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Beppe FenoglioL’AFFARE DELL’ANIMA

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e altri raccontiCopertinaTutti i testi qui presentati o sono

inediti o apparvero solo su riviste, e nonentrarono a far parte delle raccolte deiracconti pubblicati, come I ventitregiorni della città di Alba oppure Ungiorno di fuoco. La loro

“riscoperta” si deve al paziente ecomplesso lavoro filologico di MariaCorti e della sua équipe, cherecentemente ha curato per Einaudi,nella NUE, l edizione critica dell’interaopera dello scrittore.

Sono racconti, talora abbozzi diracconti che confluiranno poi in altreopere narrative di vario periodo,

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compresi comunque nell’arco che va dal‘54 al ‘(62-63, anno della morte diFenoglio. Quasi sempre di ambientelangarolo, trattano alcuni temi ricorrentinella sua letteratura: storie di povereesistenze paesane, legate al mondo dellaMalora, come Alla Langa, L’esattore,L’affare dell’anima; simboli cheritornano, come la morte perannegamento, ne Il Gorgo.

Alla Langa fu pubblicato anonimonel ‘54, sul “Caffé”, rubrica dell’Autorevelato, e attribuito ad “uno scrittoreall’incirca trentenne, che ha giàpubblicato due libri, commerciante, altoun metro e ottanta”; nel frammento senzatitolo, invece, narra dell’incontro tra due

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partigiani ad una ventina d’anni didistanza dalla lotta clandestina, e daalcuni elementi che caratterizzano ilpersonaggio di Nicli, traspareabbastanza chiaramente lo stessoFenoglio.

Completa infine questo volume unprogetto di sceneggiatura narrativa, chedocumenta la varia ed intensa attività diFenoglio negli ultimi anni~

progetto di lavoro cinematograficosu temi contadini, a metà strada tral’appunto di sceneggiatura ed ilframmento narrativo. Materiali preziosiche documentano il gusto per i dialoghiche Fenoglio andava affinando con lostudio della letteratura anglosassone e

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che meglio evidenziano il suosotterraneo lavoro di sperimentazione edi rinnovo.

Nella valle di San BenedettoRespiravo bene, non sentivoassolutamente nessun tanfo e la

parete alla quale mi appoggiavo eraasciutta.

Una tomba sana, davvero la miglioredel cimitero di San Benedetto.

Con la schiena contro la parete e lacoperta sui ginocchi, mangiavo castagnebianche. Nello sciogliere il collo delsacchetto un pò di castagne mi eranocadute in terra ma io m’ero guardatobene dal raccoglierle. Tanto non lepotevo vedere, erano finite nel buio,

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fuori dell’alone del lumino perenne cheardeva nell’angolo alla mia destra.Faceva un chiarore debolissimo e questoera un bene perché altrimenti scopriva aimiei occhi quello che io non volevovedere, i pezzi di legno e di zinco ed ilmucchietto di immondizie che iopensavo essere tutto ciò che restavadella maestra Enrichetta Ghirardi mortanel 1928 .

Le castagne bianche facevano unrumore secco quando le spezzavo tra identi.

Io dovevo temere tutti i rumori chepotevo fare ed inoltre avevol’impressione che nel chiuso dellatomba ogni rumore si ingrossasse

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maledettamente. Cos mi concentravo adaspettare il momento che chissà comegiudicavo il più sicuro, chiudevodecisamente i denti intorno allacastagna, la spezzavo, poi restavo per unattimo sospeso ed infine mi mettevo amasticare.

Masticando guardai sù allo spiraglioche Giorgio mi aveva lasciato tirandomisopra la grande pietra sepolcrale.Vedevo una fettina di un qualcosa grigioscuro che poteva essere il cielo come lavolta del tempietto. Mi dissi che primadi calarmi in quella tomba avrei dovutoguardarmi meglio il cielo. Questa erauna scorta come un’altra, come ilsacchetto di castagne bianche, il

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bottiglione d’acqua, il lumino e lacoperta che mi ero portato giù con me.

Mi ricordai di come era il cielo alla~ne della battaglia di Castino, due giorniavanti. Da Castino si alzavano diciottotorri di fumo nero e il cielo sopra ilpaese era come il cielo sopra una grandestazione ferroviaria.

Poi, io e Giorgio e Bob eravamopartiti alla buonaventura, ma per partireavevamo aspettato che il Capitanosparasse il razzo bianco che significavasi salvi chi può. Avremmo dovuto esserein quattro, perché Leo era sempre statocon noi. Ma Leo l’avevamo lasciatonelle mani del curato di Castino che labattaglia si era appéna attaccata. Sulla

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nostra trincea era arrivata giusta unamortaiata dei tedeschi, e mentre ilnembo svaniva io vidi Leo drizzarsiatleticamente in tutta la sua statura.Tendeva le braccia al cielo, emetteva ungrido interminabile e l’occhio destro,simile a una noce di burro, gli scivolavagiù per il cavo della guancia. Cosa neaveva fatto Leo del suo occhio? L’avevalasciato nel fango della collina diCastino o l’aveva raccattato e se l’eramesso in tasca ravvolto nel fazzoletto? Identi mi facevano già un pò male, lecastagne bianche sono troppo secche.Rimisi nel sacchetto quelle poche che mirestavano in mano e mi posi a sentirfuori.

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Non si sentivano passi sulla ghiaiadel camposanto. Se anche si fosserosentiti, non era indispensabile che io mispaventassi, poteva anche essere soloGiorgio.

Me l’aveva detto Giorgio prima dilasciarmi: - Io non starò mai fermo,girerò sempre per tutta la valle e girandoposso capitare qualche volta al cimitero.

Pensai a Giorgio e naturalmente ilmio pensiero comprendeva anche Bob.Pensavo freddamente, freddamente comeprima non mi era mai riuscito dipensare, ai miei compagni Giorgio eBob. C’era voluto questo granderastrellamento di novembre, esseredispersi eppur tenuti insieme come tanti

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grani di polvere in un vortice d’aria,andare in armi e a casaccio in cerca diun buco nella grande rete che ci avevanotesa nei quattro punti cardinali, percapire in pieno come eravamo simili noitre e come non potevamo assolutamenteandare d’accordo.

Eravamo entrati insieme nelmovimento quando i partigiani la genteli chiamava ancòra i ribelli, eravamotutt’e tre studenti d’Università, avevamointelligenza e virilità pressoché pari.

E nessuno voleva comandare néubbidire all’altro, tra noi nessuna parolacadeva nel vuoto eppure non ne uscivamai niente di fatto. Perché nonlitigavamo mai e non ci davamo mai

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ragione. Siccome nei partigiani tutto siriduceva ad essere una questione difregature, ciascuno di noi tre preferivafarsi fregare da un qualsiasi estraneopiuttosto che da uno degli altri due.Andavamo insieme, ma ognuno eraresponsabile per sé e per sé solo, dellasua morte o della sua salvezza.

Fin dal principio, quando s’eratrattato d’iniziare la ritirata, Bob avevachiesto: - Da che parte prendiamo? Erauna domanda idiota, da uno che vuolfare il normale nel pieno del più granderastrellamento passato sulle Langhe.

Gli avevo risposto io, senzapazienza:—Possiamo gettare un soldo inaria e se viene testa andiamo a nord e

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croce andiamo a sud. Cosa vuoi checonti più la parte da prendere? Noncapisci che hanno messo le griglie alleLanghe e noi ci siamo dentro come lescimmie allo zoo? - Intanto mi eroincamminato a sud e sentivo che Bob miseguiva con della rabbia in lui verso dime. Credette di sfogarsi una prima voltadopo che avevamo fatto un pò dichilometri senza incontrare o avvistareun cane né dei nostri né dei loro néborghese.

Bob mi disse: - Non può essere laparte buona questa, perché ci siamo noisoli a passarci.

Ed io: - Invece questo è proprio ilsegno che è la parte buona. Più pochi

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siamo e meno pericolo c’é. Il pericolosarà da quella parte dove passano intanti.

Credi che i tedeschi ne lascinoperdere dei mille per prendere tre gatticome noi? Giorgio mi diede apertamenteragione, ma Bob insistette: - E doveandiamo avanti cos? - Andando semprecos diritti al nostro naso arriveremo inLiguria.

E poi traverseremo il mare a piedi earriveremo in Corsica. E se fa bisogno,andremo a piedi fino in Tunisia.

Io avevo scherzato per vendicarmidi Bob e lui mi guardò in modo da farmicapire che non sarebbe stato scontentose qualcosa, i tedeschi, mi avesse fatto

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rincrescere d’aver scherzato.Poi arrivammo davanti a una

cascina. Era come tutte le altre cheavevamo passate, chiusa scura e mutacome se la gente dentro fosse tuttamorta, lunga rigida sul letto. Inveceall’inferriata di una ~finestra apianterreno si affacciò una donna e cimandò una voce bassa ma violenta. Noitre rimanemmo sulla strada a sentirla. Cidisse: - Guardate quel fucile e quellaborsa sulla mia aia. E stato un partigianoa lasciarli l.

Non per voi che siete suoi compagni,ma è stato vigliacco. E una brutta cosapericolosa, io non so dove nasconderla,non so nemmeno come prenderla in

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mano, ho paura che mi scoppi. Ho miomarito e mio suocero in un bucosottoterra.

Se arrivano i tedeschi e mi trovanoquegli affari sulla mia aia, il meno chemi fanno mi bruciano il tetto -. Poi simise a piangere, un pianto liscio econtinuo come il getto d’una fontana. Ioandai sull’aia e raccolsi il fucile e laborsa delle munizioni. La donna cessòsùbito di piangere e mi chiese:

-Sono sicuri i miei uomini sottoterra?

Ci ho messo sopra del letame fresco,cos se vengono i cani poliziotti annusanoil letame, si confondono il naso e nonsentono più l’odore della carne

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cristiana.-Chi ha detto che hanno anche i cani

poliziotti? - Tutti lo dicono che li hanno.Sono sicuri i miei uomini sottoterra? - S,stanno bene dove sono,

-le risposi e tornai sulla strada. Mi

misi il fucile sulla spalla sinistra e tesiavanti la borsa delle munizioni pervedere chi dei due se la caricava.

Entrambi guardarono in terra e nonfecero un gesto. Io entrai in uncastagneto.

Giorgio e Bob pensavano che io cifossi entrato per fare un bisogno edinvece io ne tornai senza più il fucile né

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la borsa. Non mi dissero niente e miguardarono quel tanto che bastava pervedere che non avevo più addossoquelle due cose.

Più avanti Giorgio mi domandò: - Tuti ficcheresti in un buco sottoterra?

Io scossi la testa in segno di no eGiorgio disse - Neanch’io. Iocomincerei a pensare che non possononon trovarmi, il buco è mal nascosto, èuna cosa ridicola come è mal nascosto,arrivano i tedeschi e se ne accorgonosùbito, scavano giusto, infilano unamano nel buco, mi tirano sù per i capellie mi fanno sporgere quel tanto di testadove ci sta una rivoltellata, tanto io sonogià sottoterra…

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Io lo guardai, aveva la voce e lafaccia di uno che si sente pian pianosoffocare, agitava la testa come perscansare con la bocca un tappo messo lfermo per asfissiarlo. Io dissi a mestesso: - Considera bene che tipo èGiorgio.

Parlò Bob: - Noi siamo gente che hala disgrazia di avere fantasia. Questonon è pensare, questo è fantasia. Ed è lafantasia che ci frega. Di questi tempi ilpiù forte è quello che ha meno fantasia,che non ne ha per niente.

Girai lentamente lo sguardo versol’angolo dove avevo appoggiato il mioThompson. Le sue parti metallichesplendevano al lume vicino con una

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ricchezza discreta, l’arma mi pareva unarredo sacro. Non potei fare a meno disorridere. Mi ero ricordato del fucilebuttato via sull’aia di quella donna epensai che quando il rastrellamentofosse passato e noi vivi fossimo tornatiai nostri posti, ci saremmo guardati l’unl’altro e avremmo visto chi avevaconservata la sua arma e chi no. Io sareitornato col mio Thompson sulle spalle equesto sarebbe bastato ad esimermi dalraccontare come avevo fatto acavarmela. Ma sarei stato zitto? Nonavrei detto orgogliosamente che per nonfinire in mano ai tedeschi mi ero ficcatodi notte in una tomba, in una tomba delcimitero di San Benedetto con il morto

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dentro? Questo era un caso chenascondersi era un atto di enormecoraggio. Questo era il mio caso.

Bevetti un sorso d’acqua albottiglione e poi tesi l’orecchio senzacogliere il minimo rumore. Alloraguardai il cielo attraverso lo spiraglio.Aveva lo stesso colore dell’ultima voltache l’avevo guardato ed io capii cheavevo già perduta la nozione del tempoAl campanile di San Benedettodovevano pur battere le ore, almeccanismo non importava niente chedappertutto nella valle ci fossero itedeschi, scoccava le ore quando eraora, ma io non avevo sentito nessuntocco.

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Mi dissi che in fondo non mi sarebbedispiaciuto poter parlare un pò conGiorgio attraverso lo spiraglio. Peròpensai anche che Giorgio avrebbedovuto arrivare fino alla mia tomba efare necessariamente del rumore con laghiaia e che io mi sarei spaventato diquei passi prima di esser certo cheerano i suoi.

E poi pensavo che era meglio di noanche perché Giorgio poteva essersistancato o spaventato di girare per lavalle e adesso poteva voler scendereanche lui nella tomba della maestraGhirardi. E Giorgio era proprio il tipoche poteva perdermi. Non era unvigliacco, l’avevo già visto in due

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battaglie alla battaglia di Alba e a quelladi Castino, ma non sapeva aspettare,ecco, gli mancava quella che io chiamola forza dell’attesa.

Giorgio era proprio il tipo chepoteva perdermi, era già stato sul puntodi perderci tutt’e tre poco prima cheentrassimo nella valle di San Benedetto.

Andavamo a sud avendo alla destrail torrente Belbo e un pò per stanchezzae un pò per rassegnazione non facevamomolta attenzione intorno. Fu Bob che mitoccò col gomito perché mi voltassi aguardare con lui. Dalla cresta dellacollina a sinistra spuntavano elmetticome funghi. Poi i tedeschi si eranoaffacciati a persona intera, ma tenevano

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ancòra le armi basse. Sia noi che lorosiamo stati un attimo a fissarci comeconoscenti vaghi che da un marciapiedeall’altro aguzzano gli occhi e non sidecidono a salutare. Ci siamo resi contonoi prima di loro e c’eravamo giàslanciati verso il torrente prima che loroci puntassero con le armi. Fecero ancòrain tempo a spararci ma non ci colsero enoi tre ci tuffammo di pancia in quei duepalmi d’acqua gelida. Non volevamofermarci l, ma una forza che non eraquella dell’acqua ci premeva i ginocchisul fondo del torrente. Cosnascondemmo la testa sotto le erbacciedell’altra sponda e aspettavamo che itedeschi scendessero per ammazzarci a

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mollo.Vedremo il nostro sangue partirsi da

noi sul filo della corrente. Invece queitedeschi tirarono via per la loro collina.Io alzai la testa da sotto quelle erbacciee avevo la bocca aperta. Ma sùbito larichiusi perché sùbito vidi e capii. Sullacollina a destra che strapiombava sultorrente, venivano altri tedeschi. Se nevenivano in fila indiana e senzafermarsi, uno dopo l’altro, gettavano giùbombe a mano. Esse cadevanopressapoco sulla sponda del torrente, trai felceti, a intervalli abbastanza regolari.Uang! Uang! si avvicinavano.

Giorgio aveva visto e capito quantome, cercò di saltar via dall’acqua, ma

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Bob lo tenne giù, io lo aiutai e glifacemmo cacciar la testa sott’acqua.

Doveva aver aperta la bocca perurlare perché intorno alla sua testal’acqua riboll violentemente. Anch’io eBob cacciammo la testa sott’acqua,eravamo lunghi sdraiati sul fondo masentivamo che il nostro sedereemergeva.

Delle due bombe che ciriguardavano, una cadde troppo a montee l’altra troppo a valle.

Ecco, Giorgio mi avrebbe fatto lostesso scherzo se avesse sentito itedeschi entrare nel camposanto emettersi a girare tra le tombe. EppureGiorgio dopo il fatto del torrente si

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comportò con noi esattamente comeprima, come se nulla fosse successo,come se io e Bob non potessimo uscire adirgli: - Tu, a momenti ci fai accopparetutti.

Poi, quando arrivammo al paese diSan Benedetto ci accorgemmo che eradomenica per via della gente che uscivada vespro. Erano tutte donne, dovevanoavere i loro uomini nei buchi sottoterra,e ci guardarono mentre eravamo fermi alprincipio del paese e sùbitoabbassarono gli occhi come se noi trefossimo una visione impudica.

Andammo in giro per il breve paeseper le strade vuote e col selciatorisonante e le donne ci spiavano dalle

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fessure delle porte, al riparo deglispigoli delle finestre. Spesso noi civoltavamo di scatto per sorprenderle,ma quegli occhi sparivano come iriflessi di uno specchietto sottrattorapidamente ai raggi del sole. Poieravamo usciti e andati come a spassofino al torrente ed ai margini dei boschi.Le donne s’erano affacciate piùliberamente a vederci uscire dal paese,erano convinte che noi andassimo adessere la rovina di un altro paese, ecerto ebbero un colpo al cuore quandoci videro tornare.

Chiedemmo da mangiare alla primadonna che sorprendemmo a spiarci e nonfece in tempo a ritirarsi.

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In faccia sembrava una ranocchia,era brutta di quella bruttezza che si faodiare, ci diede pane e lardo da sullaporta nella maniera che si dà aimendicanti. Noi mangiammo seduti sugliscalini e dietro ci stava la donna asorvegliare cos’altro facevamo. Bob sivoltò a guardarla in modo da ispirarle,se possibile, un pò di compassione pernoi. Ma lei ci fissava impassibilmente,non doveva sentire nessuna pietà di noi,doveva pensare che la colpa di ciò chesuccedeva la metà era nostra. Perdispetto salimmo a sedere sullo scalinopiù alto, con l’aria di starci fino aquando ci faceva comodo. Un lampo dipaura passò negli occhi della donna.

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Rientrò in casa e la sua porta si richiusecon forza dietro le nostre spalle.

Giorgio si levò il pane di bocca edisse: - Non siamo più i partigiani, nonsiamo più i combattenti della libertà,siamo mendicanti che fanno paura a chise la lascia fare.

A me non interessava cos’eravamo,mangiando guardavo punto per punto lavalle di San Benedetto ed alla fine dissi:- Mah, a me sembra un posto sicuro.

Bob disse sprezzante: - Sicuroperché è il posto che ci siamo noi? Iosento che non lontano da qui c’è unufficiale tedesco che sta guardando sullacarta topografica proprio la valle di SanBenedetto.

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Io guardai Giorgio. Si teneva coidenti il labbro inferiore, aveva l’occhiofisso in avanti, ma non c’erano riflessinelle sue pupille. Io non pensainemmeno di farlo riscuotere, non era dalGiorgio che avevo conosciutoultimamente che ci si poteva aspettaredelle idee. E poi mi pareva che neanchele idee potessero più contare.

Invece Giorgio abbandonò il labbrocoi denti, si schiar la gola e facendo coldito puntato il giro delle colline chechiudono la valle di San Benedettodisse: - Se i tedeschi arrivano e simettono lassù tutt’in giro e poi scendonoordinatamente come fanno loro, non cisarà più niente da fare che crepare.

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Io dissi: - Se usciamo dalla valle diSan Benedetto, quello che dici tu puòsuccedere nella valle in cui andremo afinire. Le Langhe sono fatte cos.~.

I tedeschj sono fatti cos.Giorgio scosse la testa: - Io facevo

solo un caso. Se i tedeschi fanno comeho detto io, siamo fottuti. Bisognerebbeche la terra si aprisse. Ma la terra non siapre.

In un lampo io guardai il cimitero diSan Benedetto, ma non dissi niente.Forse solo perché mi pareva troppopresto.

Intanto era calata la sera, rapida escura come di Novembre. In paese nonavevano acceso un solo lume, come se

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col non accendere luci e stare al buiovolessero dare a credere che né loro néil loro paese esistevano sulla facciadella terra. In compenso i cani daguardia abbaiavano SUI fianchi dellecolline.

Era nato un vento fortissimo, alto, ilvento di quelle parti che costringe acaricare di sassi i tetti delle case. Neveniva un enorme rumore come difiumana.

Fu per questo rumore del vento chenoi non sentimmo l’altro rumore e soloper il richiamo della luce ciaccorgemmo che i camion tedeschierano arrivati sulla collina di destra e visi erano fermati in colonna. I fanalini

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rossi posteriori di ciascun camionsplendevano investiti dai fasci di lucebianca dei fari del camion seguente.

Noi tre ci drizzammo in piedi eguardammo. Poi Giorgio disse, pianocome se temesse d’esser sentito daitedeschi lassù: - Fanno solo una tappa.Devono esser diretti a Murazzano o aCeva. :~ troppo una colonna cos per SanBenedetto.

Io stavo zitto, contavo i fanalinirossi.

Poi dovemmo voltarci a guardare inalto sulla collina di sinistra da dovearrivava luce e rumore. Una colonna dicamion, lunga come la prima, si distesesulla strada e ci si fermò.

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Da tutt’e due le parti, figure disoldati si materializzavano per un attimoattraversando la luce dei fari e poisùbito si disfacevano nel buio. Potentipile elettriche nelle mani di uominiinvisibili cominciavano a frugare l’orloboscoso del pendio.

Una specie di pallone rosso scoppiòistantaneamente in cielo: era unsemplice razzo, il segnale di un tedescoa dei tedeschi che l’in l tutto era andatocon ordine, ma per noi tre fu come seavessimo visto pendere la bilancia diGiove.

Andammo in mezzo alla piazzettadella chiesa, davanti intorno e dietro anoi porte e finestre si chiudevano con

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colpi secchi come fucilate. Davanti allachiesa ci fermammo, io in faccia a Bob ea Giorgio, e ci fissammo come sedovessimo sbrigare qualcosa di mortaletra noi tre. Ma non ci decidevamo aparlare, finché un gatto ci rasentò dicorsa sollevando verso di noi i suoiocchi azzurri fosforescenti.

E Giorgio disse: - Vorrei essere quelgatto.

Io dissi: - Cos’hai detto, Giorgio,prima di sera? Bisognerebbe che la terrasi aprisse, non è vero che l’hai detto?Ebbene, pensa un pò al camposanto.

Ci sarà bene un sepolcro. Ci caliamodentro e può darsi che cos ci salviamo.

Bob disse: - Tu sei pazzo! Non

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cerchiamo le cose difficili. Io vado dalparroco e mi faccio nascondere in casasua. E un prete e non può dirmi di no.

- E se non ti fa entrare? - Mi faràentrare.

- Non farai mica il criminale, Bob,perché tu sei armato e lui no?

- Non gli farò del male, tu non cipensare. Ma io gli entrerò in casa e luimi nasconderà. In tutte le case c’èalmeno un nascondiglio che nessuno sisogna che ci sia.

Io dissi a Bob: - Io ho bisogno chequalcuno venga con me al camposantoper chiudere la tomba dopo che io cisarò dentro. Se ci entriamo io e Giorgio,solo tu, Bob, puoi farci questo servizio.

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Per te è identico andare dal parroco unamezz’ora prima o dopo. Tanto i tedeschidi notte difficilmente si muovono.

Bob scosse la testa nel buio e alloraGiorgio venne a mettersi tra lui e me, miprese per un braccio e mi disse: - Vieni,che tra noi due ci aggiusteremo. Ciao,Bob, Ci VediamO.

Cos ci eravamo separati da Bob, inun modo che se ci fossimo rivisti vivi,ben difficilmente avremmo potutotornare amici.

Io pensai a ciò di cui avrei potutoaver bisogno in fondo a una tomba.

Mi avvicinai ad una casa che avevaa pianterreno una finestra con la solainferriata. Applicai il viso alle sbarre e

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sussultai vedendo un’altra faccia a unpalmo dalla mia. Era una vecchia, lafaccia bianca, e le sue labbra simuovevano come per dire il rosario.

-Signora, c’è nel vostro camposanto

un sepolcro, una tomba con sopra unapietra

che si può levare e rimettere? Mirispose: - Io ho tanta paura, - e seguitò amuovere le labbra.

- Per carità, signora! - C’è la tombaGhirardi. E la più bella di tutte ed ècome la cercate voi. Nell’angolo destroin fondo.

- E quando è morto chi c’è dentro? -E la maestra Enrichetta Ghirardi. E

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morta nel ‘28.- Potete darmi qualcosa da mangiare

e da bere e una coperta? La vecchia mivoltò le spalle, se ne andò facendomolto rumore come se il pavimento leballasse sotto i piedi.

Aspettai per un pò e poi mi dissi: -Addio. Se n’è andata e non ritorna.

Non dovevo lasciarla andare. Avreidovuto mostrarle la pistola. Bobl’avrebbe fatto.

Sentii tirare un catenaccio e la portaa ~anco della finestra si apr.

Non guardai più sù del braccio chemi porgeva un sacchetto. Lo tastai, capiiche conteneva castagne bianche e lopassai a Giorgio. Poi ricevetti un

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bottiglione d’acqua e una coperta. Lavoce della donna disse: - La coperta…

-Lo so che vale. Spero di potervela

riportare.La donna ci considerò per un

momento, poi giunse le mani sbattendolee disse:

- E mio figlio che è in Russia! Ioallargai le braccia come un Cristo edissi:

- Ringraziate che è in Russia. Non civedete noi che siamo a casa? Ci vedeva,abbatté la testa sul petto e scoppiò apiangere cos forte che io e Giorgioscappammo per paura del rumore.

Prima d’arrivare al camposanto

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guardammo alle due colline. I fari deicamion erano sempre accesi, i fanalinirossi splendevano sempre e continuavaquel vagare di pile elettriche sui fianchidelle colline.

Scavalcammo il cancelletto ed ioandai dritto là dove ardeva un luminoperenne.

Lo staccai dal braccio di una crocedi pietra e lo portavo avanti come siporta un candeliere.

Da dietro Giorgio mi disse: - Staiattento alla luce. Ti vedono, ilmuricciolo è basso, chnati o para il lumecon la mano.

Quella era la tomba Ghirardi. Entraitra due colonnette sotto la volta e

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accostai il lume alla lapide murata.GHIRARDI ENRICHETTA 1862

1928 R. I. P.Adesso il cuore mi batteva assai più

forte di quando c’eravamo accorti deicamion tedeschi. Tastai col piede lapietra finché urtai un anello di ferro.

-i~ qui che dobbiamo prendere per

tirare, - dissi a me e a Giorgio, e posaiil lume ai piedi d’una colonnetta.

Tirammo tirammo e da una partecominciava ad aprirsi un vuoto, untriangolino nero. Sentii che la mano diGiorgio si allentava intorno all’anello esi ritraeva, lasciai la presa anch’io e lapietra ricadde con un rumore che ci

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parve terribile. Tenevamo gli occhi fissisu quel triangolino nero, io potevosentire il flebilissimo lamento chefacevano le cartilagini nel naso diGiorgio quando respirava.

Dissi: - Ma siamo pazzi, Giorgio?Siamo pazzi a fare un rumore cos? - S,siamo pazzi. Siamo pazzi, - mi risposeGiorgiO.

Gli misi una mano sulla spalla egliela strinsi. Gli dissi: - Che ti sembra?

Una cosa contro natura~ Ricordati diquello che hai detto. Se la terra siaprisse -.

Gli lasciai la spalla, feci un passoavanti e mi chinai su quel buco. - Sentianche tu, - gli dissi poi, - non ne esce

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nessun odore.Ripigliammo l’anello e tirammo

ancòra. Quando il buco mi sembrò largoabbastanza, dissi che bastava cos erimisi giù l’anello accompagnandolofino in fondo perché non sbattesse e nonrisuonasse.

Giorgio fece l’atto di abbassare illume in quel vuoto, ma io lo fermai conla mano e gli dissi: - Non serve, nonserve a niente. Esploreremo dopo.

Adesso bisogna scendere. Faccio ioil primo.

Mi calavo, toccavo già l’orlo colpetto. Avevo paura di lasciarmi andare,di toccare il fondo coi miei piedi, avevoanche paura che non ci fosse un fondo.

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Ma le dita non mi reggevano più, giàprima mi facevano male per aver strettoforte quell’anello rugginoso, e mi lasciaiandare.

Toccai terra con un rimbombo.Restai immoto in quell’ondata di suono,la testa incassata tra le scapole, ed eracome se alle spalle avessi un tedescoche mi puntasse la rivoltella alla nuca.Mandai un grido a Giorgio e tesi unamano verso l’aperto. Ma poi dissi: - i~niente, Giorgio, è niente, è niente!

Passami sùbito il lume.Col lume in mano ma con gli occhi

chiusi non volendo vedere niente di quelposto, mossi alcuni passi.

Tastavo la terra coi piedi, senza

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incontrare nulla. Giorgio da lassùdoveva sentire il fruscio dei miei piedied io gli dissi: - E terra comune,Giorgio, è terra comune.

Finalmente urtai col piede unaparete, giusto in un angolo. L posai illume.

Non avevo più paura, la mia menteera piena soltanto di problemifisiologici, mi domandavo soprattutto ache punto di dissolvimento potevaessere il corpo di una donna mortasedici anni fa.

Poi Giorgio mi passò il sacchetto, ilbottiglione e la coperta. Quindi io dissi:

- Sarà difficile da qui sotto rimetterebene a posto la pietra. Bob è stato

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vigliacco con noi due.- Non preoccuparti per la pietra. Io

da solo ce la faccio.- Cosa vuoi dire, Giorgio? Si serrò

la testa tra le mani e disse disperato.- Io non posso, è più forte di me, è

un fatto fisico! - Non parlarmi da cosdiritto, chnati sul buco che ti possasentir bene.

Giorgio esitò, poi si inginocchiòsull’orlo e disse: - Mi sanguina il cuorea lasciarti solo l dentro. Sono vigliaccocon te, come Bob e peggio di Bob, ma ionon posso. E una cosa del fisico, morireil dentro, anche con te vicino.

-Non parlare per me, Giorgio, parla

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per te. Se non scendi qui dentro, dovevai?

Te li sei dimenticati i tedeschi? Cosavuoi fare fuori? - Girerò per la valle,cosa vuoi che faccia? - Di me e te e Bobtu sei quello che pigli la strada piùbrutta, Giorgio. Io non mi faccio molteillusioni né su me né su Bob, ma te ti dògià morto fin d’adesso se esci di qui evai in giro per la valle.

A Giorgio venne una voce daragazza isterica e disse forte: - Io vogliocrepare all’aria libera, sulla terra. Dopoandrò sottoterra, ma al mio fisico nonimporterà più niente.

-Non puoi farcela a stare in giro. Sei

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come un vitello che infila da solo lastrada del mattatoio. Vieni giù con me.

Contro il cielo vidi la testa diGiorgio agitarsi in segno di no. Alloragli dissi: - Prendi la mia pistola.

-No, grazie, non userò nemmeno le

mie armi.Io dicevo adagio: - Cosa fai,

Giorgio, cosa fai? - come se, legatomani e piedi e preso tra l’orrore e lostupore, me lo vedessi uccidersi davantiai miei occhi con lenti gesti.

Si rialzò, sentii distintamente le sueginocchia crocchiare nel ridistendersi.

Mi disse: - Ti lascio uno spiraglio.Dimmi poi se respiri bene.

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Giorgio ansimava nel ricollocare lapietra. Mi ero portato sotto l’apertura esentivo sfiorarmi i capelli dalla mano diGiorgio che abbrancava un angolo dellastrone. Allungai una mia mano pertoccarla, ma poi non lo feci.

A scosse la pietra riandava a posto,il buco era solo più uno spiraglio, duevolte Giorgio dovette restringerloperché due volte io gli dissi:

-Più stretto, più stretto, se ne

accorgono, mi vedono.Alla fine dissi: - Basta cos, Giorgio.

Respiro bene.Lui mi disse in fretta: - Io non starò

mai fermo, girerò sempre per tutta la

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valle e girando posso capitare qualchevolta al cimitero. Te lo dico perché sesenti dei passi possono anche esseresolo i miei.

Ed era scappato lasciandomi solodov’ero.

Non ne potevo più di star seduto,avevo le natiche ormai insensibili, mami ripugnava di distendermi su quelpavimento. Per ridare sensibilità allamia carne, per incoraggiare il miosangue a non fermarsi di scorrere,cominciai a strofinarmi la schiena controla parete, ritmicamente.

Ora cominciava a farmi schifo ancherespirare, mi pareva d’immettere nellenarici altra sostanza che l’aria. E i denti

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mi facevano male, me li sentivo allentatinelle gengive, mi dicevo che era per viache avevo spezzato e masticato tantedure castagne bianche, eppure era in mepiù forte l’idea che fosse decadimentofisico, principio di corruzione.

Avevo sete ed impugnai ilbottiglione, ma non ne toccai l’orlo conle labbra perché avevo la sensazioneche esso fosse spalmato di quella stessasostanza per cui inspirare l’aria mifaceva schifo, qualcosa come lamembrana dell’ala di un pipistrello.Tenni alto il bottiglione, lo inclinailentamente con la mano che mi tremava ebevvi a garganella con la bocca delvetro a un palmo dalla mia.

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Mi bagnai tutto il petto e la pocaacqua che mi mandai in bocca la risputaisùbito e con violenza. Lo schizzo arrivòin metà della tomba e fece uno sciacquiosonoro. Posai il bottiglione e gli fecidare un tonfo. Ecco, cominciavo a farrumori, quello che non dovevoassolutamente fare, e una voltacominciato, chissà quando avrei smessodi farne. Era il principio della miapazzia, della mia rovina. Mi presi unamano con l’altra ed a fatica le tenni alungo cos prigioniere, per non fare altro,per non toccare più niente Mi voltai aguardare il lume nell’angolo, davanti aimiei occhi languenti la fiammellaoscillava come una piuma che

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ripetutamente mi sfiorasse la gola e mifacesse montare un vomito da morire.Tra poco, se continuavo a fissare quellume, avrei vomitato, un vomito ditritatura di castagne bianche, un vomitoda maiali.

Girai la testa dal lato opposto allume e mi dissi: - Non è il corpo, ilcorpo non sta male, è la tuaimmaginazione che si impone al corpo,che lo ammala

-Mi chiamai col mio nome, mi

chiamai alla riscossa. Ma ciò non midiede forza,

non mi fece reagire, fu solo un mododi farmi pietà a me stesso.

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Allora decisi di mettermi a morire.Scivolai con la schiena lungo la parete emi allungai interamente sulla terra,fissando per l’ultima volta i miei duepiedi ritti e divaricati nell’alone dellume.

Ma appéna toccai con la schiena laterra, sùbito rimbalzai a sedere. Avevopazzamente afferrato il lume e me lopassavo accosto alle braccia, allegambe, al petto e ai fianchi. Me lisentivo invasi dai vermi, ed altri vermivenivano ad assaltarmi da ogni parte.Vermi si staccavano dall’alto dellaparete e mi saltavano in testa, li sentivointrufolarsi nei miei lunghi capelli e poimuoversi come pidocchi. Alla luce non

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vidi niente né sulla pelle né sulla stoffa,ma le mie pupille vedevano vermi lostesso, i vermi erano dentro le miepupille.

Gridai: - Pietà! Pietà! Pietà, maestraGhirardi! Non avevo mai gridato tantoforte, il volume della mia voce mi avevaatterrito. E poi mi atterr il silenzio chesegu la caduta del mio grido. Avevochiamato la morta, sarebbe certamentevenuta, i miei occhi si preparavano avederla, c’era già davanti ad essi o inessi una grande macchia bianca. Nonpotevo lasciar venire ]a morta, dovevofermarla, afferrai il Thompson e feci unaraffica da sinistra a destra, dal basso

in alto, una croce di colpi.

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Fuori echeggiò una detonazione, malontana. Fulmineamente pensai chesoltanto una sentinella tedesca avevapotuto fare quel colpo. Tremai comesotto uno scroscio inaspettato d’acquagelata e non avevo più davanti agliocchi la grande macchia bianca.

Sùbito dopo credetti di sentircrocchiare la ghiaia e gridando: -Giorgio!

-mi alzai e mi precipitai allo

spiraglio gridando: - Giorgio, vieni, sesei tu! Nessuno era nel camposanto. Leorecchie mi ronzavano e una vena sullatempia martellava assai più forte delcuore.

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-Mi hanno sentito, hanno sentito la

raffica che ho fatto. A quest’ora si songià mossi. Caccia alla talpa.

Non potevo aspettare i tedeschidov’ero, col mio cranio a filo dellospiraglio.

Guardai un’ultima volta il cielo, ilsuo nero era già iniettato di bianco, epoi tornai a sedermi contro la parete. Mimisi il lume tra le gambe e chiusifortemente gli occhi Non volevo vederpiù niente, avessi potuto anche diventarsordo per non sentir più niente, ora chetutta la mia vita consisteva nel cogliererumori.

Sarebbero arrivati sulla pietra, senza

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esitazioni, come chi sa la méta fin dallapartenza. Avrei visto lo spiraglioallargarsi, allargarsi e poi vi si sarebbeaffacciato un soldato tedesco, precedutodalla canna della sua arma. Mi puntava enel mentre mi diceva in perfetto italiano:- Tu sei già a posto, hai già la tomba, tusei fortunato. Solo fatti veder meglio cheti possa puntar bene, non voglio fartisoffrire.

No, io non avrei aspettato tanto, ioero cos come dicevo che era Giorgio,come avevo potuto persuadermi che iopossedevo la forza dell’attesa? Avreitrattenuto il respiro sino a quando avessivisto la pietra smuoversi e poi avreigridato:

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- S, ci sono, sono qui giù, fate solopresto! Mi ricordai che da ragazzogiocavo ogni sera d’estate con tutti glialtri ragazzi della mia piazza a un giocoa nascondersi e a prendersi. Se toccavaalla mia squadra di nascondersi, ioandavo a nascondermi in qualche angolobuio e l aspettavo che il mio capo desseil segnale che gli altri potevano mettersia cercarci.

