterina-

rio. Il controllo parassitario si effettua in media 1 volta l’anno. Nella maggior parte degli allevamenti le vacci-nazioni sono pianificate; due volte l’anno sono utilizzati farmaci antielmintici con trattamento individuale degli animali. Quasi mai sono venduti animali da riproduzio-ne; solo in tre aziende fra quelle visitate sono introdotti animali da riproduzione sui quali però non si effettuano particolari trattamenti o quarantene.

Gli allevamenti di razza Leccese hanno un ricovero regolare e gran parte degli allevatori, esprimendo una propria valutazione delle condizioni in cui vivono gli animali, ha indicato per le voci “contatti sociali fra gli animali” e “qualità della pavimentazione” un livello definito “buono”; relativamente alla possibilità di mo-vimento è stato annotato un giudizio “ottimo” anche

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362i risultati

perché lo spazio all’aperto e al pascolo disponibile per gli animali è nella grande maggioranza degli allevamenti elevato. Soltanto il giudizio complessivo sull’ambiente (luce, ventilazione e rumore) è risultato ad un livello più basso, ovvero “sufficiente”. Infine la situazione sanitaria degli allevamenti è considerata buona perché gli alleva-tori, sempre più giovani e preparati, sono attenti sia alla profilassi che ad una corretta alimentazione del bestia-me. Da un controllo effettuato dal Servizio Veterinario delle ASL su 19 allevamenti (6 di razza leccese e 13 de-rivati leccese) è risultato che 16 presentavano strongilo-si, 4 coccidi, 3 teniasi, due ascaridiosi, 2 fasciola ed uno dicroceliosi. I tecnici veterinari ammettono che numero-se patologie, che richiedono una corretta profilassi, sono state favorite dall’introduzione di razza alloctone e dal-la trasformazione dell’allevamento da prevalentemente

brado a prevalentemente stabulogeno. Anche l’umidità, aumentata negli ultimi anni, avrebbe favorito l’insorgere di patologie tra cui dricoceliosi e zoppia.

Le analisi genomicheE. Ciani, F. Cecchi, R. Ciampolini

L’analisi del polimorfismo L’analisi di caratterizzazione molecolare effettuata

mediante il panel dei 19 marcatori microsatellite prescel-ti ha consentito di mettere in evidenza nella popolazione

Locus Chromosome Na (1) Ho

(2) He (3) P (4)

OarAE129 5 6 0,354 0,692 0BM1824 1 4 0,583 0,712 0,002BM8125 17 8 0,695 0,795 0,072OarFCB128 2 8 0,802 0,746 0,063OarFCB193 11 4 0,309 0,394 0,127OarFCB304 19 14 0,825 0,82 0,84ILSTS11 9 7 0,719 0,755 0,179ILSTS28 3 11 0,485 0,678 0ILSTS5 7 10 0,542 0,772 0INRA63 14 12 0,814 0,825 0,019OarJMP29 24 11 0,753 0,765 0,151OarJMP58 26 13 0,856 0,847 0,359MAF209 17 10 0,835 0,84 0,21MAF214 16 10 0,68 0,696 0,121MAF33 9 10 0,747 0,845 0,018MAF65 15 9 0,813 0,802 0,52MAF70 4 16 0,825 0,906 0MCM140 6 16 0,747 0,806 0,009OarVH72 25 8 0,781 0,823 0,569Media 9,8 0,693 0,764

(1) Numero di alleli; (2) Eterozigosità osservata; (3) Eterozigosità attesa; (4) Probabilità

Tabella 1. Parametri di diversità genetica del cam-pione complessivo di razza Leccese.

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la razza leccese363

complessiva (N = 97) un totale di 187 alleli. Tutti i loci sono risultati polimorfici (Tab. 1), con un numero di alle-li che varia da un minimo di 4 (BM1824 ed OarFCB193) ad un massimo di 16 (MAF70 ed MCM140) e con un numero medio di alleli pari a 9,8. I loci OarFCB193 e MAF70 presentano, rispettivamente, il valore minimo (N = 3) ed il valore massimo (N = 15) di alleli anche nel campione di razza Altamurana.

Per rendere confrontabile il numero di alleli osser-vato nelle cinque sottopopolazioni ascrivibili ai diversi allevamenti di origine dei soggetti di razza Leccese (ca-ratterizzate da una diversa numerosità del campione in esame) è stato calcolato, usando il pacchetto statistico FSTAT (Goudet, 2001), il parametro “allele richness”, un indice del numero di alleli presenti in un campione popolazionistico indipendentemente dalle dimensioni

dello stesso (Hurlbert 1971; El Mousadik et Petit 1996). Tale analisi ha evidenziato i valori più elevati di ricchez-za allelica (6,294) per la sottopopolazione 1 e quelli più contenuti per le sottopopolazioni 4 e 5 (4,913 e 5,001, rispettivamente). Il valore medio di “allele richness” per l’intera popolazione era pari a 6,427 (Tab. 2).

L’analisi della distribuzione degli alleli nelle diverse sottopopolazioni definite sulla base dell’allevamento di origine dei soggetti evidenzia la presenza di numerosi alleli “privati” (osservati in una sola delle cinque sotto-popolazioni), pari al 22% degli alleli complessivamente

Allele richnessLocus Allevam. 1 Allevam. 2 Allevam. 3 Allevam. 4 Allevam. 5 Pop. Tot.OarAE129 4,765 3 3,63 2,997 4,311 4,167BM1824 2,999 3 3 2,997 3,697 3,954BM8125 6,697 4 3 3 6,081 6,361OarFCB128 5,765 6 6,488 4,846 4,291 6,023OarFCB193 3,6 3 1,632 2,997 2 2,609OarFCB304 6,497 7 7,389 6,92 6,039 8,267ILSTS11 5,951 5 3,741 4,994 4,729 5,316ILSTS28 6,199 4 5,532 3,923 3,803 5,643ILSTS5 5,595 7 4,489 6,766 3,457 6,55INRA63 9,126 7 4,765 5,769 5,353 7,732OarJMP29 8,321 6 5,459 4,923 3,903 5,828OarJMP58 7,551 7 7,742 5,846 6,796 7,708MAF209 6,755 6 5,771 5,92 7,157 7,598MAF214 5,395 4 4,894 3 3,944 5,751MAF33 5,855 7 6,457 4 6,153 7,74MAF65 3,999 6 5,249 5 5,326 6,249MAF70 10,095 9 8,997 8,535 7,86 10,549MCM140 9,426 7 7,988 5 4,498 6,978OarVH72 4,995 7 6,458 5,917 5,622 7,084Media 6,294 5,684 5,404 4,913 5,001 6,427

Tabella 2. “Allele richness” per le cinque sottopola-zioni ascrivibili ai diversi allevamenti e per la popola-zione totale di Leccese.

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364i risultati

osservati nel campione di razza Leccese. Si tratta gene-ralmente di alleli rari, con frequenze solitamente inferiori al 10% (calcolate considerando la numerosità di ciascu-na sottopopolazione), ad eccezione di alcuni alleli osser-vati per i loci BM1824, BM8125, INRA63, OarJMP29, MAF65, MAF214 (Tab. 3). Sembra verosimile ipotizza-re che almeno parte di tali alleli “privati” possa derivare da passati eventi di incrocio con genotipi alloctoni. Gli allevatori riferiscono infatti di aver introdotto, negli anni ’80 ed anche oltre, principalmente riproduttori di razza Bergamasca, al fine di ottenere soggetti più pesanti e dal-la mole maggiore, che si caratterizzano, peraltro, dalla presenza di un profilo più o meno montonino e di orec-chie più lunghe e pesanti rispetto a quelle dei soggetti della originaria razza Leccese.

L’allevamento in cui minore si è rivelata la presenza di alleli “privati” è stato l’allevamento 4 seguito dall’alle-vamento 2. Il numero maggiore di alleli “privati” è stato invece osservato nell’allevamento 1 (il quale, da quanto si evince dal questionario, pratica anche incroci com-merciali Leccese X Comisana e forse qualche accoppia-mento indesiderato potrebbe essere sfuggito nei soggetti in purezza). Un discorso a parte merita l’allevamento 5 (che si differenzia dagli altri per la presenza di soggetti di razza Leccese maggiormente prossimi alla tipologia più tradizionale) nel quale è stato osservato un numero abbastanza consistente di alleli “privati” e dove, soprat-tutto, sono stati osservati alcuni tra gli alleli “privati” con i valori maggiori di frequenza (30% per un allele al locus BM1824; 20% per un allele al locus MAF65; 18% per un allele al locus MAF214). Un allele “privato” con frequenza particolarmente elevata è stato, infine, osser-vato al locus MAF214 nell’allevamento 3 (~ 39%).

Equilibrio di Hardy-WeinbergIl valore medio di eterozigosità osservata è pari a

0,693 (Tab. 1), con un valore minimo di 0,309 (Oar-FCB193) ed un valore massimo di 0,856 (OarJMP58) e 0,835 (MAF209). Anche nella razza Altamurana Oar-FCB193 presenta il valore medio di eterozigosità osser-vata più basso e MAF209 quello più alto. Il valore medio di eterozigosità attesa nel campione di razza Leccese è pari a 0,764.

Dei 19 marcatori microsatellite complessivamen-te analizzati, 6 loci (OarAE129, BM1824, ILSTS28, ILSTS5, MAF70 e MCM140) hanno presentato una si-gnificativa deviazione rispetto alle proporzioni attese in base all’equilibrio di Hardy-Weinberg (P < 0,01), carat-

terizzata, per tutti i sei loci, da difetto di genotipi ete-rozigoti. I loci sottolineati sono risultati in disequilibrio anche nella popolazione di razza Altamurana, a sostegno dell’ipotesi che fa derivare le due razze da un antenato

comune.

L’analisi all’interno delle sotto-popolazioni definite in base all’allevamento di origine (Tab. 4) ha evidenzia-to valori medi di eterozigosità osservata minori per l’al-levamento 4 (0,628) e maggiori per quello 1 e 2 (0,731 e 0,732, rispettivamente). Per le sotto-popolazioni 1 e 2 non sono stati osservati loci in significativo disequi-librio (P < 0,01) mentre risultano in significativo dise-

Locus n. alleli “privati” freq. max

OarAE129 2 0,033BM1824 1 0,297BM8125 1 0,107OarFCB128 2 0,042OarFCB193 1 0,033OarFCB304 3 0,083ILSTS11 1 0,067ILSTS28 5 0,079ILSTS5 1 0,053INRA63 4 0,167OarJMP29 4 0,1OarJMP58 3 0,033MAF209 1 0,039MAF214 4 0,395MAF33 0 0MAF65 3 0,197MAF70 2 0,038MCM140 3 0,036OarVH72 0 0

Tabella 3. Alleli osservati in una sola delle cinque sottopopolazioni definite sulla base dell’allevamento di origine (“alleli privati”).

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la razza leccese365

Allevamento 1 Allevamento 2 Allevamento 3 Allevamento 4 Allevamento 5

Locus Ho He P Ho He P Ho He P Ho He P Ho He P

OarAE129 0,4 0,687 0,09 0,583 0,598 1 0,368 0,642 0,008 0,308 0,582 0,174 0,27 0,72 0

BM1824 0,333 0,641 0,059 0,833 0,707 0,691 0,579 0,688 0,017 0,385 0,563 0,099 0,676 0,696 0,183

BM8125 0,643 0,791 0,525 0,75 0,656 0,903 0,579 0,649 0,922 0,25 0,435 0,367 0,895 0,833 0,773

OarFCB128 0,8 0,752 0,378 0,667 0,667 1 0,842 0,829 0,967 0,923 0,665 0,41 0,784 0,642 0,551

OarFCB193 0,4 0,559 0,74 0,25 0,308 1 0,053 0,053 1 0,308 0,532 0,186 0,421 0,456 0,728

OarFCB304 0,667 0,72 0,82 0,833 0,812 0,71 0,895 0,814 0,091 0,769 0,855 0,818 0,868 0,778 1

ILSTS11 0,867 0,802 0,851 0,75 0,674 0,741 0,737 0,605 0,617 0,538 0,68 0,159 0,703 0,722 0,812

ILSTS28 0,8 0,71 0,704 0,25 0,551 0,02 0,421 0,76 0 0,538 0,751 0,393 0,447 0,448 0,038

ILSTS5 0,733 0,69 0,238 0,583 0,815 0,106 0,579 0,661 0,376 0,615 0,834 0,286 0,405 0,455 0,014

INRA63 0,933 0,862 0,761 0,917 0,841 0,688 0,632 0,575 0,909 0,846 0,757 0,383 0,816 0,775 0,161

OarJMP29 0,933 0,837 0,966 0,667 0,732 0,146 0,737 0,78 0,721 0,846 0,738 0,637 0,684 0,692 0,874

OarJMP58 0,667 0,802 0,101 1 0,841 0,921 0,842 0,777 0,812 1 0,794 0,866 0,842 0,774 0,189

MAF209 0,8 0,653 0,775 0,583 0,634 0,561 0,684 0,7 0,733 0,692 0,68 1 0,658 0,618 0,172

MAF214 0,867 0,823 0,986 0,75 0,779 0,348 0,789 0,737 0,649 0,846 0,818 0,87 0,868 0,844 0,646

MAF33 0,857 0,815 0,949 0,75 0,888 0,826 0,895 0,819 0,108 0,5 0,67 0,052 0,711 0,806 0,334

MAF65 0,8 0,754 0,627 1 0,768 0,426 0,737 0,757 0,566 0,667 0,594 1 0,842 0,753 0,267

MAF70 1 0,897 0,996 0,917 0,902 0,939 0,737 0,859 0,086 0,538 0,698 0 0,868 0,86 0,03

MCM140 0,714 0,905 0,113 1 0,848 0,173 0,895 0,865 0,349 0,583 0,591 0,714 0,658 0,635 0,964

OarVH72 0,667 0,786 0,133 0,833 0,764 0,376 0,789 0,846 0,08 0,769 0,8 0,822 0,811 0,789 0,68

media 0,731 0,762 0,732 0,725 0,673 0,706 0,628 0,686 0,696 0,7

Ho: eterozigosità osservata; He: eterozigosità attesa; P: valore di probalità

Tabella 4. Rispetto delle proporzioni di Hardy Weinberg nelle sotto-popolazioni di Leccese definite per allevamento di origine.

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366i risultati

quilibrio il locus MAF70 per la sottopopolazione 4, il locus OarAE129 per le sotto-popolazioni 3 e 5 ed il lo-cus ILSTS28 per la sotto-popolazione 3. Questi tre loci (MAF70, OarAE129 e ILSTS28) sono risultati in signi-ficativo disequilibrio anche nella popolazione comples-siva di razza Leccese (Tab.1) e nella razza Altamurana.

In generale, cinque loci (OarAE129, BM1824, Oar-FCB193, ILSTS28, ILSTS5) presentano difetto di ge-notipi eterozigoti, sebbene non significativo, in almeno quattro delle cinque sotto-popolazioni, mentre altri cin-que loci (OarFCB128, INRA63, OarJMP58, MAF214 e MAF65) presentano un leggero eccesso di genotipi ete-rozigoti in almeno quattro delle cinque sotto-popolazio-ni.

Linkage disequilibrium

Nella popolazione totale, su 171 possibili confronti a coppie, si osservano 80 coppie di loci con significativo (P < 0,01) sbilanciamento gametico (46,78%). Le due coppie di loci sintenici (BM8125/MAF209 e ILSTS011/MAF33) sono entrambe in significativo linkage disequi-librium.

L’analisi dello sbilanciamento gametico nelle sotto-popolazioni definite in base all’allevamento di prove-nienza evidenzia come nessuna delle due coppie sinte-niche contribuisca a tale sbilanciamento in nessuna delle sotto-popolazioni. In aggiunta, il numero di coppie di loci in disequilibrio all’interno di ciascuna sottopopola-zione si riduce notevolmente rispetto a quanto osservato nel campione complessivo, con valori minimi nell’alle-vamento 1 (0,58%) e 3 (1,75%) e massimi nell’alleva-mento 5 (7,02%).

I pattern di linkage disequilibrium osservati all’inter-no di ciascuna sotto-popolazione sono molto differen-ziati e non sembrano ricondurre ad alcuna tendenza co-mune (le coppie di loci in LD in una sotto-popolazione sono diverse da quelle in LD nelle altre). Il forte segnale di sbilanciamento gametico che si osserva nel campione complessivo sembra dunque ascrivibile proprio alla pre-senza di sottopopolazioni distinte.

Fig. 1. Rappresentazione grafica dei risultati ottenuti mediante l’analisi delle componenti principali.

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la razza leccese367

Analisi della struttura genetica

La differenziazione tra le cinque sotto-popolazioni (allevamenti) è stata indagata attraverso l’analisi del-le componenti principali (PCA, Principal Component Analysis) utilizzando il software GenAlEx v. 6.1 (Pea-kall et Smouse, 2006). Come è possibile osservare in fi-gura 1, la sotto-popolazione che risulta meglio differen-ziata è quella rappresentata dall’allevamento 5, seguita dall’allevamento 3 e 4.

La differenziazione tra le sotto-popolazioni è stata indirettamente indagata anche attraverso l’adozione di un population assignment test basato su un approccio di maximum likelihood. I risultati indicano che l’approccio adottato è in grado di attribuire in modo corretto alla sot-to-popolazione di origine tutti i soggetti considerati (N = 97) eccetto tre (3,09%), che sono erroneamente attribuiti ad un sotto-popolazione diversa da quella di origine.

Ciò suggerisce la presenza di un marcato livello di differenziazione tra le diverse sotto-popolazioni, e/o di un elevato livello di omogeneità all’interno di ciascuna sotto-popolazione. Infatti, il valore di FST per le sotto-popolazioni definite secondo l’allevamento di apparte-nenza è pari a 0,104; l’analisi locus per locus (Tab. 5) evidenzia valori minimi di FST per il locus OarVH72 (0,049) e massimi per il locus ILSTS5 (0,248). I con-fronti a coppie tra sottopopolazioni definite secondo l’al-levamento di origine (Tab. 6) evidenziano il valore mi-nimo di FST tra allevamento 1 ed allevamento 2 (0,055), seguite dal confronto tra allevamento 1 vs allevamento 4 (0,065) ed un valore massimo tra allevamento 4 e 3 (0,146). Tutti i confronti sono risultati significativi, con P < 0,001. Quanto alla similarità genetica, il valore me-dio per la popolazione complessiva è pari a 0,322. Tale valore risulta inferiore rispetto a quanto osservato per le altre razze in esame, ad eccezione della razza Gentile di Puglia (0,318). A fronte di un valore di similarità gene-tica media per la popolazione complessiva pari a 0,322, all’interno delle sottopopolazioni si osservano, tuttavia, valori di similarità genetica relativamente più elevati (Tab. 7), in particolar modo per le aziende 4 e 5. Per tali allevamenti (4 e 5), sembra possibile ipotizzare che la maggiore omogeneità derivi da una gestione accurata degli schemi selettivi, volta a rendere più uniforme la popolazione e/o dal maggiore isolamento riproduttivo, così come accertato nell’indagine preliminare, nella qua-le gli allevatori hanno affermato di non fare ricorso a riproduttori di provenienza esterna all’allevamento.