Da allora io mi irrigidivodolorosamente e tenevo il fiato sino ache il petto mi faceva male e poi tornavoa respirare, ma solo quel tanto chebastava per vivere. Vedevo i cercatoripassarmi davanti con le braccia protesee avevo paura che i miei occhi fossero

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fosforescenti. I loro erano fosforescenti.Poi qualcuno dei cercatori si

insospettiva, mi si fermava davanti everso di me allungava la testa e lebraccia. C’era ancòra una probabilitàche pensasse di essersi sbagliato epassasse via, ma io avevo già perduta latesta e lo chiamavo col suo nome e mislanciavo in avanti ad arrendermi.Ciononostante tremavo tutto e quandol’avversario alzava la mano percalarmela sulla spalla e farmi cos suoprigioniero, quel gesto mi fermava ilsangue.

Quel ricordo mi cadde addossocome una irrimediabile condanna. Nonpotevo mentire a me stesso, non ero

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cambiato, a vent’anni in guerra con larepubblica e i tedeschi avevo lo stessocuore di quando avevo otto anni egiocavo a nascondersi e prendersi. No,non avrei aspettato tanto, avrei gridatoprima, prima che mettessero manoall’anello. Anzi, se avessi potuto da solospostare la pietra, sarei uscito fuori eandato loro incontro.

Desiderai che qualcuno alle miespalle mi desse una mazzata alla nuca,che mi stendesse svenuto, esanime.

Poi non sarebbe stata più questioneche di svegliarsi.

E se non mi fossi svegliato più,finito tutto, anche la pazzia ed il dolore.

Come potei addormentarmi, quando

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maggiore era la mia angoscia? Forse ilnostro corpo sente a volte pietà dellanostra anima.

Ad un certo punto sognai che miavevano messo in prigione, che miavevano rinchiuso in una cella tutta digranito. Era notte ed io ero sveglio efissavo il soffitto da coricato, ed eccoche le pareti si stringevano ed il soffittosi abbassava, silenziosamente come sescorressero sulla cera. Inghiottivanoadagio quel poco spazio ed ora avevotutto quel granito sul ventre, sul petto,ora mi arrivava sulla bocca e sullafronte.

Nel sonno ripiegai le braccia perscostare quel micidiale peso mortale,

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spinsi mugolando e mi svegliai con legambe in aria. Non mi domandai se erastato un sogno o qualcos’altro, pensavosoltanto che dovevo respirare e corsiallo spiraglio.

Il cielo era di un dolce color grigio,doveva essere il vespero di un giornostato sereno.

La ghiaia strideva. Ma non era ilrumore di un passo che si avanza, maquello che fanno i piedi cheaccompagnano il movimento degli occhidi uno che si guarda intorno. Poi unpiede si posò cautamentesull’ammattonato del sepolcro. Vidi lagamba, non era un pantalone militarequello che la vestiva. Più sù vidi una

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camicia grigia ed un corpetto nero e piùsù ancòra due occhi di uomo vecchio eperplesso. Quegli occhi si fissarono neimiei attraverso lo spiraglio, ci passò unlampo di paura, capii che tra un attimoquel vecchio sarebbe fuggito come unpazzo. Allora gridai: - Sono unpartigiano! Italiano! Sono andati via itedeschi? Hanno fatto del male? Avetevisto in giro due partigiani?

Voi chi siete? Siete il becchino? Chegiorno é? Che ora é? Non mi rispose, mala sua gamba restò ferma dov’era. Poi lavidi flettersi e vidi una mano infilarsinello spiraglio, serrarsi intorno allospigolo della pietra e tirare.

Io lo aiutai con una forza febbrile,

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ricacciando giù la saliva che mi venivain bocca a fiotti.

Quando l’apertura fu largaabbastanza, saltai da terra, mi attaccaiall’orlo con le mani e mi sporsi fuorifino alla cintola. Restai per un momentocos issato sulle braccia e roteavolentamente la testa per farmi investire daogni parte dal vento leggero.

Guardai dapprima in alto, alle stradesulla cresta delle due colline. Eranodeserte, vi correvano solo bianchi so~di polvere incalzati dall’aria.

Guardai più basso: oltre ilcancelletto spalancato un carrocigolando tornava sù per la stradina delcamposanto. Sopra c’era seduto un

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uomo, tutto giacca e cappello come unospaventapasseri visto di spalle, eabitava una capanna sulla collina.

Alla LangaSe da quelle parti là viene l’amiciziatra due famiglie, è perché l’uva è

matura, e si deve necessitare l’aiuto deivicini.

Ivicini non si guardano mai in faccia;

poi mentre il barbera si fa nero la facciasi fa chiara, si comincia perfino a darsila voce, e viene il giorno dell’accordo.

Fu cos che Elia anche quell’annovenne alla mira di chiamare in aiuto perla vendemmia quelli del Muraglione. Euna botta sulle orecchie che un

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contadino non può scampare.Quelli del Muraglione, che in luglio

avevano resistito a incovonare il granoda soli, vennero con aria di trionfatorisul campo di Elia, anche a costo dipreterire il lavoro suo. Una rivincita,era.

IIbello arrivò quando si attaccò la

vigna alta. Le ragazze erano già sullescale quando Elia fa: - Ma staccate conle mani? Non ve le siete portate leforbicette? Quelli del Muraglione nonvolevano sentire ragioni, che leforbicette si sarebbero consumate, cheerano un di più, una pretesa.

Ce le mettesse Elia, di suo.

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Me, che mi avevano fatto fare duecolline per andare a prendere lacolazione, il padrone mi diede la larga,e me ne stavo l da un’ora con la robamangiativa che finivano di litigare.

Bene, si misero d’accordo che leforbicette ce le avrebbe messe Elia, eche loro poi avrebbero dato la brace peraccendere il fuoco dieci mattine di fila,e poi mi toccava a me tutta quellastanchità di andare e tornare tra le duecascine al rosso del sole.

Non ci misi un minuto a capire cheElia per quell’incidente era penato.Guardava i figli come muovevano leceste e gli dava dei nomi, finiva chefaceva il lavoro di tutti più diffizioso e

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perditempo. Loro, i figli, il momentobrutto era quello che si lavorava tuttiuniti, cosa potevano fare senza penareera solo stare davanti alle bestie, unpoco alla lontana.

Qui c’era lo spesso degli alberi e itralci, ma non bastavano. Lui, Elia,guardava tutto e tutti, e gli occhi gli sistortavano per la rabbia quando vedevail vecchio del Muraglione fare flanella,e le sue figlie canticchiavano in falsettocome per sfottere Elia, che ci riuscivanobene.

Fortuna volle che sul rompere dellasera venne la più gran acqua, e cos sisospese il travaglio che se no andavaavanti a notte fonda e le forbicette

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avrebbero servito per cavarsi gli occhi,tra quelli del Muraglione e questi dellaCascina.

Io profittai della pioggia perandarmi a vedere i nostri padre e madre,che mi accolsero duri e come se fosserooffesi ma invece era per non far capireche erano commossi per via che a mezzomio potevano finalmente schivare un po’di soldi.

Quando tornai, alla buon’ora, Eliaera calmo e sfogato, e non so comeavesse potuto, non era ancora luce e giàavesse fatto un bricco di cose nellastalla e attorno alla casa. Vidi da lontanogli uomini e le donne sbardati lungo ifilari, e la voce mi arrivava

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sfisionomiata.- Le forbicette? - gridava Elia. - Io

me ne sbatto di tutto, sapete. Quando eropiccolo anch’io vendemmiavo a mano, efacevo per conto mio il vino.

Lo facevo bollire nel pitale, e me lobevevo che era ancora mosto, come se ildi dietro degli altri non fosse maipassato di l. Ero ingenuo, non dite?

ma ero anche furbo, no? Cosacredete, che sia nato oggi? Ero mica ioquel bambino là! Dico che si può rubareanche senza le forbicette, io lo so bene.

Però - bofonchiava con la vocedentro - lo dico mica per voi! E la vocesi slargava sui campi, gli altri stavanozitti e pensavano alla brace che

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avrebbero dovuto dare per dieci mattinein fila.

Il gorgoNostro padre si decise per il gorgo,

e in tutta la nostra grossa famigliasoltanto io lo capii, che avevo nove annied ero l’ultimo.

In quel tempo stavamo ancora tuttiinsieme, salvo Eugenio che era via a farla guerra d’Abissinia.

Quando nostra sorella penultima siammala. Mandammo per il medico diNiella e alla seconda visita disse chenon ce ne capiva niente: chiamammo ilmedico di Murazzano ed anche lui non leconosceva il male; venne quello diFeisoglio e tutt’e tre dissero che la

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malattia era al di sopra della loroscienza.

Deperivamo anche noi accanto a lei,e la sua febbre ci scaldava come unbraciere, quando ci chinavamo su di leiper cercar di capire a che punto era.

Fra quello che soffriva e le spese,nostra madre arrivò a comandarci dipregare il Signore che ce la portassevia; ma lei durava, solo più grossa undito e lamentandosi sempre comeun’agnella.

Come se non bastasse, si aggiunse ilbatticuore per Eugenio, dal quale nonricevevamo più posta. Tutte le mattinecorrevo in canonica a farmi dire dalparroco cosa c’era sulla prima pagina

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del giornale, e tornavo a casa araccontare che erano in corso coi morile più grandi battaglie. Cominciammo arecitare il rosario anche per lui, tutte lesere, con la testa tra le mani.

Uno di quei giorni, nostro padre sileva da tavola e dice con la sua voceordinaria: - Scendo fino al Belbo, avoltare quelle fascine che m’hannopreso la pioggia.

Non so come, ma io capii a volo cheandava a finirsi nell’acqua, e mi atterr,guardando in giro, vedere che nessunaltro aveva avuto la mia ispirazione:nemmeno nostra madre fece il piùpiccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo,e s che conosceva il suo uomo come se

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fosse il primo dei suoi figli.Eppure non diedi l’allarme, come se

sapessi che lo avrei salvato solo sefacessi tutto da me.

Gli uscii dietro che lui, pigliato ilforcone, cominciava a scender dall’aia.

Mi misi per il suo sentiero, ma mistaccava a solo camminare, e cos dovettibuttarmi a una mezza corsa. Mi sent, miriconobbe dal peso del passo, ma non sivoltò e mi disse di tornarmene a casa,con una voce rauca ma di scarsocomando. Non gli ubbidii. Allora, ventipassi più sotto, mi ripeté di tornarmenesu, ma stavolta con la voce che mettevacoi miei fratelli più grandi, quando siazzardavano a contraddirlo in qualcosa.

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Mi spaventò, ma non mi fermai. Luisi lasciò raggiungere e quando mi sent alsuo fianco con una mano mi fece girarecome una trottola e poi mi sparò uncalcio dietro che mi sbatté tre passi su.

Mi rialzai e di nuovo dietro. Maadesso ero più sicuro che ce l’avrei fattaad impedirglielo, e mi venne da urlareverso casa, ma ne eravamo già troppolontani. Avessi visto un uomo l intorno,mi sarei lasciato andare a pregarlo:

- Voi, per carità, parlate a mio padre.Ditegli qualcosa, - ma non vedevo unatesta d’uomo, in tutta la conca.

Eravamo quasi in piano, dove sisentiva già chiara l’acqua di Belbocorrere tra le canne. A questo punto lui

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si voltò, si scese il forcone dalla spallae cominciò a mostrarmelo come si facon le bestie feroci. Non posso dire chefaccia avesse, perché guardavo solo identi del forcone che mi ballavano a tredita dal petto, e sopratutto perché non misentivo di alzargli gli occhi in faccia,per la vergogna di vederlo come nudo.

Ma arrivammo insieme alle nostrefascine. Il gorgo era subito l, dietro unfitto di felci, e la sua acqua fermasembrava la pelle d’un serpente.

Mio padre, la sua testa era protesa, isuoi occhi puntati al gorgo ed alloraallargai il petto per urlare. Inquell’attimo lui ficcò il forcone nellaprima fascina. E le voltò tutte, ma con

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una lentezza infinita, come se sognasse.E quando l’ebbe voltate tutte, tirò un

sospiro tale che si allungò d’un palmo.Poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli

vidi la faccia che aveva tutte le volteche rincasava da in festa con unasbronza fina.

Tornammo su, con lui che si sforzavadi salire adagio per non perdermi d’unpasso, e mi teneva sulla spalla la manolibera dal forcone ed ogni tanto migrattava col pollice, ma leggero comeuna formica, tra i due nervi che abbiamodietro il collo.

L’esattoreMancata Apollonia, Adolfo Manera

non se la sentiva più di far locanda: era

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brusco coi clienti buoni e i mezzi mezzi,come carrettieri e mietitori, la minimache gli combinassero, li sbatteva fuori,perché, se era bassotto, era però uomod’un nervo speciale. Ad ogni modo tiròavanti per altri quattro anni, finchéFilippo Alliani venne a proporgli dicedergli il Leon d’Oro e di farglil’ultimo prezzo. Manera glielo tirò nellegambe per diciassettemila lire.

Avrebbe potuto collocare subito ebene i suoi soldi perché suo cognatoPagliano, che non gli aveva toltaun’oncia d’affezione dopo la morted’Apollonia, gli ordinò

di mettersi alla pari con lui nellavinicola che gestiva oltre fare il

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veterinario, ma Manera gli disse graziee di no, perché aveva il suo colpo inmente.

L’ultimo appaltatore dell’esattoria diMurazzano, Marsaglia e Igliano avevafatto fallita e l’esattoria era vacante. Perdi più, andava giusto allora all’incantola casa del banchiere Franchiggio cheaveva mangiato a Montecarlo i soldi deiclienti e s’era poi sparato nello stanzinodella cassaforte. Manera la comprò ilgiorno dopo che vinse l’appaltodell’esattoria.

Era una madama di casa, la più belladopo quelle dei veri signori diMurazzano, e grande anche più delleloro, con tante stanze da letto da

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aggiustarci comoda tutta la sua parenteladi San Benedetto quando la invitava aMurazzano per San Lorenzo. E doveFranchiggio aveva tenuto banca lui fecel’esattoria, ché c’era già tutto: gliscaffali, la cassaforte, gli scrittoi e letramezze con gli sportelli. Era rimastonel muro il botto della pistolettata cheFranchiggio ci si era ammazzato, lui lofece tappare a calce, ma intorno cipitturò un cerchietto rosso, come avolersi sempre ricordare di non giocaremai i soldi degli altri.

Di taglie e di esazioni nons’intendeva niente, aveva la secondaelementare e prima di far locanda avevasempre e soltanto zappato i piedi della

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collina di Mombarcaro. Mandò allora achiamare un certo Durando di Dogliani,un maestrino che non aveva voglia di farscuola ed era stato ufficiale esattoriale aBossolasco ma aveva poi litigato colpadrone. In due mesi con Durando siimpratich di tutta la faccenda ericompensò Durando nominandolo suoufficiale esattoriale. Ma dopo un annodovette dargli licenza perché Durandoera troppo fiscale e da Murazzano aIgliano era dappertutto un lamento.

Manera, lui, fiscale non era, e aun’assemblea di tutti gli esattori a Cuneogli altri lo rimproverarono di esseremolle. Da quel giorno Manera cambiò,diventò d’una fiscalità tale che al

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confronto Durando era una benedizione,arrivò alla mira che per una lirad’arretrato faceva ai morosi lafiguraccia in piazza all’ora della messagrande. Non era solo l’effetto di quellapartaccia in piena assemblea, era cheManera andava pian piano rendendosiconto di che pozzo poteva essere quelloper il suo secchio.

Ma, cambiato lui, cambiarono glialtri. Adesso tutti lo salutavano perstrada e alla finestra, ma qualcuno gliaugurava del male, ed anche quelli cheavevano preso parte al suo dolore perApollonia trovavano adesso che uncastigo gli ci voleva. A tutti era venutauna memoria di ferro, e si ricordavano

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che era salito a Murazzano da SanBenedetto col letame ancora attaccatoagli zoccoli e che ai primi tempi al Leond’Oro si faceva in quattro per il piùdisperato dei carrettieri di passaggio.

Ma lui badava solo a che gli altrinon gli mancassero il saluto e che nongli dicessero niente in faccia. Luicominciava ad essere un signore, tutti iManera insieme non facevano la suaposizione, con davanti ancora mezza vitaper ingrandirla, era già un signore, diquelli che ogni notte prima di andare adormire puntellano ben bene la porta dicasa.

A tutto il resto non dava da mente,anche per via del gran lavoro: ora che

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era senza ufficiale esattoriale, curava luitutta la zona, sempre via a cavallo, diqualunque stagione, MurazzanoMarsaglia e Igliano, tornava il più dellevolte a notte fatta, e mangiava semprefreddo o riscaldato, peggio che fosse unmedico.

La prima dimostrazione della suaricchezza la diede con quel che fece perla sua Apollonia: non le volle una tombacome tutti gli altri e come la pietra chele aveva messo quando la seppellironoche lui era ancora fermo al Leon d’Oro;le fece fare a Ceva una gran statua digraniglia e scagliola che ad Apollonianon somigliava in niente ma portava ingrembo, in un liscio della veste, nome e

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cognome e le date, e la domenica che lascoprirono c’era tutto Murazzano alcamposanto, quasi che fosse il due dinovembre.

Dei due che Apollonia aveva fatto intempo a fargli, il figlio, che era un belragazzo, bello come un Pagliano, avevafinito le scuole basse a Murazzano eadesso studiava ad Alba per diventaremaestro. Suo zio Pagliano era dell’ideache pigliasse il brevetto da veterinario,lasciando l’esattoria a sua sorella cheappunto per questo avrebbe dovuto alsuo tempo studiare da maestra. MaManera aveva come il presentimento chequella sua figlia non sarebbe durata epensò quindi di assicurare l’esattoria

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alla sua famiglia facendo studiare ilfiglio da maestro perché potesse poi farbene, meglio di suo padre, l’esattore.

Quando Melina fin le sue scuolebasse a Murazzano, e le fin con tre annidi ritardo perché suo padre la facevarestare a casa un mese per unraffreddore e quella pigliava soventequalcosa di più di un raffreddore, lamaestra e il vicario tanto si mossero efecero che persuasero Manera amandarla a studiar da maestra dallesuore a Mondov: anche se non prendevail diploma, avrebbe in ogni modoricevuto un’istruzione che ne avrebbefatta una damigella che chissà qualmatrimonio avrebbe potuto poi fare,

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considerati insieme i beni di suo padre.Manera si decise d’agosto e Melina partd’ottobre, sulla domatrice tra suo padree suo zio il veterinario.

Manera aveva già mandato avanti trebauli, col carro di Fazzone che andava aMondov tutte le settimane a ritirare laroba di privativa per Murazzano.

Tre bauli, le aveva fatto un corredoche nessuna sposa, cos dissero le vicineche Manera invitò a vedere il corredo,ma poi, con le mani giunte sotto ilmento, fecero tanti complimenti ecerimonie che Manera le mandò fuori intronco, da brusco come l’aceto che eradiventato con le donne.

Manera doveva confessarsi che

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ricevere posta da Melina da Mondov~gli faceva tutto un altro effetto che daAlfredo da Alba. Lei gli scriveva duevolte al mese e dapprincipio le suelettere cominciavano “Caro papà”, mapiù avanti scriveva “Papà miocarissimo~ e Manera chiudeva unmomento gli occhi e pensava alla grandeistruzione che le davano quelle suore.

Ma un giorno, che sua figlia stava incollegio da tre mesi, gliene arrivò una dilettere che appena finita di leggerla andòdritto in vicaria, e non era un’oracanonica, e da quella volta lui e ilvicario s’incontravano si salutavanosolo più con la testa. Insomma, Meli’nanon stava niente bene dalle suore, con

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quella retta da nobili non stava nientebene, e non era per la sola malinconia. Ese non l’aveva detto prima era perchésperava di abituarcisi, ma adesso non cela faceva proprio più. Prima di tuttoaveva finito d’ammalarsi di paura,perché ogni sera le suore leconducevano in fila in uno stanzoneimmenso e tutto buio salvo per unlumino acceso ai piedi d’un Cristo e l lefacevano inginocchiare sul pavimentogelato e recitare la preghiera dellabuona morte. E poi non mangiava più, daquando aveva saputo che per la minestradella sera le suore approfittavano dellasciacquatura dei piatti del mezzogiorno.

Allora Manera ogni settimana col

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corriere del sale e del tabacco lemandava delle borsate di roba buonapolli arrosto freddi e scatole di sardine.Cos Melina mangiò tutto freddo e siguastò lo stomaco una volta per tutte. Lesuore la portarono dal medico, ma leinon si rimetteva, la superiora scrisse aManera, ma siccome aveva paura diperdere l’educanda fece la cosa piccola,e non fosse stato della coscienza delmedico che scrisse direttamente aManera, questi non avrebbe mai saputocome stavano le cose.

Andò lui a ritirarla dal collegio egiurò davanti alla madre direttrice chesua figlia mai più in nessun collegio enemmeno in nessuna scuola. Tanto

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Melina non aveva bisognodell’istruzione, avrebbero letto e scrittoper lei i beni che lui le avrebbe lasciato,anche senza sapere una parola difrancese sarebbe stata lo stesso la reginadelle langhe.

Ma Melina non era più lei: pensiamoche non sopportava più l’aria dellelanghe, quell’aria che le aveva fatto dalevatrice, e se ne stava eternamente incasa, che le pareva grande come tutto ilpaese, cosi grande che dalla primaall’ultima stanza sembrava d’andare inun altro paese. Dapprincipio Manera, acosto di sforzarla, aveva cercato diriabituarla al vento e la portava appostasulla spianata della vicaria che è uno dei

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posti più battuti, ma lei alla prima folatagemeva e poi come il vento rinforzava efaceva crosciare i fichidindia urlava inuna maniera che una volta la gente usc dicasa a vedere se scannavano un bambinodietro la chiesa. Dopo quelle due o treprove non usc più, se ne stava in casacome una vecchia gatta mezza cieca, aquindici anni.

Da dove fosse uscita quella figlia:non era né Manera né Pagliano, erapiccola e minuta al punto che suo padrediceva che era una miniatura, ma tutti glialtri dicevano che era uno scherzo dinatura, e suo zio il veterinario tutte levolte che la guardava s’intristiva negliocchi e perdeva il filo del discorso.

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Le donne sapevano dalla serva chealla sua età non aveva ancora le sueministrazioni e i maschi dicevano chenon l’avrebbero presa nemmeno seManera gliela porgeva su un piatto doro.

Pur stando sempre in casa, si facevaun vestito al mese: si vestiva dabambola, dando i disegni a una sarta diMondovi che serviva tutte le dame dellacittà.

Tutto il resto andava bene perManera. Ora da un pittore girovagos’era fatto fare il ritratto ad olio, con unlibro in mano. E poi aveva comprato ilsuo primo pezzo di terra, un prato conuna bell’ombra di noci e di peri, dove i

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suoi figli potessero andare a merendarequando Alfredo fosse stato in vacanza,che non dovessero abbassarsi ad andaresul bene degli altri. Nelle vacanzeMelina e Alfredo ci andavano,merendavano insieme, parlando sempred’amore e d’accordo, litigando soloquando si trattava di stabilire se comecittà era più bella Alba o Mondovi. PoiMelina stava ad ammirare suo fratelloche scendeva a esplorare il rittano diRea.

Anno per anno, pezzo per pezzo,Manera diventò padrone di tutta la terrache dalla Riva giunge al rittano di Rea.E per non dar profitto a gente comune, ladiede a lavorare a Francesco d’Anna,

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che era l’ebete di Murazzano, ma eralavoratore e solo bisognava stargli unpo’ appresso se no lui senza alzar mai latesta andava a vangare nel bene deglialtri a spese di Manera.

Naturalmente tutto questo bene nongli veniva sempre liscio: un giorno cheandava a riscuotere a Marsaglia glipassò ben vicina una schioppettata.

Lui si gettò nel fosso e col musocontro la terra pensò che non era uncacciatore che avesse sbagliato la lepre,ma si ricordò immediatamente d’uncerto Albino di Sant’Antonio che ilbimestre prima lui gli era andato in casacon due carabinieri a sequestrargli ilvitello della coscia. Ad ogni modo non

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disse niente di ciò al maresciallo diMurazzano, ma il giorno dopo calò aCeva e si comprò una rivoltella e permolto tempo appresso tutte le volte cheusciva per le langhe si toccava in tascaper vedere se aveva la rivoltella primache il fazzoletto.

Ma questo fu niente a petto dellamorte di Alfredo, di suo figlio Alfredo.Aveva diciassette anni e l’anno doposarebbe stato maestro. Venne su per levacanze di Pasqua e il giorno dellamerendina si costipò. Cosa successe neisuoi polmoni il medico Odello non loseppe mai dire, fatto sta che mori ottogiorni dopo, il giorno medesimo che dalcollegio di Alba arrivava una lettera a

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domandare come mai Alfredo nontornava giù.

Tutto Murazzano ci restò secco, equantunque Manera nella suadisperazione gridasse che gli era mortoperché gli era attaccata una maledizionefatta a suo padre da gente di Murazzano,la gente di Murazzano gli fece unasepoltura senza uguali a memoriad’uomo e avevano le lacrime agli occhinon solo le donne.

Per Manera, lui si dimenticòaddirittura della rata d’aprile, ammatti,tra l’altro, per non sapere che genere ditomba fare a suo figlio, e il macellaiodisse in giro che in quella casa non sitoccava più la carne.

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Ma Manera pian piano ritirò su testa,e adesso che gli era venuto a mancare ilsuccessore all’esattoria e Melina per ilcolpo del fratello era diventata anchepiù inconsistente di cervello, si miseall’opera per assicurare l’esattoria aMelina, cercandole un uomo che potessefare la parte di Alfredo, quando lui nonci fosse più stato. Perché s’era persuasoche anche a sposare un duca, sua figliaavrebbe avuto la vita sicura soltantoconservando l’esattoria di Murazzano.

Cominciò la processione deibaccellieri, e venivano da tutti i paesiimmaginabili, perché Manera avevasubito detto chiaro ed una volta per tutteche un genero di Murazzano lui non lo

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voleva.La prima trattativa fu coi Lagnasco,

una delle meglio famiglie di Carrù epadrona d’una fornace, ma tutto finiquando fu chiaro che i Lagnascovolevano la sposa a Carrù e la sua doteper ingrandire la fornace.

La stessa fine cogli Occelli diFarigliano: avevano un ragazzo che eraquasi medico e una volta laureatovoleva aprire uno studio a Mondovi conla dote della sposa Manera.

Manera era furibondo, credeva diaver a che fare con gente più istruita dilui, eppure tutti dimostravano di noncapire cosa lui voleva da loro. Sembròche ci si arrivasse con un Donadei di

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Clavesana. Aveva studiato ragioneria aMoncalieri, pur senza aver finito, ed eraben contento di stabilirsi a Murazzano afarci l’esattore tutta la vita. Ma quandovenne su con suo padre, questi vollesapere tante cose, vedere tante carte epersino che Manera gli aprisse i cassettiche Manera dovette sforzarsi bene pernon rimetterli a calci sulla strada diClavesana.

Manera non aveva più nessunafiducia né speranza, licenziò tutti ibaccellieri e ci si mise da solo. E aforza di pensare notte e giorno, si deciseper Durando.

Durando aveva insegnato a lui stessoa far l’esattore, per le rogne e i morosi

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aveva una mano speciale, anche seaveva diciannove anni più di Melina.

Cosi attaccò il cavallo e andò acercare Durando. Lo trovò che faceva ilmaestro in una frazione di Dogliani, edera molto giù di corpo. Durando glidisse che si manteneva con un uovo edun pintone di vino al giorno, ma non glidisse che risparmiava tanto sul mangiareper avanzare i soldi per il gioco e cheavendo sempre la sfortuna in favoreperdeva sempre. Manera non si spaventòdell’aspetto, sapeva che in un mese dibuona tavola Durando sarebbe tornatoquello di prima e per ciò lasciò deisoldi al macellaio ed ai commestibili diDogliani.

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Cos fu, e quando Durando ebberipigliato peso e colore, si sposaronoalla vicaria di Murazzano. La maestraAlliani fece e disse la poesia e Manerapoté constatare che c’erano dentro tantebelle cose come in quelle che avevascritto per le nozze dei signori Gabettied Adami. E i fiori erano tanti chequando poi Melina li fece tutti portaresulla tomba di suo fratello ne fu copertomezzo camposanto. Ottanta erano gliinvitati nello stanzone dell’esattoria e sene ricordarono e ne parlarono per tuttala vita. Poi gli sposi andarono aprendere il treno a Ceva con un seguitoche non ebbe nemmeno il parroco allasua entrata, e Melina aveva dietro una

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valigia di medicine. Si fermò a casa lamadre di Durando, per aiutare, disse, apreparar tutto per il ritorno degli sposi,ma non ne usci più che coi piedi avantiotto anni dopo.

Gli sposi tornarono da Montecarlo, eMelina non era cambiata né in meglio néin peggio, certo Durando l’aveva trattatacon molta cognizione.

Ora Manera faceva l’ufficio eDurando l’ufficiale esattoriale edapprincipio Manera si lodava della suadecisione. Ma poi, nelle mattined’inverno, Durando si alzava all’albadelle dieci perché tutte le notti stava agiocare al nove in casa del medicoOdello, e Manera non poteva dirgli

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niente perché attorno a quella tavolac’erano tutte le meglio persone, pretorecompreso, di Murazzano e Durando nonperdeva mai. Peggio era quando nonrincasava dai suoi giri di zona, mapernottava a Marsaglia o a Igliano, peril fatto che, come Manera venne presto asapere, s’era fatto delle amanti in queidue paesi e poi anche nelle frazioni. Nongli bastava averne una a Murazzano, atre passi da Melina, ma quella era solola principale, quella che tuttichiamavano la Bella Creatura, ed era leistessa che metteva tutt’e due in piazza ediceva come se niente fosse cheDurando le dava uno scudo d’argentoper volta.

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Alla bella stagione i due uomini sidavano il cambio: Durando in ufficio edil vecchio a girare. Cosi Melina sipoteva godere un pochino di più il suouomo e Manera si toglieva da vicinoalla madre di Durando. Dopo unprincipio di buona condotta, la vecchiaaveva tirato fuori il suo vizio, che eraquello di bere, alla mira che la vecchiaPagliano era una temperata, e bisognavafarsi mandare per lei il vino chinato daAlba a fustini. Poi quando il chinatodiventò per lei come l’acqua, pigliò abere anice come i soldati e fin poi colfernet. Quando ne aveva la testa pienaed era sempre prima del mezzodi,cominciava a cianciare con Melina ed a

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parlar male di suo padre e se Melinavoleva dopo un po’ togliersela e farqualcosa da un po’ concentrata dovevadire: “Deus, in adiutorium meum intende“, e la vecchia allora attaccava ilrosario perché le era venuta tardi lamania della chiesa e lasciava stareMelina tranquilla. Quanti rosari le fecedire Melina e come la frodò nei misteri,perché la vecchia non ricordava semprebene i misteri e domandava a Melinache la rimandava sempre avanti d’unpaio.

Finché venne fuori che Melina eragravida e fin dal primo annunzio Manerasi mise in moto per far si che almomento buono le fossero intorno i due

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più grandi medici di Mondovi. Noncertamente quel bevitore e giocatore diOdello e tanto meno quella strega neradella levatrice Fracchia che era stataattorno ad Apollonia. Intanto la genia diMurazzano faceva i pronostici e chidiceva che Melina avrebbe sfornato unosso di pesca e chi un rattino bianco. Male donne dicevano che poteva morirci.

La sera del miracolo venne giù unatal pioggia che a mettersi per la strada diMondovi c’era da restarci annegaticome in Tanaro e quindi benedettiOdello e la Fracchia. Spinsero tuttiinsieme e verso l’alba venne fuori unafemminuccia assolutamente normale egraziosa come se l’avesse fatta la Bella

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Creatura.I dieci giorni prima del battesimo

furono tutti pieni della lite per il nome.Manera la voleva a tutti i costi

Apollonia e Melina era timidamented’accordo con lui, ma Durando volevadarle il nome di sua madre che eraMargherita e la vecchia naturalmentestava col figlio. Al colmo della liteDurando gridò che solo lui dovevadecidere il nome perché solo lui avevapotuto far far l’uva a quella vite secca diMelina. Manera ribatteva Apolloniapicchiando il pugno sulla tavola nonpotendo picchiarlo sulla faccia delgenero, la vecchia Durando disse che senon era Margherita non sarebbe stata

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nemmeno Apollonia e si mise a sfogliareil calendario alla ricerca d’un nome dasignora. Poi mise avanti Isabella eVittoria, a scegliere.

Poi Manera ebbe l’idea di regalarealla vecchia una cedola da cento lire eallora la bimba fu Apollonia. Mabisognava sentire come la Durandopronunziava quel nome quando siindirizzava alla bambina in culla.

Per Apollonia, Manera ci fece unapassione che ancor oggi torna in tutti idiscorsi che i grandi di Murazzano fannointorno ai bambini. Non potendosopportare di starle anche un pocolontano, stette sempre lui in ufficio espesso piantava a mezzo un contribuente

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lasciandolo convinto che uscisse per unbisogno e lui andava a godersi un dieciminuti Apollonia, addormentata osveglia. E se faceva la cacchina,nessuno poteva portarla via subito, cheManera doveva più volte chinarcisisopra e fiutarla e poi dire che eraprofumo d’angelo. Perché avesse piùsole, fece abbattere il muro sulla stradadella vicaria e cosi il giardino edApollonia che dentro ci giocava eranoalla vista di tutti.

E se qualcuno passava senza fare uncomplimento alla bambina, Maneras’indignava e gli dava dietro delvergnacco. E siccome Apollonia facevale mossette che fan tutte le bambine,

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Manera giurava che era una grandedonna di teatro e che appena un po’ piùalta le avrebbe pagato una recitaall’asilo tutta per lei.

In casa era una discussione continuasu quando e come doveva mangiare, unogli offriva una cosa e l’altro subitogliela strappava di bocca gridandoall’incoscienza o addiritturaall’avvelenamento, solo Melina che erasua madre non poteva metterci parola.

Come bruciava a Manera cheApollonia fosse attaccata a suo padrecon tutto che fosse quasi sempre lontano,e che gusto ci pigliava Durando a direforte per Manera che ovunque andasseApollonia lo seguiva.

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Questo quando la bambina prese acamminare e Durando era a casa. Intantoin paese si diceva che l’esattore sarebbeandato chissà dove a prendere il latted’oca se sua nipote lo desiderava epresto fu tutto un ridere.

Ma Manera da vero innamorato nons’accorgeva di niente. Saputo che uno diMonchiero andava in Sardegna acomperar fave, lui l’incaricò dicomprargli un asinello sardegnolo e loregalò ad Apollonia che cosi faceva isuoi giri in carrozzella come solo lamarchesa ai suoi bei tempi. Era arrivatoa farsi un corredo, per essere sempreelegante e vario, che Apollonia nonsfigurasse ad avercelo come cavaliere,

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quando usciva a passeggio con laborsetta piena sul serio di scudid’argento.

Suo cognato Pagliano prese coraggioe gli disse delle voci in paese e che cosifacendo quella bambina la rovinava eche anzi era già rovinata. Manera laruppe con suo cognato Pagliano.

Di notte si svegliava per lo spaventoche la bambina cipessa Apollonia aveva

un occhio che guardava a avessequalcosa e allora doveva entrare comeun ladro merenda. D’accordo Manera eDurando, Apollonia nella stanza degli

sposi per sicurarsi che avesse il re-perse un altro anno di scuola, per nonmetterla in staspiro buono. Una notte

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svegliò Durando che gli parlò tod’essere sbeffeggiata. Manera si

teneva sempre una secco e lo mandò viaparlandogli come a un servitore.

mano sul cuore come se cel’avesse aperto,le faceva un E quando la bambina

aveva qualcosa, e l’aveva soven-regaloal giorno, ma niente serviva. Nemmenoandare te per via dei vizi e del nonnegarle mai niente, allora

in chiesa a pregare per ore, comeuna maestra Nova, davano tutta la

colpa a Manera, che doveva far strada espendere ogni giorno in ceri quel che

una famiglia e spendere oro per imigliori medici. E se era qualcosa

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ci mangiava una settimana.di speciale, la si portava a Torino

del re, con tutta Ilpeggioaccaddeunaserad’autunno, che erano

tutta famiglia dietro, compresa lavecchia Durando che ti a casa, compresoDurando perché da Odello si coa Torinoci andava solo per vederne i palazzi.minciava a giocare solo verso Natale.

Dopo le castaIntanto Apollonia eraarrivata all’età di scuola, ma gne

arrostite, Manera giocava conApollonia, stava cominciò a perdere unanno perché Manera volle cheinginocchiato e con le palme levatecome un prete dasi aspettasse la finedella scuola nuova, Apollonia non vanti

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al sacramento davanti ad Apollonia checantava doveva andare come tutte lealtre in quella grotta

eballavadasola.AuncertopuntoparveaManerachedella scuola vecchia di Murazzano. Eradisposto a far la vecchia Durando cheera già bevuta

facessegli ocvenire su da Mondovi una

professoressa e tenerla in chi stortiapposta

per schernire Apollonia. Urlandocasa come una serva, costasse quel checostasse. Apol-alla vergogna si drizzò esi rovesciò sulla vecchia.

E lonia non sarebbe andata a scuolacome le altre, e men l’avrebbe strozzata

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se non si fosse messo in mezzo chemeno sarebbe entrata in collegio e,diceva Ma- I Durando che chiamandoloassassino lo strappò dalla nera, non sisarebbe

nemmeno mai sposata perché Imadre e lo portò a lottare in mezzo allastanza.

Tra non c’era nessun uomo in terrache si meritasse Apol- I le strida delletre donne, si lottarono per un bel po’ ,lonia. I che Manera era ancora tanto

forte quanto suo genero.Poi Apollonia fece una tremenda

indigestione di Poi Manera volò conla schienacontro la mensola del prugne

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selvatiche e, Odello o primo medico diMon- ~ camino e dietro gli cadde labottiglia dell’acqua sandovi, ne guari

ma come conseguenza le restaronogli i ta di Lourdes che la vecchiaApollonia

aveva portato occhi storti. Laportarono a Torino e ci si fermaronodalla

Francia quando, sposa fresca, eraandata a Lourdue settimane, madovettero riportarsela a Murazza- des apregar fortuna per la sua nuova famiglia.

Melinano strabica come prima. Manera

voleva buttarsi nella pianse alla morteperché

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quello si poteva dire l’unicocisterna, Melina voleva seguirlo, iDurando figlio e

ricordo di sua madre e Manera in unattimo invecchiò madre li accusavano

minuto per minuto, gli svento-di dieci anni a vedere quell’acquapartiree perdersi lavano i pugni in faccia.

In paese ragaz2i e ragazze, nel palchetto.Scappò e tutta la notte girò la langa

ammaestrati dai genitori, dicevano incoro che la prin- ~ alla mattina andò amettersi a pensione nella sua vecchia

locanda. Ci stette tre giorni chiuso incamera e il quarto, avvisati da FilippoAlliani, vennero a riprenderlo Melina e

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Durando. Melina gli si buttò al collopiangendo e Durando gli strinse la manodicendogli però che s’era comportato dabambino e che per lui loro avevanotenuto la porta aperta tre notti, colpericolo dei ladri.

La vecchia Durando ora stavasempre in poltrona, le era cresciutadentro la mania di chiesa e tutti i giornidella settimana si faceva ripetere dallaserva la predica che il vicario avevafatto la domenica prima. E beveva dimeno, e tossiva. Un giorno che la tosseera forte, si chiamò Odello e si venne asapere che aveva fatto la polmonite dain piedi. E quando Manera venne atemere che quella vecchia strega

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avrebbe sotterrato tutti, la Durandomori, a mezzogiorno giusto, Melina ches’era alzata apposta da tavola, arrivò intempo a vederla fare una smorfia e unoscatto come per cacciarsi una mosca dasotto il naso e star l. Era morta di niente,per non poterne più.

Chiusa la porta dopo passata lacassa, fu come se non ci fosse maivissuta in quella casa, salvo per ledomande di Apollonia che non avevapiù la nonna da tormentare.

Ora Apollonia andava a scuola, manon riusciva meglio delle ultime e tutti igiorni la si mandava a ripetizione dallamaestra Alliani. E tutti i giorni portavaqualcosa alla maestra perché questa non

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la picchiasse o non la facesseinginocchiare per castigo sulla meligasgranata come faceva con le altre.Manera andava a portarla ed ariprenderla e subito le chiedeva se lamaestra le aveva fatto del male.

Poi fu la volta di Manera chenessuno se l’aspettava.

Si era sotto la rata di ottobre eDurando e Melina vennero invitati albattesimo dell’ultima figlia dell’esattoredi Bossolasco. Presero il cavallo e ladomatrice e Manera che doveva andarea Cuneo a fare il versamento ci andò apiedi. Non si fece imprestare cavallo evettura per non essere poi in debito connessuno ed anche per tornare una volta

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alle sue abitudini di gioventù.Con la borsa dei soldi e la rivoltella

andò a piedi sino a Farigliano e l preseil treno per Cuneo. Alla provincia feceil suo versamento e poi andò a comprareuna trancia di parmigiano, i pescibianchetti che piacevano tanto a Melinae i bonboni per Apollonia.

Tornò in treno a Farigliano e poi apiedi verso casa.

leniva su a oncie per la scorciatoiadei Corradini con la borsa cheincredibilmente gli pesava, quando tuttala carne mangiata e il vino bevuto in vitasua gli si rivoltarono contro e Maneracadde con gli occhi rovesciati e labocca storta. Un vignolante che passava

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di li e notò prima la borsa abbandonata,non poté far di più che portarlo a morirealla sosta d’un chiabotto.

L’affare dell’animaPer le sette il vecchio aveva finito di

cenare e passò sul suo poggiolo senza~fiori.

Aveva davanti uno spettacolo dinebbie: nebbia come cotone compressoa imbottire i rittani, nebbia sul puntod’ingoiare le poche luci rossastre di Ca’di Cora e Cadilù, e la nebbia alta finivadi cancellare il crudo profilo dellaLanga di Mombarcaro.

Dalla riva di Belbo montava,forando la nebbia, il canto dei grilli,innumerevole eppure cosi sincrono che

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pareva essere a produrlo un solo grillo,un mostro di grillo appiattato tra leradici della nebbia.

Il vecchio, pur infastidito di tuttaquella nebbia, resisteva sul poggiolo dauna mezz’ora, quando successe la cosache lo fece sloggiare: per l’ultima voltale falene erano salite dal fiume, amigliaia, a far la girandola attorno allampioncino dell’osteria della Francese,sotto il quale i giovani avventoriavevano dopo un po’ acceso un falò e lefiamme avevano presto succhiato a terratutte quelle disperate ballerine. L’ariaadesso era intossicata da un misto difradicio e di bruciato che arrivava finsul poggiolo e innervosiva il vecchio.

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Che decise di ritirarsi, sebbene alcampanile non fossero ancora suonate leotto, la sua ora fissa per il letto.

Si levò dalla seggiola, con lalentezza e la cautela di chi hasettantacinque anni e si sa alla mercé delpiù piccolo incidente. Tenendosi a duemani allo schienale, guardò un’ultimavolta quel cielo, ma guardando ebbe unavisione che non si sarebbe mai piùaspettata e senza compagne nella sualunga vita. Vide se stesso, lui DavideManera, volare in cielo tra quei gorghidi nebbia, come una freccia, ed era tuttonudo, che si vedeva fin dalla terraquanto tremava e soffriva.

E provò per sé una pena

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grandissima, senza confronto più grandeche se si fosse visto sul mercato, unamattina di dicembre, con appena lacamicia indosso, in mezzo a tanta altragente ben vestita invece e riparata.

L’impressione e lo stupore lo fecerobestemmiare, la bestemmia più grossa,ma non la raddoppiò, come avrebbevoluto fare, perché, sparata la prima,sent che essa non era andata persa e inqualche posto se n’era presa debita nota.

Prima mai: bestemmiava per purosfogo e per cattiva abitudine, ma non gliera mai passato per mente che labestemmia potesse arrivare a destinocome una lettera. Il vizio dellabestemmia gliel’aveva dato suo padre,

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suo padre morto mezzo secolo fa, cheinfilava un sacramento ogni cinqueparole. Suo padre però credeva; lochiamava invariabilmente il Supremo equando gli si rivolgeva, per bene o permale, alzava appena gli occhi, quasi chei piedi di Lui gli sfiorassero la testa,come un appeso.

Con una giravolta il pensiero gliandò a sua madre.

-Dove può essere ora mia madre? Lo

saprà che sono ancora al mondo? Echissà se gliene importa qualcosa. Lo satutto quello che m’è capitato dopo, etutte le volte che l’ho pensata? E chissàse gliene importa qualcosa. E lo saprà il

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giorno preciso che toccherà a me? Perl’impressione di quella novità tremavatutto, al punto che ritirando la seggiolacozzò con essa due volte nello stipitedella porta, facendosi per ilcontraccolpo un certo male ai polsi.

Entrò nella sua stanza da letto: imobili gli ballarono un attimo davanti,allo scuro lui avanzava a tentoni,malgrado la conoscenza. E la stanza neragli diede un’altra idea ed un altrospavento. - Ecco, si disse, subito dopo,mi troverò in una stanza buia comequesta, dove mi muoverò a tentoni comeadesso.

Il problema è se resterà buio o sequalcuno accenderà la luce -. Era presso

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il letto e si protese verso la pera dellaluce, e l’afferrò con tanto orgasmo chequella gli saltò via di tra le dita comefosse spiritata e soltanto dopo un seccoballetto contro la testiera del letto siarrese e lui poté finalmente far luce.

Tornò ai piedi del letto, sfiorandocon la mano la coperta quant’era lunga.

Lasciò tempo al cuore di calmarsi,dava la colpa di quell’affanno a tuttoquell’armeggio con la pera della luce,poi cominciò a spogliarsi. Quantunque sifosse ancora ai primi di settembre, ilvecchio era abbondantemente vestito, egli ci volle un buon quarto d’ora perrimanere con indosso la sola maglia.

Prima d’infilarsi il camicione da

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notte, si esaminò il corpo, se lo palpò inpiù punti; in gioventù era stato nominato,nei discorsi degli uomini, per lagrossezza delle coscie, ma adesso gli sierano smagrite da far senso, forse ancheper l’inevitabile confronto col volumedella pancia che gli era cresciuta. Sitastò un’ultima volta la coscia e si disse:- Però, c’è ancora del buono, e primache questo buono si sia consumatotutto…

-e sal sul letto, ma come se montasse

in groppa ad un cavallo.Come fu disteso, forse per la stessa

comodità, gli si diramò in tutto il corpouna certa quiete. Ma non spense subito

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la luce, come invece faceva d’abitudine.E contemplò la sua roba: l’armoir a

tre specchi, il cassettone grande comeuna credenza, le sedie imbottite cheparevano dame sedute; tutta roba fattafare da lui, a regola d’arte, dal primomobiliere di Cortemilia, e col nocedelle sue terre, roba quindi due voltesua.

Dove e come sarebbe finita, dopo? Ecome mai non ci aveva pensato prima, ea fondo, al destino della sua roba?Spense la luce e si mosse a lungo, un pòper alloggiarsi meglio nel letto e un pòper scrollar via quei pensieri.

-Tutta la vita sono stato senza

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fantasia, e la fantasia mi viene adesso,per avvelenarmi questa poca esistenzache mi rimane-. Toss, una tosserumorosa come a scuotere una scatolametallica piena di chiodi.

Dopo non sapeva quanto gli parve distare in quel letto come in un deserto:era un letto troppo ampio, da nonarrivare a tastarne i bordi nemmeno atendere le braccia fino a far dolorire legiunture.

Era solo, i suoi l’avevano lasciatocome lui avrebbe lasciato la sua roba.

Si mise a pensare a sua moglie, chedormiva da quarantadue anni sottol’erba alta, e non doveva importarglieneproprio niente d’esser stata da viva la

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moglie di Davide Manera piuttosto diqualsiasi altro.

Avanzò una mano come se sperassedi trovarsi accanto, un palmo più in là,quella carne lontanissima. Era una donnaprosperosa, Sabina, la cosa piùabbondante che egli possedesse in queitempi. Eppure quando il male la prese,cedette presto, quasi subito, come unaragazzina grossa un dito.

- Dovevo patirne di più, - si dicevaadesso Manera con la coltre sulla bocca,

- se ne pativo di più mi sarei fattodel bene -. Ma allora non s’era sentito:se aveva spremuto due lacrime, le avevaspremute per se stesso, che restavavedovo da giovane, una cosa abbastanza

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rara e come non perfettamente naturale;ma dopo tutto il più grave era stato lapreoccupazione per la figlia privatadelle materiali cure materne e il disturbodella sepoltura e del lutto. Sabina per luinon contava e non valeva più niente,perché in tutto gli stava dieci passi piùindietro, e lui si era presto reso contodell’inutilità di sollecitarla. Lei glirispondeva invariabilmente con unsorriso penoso:

-Sono ignorante, lo sai anche tu che la

capra mi ha mangiato tutti i libri e iquaderni, - per dire che non era colpasua se non aveva altra arte ed esperienzache quella del pascolo. Tutta

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l’importanza di Sabina stava nel fattoche gli aveva dato una figlia, ma ancoraoggi egli doveva pensare, vista la suafine che nemmeno quello era statacapace di farlo bene.

Cecilia. La chiamò a mezza voce.Cecilia! E per la millesima volta riandòcol ricordo all’origine della catastrofe.Rivide Cecilia, vestita come unaduchessina, mentre saliva, una mattinad’ottobre, sulla domatrice che la portavaa Mondov, al collegio. Aveva finito lescuole basse a San Benedetto, finite condue anni di ritardo perché suo padre laconfinava a casa per un mese per unraffreddore e Cecilia pigliava spessoqualcosa di più d’un raffreddore. La sua

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maestra, appoggiata dal parroco, tantodisse e fece che convinse Manera amandarla a studiar da maestra dallesuore a Mondov: anche se nonconseguiva il diploma, avrebbe in ognimodo ricevuto un’istruzione che,insieme con la dote di suo padre, leavrebbe permesso di fare sulle Langhe ilmatrimonio che si sognava. Manera sidecise d’agosto e Cecilia part ai primid’ottobre. Suo padre aveva mandatoavanti tre bauli, col carro di Fazzone chesettimanalmente andava a Mondov aritirar la roba di monopolio per SanBenedetto. Tre bauli, le aveva fatto uncorredo da far boccheggiar tre spose,cos dissero le comari che Manera invitò

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alla rivista, ma poi, con le mani sotto ilmento ed i senoni ondanti si persero intante cerimonie e squasi che Manera lecacciò in tronco da brusco come l’acetoche s’era fatto con le donne.

Partita Cecilia, non gli restava cheattendere la sua posta. Gli scriveva duevolte al mese e dapprincipio le suelettere cominciavano “ Caro papà” mapiù avanti intestava a “Papà miocarissimo” e allora Manera chiudeva unmomento gli occhi e pensava alla grandeistruzione che la sua Cecilia stavaricevendo da quelle suore.

Ma un giorno, che Cecilia stava incollegio da un trimestre, gliene arrivòuna di lettere che appena scorsa Manera

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marciò in canonica, e da quella volta luie il parroco abolirono anche quelminimo cenno del capo che era semprestato il loro saluto.

Insomma, Cecilia da quelle suorenon stava per niente bene, con quellaretta da nobili penava e deperiva dentroe fuori. E se non l’aveva scritto primaera perché sperava d’abituarcisi, maadesso non resisteva proprio più.Anzitutto aveva finito coll’ammalarsi dipaura, perché ogni sera le suore leconducevano in lunga fila in unostanzone immenso e tutto buio salvo perun lumino acceso ai piedi d’un Cristo e lle facevano inginocchiare sul pavimentogelato e recitare la preghiera della

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buona morte. E poi s’era messa adigiunare, da quando aveva saputo dallafiglia dell’esattore di Murazzano che perla minestra della sera le suore usavanola sciacquatura dei piatti delmezzogiorno.

Manera prese a spedirle col corrieredel sale e tabacchi borsate di robabuona, polli freddi e scatole di alici esardine. Cos Cecilia mangiò per unpezzo tutto freddo e si guastò lo stomacouna volta per tutte. Le suore la fecerovisitare dal loro dottore e prender lemedicine ordinate, ma lei non sirimetteva; la madre direttrice non mancòdi scrivere a Manera, ma siccome avevapaura di perder tanta educanda, fece le

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cose piccole piccole, e non fosse statoper la coscienza di quel medico chescrisse direttamente a Manera per suoconto, questi non avrebbe maiimmaginato a che punto eral’indisposizione di sua figlia.

Corse a ritirarla dal collegio e giuròdavanti alla madre direttrice che suafiglia mai più in nessun collegio enemmeno in nessuna scuola. TantoCecilia non aveva bisognodell’istruzione, avrebbe letto e scrittoper lei la roba che lui le lasciava, anchesenza sapere una sola parola di franceseCecilia sarebbe stata lo stesso la reginadelle alte Langhe.

Cos Cecilia tornò a casa, ma non era

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più lei; non che prima fosse avventurosao cavallona; ma vivace s, ora inveces’era ridotta a non uscir più di casa,viveva sempre fra quattro muri come unavecchia gatta mezza cieca, a quattordicianni. S’era fatta cos piccola e minutache lui, suo padre, diceva che era unaminiatura, ma per tutti gli altri senzalegame di sangue stava diventando unmezzo scherzo della natura, e la suavecchia maestra, che le voleva bene,tutte le volte che la guardava s’intristivanegli occhi e perdeva il filo deldiscorso. Le donne già sapevano dallamoglie del barbiere che faceva la postain casa Manera, che alla sua età nonaveva ancora le sue cose e i maschi

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all’osteria della Francese dicevanopiano e forte che non l’avrebberosposata nemmeno se Manera glielaporgeva su un piatto d’oro.

Ma non ci fu bisogno né tempo dipensare al suo matrimonio, perché unasera di novembre, a diciassette annicompiuti da una settimana, una sera dinovembre con un diluvio che a mettersiper strada c’era da annegarsi come inTanaro, una sera di novembre cheManera era fuori col cavallo a cercarequell’alcoolizzato del dottore di Niella,Cecilia mor tra le braccia della suamaestra, di un male sulla natura delquale da nessun medico Manera potéavere soddisfazione.

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Cecilia, l s che ci aveva patito e cipativa ancora; a tanta distanza sapevaancora la boccuccia di Cecilia a duemesi, e il suo dito ancora oggi simuoveva lento ma sicuro a ridisegnarla.

Il ritrovare tutto quel coltivo neldeserto della sua vita, di bene e disofferenza lo riemp di coraggio e furore,lo fece gridare: - Con tutto quello che hopassato, debbo ancora aver paura diesser castigato? Si vide seduto sul letto,come dietro la spinta di quel grido, maquella posizione subito l’atterr, cosscoperta e come esposta al fulmine, eriscivolò giù sotto il peso della paura.

Il vecchio sospirava. Macchiebiancastre vagolavano per il soffitto,

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dilatandosi e rimpicciolendosi comepalloncini ai quali per gioco si dà e sitoglie aria.

Chiuse gli occhi, con un principio dinausea, e poi si tastò la fronte e letempie, se gli fosse venuta la febbre, maalla fine non poté decidere, per via dellemani anch’esse riscaldate.

Il gerbido della sua vita stava negliaffari, cioè nella maniera di trattare ilprossimo, e l sarebbe stato castigato perl’eternità. Perché Davide Manera eral’usuraio di San Benedetto. Daquarant’anni prestava a usura in mezzavalle Belbo, al più alto tasso che siconoscesse sulle Langhe, e non avevamai perdonato una scadenza, mai dato un

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respiro, tutto incamerato o messoall’asta. L’ufficiale giudiziario diDogliani pareva vivesse e lavorassesolo per lui. Soltanto lui poteva dire tuttigli imbrogli, le vigliaccate e le crudeltàche ci vogliono per arrivare con quelsistema a farsi tanta roba che, comedicevano in paese, poteva ormaipermettersi di orinare la notte nel letto el’indomani mattina dichiarare di aversoltanto sudato un po’ . Lui sapeva tutto,gli altri assai meno, perché la genterovinata da Manera era tutta gente chenon faceva figure, che non urlava inpiazza all’ora di messa grande, genteche a fare il male preferiva riceverlo;era insomma la gente ben vestita ed

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equipaggiata per quel viaggio nella notteper il quale egli s’era visto nudo.

Nessuno gli aveva mai fatto del maleo tramato per fargliene fare. Nemmenoallora (molti, specie i vecchi, sulleLanghe chiamano semplicemente“allora” i tempi dei partigiani). Non erasuccesso a lui come al suo collega diFeisoglio, Angelino della censa, suocoscritto e suo collega in usura, che purepraticava un tasso da cristiano ed erasempre disposto a rinnovar le cambiali.

Una mattina “ d’allora “, Angelino,da in cucina dove stava bevendo ilsecondo dei suoi dieci caffé giornalieri,sent scampanellare alla porta della suacensa e si presentò dietro il bancone. E

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come sempre raccolse con le due manila sua famosa pancia e per sollievo laposò sul bancone. Il cliente mattinieroera un ragazzotto metà vestito dacontadino e metà da sciatore, la cuipuzza di partigiano era distinguibilepersino nell’acre composito odore dellacensa.

Ma Angelino stavolta non tremòperché gliene prese simpatia a primavista; in un attimo sognò d’averlo avutolui un figlio cos. Col ciuffetto sugliocchi azzurri, sulle guance i colori dellasalute, e le labbra atteggiate come afischiare una canzone d’allegria. E tuttoben proporzionato, doveva essere sodocome una pietra. Ecco, la sua donna

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avrebbe dovuto fargli un figlio cos permandarlo felice ed orgoglioso, con quelfisico, con quella ~fisionomia a untempo pericolosa e rassicurante, cheprometteva al genitore un monte digherminelle, ma tutte fatte come si deve.

La simpatia era tale che Angelinoprese a sorridergli, largamente, e dopoun attimo di perplessità il ragazzotto gliricambiò il sorriso. E cos sorridendo glidomandò: - Siete voi Angelino Riolfo?Sorridendo Angelino gli rispose di s esempre sorridendo il ragazzo,lentamente e lisciamente, estrasse lapistola e gli fece un paio di colpi inquella pancia esposta sul bancone comeuna merce.

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Non sorridevano più. Angelino dissepiano e senza troppo rimprovero:

-No, non cos -. Stentava a cadere, per

la resistenza della pancia sul bancone,e allora il ragazzo l’aiutò

scopandola giù con le mani riunite eAngelino fin lungo dietro il bancone, conla faccia nella scansia del sale.

Ora, pensava Manera, rivoltandosinel letto, Angelino Riolfo era statoappena un mezzo fascista, e quel pocoche aveva combinato col fascio risalivaa prima del ‘40, quando Mussolinipoteva essere considerato il più grandepadre della patria, e comunque, dopo, laspia non l’aveva mai fatta. Senza dubbio

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quel partigiano gli era stato mandato daqualcuno del paese che aveva un po’ difirme nel portafoglio di Angelino.

La notte correva, non c’era altrosuono che lo stormire all’eterno ventodegli alberelli sullo spiazzo dellascuola, e il buio aveva colmato lefessure della persiana.

Bisognava proprio che si facesse,senza più tardare, un vestito bellospesso per quel viaggio nella notte.

L’affare dell’anima era un affarecome un altro, solamente lui non l’avevamai preso di petto, a differenza deglialtri affari per i quali era capace dipassare le notti, a studiarne le risorse e iganci.

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Si drizzò contro il guanciale e posòle mani sul ventre, come a tener stretta eferma la scatola che conteneva l’affare,il problema. E scoperchiatala, videdentro che anche in quel ramoesistevano dei mediatori, ed erano ipreti.

Ipreti. A parte il suo fatto personale

col parroco vecchio, lui i preti non liaveva mai potuti soffrire.

Se ne incontrava uno, la sua vestenera gli oscurava la strada e il giorno.Non aveva mai potuto sopportare uncomando, e sapeva che in fondo infondo, a comandare erano sempre e sololoro. L’avvelenava e l’inferociva il

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sapere che i più grandi peccatori eranoproprio loro che contro il peccatopredicavano tanto.

Tutta la vita s’era roso per la suapochissima istruzione, e dell’ignoranzasua (ma non di quella dei suoi simili eclienti) incolpava soltanto i preti, cheavevano tutto il vantaggio e l’interesse ache la gente avesse le palpebre cucitesugli occhi.

Col parroco vecchio, a parte il malconsiglio riguardo a Cecilia, s’erapresto attaccato coi denti. Unadomenica, mancando poco a vespro, ilprete l’aveva abbordato e dopo un paiodi convenevoli gli aveva detto in faccia:- Voi, Manera, col mestiere che avete

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scelto di fare, avete bisogno di fareelemosina, tanta elemosina.

E lui pronto: - In quale dei vostrilibri sta scritto? Omissis - Ma mi dica dipreciso in quale libro sta scritto, inquale dei tre libri che vi fanno impararea memoria in seminario. Nel libro delleballe, in quello delle magie o nel libroche insegna a fregare il popolo? Al preteil sangue gli andò negli occhi, ma sicontenne e disse: - Ad ogni modo,Manera, non pretendete di finire inParadiso dopo aver sempre fatto lostrozzino in terra.

-Se il paradiso ci fosse, e fosse per

davvero quel magnifico posto che dite,

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voi preti non vi affannereste tantoper mandarci noi, - e Manera usc in unarisata tale che fece voltar persino igiocatori di pallone che stavano dandogli ultimi pugni prima della funzione.

IIparroco fece un secco cenno al

barbiere di andare a suonar vespro e sidiresse in sacrestia a pararsi.

Ma sull’uscio si voltò e disse aManera, col dito puntato: - Fate comevolete, ma guardatevi soltanto dallatentazione di dire l’Oremus più forte dime.

Ebbene, il primo a esser castigato,almeno nella carne, era stato proprio lui,il parroco vecchio, per l’arteriosclerosi

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gli amputarono in Alba prima una gambae poi l’altra ed era ~finito in una speciedi ospizio di loro preti.

Era dunque un affare da trattareattraverso i preti, inevitabilmente.

E gli venne subito in mente il nuovoparroco, cos giovane e civile da noncapacitarsi che la Curia l’avessedestinato a San Benedetto tra i selvaggi.L’incontrava sovente per il paese edogni volta lo fissava come se fosseinnamorato di lui. Aveva degli occhi dapecora morta, pensava ogni voltaDavide Manera, ma stanotte li trovavasemplicemente dolci quegli occhi, estanotte comprendeva tutto ciò chevolevano dirgli. - Perché non ti fai mai

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vedere in chiesa? Perché non mi dai maiun soldo per il mio bollettino? Non haidelle anime da suffragare? Doveva essertrattabile, l’opposto diametrale delparroco vecchio, dei soliti parroci delleLanghe, che vedevano subito rosso e sisporgevano dal pulpito coi pugni tesi.

Il vecchio si lamentò forte di sestesso. Come non aveva avuto la furbiziadi dare ogni tanto cinquanta lire per ilbollettino? Era già un farsi merito, omeglio un farsi credito. E quando tramille stenti restaurarono la facciatadella cappella ai Piani, poteva ben averofferto uno dei suoi tanti pini. Poco allavolta, che nemmeno te il accorgevi, ecol tempo ti trovavi un credito discreto,

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come un libretto alla posta, su cui versipoche lire al mese, ma senza saltarneuno.

Si odiò per quella sua imbecillità,per tutte quelle occasioni tanto facili eper niente costose e tutte cosstupidamente perdute. Ora gli toccavapagar grosso e tutto in una volta. Ma lamaniera? Non trovava, eracompletamente sperduto, forse l’ideadegli affari, che l’aveva accompagnatotutta la vita, l’aveva lasciato per sempre.

Al campanile batté l’una e lui netremò a lungo, come se una gocciolonaghiacciata gli scivolasse lentissima dalcollo nudo giù per il filo della schiena.

Riaccese la luce, per assicurarsi

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d’essere sempre nel suo letto, quasi chetutto quel pensare l’avesse ubriacato epoi da incosciente trasportato in chissàche orribile posto sconosciuto.

E al chiaro vide tutta la sua roba,tutta: non solo i mobili, ma anche lacasa, le quattro cascine; i depositi el’oro alla banca di Murazzano, e tutti icorredi.

Poi spense, perché ormai l’avevanella testa la luce.

Avrebbe lasciato tutto alla chiesa, aipreti: si salvava l’anima, pagandoquesta enormità con una merce che ilgiorno dopo per lui non valeva più uncentesimo.

Questo era il più grande affare di

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Davide Manera, e sarebbe stato anchel’ultimo.

Si voltò su un fianco, con la testaincavando bene il guanciale, ora eracerto d’addormentarsi in due minuti.L’indomani era giorno di mercato, ma inpiazza non l’avrebbero visto. Al primocanto degli uccelli negli alberi dellascuola si sarebbe alzato e, vestito dadomenica, sarebbe andato in canonica astudiar col parroco nuovo tutte lemodalità.

Tradottaa Roma Johnny individuò suo padre

in mezzo alla moltitudine in piazzad’armi, era di una malinconia aggravatadalla leggerezza del panama. Saturo il

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buffet della stazione, si rifugiarono in uncaffeuccio vicino, sotto una réclame diCinzano cos rugginosa da rischiare iltetano a fissarla più che tanto. Suo padrel’aveva trovato magro e con bruttocolore.

-Sfido, ho fatto la dissenteria.Egli non aveva avuto la dissenteria

nell’altra guerra, gli era capitato di tuttofuorché la dissenteria.

-Tua madre dice che da Roma dovrai

scriverci di più che da Moana.Osservava la folla, quasi tutti parenti

degli allievi, nessuno o quasi dellapopolazione locale. - La nostra guerra

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era molto più sentita, dovevi assisterealla partenza delle nostre tradotte.

Johnny vuotò la bottiglietta diaranciata. - Dimmi una cosa: come tisentisti a Caporetto? Apparveimbarazzato. - Che vuoi che ti dica. Nonè umanamente possibile descrivere unesercito in rotta Vai come pula al vento.

- Che cosa pensavate? voglio dire.- Niente. Non puoi pensare niente

quando vai come pula al vento. Solonegli ultimi giorni si seppe che cisaremmo fermati al Piave.

Ora Johnny non ricordava nemmenopiù perché precisamente glielo avessedomandato, suo padre ribadiva che laloro guerra era stata tanto più sentita, la

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sua voce ronzando all’orecchio diJohnny come un moscone stremato difronte a un intrapanabile vetro.

-Furono i giovani del novantanove, -riprese: - Ricevettero ciascuno un fucile,una manciata di cartucce e un sacco aterra da riempire sulla riva del Piave.

Nessuno aveva più un’unghia.Johnny allungò lo sguardo alla

stazione e alla tradotta, oltre i cancellivide il sole lingueggiare azzurro sullaferramenta dei carri. Su quel treno eral’esercito italiano.

-Arrostirete dentro quei vagoni. Coi

militari è ancora e sempre la vecchiastoria. - Sbirciò l’orologio e si schiar la

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gola. - Johnny, vedo che qui la fate lungaed io avrei un buon treno alle I 6,45 . Selo desideri, resto ben volentieri a terra eprendo quello delle 19.

Sai, è unicamente per tua madre cheè sola.

—Parti col primo, figurati, parti, -gli concesse Johnny, ma con una amaraimpetuosità, e la fronte paterna ingrigsotto l’ala semitrasparente del panama.

-Sia chiaro che… - ma Johnny già lo

sospingeva verso la brulicante stazione.Quell’aranciata artificiale gli aveva

corroso la gola e se insisteva a fumaresarebbe montato in tradotta “in a rottenshape”.

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Il vecchio si affacciò al finestrino, ilcappello arretrato per maggioraerazione, le sue mani si giungevano edisgiungevano intorno alla sbarrettametallica. Il treno soffiò, suo padre losalutò, piuttosto femminilmente, Johnnysollevò appena le due dita chestringevano la sigaretta. Ecco che suopadre se ne tornava alla pacifica casa,su di un treno di tutto riposo, checertamente non sarebbe deragliato.Fremette, sorprendendosi a pensare cosdi suo padre.

L’affumicata coda del convoglioscantonò verso il nord.

Johnny smaniava, suonasserol’adunata e via. Finalmente, quando il

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sole già radeva i tetti di Moana,echeggiò una tromba, e la voce deltenente Jacoboni.

Il quinto plotone aveva laprecedenza, dovendo stivare le armicollettive.

-Ai bagni turchi ! - gridò Lippolis

issandosi il primo, con quattro, sei mania puntellarlo, catapultarlo dentro. Il

calore incamerato cerchiava le tempie,seccava la lingua, guardavano conorgasmo le lamiere arroventate epremevano verso la porta. D’Addio,Lippolis e compagnia piccola avevanogià occupato il varco, aderivanopuntigliosamente alla sbarra, sarebbe

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stato laboriosissimo convincerli arispettare un turno. Invano si sporgevanoa misurare la lunghezza del convoglio,già avevano imboccato le borraccegrondanti. Non una donna a salutarli,eccetto la giornalaia autorizzata, unavecchia nana con un’impossibilecapigliatura verdognola, annoiata e tetracome se avesse speso i suoi molti giornia veder partire tradotte. Col piede sullapredella della vettura ufficiali Jacoboniordinò di cantare. Cantare! fece eco ilsergente maggiore Perego. Intonaronol’inno del battaglione, con vociimmediatamente violentissime, estreme,tanto sapevano che la dimostrazionesarebbe cessata subito dopo il passaggio

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a livello. Mossosi il treno, quelle vocirimbalzavano come ciottoli sui musi deiferrovieri, sulle targhe slabbrate, suivetri sporchi degli uffici, sulla cubitale eslavata scritta “VINCERE” sull’ultimoterrapieno.

I bassotti alla porta si misero sedutitenendosi saldi alla sbarra, spenzolandofuori le gambe, bambinescamente, finchéPerego gliele fece ritirare. L’etichettadel corso vigeva anche in tradotta: maquando li avrebbero trattati da soldati elasciati vivere come tali? Non cos,Johnny ricordava, si comportavano isoldati sulle tradotte che, nel giugno1940, correvano a ovest, verso le Alpiscappucciate, verso il voluttuoso corpo

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della Francia supina e divaricata. Queisoldati facevano i comodacci loro, sisbracciavano e vociferavano, in unmodo filiale e minaccioso insieme,verso il popolo assiepato lungo la linea.

I più liberi apparivano gli artiglieri:i cannoni in ceppi su carri aperti, lebocche imbavagliate, ciascunoaccompagnato da due uomini, nudi finoalla cintola, bruniti come il loro pezzo,barocco lo sboffo dei pantaloni sotto itoraci tirati a zero, qualcuno concappellone di paglia.

Nel vagone entrava frigolando l’ariadella campagna che si accovacciavasotto la sera, le borracce ora pendevanoindisturbate. Lorusso domandò a Perego

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che cosa avrebbero fatto a Roma, ancorachiuso e regolamento? Di tutti i sergentiPerego era il meno distante dal circoloufficiali, egli poteva sapere e dire.

L’oscurità spappolava contro laparete del carro la sua concisa faccianordica; parlò, e Johnny si finse ilremigare dei baffetti sopra il suo magrolabbro in movimento. - Pare cimetteranno di guardia all’Aeroporto delLittorio, contro possibili lanci diparacadutisti inglesi. Dico pare -.Benissimo, si cominciava a fare i verisoldati e dopo l’onesto servizio ilcomodaccio proprio.

Poi il sergente distribu le razioni, illoro primo mangiare secco: le scatolette

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erano l’ultima cosa a biancheggiare nelbuio; Johnny annusò la sua, poi la buttò aDian.

Si accese una discussione per ilcambio della porta.

D’Addio e Lippolis facevano isordi, sotto sotto consolidavano la lorooccupazione dell’ambita apertura, finchéun calabrese dei mitraglieri tirò unpugno alla nuca di D’Addio e se non eradella sbarra il napoletano si sarebbeperso fra le rotaie. Perego confinò tuttiall’interno e al calabrese promise difargli inaugurare la prigione dellacaserma di Roma. D’Addio pianse unpo’ , rotto e rauco.

In piena notte sfilarono davanti a una

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fabbrica colossale, uno dei massimiopifici per la guerra, i suoi letaliprodotti spediti al Don e in Marmarica.

Riflessi velenosi iridavano il ventresidereo delle torri di catalisi, mentreveloci pattuglie di vapori picricidecollavano ad affrontaredisperatamente la statica armata dellanotte.

Dopo un’infinità di gallerie sipresentò il mare: una vile striscia illuneinquadrata fra baracche cadenti ereticolati stracciati; ma <~Thàlatta,thàlatta! “ declamarono i classici, vi fuun nuovo assalto alla porta.

La ferrata correva a cento metridalla battigia, la notte come un fondale

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riduceva il mare a un fiume parallelo nelquale tenebra e fragore condensavano lospavento di tutti gli oceani.

Si svegliarono nella stazione diLivorno, all’ambigua aurora di un giornoinfido, il carro del quinto plotonearrestandosi davanti a un deposito tintodi un giallo indigeribile che escludevaogni altra vista. Si accostarono soldaticoi bidoni del caffé, Johnny riconstatò, epiù nettamente nel malessere di quelrisveglio, quanto fosse unta escalcagnata, zingaresca, la truppaitaliana: a soldati anglosassoni dovevaapparire tale e quale appariva a lui latruppa balcanica all’assedio diAdrianopoli sulle fotografie della

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collezione del “Pro Famiglia” ereditatadalla zia cattolica. Intanto gli era sparitoil gavettino.

- Stavolta hanno fatto fesso ilsuperintellettuale, commentò Perego tra identi.

- Non c’è che una soluzione,arrangiarsi. —S, sergente.

- Ma in un’altra compagnia esoltanto a Roma, intesi? Sotto un cieloneutro e turgido, il primo mare erapallidissimo eppure follementecangiante ed effervescente; più al largoera di un azzurro fisso, con minimamaretta, le crestine bianche come spasmiagonici di gabbiani abbattuti.

-

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What do you see? - domandòLorusso.

Gli rispose come a Re Artù SirBedivere: - I see nothing but wawes andwinds.

Gli altri sognavano e soffrivanoquanto loro due.

Oprandi scorreva tutto il mare colsuo occhio infantile e grave, infinedisse:

-Poteva capitarmi di vedere il

periscopio di un sottomarino. Megliocos, poi mi sarei chiesto se era nostro oloro e mi ci sarei consumato il cervello.A quelle parole il convoglio frenò conuno stridore di catastrofe. Balzarono a

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terra gli ufficiali, ognuno scalpicciandosulla ghiaia verso il carro del proprioplotone. Jacoboni non calzava stivali,ma pantofole casalinghe su calzelavorate ai ferri grossi.

-Presunto allarme aereo. Nessuno

scenda, guai a chi scende. Calma, nonsarà nulla, calma.

Lippolis era volteggiato a metà fuoridel vagone.

- Mingere dobbiamo, signor tenente.- Piscia dal carro.Si trovavano in un punto bestiale per

un attacco aereo: un palmo di terradesertica, quindi il mare basso, dasemicupio. Jacoboni, mani in tasca,

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sorvegliava il cielo, col mento alto efermo, alle orecchie dei soldati l’ariagrillava.

Falso allarme, ripartirono, il cielo siera ingiallito, il calore inebetiva.

Presso Orbetello svenne ilmitragliere Vanzanella, gli colaronosulla faccia i fondi delle borracce.Sostarono a Civitavecchia, nei pochiminuti di fermata sembrava che ilsoffiitto dovesse fondersi e versarglisiaddosso ustionandoli a morte. Pigiatisulla porta chiamavano le dame delposto di ristoro, afoni e furibondi, prontia minacciarle con la baionetta.

Lulli si spastoiò la lingua perprecisare che arrivavano a San Lorenzo.

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Poi a Oprandi: - A buzzurro che vuoivedere il Cupolone: sta a sinistra sta,dal lato cieco del carro.

Nei vapori di caldo la città apparvea Johnny in miraggio, le case battevanocome pistoni a brevissima corsa.

- Roma divina! - esclamòPietrangeli.

- Cialappa, - borbottò Dian, che nonapriva bocca da una settimana.

-Lo scambio dei prigionieriMaté smise di limare il fondello di

una cartuccia di sten. Un lavoro chefaceva per conto del tenente Leo il qualeda un pezzo non riusciva più a trovare lemunizioni originali del mitra Beretta.

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- Chi ti ha detto che io feci partedella squadra che scambiò Sceriffo?

- Sceriffo medesimo, - risposeGenio.

- S, - disse allora Maté intascando lalima. - Perez mandò me ed io mi misi albivio ad aspettare il prigioniero fascistache doveva scendere dal comando diMorgan. Era il venti di marzo o giù di l.Dopo mezz’ora che aspettavo vedospuntare dall’ultima curva un trio. Unoera il prigioniero, in divisa grigioverdee gli occhi bendati, l’altro una guardiadel corpo di Nord che si chiamaOrlando e il terzo un uomo di Morganche si chiama Miguel. Ancora dadistante Orlando mi chiese del curato di

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Mangano che doveva fare da mediatoree io lo informai che era partito primasulla sua bicicletta da corsa e ciaspettava a Travio. Vicino a me sifermarono e quel prigioniero cominciò apiangere a mani giunte e a dire no, no,no. “ Che gli prende? “ domando io eOrlando mi spiega che faceva cos a ognifermata, perché a ogni fermata credevadi essere arrivato al posto della suafucilazione. “Ma non gli avete detto chelo portate a scambiare?” e Orlando“Detto e ridetto, ma non ci crede”.