Infine, anche utilizzando il software STRUCTURE, che implementa un approccio di tipo Bayesiano, è stato possibile inferire la presenza di cinque sottopopolazio-ni (100.000 burn-in period; 100.000 reps; no-admixture model) quasi completamente corrispondenti alla suddi-visione in allevamenti di origine dei soggetti campionati. Analizzando i risultati dell’assegnazione popolazionisti-ca emerge, infatti, come 14 soggetti su 15 dell’alleva-mento 1 siano ad esso correttamente assegnati; analoga-mente, sono correttamente assegnati 11 su 12 individui dell’allevamento 2, 18 su 19 dell’allevamento 3, 11 su 13 dell’allevamento 4 ed infine 36 soggetti su 38 dell’al-levamento 5.

Dall’insieme dei risultati emerge in modo abbastanza chiaro come l’allevamento 5 (della provincia di Lecce)

Locus FST POarAE129 0,096 0,001BM1824 0,125 0,000BM8125 0,148 0,000OarFCB128 0,077 0,000OarFCB193 0,096 0,000OarFCB304 0,051 0,000ILSTS11 0,109 0,000ILSTS28 0,181 0,000ILSTS5 0,248 0,000INRA63 0,109 0,000OarJMP29 0,057 0,000OarJMP58 0,088 0,000MAF209 0,087 0,000MAF214 0,053 0,000MAF33 0,081 0,000MAF65 0,116 0,000MAF70 0,089 0,000MCM140 0,109 0,000OarVH72 0,049 0,000media 0,104

Tabella 5. Valori di Fst per singolo locus (sottopopo-

lazioni definite secondo l allevamento di origine).

Page 368: Book Final Version

368i risultati

si differenzi rispetto agli altri allevamenti (cfr. la consi-stente presenza di alleli privati con elevati valori di fre-quenza allelica e l’analisi delle componenti principali) e, soprattutto, come esso si caratterizzi per i bassi valori di ricchezza allelica, gli elevati valori di similarità genetica,

i più elevati valori di molecular coancestry e di inbree-ding (stimati a partire dalle informazioni molecolari me-diante il software MolKin, tab. 8), ad indicare, nel com-plesso, che la popolazione è estremamente omogenea, verosimilmente anche a causa della difficoltà di reperire,

Allevam. 1 Allevam. 2 Allevam. 3 Allevam. 4 Allevam. 5Allevam. 1 0Allevam. 2 0,056 0Allevam. 3 0,083 0,089 0Allevam. 4 0,065 0,097 0,146 0Allevam. 5 0,079 0,096 0,137 0,111 0

Tabella 6. Valori di FST per coppie di sottopopolazioni definite secondo l’allevamento di origine.

Campione Media Dev.St. RangeTotale n. 91 0,322 0,013 0,08 - 0,69Allevamento 1 n. 14 0,351 0,017 0,18 - 0,53Allevamento 2 n. 12 0,408 0,017 0,24 - 0,68Allevamento 3 n. 19 0,404 0,018 0,16 - 0,66Allevamento 4 n. 11 0,432 0,018 0,29 - 0,66Allevamento 5 n. 35 0,425 0,018 0,21 - 0,68

Tabella 7. Valori di similarità genetica per il campione totale e per i singoli allevamenti.

All.1 All.2 All.3 All.4 All.5

Numero soggetti 15 12 19 13 38

Self molecular coancestry (si)

0,633 0,632 0,665 0,654 0,689

Inbreeding 0,267 0,264 0,33 0,309 0,377

Molecular coancestry (fij)

0,274 0,319 0,323 0,313 0,366

Distanza media di kinship (Dk)

0,359 0,313 0,342 0,341 0,323

Tabella 8. Parametri genetici per i singoli allevamenti, calcolati utilizzando le informazioni molecolari.

Page 369: Book Final Version

la razza leccese369

in altri allevamenti, materiale genetico da introdurre ne-gli schemi di accoppiamento senza alterare le peculiari caratteristiche di originalità genetica, visibili anche fe-notipicamente, che contraddistinguono tale sotto-popo-lazione. Al contrario, l’allevamento 1 (della provincia di Brindisi) ha presentato i maggiori valori di ricchezza allelica, il maggior numero di alleli privati e una eleva-ta eterozigosità osservata. Ciò sembra suggerire che tale allevamento risenta significativamente, ancora oggi, dei fenomeni di crossbreeding verificatisi, a detta degli al-levatori, durante gli anni ’80 ed anche oltre e che hanno portato alla costituzione di soggetti di razza Leccese più pesanti e dalla mole maggiore rispetto all’originaria po-polazione a cui oggi, sicuramente, rimangono più vicini i soggetti dell’allevamento 5.

L’assenza di un significativo disequilibrio tra coppie di loci, come ci si potrebbe aspettare nelle generazio-ni immediatamente successive ad un incrocio tra razze geneticamente distinte, sembrerebbe supportare l’ipote-si che i sopra evocati eventi di incrocio siano da collo-care in tempi relativamente non recenti. In alternativa, si potrebbe anche ipotizzare che ad aver contribuito ad aumentare i livelli di polimorfismo osservabili nell’al-levamento 1 siano stati più recenti fenomeni di admi-xture con allevamenti di soggetti di razza Leccese non considerati nel presente studio. A fronte di tali estremi (rappresentati dagli allevamenti 1 e 5), i restanti alleva-menti sembrano mostrare comportamento intermedio; occorre, tuttavia, evidenziare come l’allevamento 4 (del-la provincia di Lecce) presenti i valori minori di ricchez-za allelica, il numero minore di alleli privati, la minore eterozigosità osservata ed i più elevati valori di similari-tà genetica intra-allevamento; tale omogeneità genetica potrebbe suggerire, da un lato, che l’allevamento abbia subito solo in minor grado l’influenza di passati eventi di crossbreeding e/o, dall’altro, che la sottopopolazione soffra per fenomeni di eccessivo isolamento riproduttivo (vedi sopra).

Nel complesso, le evidenze sopra riportate suggeri-scono la forte necessità di stabilizzare la struttura ge-netica della popolazione di razza Leccese, superando i grossi problemi di frammentazione che la contraddistin-guono attraverso l’adozione di strumenti, concordati e partecipati tra gli allevatori, di pianificazione e gestione degli accoppiamenti. Accanto a ciò, sembra possibile ravvisare un margine di azione per procedere, qualora lo si ritenesse opportuno, ad un recupero graduale della tipologia più tradizionale ma, ovviamente, ciò risulta an-

cor più imprescindibilmente legato all’instaurarsi di una volontà collettiva da parte degli allevatori di operare in una unica direzione predefinita e concordata.

ProspettiveD. Ciani, E. Castellani, E. Ciani

La razza Leccese, come le altre razze ovine dell’Italia Meridionale Continentale, ha sofferto notevolmente per le difficoltà dell’ovinicoltura, senza beneficiare, se non marginalmente, delle favorevoli prospettive soprattutto del settore lattiero-caseario.

Nel Salento, comprensorio di allevamento della razza Leccese, come sulla Murgia dell’Altamurana, nonostante la apparente omogeneità, le situazioni ambientali, agro-zootecniche e sociali creano uno scenario complesso nel quale si individuano molteplici interazioni tra uomo, animale ed ambiente; tutto ciò, accanto alla disuniformi-tà morfologica e funzionale della popolazione ovina, in parte sostituita da razze alloctone, ed alla variabilità delle tecnologie adottate, non rende possibile generalizzazioni e non agevola il compito di fornire una rappresentazione univoca delle problematiche.

Ma l’allevamento ovino in questo comprensorio ha, ancora oggi, dimensioni quantitative di rilievo tale da rappresentare un tema di interesse tecnico, economico e sociale, nonché ambientale e politico, anche perché si riflette sulla necessità ormai nota, condivisa ed urgente di valorizzare il territorio attraverso la migliore integra-zione tra risorse economiche ed ambientali, favorendo la salvaguardia e la valorizzazione della biodiversità stori-ca e di ambienti nei quali i caratteri di marginalità e le difficili condizioni climatiche comportano un continuo degrado.

I risultati di questa sperimentazione confermano in-fatti che la razza Leccese produce interessanti quantità di latte e, soprattutto, di ottima qualità, che tuttavia soffre di elevata variabilità ascrivibile alle differenze nel ma-nagement di allevamento (alimentazione, cure igieniche, collocazione geografica dell’azienda).

Per quanto attiene la produzione della carne, conside-rati i lusinghieri risultati degli accrescimenti e delle rese, ulteriore impulso alla valorizzazione dell’agnello Lecce-se potrebbe derivare da indagini specificatamente rivolte alla valutazione dietetico-nutrizionale del prodotto otte-nuto nei sistemi tradizionali di allevamento, con partico-

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370i risultati

lare riferimento alla composizione acidica del grasso. Il futuro della razza Leccese, come di tanta parte della

ovinicoltura meridionale, passa perciò attraverso alcune tappe, tra le quali grande importanza assume la tipizza-zione e la promozione dei prodotti, necessarie a garantire lo spazio di mercato che meritano e reclamano. Tuttavia, ad un’adeguata e doverosa azione di sostegno da parte delle istituzioni, non solo in termini di tutela della tipi-cità delle produzioni, ma anche di strutture ed infrastrut-ture efficienti, deve affiancarsi l’azione degli allevatori, i quali, con il contributo dei mezzi e delle innovazioni messi a loro disposizione da tecnici e ricercatori in ma-teria di miglioramento genetico, di alimentazione, di tec-niche riproduttive, sono chiamati a ricoprire il ruolo di primi e più importanti promotori delle produzioni zoo-tecniche al cospetto di consumatori informati ed esigen-ti, capaci di distinguere genuinità e salubrità dei prodotti e che, in presenza di una varietà di scelta quasi illimitata, per scegliere esigono qualità certa e costante nel tempo.

L’analisi genomica ha ovviamente messo in evidenza la eterogenea ed instabile struttura genetica della attuale popolazione ovina, nella quale, nonostante gli accorgi-

menti messi in atto nella scelta del campione di aziende da ammettere allo studio, è chiara la presenza di frazioni di sangue alloctono (alleli di marcatori molecolari). A ciò si aggiunge la marcata frammentazione della popo-lazione complessiva, per il ridotto scambio di materiale genetico tra i diversi allevamenti; tale isolamento ripro-duttivo contribuisce ad amplificare gli effetti della deri-va genetica su una popolazione già oggetto, nei decenni passati, di una drastica contrazione numerica, ponendo serie preoccupazioni per un corretto mantenimento della razza. Occorre giungere rapidamente alla identificazione o, alla ridefinizione, di chiari e precisi orientamenti ed obiettivi selettivi, ed è, soprattutto, necessario che tali obiettivi vengano accettati e condivisi attivamente da tut-ti gli allevatori, in modo da superare gli attuali elementi di particolarismo e poter garantire una base genetica più ampia per le azioni di salvaguardia e recupero genetico della razza Leccese, che ha in sé tutte le potenzialità per candidarsi ad una nuova espansione negli allevamenti, purchè si voglia puntare al riconoscimento della tipicità e della qualità dei prodotti locali, soprattutto se commer-cializzati in filiera corta.

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371

L’indagine di campoF. Cecchi (dati forniti dalle UU.OO. DFGA, CON-

SDABI, PRIME, SPAB)

Informazioni generaliSolo il 50% degli allevatori sono membri della As-

sociazione di categoria ed il 58,82% è iscritto al Libro Genealogico. Di norma (circa il 75%) si dedicano ad una sola razza, mentre il restante 25% alleva più razze in pu-rezza o incrociate.

La destinazione produttiva prevalente è duplice (car-ne e latte) e soltanto un allevamento di Gentile di Puglia produce anche lana come attività prevalente (Tab. 1). Il latte come attitudine principale è previsto in 3 alleva-menti di Laticauda, mentre la funzione esclusiva carne viene sfruttata in 4 allevamenti (uno Laticauda, uno Lec-cese, uno Merinizzata ed un allevamento misto di Lati-cauda, Altamurana e Leccese).

Tabella 1. Utilizzazione prevalente degli animali.

Carne/Latte Carne/Latte/Lana Carne Latte84,61% 1,92% 7,69% 5,77%

Superficie aziendale e sua destinazione Le Aziende coprono in media 77,86 ha (minimo 1 ha

- massimo 500 ha) con una media di 57,85 ha di pascolo (minimo 0 ha - massimo 400 ha), utilizzato prevalen-temente (Tab. 3) come pascolo permanente (50% degli allevamenti), talora associato all’integrazione all’ovile (25%).

Naturalmente le razze più adatte al sistema estensivo sono quelle che hanno a disposizione maggiore super-ficie totale, nell’ordine: Altamurana (360 ha in media), Gentile di Puglia (media 283 ha) e Leccese (range tra 18 e 130 ha). Per quanto riguarda l’area totale a pascolo, i risultati rispecchiano quelli riguardanti la superficie tota-le dell’azienda. In particolare l’Altamurana ha a disposi-

zione più ettari di pascolo con una media di allevamento pari a 310 ha. Seguono la Comisana con una media di 70 ha e la Leccese con 15 - 55 ha. La razza Laticauda è quella che ha a disposizione meno ettari al pascolo ri-spetto alle altre (4 ha in media).

Sullo stesso pascolo destinato agli ovini di norma non vengono avviate altre specie animali; in 15 aziende (su 52) sono presenti altri animali, soprattutto bovini (Tab. 2).

Tabella 2. Altri animali presenti sul pascolo.

Bovini 15,38%Bovini e suini 1,92%Bovini, capre e cavalli 1,92%Capre 5,76%Capre e cavalli 3,84%

Il pascolamento integrativo prevalentemente utilizza-to è quello su foraggiere coltivate e/o ristoppia e quasi tutti gli allevatori si avvalgono dell’integrazione in ovile, (Tab. 3 e 4). L’integrazione all’ovile con foraggi freschi o conservati è prevista regolarmente solo per le razze ad allevamento più controllato (Laticauda).

Il pascoloNormalmente il pascolo è del tutto naturale. La ta-

bella 5 evidenzia che nel 67,31% dei casi il terreno non viene mai lavorato; alcuni allevatori lo lavorano ogni sei – dodici mesi ed altri ogni 4-5 anni. Chi non coltiva il terreno non produce mai fieno (67,65%) o al massimo sfalcia una volta l’anno (32,35%).

Anche i trattamenti con fertilizzanti sono rari; infatti nel 53,85% dei casi non vengono impiegati concimi e nel 34,62% delle aziende solo fertilizzanti naturali. Cin-que allevamenti utilizzano anche fertilizzanti chimici.

Il 44% degli allevatori si avvale della rotazione dei

il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale:diversità e rassomiglianze

Page 372: Book Final Version

372i risultati

Permanente Permanente +integrazione

Razionamento all’ovile

Pascolo +transumanza

Pascolo + integra +transumanza

Altro1

50,00% 25,00% 5,77% 5,77% 3,85% 9,60%1 Pascolo+Stalla, Permanente+Pascolo+Stalla, Semibrado, Tradizionale.

Tabella 3. Sistema di pascolamento prevalente.

Foraggio verde regolarmente 2,00%Foraggio verde e mangime regolarmente 2,00%Foraggio verde, fieno e/o mangime regolarmente 4,00%Foraggio verde regolarmente; mangime al bisogno 10,00%Foraggio verde e fieno regolarmente; mangime al bisogno 2,00%Foraggio verde e mangime regolarmente; fieno al bisogno 2,00%Foraggio verde regolarmente; mangime e fieno al bisogno 18,00%Foraggio verde e/o fieno al bisogno 8,00%Foraggio verde, fieno e/o mangime al bisogno 10,00%Foraggio verde e/o mangime al bisogno 2,00%Fieno regolarmente 2,00%Fieno e mangime regolarmente 4,00%Fieno regolarmente; mangime al bisogno 18,00%Fieno al bisogno 2,00%Fieno e mangime al bisogno 12,00%

Tabella 4. Tipologie di integrazione all’ovile.

Tabella 5. Lavorazione del terreno e produzione di fieno.

Si lavora il lerrenoSi produce fieno mai Ogni 4-5 anni Ogni 6 mesi Ogni anno

1 volta 32,35% 0 63,64% 100%1-2 volte l’anno 0 100% 0 02 volte 0 0 27,27 0mai 67,65% 0 9,09% 0

Tabella 6. Distribuzione delle greggi per consistenze (dati complessivi).

Consistenza<50 50-150 150-300 300-500 >500

38,48% 17,31% 23,08% 11,53% 9,62%

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il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze373

pascoli, ma le pecore, per l’82,98% dei casi, non vengo-no trattate con antiparassitari prima di essere spostate sul nuovo pascolo.

Le dimensioni degli allevamentiLa gran parte degli allevamenti visitati sono di dimen-

sioni medie o grandi e soltanto il 38,48% ha una consi-stenza al di sotto dei 50 capi, mentre il 21,15% ha una

consistenza superiore ai 300 capi, come riportato nella tabella 6.