Intanto ci eravamo avviati e ilprigioniero continuava a piangere esupplicare e allora Miguel gli disse“Adesso piantala. Ma credi sul serio che

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se volessimo fucilarti faremmo fare a tee a noi una simile sgambata? ~> -Andavamo verso Meviglie.Camminavamo senza sforzarci siaperché avevamo molto tempo davanti siaperché il prigioniero per essere bendatologicamente non abbondava col passo.Dopo cinque o sei chilometri cifermammo per accendere le sigarette equello tornò a belare. “Nonricominciare, - gli dissi, piuttosto apri labocca”. Avevo acceso anche per lui.

“No, no, no! “ grida e poi serra labocca più che può.

“Non fare storie, aprila. Voglio soloficcarci una sigaretta. Tu fumi, no? “ “Fumo s, ma ho paura”. “Paura di che? “

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“Ho paura, - mi risponde,-ho paura che tu mi cacci in bocca

una matita esplosiva”. “Disgraziato!“ gli dico, ma non insisto. Lui

allenta, io colgo il momento buono e glipremo una sigaretta fra i denti. “Tira edimmi se è una sigaretta esplosiva”.Tirò una boccata, un’altra. “D almenograzie”. “Grazie, grazie mille”, fa lui, edio “Va’

là che sei un bel disgraziato”.- Meritava che gliela infilassi dalla

parte accesa, disse Genio.- Non mi è nemmeno passato per

mente, - disse secco Maté sentendosiscappare la voglia di raccontare. Ma poi

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prosegu. - Entrammo in Meviglie e nonci trovammo un’anima. Nemmeno unostraccio di sentinella, tutti per i fattiloro. E sempre stato un presidiosballato, prima con Luciano e ancheadesso con Diaz. Non una sentinella enemmeno un privato. Di gente ce nestava in giro, a lavorare o a far ciance,ma erano spariti tutti. Da lontanoavevano visto la divisa fascista eavevano preferito ritirarsi, pur avendovisto benissimo che era prigioniero ecompletamente nelle nostre mani.Quando a metà paese, tra l’osteria e ilgiardino del parroco, spunta Filippo. Tulo conosci.

Veniva dalla nostra parte e teneva

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mezza la strada, e perché è grosso comeun armadio e perché era sbronzo. Allenove e mezzo della mattina era sbronzo.Se lo conosci saprai che in fondo non èun cattivo soggetto e tanto meno uncattivo partigiano. Non starlo a vederein combattimento, vedilo come uomo difatica.

Non ho mai visto nessuno lavorare,spendersi come Filippo. Gliene ho vistidisincagliare e spingere carri e camions,gliene ho viste portare casse dimunizioni. Una volta l’ho vistoscavalcare una collina con sulle spalleuna mitragliera bell’e montata. Erasbronzo, ti ho detto, ma il grigioverdegli snebbiò la vista.

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-Veniva avanti rimboccandosi le mani

e io dissi a Orlando di lasciarlo trattarea me. Filippo si piazza a tre passi e

dice “Bravi, ragazzi, bravissimi. Oraperò scostatevi. mio quanto vostro, no?Voi avete fatto il più a prenderlo eadesso io faccio il meno. Scostatevi cheme lo maneggi un po’ “. Naturalmente cieravamo fermati e al solito ilprigioniero piagnucolava.

Io mi paro davanti e dico “Fermatidove sei, Flip.

Questo non si tocca. Questo va peruno scambio, quindi non è né mio né tuo.

Questo è di Sceriffo. ConosciSceriffo, era tuo compagno di squadra ai

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bei tempi di Luciano. Ieri l’hanno presoe condannato a morte e noi portiamoquesto a Marca per scambiarlo conSceriffo. Quindi sta’ lontano etranquillo”.

E lui “Sta’ tranquillo tu, Maté, micalo ammazzo. Lo maneggio soltanto.

Sù, scansati, Maté”. Io non miscansai, anzi lo coprii meglio. Dietrosentivo Orlando che perdeva lapazienza, voleva picchiare lo sten sullatesta di Filippo.

Io che conosco i metodi di questeguardie del corpo di Nord volevoaggiustarla a parole, perché Filippo infondo non era cattivo e inoltre io sapevoi suoi motivi. Gli dissi “Sta’ dove sei,

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Flip. Mettiti nella pelle di Sceriffo”.Allora Filippo mi guardò veramentebrutto e disse “Non avevo mai pensatodi doverti mettere le mani addosso,Maté, ma non avevo nemmeno maipensato che tu mi diventassi un taleporco. Un porco che non vuole lasciarmicastigare un fascista, un porco che si ègià dimenticato che a me i fascisti hannoammazzato un fratello”.

- Questo è vero, no? - disse Genio.- Come se non lo sapessi. Lo fucilò

la Muti. E nota che non era ancorapartigiano vero e proprio. Ci ronzavaattorno da un pezzo ma entrato in forzaproprio non era ancora. Per sentirsiqualcuno viaggiava con un cinturone da

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ufficiale e tanto di fondina. Senonché lafondina era vuota perché la pistola nonse l’era ancora fatta. I criminali dellaMuti lo sorpresero lungo la ferrovia,quasi all’imbocco della galleria diMoresco. A regola non potevanofucilarlo perché era stato trovatosenz’armi. Ma va’ a parlare di regolecon la Muti, la Muti che era perammazzare prese lo spunto dellafondina. Dove c’è fondina c’è rivoltella,dissero, lui l’aveva buttata o nascostaappena vistosi circondato. E siccome ilfratello di Filippo negava con tutte leforze, gli montarono il trucco. Uno diquei galeotti lanciò la sua pistola versoil tunnel e poi fece finta di frugare

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tutt’intorno con la massima attenzione.Naturalmente trovò la pistola in un

minuto e corse a metterla sotto il nasodel fratello di Filippo che una pistolacos se l’era sempre e solo sognata.

La misurarono nella sua fondina e sicapisce che la fondina bene o male laconteneva. Allora l’ufficiale lo dichiaròbandito armato e lo fucilaronoall’istante.

-Tornando a Filippo io gli dissi “Non

me ne sono dimenticato affatto. Sevoglio

che non lo tocchi è perché questoserve proprio a evitare a Sceriffo la finedi tuo fratello. Pensa a Sceriffo…” “Io

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me ne frego di Sceriffo! “ urlò, e mivenne addosso con tutto il suo peso. Iochiusi gli occhi e gli tirai un calcio sottoil ginocchio, proprio cercandogli l’osso.Filippo si piegò in due e Orlando che siera slegato il portacaricatori glielodiede in testa.

Il povero Filippo cascò nella cunettae l Orlando fin di tramortirlo.

Poi io e Miguel lo prendemmo su eandammo a stenderlo nella stalladell’osteria.

L’oste che era venuto a farci stradadisse “Gli ci voleva a questo bue diFilippo, gli ci voleva da un pezzo.Purché rinvenendo non mi sfasci lacasa”. “Non te la sfascierà, - gli dissi io,

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- e se minacciasse tu telefona alcentralino di Mangano, chiedi aiuto aPerez o a Leo”. Intanto Orlando si erastufato e diceva che Filippo sfasciasse ono noi dovevamo impiparcene eripartire immediatamente. Lo scambioera fissato per mezzogiorno e stavanoper battere le dieci.

-Da Meviglie puntammo su Travio.

Strada facendo domandai a Orlando seaveva una buona pratica di scambi.“Questo di oggi, - mi rispose, - è il mioterzo scambio. Le prime due volte hoincontrato sempre il medesimo ufficiale.Stavolta sarà un altro perché a Marcahanno cambiato reggimento da allora.

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Quello era un tenente. Un tipo dimalnutrito, con occhiali e pieno diforuncoli, un tipo che avrei potutorompere con due dita se l’avessi trovatofuori del terreno di scambio. Mi ricordoche la prima volta che c’incontrammoera metà gennaio e naturalmente lenostre colline erano la siberia. Quellomi fa un ghignetto e mi dice “Allora,partigiano, come ve la fate in montagnacon questo benedetto freddo?” E ioprontissimo “Molto meglio di come vela farete voi col benedetto caldo”.

Genio era perplesso. - Ma io direi, -osservò, - che il caldo è sempre megliodel freddo.

-

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Tu devi capire, - disse allora Maté, -che a gennaio noi eravamo tutti convintiche sarebbe fnita entro l’estate, cheentro luglio avremmo avuto il tempo dirovesciarne due di fascismi e che quindil’estate sarebbe stata la loro tomba.Invece siamo ancora qui e se finisse innovembre io personalmente ci mettereila firma. Ti ho detto tutto questo, Genio,per farti meglio capire l’ironia che c’eranella risposta di Orlando.

-Cos discorrendo arrivammo sotto

Travio e vedemmo il curato in biciclettacon un piede appoggiato al parapetto. Cisalutò con la mano e ci segnalò cheripartiva subito e ci avrebbe aspettato

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sull’ultima collina. Aveva la tonacarimboccata alla vita e pedalava decisoanche in discesa. Intanto calò da Traviouno del presidio per unirsi a noi erinforzare un po’ la squadra delloscambio.

Era della tua età, Genio, e si facevachiamare Tigre. Poi passammo di fiancoa San Quirico e ai piedi dell’ultimacollina Miguel sbendò il prigioniero,dato che ormai eravamo in piena terra dinessuno. Ma come gli fu tolta la bendadovette sbrigarsi a coprirsi gli occhi conle mani. A parte che stava bendato da treore, al comando di Morgan, mi disseMiguel, l’avevano tenuto due settimanein un grottino. “Hai visto? - gli disse

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Orlando, -che non ti abbiamo portato alla

morte? Ora sei convinto che tiscambiamo con uno dei nostri?Riconosci il posto? Dietro questacollina c’è Marca e la tua caserma “ .Era più che convinto, piangeva diconsolazione e non finiva di ringraziarcie lodarci. “Siete stati buoni, - diceva, -non credevo tanto.

Ma mi ricorderò di voi”.“Meglio che ti scordi di noi”, gli

disse Miguel. “Volevo dire che miricorderò di voi nel caso che… “ MaOrlando gli disse “Non ti sforzare.Primo perché non sarà il caso. Secondoperché, se anche succedesse, tu al

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reggimento devi essere l’ultima ruotadel carro”.

E io gli dissi “Guardami. Io sonoquello che ti ha fatto fumare. Guardamibene.

Ho la faccia di uno che caccia matiteesplosive in bocca ai prigionieri?”

- Arrivammo rapidamente in cimaall’ultima collina e vedemmo labicicletta del prete appoggiata al murodella cappella. Lui stava sotto ilportichetto, si era abbassata la tonaca ese la spolverava. Disse al prigioniero“Vedo che sei arrivato bene. Hai notatoche bravi ragazzi ci sono dall’altraparte? Non te ne scordare. Fra un quartod’ora sarai coi tuoi”. A noi quattro

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partigiani disse “ Sono le undici equaranta. Sarà meglio che io mi portiall’ultima curva. E

voglia il cielo che questo scambioavvenga regolare e senza trucchi”.Orlando gli disse di star tranquillo,almeno per quanto riguarda noi, e ilcurato si incamminò verso l’ultimacurva che era a sessanta-settanta metridalla cappella.

- Avrei dovuto dirti fin dal principioche io mi ero portato il binoccolo.

L’avrai adoperato anche tu. i~ unbinoccolo da teatro che mi regalò la miapadrona di casa quando partii,dicendomi che mi avrebbe aiutato acontrollare dall’alto i movimenti dei

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fascisti.Infatti a qualche cosa serve, è debole

ma a qualcosetta serve. Me l’ero portatoperché volevo prendermi qualcheinteressante veduta di Marca in mano aloro.

Cos mi appoggiai coi gomiti alparapetto della strada e guardavo la cittàin lungo e in largo. E binoccolando inlungo e in largo mi dimenticai quasicompletamente di Sceriffo. D’un trattoOrlando raccomandò attenzione e io vidinel terzultimo tornante la squadrafascista con la bandierina bianca e inmezzo uno spilungone che non potevaessere che Sceriffo. Al penultimotornante ci passarono talmente sotto che

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se avessi voluto avrei potuto mandareuna voce a Sceriffo e farmi riconoscere.Ma non lo feci perché negli scambibisogna sapersi controllare. Al piùpiccolo imprevisto gli altri siconsiderano traditi e rafficano fin che nehanno. Però, se non gli gridai, puntai ilbinoccolo su Sceriffo, gli centrai lafaccia e gliela vidi tutta bombata.Guardo meglio per accertarmene e mene accerto. Allora stacco il binoccolo edico a Orlando

“ Ehi, il nostro uomo è bombato! ““Che cosa? - fa Orlando, ne sei bensicuro?

“ “Nel modo più assoluto. L’hoinquadrato col binoccolo”. Orlando

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bestemmiò e disse che questo dovevaessere uno scambio alla pari e il nostroprigioniero era intatto e fresco come unarosa.

“Tu mi dici che Sceriffo è gon’ato.questo deve essere uno scambio allapari e me ne assumo io laresponsabilità”. Si girò verso Miguel egli disse

“Gonfialo, fagli una testa cos”.Miguel non lo lasciò finire e tirò unprimo pugno al soldato mirando al naso.Ci si mise anche Tigre e lo bombavanoinsieme.

Il soldato era già finito in terra eloro due lo colpivano da piegati.

“Presto, - diceva Orlando, - prima

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che spuntino loro”. Poi allontanò i dueed esaminò il soldato. “S, - disse, - èdiscretamente gonfiato. Credo che cosnon ci rimettiamo”. Il soldato rantolavae si rotolava nella polvere.

Orlando lo rimise in piedi e lospazzolava con le mani. Poi il curato sisporse dalla curva a segnalarci chearrivavano. Infatti sbucarono dopo unminuto e come li vide il soldato smise digemere e faceva salti di gioia. E cos fuscambiato Sceriffo.

-L’ufficiale, - domandò Genio, -

l’ufficiale o chi per esso non feceosservazione? - Fece qualche smorfia, -rispose Maté, - ma c’era poco da

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osservare. Erano gonfiati tutt’e due,potevano specchiarsi l’uno nell’altro.

Solo che il soldato era gonfiato difresco e Sceriffo di ieri.

Genio sospirò. - Tanto valevalasciarlo maneggiare al povero Filippo.

-Certo, - ammise Maté, - a Filippo

avrebbe dato tutta un’altra soddisfazioneche a noi che dovemmo farlo per

pura giustizia. Ma vedi, un pugno diFilippo ammazza un toro.

[Senza titolo]Dalla stazione andò diretto all’Hotel

Centrale. Erano non più di duecentopassi e li fece quasi a occhi chiusi. Nonvoleva veder nulla della città, nulla

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dall’interno di essa, nulla in dettaglio.L’avrebbe ampiamente rivedutadall’esterno, nell’insieme, dall’alto, ericordava che un eccellente osservatorioera la prima svolta della salita allafrazione Como. L’avrebbe riveduta dilassù, fra un’ora.

Il bar era deserto, tranne per i duebaristi. Erano di lampante estrazionecontadina, allevati e sgrossati dallacasa, e ora la loro disinvoltura rasentaval’insolenza. Facevano i giocolieri concalici e sottocoppe e getti d’acqua,senza tralasciare di fissare il forestieroalto e segaligno, dalla vistosa, anormaleabbronzatura.

Lui, da parte sua, non pensò altro

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che quei due baristi escaped solo per unpelo dall’esser suoi figli. E gli parevasolo ieri…

Ordinò un bitter ghiacciato e applicòi palmi delle mani sul piano gelido dellozinco del bancone.

L’orologio pubblicitario appeso auno spigolo della scaffaleria segnava le8,15.

Quello dei due baristi rimastoinoperoso scivolò fuori del banco versoil ju-box e mise un twist. I due ragazzinon presero a dimenarsi secondo quelritmo, ma si scambiarono più diun’occhiata di intesa e dicompiacimento.

Lui prese a sorseggiare

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l’analcoolico come se fosse un liquorerovente.

In quel momento la mano gli calòsulla spalla. Era una cosa prevedibile,quasi inevitabile, tuttavia lui incassò ilcollo fra le scapole e lentamente, conripugnanza, ~fissò lo specchio del bar,negli interstizi delle bottiglie di liquori.

- Ciao, Jimmy, - sospirò,disponendosi penosamente a voltarsi.

- Nick! - esplose l’altro.A quasi vent’anni di distanza si

chiamavano ancora col nome dibattaglia.

- Ti ho riconosciuto dalle spalle, -disse l’altro. Non di spalle, capiscimi,ma dalle spalle.

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- Sempre stato gobbo, - ammiseNick.

- Non è questo, - corresse Jimmy. -Ma hai sempre avuto le spalle spioventiin un modo tutto particolare, - efacendogliela scorrere per tutto il dorsogli tolse finalmente la mano d’addosso.

- Old lion, - mormorò poi un paio divolte e riaccennò a riposargli la manosulla spalla.

Jimmy era Guido Clerico. Eradiventato importante nella città, bastavavedere come i baristi, “Avvocato,avvocato…” si agitavano per sollecitarela sua ordinazione. Finalmente ordinò unwhisky e “White Label per l’avvocato

“, scand un barista in tono

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insopportabile.Pareva avesse perduto qualche

centimetro di statura, era calvo per i trequarti del cranio e pingue, di unapinguedine schioccante e lucida: avevaacquisito, in breve, caratteristichemeridionali. Aveva moglie, due figliette,una Citroen D.S., un appartamento incittà, uno al mare, e uno (ancora neisogni) in collina.

Aveva ereditato lo studiodell’avvocato Valoti: ricordava Nickl’avvocato Valoti, che sedeva nel Cln inrappresentanza del Pd’A? Jimmy sbirciòl’anulare sinistro di Nick e poi disse: -Non ti guardo il dito perché so che nonmi illuminerebbe affatto. Tu sei proprio

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il tipo che mai porterebbe la vera. D, seisposato? - No.

-Ma l’hai in programma? A breve

termine? -No, - rispose Nick il piùleggermente

possibile.Non dimise l’argomento, ma

fortunatamente lo rivoltò su se stesso.- Io s. Ormai son nove anni.

Immagina con chi - Non con Meris, -azzardò Nick, sperando che fosse vero.

- Macché Meris, - fece Jimmyscostando il bicchiere dalle labbra quasicon violenza. - Meris era una ragazzamagnifica, la migliore sta~etta di tutto ilgruppo divisioni, ma era troppo

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tuttofare. Mi spiego? Io ero nella causafino al collo, e tu lo sai, ma ilmatrimonio è un’altra cosa.

- Certamente, - ammise Nickchinando gli occhi nel bicchiere doveondava l’ultimo dito di bitter.

- Ho sposato Gege Arnulfo, - ripreseJimmy. - La ricordi? Te la presentai inuno dei grandi balli che demmo subitodopo la Liberazione, quelli per cuivenne l’orchestra di Angelini.

Nick ricordò. - Fu il primo ballodella serie. La ragazza era l’unica cheportava le trecce.

- Esattissimo, - disse Jimmy quasitrionfalmente.

- Beninteso che allora io nemmeno

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mi sognavo di sposarla, Gege Arnulfo.Dici bene, era l’unica delle ragazze,diciamo della nostra generazione, cheancora

-portava le trecce. Appena la rivedrò

- ora è al mare con le bambine - le diròche tu Nick ricordi che lei era l’unicache ancora portasse le trecce. Già, ilprimo ballo della serie, quello in cui ilnostro comandante generale fece quellamagra storica. Nick aggrottò lesopracciglia per significare che nonricordava.

-Ma s, - spiegò Jimmy. - Fece un

effettaccio a tutti. Toccava a lui aprire il

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ballo, dopo che Angelini aveva suonatoi nostri inni. E lui chi ti va a sceglieretra cinquecento signore e signorine?Proprio quella signora sfollata daTorino, la moglie di un gran dentista, cheera stata l’amante di almeno una dozzinadi ufficiali della repubblica.

-Ora mi pare, - disse Nick.-E bravo Mck, - riprese Jimmy. - Mi

sbaglio, o non venivi ad Alba da allora,cioè da quel ballo che abbiamo dettopoco fa? - No, ci sono tornato nel ‘48.

Quando diedero la medaglia d’oroalla città.

- Ma io non ti vidi, - osservò Jimmycon una punta di dispetto.

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- Poteva succedere, - disse Nickposando il bicchiere sul bancone.

- Ricorderai che c’era unaconfusione enorme. C’era il presidenteEinaudi e un nugolo di polizia.

- Ma almeno ci avrai pensati, - disseJimmy.

- Figurati se no.- Ma andiamo a sederci, - fece

Jimmy indicandogli la strada con lamano che brandiva il bicchiere. - Il ju-box non ti dà mica fastidio? I due baristil’avevano alimentato per un’ora. Forsefaceva parte del loro dovere globale.

Ora stava suonando una canzone incui il sesso veniva contrabbandato persentimento. Tutte le sedie disponibili

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erano nel raggio vicino del ju-box.Nick si mosse con riluttanza,

accennando col capo che no, il ju-boxnon gli dava fastidio.

-Nemmeno a me, - disse Jimmy, - anzi

tutt’altro.In fondo siamo ancora giovani. Tu

non ti senti ancora giovane, Nick?Io s, almeno mi difendo. Questi - e

accennò ai due baristi - non credano dimonopolizzare la gioventù. Ci siamoancora noi, dico io. E noi abbiamo fattocose che questi - e riaccennò ai duebaristi nemmeno Si sognano.

- Vent’anni fa, - disse Nick, -vent’anni fra uno.

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- Non li diamo, - disse Jimmy con uninnaturale fervore. -Tu ne haitrentanove…

- Quaranta.- Fa lo stesso, e ne dai trentatre. Sei

magnificamente abbronzato, sai? Stato almare? Dove? - Finale.

- Bellissimo posto. Ci andavoanch’io, da scapolo.

Ora, da sposato, Spotorno. Piùfamiliare. Sei in vacanza? - In ferie. Unanticipo di ferie.

- A proposito che fai? - Sono in unaditta di eximport. Torino. Sono ilcorrispondente estero.

- Naturale. Come conoscevi tu lelingue. —Solo l’inglese.

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- Va bene. Ma dire inglese è comedire tutte le lingue. Non è cos? - E cos,Jimmy.

- Ne hai ancora per molto?Dell’anticipo di ferie, voglio dire? -Due giorni.

- E li hai destinati ad Alba? - Già.- Hai rinunciato a due giorni ancora

di spiaggia per Alba? - Non proprio perAlba, ma per il suo entroterra.

Per le colline che furono nostre.- Oh come lo puoi dire, per le

colline che furono nostre! Che macchinahai?

- Nessuna.Jimmy starded. - Vuoi dirmi che ci

andrai in corriera? - Apiedi.

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Jimmy starded. - A piedi! ? - Questigiri si fanno a piedi o non si fanno.

A piedi, Jimmy, come allora.- Ah certo. Come allora. Certo che

avevi una gran gamba. Allora. Miricordo come ci tirasti a Valdivilla adagganciare la retroguardia di quellacolonna fascista. Io credo che marciaviai nove all’ora. Io avevo la bava allabocca.

- Anch’io, - ammise Nick.Guardò in terra per un attimo e poi

riaccennò col pollice ai due baristi.-Questi nemmeno si sognano le cose

che abbiamo fatto noi. Potremmoinchiodarli

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fino a stasera soltanto col raccontodi Valdivilla -.

Fissò Nick d’improvviso, col voltodi chi propone un quiz. - Dimmi quandoè successo.

- Venticinque febbraio 1943 -rispose pronto Nick. - La prima raffica,la loro, quella che fulminò Set, part alle12,15.

- Io non ho mai capito, - disseadagio Jimmy, - come quella rafficaprese

-Set e non te. Era per te, quella

raffica, tutta per te. Non ho mai capitocome l’hai schivata. Non dirmi che l’haivista.

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-Non l’ho vista, - disse Nick. - Ma

l’ho sentita.L’ho sentita nascere.e tutto Stettero un altro pò in

silenzio.Poi Jimmy. - Ma dove andrai? Se sei

a piedi, non potrai fare un giro. Dovraidirigerti in un posto ben definito.

- Infatti.- Mi piacerebbe proprio sapere che

posto é. Dev’essere un posto importanteper te se esso vale per - Un posto comeun altro, - disse Nick. - Una parte per iltutto.

- Dimmi che posto é, - domandòJimmy con vero interesse.

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- E il bivio di Manera, - spiegòNick. - Non proprio il bivio, ma quellastrada che dal bivio parte per la collinaalta verso Mango.

- Ah, - fece Jimmy sempreperplesso. - Ma è lontano. Sarannodiciotto chilometri. Va bene che aveviuna gamba terribile… Prendi unamacchina di piazza.

Fatti portare almeno a metà strada.- No. Non sarebbe la stessa cosa.- Capisco, ma… fa caldo.

Scoppierai per strada.- Magari.- Che hai detto? - Scherzavo.- E quando partirai? - Adesso, se a

te non dispiace.

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- No che non mi dispiace. Figurati semi dispiace. Non porti la macchina.

- No. Non più.- Hai avuto un incidente? - Sono

uscito di strada per il ghiaccio. Due annifa.

- Succede nelle migliori famiglie dipiloti. Ti è successo dalle parti diTorino? Com’è andata? - Niente. Sapevoappena l’aritmetica della guida e ilghiaccio mi ha proposto all’improvvisoun problema algebrico.

E il risultato è stato che hocappottato sei volte.

- Sei volte? E tu che facevi? -Niente. Contavo le cappottate. Sonomolte, sai, sei cappottate. Non finiscono

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mai.- E da allora non guidi più? - A me

non è ancora successo niente. E s chefaccio 100000 km all’anno. Ma è meglioche non lo dico. Allora te ne parti apiedi, adesso.

- S, - disse Nick alzandosi.—Stai magnificamente con quella

grisaglia un pò vecchia equest’abbronzatura,

-disse Jimmy ammirandolo senza

riserve. - Mi pari… mi pari… unmarine!

Ma di quelli che la guerra nelPacifico l’hanno fatta sul serio.

A Dio piacendo si accostavano

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all’uscita. Jimmy armeggiava perstaccarsi il fondo dei calzoni che ilcaldo gli aveva incollato addosso.

- Tu non sudi, eh? - gli fece.- Non ho di che sudare, - rispose

Nick passandosi una mano sul corpo cheappariva fatto non di carne ma dicorteccia.

Erano le g in punto e il soleprendeva ad ammollare l’asfalto dellapiazza.

- Allora vai a piedi? - disse ancoraJimmy.

- Te l’ho detto che o a piedi o niente,Jimmy.

- Fa un pò tU, - disse Jimmy. - Titrovassi in difficoltà. Telefonami. 22.41.

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Sai, anche a piedi si può restare inpanne.

Lui, solo lui, scese il primo scalino.- E quando torni? - Stasera, - risposeNick. - Stasera, se non mi trovo bene.Domani pomeriggio, se non va comedico io.

- Cioè se la lunga marcia nonfunziona, - disse Jimmy.

- Esatto. Ma vedrò di farlafunzionare. Non partiva ancora.

- Fai politica, Nick? - Voto e basta.- Per chi voti? - Nenni.- Nenni fisso? - Fisso. Tu per

Saragat.- Come lo sai? - Occhio.- E non ti va? - O per me va

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benissimo.- Hai visto, Nick, che i fascisti

rialzano la testa? —E da un pò.- Ma ora più che mai. A Roma

specialmente anche altrove.- Non mi preoccupa.- Nemmeno un pò? - nemmeno un p~.- Ora ti lascio, Nick. Fa’ buona

strada. Ricordati comunque il 22.41.Non si sa mai. Mi piacerebbe tanto

rivederti stasera - si sta bene qui fuori disera, col refolo che scende dalle collineche furono nostre -

ma ho più piacere che la tua marciariesca e cos non ti vedrò. E dirò a miamoglie che ricordavi che lei era l’unica,allora, che ancora portasse le trecce.

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- Bisognerà vedere se lei siricorderà di me.

- Oh si ricorderà, e comunque io gliti farò ricordare. Ciao, old lion. E tornapiù spesso. Vederti m’ha fatto megliodel whisky. A proposito del whisky…

- e flurringly accennò a ritornare,mentre le mani cincischiavano allaricerca del portafoglio.

- Lascia stare, - disse Nick. - Ti dicodi lasciar stare. Ciao, Jimmy. I Restò avederlo andare, più piccolo, più grassoe calvo, fin che glielo tolse di vista lacolonna in corrispondenza dell’angolodell’orologio. Non gli era né grato nérisentito. L’unica cosa buona era statache avevano ancora potuto chiamarsi

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Nick e Jimmy. Questo era certo, chequando l’uno avesse appreso la mortedell’altro, avrebbe detto, ad esempio:“Jimmy, e non Guido Clerico, se n’èandato~>.

Si voltò verso l’interno per chiamareil cameriere per il conto. E mentrequello veniva, pensò: - Mi chiamava oldlion con convinzione. Eppure se n’èaccorto, sicurissimamente, che sono unfallimento.

Materiale narrativo e progetto peruna sceneggiatura cinematografica Anno1960

Città: Torino Paese: San BenedettoBelbo Cascina isolata, in cresta, a unbuon chilometro dal paese.

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Il fratello inurbato, lavoranteall’Urbiochimica: COGNO GIUSEPPE,detto Jose.

Anni 28.Il fratello maggiore rimasto sulla

terra: DAVIDE COGNO. Anni 36, masenza età.

Sua moglie: PALMA. Anni 3 I, masenza età.

La loro figlia: JOLANDA. Anni 7.La ragazza veneta che sposerà

JOSE: MARIA. Anni 25 .Jose Cogno vive e lavora a Torino

da circa due anni Dopo tre mesi dilavoro come spazzino, è stato assunto inpianta stabile all’Urbiochimica.

Convive con la veneta Maria da un

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anno circa, ma l’ha conosciuta, e ci si èsubito aggrappato, all’epoca del suopassaggio all’Urbiochimica.

Si è strappato dalla terra per puradisperazione, non sopportando più ildispotismo del fratello Davide,disgustato del lavoro in famigliasenz’altra retribuzione che il vitto. Giàsuo padre teneva lui, e i suoi fratelli, inquesto stato servile, schiavistico-famigliare, ma, morto il padre, Jose,dopo due anni di rassegnazione, non èstato più disposto a tollerare oltre dalfratello maggiore ciò che potevatollerare dal padre.

Dirà: “Tutto il lavoro era mio. Iogovernavo le bestie, io attingevo l’acqua

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al pozzo - anche trenta-quaranta secchiper volta - io spaccavo la legna.

Lui andava solo più ai mercati. Luimaneggiava i soldi, tutti, e non me nerendeva il minimo conto. Lui trattava, luidisponeva, io non potevo trattarenemmeno una cosa del valore di un ago.Ero stufo, e vergognoso, di vederarrivare gente sull’aia e rivolgermi laparola solo per chiedermi: dov’è tuofratello Davide? E col lavoro chefacevo, non mi ha mai dato cinquecentolire tutte in una volta. Praticamente nonho mai avuto una banconota fra le dita.La domenica non potevo far la partita atressette perché, se perdevo, non avevo isoldi da pagar due gazose. Alle volte hai

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piacere, piacere più che interesse, a fareun regalino a una ragazza. Ma nonpotevo nemmeno regalare un fazzoletto”.

Dirà: “Io dormivo negli stracci:nella stalla d’inverno e sul fieniled’estate.

Lui dormiva nel letto grande, che fudei nostri padre e madre, e con unadonna accanto. Io non potevo nemmenocominciare a sognare di sposarmi, diavere una donna nel letto, tutte le notti”.

Aveva avuto discussioni con Davide,frequenti e anche violente, ma nulla neera sortito che potesse minimamenteilluminare il suo avvenire sulla terra.

“E sarebbe stato sempre cosi, finoalla fine. Guai a illudersi. Non serve che

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a far riuscir meglio il gioco di chi tisfrutta. Anche passando dieci anni, nonsarebbe cambiato niente. Io a fare i dellavoro e zitto. Lui a comandare, adisporre, a darsi e a prendersi tuttal’importanza, fino alla fine. E per quelche riguarda il mangiare? Sua mogliemia cognata che gli diceva “Mangia,prendine ancora”, ma a me, a me che mispendevo più di tutti, non l’ha detto mai,nemmeno una volta, nemmeno inoccasione di qualche festa grande >~ .

Jose cominciò a decidersinell’inverno e, venuta la primavera, siconsigliò con un compaesano che avevaavuto il coraggio di strapparsi dallaterra e aveva trovato lavoro a Savona.

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Tornava al paese ogni sabato sera, nellastagione buona, in sella a una moto diseconda mano, ma bella e potente.Quello lo consigliò di dar lo strappoanche lui, ma gli sconsigliò la Liguria.“Torino offre tante più possibilità. C’èsolo Milano che ne offre di più, maMilano è fuori della nostra portata.Tenta a Torino, ma tenta presto”.

Jose ficcò la sua pochissima roba(l’ultimo vestito se l’era fatto quandoera andato alla visita di leva) in unagrottesca valigia quadrata di legno, congran difficoltà si fece prestare diecimilalire dal prestasoldi del paese e part.

oooooooooooo ti spiegherò pOi laragiOne °°°°°°°°°°°° di questo vuoto. E

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cosa di °°°°°°°°°°°ůna certaimportanza).

A Torino aveva un appoggio, unrecapito. Dorm sette notti nello stanzinodi un suo coscritto di Niella che da piùdi tre anni faceva il cantiniereall’Alleanza Cooperativa. Per settegiorni cercò invano lavoro.

L’ottavo giorno, alla sede della UIL,gli dissero che Torino aveva scarsità dispazzini. L’assunsero subito.

Per tre mesi spazzò le strade. Poinotarono che era forte, volenteroso esenza cattive idee per la testa e gliproposero di passare operaioall’Urbiochimica.

Accettò a volo. Ma erano otto ore al

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giorno, tutti i giorni, con le bracciaaffondate fino al gomito nei rifiuti, nelledeiezioni della grande città, con la golaintasata dal fetore. Non ci si abitueràmai, lui viene da posti di aria fina.Rivoltare il letame è una sciccheria inconfronto al più pulito lavoro che tipossano dare all’Urbiochimica. E poi siè inurbato solo fisicamente.

L’anima è quella dell’esule, delprigioniero di guerra.

Le colline intorno a Torino sonobelline, e ancora abbastanza pure; ciandrebbe ogni domenica, a piedi, se nonfosse cos stanco (non per la fatica, maper l’intossicazione della puzza).Potesse farsi un ciclomotore:

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passerebbe il pomeriggio domenicale incollina, gli parrebbe di essere inlicenza, di sopportar meglio la lungasettimana.

Piange tutte le notti, come unbambino disperato.

Sarà Maria che lo farà smetter dipiangere la notte.

(La parte di MARIA è tutta dasvolgere).

Percepisce 43 ooo mensili. Affittauna stanza a poca distanzadall’Urbiochimica per risparmiarel’abbonamento del tram - si fa un vestitonuovo, buono per tutte le stagioni - fumanon più di quattro sigarette al giorno, seii festivi

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- non entra nei bars.Darebbe il sangue per poter

ritornare alla terra, alle compagnie diuna volta.

Infatti non contrae amicizie, qualcherara volta va col cantinieredell’Alleanza Cooperativa e coi suoisoci (tutti langhigiani) in un’osteria conpergola e gioco di bocce lungo ilSangone.

Quando incontrerà Maria, pianteràanche quella compagnia. Non è stato maiin centro. E Maria che lo porterà, abraccetto, in Via Roma, per la primavolta, in una soffocante notte di estate. Ilcentro lo affascina, ma lo sgomenta.Maria è sconcertata, e preoccupata.

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Jose si rifiuta di veder altro, diconoscer altro di Torino. Non è che laguardi in cagnesco, Torino la gran città,semplicemente non la vuole guardare.

La sua nostalgia della terra èinsanabile, ma non può ritornarvi,perché sulla terra, piantatovi a gambelarghe, sta suo fratello Davide. Finisceche la terra e Davide si identificano. Enon è possibile ritornare da Davide.

Maria capisce che Jose sopporta lanostalgia solo per la presenza di lei, macapisce anche che nemmeno lei loguarirà, nemmeno in tanti anni, di quellanostalgia.

Maria viene a convivere con lui.Aiuta facendo quattro ore di “posta”

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ogni giorno. Si sposeranno.Ma per metter su una minima casa

bisogna che Jose abbia la liquidazionedella sua parte. Quanto verrà? Mezzomilione? Per cominciare basterebbe unacconto di 200l2somila lire. E Mariache parla, che conta, che almanacca, maJose sa che suo fratello non lo liquideràmai, non gli farà mai vedere un soldo,gli dirà sempre di no, un no grosso comela valle Belbo.

“Sicuro che hai una parte,” glidirebbe, “é sempre qui, che non simuove d’un millimetro, perché la nostraè terra che non smotta. L’unica manieradi avere la tua parte,” gli direbbeDavide, “é di tornarci sopra”. Con

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Maria Jose non può nemmeno sperare ditornarci, nemmeno fra dieci anni. Seanche potesse considerare la possibilitàdi tornarci solo, con Davideridiventerebbe presto la vecchia storiaDice Maria: “Vostro padre lasciò untestamento? No? E allora siete tutt’e duepadroni in parti uguali.

E tu devi avere la tua parte. E tuofratello non può negartela, per duro, perselvaggio che sia”. E aggiunge: “Mipiacerebbe veder questa terra. Anzi, lavoglio vedere. Devi portarmici ungiorno. Un giorno che non sia nemmenotroppo lontano. Andiamoci insieme ungiorno del prossimo Ferragosto”.

Davide Cogno sulla terra. Ogni sera,

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tra la ~’;ne del lavoro e la chiamata perla cena, sta seduto immobile sul cigliodel rittano, dando le spalle alla casa. Ilrittano riduce il mondo a un palmo. Oltreil mare delle colline c’è una grandepianura, dove il mondo assume le suegiuste proporzioni.

Nel centro di quella grande pianurac’è la grande città di Torino. A Torinoc’è suo fratello Jose.

La defezione di Jose l’ha messo ingravissima difficoltà. L’ha costretto afaticare come non mai, a farsi da solo lequattro giornate di terra, ha dovutodimezzare le sue andate ai mercati (“avolte ti frutta più un minuto al mercatoche tutta una giornata sudata sulla

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terra”,) ha dovuto ammazzar di lavoroanche la moglie Palma.

Ma c’è dell’altro che lo monta, logonfia, in quelle solitarie sedute sulciglio del rittano. Ed è l’invidia per ilfratello, per il suo coraggio di strapparsidalla terra, di togliersi dal rittano. Haavuto, Jose, quel coraggio (e chigliel’avrebbe mai fatto! ) e ne è statopremiato: vive. A Torino. Fa poco (solosulla terra si fatica veramente) eguadagna. Ogni fine mese, grandine onon grandine, riceve la sua busta pagacontenente biglietti da dieci e dacinquemila. Quanti? Non importa quanti,ma son biglietti che molti dellacampagna non sanno nemmeno come son

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fatti e colorati.Ha le brave marchette della mutua e

della pensione.E vive a Torino, nel vero mondo.

Passeggia sull’asfalto, sempre al piano,o sotto grandi portici (se piove) eincrocia donne pulite, profumate edeleganti, tutte giovani (anche quelle chenon lo sono più). Lui, Davide, stafissando il rittano scuro e fradicio,aspettando che la già vecchia e rocavoce di Palma lo chiami a cena. E checena? Jose sicuramente mangia carnetutti i giorni. Qui la si mangia alladomenica. Jose mangia anche uova. Quile uova non si toccano (solo Jolanda nesorbisce uno ogni tanto) perché servono

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alla privativa per barattarle col sale, ilbaccalà, la pasta…

L’invidia e il rancore per il coraggioe la fortuna di Jose gli salgono dentro,giorno per giorno.

Era abituato ad andare una volta lasettimana all’osteria di Placido, attiguaalla privativa, a vedere la televisione.Prendeva un bicchiere di caffé eguardava la televisione fino a tardi. Oranon più. La televisione gli parla dellacittà, gliene mostra le luci, le strade, ledonne, quel mondo più largo, più bello,più ricco di cui Jose s’è accaparrato unafettina. Smette di andar da Placido aveder la televisione.

Jose ha trovato subito lavoro. Pare

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che a Torino l’aspettassero a bracciaaperte, e che ogni giorno che Josetardava a decidersi e ad arrivare fosseun danno per Torino e non per lui. Josenon si è fermato, e non ha trovato a Albao a Bra - pensa Davide con dispetto parisolo allo stupore

- ma ha trovato a Torino, nella grancittà, nella capitale. Davide ignora cheJose ha fatto il suo noviziato comespazzino, sa solo che ha subito trovatoun buonissimo posto all’Urbiochimica.

Non sa che cosa sia l’Urbiochimica- anche perché nessun compaesano èstato in grado di spiegarglielo madev’essere una grande azienda: il nomesuona grosso e importante, se non è la

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Fiat poco ci cala…Seduto sul ciglione del rittano, sente

dietro di sé muoversi buona e triste suafiglia Jolanda. Ebbene, Jose si sposeràin città. Ci sarà certo in tutta Torino unadisgraziata che lo prenderà al primocolpo come un merlo.

Si sposeranno e avranno dei figli.Una figlia. La quale avrà possibilitàinfinitamente maggiori di quelle cheaspettano Jolanda. Cresceranno, e lacittadina, la figlia di Jose, guarderà condegnazione, con compassione, la figliadi Davide.

E non basta. Jose è padrone, permetà, della terra che ha disertato. Infondo, Davide svolge per lui anche

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l’umile mansione del guardiano. Lui checi vive sprofondato fino al ginocchio,fino al collo nella terra, non ne è piùpadrone di Jose che l’ha mollata perandare a vivere più comodo. “Non ègiusto. La legge va cambiata. Quanteleggi andrebbero cambiate. Dev’esseresolo di chi ci vive sopra, di chi cicreperà sopra, senza lasciarla nemmenoper un giorno.

E chi lascia perde. Questa sarebbela legge, la giusta. Ma venga pure achiedere, a reclamare qualcosa. Io glidirò di no, sempre di no, non mi stuferòmai di dirgli di no. Si stuferà prima lui areclamare. Jose non andrà per avvocati,sa benissimo che andare per avvocati

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significa farsi divorare la posta dellalite; la terra stessa. Oggi quattro giornatespariscono nella sola carta bollata. E sesi affida solo a se stesso, alle sueragioni, io gli dirò di no, sempre e solodi no. Jose da solo non la spunterà”.

“Davide “ Morte del padre Mattinoalto. JOSE lavora solitario nel camposotto la casa, verso il rittano. DAVIDEsvolta dall’aia, percorre un tratto disentiero, poi lo chiama, un paio di volte.

JOSE - Parla! DAVIDE - Vieni quisul sentiero.

JOSE conficca la vanga nella terra eviene sul sentiero.

DAVIDE - Nostro padre è mancato.JOSE apre la bocca ma non

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proferisce parola.DAVIDE - i~ mancato non più di tre

minuti fa.JOSE - E tu c’eri… al momento… ?

DAVIDE - Io ero nella stanza accanto.Ma c’era Palma.Si voltano verso la casa, al rumore

che fa PALMA sporgendosi per chiuderele gelosie della stanza del morto.

JOSE - E come é… passato?DAVIDE - In un niente. Ha fatto unasmorfia col naso come per scacciarsiuna mosca ed è restato. Palma dice che èpassato senza accorgersene. I morti dicasa di Palma hanno penato certamentedi più.

JOSE - Vado a vederlo.

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DAVIDE—Si.JOSE (arrestandosi) - Ma… siamo

sicuri? Alle volte ci si sbaglia…DAVIDE - No, no. L’ho veduto e

toccato io. E poi l’ha detto Palma.Con l’esperienza di morti che la mia

donna purtroppo ha fatto a casa sua…Pensiamo che era ~piombato nel

letto da sei mesi.JOSE - Questo è vero. E io non dico

mica che non fosse ancora la sua ora.Bé, ora vado a vederlo.DAVIDE - Aspetta. Adesso Palma

va dal prete a fissare la sepoltura e afarsi scrivere il manifesto. Poi io lodarò alla corriera che lo consegni allatipografia a Dogliani. Ne facciamo

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stampare una dozzina. Voglio che neattacchino un paio anche a Niella e aFeisoglio dove nostro padre eraabbastanza conosciuto. Poi tu vai altelefono e avvisi la parentela.

Telefoni a Murazzano, a Gorzegno ea Càstino.

DAVIDE s’interrompe perché siavvedono di PALMA che sta uscendodall’aia sulla strada al paeseconducendo per mano la piccolaJOLANDA.

PALMA - Lascio Jolanda dai Porta,che giochi fino a scuro con le lorobambine.

DAVIDE fa con la testa un cenno diassenso e riprende il discorso con

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JOSE.DAVIDE - Allora telefoni a

Murazzano, a Gorzegno e a Castino. Fa’poche parole.

‘Sto telefono costa anche più carodelle medicine. Dici che è morto e chela sepoltura è ai tanti. E d a Placido chele telefonate le pago io domenica.

JOSE (assente ripetutamente colcapo, poi): Bisognerà ordinare anche lapietra.

DAVIDE—Vedi che non sei ancorapratico? La pietra gliela si mette a unanno giusto dalla morte. Abbiamo tutto iltempo di ordinarla al marmista diDogliani.

Piuttosto suderemo a pagarla, questo

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s. Ora vallo a vedere. (e si scosta dalsentiero.) JOSE, stirandosi i capelli conle due mani, si avvia verso la casa.

JOSE scende per la stradaprincipale del paese chiusa in fondo dalcasotto del peso pubblico e dallafiancata della chiesa.

Vede a sinistra una portina socchiusae vi si dirige.

JOSE (appena sporgendo la testa)Annina, mio padreé morto. (e subitoriparte).

Poco più avanti vede a sinistraun’altra portina semiaperta e fa comesopra.

JOSE (appena sporgendo la testa)Pino? Sono Jose.

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Mio padre è morto. (e subitoriparte.) JOSE è già quasi al terminedella via quando all’uscio di sinistraappare la vecchia ANNINA che lo cercae poi lo segue con lo sguardo.

JOSE entra nella privativa diPLACIDO dov’è il telefono pubblico. Ilcampanello squilla violento elungamente, ma PLACIDO tarda a farsivivo.

JOSE - Placido! (batte poi la manosul bancone.) Placido! PLACIDO (senzaapparire) - Sei Jose di Cogno? (appare.)Cosa vuoi? JOSE - Ho bisogno ditelefonare.

PLACIDO - Pronti. Qui c’èl’apparecchio. Ma cosa può aver da

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telefonare uno come te? JOSE (cheintanto si è lasciato cader seduto su unacassa di sapone.)

-E morto mio padre.PLACIDO (piano) - Sacramento! E

quando? JOSE - Mezz’ora fa.PLACIDO—E come? JOSE -

restato. Ha fatto una smorfia col nasocome per scacciarsi una mosca ed èrestato.

PLACIDO - Mi dispiace, Jose. Dilloanche a Davide che mi dispiace. Vostropadre era un uomo duro, ma mi andava agenio più di tanti un pò più teneri di lui.

JOSE (a occhi chiusi, sfregandosiuna mascella.) Cristo, mio padre.

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PLACIDO - E ora il comando passaa tuo fratello Davide.

JOSE - C’è poco da dire. Su,facciamo ‘ste telefonate.

(ma non si leva da seduto.)E’LACIDO—Pronti.

JOSE - Prima dammi un pacchetto ditabacco. Che almeno fumi a volontà,almeno il giorno che è morto mio padre.

PLACIDO è già passato dietro ilbancone e gli lancia a volo il pacchettodi tabacco.

JOSE (afferrandolo a volo) - Te lopago domenica. Anche le telefonate te lepaghiamo domenica. Quelle te le pagaDavide.

PLACIDO (riaccostandosi al

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telefono)—Vuoi che cominciamo? JOSE(alzandosi)

-Cominciamo pure. Per prima cosa

fammi l’avviso per Murazzano.Per mio zio Brocardo Felice. Abita

vicino al Santuario.Mentre PLACIDO armeggia col

disco del telefono, Si diffondono, anchenella privativa, i primi tocchi a morto.JOSE erge la testa verso il soffitto, poisubito la china sul petto.

D I S S O L V E NZ A Fine della“MORTE DEL PADRE”.

“Davide” Giocare e non giocarePrime ore del pomeriggio festivo. Ilgioco del pallone, adiacente alla chiesa

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e all’osteria di PLACIDO. La partita ègià combinata, ma ancora volanonell’aria proteste e recriminazioni per lacomposizione delle due quadriglie.Alcuni partitanti, per i quali la partita,cos com’è stata combinata, è accettabile,si allenano a battere e a ricacciare ilpallone (ma con prudenza, per nonmandarlo perduto oltre i tetti e quindinel sottostante vallone, profondo eripidissimo.) Ma ancora si intreccianole proteste dei partitanti insoddisfatti.

Alla rinfusa: Voi le partite o le fategrasse o non le fate.

Tu sta’ buono, ché è difficile trovartidalla parte dei deboli.

D tu in coscienza se questa è una

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partita equilibrata.Quelli son quattro forti. Tutt’e

quattro! (ironicamente) Anche Matteo èun forte? Matteo è un pò più debole, magli altri tre sono leoni! A un angolo delgioco appare JOSE. Per la voglia digiocare le mani gli fremono nelle taschee gli luccicano gli occhi. Ma non puòarrischiare. I perdenti, lui lo sa, se nefaranno per più di 500 lire a testa.

Con un sorriso un pò amaro, ascoltala polemica.

Se non si attacca subito, senza piùlagne, io esco dalla partita.

Sei nervoso? Fai la partita grassa efai ancora il nervoso? Macché grassa!

Possiamo perdere come

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guadagnare…Ma piantatela ! Per dieci birre… !

Non è per le dieci birre.E per la bellezza del gioco. Una

partita se non è un pò equilibrata non èbella.

E giochiamoci ‘ste birre! Dieci birrenon son mica la morte.

Fin tanto che i soldi pagano…A questo punto uno dei partitanti

polemici si avvede di JOSE.PARTITANTE (additandolo)—Ecco

Jose! Con Jose s che la partita èequilibrata!

JOSE (in fretta)—Io non gioco.PARTITANTE—Ma s che giochi!

(rivolgendosi ai giocatori già designati:

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) Con Jose s che equilibriamo lapartita. Ci togliete Paolo e ci date Jose.

L’AVVERSARIO (facendo il segno dingozzarsi) — Ti piacciono imaccheroni, eh? JOSE (nervoso) - Einutile. Io non gioco.

UNOSPETTATORE- E gioca, Jose!Con te la partita si bilancia…

PARTITANTE- Allora ci date Jose.JOSE - Ho detto che non gioco e non

gioco. E lasciatemi perdere.PARTITANTE—Ma perché, Jose?

JOSE - Perché non ne ho voglia. Perchéoggi non sono per il gioco.

PARTITANTE—Ma non èdomenica? JOSE (so~rendo) - Nongioco. E lasciatemi perdere.

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SPETTATORE - E lasciateloperdere. Avanti, cominciate. O viensubito l’ora della benedizione e il pretevi fa sospendere.

In quel momento il pallone, giocatoancora in allenamento, spiove versoJOSE

che non sa resistere alla tentazione elo colpisce a volo, con tutta forza.

Colpisce fortissimo e male, ilpallone sorvola il tetto del forno, dallaparte del vallone. Proteste confuse: Josedisgraziato! Un pugnaccio cos! Corri apigliarlo! Non lo trova più.

Se va perso, lo paga cinquecentolire! JOSE è già scattato per la viuzzalaterale, al cieco inseguimento del

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pallone.La macchina da presa inquadra il

pallone che, a grandi rimbalzi, vola nelvallone e, immediatamente dopo, JOSEche, atterrito dalla prospettiva di pagar500 lire, si proietta a corpo morto per ilripidissimo pendo.

Alcuni partitanti e spettatoriarrivano sul ciglione e ci si allineano,per seguire le fasi e l’esito della ricerca.

Il pallone continua a rimbalzare avalle e JOSE a volare, letteralmente, peril pendo, con gli occhi sgranati per nonperder di vista il pallone nemmeno perun attimo.

Finalmente lo recupera, l’ultimorimbalzo spentosi nell’erba alta, oltre la

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metà del pendo. Lo stringe nel pugno efa per portarselo alla bocca.

Per l’ira del patema e della faticata,vorrebbe sbranarlo. Risale, anelante, gliocchi un pò velati, protendendo la manoche saldamente stringe quel bastardopallone che a momenti gli costa 500 lire.

:E: ormai a venti passi dal ciglione eun partitante impaziente gli grida dilanciarlo su.

JOSE, sfiatato, accenna di no.PARTITANTE—E buttalo, Jose!

JOSE (ritrovando il fiato) - E no!Sbaglio a buttarlo e mi tocca rivolar giùcome prima.

Arriva sul ciglione e consegna ilpallone al partitante. Rientrano tutti nel

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gioco. Gli otto giocatori prendonoposizione in campo, gli spettatori, fracui JOSE, Si appostano a filo deglispigoli.

La partita ha inizio. drammatica,quasi feroce. Il pallone è colpito conforza e furore, si stampa sui muri con unsuono di detonazione, i giocatori gli Sibuttano contro a corpo morto, rischianoferite pur di non perdere il punto.Ricacciando il pallone radente al murosi spellano le mani e si spezzano leunghie. Si leccano il sangue ebestemmiano e non per questo sirisparmiano un pò di più. Inseguendo ilpallone, per “finirlo”, nella parteselciata del campo, rischiano di cadere

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sulle pietre vive, quasi affilate, e dirompersi un ginocchio. Ma piùimportante di tutto è il punto.

JOSE assiste per qualche minuto,poi se ne va, troppo soffrendo di nonpoter giocare.

Entra nell’osteria, pur sapendo che1~ l’attende la medesima sofferenza.Infatti quasi tutti i tavoli sono occupatida giocatori a carte. PLACIDO va eviene, portando e riportando vino, birre,gazose e un cestino di caramelle.

JOSE, a fianco di un altro giovanedisoccupato festivo, assiste dall’impiedia una partita a tressette disputata daquattro anziani. Il nero cappello inbilico sul cranio, gli occhi scoloriti, le

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vecchie facce grinzose e cotte dal sole,paiono quattro vecchi capi indiani.Ritale è il modo con cui segnano alcompagno il gioco in loro possesso. Unosucchia un sigaro spento, un altro, inattesa del suo turno, sta incantato, comese alle spalle del compagno fosseapparso Gesù Cristo. Dopo qualcheminuto: PARTITANTE—E noi, Jose?JOSE

- Eh? PARTITANTE—Stiamo solo aguardare? Perché non ci mettiamo agiocare pure noi? JOSE (controvoglia) -A che cosa? PARTITANTE—Al giocoche vuoi. Io direi scopa dell’asso.

JOSE (facendo la faccia disgustata)- Non ne ho una gran voglia.

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PARTITANTE—E mettila. Se no,cosa facciamo fino a scuro? Tanto perammazzare questa porca domenica.Allora, Jose, ci mettiamo? Là c’è untavolo vuoto.

JOSE (cedendo) - E che cigiochiamo? PARTITANTE—Quello chevuoi. Io, direi una birra. E per larivincita, qualcosa che costi quanto unabirra.

JOSE - Bé, due partite ai ventuno.PARTITANTE (rivolto alla cucina)

—Placido? Carte da scopa.Si siedono al tavolo vuoto.

PLACIDO arriva a consegnar le carte.PARTITANTE—Ma con queste si fa

il brodo ! Placido… ! PLACIDO Si

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allontana fra i tavoli, senza degnarsi dirispondere.

JOSE (aggrottato) - Dai, dai, chévanno bene.

Giocano… Gradatamente scema laluce attraverso le finestre. Qualchetavolo s’è già vuotato.

PARTITANTE—Te ne ho vintequattro.

JOSE (brutto) - Hai un culo largocome un ombrello PARTITANTE(ridacchia~

che son forte. Ammet JOSE - Hai unculo più largo d’un ombrello. Solo chiha un culo cos può vincere quattropartite su quattro. Dimmi tu quante volteio ho visto l’asso bello PARTITANTE

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(stufo)—Un’altra volta vincerai tu.JOSE (alzandosi) - Un’altra volta

non mi becchi più A scopa dell’asso nonmi becchi più. Sù, cosa hai preso?PARTITANTE (alzandosi)—Ho giàpreso una birra e ora prendo dodicicaramelle.

Il PARTITANTE si dirige verso laporta della privativa. JOSE attende chePLACIDO

entri dalla cucina. PLACIDO entra.JOSE - Placido…PLACIDO (leggermente) - Hai

perso.JOSE - Si vede, eh? L’altro ha preso

una birra e dodici caramelle. Cosafarebbe in tutto? PLACIDO (guardando

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in fuori)—Te la togli con duecento lire.JOSE - Ora non le ho. Te le darò

domenica.PLACIDO—Ma s.JO SE - Domenica mattina.PLACIDO (abbassando la voce) -

Davide ti tiene a corto, eh? Era giàtremendo vostro padre, ma Davide batteil record.

JOSE - Lascia correre, Placido. Tipago domenica mattina.

PLACIDO—Ma tu credi che tifaccia questo discorso per il miocredito?

Per duecento lire, che vanno evengono? Ti parlo cos perché midispiace vedere i bravi ragazzi messi

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sotto, i fratelli trattati peggio deiservitori.

Non è cos, Jose? JOSE - Le cosecambieranno. (ma lo dice strascicato,senza risolutezza, senza speranza.)PLACIDO - S, ma a patto che tu gli tolgasubito l’abitudine, che tu ti difenda,insomma. Dammi retta, Jose: difenditi.

Ti fa fare un sacco di lavoro e non tene lascia godere nemmeno una briciola.

Ma tu difenditi. Lui non sente labuona ragione? E tu difenditi. Con tutti imezzi. Ogni tanto, Jose, sgraffignagli unmezzo sacco di nocciole, un sacco difarina…

Poi, PLACIDO va a un tavolo digiocatori, senza esserne stato chiamato,

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e lascia JOSE solo e immobile, con sulviso dipinto tutto il disgusto per quellasoluzione.

DIS SOLVENZA “Davide” Davideal mercato (scena di contrasto) DAVIDEha fatto i suoi affari e, mancando un’oraalla partenza della corriera, si dirigeall’osteria. Entra e dà un’occhiatacircolare, mezzo intimidita e mezzocompiaciuta, sulla gente che affolla lasala.

Sono cascinai grandi e piccoli, sononegozianti di bestiame, subagenti dicase, di trattori, di concimi mangimi etc.La pupilla di DAVIDE, dove ilcompiacimento sta prevalendo sullatimidezza, dice quanto l’uomo ambisca,

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e goda, a trovarsi in un “circolo” comequesto. Ecco perché i mercati, ed inmaggior grado le fiere, sono “magnetici”per DAVIDE: la sua aspirazione edevasione, il suo cinema ed il suo teatro,un modo di sentirsi vivo ed importante;veder facce se non nuove almenoinsolite, raccogliere le notizie di tutto ilmondo langhigiano, tener bordone allecolossali risate dei mercanti dibestiame, sentirsi sfiorare ad ognimomento dai floridi fianchi delleservotte delle osterie…

Il despota di casa qui diventa unomino timido e cortese, che vuoleingraziarsi il suo prossimo, che sorridequasi senza tregua.

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La ragazza della mescita gli accennase ed in che vuole esser servito, maDAVIDE

le fa segno che no non ora, decideràpoi lui. Intanto il suo sguardo continua avagare per la sala, alla ricerca deltavolo più interessante; e mentre fa lacernita, ha in bocca un sorriso un pòstolido.

Finalmente si decide per un tavolod’angolo a cui siedono VITTORIO,grande cascinaio, AURELIO, subagentedi una ditta di Murazzano che èconcessionaria esclusiva di prodottichimici per l’agricoltura e un TERZO,coltivatore diretto, anche più anziano diVITTORIO, che non interloquirà mai nel

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dialogo VITTORIO-AURELIO ma locommenterà, quasi ad ogni battuta, condelle risatine gorgoglianti.

Quando DAVIDE si accosta altavolo, accentuando la stolidità del suosorriso, AURELIO ha appena estratto dauna borsa da donna, nera, coi manicimetallici, un buon chilo di manifestinipubblicitari.

DAVIDE—Salute a tutti.VITTORIO (con una certa

degnazione) - Salute.AURELIO (un pò più caldo)—

Salute.DAVIDE non ha smesso il sorriso:

ha preso una sedia per la spalliera maancora non si siede.

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VITTORIO (accennando al cumulodi manifestini prodotti da AURELIO) -La ditta ti ha riempito della solitacartaccia? AURELIO (con pateticaserietà) - Chiamala cartaccia.

Quello che sta scritto qui sopra ètutta roba seria, roba scientifica, scrittada professori…

VITTORIO (respingendo versoAURELIO il mucchio di fogliettini cheAURELIO, al suo modo discretissimo,cerca di far avanzare verso il centro deltavolo)

- Tutta porcheria.AURELIO (con malinconica

sopportazione) - Non dir cos, Vittorio.Questa non è porcheria.

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VITTORIO - Se non è porcheria, ètutta roba che alla terra non fa niente diniente. (Punta l’indice al petto diAURELIO.) Ma fa un gran bene allaMontecatini.

AURELIO - La Montecatini! ? Ma,Vittorio, perché mi tiri in ballo laMontecatini? Io non rappresento mica laMontecatini. Io…

VITTORIO - Nemmeno m’interessasapere che casa rappresenti tu. Io hodetto Montecatini per dire tutte le caseche lavorano nel ramo. E poi, Aurelio senon è zuppa è pan bagnato.

Il TERZO ridacchia. DAVIDEintanto si è seduto e ha allargato il suosorriso un pò stolido.

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AURELIO (malinconico) - Fai male,Vittorio, a parlar cos di prodotti comequesti…

VITTORIO—Aurelio, non mirecitare la lezione. Io te li comperoperché ormai i figli vogliono checomperi quelli e non più altri, e perchéormai la moda è quella. Ma se vuoisapere la mia vera opinione: non hannofatto più niente che valesse ilverderame.

AURELIO (leggermentescandalizzato) - Ma, Vittorio! Ma ilverderame è roba di vent’anni fa!VITTORIO (battendo un pugno sultavolo)—Il verderame!

AURELIO—Ma è roba passata e

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trapassata. Anche tu vent’anni fa venivial mercato a piedi, ma oggigiorno CiVieni in COrriera.

VITTORIO—A me non la conti,Aurelio. Di roba buona come ilverderame non ne hanno fatta più.

AURELIO—Per essere buono erabuono. Ma se oggi ci sono questi altriprodotti vuol dire che il verderameaveva fatto il suo tempo.

VITTORIO—Mica che avesse fattoil suo tempo, caro il mio rappresentante.

E che la Montecatini…AURELIO (chiamando gli altri due a

testimoni)—E dagliela con laMontecatini.

VITTORIO—E che la Montecatini

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ha trovato qualcosa che le rende di piùdel vecchio verderame. Va’ tranquillo,Aurelio, che la Montecatini i suoi contili sa fare.

AURELIO (con triste dignità) - Maio non sono della Montecatini.

VITTORIO—E lasciamo perdere laMontecatini, ché a discutere sullaMontecatini si fa sempre un buconell’acqua come quando si discute sulPadreterno.

Piuttosto, finiamo questa bottiglia.

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IL TERZO - E già finita da un pezzo,Vittorio.

VITTORIO infatti, scrollandola, siavvede che è vuota.

VITTORIO (grida verso la mescita)—Bella ragazza! DAVIDE(protendendosi)

-Lasciate che offra io. Ho proprio

piacere di offrire una bottiglia a questabella compagnia.VITTORIO (asciutto)—Fate pure.AURELIO—Noi ringraziamo.DAVIDE (voltandosi verso la

ragazza che ormai è a metà sala,seccamente): Una bottiglia qui. Buona. Esubito.

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Poi si rigira verso il tavolo,sorridendo stolidamente.

DISSOLVENZA “Davide” Jose sirode ma non scoppia Tardo pomeriggio.JOSE

al lavoro, solo, sull’aia.Sta attingendo una sfilza di secchi

d’acqua per la stalla. In un angolodell’aia la nipotina JOLANDA stapreparando il gioco dellacompravendita. Ha collocato due pietrea giusta distanza e sopra vi haequilibrato un’assicella.

Ora sta facendo mucchietti dighiaietta, un pò più fine, un pò piùgrossa…

Ha preparato anche dei pezzetti di

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giornale per fare i cartocci e disponeanche di qualche botticino vuoto.

JOSE (reggendo due secchi, a metàstrada fra il pozzo e la stalla) - Jolanda?

Non hai la bilancina. E come fai avendere senza bilancina? JOLANDA—Ne faccio a meno, io. E faccio lo stessoil peso giusto.

JO SE—Ma le tue clienti ci stannoalla tua parola ? JOLANDA - S che cistanno, perché sanno che sono onesta.

JOSE ride ed entra nella stanza. Neriesce e ripete il lavoro, all’infinito.

Ogni tanto sogguarda JOLANDA,che ora sta colando terra sabbiosa in unbotticino.

Sul sentiero compare PUCCIO (oltre

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i 40 anni).JOSE - Oh, Puccio.PUCCIO (assorto) - Ciao, Jose.Si vede PALMA apparire alla

finestrella a terreno e risparirne, coscome farà, ripetute volte, durante tuttol’andamento del dialogo JOSE-PUCCIO: sempre rigida,angosciosamente attenta, nera.

JOSE (cordiale) - Venite da noi oandate più a monte? PUCCIO - Da voi,da voi.

JOSE—E allora fatevi avanti.PUCCIO (pare presagire l’assenza

di DAVIDE e si avanza solo di qualchepasso)

-

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Avrei un affare da combinareproprio con voialtri Cogno.

JOSE - Alla buon’ora, Puccio.PUCCIO - Ma tuo fratello Davide

dov’é? JOSE - Davide non c’é.PUCCIO - Cristo! Me lo sentivo.JOSE - i~ andato a Murazzano, al

Consorzio.PUCCIO (pestando i piedi) - E

dunque non tornerà prima di sera. Hofatto la strada per niente.

JOSE (come invitandolo a parlare) -Proprio per nienPUCCIO (reciso) -Digli che avevo un affare da proporgli.A ogni modo non è un affare che scappi.Digli che tornerò domani, e domani sifaccia trovare. (e fa per rigirarsi al

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sentiero).JOSE - Glielo dirò, appena torna,

ma… non potete parlarne un poco conme? Puccio, almeno accennarmelo?PUCCIO (squadrandolo) - Eh? Eh no.Perché spiegartelo a te quando poidebbo rispiegarlo tutto a Davide, che èl’unico che decide? Ti sembra, Jose?JOSE (allargando le braccia) -Solamente accennarmelo.

PUCCIO - Ma no. Magari, se tupotessi decidere. Tua cognata Palmac’é? JOSE

(arrossendo) - Lei c’é.PUCCIO (dopo aver considerato

l’opportunità di anticipar la cosa aPALMA)—Ma no, nemmeno lei…

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Prendi nota, Jose: io torno domani aquest’ora e parliamo tutto in una volta.

Ciao, Jose.JOSE è talmente offeso che

nemmeno risponde al saluto, nemmenosegue con lo sguardo PUCCIO che Siallontana per la strada.

JOSE tiene la testa bassa, non larialzerà per un bel pò. Ha smesso diattingere i secchi d’acqua. Ecco laposizione in cui è precipitato. Ilprossimo la conosce bene; si rivolge alui solamente per sapere se DAVIDE èin casa. Se è via, il prossimo nemmenospreca fiato con lui JOSE.

Va al grosso masso al terminedell’aia verso il rittano e vi si siede di

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schianto. Si rode, visibilmente. Dai motinervosi del suo corpo si direbbe che staper scattare, per esplodere, che vogliaentrare in casa, a lagnarsi, a protestare,a litigare con PALMA.

Ma non lo fa. Resta inchiodato sulmasso, a guardare obliquamente la terracomune, a ricordarsi che pure ha titoli ediritti pari a quelli di DAVIDE, amisurare la sua “perdita di quota”.

Poi gli entrano nelle orecchie leparole di JOLANDA che ha iniziato ilsuo solitario gioco della compravendita.Fa tutto lei, la cliente e la bottegaia, colsemplice passare davanti e dietro ilbanco.

Lo fa con sveltezza e precisione,

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curando tutti i particolari.JOLANDA (da dietro il banco.)

Buongiorno, signora. In che cosa possoservirla?

(Passa davanti al banco.) Mi dia perpiacere un etto di fagiolini e mezzo ettodi conserva. (Ripassa dietro il banco.)Subito, signora. I fagiolini sonofreschissimi. Guardi, signora, come sonobelli verdi. Ecco qua: un etto, conqualcosetta di buon peso. E ora le dò laconserva.

Mi è arrivata proprio ieri. Comedice? Sicuro che è marca Cirio.

Io per la conserva mi servo solo daCirio. Vuole vedere la latta originale?

Gliela mostro con piacere, con

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piacere. Ecco qua: un bel mezzo etto diconserva.

Guardi, signora, com’è bella rossa.Si farebbe mangiare qua sul posto, non èvero, signora? No, no: stia tranquilla cheil cartoccio è ben fatto. Stia tranquilla,signora, che terrà ~no a casa e non c’ènessun pericolo che i fagiolini siperdano per strada. E adesso il conto.Dunque sono: venti lire i fagiolini equindici lire la conserva. Facciamolocon la matita, perché cos a mente non Sisa mai…

JOSE, umiliato ed offeso, non hapotuto fare a meno di star a guardarla esentirla. La bambina è totalmenteassorbita dal gioco, ma potrebbe alzar

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lo sguardo un attimo e vederlo alteratocom’é. Allora JOSE si passaripetutamente ed energicamente le manisulla faccia, per toglierne i segni dellacollera e dell’umiliazione. Basterebbeche girasse le spalle alla bambina, ma ilgioco solitario di lei quasi lo affascina.A un certo punto del monologo diJOLANDA, JOSE non sa se mettersi asorridere o a piangereabbandonatamente.

La ribellione per oggi non ci sarà.JOSE sospira e si rialza per tornare aisecchi.

D I S S O L V E N Z A <~Davide”Jose e Cino Nell’osteria di PLACIDO,fra i tavoli dei giocatori di carte. Il

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pomeriggio festivo è a metà JOSEindividua CINO fra quelli che

assistono all’impiedi a una partita ditressette.

Gli si accosta e lo fa voltare, conuna manata sulle spalle.

JOSE - Ciao, lavoratore del portoCINO - Oh, Jose. Ho saputo che èmancato tuo padre JOSE - E la vita.Cioè, è la morte.

CINO - Me l’ha scritto mia madre, eio ci ho pensato laggiù a Savona.

JOSE (fa un cenno di “sorpasso”) -Quando sei torCINO - Stanotte. Come tiva, Jose~ JOSE - Sai la vita chefacciamo noi quassù. Dimmi di te aSavona.

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UNO DEI GIOCATORI, anziano—Andaste a discorrere da un’altra parte.

CINO (protestando) - Figuriamociche disturbo…

Ma si allontanano da quel tavolo evanno a postarsi presso l’ingresso.

JOSE - Allora, Cino, come ti va aSavona? CINO - E naja, è najadappertutto.

In città tocchi un pò più di soldi,questo s, ma hai appena il tempo ditoccarli. La città come ti dà ti piglia.(Solleva un mignolo e col pollice nedelimita l’unghia.) Non ti fai cos disostanza, in città. Almeno, la gente comenoi. (Crolla ripetutamente la testa.)Insomma, è naja dappertutto, mio caro

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Jose.JOSE— Almeno laggiù avete il

mare.CINO (quasi con violenza) - Il mare!

? Ne ho ~;n qui del mare! (alza la manosinistra e l’incastra, di coltello, fra lelabbra.) JOSE- Possibile? CINO

-Se credi che sollevi, lavorare in

vista del mare.E proprio il contrario. Pensi che il

mare è fatto per le vacanze e bestemmi ildoppio. (vedendo che JOSE estraetabacco e cartine,) Non perder tempo atorchiare. Fuma una di queste. (e glipresenta uno stazzonato pacchetto diChesterfield.) JOSE- Ehilà, fumi

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americano! (prende una sigaretta.) CINO-Sono gli incerti del porto. Ci

arrangiamo tutti, nel porto, a cominciaredalle

guardie di finanza.Sotto gli occhi di CINO JOSE tira un

paio di boccate, apprezzative. JOSE-Quando riparti? CINO— Stasera. Partodi qui alle otto e in un’ora sono in quellaporca Savona.

JOSE- C’è una nuova corriera che cimette cos poco? CINO- Corriera?Adesso io me ne frego della corriera.

Adesso sono indipendente. Ma nont’hanno detto che mi son fatto la moto?JOSE-La moto? Nessuno me l’ha detto.

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CINO- Bé, è appena la secondavolta che arrivo in moto. Vuoi cheandiamo a vederla? E appoggiata almuro di casa mia. Se t’interessavederla… JOSE

(tirando una rapida serie di boccatedalla Chesterfield) - M’interessa s…

Escono dall’osteria e attraversano lalizza del pallone, di corsa e rannicchiati,per non buscarsi pallonate. Uno deigiocatori strepita in protesta contro lafuggevole intrusione dei due.

Arrivano davanti alla casa di CINOe sostano davanti alla moto. E unavecchia B.S.A.

JOSE- Non mi sembra delle nostreCINO - E inglese. Non dirmi che è

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bella.JOSE- Bella non é, ma deve tirare

CINO—Come una mula. Dovrestivederla sulla salita di Montezemolo.Questa la salita se la sbrana come ilpane.

JOSE- L’hai presa di seconda mano.CINO - Di seconda? Di quarta o di

quinta, vorrai dire Ma il motore nonperde un colpo ch’è uno. E m’e costatapoco. Ancora due singhiozzi ed è pagata.

JOSE- Ancora due cosa? CINO -Due singhiozzi. Due rate.

JOSE (ride) - Dite cos in città? Mahai fatto bene a comperarla. Almenoparti e torni quando vuoi, da padrone.

CINO - Vorresti fare un giro~ JOSE-

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Ma tu ne hai voglia? CINO - Per quelche ho da fare qui. E poi, con le motobisogna fare come con le donne: nonparlarne, ma montarle. Andiamo fno alPasso della Bossola.

Monta. Cos la provi in discesa, alpiano e in salita.

JOSE si issa sul sellino posteriore eCINO mette in moto.

Riattraversano la lizza del pallone,sconvolgendo il gioco. Uno deigiocatori, per vendetta, colpisce JOSEsulla schiena con una manata cherimbomba. Si ride.

CINO (imboccando la discesa) -Tienti, forte, che la lancio subito.

Scendono alla fontana e poi, per vari

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tornanti, scendono al piano, si accingonoa varcare il ponte sul Belbo. Per tutto iltragitto un largo, fisso sorriso è stampatosulla faccia di JOSE.

CINO (gridando) - Come va? JOSE-Mi vien voglia di cantare! Di can-ta-re!

CINO—E canta ! JOSE non canta,ma, se possibile, allarga quel suosorriso.

Arrivano al passo della Bossola emettono piede a terra. La solitudine delpasso è perfetta. Tira un’aria che gonfiai lunghi capelli di JOSE, CINO porta icapelli corti un dito.

JOSE- Tira proprio come una mula.CINO - Che ti avevo detto? (accende

una sigaretta, controvento.) Che me ne

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frega della bellez~a della moto? Io hobisogno che morda in salita, cos com’èla strada da Savona a qui. E hai vistocome morde in salita.

JOSE- Dimmi una cosa, Cino.In quel momento transita sul passo

un camion proveniente da Murazzano elo seguono con gli occhi fino a chel’ingoia la prima curva.

CINO - Cosa mi stavi chiedendo?JOSE- Dimmi una cosa, Cino. (consforzo,) Se ne trova del lavoro? CINO—Dove? JOSE- In giro. A Savona, peresempio.

CINO (facendosi serio) - Se ne trovas. Ce n’è in tutti gli angoli, del lavoro.

Certo non bisogna pretendere. Noi

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che veniamo dalla campagna siamobuoni a tutto e a niente. Quindi nondobbiamo mai torcere la bocca.

JOSE- Ah, l siamo d’accordo.CINO - Perché? Vuoi…? (e con una

mano fa il gesto del tagliar la corda. )JOSE

- Te l’ho domandato… tanto perdomandare.