Non ci sono grandi differenze tra le razze; gli alleva-menti di piccole dimensioni (<50 capi) sono soprattut-

Razza N° Animali N° femmine N° maschiAltamurana 150-300 50-150 15-20Leccese (da sola + altre razze) 1-50: 11,11% 1-50: 11,11% 1-5: 22,22% 50-150: 44,44% 50-150: 55,55% 5-10: 33,33% 150-300: 22,22% 150-300: 22,22% 10-15: 22,22% 300-500: 22,22% 300-500: 11,11% >20: 22,22%Leccese Media 150-300 150-300 ott-15Leccese Piccola 150-300 150-300 15-20Leccese, Altamurana, Comisana gen-50 gen-50 01-magComisana, Gentile di Puglia >500 >500 >20Comisana 150-300 150-300 5-10: 50,00% 10-15: 50,00%

Gentile di Puglia300-500: 33,33% 300-500: 33,33% 10-15: 33,33%

>500: 66,67% >500: 66,67% 15-20: 33,33% >20: 33,33%

Gentile di Puglia + incroci con Massese >500 >500 >20

Merinizzata1-50: 33,33% 1-50: 33,33% 1-5: 33,33%

50-150: 33,33% 50-150: 33,33% 5-10: 33,33%>500: 33,33% >500: 33,33% 15-20: 33,33%

Bagnolese

50-150: 60,00% 1-50: 20,00% 1-5: 60,00%150-300: 20,00% 50-150: 40,00% 5-10: 40,00%300-500: 20,00% 150-300: 20,00%

300-500: 20,00%

Laticauda1-50: 80,95% 1-50: 80,95% 1-5: 90,48%

50-150: 4,76% 50-150: 4,76% 5-10: 4,76%150-300: 14,29% 150-300: 14,29% 10-15: 4,76%

Altamurana, Comisana, Sarda, Gentile di Puglia150-300: 50,00% 150-300: 50,00% 10-15: 50,00%300-500: 50,00% 300-500: 50,00% 15-20: 50,00%

Tabella 7. Distribuzione delle greggi per consisten-ze.

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374i risultati

to quelli della razza Laticauda (80,95%), notoriamente allevata nella media collina in piccoli greggi. La razza Bagnolese presenta per il 60% allevamenti con una con-sistenza compresa tra 50 e 150 capi e per il 40% alleva-menti con una consistenza superiore ai 150. Come è ben noto le piccole dimensioni degli allevamenti di Bagnole-se, a gestione familiare e lontani dai grandi insediamenti urbani, insieme alla prevalente alimentazione naturale al pascolo, sono garanzia della genuinità dei formaggi e della ricotta che viene prodotta.

Allevamenti di medio-alta consistenza (150-300 capi) sono tipici delle razze Altamurana e Leccese (Tab. 7), mentre allevamenti con oltre 300 capi caratterizzano so-prattutto la Gentile di Puglia.

La riproduzioneLe razze autoctone dell’Italia Meridionale Continen-

tale sono tutte sessualmente precoci; l’età alla prima monta è perciò anticipata, sia nelle femmine che nei ma-schi: le prime vengono saltate di norma ad un età inferio-re ai 15 mesi ed al più tardi, ma in poche casi, entro i 18 mesi, mentre i maschi vengono avviati alla monta entro gli undici mesi e soltanto il 30% ad una età superiore (tabella 8).

Negli allevamenti misti, cioè dove si allevano più raz-ze in purezza o incrociate, il primo accoppiamento per le femmine avviene ad una età compresa tra i 15 ed i 18 mesi.

La vita delle pecore, intesa come durata del periodo

riproduttivo, nella maggior parte degli allevamenti è su-periore a 6 anni (64,71%) o tra i 4 ed i 6 anni; soltanto nella razza Bagnolese le femmine hanno una più breve durata del periodo riproduttivo (2 - 4 anni).

Per i maschi la situazione è diversa, in quanto l’uti-lizzazione riproduttiva dura normalmente non più di 2-4 anni (Tab. 9) anche se molti allevamenti impiegano i maschi per oltre 6 anni (31,37%). Negli allevamenti dei tipi genetici Bagnolese e Laticauda i maschi hanno una carriera riproduttiva inferiore ai 2 anni (Tab. 10).

La rimonta è prevalentemente interna, con un tasso (Tab. 11) che, data la durata della carriera riproduttiva delle femmine, nella maggior parte degli allevamenti non supera il 20%. Una quota di rimonta superiore al 30%, per motivi commerciali è presente in alcuni alleva-menti della razza Leccese e della razza Gentile di Puglia (Tab. 12),

Le piccole dimensioni di alcuni allevamenti condi-zionano un numero di femmine mediamente basso in rapporto agli arieti (Tab. 13), aggirandosi mediamente su 1 maschio ogni 15-20 femmine (63,46%). Infatti se si considera il rapporto maschi/femmine a seconda del-la consistenza degli allevamenti si rileva che il rapporto 1:15-20 è il più rappresentato negli allevamenti fino a 300 capi, ma che aumenta a 1:30-40 negli allevamenti con una consistenza compresa tra 300-500, mentre al-levamenti di consistenza superiore a 500 capi impiega-no un maschio ogni 40-50 femmine (Tab. 14). È inte-ressante sottolineare che rapporti alti (minor numero di

Età primo accoppiamentoFemmine Maschi

<15 mesi 84,62% 5-11 mesi 69,23%15-18 mesi 11,54% >11 mesi 30,77%>18 mesi 3,85%

Tabella 8. Età primo accoppiamento: risultati complessivi.

Durata periodo riproduttivo Femmine Maschi1-2 anni - 5,88%2-4 anni 9,80% 43,14%4-6 anni 25,49% 19,61%>6 anni 64,71% 31,37%

Tabella 9. Durata periodo riproduttivo: risultati complessivi..

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il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze375

maschi), legati agli allevamenti di maggiori dimensioni, caratterizzano le razze Gentile di Puglia, Merinizzata e Bagnolese.

Nella maggior parte degli allevamenti i parti avven-gono tutto l’anno, con prevalenza nel periodo inverna-le. Nei restanti allevamenti si ha una concentrazione dei

Razza Durata periodo riproduttivo femmine

Durata periodo riproduttivo maschi

Età femmine1° accopp.

Età maschi1° accopp.

Altamurana >6: 100% >6: 100% <15: 100% >11: 100%

Leccese(da sola + altre razze)

4-6: 9,09% 1-2: 18,18% <15: 81,82% 5-11:63,64%>6: 90,91% 2-4: 9,09% 15-18: 18,18% >11: 36,36%

4-6: 27,27% >6: 45,45%

Leccese Media >6: 100% 4-6:100% 15-18: 100% 5-11: 100%Leccese Piccola >6: 100% >6: 100% <15: 100% >11: 100%Comisana, Gentile di Puglia >6: 100% >6: 100% >18: 100% >11: 100%

Comisana4-6: 50,00%

>6: 100% <15: 100% >11: 100%>6: 50,00%

Gentile di Puglia4-6: 33,33% 4-6: 33,33%

<15: 100% >11: 100%>6: 66,67% >6: 66,67%

Gentile di Puglia in purezza + incroci con Massese

>6: 100% 4-6:100% 15-18: 100% >11: 100%

Merinizzata4-6: 33,33% 4-6: 33,33% <15: 66,67% 5-11:66,67%>6: 66,67% >6: 66,67% >18: 33,33% >11: 33,33%

Bagnolese 2-4: 100% 2-4:100% <15: 100% 5-11: 100%

Laticauda

4-6: 38,10% 1-2: 4,76% <15: 95,24%

5-11: 100%>6: 61,90% 2-4: 76,19% 15-18: 4,76%

4-6: 14,24% >6: 4,76%

Altamurana, Comisana, Sarda, Gentile di Puglia

>6: 100% >6: 100%<15: 50,00%

>11: 100%15-18: 50,00%

Tabella 10. Durata periodo riproduttivo ed età primo accoppiamento: risultati per razza.

Quota di rimonta<20 20-30 >30

65,38% 26,92% 7,69%

Tabella 11. Quota di rimonta: dati generali.

Page 376: Book Final Version

376i risultati

parti nei periodi ottobre-dicembre e febbraio-aprile. Gli agnelli da allevamento vengono svezzati principalmente ad un’età inferiore a 3 mesi (Tab. 15); pochi risultano gli allevamenti che svezzano gli agnelli ad un’età superiore ma tra questi risaltano gli allevamenti di Leccese e di Comisana (Tab. 16).

La produzione di carneCome si è già detto, l’attitudine principale è quella

carnea, che si estrinseca soprattutto con la produzione di un agnello da latte (Tab. 17) di 6 e 8 settimane (69,23%). Il 21,15% degli allevamenti, soprattutto delle razze Al-tamurana e Leccese, macella ad età inferiori (4-5 setti-mane).

Il peso medio alla macellazione è di norma inferiore a 20 kg (Tab. 18); solo il 23,08% degli allevamenti ottiene pesi superiori a 20 kg. Anche il peso di macellazione di animali di età maggiore (100-130 giorni) è compreso, nella maggior parte dei casi, entro i 20 kg (Tab. 19).

Agnelli macellati a 6-8 settimane ad un peso inferio-re a 10 kg sono presenti soltanto per alcuni allevamenti

di Leccese (Tab. 20), mentre gli allevamenti che pro-ducono agnelli pesante (macellati ad un’età di 100-130 giorni) sono esclusivamente quelli della razza Meriniz-zata (66,67% degli allevamenti), e della razza Gentile di Puglia (33,33%). Nessuno degli allevamenti produce agnelloni (macellati a 180 giorni o a pesi superiori a 35 kg).

Per quanto riguarda la produzione di carne è interes-sante inoltre notare l’elevata percentuale di parti gemel-lari, superiore al 25%, nel 69,23% degli allevamenti (Tab. 21). Questo è soprattutto evidente per le razze a duplice attitudine latte-carne Bagnolese e Laticauda notoriamen-te conosciute per questa caratteristica. Anche per le altre razze la maggior parte degli allevamenti ha una percen-tuale di gemelli superiore al 10%. Allevamenti con una percentuale inferiore al 10% si riscontrano sotanto nella razza Altamurana.

La produzione di latteLa durata della lattazione (Tab. 22) è inferiore a 140

giorni nella maggior parte degli allevamenti (67,39%),

Razza Quota di rimontaAltamurana 20-30: 100%

Leccese (da sola + altre razze)

<20: 27,27%20-30: 54,55%>30: 18,18%

Leccese Media 20-30: 100%

Leccese Piccola <20: 100%

Comisana, Gentile di Puglia <20: 100%

Comisana 20-30: 100%

Gentile di Puglia<20: 66,67%>30: 33,33%

Gentile di Puglia in purezza + incroci con Massese 20-30: 100%

Merinizzata<20: 66,67%>30: 33,33%

Bagnolese <20: 100%

Laticauda<20: 85,71%

20-30: 14,29%

Altamurana, Comisana, Sarda, Gentile di Puglia <20: 100%

Tabella 12. Quota di rimonta: dati per razza.

Page 377: Book Final Version

il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze377

Razza Rapporto maschi/femmineAltamurana 1/15-20: 100,00%

Leccese (da sola + altre razze)

1/10: 9,09%1/15-20: 54,55%1/30-40: 27,27%1/40-50: 9,09%

Leccese Media 1/15-20: 100,00%Leccese Piccola 1/15-20: 100,00%Comisana, Gentile di Puglia 1/40-50: 100,00%Comisana 1/40-50: 100,00%

Gentile di Puglia1/15-20: 66,67%1/30-40: 33,33%

Gentile di Puglia + incroci con Massese 1/40-50: 100,00%

Merinizzata1/15-20: 66,67%1/40-50: 33,33%

Bagnolese1/15-20: 20,00%1/30-40: 20,00%1/40-50: 60,00%

Laticauda1/15-20: 80,95%1/30-40: 9,52%1/40-50: 9,52%

Altamurana, Comisana, Sarda, Gentile di Puglia 1/15-20: 100,00%

Tabella 13. Rapporto maschi/femmine: dati per razza.

Consistenza allevamenti 01-50 50-150 150-300 300-500 >500Rapporto maschi/ 01-10 8,33%

femmine 1/15-20 95,00% 66,67% 41,67% 20,00% 33,33% 1/30-40 11,11% 16,67% 60,00% 16,17% 1/40-50 5,00% 22,22% 33,33% 20,00% 50,00%

Tabella 14. Rapporto maschi/femmine: dati per consistenza degli allevamenti.

<3 mesi 3 mesi >3 mesi44,23% 36,54% 19,23%

Tabella 15. Età svezzamento degli agnelli da allevamento: dati generali.

Page 378: Book Final Version

378i risultati

Razza Età svezzamentoAltamurana 3 mesi: 100,00%

Leccese (da sola + altre razze)<3 mesi: 45,45%>3 mesi: 54,55%

Leccese Media 3 mesi: 100,00%Leccese Piccola >3 mesi: 100,00%Comisana, Gentile di Puglia 3 mesi: 100,00%Comisana >3 mesi: 100,00%

Gentile di Puglia<3 mesi: 33,33%3 mesi: 66,67%

Gentile di Puglia in purezza + incroci con Massese 3 mesi: 100,00%

Merinizzata<3 mesi: 33,33%3 mesi: 33,33%

>3 mesi: 33,33%Bagnolese 3 mesi: 100,00%

Laticauda<3 mesi: 57,15%3 mesi: 33,33%>3 mesi: 9,52%

Altamurana, Comisana, Sarda, Gentile di Puglia >3 mesi: 100,00%

Tabella 16. Età svezzamento degli agnelli da allevamento: dati per razza.

4-5 sett. 6-8 sett. 100-130 gg21,15% 69,23% 9,62%

Tabella 17. Età alla macellazione.

<10 kg. 10-20 kg 20-35 kg1,92% 75,00% 23,08%

Tabella 18. Peso alla macellazione: dati generali.

Età macellazionePeso alla macellazione 4-5 sett. 6-8 sett. 100-130 gg

<10 kg. - 2,78% -10-20 kg 100,00% 69,44% 60,00%20-35 kg 27,78% 40,00%

Tabella 19. Peso alla macellazione in funzione dell’età.

Page 379: Book Final Version

il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze379

mentre la produzione media (Tab. 23) è compresa tra 50 e 100 litri per lattazione. Produzioni superiori a 200 litri (Tab. 24) sono ottenute da lattazioni di durata tra 140 e 250 giorni.

La razza più produttiva risulta la Comisana, razza a prevalente attitudine lattifera, con produzione superiore a 200 litri/capo in alcuni allevamenti e comunque mai inferiori a 100 litri/capo. Anche la Leccese, razza a pre-valente attitudine lattifera, e la Bagnolese si collocano su livelli produttivi fino a 200 litri, mentre produzioni infe-riori a 50 litri sono rilevate soprattutto per la Merinizza-ta e la Gentile di Puglia, razze biologicamente da lana, anche se attualmente l’orientamento del miglioramento è quello di esaltare l’attitudine alla produzione di carne. Produzioni intermedie, tra 50 e 100 litri, si osservano per

allevamenti di Laticauda (90,48%).La maggior parte del latte prodotto viene caseificato

in azienda o venduto a caseifici come latte fresco.

Benessere e stato di salute I ricoveri degli ovini non hanno ancora ottenuto la

corretta priorità degli interventi. Infatti solo il 33,33% delle greggi hanno un ricovero regolare, mentre il 60% degli allevamenti utilizza un ricovero notturno, e tre alle-vamenti hanno addirittura solo un ricovero di soccorso.

Le altre condizioni in cui vivono gli animali possono essere così riassunte:

- il 67,31% degli allevamenti è sotto regolare control-lo veterinario;

- l’82,69% degli allevatori sottopone gli animali ogni

Razza Peso alla macellazione Età alla macellazioneAltamurana 10-20 kg: 100,00% 4-5 sett.: 100,00%

Leccese (da sola + altre razze)<10 kg: 9,09% 4-5 sett.: 72,73%

10-20 kg: 90,91% 6-8 sett.: 27,27%Leccese Media 10-20 kg: 100,00% 4-5 sett.: 100,00%Leccese Piccola 10-20 kg: 100,00% 4-5 sett.: 100,00%Comisana, Gentile di Puglia 10-20 kg: 100,00% 6-8 sett.: 100,00%Comisana 10-20 kg: 100,00% 6-8 sett.: 100,00%

Gentile di Puglia 10-20 kg: 100,00%6-8 sett.: 66,67%

100-130 gg: 33,33%Gentile di Puglia in purezza + incroci con Massese 10-20 kg: 100,00% 6-8 sett.: 100,00%

Merinizzata 10-20 kg: 100,00%6-8 sett.: 33,33%

100-130 gg: 66,67%Bagnolese 10-20 kg: 100,00% 6-8 sett.: 100,00%

Laticauda10-20 kg: 42,86% 6-8 sett.: 90,48%20-35 kg: 57,14% 100-130 gg: 9,52%

Altamurana, Comisana, Sarda, Gentile di Puglia 10-20 kg: 100,00% 6-8 sett.: 100,00%

Tabella 20. Peso alla macellazione ed età alla macellazione: dati per razza.

<10 10-25 >2511,54% 19,23% 69,23%

Tabella 21. Percentuale di gemelli: dati complessivi.

<140 140-250 >25067,39% 30,43% 2,17%

Tabella 22. Durata della lattazione: dati generali.

Page 380: Book Final Version

380i risultati

6 mesi al controllo parassitario;- il 13,46% lo fa una volta l’anno e soltanto il 3,85%

ogni 3 mesi;- il 50% degli allevamenti non utilizza farmaci an-

tielmintici ed il 17,39% non alterna i prodotti antiparas-sitari;

- gli allevamenti che alternano i prodotti antiparas-sitari (la maggior parte: 67,39%) lo fa ogni 6 mesi, il 13,4% lo fa ogni anno ed un allevamento soltanto ogni 2-3 anni;

- l’84,44% degli allevamenti effettua trattamenti in-dividuali, il 13,33% di gruppo ed il 2,22% indifferente-mente;

- le vaccinazioni sono quasi sempre pianificate.Nella maggior parte degli allevamenti muoiono ogni

anno dall’1 al 5% degli animali, mentre perdite elevate, sopra il 10%, sono state rilevate in un allevamento di consistenza superiore a 500 animali di razza Comisana (Tab. 25 - 26). Una mortalità inferiore all’1% si osserva soprattutto per le razze Altamurana e Laticauda e per il 60% degli allevamenti di Bagnolese.

Alle domande inerenti una propria valutazione delle condizioni in cui vivono gli animali (Tab. 27), gran parte degli allevatori ha collocato le voci “possibilità di movi-mento”, “contatti sociali fra gli animali” e “qualità della pavimentazione” ad un livello definito “buono” (rispet-

Consistenza 1-50 50-150 150-300 300-500 >500Animali morti/Anno

01-10 90,00% 55,56% 25,00% 50,00% 20,00%10-25 5,00% 33,33% 33,33% 25,00% 40,00%25-50 41,67% 25,00% 20,00%>50 20,00%Nessuno 5,00% 11,11%

Tabella 26. Animali morti per anno, in base alla consistenza dell’allevamento.

Possibilità di movimento

Contatti sociali fra gli animali

Qualità della pavimentazione

Ambiente (luce, ventilazione, rumore)

ottimo 28,00% 10,00% 6,00% 8,00%buono 62,00% 54,00% 58,00% 44,00%sufficiente 8,00% 34,00% 22,00% 48,00/insufficiente 2,00% 2,00% 14,00% -

Tabella 27. Valutazione da parte degli allevatori delle condizioni di vita degli animali.

<50 50-100 100-200 >25010,87% 54,35% 28,26% 6,52%

Tabella 23. Produzione di latte: dati generali.

Durata lattazione <140 140-250 >250Produzione latte <50 16,13% 50-100 61,29% 42,86% 100-200 16,13% 50,00% 100,00%>200 6,45% 7,14%

Tabella 24. Produzione di latte per durata della lat-tazione.

Nessuno 1-10 10-25 25-50 >503,85% 59,62% 21,15% 13,46% 1,92%

Tabella 25. Animali morti per anno.

Page 381: Book Final Version

il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze381

tivamente il 62%, il 54% ed il 58%). Soltanto il giudizio complessivo sull’ambiente (luce, ventilazione e rumore) è risultato ad un livello più basso, ovvero “sufficiente” (48% degli allevamenti).

Il giudizio insufficiente si è presentato in pochissimi casi, e riguarda sempre gli stessi allevamenti di Laticau-da. La qualità della pavimentazione presenta un 14% di insufficienza e questi dati si riferiscono a 5 allevamenti di Laticauda, 1 di Leccese e 1 di azienda con più razze.

Relativamente alla possibilità di movimento è stato annotato un giudizio “ottimo” nel 28% degli allevamenti, soprattutto Laticauda, Bagnolese e Leccese. Come pos-siamo vedere infatti dalla tabella 28, lo spazio all’aper-to e al pascolo disponibile per gli animali nella grande maggioranza degli allevamenti è elevato.

Questo è valido soprattutto per la razza Laticauda (ben 15 allevamenti) e per le aziende che allevano più razze, come evidenziato dalle dimensioni aziendali. Si evidenzia inoltre, per quanto riguarda la Laticauda ed il giudizio relativo all’ambiente, un’alta percentuale di al-levamenti con un giudizio “sufficiente”.

Commercializzazione ed affariLe difficoltà nella commercializzazione dei prodotti

è segnalata senza differenze dagli allevatori di tutti i tipi genetici analizzati. Il 46,81% di loro ritiene che le diffi-coltà siano dovute alla presenza delle catene commercia-li ed alla poco diffusa conoscenza dei pregi dei prodotti delle razze autoctone da parte del grosso pubblico. E le difficoltà sono maggiori soprattutto nel comparto delle carni. Solo poco più di un terzo degli allevatori non evi-denzia difficoltà nella commercializzazione dei prodotti carne/latte.

ConclusioniGli allevatori di tutte le razze autoctone dell’Italia

Meridionale Continentale, soddisfatti di quello che ot-tengono dagli allevamenti e delle condizioni che loro offrono agli animali, lamentano una scarsa attenzione ai loro problemi, soprattutto commerciali, che non consen-te loro di affrontare adeguatamente il mercato, domina-to dai grandi commercializzatori e poco informato dei pregi qualitativi e bionutrizionali delle produzioni locali tradizionali.

Queste considerazioni si traducono in un allontamen-to dalle organizzazioni di categoria (Associazioni Pro-vinciali Allevatori) e dal Libro Genealogico, anche per le oggettive difficoltà di queste organizzazioni ad assi-

curare ai produttori la necessaria e desiderata assistenza, in relazione alle sempre più ridotte risorse finanziarie di cui possono disporre.

Ciononostante l’impressione è che dopo la grande rincorsa agli incroci ed ai meticciamenti, sia cominciato un ripensamento verso le razze autoctone in purezza.

Le attitudini produttive che richiamano le attenzioni dei produttori sono ovviamente latte e carne; ma quat-tro allevamenti (di Gentile e di Merinizzata) valorizzano solo la carne ed un allevatore di Gentile di Puglia si inte-ressa anche alla lana.

Tra le cinque razze allo studio alcune caratteristiche sono comuni:

- la precocità sessuale sia delle femmine che dei ma-schi;

- la stagione riproduttiva, che prevede parti tutto l’an-no, ma con preferenza riservata alle due stagioni tradi-zionali: autunno (ottobre-dicembre) e inverno-primavera (febbraio-aprile);

la tipologia di agnelli da macello, tipicamente - mediterraneo: agnello da latte di 4-6 o al massimo 8 set-timane

Per il resto il sistema di allevamento, pur se sempre prevalentemente al pascolo, si differenzia tra Puglia, Ba-silicata e Molise da un lato (regime più estensivo per le maggiori dimensioni delle greggi e delle aree di pascolo dedicate dalle aziende a Gentile, Altamurana e Lecce-se) e Campania dall’altro, dove le aziende più piccole consentono maggiori attenzioni all’allevamento ed uno sfruttamento più intensivo.

Spazio aperto Spazio al pascolo

Non definibile 33,33% 23,53%1-10 mq 19,61% 3,92%Molto (100-1800 mq) 47,06% 72,55%

Tabella 28. Spazio aperto ed al pascolo per indivi-duo.

Page 382: Book Final Version

382i risultati

Diversità e rassomiglianze tra razzeF. Cecchi, R. Ciambolini, E. Ciani, D. Cianci

Numero di alleli L’analisi del polimorfismo di marcatori genomici

STR offre un potente strumento per l’indagine del livello di variabilità genetica esistente nell’ambito di una popo-lazione animale.

Tra i parametri utilizzati per la stima della diversità genetica si annovera, tra gli altri, il numero di alleli per locus (Na). Molteplici sono le cause che possono deter-minare riduzione del numero di alleli di un marcatore STR, e tra questi ricordiamo la deriva genetica, il trasci-namento selettivo, la consanguineità.

Nel caso specifico le 6 popolazioni analizzate sono composte da Altamurana (89), Bagnolese (51), Gentile di Basilicata (79), Gentile di Puglia (84), Laticauda (51) e Leccese (97), per un totale di 451 animali (Tab. 1).

I 19 marcatori analizzati hanno evidenziato un totale di 267 alleli, con un range compreso tra 4 (BM8125) e 20 (MCM0140 e ILSTS0005) ed una media pari a 14,05 ± 4,88 (Tab. 2). Anche il numero medio di alleli presen-ti all’interno di ciascuna razza è risultato piuttosto ele-vato, evidenziando una buona variabilità all’interno dei diversi tipi genetici. Il numero medio più basso è stato

riscontrato nella razza Laticauda, con il valore di 8,05 ± 2,27, e nella Bagnolese, con il valore di 8,16 ± 2,75, mentre i valori più alti sono stati osservati nella Leccese e nella Gentile di Puglia, con i valori di 9,84 ± 3,43 e 9,68 ± 3,00 rispettivamente. In termini di completezza del database, sono stati osservati, su un totale di 17138 alleli, 160 “missing alleles” (0,9%), corrispondenti ad 80 genotipi single-locus per i quali non è stato possibile definire, per motivi di natura tecnica, la composizione allelica.

Allele richness

Per rendere confrontabile il numero di alleli osservato nelle diverse razze (caratterizzate da una diversa nume-rosità del campione in esame) è stato calcolato, usando il pacchetto statistico FSTAT, il parametro “allele rich-ness”, un indice del numero di alleli presenti in un cam-pione popolazionistico indipendentemente dalle dimen-sioni dello stesso (Hurlbert 1971; El Mousadik et Petit, 1996). Tale analisi ha evidenziato la presenza dei valori maggiori di allele richness per le razze Gentile di Puglia e Leccese ed i valori minori per le razze Altamurana, Laticauda e Bagnolese.

Razza Provincia N. allevamenti N. soggettiAltamurana Bari 2 (73; 16)Bagnolese Salerno 2 (24; 26)

Gentile di PugliaFoggia 4 (13; 14; 14; 14)

Campobasso 2 (13; 14)Gentile di Basilicata Potenza 2* (57; 22)

Leccese

Bari 1 (12)Taranto 1 (19)Brindisi 1 (15)Lecce 2 (13; 38)

LaticaudaBenevento 3 (6; 10; 11)

Caserta 1 (24)* La popolazione è costituita da 57 soggetti provenienti da uno stesso allevamento e da 22 soggetti campionati presso un impianto di macellazione agli inizi degli anni’80.

Tabella 1. Schema riassuntivo del piano di campionamento effettuato per ciascun tipo genetico.

Page 383: Book Final Version

il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze383

“Polymorphic Informative Content” (PIC)

Il parametro PIC (“Polymorphic Informative Con-tent”) è stato introdotto originariamente da Botstein et al. (1980). Questo parametro si riferisce al valore di un marcatore per evidenziare il polimorfismo all’interno di una popolazione (dipendendo dal numero di alleli e dalla distribuzione della loro frequenza) ed è stato dimostrato essere una misura generale di quanto informativo sia un marcatore (Guo et Elston, 1999); più alto è il valore, più informativo risulta il marcatore. Il valore medio di PIC per l’intero database è risultato elevato (0,747 ± 0,11) e tutti i marcatori utilizzati hanno fatto rilevare valori di PIC più alti di 0,500, mentre molti marcatori hanno valori di PIC superiori a 0,800 (Tab. 2).

Nella nostra ricerca, i loci più informativi sono risul-tati il marcatore MCM0140, con il valore di 0,904 ed il marcatore MAF65, con il valore di 0,893; per contro i meno informativi sono risultati i marcatori OarAE129 (0,598) e BM1824 (0,599) e, soprattutto, il marcatore OarFCB304 (0,512); quest’ultimo ha presentato anche i valori minori di eterozigosità attesa, mentre il marcatore MCM140 ha presentato i valori maggiori per tale para-metro. La tabella 2 riporta anche i valori di eterozigosità attesa (He) ed osservata (Ho) e di FST per ciascun locus.

Marker Na He Ho PIC FST

BM1824 8 0,701 0,558 0,599 0,049OarAE129 8 0,66 0,424 0,598 0,03OarFCB128 9 0,802 0,764 0,693 0,052ILSTS0028 9 0,788 0,572 0,711 0,044MAF70 11 0,911 0,762 0,72 0,04OarJMP58 19 0,887 0,824 0,836 0,071MCM0140 20 0,847 0,76 0,904 0,044ILSTS0005 20 0,775 0,577 0,766 0,048ILSTS11 19 0,751 0,697 0,713 0,047MAF33 17 0,849 0,77 0,683 0,039OarFCB193 18 0,548 0,483 0,793 0,115INRA063 12 0,847 0,804 0,756 0,024MAF65 15 0,759 0,721 0,893 0,029MAF214 15 0,716 0,663 0,847 0,03BM8125 4 0,723 0,631 0,641 0,044MAF209 18 0,862 0,856 0,876 0,03OarFCB304 11 0,75 0,685 0,512 0,076OarJMP29 18 0,846 0,801 0,831 0,038OarVH72 16 0,792 0,741 0,83 0,03Media 14,05 0,78 0,689 0,747 0,046

Tabella 2. Numero di alleli, eterozigosità attesa (He) ed osservata (Ho), valore del “polymorphic informative con-tent” (PIC) e di FST per ogni marcatore utilizzato e per l’intero campione popolazionistico.

Page 384: Book Final Version

384i risultati

Alleli “privati”

L’analisi degli alleli “privati” (alleli presenti in una sola razza) ha evidenziato, complessivamente, 52 alle-li “privati, su un totale di 267 alleli osservati (19,5%). Tuttavia, di questi, ben 44 (85%) presentano valori di frequenza allelica inferiore al 3%. I restanti 8 alleli rap-presentano circa il 3% di tutti gli alleli osservati e sono riportati nella Tabella 4.

Come è possibile notare non sono stati rilevati alle-li “privati” con frequenza superiore a 0,03 per le razze Gentile di Puglia e Leccese, mentre sono stati osservati quattro alleli “privati” con frequenza superiore a 0,03 per la razza Altamurana, due per la razza Bagnolese ed

uno, rispettivamente, per la razza Gentile di Basilicata e Laticauda.

Equilibrio di Hardy-Weinberg

Per quanto riguarda le proporzioni di Hardy-Weinberg è stato osservato un solo locus in significativo (P<0,01) disequilibrio per le razze Gentile di Basilicata (ILSTS5) e Laticauda (OarAE129), seguite da Bagnolese, per la quale sono stati osservati tre loci in significativo disequi-librio (OarAE129, BM1824 e ILSTS11), Gentile di Pu-glia (OarAE129, ILSTS5, ILSTS28 e MAF33), Altamu-rana (OarAE129, ILSTS5, ILSTS28 e MAF70) e Lecce-

Allele richness

Locus Altamurana Gentile di Puglia Leccese Gentile di

Basilicata Laticauda Bagnolese Totale

OarAE129 3,9 5,52 4,98 5,8 4 3 5,14BM1824 4 3,96 4 3,99 4 4 4BM8125 6,06 5,52 7,62 5,61 7 7 7,26OarFCB128 7,57 7,12 7,48 5,84 8 7,77 9,22OarFCB193 3 5,12 3,45 5,51 6 6,84 6,6OarFCB304 5,58 10,03 12,66 8,31 5,92 8,76 11,09ILSTS11 4,77 7,12 6,7 5,84 6,84 7 6,7ILSTS28 9 9,59 8,54 10,23 9,76 10,76 11,72ILSTS5 6,05 8,55 9,09 6,6 6,92 6,92 9,48INRA063 11 10,91 10,95 10,82 11,92 12,69 14,15OarJMP29 9,05 13,61 8,91 11,34 11 9,92 12,37OarJMP58 8,48 11,05 10,92 10,86 8 10,91 13,34MAF209 10,99 10,51 9,81 8,72 11,91 10,77 12,69MAF214 6,36 10,63 8,43 9,07 7,84 5,92 10,26MAF33 13,03 9,55 9,7 11,26 7,99 7 12,61MAF65 6,47 7,48 8,22 6,78 7,92 5 7,83MAF70 12,69 14,11 14,41 15,79 8,92 11,61 17,27MCM140 9,21 9,99 9,23 8,6 9,76 9,99 11,72OarVH72 7,52 7,74 8 6,67 7,77 7 8,68Media 7,62 8,85 8,58 8,3 7,97 8,04 10,11

Tabella 3. Valori di allele richness per le diverse razze analizzate.

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il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze385

se (OarAE129, BM1824, ILSTS5, ILSTS28 e MAF70). Tutti i loci in significativo disequilibrio mostrano valori di eterozigosità attesa superiori ai valori di eterozigosità osservata, con eccezione del locus ILSTS11 nella razza Bagnolese (Tab. 5).

Come è possibile notare, il locus OarAE129 è risul-tato in significativo disequilibrio in tutte le razze esa-minate, eccetto la Gentile di Basilicata. Ciò potrebbe suggerire la presenza di effetti indiretti di genetic hitchi-king, imputabili ad eventuale associazione preferenziale tra gli alleli del marcatore ed alleli di geni sottoposti a selezione. In modo analogo, risultano di particolare inte-resse i loci ILSTS5 ed ILSTS28, che hanno evidenziato un significativo disequilibrio, rispettivamente, in quattro (Altamurana, Leccese, Gentile di Puglia e di Basilicata) e tre (Altamurana, Leccese, Gentile di Puglia) delle raz-ze considerate.

Tra le cause di quanto osservato potrebbe essere enumerata anche la presenza di alleli nulli (Kantanen et al. 2000). Alcuni autori riportano la possibile presenza di alleli nulli per il locus ILSTS28 (Lawson-Handley et al., 2007) MAF70 (Lawson-Handley et al., 2007), OarAE129 (Peter et al., 2005, 2007; Lawson-Handley et al., 2007) e ILSTS5 (Lawson-Handley et al., 2007).

Linkage disequilibrium

Dal momento che due coppie di loci si trovano sul-lo stesso cromosoma (ILSTS011/MAF33 e BM8125/MAF209, rispettivamente), il livello di linkage disequi-librium (o sbilanciamento gametico) tra tutte le possibili coppie di loci è stato testato mediante il software Ar-

lequin. Su un totale di 171 confronti a coppie possibili con 19 loci, sono risultati in significativo disequilibrio (P < 0,01) 80 confronti (47%) per la razza Leccese, 58 confronti (34%) per la razza Altamurana, 35 confronti (20%) per la razza Gentile di Basilicata, 17 confronti (10%) per la razza Laticauda, 12 confronti (7%) per la razza Bagnolese e 7 confronti (4%) per la razza Gentile di Puglia. Considerando che le due coppie di loci sintenici contribuiscono solo limitatamente al linkage disequilium (LD) osservato e che le razze con il maggior livello di LD sono anche quelle che maggiormente evidenziano la presenza di strutturazione genetica al loro interno (vedi paragrafo successivo), appare possibile ipotizzare che lo sbilanciamento gametico osservato sia principalmente frutto di stratificazione genetica dei campioni, legata alla presenza, in ciascun gruppo razziale, di sottopopolazioni criptiche.

Assignment test

Sulle razze in esame è stato eseguito un test di asse-gnazione razziale impiegando il software Arlequin. Tale test restituisce, per ciascun soggetto, un valore di like-hood di appartenere ad ognuna delle razze presenti nel dataset, sulla base del quale è possibile definire l’attribu-zione di ciascun individuo alla più probabile popolazio-ne di origine.

Per tutti i soggetti delle razze Altamurana (N = 89), Gentile di Puglia (N = 84) e Laticauda (N = 51), i valori di likelihood di appartenere alla reale razza di origine sono risultati maggiori rispetto ai valori di likelihood di appartenere ad una qualunque delle altre razze (100% di

Locus Altamurana Gentile di B. Laticauda BagnoleseMAF70 -8,33%MAF33 -4,49%MCM140 -6,86%OarFCB128 -5,62%OarFCB193 -3,92%ILSTS28 -5,88%INRA63 -8,62%OarJMP58 -5,68%

Tabella 4. Alleli privati (con frequenza maggiore di 0,03) osservati in ciascuna razza.

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386i risultati

corrette assegnazioni). Per la razza Leccese (N = 97) sono stati erroneamente

attribuiti tre soggetti, di cui, uno alla razza Altamurana, uno alla razza Gentile di Puglia ed uno alla razza Bagno-lese.

Anche per la razza Gentile di Basilicata (N = 79), sono stati erroneamente attribuiti tre soggetti, di cui uno alla razza Gentile di Puglia, uno alla razza Leccese, ed uno alla razza Laticauda.

Per la razza Bagnolese (N = 51), un solo soggetto è stato erroneamente attribuito alla razza Gentile di Pu-glia.