Non è che voglia farlo. Ci penso,questo s. Che almeno possa dire diaverci pensato.

CINO - S, s, ti capisco.JOSE - Capisci? E quasi sicuro che

fra vent’anni io sarò ancora qui, condelle radici profonde dei metri. Mavoglio almeno potermi dire: una volta,

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vent’anni fa, ho pensato di andarmene.CINO- S, s, ti capisco bene.JOSE- E tu… che mi dici ? CINO

(reciso) - Niente. Io non ti dico nien-te.JOSE- Se non mi dai un

orientamento tu, che hai già fattol’esperienza…

CINO - Appunto perché ho fattol’esperienza. Io non mi sento diconsigliare nessuno. Tutto ciò che possodirti è questo: da una parte vai a stare unpò meglio e dall’altra vai a stare moltopeggio. Ma non ti dico: va’ o resta.

Questo proprio non mi sento didirtelo.

JOSE- E va bene. Ma mettiamo cheio mi decida. Ad andare. Faccio tanto

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per parlare.CINo - D pure.JOSE— Tu mi consigli di puntare su

Savona? CINO - No. Niente Liguria.Secondo me, la Liguria quello che hafatto ha fatto. E a Torino che si trovanole grandi possibilità. C’è solo Milanoche offre più possibilità di Torino, ma ètroppo fuori, Milano, dalla nostraportata. Quindi punta dritto su Torino,quando ti deciderai a… a strappare.

JOSE- Torino, eh? Torino. Lo terrò amente. Intanto ti ringrazio, Cino.

CINO (un pò a disagio) - Immaginatiun pò.

JOSE- Non dico che lo farò. Anzi,giurerei che non lo faccio. Ma pensare

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ci voglio pensare.CINO - Si capisce. Ma vuoi che

torniamo? Vorrei dedicare almenomezz’ora a mia madre…

JOSE- Andiamo pure.CINO—… Tutt’oggi le sono stato

insieme soltanto nell’ora di pranzo…JOSE— Torniamo, torniamo.Ridiscendono. JOSE non sorride più

come all’andata. La faccia è tesa, gliocchi sbarrati contro il vento.

“Davide” Il fazzoletto da testaCrepuscolo del giorno festivo. Ungruppo di giovani paesani indugia sottogli ippocastani davanti all’osteria diPLACIDO.

JOSE vede ETTORE sganciarsi

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dalla compagnia e moltoamichevolmente gli taglia la strada.

JOSE (sorridendo) - Dove te ne vai,Ettore? ETTORE (evasivo)—Piglio pergiù.

(e indica la valle di JOSE— Unoche piglia per giù può fermarsi allafontana come può andare fino al ponte diCampetto.

ETTORE - Io vado ben oltre lafontana, ma mi fermo molto prima delponte di Campetto.

JOSE - Non dovresti farli questimisteri con un tuo coscritto.

ETTORE - Già, dimenticavo chesiamo coscritti. Bé, vado fino a unacerta casa lungo Belbo. Non vado dentro

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la casa, eh! Non sono ancora ammattitodel tutto.

Mi ci accosto solamente.JOSE- Capito.ETTORE- Vado a consegnare un

regalo.JOSE- Che regalo? Ti dai a far

regali? ETTORE - Oh, non è il primo eho paura che non sia nemmeno l’ultimo.

Hanno parlato camminando e sonocos giunti all’estremità bassa del paese,all’imbocco della di scesa alla fontanapubblica. Negli occhi di JOSE brilla unacuriosità viva e sana.

JOSE - Cos’é? Un botticino diprofumo? ETTORE— Quello gliel’hogià regalato.

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Anzi, l’avrà già bell’e consumatoJOSE- E questo cos’é? Dillo al tuocoscritto.

ETTORE— Un fazzoletto. (infilauna mano sotto la giacca.) Un fazzolettoda testa. (estrae un involto e mostra unlembo del fazzoletto.) JOSE- bello.

Le piacerà.ETTORE- Dovrebbe.JOSE- Sta’ tranquillo che le piacerà.

E dove l’hai comprato? ETTORE—Almercato di Murazzano, questo venerd.

JOSE (interessatissimo) - E quantol’hai pagato ? ETTORE—Mille. (farisparire l’involto sotto la giacca.)Potevo fumarci per dieci giorni.

JOSE (con tristezza) - Va’

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TRANQUILLO che le piacerà.ETTORE - Speriamo. Ma ‘sto

fazzoletto va a finire su una testatalmente capricciosa che c’è pericoloche non ci resti nemmeno un minuto.

JOSE— Però è bello lo stesso.ETTORE— S, mi sembra d’aver

scelto bene.JOSE - Far dei regali alle ragazze.

Poterli fare. Cos, per il piacere diregalare, per il gusto di presentarsi a unaragazza sapendo che hai qualcosa per leie lei ancora non ne sa niente. Il bellodev’essere proprio in quel minutino chela tieni in sospeso.

ETTORE— Non mi dici niente dinuovo, Jose. Ma non ti credere che ti

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facciano la faccia del miracolo.JOSE- Poter far dei regali. ~almeno

uno. Anche senza metterci dell’interesse,delle intenzioni…

ETTORE- Ma io ce le metto, sai!Dio se ce le metto le intenzioni! Ridono;poi: ETTORE- Ora ti saluto. Vado atentar la sorte.

JOSE- Ciao, Ettore.ETTORE—’Sto FAZZOLETTO

l’hai visto tu solo.JOSE gli fa un cenno di

assicurazione e ETTORE scende versola fontana; dopo qualche passo prende afischiettare “ PIOVE”.

JOSE Io guarda lontanarsi per un pò,quindi si volta per tornare verso

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l’osteria, triste, con le mani infilate ametà nelle tasche.

DISSOLVENZAProgetto per una sceneggiatura

cinematografica [a] Vittorio Taricco (60,faccia cotta dal sole, baffi giallastri) staseduto fuori del bar di Puccio sullapiazza del mercato a Murazzano. Haposato a terra, fra i piedi, le due cestecol marchio impresso a fuoco con cui haportato una quindicina di chili diformaggette a Adolfo Agnello, che è ilpiù grande acquirente di formaggette delpaese. Però non è stato pagato perché gliAgneIlo avevano dato fondo al contantecontenuto nello scrigno che tutti ivenditori di formaggette dell’alta Langa

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ben conoscono. Adolfo Agnello gli harilasciato un biglietto col conto del suocredito e gli ha detto di aspettarlo versomezzogiorno al bar di Puccio: luipasserà in banca a cambiare un assegnoe poi al bar per regolargli Il conto.

Ha ordinato da bere e poi ha un pòingannato il tempo controllando lamoltiplicazione fatta sul foglietto dagliAgnello, ma senza venirne a capo.

“Sono i rotti che mi fregano, - dicefra sé, - i rotti mi confondono… “ Allorarintasca Il foglietto e si mette a guardareil mercato che invade la piazza, al puntoche le ultime bancarelle vengono aurtare contro il déhors del bar di Puccio.Proprio dirimpetto a dove lui siede sta

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un banco, piuttosto imponente, di abitifatti e la padrona, una donna di poco piùdi 40 anni, massiccia e dondolante,inclinandosi spesso sul banco, glimostra un buon tratto di gamba sopra ilginocchio, finoall’orlo del grossoelastico nero che le trattiene le calze dicotone.

Vittorio si immerge in quellacontemplazione, quieto ma concentrato,fino a quando il marito dell’ambulante,un omettino minuscolo, men che la metàdella moglie, con un toracino cheVittorio potrebbe stringere fra le duemani, con l’apparecchio per la sordità,si accorge del maneggio, e fissa Vittorioinsultandolo inaudibilmente, ma

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chiaramente per il movimento dellelabbra, e allora Vittorio gira l’occhio.Ma l’omettino non s’è ancora calmato,ora sta pigliandosela con la moglie, chesi gira verso Vittorio irritatissima, eallora Vittorio sposta il corpo sullasedia e allunga i gomiti sul tavolinocome se volesse disporsi a dormire. Masente ancora la voce sorda e furentedella donna che dice al marito: “Iolavoro, se poi dietro mi si piazza unosporcaccione…” Per fortuna in quelmomento, dal fitto delle bancarelle, anzisollevando un intero sipario di abitifatti, spunta Aurelio Porta, che subito sidirige al tavolo di Vittorio. Si eranoinfatti dato un appuntamento e

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torneranno insieme con la prossimacorriera. Hanno dato appuntamentoanche a Giovanni, che è il nipote diVittorio e il fratello di Livio, ma è moltodifficile che Giovanni venga, è andato alballo che è aperto in fondo alla piazza,verso la parte del Santuario, e di cui sisentono sin l i suoni e i gridi.

Aurelio porta una borsa da donnacoi manici di metallo, nera, piena dasfondare.

Vittorio capisce e dice: - Meriggio tiha riempito della solita cartaccia?

Aurelio è il subagente di Meriggioper la vendita in San Benedetto deiconcimi e delle sementi e degli acupricidi cui è rappresentante e depositario per

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Murazzano.-Chiamala cartaccia, - dice Aurelio

con serietà, quello che è scritto quisopra

è tutta roba seria, roba scientifica -.e trae daIla borsaccia alcuni esemplaridella letteratura di Meriggio:IDROPLAN,ASPOR…

Vittorio degna i foglietti di appenauno sguardo di spregio, anzi con la manovuole spostarli verso l’orlo del tavolino,ma per l’umidità del piano del tavolo ifoglietti restano quasi incollati e lemanacce di Vittorio ci strusciano soprainvano.

- Tutta porcheria, - dice Vittorio.

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- Cosa dici mai? - fa Aurelio, masenza durezza perché dopo tutto Vittorioè uno di quelli che gli comprano piùroba.

- Tutta roba che alla terra non faniente di niente - insiste Vittorio,

- ma che invece fa un gran bene allaMontecatini…

- Ma cosa mi parli dellaMontecatini, - fa allora Aurelio. - Saibene che io e Meriggio nonrappresentiamo la Montecatini. Io eMeriggio… Vittorio interrompe: -Nemmeno m’interessa sapere che cosarappresentate.

Io dico Montecatini per dire tutte leditte che lavorano in questo ramo E poi,

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va’ tranquillo, Aurelio, se non è zuppa èpan bagnato.

Aurelio assume quell’ariamalinconica e mite in cui è specialista edice:

- Fai male, Vittorio, a parlar male diprodotti come questi che…

- Non mi recitare la lezione diMeriggio, - gli dice Vittorio. -

Io te li compero, perché i figlivogliono che compri quelli e non piùaltri, e perché oggi ormai la moda equella. Ma se vuoi sapere la miaopinione, non hanno fatto più niente chevalesse il verderame~ - Ma cosa dici,

-fa Aurelio, quasi scandalizzato, ma

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sempre sommesso. - Il verderame!? Ma il verderame è roba di

vent’anni fa, roba passata. Anche tuvent’anni fa te ne venivi a piedi almercato di Murazzano, ma oggigiorno civieni in corriera.

- E inutile che me la conti, Aurelio, -fa Vittorio.

- Di roba come il verderame non nehanno fatta più.

- Ma se oggi ci sono questi prodotti,- e col dito punta i nomi in grassetto suifoglietti rimasti incollati sull’umido deltavolino, - vuol dire che il verderame hafatto il suo tempo…

—E mica che avesse fatto il suotempo, caro il mio rappresentante, - dice

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Vittorio, - è che la Montecatini hatrovato qualcosa che gli rende di più delverderame. Le costa molto di meno e lovende quasi come il vecchio verderame.Va’ tranquillo, Aurelio, che laMontecatini i suoi conti li sa fare.

- Io non sono della Montecatini, -risponde Aurelio con una sorta dimalinconica dignità.

- Lasciamo perdere la Montecatini, -dice Vittorio, - che a parlare dellaMontecatini si fa sempre un buconell’acqua come quando si parla delPadreterno.

Piuttosto, Aurelio, dammiun’occhiata a questo conto che mi hafatto Adolfo Agnello.

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E estrae dal taschino il bigliettodegli Agnello. Porgendolo a Aurelio glidice:

-Ci sono dei rotti, e i rotti mi

confondono sempre nel totale.Aurelio sguardò il biglietto e poi,

inumidendosi il pollice e l’indice, disse:- Vittorio, dammi un lapis.- E dove vuoi che lo prenda un

lapis? - rispose Vittorio piuttostosdegnosamente.

- Allora, - disse Aurelio restituendoil foglietto, - mi dispiace, ma senza lapisnon so fare il più semplice conto.

- Ma, - disse Aurelio, - cosa vuoicontrollare ora che (hai) già i soldi in

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tasca? - E proprio perché non li hoancora in tasca, - rispose Vittorio,

- che voglio soddisfarmi dellaprecisione del conto. Quando si trattòdel mio turno, la vecchia Agnello mimostrò il fondo di quello scrignorinforzato dove tengono i soldi e percompensarmi della delusione una delle~glie mi fece entrare in cucina a bere ilcaffé. Non che io lo tenga per unparticolare riguardo, perché sappiamotutti che i giorni di mercato gli Agnellofanno andare mezzo chilo di caffé. Ementre bevevo il caffé è passato a voloil giovane Agnello e mi ha detto diaspettarlo qui da Puccio versomezzogiorno. Lui passava in banca a

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incassare un assegno e tornando a casapagava me per primo.

In quel momento si risollevò ilsipario degli abiti fatti e comparveGiovanni.

Aveva circa trent’anni, era nipote diVittorio, era vestito da festa, conparecchi colori nell’abbigliamento, maaveva infilato un fazzoletto candido fracollo e colletto per preservarequest’ultimo dal sudore e i suoi capelliparevano di miele.

Aveva fatto il viaggio da SanBenedetto con Aurelio e con suo zio eper tutto il viaggio aveva cantato lecanzoni dell’ultimo festival di Sanremo,dalla prima all’ultima classificata. La

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corriera si era un pò divisa per colpasua, e chi gli gridava di smetterla e chilo incoraggiava, ma Giovanni prosegu,indifferente agli uni e agli altri. Eravenuto al mercato di Murazzano pervedere una certa motocicletta di secondamano e, sopratutto, per il ballo sotto latorre.

- Da’ un’occhiata qui, Giovanni, - glidisse subito suo zio Vittorio,

- se questo conto quadra, - e gliporse il biglietto degli Agnello.

- Lasciami solo ordinare da bere, -pregò Giovanni e mandando un grido aPuccio ordinò una cocacola.

- Ma come fai a bere quellaporcheria americana? - domandò

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Aurelio.- Bisogna ammettere che non hanno

mai inventato niente di meglio perspegnere la sete, - disse Giovanni.

- Sarà, - disse Aurelio, - ma si vedeche la sete di voi giovani d’adesso èdiversa dalla nostra di allora.

Venne Puccio con la coca-cola eGiovanni ne ingollò mezza d’un fiato.

Aurelio stava a osservarlo e intantodiceva a Vittorio: - Eppure beve comenoialtri. Per dire che prende il vetro e loaccosta alla bocca con la necessità, conla concentrazione, con la religione dinoialtri. Non so se l’hai notato, Vittorio,ma tanti giovani d’adesso bevono tantoper far qualcosa, per non saper che altro

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fare, e lo noti proprio da come prendonoil vetro e lo accostano alla bocca.

Giovanni trasse un lunghissimorespiro e poi sogguardò il biglietto degliAgnello. - Quadra, - disse un secondodopo.

E Vittorio tutto tranquillo ripiegò erintascò il biglietto. Suo nipote era unmago a far di conto, e ci sarebbe statoda restar perplessi, piuttosto, seGiovanni avesse impiegato mezzominuto di più a controllare l’operazione.

- Dimmi un pò, - fece poi Vittorio, -com’è che hai lasciato il ballo cospresto? - Non ti andava l’orchestra? -aggiunse Aurelio.

- Eppure suona bene, a sentirla da

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qui. E c’è un clarino che farebbe ballarei morti.

Per tutta risposta Giovanni fin lacoca-cola.

- Non vuol dirci la verità, - disseVittorio a Aurelio.

- Che verità? - domandò il giovane,ma senza sfida nel tono, quasi conrassegnazione.

- La verità che quella che volevil’hai già trovata “infrizzata” con unaltro,

- spiegò suo zio.- E vero, Giovanni? - fece Aurelio

con molta gravità.Allora Giovanni disse: - Se lo tenga,

e stretto, e ci balli assieme

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~no a buio…Suo zio scuoteva ponderosamente la

testa. - Ma che idea ti eri messo in testa?Che una di Murazzano faccia sul

serio con uno di San Benedetto? - Primadi tutto, - corresse il nipote, - non è diMurazzano, ma di Rea. A Murazzano civiene da Rea come io ci vengo da SanBenedetto.

-Ma è comoda a venirci, - disse

Vittorio, - e scommetto che ci viene unpaio

di volte per settimana. E quindi sisente di Murazzano. Mentre tu ti senti diSan Benedetto. E le ragazze di oggi, secambiano, cambiano in meglio.

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A Murazzano trovi già i marciapiedi,Murazzano d’estate è piena divilleggianti che qualcosa insegnano, odisinsegnano, come vuoi meglio. Evolevi che questa finisse a casa tua,Giovanni, che traversasse quel mare difango che è la tua aia sui suoi tacchi aspillo? Giovanni qui insorse. - I suoitacchi a spillo non ingannano nessuno, -disse. - Gli zoccoli sono il suocalzamento normale. E il fango è il suoelemento naturale. D’autunno e d’estatele aie di Rea non sono gran che megliodelle nostre. E se ne volete una prova, iosono capacissimo di fare una corsettadove so io e vi riporto come prova isuoi zoccoli. I zoccoli li porta vicino

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alle porte di Murazzano, poi li nascondedietro un piloncino e per entrare in

Murazzano si mette i tacchi a spillo.- Guarda, Giovanni, - disse allora

Aurelio, - non c’è nessuna ragioneperché tu non faccia come me. Come meche sono arrivato senza donna acinquant’anni e tirerò avanti cosi per idieci o quindici che mi restano.

- E non è detto che non facciaproprio cos, - disse Giovanniimmensamente triste.

Suo zio Vittorio non disapprovò, maaggiunse: - Imitalo pure, però imitalo intutto, e cioè ripagati sulle donne deglialtri.

- Ma cosa dici mai, Vittorio? - fece

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Aurelio, fingendo un reale turbamento.- Sta’ zitto, sai? - fece Vittorio con

improvvisa durezza. - Non ti provarenemmeno a negare o a protestare! Nonfarmi parlare d’una madia dove t’hannoficcato e dove a momenti crepiasfissiato dal lievito.

- Ma cosa vai a tirar fuori, - disseAurelio, guardando all’ingiro quasicercasse un soccorso esterno.

- Ringrazia che te ti ci hanno tiratofuori, - rise Vittorio. - Perché altrimentieri già bell’e incassato.

Bastava metter sottoterra la madia.- Dio solo sa che cosa dici, Vittorio,

- disse Aurelio, sempre più vittima.- Tanto per mettere le cose a posto, -

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insistette Vittorio, - tanto perché tu nonpassi da santo del paradiso dopo averfatto le tue brave porcherie in terra.

Son cose, queste, che lasciamo chesuccedano solo ai preti. E non per leloro persone, ma in considerazione dellaChiesa.

- Però abbiamo fatto un discorso, -svicolò Aurelio, - giusto o ingiusto chesia, abbiamo fatto un discorso che non èdi nessuna utilità per questo poverofigliolo.

- A me! ? - si riscosse Giovanni. -Non chiamatemi povero figliolo.

- Mente per risolvere il tuoproblema, - specificò Aurelio.

- Io non ho problemi. Quella là, -

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disse, agitando la mano oltre la distesadei tendoni, in direzione della sorgentedella musica, - quella là non si creda dicostituire un problema per me.

- S, s, - fece Aurelio ammiccando aVittorio, noi ti diciamo bravo.

Se c’è una cosa che mi disturbi, chea volte mi faccia ribollire il sangue èproprio vedere un giovanotto valorosodeclinare, anzi deperire per colpa di unagallinella che non ha niente di più e dimeglio di un bel seno rotondo, e che poinon le dura più d’una stagione.

-Già, già, - fece allora Vittorio,

ridendo sommesso e spezzato, - mascommetto

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che passerà un bel pò di tempoprima che risentiamo questo mio nipotefischiare come un merlo come stamattinain corriera, che sulla corriera nessunosapeva più se aveva da battergli le manio da strangolarlo.

Giovanni non replicò niente, erisentiva lo sguardo di Aurelio, troppovicino e comprensivo.

Aurelio disse poi: - E io invece sonsicuro che anche al ritorno fischieraicome un merlo. Fallo vedere a tuo zio,Giovanni, fallo vedere a tutti Giovanniancora non replicò, e Vittorio disse: -Cosa VUOl che faccia vedere? O nont’accorgi che queste note di clarinetto gliarrivano come tante stilettate al cuore?

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Tacquero per un pò, poi Vittoriochiese l’ora. La distesa dei tendoniprecludeva la vista dell’orologio sulfrontale della chiesa del Carmelo.

-Mezzogiorno, - disse Aurelio, dipura divinazione.

- E che aspetta Agnello a farmitoccare i soldi? disse Vittorio, ma senzaimpazienza. - Pare che questa bancadove deve incassare l’assegno siaancora da fondare.

- A proposito di corriera, - disseAurelio, - e a proposito del fischio diGiovanni, - e qui toccò delicatamente ilgomito del giovanotto, - voi forsestamattina non avete notato che a Genioil fischio di Giovanni dava sui nervi…

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- Ah s? - fece Giovanni, in tono disfida.

- Da quando è l’autista della società,- disse Vittorio, - non c’è più niente chenon gli dia sui nervi. Prima, quandolavorava sulla zolla come tutti noi, erasopportabile. Non simpatico, perché ditutta la famiglia non se ne salva uno infatto di simpatia, ma sopportabile. Civuol poco a fare di un uomo di carne edossa un uomo tutto di merda. Per Genioè bastato uno spolverino grigio e unberretto con un gallone.

-Voi forse non avete notato, - ripreseAurelio, - ma io lo tenevo d’occhionello specchietto, e nello specchiettovidi che stringeva la bocca e faceva gli

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occhiacci. Più Giovanni andava alto ditono e più smorfie lui faceva.

-Per lui, - disse Vittorio, - dovremmo

stare in corriera come in chiesa.Veramente, fa meno storie il parroco

per come noi stiamo nella sua chiesa cheGenio per come noi stiamo nella suacorriera. Che poi non è sua, ma dellasocietà. E se poi vuole proprio che noiCl stiamo come in chiesa, non Cl facciapagare il biglietto. Invece che per quelpoco che c’è fra San Benedetto eMurazzano ci fa sborsare cento lire. Equesto è ancora niente. Come se nonbastasse lui, alle volte sale anche suamadre, e per far l’ispezione non è meno

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tremenda di suo figlio. Vorrei propriosapere se a lei il biglietto lo fa pagare.L’ultima volta era seduta di fronte ame… voi sapete com’è Catinina… asettantanni è più piccola di quando neaveva sette, e stava rannicchiata sulsedile come una disgraziata senza gambee senza braccia, e da San Benedetto aMurazzano non fece altro che fissar me,quasi che suo figlio l’avesse datol’incarico di sorvegliare me. Io ognitanto sputavo, come ho fatto sempre edovunque da dieci anni in su, e a ognisputo la vedevo soffrire, quasi che losputo le finisse sulla veste a lei. A unaltro sputo non si trattiene più, e mi fa,con quella voce che ti stringe i nervi

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come una pinza, mi fa: “Vittorio, seproprio non potete fare a meno disputare, sputatevi sulla punta dellevostre scarpe”. Ma quello che vorreiscoprire è se suo figlio le fa pagare ilbiglietto come a tutti nOi.

-i~ meglio che tu non te ne interessi, -

disse Aurelio, - è meglio che tu non civada a fondo. Con Genio non puoi tenereun discorso simile, anzi nessun genere didiscorso. i~ troppo villano, ormai, lacorriera l’ha fatto diventare troppovillano, e anche pericoloso. Ti voglioraccontare una storia per tutte. Capitataproprio a me, e voi sapete che se c’èuno con cui si può discorrere

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tranquillamente, sempre, sono proprioio.

Quest’estate lui arriva dallaBossola. Io mi trovavo per caso davantiall’osteria della Francese. Stavo giàtornandomene a casa, quando sento lacorriera sbuffare per le curve dopo ilponte e mi dico: “E perché non aspettodi veder passare la corriera? “ Cos, permia sfortuna, mi fermo e aspetto lacorriera. C’erano sopra non più di trepersone. Una sola scendeva da noi, edera Pietro Andrana che tornava daDogliani dove era stato dal notaio.

Le altre due persone scendevano aNiella. Una era la sorella del piovano diMadonna dei Piani, quella che noi

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pensavamo che fosse la sua amica e poidovemmo toccar con mano che era suasorella.

- Bella topica che avete fatto, -ricordò Vittorio.

- Già, - ammise Aurelio, abbastanzacontrito, - ma coi preti non sai mai comeregolarti. Potevamo benissimo pensarbene, che fosse sua sorella cioè, e poivenire a scoprire che facevamo beneinvece a pensar male. Ma torniamo aGenio. Anche di bagaglio c’erapochissimo. La posta che Sergio ritiròsubito e sei bottiglie di marsala per laFrancese. Genio, lui s’era buttato sedutosulla panchina, e un pò stranfiava, ecome al solito era sudato marcio. Gli

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nascevano sul collo delle gocce disudore grosse, vi giuro, come acini diuva… Per respirar più profondo tenevala bocca spalancata e metteva tutta inmostra quella dentiera che gli hannofatto gli americani quando l’avevanoloro prigioniero e lui ne va tantoorgoglioso, più orgoglioso che se avessedei diamanti in bocca. Vittorio scattò inalto la testa e ghignò di spregio.

-Bene, - ripigliò Aurelio, - io mi gli

siedo accanto, ma proprio in punta allapanchina. Tu sai, Vittorio, come mi

siedo io, che mi basta un centimetroquadro.

E attacco il discorso, ma nella

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maniera più amichevole e insiemeprudente immaginabile. “ Certo che”,dico a Genio, “giri come questi nonpossono non essere passivi”. Lui mi sirivolta come punto, e piantandomi infaccia i suoi occhi azzurri mi fa “Tu nonte ne interessare! Non è da te venire asapere se sono attivi o passivi”. Io cirestai, non potevo nemmeno sognarmiche mi rispondesse su quel tono. Volliriprovare, semmai mi fossi sbagliato ioo si fosse sbagliato lui, e gli ridico,amichevole e prudente come prima “Nonmi hai mai detto, Genio, né a me né a unaltro com’è formata la societàproprietaria”. “Come?” fa lui, di nuovostralunato. “S”, dico io, sempre

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amichevole e prudente, “non si puòsapere se i proprietari sono due o piùsoci, oppure se appartiene a unafamiglia sola e in questo caso chefamiglia sarebbe…?” Indignato, vuoicredere? scandalizzato si fece! tanto chequasi non riusciva a spiccicare parola.

E io l, fermo, fisso a guardare tuttaquella rivoluzione che gli Si faceva infaccia. Finalmente mi fa: “Senti”, e lavoce quasi gli fischiava, “ficcati unavolta per tutte in testa che non sono coseda te o da quelli che ti somigliano.Sapere com’è formata la società…!”Allora io gli dico, un pò menoamichevole ma sempre prudente: “Ah s?Ma tu allora non hai il giusto

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concetto…” “Che giusto concetto?”m’interrompe lui, proprio perprovocarmi, proprio per farmela diregrossa. “Il giusto concetto che si deveavere dei clienti”, dico io. “Perché noisiamo i clienti della linea, e clientiabituali”. Lui sbuffò. “Per quelle centolire che ci lasciate a settimana!

? Ma lo sai che quelle vostre centolire non ci coprono la spesa deldisinfettante quando vogliamosbarazzare la corriera del puzzo che cilasciate, non ci coprono la spesa delladonna che ramazza il letame che Cllasciate appiccicato? “ E per nonlasciarmi il tempo di ribattere, e stavoltanon sarei stato né amichevole né

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prudente, si alza di scatto e risalta incorriera, sebbene non fossero ancorapassati tutti i cinque minuti della sosta, eper il furore strinse il volante in unmodo che a momenti gli resta in mano.

-Schiavo, - disse piano Vittorio, - uno

schiavo.Ecco quello che è diventato Genio

l’autista. Son tutti della medesima razzaquelli che hanno una livrea addosso. E ilsuo spolverino grigio non è nient’altroche una livrea, e anche il berretto colgallone.

E più son schiavi e meno se neaccorgono e diventano superbi einsolenti.

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E trattano da schiavi noialtri, cheschiavi non siamo e siamo solamentealla mercé del cielo.

- Hai detto bene, Vittorio, - disseAurelio. - Uno schiavo. E proprio quelloche gli direi se gli riparlassi. Ma mi songiurato di non più riparlargli. Da alloranon gli ho più rivolto la parola, ma tuttele volte che lo incontro lo sbircio ditraverso, che sia appiedato o che sia alvolante, e lui capisce. In quel momentosi sent la voce di Agnello che chiedevaa Puccio se e dov’era Vittorio di SanBenedetto.

- E l che mi consuma il tavolino, -disse Puccio rivolto a un sipario discarpe e zoccoli che copriva la figura di

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Agnello.Agnello scostò quel sipario e venne

avanti.Ma intanto Vittorio dava la replica a

Puccio. - E che vuoi che consumi, oPuccio? Cosa vuoi che ordini se sonsenza soldi, se il vostro più grossocommerciante mi fa uscir la lingua apagarmi.

-Piano, piano, Vittorio, - disse duro

Agnello, - io son qui per pagarti.E tu nemmeno per scherzo d che io ti

faccio uscir fuori la lingua per pagarti.- Ma non ti sei accorto che

scherzavo, Agnello? protestò Vittorio.- Io capisco che voi avete scherzato,

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- disse Agnello non meno duro,- ma l’hanno capito quelli che

v’hanno sentito dietro quelle paratie distracci e di zoccoli? O credevate chefossimo nel deserto? Siamo nel pienod’un mercato.

Qualche stupido sente, non avverteche voi scherzavate e lo riporta in girocome una cosa seria. E cos domattina sisa a Clavesana e a Carrù e forse aMondov che gli Agnello fanno tirar lalingua a pagare.

- Ma io ho scherzato, - ripetéVittorio, scaldandosi non tanto controAgnello ma contro le indesideratepossibili conseguenze delle sue parole.

- Vittorio scherzava, signor Agnello,

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- disse Aurelio che non fabbricavaformaggette e pertanto non era in terministretti col commerciante.

- E son pronto a giurare che nessunoha sentito.

--Tirate fuori il mio biglietto,

Vittorio, - disse Agnello rasserenato.-Sono settemilaquattrocentocinquanta,

- disse Vittorio estraendo il bigliettoe in quella Agnello estrasse da sotto

il giubbetto di pelle il malloppo didenari che aveva ritirato dalla banca.Gli stava a stento nella mano, sarannostate trecentomila lire, e i tre di SanBenedetto tennero il fiato e non

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riuscivano a staccarne gli occhi sebbenesapessero che gli conveniva stardistaccati.

Ma Aurelio non seppe tenersi daldire: - E una bella gnoccata di soldi,signor Agnello. Dovete aver ripulito lacassa della banca.

- E s una bella gnoccata, - disseAgnello mentre sfilava i biglietti delconto di Vittorio, - ma venite a vedere acasa nostra, se prima che batta il toccoci rimane un biglietto che è uno.

- Pare, - disse Vittorio palpeggiandoi biglietti, - pare, Agnello, che voi isoldi ce li regaliate. Voglio dire che cipaghiate senza che noi vi abbiamo datola merce.

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- Non è proprio cos, - disse Agnello,- e voi sapete che non è proprio cos,senza che io ve lo confermi. Voi nonsiete gente da pretendere i soldi senzaaver dato la merce.

I - Ma avete la faccia di uno, invece,cui sia andata I sono

delle commessecon la collana al collo e addosso

proprio cos. un profumo che vincel’odore

dei formaggi? - Ho la faccia di uno,- disse severamente Agnello, Respirò

un momento e intanto osservaval’effetto - che a stento a stento riesce afare il giro. La fatica di

della tirata, e il più convinto e domo

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appariva propriodue mercati settimanali, tutti gli altri

giorni su un quell’Aurelio.camioncino a girare due province e

poi, quando fai i Poi, per coronare,aggiunse: - Se non fosse della conti,

vedi che riesci appena appena a fare ilgiro. Ec-presentazione ai clienti, mivedreste vestito come voi,

co, io ho la faccia di uno chefaticando come un moro né meglio

né peggio.riesce appena a fare il giro. I Era un

ometto basso e consumato, un pòasimmeAurelio sorrise di incredulità,ma con estrema mi- I trico, di unaasimmetria che i vestiti cittadini

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accensura. tuavano anziché velare,di età indefinibile, con capelli Ma

Vittorio: - Ah, tu ci hai il tuo bravoguadagno,

bruni devastati dall’alopecia eppuregrondanti di brilAgnello.

Tu non hai soltanto il furgoncino, tuhai an- lantina, con degli occhi molto

scuri sotto le sopracciche la IIOOper andare in gita alla domenica.

Siamo glia troppo folte- Non avesseparlato del luogo, non noi invece

che non ne tocchiamo mai quanto ègiusto.

si avrebbe avutadifficoltàa scambiarlo per un meriNoi non ci

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salviamo nemmeno il costo del bigliettodionale trapiantato, per uno di quei

soldati che si eradellacorriera.no fissati l dopo il ‘43.-Vedetelo infatti com’è vestito, -

disse Aurelio.Vittorio stavada un pezzocon le sopracciglia incro- Sembra un

principe. E voi, signor Agnello, vedete~

ciate, quasi che non avesse ancoraincassato il suo creinvece noi come

siamo vestiti. Idito, ma era per un’altra curiosità

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invece.Era infatti vestito alla cittadina, e

molto costo- !_ Aspetta unpò, - dissead Agnello. - Mi hai parsamente.

Aveva mocassini, calzoni eleganticittadi-lato di Mondov e di Cuneo e haisaltato Torino. Forni, e soprattutto

un magni~co giubbetto mezzo disechenoniobattipiùTorino? lana emezzodi pelle, magnifico, anche se già un

pò - Ma pensate se non batto più Torino,-disse unto. Agnello, un pò

impaziente. - Ma siccome il discorso - E

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credeteche sia vestito cos per mia vanità o

ca- era sulla necessità di presentarsibene ai clienti, parpriccio? - disse

Agnello - Sono vestito cos per me- ~lando di Mondov e Cuneo come città

in cui quella nestiere. Comevoi vi vestite cos per il vostro

mestiere, I cessità è giàimperativa,vi ho lasciato immaginare a cos io

mi vesto da principe, come dice questoqui, per i

voi com’è quella necessità in unTorino che si mangia il mio di mestiere.

Oggi alle due parto col furgoncinocento volte Cuneo e Mondov messe

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insieme.E voi per Mondov e Cuneo. E posso

presentarmi nei bei ne- I invece,Vittorio,avete pensato che io non battessi più

gozi di Mondov e Cuneo vestito comeche sia? Vestito ~

Torino E me l’hai detto in un modocome se volessi dimesso

e sbracciato come a me piacerebbeesser ve- t togliermi la

preferenza,nel vendere le tue formaggetstito?

Quando nei negozi di Mondov e diCuneo ci I

te, se io ti dicevo che avevoabbandonato Torino. E sai cosa ti dico

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io, cosa ti voglio dire, dato che mivendi le formaggette, a mio padre e a meda oltre trent’anni? Che se facessi uncalcolo di puro interesse, miconverrebbe abbandonarlo, Torino.

Aurelio fece una faccia di assolutostupore, quasi di deprecazione.

E Agnello continuò: - Perché se c’èuna piazza dove, quando ti va bene,appena appena giri i soldi, quella èproprio Torino. Torino non t’ingrassa,però ti dà una bella mano di vernice.Uno non è un commerciante di rango senon serve Torino, e voi, Vittorio, me neavete dato la dimostrazione con levostre parole di poco fa. E cos si serveTorino, anche se converrebbe

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abbandonarlo, se si facesse un calcolodi puro interesse. E va bene: quello chenon guadagni in soldi vuol dire chel’acquisisci in vernice.

- Ma tu non sei il fornitoredell’Alleanza Cooperativa? - disseVittorio.

- Già che lo sono, - ammise Agnello,- ma se contassi di lucraresull’Alleanza, starei fresco, stareighiacciato. E vero che con l’Alleanzafaccio un giro di milioni e diversi esvariati. Ma ci salvo s e no la benzina eson tutti affari che poi l’ufficio delleimposte mi calcola come buoni…Insomma, con l’Alleanza io ci rimetto.

- Torino, - disse allora Vittorio, un

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pò trasognato, - Torino oggi è capace difare mezzo milione.

- Ma cosa dici, zio? - fece Giovanni,che riapriva bocca solo allora.

- Torino oggi fa più di un milione, -disse Agnello senza la minima enfasi,anzi con un briciolo di disgusto.

- Più di un milione, - ripeté Vittorio,più incredulo che attonito.

Una sera di metà settimananell’osteria di Placido, nella “sala”dov’è la cabina del posto pubblicotelefonico.

Sono in cinque a una tavola, treanziani, un quarantenne e un quintodell’età di Jose. Hanno giocato, a carte,hanno bevuto e mangiato qualche

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amaretto, hanno fatto conversazione eora tacciono, pesantemente, ognunoassorto in se stesso.

Placido va e viene.Poi, l’anziano Battista dei Moretti

rompe il silenZio.-Che idea, - bofonchia, e sospende.Gli altri paiono riscuotersi e

prestargli una certa attenzione.-Che idea, - riprende Battista, -

prendersi una veneta.Livio, il coetaneo e amico di Jose,

ha un certo scatto. E amico di Jose, loricorda frequentemente, gli ha augurato egli augura sempre buona fortuna.

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Anch’egli sente che dovrebbe farecome Jose, strapparsi alla terra: è anchepiù attrezzato di Jose per l’impresa, hatre patenti, ma non ha ancora trovato ilcoraggio e sente che non lo troverà mai.

Dunque, Livio ha un certo scatto.- Secondo voi, - risponde a Battista,

- nel prendersi la donna si va secondoun’idea? Io dico invece che non èquestione di idea. E una pura questioned’imbattersi.

- Niente affatto, - reagisce il vecchioBattista. - E tutta e solamente unaquestione di idea. Prendimi me. Io hosposato Ernestina. Io mica mi sonoimbattuto in Ernestina. Io avevo l’ideadi Ernestina.