In aggiunta, utilizzando il software STRUCTURE è stato possibile inferire la presenza di 12 gruppi popo-lazionistici (100.000 burn-in period; 100.000 reps; no-admixture model). Analizzandoli nel dettaglio, emerge come due cluster corrispondano in modo significativo alla razza Laticauda (96% dei soggetti) ed alla razza

Gentile di Puglia (84% dei soggetti). Relativamente alla razza Bagnolese, il 29% dei soggetti ricade nel cluster della razza Laticauda, mentre il 63% forma un cluster separato. Appare interessante notare come in quest’ulti-mo cluster, specifico per la Bagnolese, si trovi la quasi totalità (23 soggetti su 25) dei capi campionati presso l’allevamento 1, mentre i soggetti campionati presso l’allevamento 2 si ripartiscono tra il cluster “Bagnole-se” (35%) e quello “Laticauda” (54%). Il rimanente 11% viene attribuito in modo casuale ad uno dei dieci restanti cluster. Per quanto concerne la popolazione di Gentile di Basilicata, si osserva un comportamento molto parti-colare, caratterizzato dal raggruppamento in due cluster specifici; nel primo cluster ricadono 21 su 22 dei sog-getti campionati presso impianti di macellazione negli anni 1982-1983, unitamente a 16 soggetti su 57 campio-nati nel contesto del presente progetto presso un’unica azienda della provincia di Potenza; 39 soggetti di tale

Altamurana Gentile di Puglia LecceseLocus Ho He P Ho He P Ho He POarAE129 0,494 0,54 0,007 0,357 0,718 0 0,354 0,7 0BM1824 0,618 0,66 0,456 0,524 0,673 0,014 0,583 0,716 0,002BM8125 0,685 0,719 0,746 0,524 0,598 0,28 0,695 0,798 0,054OarFCB128 0,73 0,734 0,15 0,714 0,779 0,411 0,802 0,746 0,057OarFCB193 0,382 0,395 0,295 0,536 0,547 0,559 0,309 0,401 0,111OarFCB34 0,449 0,538 0,282 0,762 0,765 0,125 0,825 0,82 0,859ILSTS11 0,618 0,605 0,763 0,702 0,764 0,55 0,719 0,755 0,159ILSTS28 0,551 0,841 0 0,452 0,834 0 0,485 0,683 0ILSTS5 0,494 0,712 0 0,69 0,844 0 0,542 0,774 0INRA63 0,793 0,803 0,208 0,795 0,822 0,919 0,814 0,825 0,009OarJMP29 0,795 0,822 0,517 0,805 0,842 0,668 0,753 0,767 0,147OarJMP58 0,773 0,825 0,617 0,843 0,792 0,447 0,856 0,847 0,375MAF214 0,596 0,624 0,202 0,786 0,796 0,918 0,68 0,696 0,125MAF29 0,865 0,852 0,014 0,869 0,832 0,972 0,835 0,84 0,183MAF33 0,854 0,864 0,021 0,69 0,835 0 0,747 0,845 0,018MAF65 0,693 0,709 0,963 0,663 0,729 0,525 0,813 0,802 0,505MAF7 0,614 0,874 0 0,774 0,883 0,225 0,825 0,907 0MCM14 0,742 0,801 0,018 0,75 0,802 0,062 0,747 0,806 0,012OarVH72 0,73 0,786 0,554 0,738 0,771 0,122 0,781 0,823 0,563Media 0,657 0,721 0,683 0,77 0,693 0,766 Ho: eterozigosità osservata; He: eterozigosità attesa; P: valore di probalità

Tabella 5. Proporzioni di Hardy-Weinberg e test esatto del rispetto dell’equilibrio di Hardy-Weinberg. [continua]

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il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze387

azienda ricadono nell’altro cluster, mentre i due soggetti restanti (rispettivamente, uno proveniente dal campiona-mento attuale ed uno dal campionamento storico) ven-gono assegnati ad altre razze. Ad una osservazione più approfondita delle informazioni disponibili sui campioni analizzati è emerso che i 16 soggetti del campionamento attuale che ricadono nel cluster con i soggetti provenienti dal campionamento storico sono tutti di sesso maschile, a differenza dei 39 soggetti del campionamento attuale che formano un cluster separato, tutti di sesso femmini-le. L’analisi della differenziazione genetica tra i diversi gruppi individuati (maschi del campionamento attuale; femmine del campionamento attuale e soggetti del cam-pionamento storico, verosimilmente di sesso maschile), realizzata calcolando i valori di FST tra le possibili coppie di cluster ha permesso di ottenere i risultati riportati in tabella 6.

Come si evince dalla tabella 6, la differenziazione tra il gruppo di soggetti di sesso maschile e quelli di sesso femminile campionati nel 2006 è altamente significati-va, mentre la popolazione dei soggetti campionati negli anni 1982/1983 non si differenzia in modo significativo da quella dei soggetti di sesso maschile provenienti dal campionamento attuale. Purtroppo, non si dispone di in-formazioni in merito al sesso dei soggetti provenienti dal campionamento storico; sembra, comunque verosimile che possa trattarsi di soggetti di sesso maschile, in quan-to destinati alla macellazione (il campione biologico da cui estrarre il DNA era stato prelevato, per tali soggetti, presso un impianto di macellazione locale). Se tale ipo-tesi fosse confermata, bisognerebbe supporre la presenza di forze in grado di modificare in modo differenziale tra maschi e femmine i pattern di frequenze alleliche osser-vati per i marcatori esaminati. Al fine di verificare se la

Gentile di Basilicata Laticauda BagnoleseLocus Ho He P Ho He P Ho He POarAE129 0,594 0,647 0,253 0,362 0,662 0 0,367 0,62 0BM1824 0,506 0,633 0,033 0,627 0,656 0,527 0,471 0,728 0,001BM8125 0,649 0,784 0,156 0,608 0,635 0,262 0,588 0,572 0,33OarFCB128 0,782 0,787 0,129 0,843 0,811 0,563 0,725 0,793 0,385OarFCB193 0,57 0,548 0,937 0,745 0,623 0,165 0,51 0,604 0,129OarFCB34 0,709 0,722 0,437 0,627 0,598 0,122 0,725 0,749 0,393ILSTS11 0,667 0,725 0,473 0,706 0,72 0,307 0,824 0,805 0,001ILSTS28 0,729 0,751 0,586 0,686 0,661 0,956 0,647 0,784 0,055ILSTS5 0,59 0,703 0,004 0,627 0,776 0,013 0,529 0,634 0,179INRA63 0,747 0,831 0,031 0,882 0,895 0,535 0,824 0,842 0,044OarJMP29 0,782 0,837 0,373 0,843 0,854 0,387 0,882 0,837 0,419OarJMP58 0,811 0,865 0,186 0,843 0,833 0,759 0,824 0,851 0,735MAF214 0,632 0,653 0,054 0,647 0,735 0,048 0,608 0,715 0,517MAF29 0,848 0,828 0,948 0,863 0,866 0,259 0,863 0,831 0,451MAF33 0,808 0,85 0,064 0,686 0,728 0,178 0,824 0,741 0,186MAF65 0,658 0,723 0,276 0,765 0,734 0,419 0,745 0,742 0,93MAF7 0,833 0,907 0,348 0,686 0,828 0,174 0,843 0,86 0,098MCM14 0,855 0,851 0,171 0,686 0,82 0,385 0,765 0,834 0,041OarVH72 0,725 0,757 0,299 0,706 0,691 0,723 0,745 0,762 0,24Media 0,71 0,758 0,707 0,743 0,7 0,753 Ho: eterozigosità osservata; He: eterozigosità attesa; P: valore di probalità

Tabella 5. Proporzioni di Hardy-Weinberg e test esatto del rispetto dell’equilibrio di Hardy-Weinberg. [fine]

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388i risultati

differenziazione genetica osservata tra i diversi gruppi di Gentile di Basilicata potesse essere ascrivibile all’effet-to preponderante di alcuni tra i 19 marcatori impiegati, sono stati calcolati i valori di FST per ciascun locus (Tab. 7).

Come è possibile osservare, ad eccezione di quattro

loci (AE129, BM1824, ILSTS28 e MAF65), i valori di FST sono altamente significativi (P > 0,01) per tutti i re-stanti loci ed indicano la presenza di un livello di diffe-renziazione genetica relativamente elevato.

Per quanto concerne la Leccese, il 95% dei sogget-ti campionati presso l’allevamento 5 della provincia di

Soggetti 1982/1983 Maschi 2006 Femmine 2006

Soggetti 1982/1983 0Maschi 2006 0,008 0Femmine 2006 0,071* 0,080* 0

* P < 0,001

Tabella 6. Valori di pairwise FST per i diversi gruppi di soggetti della popolazione Gentile di Basilicata.

Locus FST POarAE129 0,008 0,287BM1824 0,027 0,099BM8125 0,059 0,002OarFCB128 0,072 0OarFCB193 0,07 0OarFCB34 0,145 0ILSTS11 0,051 0,005ILSTS28 0,012 0,149ILSTS5 0,115 0INRA63 0,089 0OarJMP29 0,041 0,003OarJMP58 0,057 0MAF214 0,048 0,006MAF29 0,062 0MAF33 0,054 0MAF65 0,007 0,271MAF7 0,05 0MCM14 0,036 0,001OarVH72 0,039 0,008Media 0,055

Tabella 7. Valori di FST per singolo locus (sottopopolazioni definite come sopra).

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il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze389

Lecce costituisce un cluster separato da tutte le altre po-polazioni. Il restante 5% confluisce nel cluster in cui si ritrova il 96% dei soggetti di Leccese delle province di Bari e Brindisi. Un cluster separato raggruppa il 95% (17 su 18) dei soggetti di Leccese dell’allevamento della provincia di Taranto.

La razza Altamurana confluisce in tre cluster distinti; il primo gruppo (A) comprende il 40,5% dei soggetti, tutti di provenienza dall’allevamento numericamente maggioritario; il secondo cluster (B) comprende il 31,5% dei soggetti, tutti, tranne uno, di provenienza dall’alleva-mento numericamente maggioritario. Il terzo gruppo (C) comprende il 20% dei soggetti, di cui il 67% campio-nati nell’allevamento numericamente minoritario. Una osservazione particolarmente interessante scaturisce dall’analisi dei dati genealogici, la quale rivela come tut-ti i soggetti dell’allevamento maggioritario che ricadono nei due cluster B e C presentino almeno un ascendente proveniente da un allevamento trasferito da alcuni anni in provincia di Foggia. Tale evidenza sembrerebbe sug-gerire una sostanziale differenziazione tra il ceppo gesti-to dall’allevamento numericamente maggioritario della provincia di Bari ed il ceppo foggiano. Purtroppo, ai fini dell’interpretazione dei risultati, non sono disponibili dati genealogici relativi all’allevamento numericamente minoritario della provincia di Bari, i cui soggetti ricado-no, in prevalenza, nel gruppo C.

Una osservazione finale per quanto riguarda la razza Gentile di Puglia, i cui soggetti, come già detto, ricadono in modo significativo (84%) in un unico cluster speci-fico. Sembra verosimile ipotizzare che il software non sia in grado di identificare la presenza di strutturazio-ne genetica all’interno della popolazione complessiva a causa dell’elevata eterogeneità presente all’interno del campione (come testimoniato dai bassi valori di simila-rità genetica osservati per la razza Gentile di Puglia, vedi paragrafo successivo).

Similarità genetica

Un considerevole numero di metodologie sono state sviluppate in passato con l’obiettivo di quantificare le differenze genetiche tra razze distinte (Nei, 1987; Edin et Laval, 1999; Ciampolini et al., 1995). Tuttavia, solo una combinazione di vari metodi può fornire sufficienti informazioni sia sulla differenziazione genetica tra razze che su quella intra-razza (Ruane, 1999).

Per analizzare la similarità genetica tra i sei tipi gene-tici coinvolti in questa ampia ricerca è stata applicata la metodologia di Ciampolini et al. (1995) basata sul calco-lo della similarità genetica, che esprime la proporzione di alleli comuni tra due individui in relazione al numero massimo possibile (pari a due volte il numero di loci con-siderati). Dopo aver effettuato tutti i possibili confronti per coppie di individui, si può ottenere un valore medio di popolazione come riportato nella tabella 8.

Dall’analisi delle similarità genetiche intra-razza sca-turite con questa metodica si evidenzia che il tipo gene-tico più omogeneo risulta l’Altamurana con il valore di 0,369, mentre all’opposto, quello meno omogeneo risul-ta la Gentile di Puglia, con il valore di 0,318.

Per la Altamurana, come già discusso nel relativo ca-pitolo, è possibile ipotizzare che la maggiore omogenei-tà derivi non solo da una accurata gestione della razza in purezza, ma sia anche il frutto della presenza di elevati livelli di consanguineità (Tab. 11), principalmente impo-sti dalla esigua numerosità della popolazione.

A fronte di livelli di consanguineità (calcolati a parti-re da informazioni molecolari, vedi paragrafi successivi) relativamente elevati, per la razza Gentile di Puglia si osservano i valori minori di similarità genetica. L’eleva-ta eterogeneità osservata potrebbe essere ascrivibile alla presenza di fenomeni di incrocio e/o admixture avvenuti in tempi non recenti (i livelli di linkage disequilibrium sono molto ridotti), come testimoniato anche dalla pre-senza di numerosi alleli privati con bassi valori di fre-quenza. Un interpretazione analoga sembra poter essere formulata anche per la razza Leccese (valori di similarità genetica medio-bassa, presenza di alleli privati a bassa frequenza, valori medio-alti di consanguineità).

L’analisi tra-razze ha messo invece in risalto una maggiore rassomiglianza genetica tra i tipi genetici La-ticauda e Bagnolese, con un valore di similarità pari a 0,322 e tra i tipi genetici Altamurana - Leccese e Alta-murana - Gentile di Puglia con i valori di 0,303 e 0,300 rispettivamente.

Quanto alla coppia Altamurana-Leccese, sicuramente, l’origine comune delle due popolazioni da un unico cep-po ancestrale è ancora evidenziabile a livello molecolare e consente di giustificare, almeno in parte, la maggiore prossimità genetica delle due razze pugliesi rispetto alle altre considerate nello studio. La consistente similarità genetica osservata anche tra Altamurana e Gentile di Pu-glia potrebbe suggerire la presenza di un trend dettato da fattori di natura geografica. Tuttavia, l’analisi della cor-

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390i risultati

relazione tra la matrice dei valori di pair-wise FST (quale parametro di differenziazione genetica tra popolazioni) e la matrice dei valori di distanza (in termini chilometrici) tra i diversi areali di allevamento delle sei popolazioni analizzate (Mantel test) ha evidenziato che i risultati non sono significativi.

È significativo il fatto che, invece, il confronto tra Gentile di Puglia e Leccese non evidenzi valori di simi-

larità genetica analogamente elevati, a probabile suppor-to dell’ipotesi che, da un lato, i pool genetici introdotti in passato in modo diverso nelle due razze (incroci con Bergamasca, Comisana, Sarda, Laticauda, Frisona, per la razza Leccese e con Berrichon du Cher, Ile de France, Merinolandschaf, Merino Precoce, Cheviot e/o South-down, per la razza Gentile di Puglia) abbiano contribuito a differenziare i due tipi genetici e, dall’altro, che non vi

Tipo genetico Media Dev. St. RangeAltamurana (86) 0,369 0,015 0,11 - 0,82Gentile di Puglia (82) 0,318 0,014 0,08 - 0,68Leccese (91) 0,322 0,013 0,08 - 0,69Gentile di Basilicata (53) 0,341 0,014 0,13 - 0,63Laticauda (47) 0,356 0,016 0,11 - 0,97Bagnolese (49) 0,344 0,014 0,16 - 0,63Altamurana vs Gentile Puglia 0,3 0,014 0,08 - 0,61

Altamurana vs Leccese 0,303 0,014 0,08 - 0,61Altamurana vs Gentile Basilicata 0,288 0,014 0,08 - 0,53

Altamurana vs Laticauda 0,286 0,014 0,08 - 0,53Altamurana vs Bagnolese 0,287 0,013 0,05 - 0,55Gentile Puglia vs Leccese 0,284 0,013 0,05 - 0,53Gentile Puglia vs Gentile Basilicata 0,282 0,013 0,08 - 0,50

Gentile Puglia vs Laticauda 0,293 0,014 0,08 - 0,55Gentile Puglia vs Bagnolese 0,287 0,013 0,08 - 0,53

Leccese vs Gentile Basilicata 0,291 0,014 0,05 - 0,58

Leccese vs Laticauda 0,282 0,013 0,05 - 0,55Leccese vs Bagnolese 0,292 0,013 0,08 - 0,55Gentile Basilicata vs Laticauda 0,292 0,014 0,08 - 0,53

Gentile Basilicata vs Bagnolese 0,297 0,014 0,11 - 0,61

Laticauda vs Bagnolese 0,322 0,015 0,08 - 0,61

Tabella 8. Similarità genetiche intra- e tra i diversi tipi genetici.

Page 391: Book Final Version

il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze391

sia stato flusso genico tra le due razze in tempi relativa-mente più recenti, come avvenuto invece dalla Gentile di Puglia verso l’Altamurana.

Sempre allo scopo di studiare la variabilità genetica tra razze è stato calcolato il valore di FST come indice di differenziazione (Tab. 9) e sono state analizzate le distanze genetiche di Nei e Cavalli-Sforza et Edwards (Tab. 10).

I valori pair-wise di FST (Tabella 9) sono risultati mi-nimi per la coppia Bagnolese–Laticauda (confermando quanto osservato dall’analisi delle similarità genetiche) e massimi per la coppia Laticauda–Altamurana. Tutti i confronti sono risultati significativi (P < 0,01).

Di seguito è riportato il dendrogramma costruito a partire dalla matrice dei valori di FST tra coppie di razze. Si evidenzia come la razza Altamurana sia la più distante dalle altre razze (Fig. 1).

I risultati ottenuti con i diversi parametri di distan-za considerati mostrano in modo coerente una maggiore vicinanza genetica tra Bagnolese e Laticauda. Soltan-to le distanze di Cavalli-Sforza et Edwards (1967) e la distanza di Edwards (1971, 1974) mettono in evidenza una maggiore prossimità genetica tra Leccese e Genti-le di Puglia, comunque seguite dalla coppia Laticauda/Bagnolese.

Recentemente, Caballero e Toro (2002) hanno for-malizzato come ottenere il coefficiente di coancestry a partire dai dati molecolari applicando la definizione di Malecot (1948) ai marcatori molecolari, considerando, tuttavia, l’identità per stato piuttosto che quella per di-scendenza.

A causa della elevata correlazione tra il coefficiente di coancestry calcolato a partire dai dati molecolari ed il coefficiente di coancestry calcolato a partire dai dati

genealogici, tale parametro può essere convenientemen-te impiegato in analisi genetiche a fini conservativi (Al-varez et al., 2005). In aggiunta, il coefficiente di “mo-lecular coancestry” è correlato alle principali distanze genetiche utilizzate per gli studi popolazionistici (Eding et Meuwissen, 2001; Caballero et Toro, 2002).

Il valore del coefficiente di “molecular coancestry” medio (fij), il coefficiente di inbreeding e la distanza me-dia di kinship (Dk) dell’intero dataset sono risultati pari a 0,220, 0,312 e 0,436, rispettivamente (Tab. 11).

Analizzando i risultati per razza si evidenzia che la distanza media di kinship (Dk) più bassa è presente nelle razze Altamurana e Laticauda, con il valore di 0,386 cia-scuna; le due razze presentano anche i valori più alti di fij; tali risultati suggeriscono che i soggetti appartenenti a questi tipi genetici sono più omogenei al loro interno rispetto agli altri gruppi genetici e, in particolare, rispet-to alla Gentile di Puglia, per la quale si osserva il valore maggiore di Dk (0,425) ed il valore minore di fij (0,235).

Il tipo genetico Altamurana presenta inoltre i valori

ALT GPU LEC GBA LAT BAG

ALT *GPU 0,042 *LEC 0,043 0,035 *GBA 0,061 0,038 0,033 *LAT 0,075 0,042 0,057 0,048 *BAG 0,067 0,04 0,04 0,035 0,026 *

† ALT, Altamurana; GPU, Gentile di Puglia; LEC, Leccese; GBA, Gentile di Basilicata; LAT, Laticauda; BAG, Bagnolese

Tabella 9. Valori di FST per le possibili coppie di razze.†

Figura 1. Dendrogrammma ottenuto con la metodica UPGMA (Unweighted Pair-Group Method with Arith-metic Averaging) raffigurante le distanze tra tipi gene-tici†.

†ALT, Altamurana; GPU, Gentile di Puglia; LEC, Leccese; GBA, Gentile di Basilicata; LAT, Laticauda; BAG, Bagnolese

Page 392: Book Final Version

392i risultati

Sotto la diagonale: Nei (1978) unbiased genetic identitySopra la diagonale: Nei (1978) unbiased genetic distance

ALT GPU LEC GBA LAT BAGALT ***** 0,133 0,136 0,203 0,24 0,217GPU 0,876 ***** 0,127 0,142 0,141 0,14LEC 0,873 0,881 ***** 0,123 0,193 0,133GBA 0,816 0,867 0,884 ***** 0,156 0,119LAT 0,786 0,869 0,825 0,856 ***** 0,082BAG 0,805 0,869 0,875 0,887 0,921 *****

Sotto la diagonale: Nei (1972) genetic identity Sopra la diagonale: Nei (1972) genetic distance

ALT GPU LEC GBA LAT BAGALT ***** 0,15 0,151 0,22 0,262 0,239GPU 0,861 ***** 0,145 0,162 0,165 0,165LEC 0,859 0,865 ***** 0,141 0,215 0,156GBA 0,802 0,85 0,868 ***** 0,18 0,144LAT 0,77 0,848 0,806 0,835 ***** 0,111BAG 0,788 0,848 0,855 0,866 0,895 *****

Sotto la diagonale: Nei (1978) unbiased minimum distance Sopra la diagonale: Nei (1972) minimum distance

ALT GPU LEC GBA LAT BAGALT ***** 0,037 0,037 0,053 0,063 0,057GPU 0,033 ***** 0,032 0,036 0,038 0,037LEC 0,033 0,028 ***** 0,032 0,049 0,036GBA 0,049 0,032 0,028 ***** 0,042 0,034LAT 0,057 0,032 0,043 0,036 ***** 0,027BAG 0,052 0,031 0,03 0,028 0,02 *****

Sotto la diagonale: Rogers (1972) genetic similarity Sopra la diagonale: Rogers (1972) genetic distance

ALT GPU LEC GBA LAT BAGALT ***** 0,186 0,183 0,219 0,24 0,228GPU 0,814 ***** 0,173 0,177 0,184 0,184LEC 0,817 0,827 ***** 0,17 0,21 0,179GBA 0,781 0,823 0,83 ***** 0,201 0,175LAT 0,76 0,816 0,79 0,799 ***** 0,156BAG 0,772 0,816 0,821 0,825 0,844 *****

† ALT, Altamurana; GPU, Gentile di Puglia; LEC, Leccese; GBA, Gentile di Basilicata; LAT, Laticauda; BAG, Bagnolese

Tabella 10. Parametri di distanza genetica tra le diverse razze†. [continua]

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il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze393

Sotto la diagonale: Modified Rogers distance (Wright,1978)Sopra la diagonale: Prevosti distance (Wright,1978)

ALT GPU LEC GBA LAT BAGALT ***** 0,317 0,306 0,373 0,393 0,386GPU 0,192 ***** 0,285 0,283 0,3 0,309LEC 0,194 0,179 ***** 0,296 0,348 0,308GBA 0,23 0,191 0,179 ***** 0,336 0,305LAT 0,251 0,195 0,221 0,205 ***** 0,252BAG 0,24 0,193 0,189 0,184 0,165 *****

Sotto la diagonale: Cavalli-Sforza & Edwards (1967) chord distance Sopra la diagonale: Cavalli-Sforza & Edwards (1967) arc distance

ALT GPU LEC GBA LAT BAGALT ***** 0,317 0,315 0,386 0,392 0,399GPU 0,313 ***** 0,274 0,311 0,339 0,349LEC 0,31 0,272 ***** 0,336 0,359 0,349GBA 0,377 0,307 0,331 ***** 0,342 0,354LAT 0,384 0,334 0,353 0,337 ***** 0,28BAG 0,389 0,343 0,343 0,348 0,277 *****

Sotto la diagonale: Edwards (1971, 1974) “E” distanceALT GPU LEC GBA LAT BAG

ALT *****GPU 0,37 *****LEC 0,366 0,317 *****GBA 0,446 0,356 0,386 *****LAT 0,46 0,395 0,42 0,401 *****

BAG 0,465 0,404 0,409 0,414 0,331 *****

† ALT, Altamurana; GPU, Gentile di Puglia; LEC, Leccese; GBA, Gentile di Basilicata; LAT, Laticauda; BAG, Bagnolese

Tabella 11. Coefficiente di inbreeding, molecular coancestry (fij), distanza media di kinship (Dk) per l’intero set di dati e per razza.

Tabella 10. Parametri di distanza genetica tra le diverse razze†. [fine]

Interodataset

Gentiledi Puglia

Leccese Gentiledi Basilicata

Bagnolese Laticauda Altamurana

Self molecular coancestry (si)

0,656 0,66 0,655 0,645 0,649 0,643 0,674

Inbreeding 0,312 0,321 0,31 0,289 0,299 0,287 0,348Molecular coancestry medio dell’intera popolazione (fij)

0,22 0,235 0,24 0,247 0,255 0,257 0,287

Distanza media di Kinship (Dk)

0,436 0,425 0,415 0,397 0,394 0,386 0,386

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più elevati anche per il coefficiente di inbreeding (0,348); ciò suggerisce che la elevata omogeneità tra i soggetti di questa razza sia anche ascrivibile in buona parte all’ac-coppiamento di soggetti parenti.

Per contro, il tipo genetico Laticauda, nonostante pre-senti bassi valori di distanza media di kinship, mostra

i valori più bassi per il coefficiente di consanguineità (0,287); ciò indicherebbe che i soggetti appartenenti alla razza Laticauda sono molto omogenei dal punto di vista genetico e che tale omogeneità non è dovuta all’accop-piamento tra soggetti parenti.

Page 395: Book Final Version

395

CONSIDERAZIONI FINALI

D. Cianci, E. Ciani, E. Castellana

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Page 397: Book Final Version

397

L’Italia Meridionale Continentale ha proprie tradizio-ni nell’allevamento ovino (e nelle produzioni derivate) legate ad un patrimonio genetico a lungo sottovalutato, che deve essere recuperato e valorizzato, non solo per-ché le popolazioni autoctone rappresentano un valore storico e culturale, ma anche, e forse soprattutto, perché possono essere risorse strategiche rilevanti per la zootec-nia locale, similmente a quanto sta avvenendo per altre aree italiane ed europee.

L’ovinicoltura meridionale si trova di fronte a nuove e complesse sollecitazioni e deve essere incoraggiata e so-stenuta per fronteggiare un mercato sempre più esigente, dove la propria offerta trova crescenti ostacoli legati alla concorrenza sugli aspetti qualitativi, alla competizione con i costi dei prodotti di origine animale di altre prove-nienze e di alimenti di origine non animale legata a mo-difiche delle abitudini di consumo, nonché, purtroppo, anche alla perdita di sicurezza (reale o presunta) presso il consumatore, degli alimenti di origine animale.

La necessità di adeguare sempre più l’allevamento di questa specie alle nuove prospettve sociali ed economi-che ha condizionato tentativi di ristrutturazione in tutta Europa, ma soprattutto nell’area mediterranea, ancora prevalentemente abitata dalle popolazioni rustiche, che ai redditi propri delle forme estensive di allevamento af-fiancano richieste intensive di lavoro. Bisogna trovare un punto di equilibrio tra materiale genetico, sistemi di allevamento e produttività quanti-qualitativa, in un qua-dro più generale che consideri i fattori socio-economici, il benessere animale, la qualità globale delle produzioni e le richieste del consumatore alla ricerca di qualità ma anche di differenziare i propri consumi

Allo stesso tempo non si deve dimenticare che l’in-troduzione di innovazione non sempre ha significato ab-bandono delle conoscenze tradizionali e l’Italia Meridio-nale Continentale costituisce, forse, un caso all’interno del panorama nazionale e comunitario, perché, evidente-mente, i sistemi locali di produzione e di trasformazione nel tempo hanno stimolato l’evoluzione di attività azien-dali e di formazione delle competenze verso una sapien-

te integrazione tra innovazione tecnologica e conoscen-ze tradizionali. Resta il fatto che il sistema locale con la sua efficienza costituisce, sempre più, specie in una fase di forte inasprimento della competizione sui mercati, la chiave di volta utile per assicurare continuità e sviluppo delle produzioni e delle attività, zootecniche e non.

Infatti gli ovini autoctoni sono stati sempre allevati in condizioni e con tecniche, che non prevedono forti input tecnologici ma consentono di realizzare obbiettivi qualitativi di alto pregio. La loro produzione e trasfor-mazione sono ancora spesso vincolate agli schemi tra-dizionali che, se da una parte ne garantiscono la tipici-tà, dall’altra creano preoccupazioni negli allevatori che temono le competizioni sempre più vivaci che devono essere affrontate sia sul piano commerciale (concorrenza dei prodotti a più basso costo consentita dai più elevati livelli produttivi) che su quello normativo (capacità di rispettare gli standards qualitativi ed igienici richiesti dalla Unione Europea).

L’ovinicoltura del Mezzogiorno deve individuare strade in grado di valorizzare i vantaggi competitivi, sebbene non sia facile operare in un settore molto polve-rizzato e poco orientato all’associazionismo come quello pastorale. L’ovinicoltura, come tutto il sistema agricolo italiano è in passivo negli scambi con l’estero e non può fare a meno delle importazioni, che sono gravi minacce allo sviluppo dei nostri allevamenti. Le strategie di di-versificazione verso produzioni di qualità, si sottraggono alla competizione dei prezzi e possono essere richieste per i loro requisiti intrinseci, che assecondano un mo-dello di consumo ideologico, basato sulla limitata diffu-sione, sulla tipicità e sul vincolo con la realtà culturale e territoriale tradizionale.

La difficoltà di individuare tecniche di produzio-ne estensive idonee a far competere economicamente i prodotti delle aree collinari e montane con quelli delle più favorite pianure, rimangono comunque notevoli. La incompleta evoluzione del settore finora realizzata é in parte dovuta ad una obbiettiva carenza organizzativa a livello operativo, ma va anche addebitata alla mancanza

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398considerazioni finali

delle specifiche informazioni scientifiche che consenta-no gli adeguati interventi tecnici per il miglioramento della funzione produttiva, sia attraverso programmi ge-netici che mediante la razionalizzazione delle tecniche di allevamento. Tutto ciò malgrado sia stata avviata da tempo la ricerca di tecnologie avanzate inseribili in un contesto ambientale quale quello delle aree marginali dell’Italia Meridionale; ma sembra possibile che la com-petitività possa essere ripristinata mediante una migliore qualificazione delle produzioni che porti ad una loro più elevata valutazione sui mercati.

Il ricupero di queste aree potrebbe così essere affi-

dato anche allo sviluppo di forme di produzione agri-cola e zootecnica qualitativamente più apprezzata, con le relative interazioni e ripercussioni sulla salvaguardia dell’ambiente. L’utilizzazione ed il miglioramento delle razze autoctone può essere perciò la migliore scelta per i sistemi di produzione richiesti dagli obbiettivi di soste-nibilità ambientale. Per la produzione eco-compatibile è necessaria infatti l’utilizzazione ed il miglioramento dei tipi genetici più adatti ed il loro inserimento nel si-stema produttivo con la valorizzazione delle capacità di utilizzare le risorse ambientali (clima, alimenti e fattori nosologici), conservando la qualità e la specificità delle

quadro 1

I risultati più significativi delle indagini di campo

Gli ovinicoltori dell’Italia Meridionale Continentale- sono soddisfatti delle condizioni che offrono agli animali e di quello che ottengono dagli allevamenti- lamentano scarsa attenzione ai loro problemi- sollecitano- l’educazione del consumatore fin da bambino al valore dei prodotti tipici- l’identificazione di origine e la tipizzazione dell’agnello (delle Murge, di Laticauda, di Gentile, ecc)- la valorizzazione e la difesa del prodotto artigianale, anche con disciplinari di produzione e tracciabilità per i formaggi pecorini tipici- dopo la grande rincorsa agli incroci ed ai meticciamenti, ripensano alle razze in purezza (anche autoctone)- dedicano ovviamente le maggiori attenzioni a latte e carne; ma quattro allevamenti (di Gentile e di Meriniz-zata) valorizzano solo la carne ed un allevatore di Gentile di Puglia si interessa anche alla lana

Il consumatore- gradisce anche il prodotto tradizionale, meglio se venduto al supermercato- chiede una diversificazione della produzione per rispondere alla molteplicità dei gusti, che non sempre pre-feriscono il prodotto trasformato tradizionale (es: formaggi più dolci e più freschi)

Gli allevamenti- per il sistema di allevamento, pur se sempre prevalentemente al pascolo, si differenziano tra:- Puglia, Basilicata e Molise, caratterizzate da un regime più estensivo per le maggiori dimensioni delle greggi e delle aree di pascolo dedicate dalle aziende a Gentile, Altamurana e Leccese- Campania, dove le aziende più piccole consentono maggiori attenzioni allevamento ed uno sfruttamento più intensivo- ma tra le cinque razze allo studio alcune caratteristiche sono comuni:- la precocità sessuale sia delle femmine che dei maschi- la stagione riproduttiva, che prevede parti tutto l’anno, ma con preferenza riservata alle due stagioni tradizio-nali: autunno (ottobre-dicembre) e inverno-primavera (febbraio-aprile)- la tipologia di agnelli da macello, tipicamente mediterranea (agnello da latte di 4-6 settimane, massimo 8)

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399

produzioni quali obiettivi strategici. L’interazione degli animali autoctoni con le patologie endemiche ha porta-to, come si è visto, al perfezionamento della relazione ospite-parassita che oggi siamo in grado di valorizzare. L’assetto ematologico e l’efficienza fisiologica degli eri-trociti, tipici delle razze mediterranee rispetto alle razze nordeuropee, risultato dalla lunga coabitazione fra emo-parassiti e razze autoctone, ha realizzato una situazione di premunizione che è la garanzia per la sopravvivenza di questi animali negli ambienti a patologie enzootiche.

Il lavoro svolto ha già consentito una meticolosa ri-cognizione del materiale genetico autoctono, la valuta-

zione di pregi e difetti, l’analisi genomica di ciascuna popolazione per la definizione delle linee di recupero e di miglioramento attraverso la stima della più efficace combinabilità. Il lavoro non ha preteso e non poteva pre-tendere di risolvere tutti i problemi che affliggono l’al-levamento delle razze ovine autoctone dell’Italia Meri-dionale Continentale, ma ha rappresentato un momento significativo ed ha convinto della grande distrazione di cui queste razze hanno sofferto e delle grandi potenziali-tà che esse possono ancora esprimere.

Agli allevatori, almeno a quelli che, nonostante tutto, ancora oggi conservano la loro attività, va perciò anche

quadro 1 bis

I risultati più significativi delle indagini molecolari

a) è stato evidenziato un significativo livello di frammentazione della popolazione, legato principalmente all’isolamento riproduttivo tra allevamenti diversi, che contribuisce ad aumentare la probabilità di perdita di va-riabilità per azione della deriva genetica

b) si dimostra fondamentale un intervento di salvaguardia in situ, particolarmente urgente per la razza Alta-murana, per la conservazione degli attuali livelli di variabilità genetica, attraverso l’incentivazione allo scambio di materiale genetico tra allevamenti, la pianificazione ed il monitoraggio degli accoppiamenti, la costituzione di nuovi nuclei di allevamento o il potenziamento di quelli esistenti.

c) i tipi genetici risultati più omogenei sono: - Altamurana (alta rassomiglianza genetica intrarazza per inbreeding; bassi valori di allele richness)- Laticauda (alta rassomiglianza genetica intrarazza, non per inbreeding; bassi valori di allele richness)d) il tipo genetico risultato meno omogeneo:- Gentile di Puglia (bassa rassomiglianza genetica intrarazza; alti valori di allele richness)e) la maggiore rassomiglianza genetica si osserva tra:- Laticauda e Bagnolese- Altamurana e Leccese- Altamurana e Gentile di Pugliaf) il tipo genetico più distante dagli altri (in base ai valori di Fst):Altamurana (alta percentuale di alleli privati a frequenze più elevate)g) l’utilità dei marcatori molecolari in conservation genetics o, più in generale, nei piani di gestione genetica

delle piccole popolazioni perché:- l’approccio metodologico è in grado di evidenziare la struttura fine di una popolazione e di stimare i livelli

di inbreeding in modo molto più accurato rispetto ai metodi basati sul pedigree, soprattutto quando, come per la specie ovina, le informazioni genealogiche sono estremamente frammentarie e non sempre certe

- è possibile costituire un archivio storico dei 6 tipi genetici dell’Italia Meridionale Continentale con nomen-clatura uniforme degli alleli di STR

- i marcatori molecolari sono di ausilio per il controllo e la verifica delle filiazioni mediante test del DNA, ad esempio nelle situazioni in cui vengono costituiti gruppi di monta misti

Page 400: Book Final Version

400considerazioni finali

il nostro ringraziamento per aver resistito tentando ogni strada possibile per far tornare i conti, anche attraverso scelte razzologiche non sempre ottimali. Ma questi al-levatori vanno incoraggiati a valorizzare i punti di for-za dell’ovinicoltura meridionale legati alla presenza di genotipi locali con produzioni specifiche in aree a forte connotazione turistica, caratterizzate territorialmente per salubrità e sicurezza del prodotto. E non vanno trascurate le opportunità create dalla attenzione dei mercati ai valo-ri culturali e simbolici della ruralità ed ai prodotti salu-bri, riconoscibili, con caratteristiche di tipicità e qualità che possono essere protetti dalla diffusione di marchi e sistemi di certificazione volontaria di processo e di pro-dotto e dalla disponibilità di metodologie di analisi per la garanzia delle certificazioni (tracciabilità).