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Livio lascia perdere.Ma l’argomento “veneto” è avviato.- Io, - dice l’altro vecchio,

Demetrio, - io nell’altra guerra avevo unsergente veneto. Nella squadra eravamotutti di noi, ma il sergente era veneto.

- E che tipo era? - domandaBenedetto, il quarantenne, senza verointeresse.

L’anziano Demetrio stringe la boccae crolla la testa.

- Era il tipo che voleva far tutto lui.“Fazo tuto mi”, diceva ogni minuto, mapoi faceva fare tutto da noi-. Ciò detto,Demetrio si richiude in se stesso.

Il terzo vecchio, Carlo Taricco, exscritturale in Comune, non parla mai.

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Ascolta, con gli occhi socchiusi esucchia un mozzicone di sigaro. Unsogghigno gli aleggia costantemente inviso. Ma non parla mai.

Le dieci battono, fuori, al campanile.Ai dieci tocchi prestano una attenzioneche non prestano ai discorsi. Poi: - Jose,- dice Battista, - poteva prendersela quila sposa.

- E invece se l’è presa a Torino, -ribatte Livio.

- E ha fatto benissimo. Visto che aTorino ormai c’è fisso.

- Secondo me, - dice Battista, -faceva meglio a prendersela qui, anchese poi andava a Napoli o magari aTripoli. Almeno sapeva che roba

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prendeva.-Ma anche a Torino, - dice Benedetto,

ma poco convinto, - saprà Jose che robapiglia.In quel momento passa Placido e

dice alla compagnia: - Quella merce l èuguale dappertutto, - dice.

- Bravo te, - dice Demetrio, e poi: -Le donne di città fanno una belladifferenza. Solo capaci di fumare darsiil rossetto e mettersi le calze di seta.

- Ecco, - approva Battista.- Se lo dessero qualche volta anche

le nostre il rossetto, - sospira Benedetto,- le portassero sempre anche le

nostre le calze di seta.

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Si vede che Battista sta facendo unosforzo di memoria. Pare poi averpescato la cosa che cercava e dice: - MaJose, - e si guarda intorno quasi ainvocare il rinforzo mnemonico deglialtri, - Jose non pendeva per Gemmadegli Scaroni ? -

Era Gemma che pendeva per lui, -dice Livio, con tristezza. - Gemma nonIo vedeva nemmeno mezzo.

- Ma a Jose lei non dispiaceva, -dice Demetrio.

- No che non gli dispiaceva, -ammette Livio per conto di Jose.

- Ma si parlavano poco. Siguardavano solo, e a guardarsi sicombina poco.

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- Ecco, - dice Battista, - Gemma erala ragazza che andava per Jose. Nonavrebbe avuto nessuna difficoltà aandare a stare a Torino, e a Torinoavrebbe fatto la sua brava figura.

- Tu, - dice Benedetto, - a Livio, -dici che si guardavano solamente. Ma iouna volta li ho visti entrare insieme nelbosco dei Giani.

- Andavano per funghi, - diceBattista, ma ironico.

- Cosa stiamo a parlare di Jose eGemma, - dice Battista, - se tanto non nehanno fatto niente. Gemma s’è sposata,no? Tutti annuiscono.

- E chi ha preso? - domanda Battista.- Uno della Niella, - risponde Livio,

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- che adesso è ferroviere a Alba. Comeha vinto il concorso l’ha sPosata. L’hovisto l’ultima volta che ho preso il trenoalla stazione di Alba. Era lui che foravai biglietti. Mi venne voglia di chiederglidi Gemma, ma poi non ne feci niente.

Carlo Taricco continua a tacere e asogghignare.

Per quanto roda, il mozzicone nonfinisce. Finalmente parla.

-Le venete, - dice col sogghigno. -

Intendiamoci, io non le conosco, non neho mai vista una, ma so l’opinione chene aveva il medico Odello diMurazzano.

Voi forse non vi ricordate di quando

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io ero ancora in Comune a scrivere…- Noi ce ne ricordiamo, - assicura

Demetrio.- Speriamo, - bisbiglia Benedetto a

Livio, - che non cominci dal 1900. Intutto ciò che racconta comincia sempredal 1900.

- Che opinione aveva il medicoOdello delle venete? - sollecitaDemetrio. Carlo Taricco accenna con lamano di andar piano, di non precipitare.Dice: - Il medico veniva qui daMurazzano per le vaccinazioniobbligatorie. Io gli stavo sempre accantoa scrivere, e lui fra una vaccina e l’altrame ne raccontava di quelle…

- Certo che era una macchia il

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medico Odello, - osserva Battista.- Non si direbbe nemmeno che un

dottore possa essere una macchia simile.Con la mano Carlo Taricco fa segno dinon distrarlo, di lasciare il mazzo inmano a lui.

Prosegue: - Adesso non mi ricordopiù come venimmo nel discorso dellevenete.

Non me lo ricordo proprio più, sonopassati tanti anni. Figuratevi che io sonoin pensione dal ‘3 8 . Però mi ricordo ilpiù importante, e cioè che cosa dicevadelle venete il medicoOdello diMurazzano.

-Bé, che cosa diceva ? - urge

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Benedetto.Placido ripassa e si ferma a sentire

pure lui Taricco fa segno di averpazienza.

-Il medico Odello era uno che di

donne aveva un’esperienza che noi nonci possiamo nemmeno sognare. Bé, dellevenete ù mi ha detto questa. Vi ricordatela faccia che aveva il medico Odello?Quando ne tirava fuori una delle sue,oppure quando stava a sentire pazientele baggianate che gli dicevamo noi,credendo di dirgli chissà che cose seriee importanti. Gli occhi gli si stringevanofino a diventar capocchie di spillo, e inquelle capocchie brillava tutto un fuoco

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di furbizia. E le mascelle gli siriempivano di tante, tantissime rughe chegli franavano, sembrava, tutte sullabocca.

- Ah s, - ammette Demetrio, - ilmedico Odello aveva la faccia furba.

- Io, - dice Taricco, - non ho maivisto una faccia più furba di quella delmedico Odello. E son sicuro di morireprima di vedere una faccia che gli siacompagna in furbizia.

- Ma che diceva il medico Odellodelle venete? chiede Placidodall’impiedi, ammiccando agli altri.

- Questo, - dice Taricco: - Mi hadetto queste precise parole: “Le venete?Hm…

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le venete: o suore o puttane “ .Tutti meditano l’opinione del medico

Odello sulle venete. Taricco è moltosoddisfatto di sé, che ha prodotto tantariflessione.

Poi: - Hm, - fa Battista, - Jose nonsarebbe mica contento di sapere come lapensava il medico Odello sulle venete.

Livio dice~ vangelo quello che diceil medico Odello? Taricco reagisce:

-Mi sembra di averti detto che il

medico Odello aveva delle donneun’esperienza

che noi non possiamo nemmenosognarci.

Livio è urtato, ma non polemizza.

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Prende con impeto il cartoncino degliamaretti e lo sporge alla compagnia: -Sù, finiamo questi amaretti, tanto se nonli finiamo Placido qui ce li conta lostesso.

Placido ritorna in cucina e tuttipescano gli ultimi amaretti.

Poi: - A proposito, - dice Benedetto,- mi viene in mente che l’ultima voltache sono stato al casino a Alba - poi lihanno chiusi dappertutto - sono statoproprio con una veneta.

- Le venete, - ripete sogghignandoTaricco, - o suore o puttane. Non lodiceva il medico Odello? - Come fai asapere che era una veneta? - domandaDemetrio un pò sospettoso.

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- Me lo disse lei, - risponde prontoBenedetto.

- Sapete, si ha tempo di far dueparole prima di…

Solleva la fronte e socchiude gliocchi, per ricordare meglio.

- In bei posti andavi, - commentaPlacido sempre all’impiedi.

- Oh brigante! Se c’eri anche tu! - faBenedetto a Placido.

E Placido con la faccia della presain giro: - Io? Tu ti sbagli. Tu mi scambiper un altro. Io non sono mai andato inquei bei posti.

- Oh lazzarone! - fa Benedetto. - Mase eri tu che guidavi la macchina! AlloraPlacido ride pieno e fa finta di scappare

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in cucina.- Eravamo in sette, - dice Benedetto,

- in sette, senza contare questo briganteche era al volante.

-Mi ricordo, - dice Placidoammettendo tutto, - mi ricordo che percambiare la marcia dovevo scostare unfascio di gambe.

-Dal paese partimmo in sei, -

riprende Benedetto, - ma al ponte diBelbo ci fermammo a caricare EliaGhirardi, Elia Ghirardi che in quellecase non c’era mai stato.

Tutti stanno intenti, persino ilvecchissimo Carlo Taricco nonsogghigna più, non ha più tra i denti il

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mozzicone di sigaro. E Benedettocapisce che può raccontar la storiaintera.

-Mi ricordo, - dice Benedetto,

aggiustandosi gli specchi occhiali, -che per il primo tratto facemmo

andar matto Elia che non c’era mai stato.Lo facemmo spaventare, gli

raccontammo che per entrare bisognavapassare dei controlli, e che nei corridoici stavano anche dei carabinieri, e che ledonne erano cos fatte che chi simostrava timido e esitante perché nonpratico loro lo insultavano a sangue emagari lo graffiavano come tigri. Luicapiva che noi lo tormentavamo apposta,

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che in quei posti non poteva esser coscome dicevamo noi, eppure non potevafar a meno di inquietarsi e stava male.

-Sù, - dice Battista, - nella bottiglia

ce n’è ancora per mezzo bicchiere atesta.

Livio dice: - Bevetevelo voi trevecchi. Fatevene un bicchiere intero voitre vecchi.

-Mi ricordo, - prosegue Benedetto, -

che poi ci mettemmo a cantare.Cantammotutte le canzoni che sapevamo e

smettemmo solo quando dalla collina diRodello vedemmo per la prima volta le

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luci di Alba in quel fosso dove Alba sta.Mi ricordo che tu, Placido, andavi

piuttosto forte e io ti dissi: - Nonabbiamo nessuna necessità di andarforte. Andando forte arriveremo a Albamolto prima delle nove e prima dellenove non puoi entrare, perché fino allenove è piena zeppa di soldati. Convieneentrarci un pò dopo le nove, - e tu,Placido, riducesti la velocità, maciononostante entrammo in Alba che nonerano ancora le otto e mezzo.

Anche Placido ricorda. - Posai lamacchina sulla piazza grande, davanti aquel caffé che c’è all’angolo, dove sitrovano i grandi giocatori di biliardo.

- E per far venir le nove andammo a

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mangiar delle paste nella confetteria chec’è verso la metà della Via Maestra.

- Già l ce ne facemmo per un bel pòdi soldi. Prendemmo anche un liquore. -

Ditemi un pò, ragazzi, - dice CarloTaricco, - quanto v’è venuta a costare lagita? La gita intera? - Non me lo ricordopiù, - risponde Benedetto.

- Ce ne saremo fatti per tremila atesta.

- Tremila, - ripete macchinalmenteCarlo Taricco.

- Com’è che si dice? - fa Placidoironico. - Si vive una volta sola.

- Poi, - riprende Benedetto, - quandosentimmo battere le nove, ce neandammo piano verso quella casa. Si

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passa per delle stradine buie, colselciato un pò sconnesso, e a Eliatremavano le gambe e si teneva stretto ame perché mi riteneva il più pratico.

- Si teneva stretto al buono, - ridePlacido.

- Che cosa vuoi dire? - fa Benedetto.- Voglio dire che se non ero io a

suonare il campanello, nessuno di voisette aveva il coraggio di premerlo.

- Ma va’, che c’ero già stato ventivolte, e diverse volte da solo. L’avròben suonato il campanello, io quando cisono andato da solo. Suoniamo, ciaprono.

Ci apre la maitresse, unavecchiaccia vestita di nero, e Elia

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Ghirardi si sbianca tutto e mi fa “Masono cos brutte?” Lui credeva che glivenissero ad aprire le donne nude.

Placido ride, pieno, ma è il solo aridere.

_ Saliamo, - racconta Benedetto, -tra muri dipinti di rosso e di giallo.

Luciotto dei Bruschi mi dice chequei colori gli danno la nausea, dato chegià le paste alla crema gli erano rimastesullo stomaco. Poi entriamo in unsalottino. Ce n’erano diversi vuoti, sivede che quella sera i maschi di Albanon erano per quello.

Ci accomodiamonel salottino e cidisponiamo ad aspettare. Io dico a Elia:

“Ti rendi conto dove ci troviamo? “

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E lui: “Nel casino di Alba”, mirisponde, con nella voce una specie direligione. Intanto vedo che muoveva lenarici, per annusare intero l’odore dellacasa. E gli dico “Ti piace, Elia,quest’odore.

Confessa che ti piace~>. E lui: “Nonho mai sentito un odore cos buono.

Sai cosa ti dico? Che passerei lavita a annusare questo odore”. E noi tuttia ridere. Quando smettemmo, sentimmola donna che si avvicinava. Il suono deitacchetti nel corridoio e il fruscio dellaseta. Ma riuscimmo appena aintravvederla perché Luciotto deiBruschi, che era seduto il più vicino allaporta, le si avventò, l’abbracciò e la

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trascinò di peso alla sua stanza. ProprioLuciotto che si lamentava di star maleal’o stomaco. La seconda tardò adarrivare e mentre l’aspettavamo ioproposi che la si lasciasse a Elia, che neaveva più diritto e più bisogno di tutti.Finalmente arriva la seconda

- una bruna piccolina rotonda comeuna quaglia, con una boccucciaschizzinosa

- e proprio tu Placido, ti ricordi?battesti una mano sulla spalla a Eliaperché si alzasse. Invece si alzò UgoFresia e passando rimise giù Elia conuna manata sulla spalla e dicendo“Questa è troppo il mio tipo”, se laportò via. Dopo, Elia aveva le lacrime

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agli occhi. Spremeva qualche lacrima eintanto bestemmiava sordo contro Ugoche gli aveva portato via la brunetta. Perfortuna, poco dopo si presenta la terza.Aveva già passato i trent’anni, era alta egrossa, con delle spalle da portarquintali, con una faccia belloccia ebuona.

Ci guardava da sulla porta,tranquilla e buona, disposta ad aspettarla nostra scelta per un quarto d’ora. Maquel bruto di Remo Fazzone dice forte:“Questa ha una… che è un mastello.Forza, Elia, vattici ad annegare”. Elia siera si alzato e noi avevamo ritirato legambe per lasciargli libero il passaggio,ma poi si era fermato incantato e non si

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riscuoteva sebbene noi lo incitassimo elo spingessimo. Allora Remo Fazzone sisporse avanti chino e con la manoallargò la gonna per mettere in mostra lecosce. Elia mormorò trasognato “ Mache gambe bianche! “ e poi avanzò conle mani tese. “Zitti e calmi, ché va”,dicesti tu Placido. E Remo disse alladonna “Signorina, questo è nuovo ditrinca. Ve lo raccomandiamo”. Leiallargò il suo gran braccio e neavviluppò il nostro povero Elia, cheintanto aveva chinato la testa come unpulcino sotto l’ala della chioccia. E cosandarono. Ci fu una pausa. Poi Battistadisse: - Son tutte balle.

- Che cosa? - insorse Benedetto. - Io

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vi ho raccontato la pura verità. Placido ètestimone.

- Non dicevo per quello, - precisòBattista. - Dicevo che son tutte balle lecose che si fanno per le femmine. Tutteballe, e mi mettono addosso una granvoglia di andare a dormire. Proprio, nonc’è niente che mi metta voglia di andarea dormire come i discorsi sulle donne.

Verso le 17,30 Palma arriva allaprivativa di Placido. Il campanellosquilla frenetico, ma passa qualcheminuto prima che la donna senta Placidomuoversi nei recessi della casa.

Palma tiene una borsa di tela neracoi manici di metallo, e dentro unadozzina di uova per il baratto. L’odore

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della privativa è pungentissimo, dà alcervello attraverso le narici. Eestremamente composito e proviene dasalami appesi alla travata, da lattesceme di acciughe sott’olio, da infimabrillantina che cola da un contenitore divetro col rubinetto imperfetto, daitabacchi e dal sale, dalla soda elisciva… Lo stanzone è semibuio,rischiarato dalla luce del tramonto che sidiffonde da dietro il Passo dellaBossola.

Placido entra e riconosce Palmasolo dopo aver girato l’interruttore dellaluce.

-Oh, sei tu, Palma, - dice passando

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dietro il bancone. La sua voce è ironica,sempre, anche quando non è il caso.Palma, più rigida che mai, depone la

borsa spalancata sul bancone.-Qui c’è una dozzina di uova, - dice, -

e tu dammi due chili di riso e il tabaccoe le cartine per Davide.

-Non sarà poi di undici questadozzina, - dice Placido, - perché io viconosco voi donne delle cascinesolitarie.

- Ho piacere che tu le conti, - dicePalma, - cos mi soddisfi del sospettoche io ce ne abbia messe tredici.

- Non c’è pericolo, - dice Placidotrasferendo un uovo dopo l’altro in un

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suo cestino. - i~ più facile che il Signorefaccia la settimana di otto giorni che tu,Palma, la dozzina di tredici.

Lei ha un moto di ribellione. - Tu midovresti rispettare di più, Placido,

-dice. - Come cliente, dico.Con uova o soldi io ti ho sempre

pagato, io non sono mai finita sul tuoquaderno nero, - e addita il quadernonero con matita rossa che pende da unchiodo nello scaffale dietro il bancone.

Placido ha finito di trasferire nelcestino l’intera dozzina. I suoi gesti sonolentissimi e tuttavia go~ e malcerti.

- Siamo al mondo per scherzare,Palma.

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- Siamo al mondo per tutt’altro chescherzare, - dice lei calma. Poi, con unapunta di preghiera: - Cominciassi aservirmi per una parte della miaordinazione.

Ma Placido non se ne dà per inteso,si è appoggiato al bancone con lebraccia rivoltate. La guarda a boccasocchiusa, rivelando il dente centrale,nerissimo e integro fra tutti i suoicompagni bianchi e smozzicati.

Palma si lascia sfuggire un mezzosospiro di rassegnazione: a Placido èdifficile

sfuggire in un qualunque posto,figurarsi nel cuore della sua privativa.

- Per esempio, - dice Placido, - a me

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piacerebbe fare un affare con te, Palma.- Per esempio? - fa lei.- Per esempio, debbo comperare un

agnello e mi piacerebbe fossi tu avendermelo.

L’interesse fa s che la donna stia perun attimo non tutta in guardia.

- Si può fare, - dice. - Noi abbiamoun agnello da venderti. O se mai Davidepuò comprartelo la prima volta cheandrà al mercato a Murazzano. Parlanecon Davide.

- Io non voglio parlarne con Davide,- fa Placido.

- Io l’affare voglio farlo con te.Mettiamoci d’accordo noi due. Io verreisu domani mattina, in un’ora che Davide

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sia sulla langa a zappare. Cos l’affare losi fa tra noi due.

Palma capisce. Dice: - Ma guardache io sono più esosa di Davide. Guardache con Davide spunteresti un prezzopiù buono.

- Io non guardo al prezzo, - rispondePlacido, leggero ma intentissimo.

- Io con te non contratterei.Desidero che tu ci guadagni bene.

Allora, posso venire a vedere l’agnellodomani mattina? Allora la donna salta.Per tutto il dialogo le parole uscite dallabocca di Placido le si sono trasformate,a mezz’aria, in tante mani che lastringono e la palpano da ogni parte.Allora la donna salta.

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-Non venire. Non ti arrischiare a

venire. E non metterti più in testa dicombinare un affare con me Nessunaffare tra me e te, di nessun genere.

Hai capito? L’uomo sorride e ipiccolissimi seni di lei ondano sotto laveste di cotonata nera.

Poi si normalizza un pò. - E adessodammi, per cominciare, il tabacco e lecartine per Davide.

Placido si volta per servire e leiprosegue: - Ma certo che a Davide, eanche a me, converrebbe che mimandasse per tabacco a Niella, anche sedovrei farmi tre chilometri in più. Ma miconverrebbe, a me e a Davide.

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Placido avanza sul bancone ilpacchetto di trinciato e le cartine.

Dice, improvvisamente alterato: - Iovorrei che tutti la pensassero come te. Iovorrei che per tabacco andassero tutti aNiella da questo paese.

Il tabacco è l’ultima cosa su cuivivo. Anzi, sul tabacco alla fin fine cirimetto. Cos avanzerei di fare a finemese la levata in contanti.

Palma ha insaccato nella borsacartine e tabacco.

-E adesso, - dice, - dammi i due chili

di riso e fammi andare.Trascinando i piedi Placido viene

fuori dal bancone.

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Per evitare che lui passando verso isacchi di riso la fuori, retrocede d’unpasso, ma inciampa (e quasi cade) nellarozza riparazione con legno da casse dasapone che Placido ha fattodell’avvallamento dell’impiantito.Palma riprende l’equilibrio, e dicealterata: - Se avessi rifatto l’impiantitocome si deve, invece di inchiodarci dueassetti come si fa con una stia…

-Certo, - fa Placido, - sei stata l l per

cadere, e io mi sarei trovato in una bellaposizione per vedere qualcosa di bello.

Si è arrestato a mezza via verso isacchi di riso.

E lei dice decisa: - Io non credo che

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sia niente di bello…- Lascia giudicare a me, - interrompe

Placido.- Io non credo che sia niente di

bello, - riprende lei risoluta, - ma belloo non bello, tu non lo vedrai.

Mai, Placido. Hai capito? Tu non seivenuto al mondo per vedere il mio bello.

Sarai venuto al mondo per centomilaaltre cose, ma non per vedere il miobello.

Placido passa ai sacchi di riso ebrandisce un piatto fondo.

- Eh, - sospira affondandolo nel riso,- avete un modo di fare, voi donne dellecascine solitarie. Bisognerebbe propriolasciarvi stare…

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- Ecco, lasciarci stare… - calcaPalma.

- … specie uno, - riprende Placido, -uno come me che è tanto sensibileall’inciviltà…

- Sbrigati a versarmi questo riso, omi fai tornare a buio, - dice Palma.

Osserva l’uomo che, come semprelento e malcerto, affonda il piatto nelriso e lo versa sul piattone dellabilancia. Palma è sempre rigida, ma orale affiora un briciolo di prudenza. Infondo Placido è il padrone dellaprivativa, di dove si vende tutto, e…non si sa mai.

Gli dice: - Del resto, tu, Placido, ticonsoli di noialtre con le genovesi e le

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savonesi che vengono su alle feried’agosto. Con quelle ti rifai, losappiamo.

-Eh, le genovesi, - dice Placido, -

certo che vanno bene le genovesi.D’estatevalgono molto più di voialtre. Hanno

del profumo e sotto hanno certi pizzi chevoialtre nemmeno vi sognate…

Si accorge di perdersi dietro larimembranza e di offendereeventualmente in tal modo Palma, e sicorregge, dicendo: - Però, questod’estate. Nelle altre stagioni io nonfaccio distinzioni.

Palma torna rigida. - Non per me, -

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dice. - Ti ripeto che con me è inutile chetu faccia o non faccia distinzioni.

-Eh, - torna a sospirare Placido, -

tutto sommato, ha avuto ragione tuocognato

Jose. Ha avuto buon naso Jose, inmateria di donne.

A lei palpita il lungo collo biancoper l’oscura apprensione.

- Che cosa? - lo interroga. - Checosa stai dicendo di mio cognato Jose?

- Non vorrai dirmi che non lo sapeteancora, tu e Davide? - Che cosadobbiamo sapere io e Davide? - Allargala borsa, - dice Placido e rovesciadentro il piattone della bilancia col riso.

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- Qui nell’osteria se n’è parlatomolto e se n’è parlato ancora.

- Ma di che cosa? Di che cosa cheriguarda mio cognato Jose? - Che si èmesso con una veneta.

- Con una veneta ! ? - Anzi, s’èfidanzato e la sposerà. E cosa che quiormai sappiamo in molti.

Lei cerca invano di dissimularel’agitazione. - Davide non la sa.

-E per forza, - dice Placido. - Davide

è diventato come quelli che stan tappatiin casa come le rane nel fango. D a

Davide che si faccia rivedere all’osteriauna sera s e una no, come tutti i cristiani.Allora lo saprebbe anche lui.

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- E chi è che ha portato questanotizia? - incalza Palma, figgendosi ogniparola in mente per riferire tuttoesattamente a Davide.

- Qui lo sappiamo tutti, - rispondePlacido. - Chi ha portato la notizia è ilsegretario comunale di Niella.

Son di Niella due suoi compagni chealla domenica gli uscivano insieme e poida un pò di tempo non lo vedevano più.Hanno fatto una specie di ricerca e sonvenuti a sapere che la festa la passavaintera con questa veneta e che non erapiù il caso che andassero a invitarlo apassare con loro. E pare che lei gli stiagià insieme.

- Già insieme, - fece Palma. - Prima

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di essere sposati? - Ma che vuoi,- fa Placido, - in città son cose che

fanno ridere ormai. In città è una cosanormalissima.

Palma non sa che aggiungere.Vorrebbe precipitarsi fuori e a casa arelazionare subito (a) Davide, ma latrattiene il pensiero che ci sia dell’altro,che Placido serbi dell’altro. Infatti: -Chi ci ha confermato la cosa è Pippo diPesce, dice Placido. - Sai che Pippo vaa Torino una volta la settimana colcamioncino di quello di Feisoglio?Ebbene lui li ha incontrati per strada,proprio incontrati, e tuo cognato Josegliel’ha presentata la veneta, e gli hadetto “Questa è la mia fidanzata”, e

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gliel’ha detto in lingua.Allora Pippo, e Placido di riflesso,

sapeva com’era questa ragazza veneta:se molto giovane o di età giusta, se altao bassa, se bionda o bruna… Bruciavadalla voglia di sentirsi dire com’era.Invece si contenne strinse ferocemente imanici della borsa e retrocesse d’unpaio di passi.

Disse: - Io non so nemmeno se lodirò a Davide.

E Placido: - E perché non glielovuoi dire? La cosa è sicura, e perchédovrebbe essere una sorpresa solo perlui ? E insistette: - Se domenica vieneall’osteria, qualcuno non mancherà diportargli il discorso proprio l, e tu vuoi

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che ci resti come un pesce? Avete dellestrane teste, voi donne.

E lei, sempre dura: - Fin tanto chenon ce ne informa lui, lui Jose, per noi lacosa non è vera.

Esce e cammina più forte che puòverso la solitaria collina che la primaombra confonde.

Palma tornò di furia, un pò per lanotizia che portava e un pò perrecuperare il ritardo. Davide nontransigeva sui “tempi” delle sue andateal paese.

L’andata, la commissione e ilritorno. Lei non doveva aver rapporti,non fermarsi mai a discorrere, connessuno.

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Anche con la gente più cara, bastavaun cenno, una voce di saluto, senzaminimamente rallentare il passo. Ma maifermarsi a discorrere, con nessuno.

E ciò perché “la lingua delle donnenon può fare che danno”. E, più ingenerale,

“la lingua non ha ossa, ma finisceche le fa rompere, le ossa~>.

In effetti era irritato per il ritardo diPalma. Da quando era partita avevamesso in moto il suo calcolo mentale.Da lontano ne scandiva i passi,infallibilmente. Non era, no, unespediente della gelosia; era il controllodi una obbedienza.

Ora erano già passati sette minuti da

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quando Davide aveva arrestato il suoconteggio mentale e Palma non eraancora in vista. Jolanda era stata con luisull’aia per tutto il tempo, insistendo,malgrado il precipitare della sera, nelsuo solitario gioco di compravendita.Ma dopo un paio di minuti dall’arrestodel suo conteggio mentale lui l’avevarimandata dentro casa. - Sale freddo dalrittano, - le disse, ma in realtà nonvoleva che la bambina sentisse le parolesecche che non poteva non fare conPalma.

Quando finalmente l’avvistòall’uscita dell’ultima curva, si scostòdal seccatoio al limite dell’aia, e avanzòverso il centro, ma solo di qualche

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passo, avaro e stizzoso. E come lei stavauscendo dal portico, preparò la vocegrossa e beffarda che sapeva che Palmaodiava.

- Io potevo crepare dalla voglia difumare, - le disse. Lei si arrestò netta sullastricato e spalancò la borsa.

- Qui c’è il tabacco e qui le cartine,- disse, e stette con la borsa spalancata,che venisse lui, si scomodasse lui avenire a prendersi tabacco e cartine.

- Fumerò dopo cena, - disse lui,ancora senza accostarsi. - Ma quand’èche avrò l’onore di cenare? —E tuttopronto,—rispose Palma. - Come ti siedi,è pronto,

- e intravista Jolanda che

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occhieggiava alla finestra a terreno ledisse di preparar tavola.

Davide si avanzò di un passo. - Conchi ti sei imbattuta? - domandò semprecon la voce che dava sui nervi a Palma.- Con Anna Canonica o con Onorina?Che cosa avevate da cianciare? - Connessuna delle due mi sono imbattuta. Enon ho mai niente da cianciare, connessuno, - e part decisa verso la portinadella cucina.

Entrò e si diede da fare per la cena.Accese la luce proprio quando non fupiù possibile farne a meno, quando suafiglia a un passo di distanza non leappariva più precisa e netta di unospiritello biancastro.

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Cenavano. C’era frittata e unatrancia di formaggetta. Poi unascodellina di crema, solo per Jolanda.

Erano come sepolti, sigillati in casa,ma arrivava ancora qualche rumoreesterno: dei più vicini, qualchesvolazzio di polli nella stia e i buoi chenella stalla menavano la catena esoffiavano. Dei più lontani, il torrente infondo al rittano che suonava alto. Poientrò lo scoppiettio, fra petulante egemente, di una motocicletta che correvasulla cresta dell’ultima collina, in capoal mondo. Il loro orecchio espertissimopoteva dire anche la direzione dellacorsa: andava verso Mombarcaro.

La bambina stette intenta a quel

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rumore remoto, con le posate sospese,fin che si spense, poi disse: - Sonosicura che era lo zio Agostino.

-Potrebbe esser stato lo zio Agostino,

- disse Palma, senza poter reprimere ilcalore di sempre quando parlava del suofratello minore e preferito.

Davide disse: - S, lo zio Agostinoche va a Mombarcaro in moto, aquest’ora di notte, a trovare lamaestrina.

E si aspettava che Palmainterloquisse a difesa del fratello, maPalma non parlò, anche se perl’irritazione le si stirò la faccia.

E allora Davide riprese: - Potrebbe

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avanzare di sprecar soldi in benzina e dicorrere il rischio di rompersi il collo inquelle curve piene di ghiaia traditora.

Farà un buco nell’acqua. Tuo fratelloAgostino la maestrina non l’avrà.

Il figlio di tuo padre.Stavolta Palma non si represse. -

Parli, - disse al suo uomo, - come se miofratello la maestrina non la meritasse,come se lei fosse troppo in alto per lui.Ma a me non pare, sai? come non pare anessuno che conosca mio fratelloAgostino. :~ un buon ragazzo,volenteroso (e tu dovresti saperlo, ché tiha aiutato le due ultime volte cheabbiamo trebbiato) e è anche un belragazzo, un tipo sul fino.

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Davide montò su una facciaestremamente critica.

- Vedi che tu capisci sempre alcontrario? - le disse.

- Io non ho detto che il figlio di tuopadre non la meriti. Io dico che unmatrimonio di questo tipo non può dareuna buona riuscita.

- Tu, mamma… - stava da un pòdicendo Jolanda, ma invano. - Tu,mamma…

Riprese Davide: - Io voglio dire chein un matrimonio di questo tipo cirimetterebbero tutt’e due le famiglie.Lascia che il figlio di tuo padre sposiquella maestrina. Ma poi voglio vederloquando avrà bisogno di lei per farsi

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aiutare nei fieni e nei grani. Vogliovederla lei, ad aiutarlo.

Non è mica stata tanti anni incollegio per aiutare nei grani e nei fieni.Sono ragazze con la testa piena di grilli.C’è più grilli nella testa di unamaestrina che in un campo in una notted’agosto.

Palma disse, molto riflessiva: -Eppure, a noi non dovrebbe dispiacereche nella mia famiglia entrasse unamaestra. Pensa un pò, Davide, comepotrebbe esser utile per Jolanda neglianni prossimi…

-Tu, mamma… - ripeté Jolanda, e

stavolta sua madre le diede retta. - Dici

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che io potrò dare della zia alla maestra?Disse Davide, in fretta, per prevenire larisposta di Palma: - Tu, tu togliti dallatesta di dar della 2ia a una maestra -. Erivolgendosi alla moglie disse: - Torno adirti che queste nozze rovinerebbero ledue famiglie. O forse che il matrimoniofra la maestrina della Lunetta e BeppeCanonica non ha rovinato le duefamiglie?

Questo è un caso di qui, e recente, edovrebbe farti toccar con mano che horagione io.

Palma non obiettò e Davide si tagliòuna fetta di formaggetta, col coltellostretto nella palma della mano. Aveva ledita cos ingrossate e sformate dal lavoro

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che non poteva più farci il minimoaffidamento per i lavoretti di fino.

Biascicando la pasta molle disse: -Due famiglie rovinate. I suoi di leicontavano che lei li aiutasse per lavecchiaia, dopo averla tenuta tanti anniin collegio.

Lui, Beppe, cuoceva il pane, eandandosene con la maestra, i suoihanno dovuto chiudere il forno. Guardache colpo per le due famiglie. Leipoteva benissimo sposarsi con unsegretario comunale dei dintorni erestare a aiutare i SUOI.

Lui poteva sposare una ragazza diqui e restare nel forno. Niente affatto,sono partiti tutt’e due per Torino, e chi si

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è visto si è visto. Due famiglie chepiangono, si può dire.

Palma non ribatté. Posò lo sguardosu Jolanda che con un pezzetto di paneripuliva l’interno della scodellina. - Orasmettila, - le disse. - O non vedi che nonc’è più niente da raschiare? DisseDavide: - Non sgridarla perchéaccompagna.

Incoraggiala, semmai, aaccompagnare.

Poi si versò un ultimo bicchiere divino, poi respinse il pintone verso ilcentro, con un gesto cos definitivo chePalma non ci aveva ancora trovato ilcompagno.

Allora Palma si rizzò come una

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molla, e presa dalla mensola la scatoladel detersivo entrò nel bugigattolodov’era l’acquaio.

Di là disse: - Jolanda, comincia aportarmi le cose da lavare.

Davide intanto si era torchiato unasigaretta e l’aveva accesa.

Nel bugigattolo Palma ci davadentro forsennatamente a rigovernare.Sapeva che da un attimo all’altroDavide avrebbe lasciato cadere la suafrase di sempre: “Sù, non stiamo qui asprecar luce per niente>~, e voleva,assolutamente voleva aver finito primache Davide parlasse.

-Sù, - disse Davide, - non stiamo qui

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a sprecar luce per niente, - e alzatosiusc a dar le ultime boccate sull’aia.

Poi avrebbe chiuso la stalla e infinesarebbe salito per coricarsi, e Palmaavrebbe già dovuto trovarsi in letto.

Sentiva la terra fredda cricchiaresotto i passi di Davide.

Mandò Jolanda a letto, spense laluce abbasso e brancolando sal al pianodi sopra. Passò un attimo a salutar lafiglia e poi entrò in camera loro.

Fuori, Davide stava sbarrandol’uscio della stalla.

Lei s’infilò di furia la sua camiciada notte felpata, il suo unico lusso.

Si cacciò nel letto, che Davide giàsaliva per la scala. A precipizio, non

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riuscendo a concepire la preghieramentale, bisbigliò: - Nostro Signore, fàche domattina Jolanda, Davide ed io cisvegliamo ancora una volta e abbiamouna giornata senza dolori -. Terminògiusto mentre Davide spingeva l’uscio.

Davide si spogliava. Parevaimpossibile che facesse tanto rumore aspogliarsi, pareva non si togliesse vestima parti di scorza. I suoi mutandonibianchi baluginavano nel buio. Poiscostò energicamente la coltre e si stese,mentre il fogliame del secondomaterasso gemeva lungamente.

Si era coricato dandole le spalle.Mandò un suono inarticolato che volevadire buona notte e frusciò la testa sul

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cuscino per incavarlo bene.Allora Palma, stesa diritta e rigida,

come legata per tutto il corpo, con gliocchi al soffitto, disse: - No, Davide,non metterti a dormire.

- Che ti prende? - fece lui senzarigirarsi. - Non ti senti bene? - e nellavoce vibrava tutta l’insofferenza per unaeventuale sofferenza di lei.

- No, no, - disse lei a precipizio, manell’immediato sospetto di non sentirsiappunto bene. - E che in paese mi hannoparlato di tuo fratello Jose.

- Avevo dunque ragione io, - disseDavide. - Dunque con chi ti sei fermataa cianciare? Cosa debbo fare perficcarti in testa che non devi fermarti a

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cianciare, con nessuno? - Senti piuttostoche cosa mi hanno raccontato di tuofratello Jose.

Nemmeno ora lui si era girato. Si eraperò un pò sollevato e stava piantandoun gomito nel cuscino.

-Prima di tutto, - disse, - chi è che te

ne ha parlato? - Placido, -rispose,come con una implicita ammissione

di colpa.Infatti lui sbottò e lei lo toccò col

braccio, per pregarlo di far piano, dinon svegliare Jolanda nella stanzettaaccanto.

-

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Quante volte, - fece lui sordo, - ti hodetto di non dar retta a Placido?

C’è solo da farsi sparlar dietro, adar retta a Placido. Dimmi, quantotempo ti sei trattenuta nella privativa persentire questo discorso? - Mi ha parlatomentre mi serviva di riso e tabacco, -rispose lei alterata. - Immagina i minutiche ci vogliono per servire di riso etabacco e saprai quanto mi son fermata.

Non è per niente un discorso lungo,sai? Davide soffiò ripetute volte, perl’evidente ripugnanza di sentire queldiscorso. - E che discorso sarebbe?

- fece poi.- Dicono che tuo fratello a Torino si

è messo con una donna.

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- Si è messo… fisso? - Fisso. E ladonna è una veneta.

- Una veneta, - ripetéinvolontariamente Davide, e pareva chedicesse abissina o malabarese.

- Dimmi tu, - fece lei, - con unaveneta.

- E Placido come lo sa? - disse poilui d’improvviso, con violenza. - Quellosbruffone, quel porcaccione di Placido?- Parla piano o mi sveglierai Jolanda.