Per quanto abbiamo cercato di mostrare, le razze au-toctone dell’Italia Meridionale Continentale sono ancora in una fase di transizione, ma, forse, anche nella auspi-cata attesa di un ricupero competitivo e con la necessità di selezionare alcune strategie di sviluppo. Prima di pas-sare ad alcune ipotesi di lavoro riteniamo utile procedere con una, seppure sommaria, analisi dei punti di forza e di debolezza, dei vincoli e delle opportunità che si possono aprire per l’ovinicoltura meridionale, che come ogni al-tra attività antropica di carattere socio–economico, deve essere valutata su base oggettiva.

Tra i modelli di valutazione proposti, abbiamo prefe-rito lo SWOT (strenghts weaknesses opportunities tre-ats), che permette di stimare, in una visione di pianifica-zione strategica, i punti di forza e di debolezza, nonché

quadro 2(con la collaborazione di D. Matassino)

I punti di forza

- la biodiversità animale di interesse agrario rappresenta un fattore fondamentale, se non la conditio sine qua non per uno sviluppo sostenibile e, segnatamente, per una ruralità multifunzionale; la biodiversità è fortemente legata alla grande diversità di ambienti pedoclimatici, che condizionano, anche, la vocazione zootecnica del bio-territorio

- il potenziale produttivo del germoplasma autoctono costituisce un insostituibile serbatoio genetico che si sta dimostrando di particolare valenza per fornire alimenti ricchi di biomolecole di valore nutrizionale, extra-nutrizionale e salutistico; queste popolazioni svolgono il ruolo fondamentale di traduttori biomolecolari, grazie all’utilizzazione di risorse pabulari endogene fortemente diversificate e caratterizzanti i diversi bioterritori delle aree interessate all’allevamento

- i tipi genetici autoctoni rappresentano, inoltre, una banca di informazioni epigenetiche particolarmente utili per conservare e/o migliorare le notevoli capacità immunitarie, che contribuiscono notevolmente a ridurre molte patologie che più facilmente insorgono nei tipi genetici cosmopoliti; questa maggiore resistenza si concretizza in una non indifferente riduzione dei costi di produzione in una visione prettamente sistemica dell’allevamento. Notevole potrebbe essere l’utilizzo del patrimonio genomico di queste popolazioni nell’ambito sia della selezione assistita da marcatori (SAM) che dell’introgressione assistita da marcatori (IAM)

- assicurano la salubrità e la sicurezza dei loro prodotti perché sollecitano un ridotto approccio chemioterapico al controllo delle infezioni ed infestioni endemiche

- si inseriscono proficuamente nei sistemi produttivi a bassi input ed a sfavorevoli risorse ambientali quali cli-ma caldo arido, limitata quantità e qualità degli alimenti, spesso inadeguata disponibilità di acqua di abbeverata

- valorizzano le risorse ambientali in aree a forte connotazione turistica e con una cultura rurale ancora integra (specie nelle aree collinari)

- la presenza e l’utilizzazione delle razze autoctone contribuisce, notevolmente, alla conservazione del pae-saggio rurale e a quanto è legato a una visione meno consumistica, caratterizzante l’attuale società liquida nella definizione di Bauman (2006).

- la conservazione e/o il miglioramento della salubrità di un bioterritorio contribuisce/contribuiscono a uno

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401

le opportunità e le minacce di una attività organizzata. In particolare, questo metodo di analisi può costituire un’ottima procedura ai fini di decisioni sequenziali, fi-nalizzate al raggiungimento di uno o più scopi per l’ot-timizzazione di processi razionali ed è da ritenere parti-colarmente utile nella valutazione di attività produttive connesse allo sviluppo di un bioterritorio.

Partendo dal quadro che emerge dall’analisi SWOT sulle opportunità e le minacce che derivano dal contesto cui sono inserite le singole realtà territoriali, le possibili strategie a sostegno della ovinicoltura sono riconducibili ad alcune opzioni che, a loro volta, possono trovare una diversa integrazione tra di loro.

La prima rappresenta la scelta meno impegnativa, che tuttavia può far giungere ad una piena valorizzazione dei

prodotti. La seconda, più ambiziosa, riguarda la indivi-duazione dei canali di mercato ritenuti di maggiore in-teresse.

La strategia attuale (opzione a) prevede un forte indi-vidualismo nella fase di produzione, con una sostanziale omogeneizzazione delle produzioni locali a quelle diffu-se a livello nazionale ed internazionale. In questo caso la capacità di penetrazione sui mercati locali è dovuto so-prattutto a fattori di resilienza della struttura distributiva tradizionale e rivolta alle utenze locali. Di fronte ad una apertura dei mercati nazionali ed internazionali, questo tipo di produzioni ha poca possibilità di resistere, a meno di non conservare la capacità competitiva con il conteni-mento del costo di produzione e/o della rinuncia a gran parte del valore aggiunto.

stile di vita più consono a una visione personalistica di una comunità antropica.- avvio di processi di riorganizzazione strutturale e produttiva nelle aziende

Le opportunità

- la tutela del germoplasma autoctono ovino costituisce un’attività non sostituibile ai fini della salvaguardia di un bioterritorio come quello, specialmente, delle aree collinari e montane dell’Appennino Meridionale, ove i tipi genetici hanno ormai raggiunto un livello di fitness in grado di integrare questo germoplasma nel pieno contesto socio – economico di questo bioterritorio.

- l’utilizzazione di un germoplasma animale autoctono contribuisce a riequilibrare i complessi processi interat-tivi dei vari microagroecosistemi caratterizzanti un bioterritorio, favorendo un aumento del livello di agrososteni-bilità produttiva del bioterritorio ed il ripristino di tradizioni di notevole valore socio – economico – culturale.

- la rivalutazione del germoplasma ovino autoctono avrà, fra l’altro, un notevole effetto positivo nel restituire importanza economica alle micro imprese, quindi possibilità della permanenza dell’uomo allevatore su bioterrito-ri che, altrimenti, sarebbero sottoposti a forti danni idrogeologici; si realizzerebbe, pertanto, anche una riduzione del processo in atto sia di desertificazione che di desertazione

- l’opportunità più importante è costituita dalla notevole sensibilità e dall’interesse degli allevatori e/o pastori nel destinare le proprie risorse, anche intellettuali, al miglioramento delle loro realtà rurali

- crescente competitività e dinamicità del sistema agricolo per produzioni specifiche di qualità, anche in rela-zione alla disponibilità di tecnologie produttive innovative a sostegno di produzioni di elevato pregio qualitati-vo

- attenzione della domanda ai valori culturali e simbolici della ruralità, con evoluzione dei mercati verso ali-menti salubri, riconoscibili, con caratteristiche di qualità e tipicità

- interesse delle imprese industriali ad una diversificazione dei prodotti offerti sul mercato- diffusione di marchi e sistemi di certificazione volontaria- disponibilità di metodologie di analisi a garanzia delle certificazioni: tracciabilità genomica, identificazione

di molecole aromatiche come marcatori di provenienza dei prodotti- disponibilità di strumenti di intervento a sostegno di territori o micro-filiere- presenza di soggetti tecnici e di ricerca che consolidano un efficace circuito di sperimentazione, dimostrazio-

ne ed assistenza tecnica, capaci di elaborare soluzioni coerenti e di valorizzare ed animare il sistema locale

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402considerazioni finali

quadro 3

I punti di debolezza

- strutture produttive in forte erosione numerica - strutture genetiche eterogenee ed instabili per la grande variabilità genetica determinata dalla introduzione

di frazioni di sangue alloctono - limitate attenzioni selettive prestate per difficoltà oggettive: popolazioni di dimensioni ridotte, differenziale

selettivo limitato dalla ridotta pressione di selezione, bassa ereditabilità, costo del controllo funzionale per unità di prodotto, costo delle diagnosi di paternità

- livelli produttivi e riproduttivi non del tutto soddisfacenti e non sempre compensati da costi più contenuti e/o da una adeguata remunerazione dell’unità di prodotto

- tecnologie di allevamento già disponibili ma non diffuse in misura soddisfacente, non sempre, o non solo, per motivi economici (ad esempio, difficoltà di applicazione dei sistemi di mungitura meccanica; nonostante le sollecitazioni dei tecnici, che auspicano facilitazioni per l’acquisto della mungitrice meccanica, anche per motivi igienici)

- strutture di allevamento (ricoveri ed impianti) e infrastrutture (tecniche ed economiche) spesso inadeguate alle esigenze degli animali ed a quelle del lavoratore

- eccessiva polverizzazione e frammentazione delle aziende- la qualità del prodotto ottenuto, trasformato ed offerto sul mercato è generalmente apprezzata ma soffre di un

eccesso di variabilità e di limitata caratterizzazione - le strutture di trasformazione poco sviluppate nel complesso, se non insufficienti (soprattutto per il latte),

ostacolano le possibilità di valorizzare le produzioni locali- il mercato del latte e dei prodotti di trasformazione aziendale come quello delle carni ovine non ha strutture

consolidate e non offre certezze; rimane frazionato nel tempo e nello spazio ed esposto alla aleatorietà della do-manda

- poco diffusa conoscenza e valorizzazione dei pregi delle produzioni (alcuni rivenditori trattano ancora i pro-dotti delle razze autoctone come non di pregio, riducendone il valore commerciale)

- una debolezza da sottolineare per i suoi effetti nei riguardi del sistema allevatoriale è la carenza, se non as-senza, di consulenza tecnica da parte delle istituzioni e/o organizzazioni deputate. Pur essendo funzionante il Re-gistro Anagrafico delle popolazioni ovine a limitata diffusione, si rileva, specialmente nel Mezzogiorno d’Italia, una non attenzione da parte dell’organizzazione degli allevatori.

I vincoli- l’inasprimento delle normative igienico-sanitarie e la necessità di adeguamenti strutturali e normativi; i rego-

lamenti relativi sono applicati solo da pochi allevatori, i quali subiscono, pertanto, una concorrenza sleale- la riduzione degli interventi di sostegno della PAC- il sistema distributivo, non sempre adeguato, presenta deboli integrazioni di filiera per le difficoltà di coor-

dinamento tra gli operatori e trova forte competizione su mercati aperti con perdita di potenzialità dell’offerta a favore della distribuzione organizzata

- l’elevata differenza di reddito tra gli addetti agricoli e coloro che operano in altri settori produttivi con seni-lizzazione degli addetti all’agricoltura e basso ricambio generazionale

- la frammentazione delle iniziative di salvaguardia dell’ambiente e la difficoltà nel coordinamento e nella finalizzazione degli interventi sul territorio.

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403

La seconda strategia (opzione b) fa riferimento al consolidamento di una zootecnia radicata nel territorio e capace di costruire e rinnovare circuiti brevi di produ-zione e vendita e, quindi, di veicolare quote rilevanti di valore aggiunto alle aziende. In questa ipotesi lo sforzo a livello locale riguarda una piena identificazione degli elementi che, in fase di produzione, trasformazione e marketing delle produzioni (specie nel caso dei formag-gi), possono utilmente caratterizzare le produzioni locali, legandole a specifici valori della località e veicolandole verso specifici segmenti di mercato ad elevata capacità di spesa (mercati del turismo rurale) e/o a canali innova-tivi di vendita (e-commerce, domiciliazione delle ven-dite nei centri urbani, ristorazione di qualità, etc.). Non c’è dubbio che questa ipotesi presenta, accanto ad alcuni elementi di pregio, alcune innegabili difficoltà connesse con l’introduzione di forti competenze innovative nella struttura produttiva, lo sviluppo di una intensa capacità

di collaborazione nel sistema locale al fine di condivi-dere una strategia complessa di sviluppo, la forte orga-nizzazione e concentrazione nell’impiego delle risorse disponibili sul territorio.

Infine, un altro set di ipotesi (opzione c) riguarda una forte caratterizzazione delle produzioni locali in chiave di tipicità e di sicurezza alimentare. Questo può avve-nire mediante un forte impegno di orientamento delle produzioni locali verso i mercati della produzione bio-logica, oppure, mediante un forte sforzo organizzativo delle strutture private e pubbliche nella organizzazione di sistemi di certificazione e controllo dei processi por-tati in attuazione. Questa ipotesi produttiva può trovare opportunità di valorizzazione per mezzo dell’industria alimentare, con meccanismi di integrazione più o meno stringenti.

Le strategie di sviluppo delineate implicano una ac-corta valutazione degli strumenti, delle metodologie di

quadro 4

Strategie a sostegno dell’ovinicoltura

Consolidamento e rinnovamento dei circuiti brevi

a) produzione per consumo tradizionale locale a basso valore aggiunto capace di penetrare sui mercati locali per fattori di resilienza (e quindi di breve periodo) della struttura distri-

butiva tradizionale rivolta alle utenze locali; a fronte di una forte apertura dei mercati internazionali, questo tipo di produzione avrebbe possibilità di resistere solo con lo sviluppo di una forte capacità competitiva per il basso costo di produzione e/o una forte capacità di integrazione nel sistema industriale

b) produzione radicata ai valori della località capace di costruire e rinnovare circuiti brevi di produzione e vendita e, quindi, di veicolare alle aziende quote

rilevanti di valore aggiunto

Integrazione nei circuiti commerciali lunghi

c) produzione a forte capacità competitiva per il basso impatto ambientale e/o la forte connotazione di sicu-rezza alimentare con chiara identificazione qualitativa e territoriale

trasferite al marketing di aziende nazionali per rispondere all’esigenza delle marche nazionali di assicurarsi una diversificazione dei prodotti offerti ed intercettare la domanda delle produzioni locali e tipiche; in questo caso una quota rilevante del valore aggiunto va a vantaggio delle imprese industriali etero-dirette. La forza orga-nizzativa del sistema può accelerare il processo di sviluppo, ma si hanno gravi riflessi in termini di dipendenza decisionale.

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404considerazioni finali

lavoro e delle soluzioni tecniche da adottare a sostegno dell’ovinicoltura meridionale; richiedono perciò un in-tervento organico ed uno sforzo rilevante da parte non solo delle singole imprese, ma da parte dell’intero si-stema locale pubblico e privato con il rafforzamento di un forte partnariato locale, di tipo pubblico/privato che funga da leva per la promozione di una revisione delle filiere locali ed il consolidamento di nuove opportunità di mercato legate al rafforzamento ed al rinnovamento di circuiti brevi di produzione e vendita.

Una considerazione sempre crescente da parte del cittadino-consumatore è rivolta, infatti, verso produ-zioni che presentano un valore supplementare in quan-to ottenute in una particolare area territoriale, come ad esempio i prodotti della montagna, e quindi con forte va-lenza salutistico-ambientale aggiuntiva, oppure ottenute privilegiando un approccio naturalistico, come nell’agri-coltura biologica. In entrambi i casi si tratta di territori e/o di sistemi di allevamento particolarmente diffusi nel settore ovino.

Anche per le organizzazioni dei produttori oggi la qualità è un’irrinunciabile variabile strategica sulla quale puntare nel medio e nel lungo termine per dare prospettive di sviluppo all’agricoltura e al sistema agro-industriale nazionale.

Ma la qualità è un concetto dinamico che dev’esse-re continuamente aggiornato in relazione alla continua evoluzione del mercato, tenendo conto delle esigenze dei consumatori e delle attività della concorrenza che diventa sempre più agguerrita da parte degli altri Paesi Mediterranei, alcuni dei quali hanno costi inferiori e/o una migliore organizzazione di mercato rispetto alla no-stra, che risulta frammentata e ha difficoltà nella distri-buzione

Le rivalutazione di tali prodotti, abbinata ad un offerta turistica e paesaggistica ben organizzata, potrebbe rap-presentare un fattore di sviluppo delle aziende agricole, da non concepire più come semplici realtà produttrici di materie prime, ma anche come erogatrici di servizi, sia di tipo ambientale che turistico.

Il progresso tecnico in questo comparto produttivo, non può essere ottenuto a costi tollerabili dall’economia aziendale e ciò non incoraggia le imprese industriali a produrre tecnologie per l’ovinicoltura e l’ovinicoltura ad adottare tecnologie senza la certezza del risultato econo-mico.

Sono molte e sostanziali le difficoltà che potranno essere incontrate nell’affrontare questo programma, sul

quale confluiscono oggi molte preoccupazioni ed atten-zioni. Le azioni programmate non si annunciano faci-li soprattutto se non saranno sostenute da molta buona volontà, nonché, e soprattutto, da una efficace sinergia nello sviluppo di un chiaro programma di interventi.

Il mercato è uno dei maggiori problemi per l’alleva-tore al quale non offre certezze per la incostanza della domanda (a sua volta legata alla stagionalità della pro-duzione), per la concorrenza delle importazioni a costi sempre più bassi, per la scarsa competitività commercia-le del settore dovuta alle dimensioni delle greggi ed alle carenze organizzative a livello operativo.

Inoltre il potere contrattuale è nelle mani dei distri-butori (più a stretto contatto con il consumatore) che condizionano le scelte del produttore, incoraggiando la commercializzazione di alimenti conformi alle proprie logiche di convenienza.

In questa fase delicata dal punto di vista della gestio-ne dei mercati e dei passaggi istituzionali, la capacità di indirizzo del sistema locale rappresenta un elemento di forza per posizionare le imprese, ed il territorio nel suo complesso, nelle dinamiche di cambiamento.

È importante perciò promuovere azioni che tendano ad incoraggiare un sistema di produzione e commercia-lizzazione rivolto a valorizzare le risorse ambientali ed a garantire ai consumatori il rispetto di norme tecniche capaci di determinare una produzione di alimenti di ori-gine animale di qualità sia per gli aspetti bromatologici che per quelli igienici.

Il sistema ovino meridionale è nella condizione di sviluppare una propria competitività sul mercato delle produzioni tipiche e di qualità (produzioni biologiche ed ecocompatibili), nella valorizzazione dell’ambiente na-turale e della biodiversità, nonché delle risorse culturali e paesaggistiche locali.

Ma è necessario costruire una cornice di azioni ca-paci di orientare e sostenere l’evoluzione di settori in espansione dove le imprese agro-zootecniche possano rinforzare la loro competitività attraverso chiare strate-gie ed azioni, capaci di finalizzare l’impiego delle risor-se materiali (ambiente, animali, strutture) ed umane che ruotano intorno ai sistemi zootecnici e la formulazione di traiettorie di sviluppo coerenti con l’assetto locale e dotate di sostenibilità economica, sociale ed ambientale nel medio e nel lungo termine.

Lo scenario locale, d’altra parte, è fortemente condi-zionato dai riferimenti sovra-locali (negoziazioni World Trade Organization e normative comunitarie, evoluzione

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405

delle tecnologie e dei mercati – dalle commodities alle produzioni di qualità), ma è all’interno del sistema terri-toriale che si elaborano, partendo dalle risorse disponibi-li - siano esse ambientali, rappresentate dalla struttura di

produzione esistente o dal capitale umano - risposte co-erenti al quadro di riferimento e, allo stesso tempo, alle esigenze e alle opportunità di sviluppo che localmente si è in grado di far maturare.

quadro 5

Le azioni tecniche

- ricostruzione della base genetica avvalendosi dei risultati ottenuti con la genetica molecolare non solo per l’identificazione individuale ai fini della F.A. e per le diagnosi di esclusione di paternità, ma anche per l’analisi della struttura genetica della popolazione e per la scelta dei riproduttori a miglior valore genetico che tenga conto degli effetti di combinabilità genetica

- identificazione delle linee o dei soggetti geneticamente resistenti alle patologie infettive ed infestive come obiettivo sostenibile e di basso costo per il controllo con basso impiego di farmaci inquinanti

- miglioramento della qualità commerciale con una precisa tipizzazione dei prodotti e la valorizzazione attra-verso la propaganda delle loro proprietà qualitative che rinforzano le caratteristiche di tipicità (ambienti e tecni-che di produzione, processi di trasformazione, metodiche di controllo e autocontrollo, freschezza del prodotto) e creano le premesse per l’adozione di marchi di origine con adeguati sistemi di certificazione, anche su base molecolare (tracciabilità molecolare)

- individuazione delle biomolecole (in particolare sostanze aromatiche di valore bionutrizionale per l’uomo) presenti nelle essenze pabulari e trasferibili ai prodotti di origine animale, che possono contribuire alla definizio-ne di un sistema di tracciabilità dei prodotti (carni e formaggi) tipici delle razze locali e dei sistemi di allevamento tradizionali

- identificazione di un legame, scientificamente giustificato, tra luogo e modalità di allevamento con le pro-prietà organolettiche di carni e formaggi tipici, avallando la percezione corrente che nei prodotti delle razze locali allevate tradizionalmente vengano trasferiti aromi e sapori presenti nelle essenze spontanee

- promozione di un contributo tecnico-scientifico finalizzato a caratterizzare e tipizzare, dal punto di vista or-ganolettico e di immagine, il latte ed i formaggi provenienti dagli allevamenti tradizionali

- qualificazione delle produzioni per renderle competitive sul mercato attraverso precisi disciplinari di pro-duzione e con lo sviluppo di un sistema di garanzie al mondo della produzione da utilizzare come strumento di controllo ma anche quale leva strategica competitiva per accedere a mercati di consumo qualificati ed attenti alla ricerca di salubrità e qualità

- garanzia al consumatore del rispetto di norme tecniche capaci di determinare la produzione di carni, latte e formaggi di qualità sia per gli aspetti bromatologici che per quelli igienici (tipizzazione e qualità biologica dei prodotti)

- caratterizzazione di sistemi di tracciabilità dei prodotti di origine animale, al fine di una loro riconoscibilità territoriale che ne giustifichi il valore aggiunto attraverso un sistema di certificazione volontaria di prodotto e di processo, con marchi di origine garantiti dai controlli della qualità e dalla rintracciabilità (anche con metodologie genomiche)

- la difesa del produttore può e deve essere affidata alla qualità della merce offerta in vendita; ma le qualità genetiche delle razze autoctone non possono rappresentare l’unica risorsa dell’allevatore, che dovrà impegnarsi sempre più per confrontarsi con successo con i produttori delle aree concorrenti, nell’adozione delle tecniche di allevamento e nel rispetto di disciplinari di produzione (esistenti o da sollecitare) in modo da giungere alla ca-ratterizzazione di un prodotto di alta qualità nutrizionale, organolettica ed igienica che giustifichi l’istituzione di marchi di origine e di qualità.

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406considerazioni finali

A chi deve favorire il ricupero di queste aree con la disponibilità di strumenti di sostegno, va ricordata la presenza di risorse ambientali di pregio e di una cultu-ra rurale ancora integra (specie nelle aree collinari) che consente la conservazione di tecniche tradizionali a bas-so impatto ambientale, ma anche l’introduzione di tec-nologie innovative a sostegno di produzioni di elevato pregio qualitativo.

Le produzioni a forte connotazione di sicurezza ali-mentare e/o a basso impatto ambientale e ad identifica-zione territoriale o aziendale richiedono un forte impe-gno di orientamento verso i mercati della produzione biologica

Non si può prescindere comunque dal potenziamen-to di una efficace azione di assistenza tecnica mirata ad azioni personalizzate e dimostrative sui piani alimenta-ri, sulle tecniche di allevamento e di riproduzione, sulla qualità dei prodotti e sui risvolti igienici dell’allevamen-to e del prodotto.

Di grande utilità potranno essere i mezzi di divulga-zione ma anche e soprattutto le azioni di promozione di-rette a qualificare meglio sul mercato il prodotto locale attraverso la definizione di uno specifico disciplinare di produzione e la concessione ai produttori meritevoli di un qualificante marchio di qualità.

Nonostante la ricchezza delle conoscenze acquisite, il compito della ricerca non è assolutamente concluso ed anzi la differenziazione degli obbiettivi produttivi lo ren-de sempre più vasto. La ricerca deve farsi carico di una sempre maggiore attenzione al comparto per raccordare problemi e soluzioni che concorrano a dare un significa-to, non solo scientifico ma anche tecnico ed economico, a tutto il processo; in accordo con gli Enti territoriali, deve rendere trasferibili le conoscenze al mondo della produzione attraverso la definizione delle tecnologie de-rivabili dalle proprie esperienze.

La difficoltà dei rapporti tra mondo scientifico e mon-do operativo é nota e reale, dovuta anche alle carenze dell’assistenza tecnica ed allo scollamento con la ricerca e la sperimentazione, con la conseguente mancanza di scambi di informazioni nelle due direzioni: tecnologie innovative dai ricercatori verso gli operatori; fabbisogno di tecnologie da sperimentare o dimostrare dagli opera-tori verso i ricercatori.

Ne deriva la mancanza di fiducia degli allevatori ver-so ricerca e tecnici (teorici e distanti dalle loro immedia-te necessità operative) anche per la reale impossibilità da parte dei ricercatori di sostituirsi ai tecnici intermedi

ancora non adeguatamente diffusi e sostenuti. Il tessuto istituzionale deve infine affrontare e, pos-

sibilmente, risolvere i problemi di innovazione, innan-zitutto comprendendo il fabbisogno di ricerca, spesso intuito ed espresso dal mondo produttivo in forma in-certa, ma anche valorizzando gli obbiettivi generali e particolari di ricerca attraverso il sostegno finanziario ed organizzativo, favorendo il raccordo tra Enti di ricerca ed operatori e diffondendo i risultati della ricerca e dello sviluppo tecnologico.

Nell’Italia Meridionale vi è la presenza di soggetti tecnici e di ricerca in grado di consolidare un efficace circuito di sperimentazione, dimostrazione ed assistenza tecnica e di elaborare soluzioni coerenti con la valoriz-zazione ed animazione del sistema locale.

Nell’Italia Meridionale stanno crescendo considere-volmente le capacità di sviluppare collaborazione tra at-tori pubblici e privati con forti dinamiche di integrazione di filiera basate sulla capacità imprenditoriale. Ciò ha in-coraggiato lo sviluppo dei sistemi locali, ma bisogna an-cora favorire gli strumenti di coordinamento e di partna-riato nelle decisioni. L’individuazione di nuove sedi di discussione dovrà favorire il coinvolgimento degli attori del mondo produttivo nelle decisioni di indirizzo pubbli-co, facilitando la formulazione di obiettivi e strategie di sviluppo condivise, oltre ad un miglior coordinamento e finalizzazione degli interventi.Il consolidamento della ovinicoltura meridionale necessita quindi, specie in que-sto momento di rapido cambiamento e di ricerca di indi-rizzi di sviluppo, di chiare strategie ed azioni, capaci di finalizzare l’impiego delle risorse materiali (ambiente, animali, strutture) ed umane che ruotano intorno ai siste-mi zootecnici delle regioni del Mezzogiorno Continen-tale d’Italia. La tutela e la rivalutazione del germopla-sma autoctono rivestirà, d’altra parte, ancora maggiore importanza nel medio e lungo periodo specialmente se si considera che l’attuale potere economico, concentrato in una nuova oligarchia, sta rendendo sempre più priva-tistica la disponibilità di beni di prima necessità in aree sempre più vaste del pianeta. Il processo di globalizza-zione già avanzato sta, però, comportando un incremen-to di conflittualità tra i vari sistemi non solo produttivi ma anche culturali con forti risultanze svantaggiose per la microeconomia, quindi dell’utilizzazione non positiva delle risorse endogene dei vari bioterritori. In conclusio-ne, si rende sempre più cogente e indilazionabile l’ap-plicazione del principio di agire localmente, pensando globalmente.

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407

quadro 6

(con la collaborazione di D. Matassino)

Le azioni politiche

- le élites politiche e istituzionali, la ricerca scientifica e la cultura devono essere sempre piú coinvolte nell’in-dividuare una dinamica organizzazione di vita inserita integralmente nei vari ‘sistemi locali’

- costruzione di una cornice di azioni capaci di orientare e sostenere l’evoluzione di settori in espansione dove le imprese agro-zootecniche possano rinforzare la loro competitività attraverso chiare strategie, capaci di finaliz-zare l’impiego delle risorse materiali (ambiente, animali, strutture) ed umane che ruotano intorno ai sistemi zoo-tecnici e la formulazione di traiettorie di sviluppo coerenti con l’assetto locale e dotate di sostenibilità economica, sociale ed ambientale nel medio e nel lungo termine

- predisposizione di strumenti di supporto chiari e complessivi per favorire scelte inequivocabili dell’orienta-mento produttivo aziendale

- miglioramento dell’interfaccia tra il mondo della produzione (agricola e alimentare) e quello del consumo, legando le produzioni tipiche agli interventi di sensibilizzazione dei consumatori realizzati a livello comunitario e nazionale

- diffusione delle conoscenze, presso commercializzatori e consumatori, degli aspetti qualificanti e dei pregi delle produzioni tipiche del comprensorio attraverso una adeguata azione promozionale, che preveda anche il pieno coinvolgimento delle categorie interessate nella conoscenza delle prerogative genetiche e delle tecniche di allevamento adottatte: filmati delle situazioni reali, visite aziendali con presentazione e degustazione di prodotti tipici, ecc

- continua attività del sistema educativo - informativo affinché la popolazione assuma la consapevolezza dell’importanza della ricerca continua di un equilibrio armonico tra ‘attività antropica’ e ‘natura’ nell’ambito di uno sviluppo ecosostenibile per le future generazioni

- sostegno ai meccanismi volontari di certificazione di processo e di prodotto e i sistemi di autocontrollo anche attraverso la costituzione di organizzazioni associate di commercializzazione che aumentino la capacità contrat-tuale degli allevatori, soprattutto nei confronti dei prodotti di importazione (in particolare per le carni)

- introduzione di disciplinari di produzione, denominazione di origine e metodologie (anche genomiche) di controllo dei prodotti e istituzione di un servizio di verifica e certificazione della qualità mirante a consentire al prodotto locale una qualificazione adeguata alle competizioni sui mercati nonché a sviluppare presso i consuma-tori ed i rivenditori una campagna di propaganda sui concetti di qualità dell’agnello e dei formaggi pecorini

- incoraggiamento di una politica comunitaria coerente con le esigenze dei produttori e dei consumatori italiani (regolamenti UE per la qualificazione della produzione comunitaria e per imporre il rispetto della qualità al pro-dotto di importazione) tenendo conto della necessità di adeguamenti strutturali e normativi

- completamento del fabbisogno di ricerca, di sperimentazione, di dimostrazione e di divulgazione per il mi-glioramento degli attuali processi produttivi o per l’introduzione di metodi alternativi, supportato da una struttura polivalente

- formazione di sinergie tra Enti locali (Regioni, Province, Comuni, Parchi naturali), Università e produttori (o loro Organizzazioni) volte al potenziamento delle attività produttive attraverso ogni mezzo necessario al miglio-ramento e alla difesa del significato economico dell’allevamento.

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408considerazioni finali

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Dipartimento di Fisiologia Generale ed Ambientale, Università di Bari Dario Cianci - professore ordinario

Elisabetta Castellana - assegnista di ricerca Elena Ciani - ricercatore

Dipartimento di Produzione Animale, Università di Pisa Francesca Cecchi - ricercatore confermato

Roberta Ciampolini - ricercatore confermatoElisa Mazzanti - tecnico

Mariella Tancredi - contrattista

Dipartimento di Scienze delle Produzioni, dell’Ingegneria, della Meccanica e dell’Economia,Università di Foggia

Antonio Muscio - professore ordinarioAgostino Sevi - professore ordinario

Marzia Albenzio - professore associatoMariangela Caroprese - ricercatore

Rosaria Marino - ricercatore Francesca D’Angelo - assegnista di ricercaAntonella Santillo - assegnista di ricercaDott.ssa Laura Schena - dottore di ricerca

Dott.ssa Concetta Perilli - funzionario tecnico Dott. Cristoforo Carrino - collaboratore esterno

consdaBi, National Focal Point italiano FAO per la tutela del germoplasmaanimale in via di estinzione, Benevento

Prof. Donato Matassino - presidenteDott.ssa Nadia Castellano - responsabile laboratorio National Focal Point Italiano e Gestione dei TG/TGA/TGAARag. Gianluca Gigante – collaboratore laboratorio National Focal Point Italiano e Gestione dei TG/TGA/TGAADott.ssa Michela Grasso - collaboratore laboratorio National Focal Point Italiano e Gestione dei TG/TGA/TGAA

Dott.ssa Caterina Incoronato – responsabile laboratorio GenomicaDott.ssa Mariaconsiglia Occidente – collaboratore laboratorio Genomica

Dott.ssa Francesca Pane – collaboratore laboratorio GenomicaDott. Rolando Pasquariello - tirocinante laboratorio Genomica

Dott.ssa Filomena Maria Addolorata Inglese– responsabile laboratorio ProteomicaDott. Francesco Junior Romagnolo – tirocinante laboratorio Proteomica

Dott.ssa Giovanna Varricchio - responsabile laboratorio CitogeneticaDott.ssa Luigina Rillo - tirocinante laboratorio Citogenetica

I collaboratorI

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Dipartimento di Scienze delle Produzioni Animali, Università della Basilicata Dott.ssa Carmela Senese

Prof.ssa Paola Di Gregorio - professore associatoProf. Piero Masina - professore ordinarioProf. Andrea Rando - professore ordinario

Ed inoltre:

Dipartimento di Produzione Animale, Università di BariProf.ssa Maria Elena dell’Aquila - professore ordinario

Prof. Francesco Toteda - professore associato Prof. Francesco Vito M. Nicastro - ricercatore

Dott.ssa Barbara Ambruosi - dottorandaDott.ssa Angela Filannino - dottorandaDott.ssa Teresa De Santis - dottorandaDott.ssa Alina Iulia Iorga - dottoranda

Dipartimento di Scienze delle Produzioni Vegetali, Università di BariProf. Vittorio Marzi - professore ordinario

Dott. Luigi Tedone - tecnicoDott. Mariano Fracchiolla - tecnico

Dipartimento di Sanità e Benessere degli Animali, Università di BariProf. Ferruccio Petazzi - professore ordinario

Dipartimento di Progettazione e Gestione dei Sistemi Agro - Zootecnici e Forestali (PRO.GE.SA.), Università di Bari Prof.ssa Elisa Pieragostini - professore associato

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5 PRESENTAZIONE

7 PREMESSA

13 IL SIGNIFICATO BIOLOGICO ED ECONOMICO DELLA SALVAGUARDIA DELLE RAZZE AUTOCTONE

35 bibliografia

39 L’ALLEVAMENTO OVINO NELL’ITALIA MERIDIONALE CONTINENTALE

41 le origini

45 la storia dell’allevamento ovino nel mezzogiorno

57 l’ovinicoltura e l’economia agricola del ‘900 nel mezzogiorno

63 il territorio

85 il Patrimonio

91 gli asPetti igienico-sanitari

97 la commercializzazione

101 bibliografia

103 LE RAZZE AUTOCTONE DELL’ITALIA MERIDIONALE CONTINENTALE

105 la razza altamurana

115 la razza bagnolese

121 la razza gentile di Puglia

129 la razza laticauda

indice

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147 la razza leccese 155 bibliografia

177 GLI ASPETTI QUALIFICANTI DELLE RAZZE AUTOCTONE

179 l’adattamento all’ambiente

205 la qualità delle Produzioni

219 bibliografia

231 LE BIOTECNOLOGIE AVANZATE PER LA VALORIZZAZIONE DELLE RAZZE AUTOCTONE

233 le tecnologie riProduttive

239 le oPPortunità delle scienze “omiche”

247 bibliografia

271 GLI OBBIETTIVI E I METODI

275 le indagini Preliminari

277 le metodologie di laboratorio

291 l’analisi statistica

293 bibliografia

295 I RISULTATI

297 la razza altamurana

309 la razza bagnolese

323 la razza gentile di Puglia

341 la razza laticauda

359 la razza leccese

371 il confronto tra le razze autoctone dell’italia meridionale continentale: diversità e rassomiglianze

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413

395 CONSIDERAZIONI FINALI

409 I COLLABORATORI

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Finito di stampare nel mese dipresso

Materiale ricevuto il 10 aprile 2008