Placido non è mica il solo a saperlo.E uno, dei tanti a saperlo. Lo sannoquasi tutti ormai. Placido dice che dadiverse sere ne parlano all’osteria.

- Manica di poltroni, - fece Davide,- manica di poltroni e sbruffoni e porci.

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La migliore idea che m’è venuta inquesti ultimi tempi è proprio stata quelladi piantare l’osteria. Ora nonconcepisco nemmeno più come facevo asopportare per delle ore quella manicadi… L’unica cosa che un pòm’interessava

-era la televisione. Ma quello di

Placido chiamalo televisore.Ci pioveva sempre dentro e se gli

dicevi di farlo registrare dallospecialista di Dogliani lui si metteva ariderti in faccia… Ma loro, come sonvenuti a saperlo? Palma rifece, comemeglio seppe, la storia del segretariocomunale di Feisoglio, dei compagni di

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Jose che prima gli uscivano insieme ladomenica e poi non l’avevano più visto,e dell’incontro col camionista diFeisoglio che l’aveva imbattutosottobraccio a “lei” e Jose chegliel’aveva presentata, dicendo “Questaè la mia fidanzata”, in italiano.

Davide anfanò un poco, comel’avesse preso un piccolo attaccod’asma. Poi disse:

- Io non ci credo.- Non ci credi, eh? - fece lei, con

tanto sollievo.- Non ci credo. E non perché mio

fratello non abbia anche lui i pendenti, enon perché a dirlo siano stati quelli, chesono una manica di poltroni e sbruffoni.

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Non ci credo.- Neanch’io, - disse lei. - Sai infatti

cosa ho detto a Placido alla fine? Hodetto: “Davide ed io, fin che non è Josea dircelo, non ci crediamo “ . Siaspettava che lui l’approvasse, maDavide si risollevò un poco sui gomitiper dirle: - Ma che sia l’ultima volta cheti fermi a parlare con Placido.

A servirti può e deve metterci nonpiù d’un minuto. E vero che in quelminuto lui può tirar fuori una di quellesue sporche balle, ma tu per un minutopuoi stare con le orecchie turate e colbecco chiuso. Perché la donna che silascia vedere a fermarsi con Placido e adargli retta si fa solo sparlar dietro.

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Perché non ti credere che non ci sia lagente che cronometra quando una donnaentra e quando esce da Placido. Lasorella zoppa di Eugenio non fa altrotutto il giorno, dietro la sua persiana.

E sottraendo di colpo i gomiti alcorpo cadde lungo sul letto e in unattimo non fece più un movimento.

Dunque era lei che si era angosciataper un’ombra.

A Davide non aveva fatto il minimoeffetto, nessunissima impressione.

Quell’effetto e quell’impressioneche a lei, nella privativa, avevano fattotremar le ginocchia, proprio davanti aPlacido: la veneta, la donna misteriosa einimmaginabile che di colpo

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minacciava, anzi rovinava, Jolanda,Davide e lei.

Niente di tutto ciò per Davide E lacosa era tanto più importante, in quantoil suo uomo era straordinariamentesensibile e esatto nei presentimenti.Poteva ricordare una infinità di casi,riguardanti loro e gli altri, in cui ipresentimenti di Davide si eranoavverati, talvolta contro ogniragionevole previsione. Una veracivetta, Davide, riguardo a sé e aglialtri.

Se Davide non si era subitoallarmato, sicuramente non c’erapericolo, e lei era una pazza aangosciarsi per una cosa che aveva

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lasciato Davide indifferente. Lui,Davide - ecco che già russava, con quelsuo suono sommesso ma un pò sinistro -lui non ci aveva addirittura creduto.Eppure era un fatto, del tutto credibile:Jose era un uomo come tutti gli altri, equando pulito e ravviato, persino carino.E il fatto poi che si fosse imbattuto inuna veneta non era poi tanto strano.Bastava pensare a che città era Torino.A Torino imbattersi in una veneta eranormale come per un uomo di SanBenedetto imbattersi in una donna diNiella. Imbattersi, si spiegava Palma,per sposarsi e passare insieme tutta lavita. Eppure Davide a un fatto credibilecome questo non ci aveva creduto.

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Girò gli occhi e fissò la macchiolinagrigiastra che era la nuca del suo uomoper avere una conferma del pensiero chesi era appena addormentato in quellatesta e stava ora invadendo la sua ditesta, senza incontrare la minimaresistenza. E il pensiero era questo:dicendo “Non ci credo” Davide nonaveva voluto significare che noncredeva al fatto in sé e per sé, ma avevainteso dire che non credeva che laveneta sarebbe stata loro di danno e diangoscia.

Precisamente, ecco qual’era stato ilpensiero di Davide, e con un sospiro disollievo - ma quanto amaro, perchéscioglieva una preoccupazione di cui la

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giornata avrebbe potuto benissimo farsenza - la donna scivolò più sotto lecoperte.

Aggancio PALMA ed AMEDEO Sisvegliò di colpo, e Davide non c’era giàpiù. QuaSi non credesse ai SUOI occhi,avanzò una mano a tastare dalla partedell’uomo, già fredda. Uscendo avevalasciato l’uscio a mezzo e dalla fessuraocchieggiava una livida mezzaluce. Ilsilenzio era cos perfetto che le sembròdi cogliere il respiro, un pò greve peruna bambina, di Jolanda nella stanzettaaccanto.

La prese un’agitazione massima chequasi la sbalestrò via dal letto e, unavolta in piedi, quasi le impediva di

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equilibrarsi. Non rammentava di essersialzata, senza una sufficientegiustificazione, dopo suo marito. Ma nondoveva esser gran che dopo le cinque, agiudicare dal grado della luce, e Palmaera maestra nel leggere l’ora nella luce.

Si affrettò abbasso, premendosi fortela faccia, quasi volesse spremerne ilsiero di cui l’aveva gonfiata la malanottata. Accese la stufa, vi posò lacaffettiera, poi depose un bicchiere sullamadia e vi versò un cucchiaino dizucchero. Quindi si stropicciòenergicamente gli occhi e occhieggiònell’aia dalla finestra a terreno.

Eccolo là, seduto sul pietrone, fissoalle pecore che aveva liberate per prime

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e che ora si sparpagliavano per ildeclivio, incontro alla nebbia che eraalle sue ultime e più lente convulsioni.

Eccolo là. Ma come si stavaconsumando il suo uomo! Sul pietrone ilsuo sedere non era più grosso di ungrosso pomo, le spalle eranoscarnificate e rattrappite e nella lanuginesul collo il grigio già prevaleva sulbruno.

Si internò per versare il caffé e poiusc nell’aia verso Davide.

La sentiva venire, anche perchéPalma procedeva rimestando lozucchero nel bicchiere che tintinnava,ma non fece la minima mossa. Lei gliarrivò sopra e gli porse il bicchiere

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caldo da sopra la spalla, sfiorando conessa la guancia dura e smorta comepietra.

Davide ricevette il bicchiere ecominciò a rimestare lo zucchero, ma inuno strano modo, come se zappettassecol cucchiaino il fondo del bicchiere.

-L’ho già girato io, - l’avvisò lei,

inclinandosi leggermente, con le manipuntate forte sulle coscie dure.

Davide continuò un altro pò, e poidisse: - Dovevamo vederci anchequesta, Palma. Mio fratello che Siaccoppia con una veneta.

Lei cap subito. Cap che Davide, dalevato, nella luce del giorno, ci credeva.

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Cap che ora, come lei subito avevacapito d’istinto, ora Davide avvertivachiaramente che la veneta era una nubenera carica di grandine, sospesa sullaloro terra e casa. E Palma rabbrivid, maprima ancora che quel brivido si fosseinteramente scaricato, stirò la faccia inuna smorfia di decisione, decisione diresistere, di lottare, di difendersi.

-Bevilo prima che ti si freddi, - gli

disse dolce come non mai. - E già pocomeglio che acqua sporca.Davide tirò un primo sorso, minimo

di quantità eppure lungo e sibilante, poiriportò il bicchiere giù all’altezza delpetto.

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- Una veneta, - ripeté poi. - Tantovale dire una calabrese o una siciliana.Tu, Palma, fai differenza tra una veneta euna siciliana? - Oh no! - fece leivivamente. - Che differenza si può fare?Per me è la medesima razzaccia nera.

Hai un bel frugare ma le radici nongliele vedi mai.

- Per me, - disse Davideriportandosi il bicchiere alla bocca, -Jose s’è messo con una siciliana.

Nella stalla i buoi, svegli da unpezzo, muggivano perché li uscissero.

- Finisci di bere, - gli disse Palma, eprosegu: - Figurati poi che tipo di donnapuò essere se già gli sta insieme primadi essere sposati.

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- Ah s? - fece Davide con estremalentezza, ma senza rigirarsi a guardarla.Ma una ragnatela di rughe gli avevaistantaneamente ricoperto la fronte.

- Già, - fece Palma tagliente.Davide rovesciò il bicchiere e lo

scuoteva, perché si scolasseperfettamente.

- Ah s, - ripeté poi, ma senza puntadi interrogazione. - Ma questo tu stanottenon me l’avevi detto.

- Io non so più se te l’ho detto o nonte l’ho detto. Bé, te lo dico adesso.

Lui si rizzò lentamente da seduto sulpietrone. - Sei sicura di non esserteloinventato stanotte. Questo te lo sei micaaggiunto in sogno? Tu stanotte non stavi

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bene.- Non me lo sono sognato, - disse

Palma duramente. - Mi rivedo Placidomentre me lo dice. Io, capirai, feci unacerta faccia, e subito Placido mi disseche oggigiorno nella gran città mettersiinsieme prima del matrimonio è comebere un bicchier d’acqua.

- Certo, - disse Davide guardando inalto, - che mio fratello ha imparatopresto gli usi della gran città.

Certo, se la veneta è questo tipo didonna, certo che mio fratello in città s’èfatto intrappolare presto…

- Pensa a vostra madre, - dissePalma, - religiosa com’era…

- Pensiamo a noi! - sibilò Davide

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guardando in terra.Palma inghiott. - Tu pensi… che…

ci può… rovinare? Allora Davide, conestrema lentezza, annu col capo. - Joseno. Jose mai. Ma la veneta s, e anchepresto. La veneta cambia tutto. Con laveneta non saremo mai tranquilli.

- Ma, Davide, - disse Palma, -nemmeno con Jose già non eravamo piùtranquilli,

- e glielo disse con voce quasi rotta,come se lo supplicasse di ricordarsi delrecente passato.

--Nessun confronto! - fece lui a voce

bassa e fischiante. - Nessun confrontocon ieri. Dalla veneta dobbiamo

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aspettarci ogni sorta di cose, con laveneta d’ora in avanti dovremo semprestare come in guerra.

Voltò la testa verso il rittano e nondisse altro.

Ma Palma, orientandosi su lui, videche fissava il vecchio gelso semiseccoche segnava l’esatta metà della terra.

[d] Il giorno della benedizionepasquale. Il parroco viene a benedire lecascine isolate.

PALMA ha ben spazzato l’aia e hainnaffiato il marciapiede davanti allaporta d’ingresso. Ha anche fattoindòssare a JOLANDA la vestina dellafesta. Sulla stufa è pronta la caffettiera esulla tavola è pronta la dozzina di uova

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da regalare al chierichetto col cestino.DAVIDE invece è andato a tagliare

la lupinella sul prato a monte. Falciandoterrà d’occhio il versante e come vedràil parroco lasciare coi chierichetti lacascina degli Andreana, immediatamenteprecedente la sua, verrà a casa.

Inutilmente PALMA cerca dipersuaderlo ad attendere il prete in casa,magari un pò cambiato. Ma DAVIDErisponde: - Il sole asciuga la rugiada ela falce che è […] di ferro, non la tengopiù.

Va sul prato a monte e falcia. Maintanto pensa che la benedizionepasquale gli viene buona per parlare colprete, per chiedergli consiglio. E la

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prima volta che lo fa, e un pò gli costa.Infatti DAVIDE non ha mai mostratocon~denza nei preti, non è mai ricorso alloro magistero e al loro consiglio.

Ciò ha sempre inquietato e intristitosua moglie PALMA, la quale invececrede nei preti. Dice PALMA: “Sono gliunici che insegnano bene, gli unici, anzi,che hanno qualcosa da insegnare. E nonstare a vedere se poi essi stessi nonfanno come predicano. L’importante ènon veder loro come fanno, ma seguirequello che dicono”.

Dopo l’atto della benedizione,DAVIDE Si consiglierà col prete circasuo fratello Jose e la veneta. Mai lofarebbe in paese, mai si farebbe vedere

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in paese a bussare alla canonica.Quando dall’alto vede il prete e i

chierichetti lasciare l’aia degliAndreana, lascia la falce e tagliandodiritto arriva a casa con un certoanticipo sul prete.

Ha sudato e il suo sudore hal’acidità dello zolfo.

-Datti una lavata, - dice Palma, - ché

schizzi puzza di sudore come se avessiuna solforatrice sotto le ascelle.Ma DAVIDE alza le spalle. Dice: -

E solo sudore. Ed è bene che i pretisentano il sudore, già che loropersonalmente non ne mettono.

PALMA è inquieta, teme che

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DAVIDE non si comporti, come leivorrebbe, gentile e devoto nellacircostanza.

Intanto arriva sull’aia il prete colchierichetto col secchiello dell’acquabenedetta e un altro chierichetto colcestino delle offerte. In esso sono uova,un coniglietto vivo e qualche moneta dacento lire.

-Davide, Palma, - dice il parroco, -

sono venuto a benedirvi la casa.E Davide, già col cappellaccio in

mano: - Ecco, bravo, parroco. E me labenedica bene…

- Ma si capisce che te la benedicobene, - obietta il prete.

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- Ma me la benedica particolarmentebene, parroco, quest’anno - insisteDavide,

- perché questa casa è minacciatadagli spiriti malefici.

- Cosa mi dici, Davide, - fa ilparroco, che tuttavia sa a che cosaallude l’uomo.

- Ne parleremo dopo, parroco, dopoche lei avrà dato la benedizione, -risponde Davide e con un gesto classicoporta sul petto il cappellaccio tenuto conle due mani.

Palma e Jolanda piegano ilginocchio. Uno dei chierichetti guarda disottecchi la bambina, l’altro è assorto,forse tende l’orecchio al verso di un

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merlo nel macchione vicino.Amen. La benedizione è data. Il

prete richiude il libro.- Ecco fatto, Davide e Palma. E

andate tranquilli che è stata benbenedetta.

Dice Palma, lisciandosi il grembiulesul grembo: - Io entro a scaldare il caffé.

- Stamattina ne ho già bevuto sette, -dice il prete.

- E non avrete l’animo di dir di no almio, - fa Palma. E rivolta ai chierichetti:- Voialtri entrate a prender le uova.Entrano, chiude la fila Jolanda.

Davide ~fissa intensamente il prete.- Dunque, - fa il prete, - hai qualcosa

da dirmi? Mi sembra che sia la prima

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volta che hai qualcosa da dirmi.- Ha saputo, - fa Davide, - ha saputo

di mio fratello Jose? —Ho saputo chemette su casa.

-- E lei lo chiama metter su casa

accoppiarsi con una…? L’ha anchesaputo che mestiere faceva lei prima? -Ho saputo anche quello, - dice il prete.

- Sarebbe bene che il prete questecose le sapesse per primo. Invece l’hosaputo dopo che la cosa aveva già fattoil giro delle due osterie.

- E io, - fa Davide, - io che sono suofratello, io l’ho saputo l’ultimo degliultimi -. Sbircia verso la finestra dellacucina, e decide di parlare più basso.

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- una che fa la vita, - riprende, - operlomeno la faceva. Ora avrà smesso.

Perché mio fratello è coglione, manon sfruttatore. Jose è troppo coglioneper essere sfruttatore, questo lo possogarantire.

- Ah certo, - dice il prete, - Jose eraun buon ragazzo.

- Ma non si può mai dire che cosadiventa uno che passa alla città.

- La città, - sospira il prete. -Bisogna tenersi alla terra, Davide. Ealla Chiesa…

- Vanno in città e si dimenticano ditutto, - dice Davide. - Eh s, perché miofratello, mettendosi con una che facevala vita, non si è forse dimenticato di

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tutto? Di sua madre - lei ricorda come lapensava nostra madre -di me, di Palma eanche di Jolanda? - E sai quando sisposano? -

10non so niente di niente, - risponde

Davide, - ma il cuore mi dice che perl’autunno sono sposati.

Anche la mia Palma se lo sente.-E tu che ci vorresti fare? Che ci puoi

fare, tu? Impedirlo? Davide è assorbitoda un suo particolare pensiero e non

risponde.Insiste il prete: - Jose è fuori tutela.

E poi, come si può da San Benedettoimpedire una cosa che succederà a

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Torino? - Io me ne strafrego di quelloche succederà a Torino, - rispondeDavide. - Ma non me ne frego deiriflessi che questa cosa avrà qui, sullamia casa. Mi capisce, parroco? - Pensaun pò se non ti capisco, - risponde ilparroco.

- E allora? - fa Davide.- Allora cosa? - Cosa ne dice lei, lei

che ha studiato? - Io che ho studiato,- dice stanco il prete, - io che ho

studiato. Voialtri ne combinate tante, unaogni giorno, che è impossibile che ci sitrovino già tutte nei libri. E poi noncredere che io ne abbia studiati tanti dilibri.

In quel momento Palma appare nel

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riquadro della finestra e avvisa che ilcaffé è nei bicchieri.

- Parliamone ancora poi, - bisbigliaDavide mentre si avvia. - Loaccompagno io per un pezzetto. Deveancora andare a benedire dai Buschi?Entrano e bevono il caffé,lentissimamente. Il parroco porta ildiscorso su Jolanda.

- Io spero, - dice Palma, - che prestopossa darle una mano nella dottrina. Secontinua come ora, che sa tutta ladottrina a memoria.

- E perché non deve continuare comeora? - fa il parroco.

- Sa, - fa Palma, cercando con gliocchi l’approvazione negli occhi di

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Davide,- sa, vediamo tante cose cambiare…- Ma qui non c’è pericolo, - dice il

parroco. Conferma Davide: - S, qui nonc’è pericolo.

- E poi, - riprende Palma, - speroche potrà darle una mano, negli anni,anche nell’Azione Cattolica.

- Oh s, - fa il prete, - abbiamo tantobisogno di ragazze come Jolanda, comediventerà Jolanda.

Jolanda sta sempre zitta, durantetutto il dialogo, sta letteralmente appesaalla sottana di sua madre.

E finito, riescono: i due chierichettiimpazienti sono già al limite dell’aia.

-

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Lo accompagno io il reverendo, -dice Davide a Palma.

Palma capisce che per la prima voltanella sua vita il suo uomo si confida conun prete, ne ricerca il consiglio. Ne èsoddisfatta per principio, ma ancheangosciata: le cose sono a un bel punto,se Davide consulta il prete.

-Voialtri aspettatemi alla curva del

pilone, - ordina il prete ai duechierichetti.

Un minuto prima di riprendere ildiscorso. Davide si è messo una manosulla bocca, quasi se l’avvita sullelabbra e quando lascia andare le suelabbra schioccano.

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Parla il prete per primo, è lui che siriallaccia.

-Cosa vuoi che ti dica, Davide, -

dice, - Io capisco che il sangue ti dà ungiro, capisco che il tuo nome ne patisce,ma non puoi fare proprio niente perimpedirlo.

-Ma io non dico di impedirglielo, -

quasi grida Davide. - Vuole sposare unadella vita? Ma per me può sposare unintero bordello, se quella è la suavocazione…

11prete fa una smorfia, non gli è andato

che Davide abbia usato la parola

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“vocazione”, anche se nellafattispecie è una parola niente affattosbagliata.

- Veniamo al punto, - dice Davidestringendo i pugni.

- Ecco, al punto.- Lei sa bene che Jose qui ha la sua

parte. Può volere che io gliela liquidi.- Te l’ha già chiesto, eh? - dice il

parroco.- Non stiamo a vedere, - risponde

Davide. - Può volere che io glielaliquidi.

Ormai a lui la terra non interessa piùper quello che é, ma solo per quello chevale. Lui tanto sta a Torino e ci starà pertutta la vita.

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- Non si può mai dire, - fece ilparroco, ma tanto per dire.

- Ma si figuri, - fa Davide. - Non sisarebbe mai potuto dire, fin che fosserimasto solo. Uno da solo può pensare eripensare tante cose, può disporre comevuole e in qualsiasi momento. Maadesso non è più solo, adesso ci ha laveneta.

Chi crede che comanderà, anzi, checomanda già fin d’ora? Glielo dico io,la veneta. E la veneta lo terrà a Torino,inchiodato, fin che Cl crepa.

-Può darsi, - disse il parroco.Davide si arrabbiò. - Lo terrà in

città fin che crepa.

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Figuriamoci se una che è giàscappata dal Veneto e ha assaggiato lagran città, è disposta a lasciarsiriportare in una landa come questa.

Parlavano da un pò al limitedell’aia.

-Andiamo avanti un pezzo, Davide, -

disse il prete. - Non voglio perder divista quei due manenti. Loro non sannomica che hanno la cotta addosso, sisaranno già messi a cercar nidi.

Uscirono per la stradina a monte.-Ora, - riprese Davide, come un

avvocato. - Ora.Io Jose non lo liquido. Jose avrà un

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bel venire alla carica. Io gli dirò no,sempre di no, e Jose al mio no ci sta.Digrignerà i denti, ma ci sta. Ci staperché liquidarlo vuol dire rovinarmi.Me e Palma e soprattutto Jolanda. Lui losa e ci starà. Io ce lo farò stare. Maadesso c’è quell’altra, adesso c’entraquella. Basta quella, la veneta, percambiare tutto. E mi fa paura. Quellavorrà realizzare la terra, aver nelle ditain forma di soldi la parte di Jose, glidirà che hanno bisogno di questo e diquello e che è da stupidi privarsi quandoc’è il mezzo di trovare i soldi per avertutto quello che gli bisogna.

-Ah s, s, hai ragione, - dice il prete. -

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Qui hai proprio ragione.Con la mentalità che hanno in città.Non rispettano mica più niente.

Pensano solo più alle loro comodità, esoddisfatta una comodità, già pensano acome procurarsi la prossima.

Non rispettano nemmeno più lememorie dei vecchi. Voglio dire che sehanno bisogno di farsi il frigo,venderebbero…

che so?… il canterano su cui siinginocchiava tua madre a pregare.

Non rispettano più nemmeno lememorie dei vecchi.

-Io con Jose, - riprende Davide, -

sono sicuro di spuntarla, sempre di

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spuntarla. Ma con lei? Se ci si ficca lei?E una veneta. Mi dicono che le venetehanno una lingua di ferro, e seaggiungiamo la faccia di bronzo cheindubbiamente le ha dato il bel mestiereche faceva… E se quella me lo aizza,me lo monta, me lo scalda? Ma che dicose. Quella lo fa, lo fa già da un pezzo. Iome lo sento, anche la mia Palma se losente. “Fatti liquidare, fatti dare la tuaparte, dagli l’ultimatum…” Io me losento.

Gli dà l’assalto tutte le mattinequando esce per il lavoro e tutte le serequando ne torna. E Jose cede.Figuriamoci se Jose non cede. Ha cedutoa sposarla, sporca, lurida com’é.

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Figuriamoci se non le cede sul fattodella parte, della liquidazione.

E un giorno o l’altro, ancora diquest’anno—io me lo sento - si faràportare qui. Un giorno di festa. Pensi chegiorno di festa sarà per me. Arriverà quisulla nostra terra, a posarci gli occhi suquanto è lunga e larga, a piantarci i suoitacchetti. Verrà lei, di persona, e - io melo sento - sarà lei a battagliare, a litigarecon me.

-Eh, - sospirò il prete. - Tu te

l’aspetti, eh? Tu ci pensi sempre, eh? -Giorno e notte. E anche Palma. Giorno enotte E un cruccio che mi ammazza assaipiù che il lavoro che ora debbo fare da

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solo. Siamo a un punto che io e Palmanon ne parliamo nemmeno più. Ciguardiamo solo più negli occhi e negliocchi misuriamo la nostra condiZiOne,Ci pigliamo l’uno a specchio dell’altra.

- Pensa un pò se non ti capisco, -disse il prete.

- Ed eccoci al punto, - disse Davidetornando a una feroce concentrazione.

- Secondo lei - lei che ha studiato,lei che confessa il mondo - io possoimpedirle di entrare? Il parroco applicòla mano su una gota, per megliomeditare.

- Ecco il punto, - riparlava Davide. -Io non ho nessuna intenzione di lasciarlaentrare. Lei, la veneta la bagascia. E non

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dico dentro la casa, ma nemmeno-sull’aia.Si fermi sulla strada, e tanto meglio

per lei se si terrà al riparo di una siepe,che io non la veda.

- E Jose? - Jose? - ripeté Davide. -Ah lui s, lui entra. E casa sua, è miofratello. Lui s.

- E se pretenderà di portarci anchelei? Può pretenderlo? Tu che avrestidetto, o fatto a Jose, se non t’avesselasciato portare in casa Palma? - E lei,proprio lei mi confronta Palma conquella…? - No, - precisò il prete. -Facevo per dire. Per stabilire ilprincipio del diritto, non per fare

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confronti che sono impossibili eimpensabili.

Avevano fatto un passo ogni frase eora erano nell’ombra del vecchiopiloncino, con la ~gura quasi cancellatadalle intemperie. I due chierichetti eranolontani~ ma in vista, non si annoiavano,giocavano, posati secchiello e canestrosul bordo della strada.

- Allora? - rifece Davide con unaansia feroce.

- Cosa vuoi che ti dica? - disse ilparroco. - Non è carità cristiana, questoè sicuro. C’è in proposito la storia diGesù e di Maria Maddalena… Davidela ricordava vagamente, la storia diMaria Maddalena. Disse: - Maria

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Maddalena era una lurida come laveneta ? il parroco accennò col viso ches, forse anche di più.

Ma Davide disse: - Lasciamoperdere il Vangelo.

Restiamo nella vita.-A parte ogni altra considerazione, -

riprese Davide, - a parte anche ladifferenza per interesse, quella donnanon ha nessun diritto di avvicinarsi aPalma. E se entra, se io ho la debolezzadi lasciarla entrare, Palma dovràsorriderle, dovrà parlarle, magari farleun complimento, toccarle la mano. E leisa come è Palma, nessuno meglio di leisa com’è sempre vissuta Palma. E

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sarebbe addirittura prendere in giro tuttala sua vita. E Jolanda!

-si infervorava Davide. - Non

potremo nascondergliela. Lei sapràbenissimo che la abbiamo. Jose glieneavrà parlato. Jose, sia detto a suomerito, ne parlava con tutti della suanipotina. Non potremo nascondergliela.E quella la vorrà toccare - con quellemani - accarezzare, baciare - con quellabocca!

-E dovremo averla a pranzo. E

magari si metterà seduta al posto che eradi nostra madre! [e] Palma tornava dauna visita a casa sua in frazione Lunetta.

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Sua madre le aveva regalato mille lireper lei, dal suo peculio privato, e perJolanda, che allora aveva tre anni, unamezza dozzina di caramelle che tenevanella sua zuccheriera personale, centovolte rottasi e cento volte rappezzata concerotto e margine di francobolli.

Il grande temporale la sorprese pocoprima di metà via. Fu subitoterrorizzante, con un fulminiostraordinario, tutto il versante diMombarcaro annerato dalla unicagigantesca nube nera gravida di diluvio,e invece i lontani declivi di SanBenedetto ed oltre ancora bagnati dalsole con una luce dorata ma giàattossicata.

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Palma aveva appena messo piede inun grande castagneto e, consapevole delmaggior pericolo del fulmine sotto glialberi, volentieri sarebbe riuscitaall’indietro dal castagneto, se nonl’avesse atterrita la violenza dellapioggia che sforzava i rami e, sotto,sconquassava le felci. L’acqua enormeraccoltasi in pochi minuti già ruscellavae lei dovette abbandonare il sentiero,diventato troppo scivoloso per noncaderCi ormai ad ogni passo. E lei nonpoteva assolutamente concepire diinfangare il suo vestito nuovo di satinnero, che tuttavia la pioggia che sforzavale cupole dei castagni le incollavaaddosso. Era ormai cos attillata che era

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ormai come nuda, perfettamentedisegnati i piccoli seni troppo alti e colcapezzolo troppo grosso, le natichepiccole ma tonde, con un che di petreoin esse, e perfettamente disegnato ancheil dolce e poco pronunziato alveo delpube. Spaventata com’era dal temporalee dal saettio, dalla terra già cosscivolosa che ogni caduta su essa potevaapparire mortale, sperava tuttavia di nonincontrare nessuno, e correva e sbalzavafra l’erba alta, fradicia eppure ancoraferente. Certo i polpacci lesanguinavano in più punti, dalle feritelunghe e pungenti dell’erba.

Era verso la metà del castagneto,quando intravvide dietro il velario della

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pioggia che nella radura piombavalibera e concreta, il vecchio seccatoioabbandonato…

Ci si diresse con un ultimo scatto, ful per cadere sulle ginocchia davantiall’uscio sgangherato e fesso…

Entrò piegata in due eimmediatamente si voltò a premere contutte le sue forze contro l’uscio, quasivolesse inchiavardarlo. Poi tiròripetutamente il fiato e infine si voltò aesaminare l’interno del seccatoio.

C’era, in un angolo, Amedeo ilnorcino, cos alto che con la testasfiorava il tetto affumicato delseccatoio, magro come se fosse tuttofatto di cannucce e fil di ferro, appena

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appena bagnato sul petto e sulle spalle,con le dita, non le mani, introdotte nelletasche dei calzoni, con la boccapremuta, e gli occhi che sorridevano,ceruli, sotto le sopracciglie rossicce.

La sua testa era cos piccola chePalma avrebbe potuto raccoglierlacomoda in una sua mano, non ci fossestato l’impedimento del naso, grosso eaffilatissimo, come un vomere.

Amedeo non fece niente, solo acu ilsorriso degli occhi azzurri, equalcos’altro fece, ma internamente,quasi certamente, Palma non nedubitava, per il fuggevole rilievo sullegote scarne, si passò la lingua in bocca.

Amedeo era uno del paese, ma

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Palma non lo conosceva che di vista epiù di nome, per la sua professioneunica di norcino, ma non meglio, eperché Amedeo abitava in un cascinottolungo la più perduta riva di Belbo,lontanissimo quindi dalla sua casa dicresta, e perché Davide non l’aveva maichiamato ad accomodargli il porco,Davide sapendolo fare lui abbastanzabene.

Non poteva dire se era il residuodello spavento per il grande temporale ol’apparizione muta di quell’uomo, macerto era presa, invasata daun’agitazione di un intensità maiprovata. Le ginocchia stavano percederle, le labbra sbattevano

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meccanicamente l’una contro l’altra e leisi portava di continuo le mani alletempie. Cominciò a parlare, a parlareall’uomo, balbettando nelle parole masenza staccare una frase dall’altra, comeuna cascata…

-Che temporale chi l’avrebbe detto

con quel sole che scottava invece tuttonero

di colpo io tornavo da casa mia allaLunetta conoscete i miei della Lunetta?

in un minuto è scesa più acqua che inuna notte di pioggia normale chissà lamia piccola figlia a casa che paura contutti questi fulmini… fortuna che i granison già tagliati e ritirati voi eravate fuori

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per cosa… ? …Sent che le gambe le si scioglievano

e un attimo prima di inginocchiarsi siprotese verso una traversa bassa dilegno dove avrebbe potuto sedersi. Cosfacendo si mise alla portata delle manidell’uomo che finalmente socchiuse lelabbra, ma solo per emetterne un soffiodi liberazione, e con le due mani,leggere ma destre, la spostò da quellaspecie di sedile e la depose sedutasull’umido strato di antiche foglie dicastagno Poi, con un colpetto leggerosulla spalla la mandò lunga e distesa. Elei ci restò, senza una reazione, senzasollevarsi minimamente sulle spalle,senza riunire strette le gambe, senza

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nemmeno serrare completamente gliocchi. Il temporale le rombava nelleorecchie e una fettina di cielo attraversouno sfregio del tetto era completamentenero.

Amedeo le si era accosciatoaccanto, e ora lavorava svelto e calmocon le due mani. Con la sinistra siscingeva e sbottonava e con la destra learrotolava la veste all’insù, a trattini, acolpetti, e la stoffa si staccava dallacarne di Palma come la cartavelina daintorno a una caramella umidiccia.

Lei lasciava fare, e quando Amedeosi sent ostacolato nell’operazione dalpeso della coscia che premeva le foglie,gli bastò darle un buffetto sotto il

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ginocchio e lei sollevò la coscia diquanto bastava. Aveva la boccaspalancata per lo stupore, che le sivedevano tutte le gengive, e non leriusciva di serrare gli occhi, cosicchéalzò una mano di contro, quasi chel’uomo emettesse una luce abbagliante.

Poi Amedeo bisbigliò - E proprio unbel campo fiorito, - e lei, anche per ilfresco al pube, sent che le avevascoperto le mutandine, che avevaricavato dalla stoffa di una vecchiatenda fiorata.

Ora le si era inginocchiato di fronte,centralissimo, e coi soliti suoi colpettileggeri e destri, irresistibili, lecorreggeva la posizione, se

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l’acconciava, le faceva accrescere laflessione delle gambe, l’apriva…

E come sent il coso che la puntava,la bussava, Palma disse: - Io, io…

- Parla, parla, - ghignò Amedeo.- Sono una porca, - disse estatica

Palma.- S dillo, dillo, ché ti fa bene.- Mia cara bambina, - diceva

Amedeo, - sai che potrei esserti padre?cara la mia bambina, vedi come ti trattobene, come te lo faccio dolce? Iltemporale stava spostandosi, rotolavaoltre San Benedetto, su Bossolasco eSerravalle, e attraverso lo sfregio deltetto il cielo appariva un pò schiarito.

Ma la pioggia persisteva, regolare e

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pesante, e sotto di essa le larghe fogliedavano un suono non più di lacerazionema di schiaffo.

Palma si inarcò seduta e si ficcò trale gambe le falde della veste nera.

Il biglietto da mille che sua madre leaveva regalato e che lei si era infilatofra i seni a forza di frizioni e sussulti erarisalito e ora faceva capolino dallascollatura.

Lei dondolava la testa,interminabilmente, a riconoscere unostupore del quale non si sarebbe mai,mai, capacitata. Aveva le pupille tutteintorbidite e onde su onde continuavanoa partirle dal cervello e a diramarlesisino ai piedi, che ribollivano.

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Le arrivava il suono - ora ronzio orarotolio - delle parole di Amedeo che,alto in piedi, già quasi rassettato, moltoprossimo all’uscio, ora parlava, senzastacco, babbingly, come lei prima.

Poi Palma cessò di dimenare latesta, le pupille le si ripulirono, vide dilato un mucchietto di pietre cadute dauna frana nel muro. Una ce n’era fra tutteche la affascinava, cos ben formata egreve, fatta apposta per volare a spaccarla fronte dell’uomo.

Ma non poteva protendercisi, nonpoteva nemmeno far forza sulle reni:quell’uomo di quasi cinquant’annil’aveva davvero inchiodata.

Lui s’era già quasi tutto tirato fuori

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dell’uscio, e la pioggia pesante glifaceva risonare la schiena. E continuavaa parlare filato come prima, senzapause, con la differenza che ora Palmalo intendeva.

-Sta’ tranquilla che io non parlerò. Ti

giuro che non me ne scapperà unaparola. Sta’ tranquilla. Sai cosa farò?Smetterò di andare all’osteria, smetteròpersino di bere, per non ubriacarmi elasciarmi scappar qualcosa, una voltafuori dei miei sensi. Non devi affannarti,nessuno mai lo saprà. Ti ho già detto chenon andrò nemmeno più all’osteria. Iosono un solitario, tu dovresti saperlo cheio sono un solitario. E per farti stare

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ancora più tranquilla, mia cara donnina,ti voglio dire una cosa che non hoancora detto a nessuno.

Era fuori del seccatoio con tutto ilcorpo, eppure la testa era stranamentevicina alla donna, come issata sullapunta del corpo di un rettile. E Palmanon aveva nemmeno la forza di gridare,nemmeno di gemere.

-Lascio il paese, - prosegu Amedeo. -

Ecco la cosa che nessuno ancora sa.Sonoin parola per affittare una cascina

lontano da qui, sotto Cherasco. Saidov’è Cherasco, ti va com’è lontano daqui Cherasco? Vedi che puoi stare

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tranquilla fin che campi? Io sparisco,sparisco.

Smaniava nel letto, muoveva legambe, ineluttabilmente, fin quasi ascalciare Davide, e il fogliame delsecondo materasso cricchiava.

Non se n’era ancora capacitata dopoquattro anni, dopo che Amedeo era giàmorto, solo come un cane in quella suacascina sotto Cherasco, da un annobuono.

L’ansito di lei riempiva tutta lacamera, pareva arrivare ad investire latendina alla finestra sbilenca, davantialla notte grigia.

C’era un fatto strano, incredibile, dalasciarci il cervello. Quell’uomo già

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sottoterra, che l’aveva avuta una voltasola e a quel modo, era infinitamente piùconcreto di Davide che l’aveva da setteanni e l’avrebbe ancora avuta per chissàquanti altri anni. Ebbene, lei del coso diDavide, dopo, non aveva il ricordoconcreto, ma come umbratile e astratto,mentre rammentava concretamente, comele fosse rimasto conficcato in eterno, ilcoso di Amedeo, cos lungo e scarno, chepartecipava più del legno che dellacarne…

Tornò a smaniare, ad avventare legambe, e stavolta Davide si svegliò.

Si rigirò brusco e violento sulcuscino, da farle una paura mortale.

- Che hai? - domandò con

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intolleranza.- Mal di denti, - lei balbettò,

coprendosi il viso.- Ah, - fece Davide, che per il

maldidenti aveva comprensione.- Uno di questi venerd andrò a

farmelo vedere dal medico diMurazzano. Davide grugn né s né no.

- Non ci resisto, - disse Palma, - escendo a farmi una camomilla, - escappò dal letto come da una distesa dicarboni ardenti.

Annaspò verso l’uscio, poi brancolòper la scala e arrivò in cucina.

Per convincere Davide, fece un pòdi rumorino spostando un bicchiere esbattendo un cucchiaino. Poi si strinse

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nella camicia e sedette accanto alla stufaspenta.

Più di un’ora ci restò, tanto DavideSi era certamente riaddormentato e nonpoteva calcolare il tempo: poi, quandonon poté più resistere al freddo e allaspossatezza, risal.

Fine