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Fascismo e società italiana Carlo De Maria (a cura di) 2016 Temi e parole chiave BraDypUS.net COMMUNICATING CULTURAL HERITAGE Italia-Europa-Mondo, 2 OttocentoDuemila

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Fascismo e società italiana

Carlo De Maria

(a cura di)

2016

Temi e parole chiave

BraDypUS.netCOMMUNICATING

CULTURAL HERITAGE

Italia-Europa-Mondo, 2

OttocentoDuemila

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OttocentoDuemila, collana di studi storici e sul tempo presentedell’Associazione Clionet, diretta da Carlo De Maria

Italia-Europa-Mondo, 2

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In copertina:

La Sala dei cimeli del fascismo alla Rocca delle Caminate, 1933-40 circa (Biblioteca comunale di Forlì, Archivio fotografico)

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Carlo De Maria

(a cura di)

Fascismo e società

italiana

Temi e parole-chiave

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CULTURAL HERITAGE

Bologna 2016

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Progetto grafico BraDypUS

ISSN: 2284-4368ISBN: 978-88-98392-48-3

Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0.

2016 BraDypUS Editorevia Aristotile Fioravanti, 7240129 BolognaCF e P.IVA 02864631201http://bradypus.nethttp://[email protected]

La pubblicazione di questo volume è promossa dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena e dall’Associazione di ricerca storica Clionet, con il contributo di Atrium Forlì e il patrocinio del Comune di Forlì - Assessorato alla Cultura, Politiche giovanili, Pari opportunità.

Comune di Forlì

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Fascismo e società italiana

Temi e parole-chiave

INDICE GENERALE

Introduzione, Carlo De Maria

Architettura, Matteo Troilo

Bambini, Fabio Montella

Biblioteche, Carlo De Maria

Bonifica, Francesco Di Bartolo

Censura libraria, Carlo De Maria

Cinematografia, Domenico Guzzo

Colonie di vacanza, Roberta Mira

Cooperative, Tito Menzani

Doni (a Mussolini), Maria Elena Versari

Editoria, Alberto Ferraboschi

Eugenetica, Gabriele Licciardi

Fascismo rurale, Mattia Brighi

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Ferrovie, Fabio Casini

Istituti tecnici industriali, Carlo De Maria

Lavoro, Gilda Zazzara

Migrazioni, Luca Gorgolini

Oppositori, Fiorella Imprenti

Parole (Iscrizioni), Maria Elena Versari

Precursori, Alessandro Luparini

Psichiatria, Francesco Paolella

Romagna, Mario Proli

Scuola, Alberto Gagliardo

Sindacalismo, Marco Masulli

Sport, Fabrizio Monti

Università, Simona Salustri

Gli autori

Indice dei nomi

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 5-10

Sono ormai numerose le generazioni di storici che si sono susseguite interrogan-dosi sulle ragioni dell’ascesa e della tenuta ventennale del regime. Questo libro – che trae origine da un seminario tenutosi a Forlì nel maggio 20161 – riprende il titolo di un classico volume einaudiano curato da Guido Quazza nel 1973. Nato nel 1922, Quazza aveva pubblicato le sue prime riflessioni sulla storia del fasci-smo nel 19452. Circa vent’anni più tardi, nelle pagine introduttive di Fascismo e società italiana, egli individuava la necessità di andare oltre le interpretazioni generali del regime per immergersi «nel concreto dell’analisi dei problemi spe-cifici», ricostruendo in maniera dinamica la realtà storica3.

Le interpretazioni classiche, importanti ma non più sufficienti, a cui Quazza faceva riferimento corrispondevano, in buona sostanza, a tre differenti imposta-zioni politico-ideologiche: l’interpretazione liberale e crociana, con la tesi del fascismo come parentesi, come improvvisa malattia morale e corruttrice di un corpo sostanzialmente sano, quello dell’Italia liberale; l’interpretazione radicale e azionista, che invitava a ripercorrere a ritroso la storia dell’Italia unita alla ricerca di quelle tare, nello sviluppo socio-economico e nei caratteri delle clas-si dirigenti, in grado di spiegare la nascita e l’affermazione del fascismo; infine l’interpretazione marxista, senz’altro la più influente fino a quel momento sugli

1 Fascismo e società italiana: temi e parole-chiave, seminario tenutosi in occasione della Terza Festa di Clionet, Forlì, Casa Saffi, 20 maggio 2016, in collaborazione con l’Istituto storico della Resi-stenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena, con il patrocinio del Comune di Forlì - Assessorato alla Cultura, Politiche giovanili, Pari opportunità. 2 Guido Quazza, Origini e aspetti della crisi contemporanea, Torino, Orma, 1945.3 Guido Quazza, Introduzione. Storia del fascismo e storia d’Italia, in Id. (a cura di), Fascismo e socie-tà italiana, Torino, Einaudi, 1973, pp. 3-43, p. 6.

IntroduzioneCARLO DE MARIA

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orientamenti della storiografia, che insisteva sul connubio fascismo-capitalismo (il fascismo come stadio senescente del capitalismo, un fascismo subalterno agli interessi capitalistici).

In effetti, gran parte della storiografia degli anni Cinquanta e Sessanta aveva indicato nel connubio fascismo-capitalismo l’asse centrale per la comprensione del regime, con riferimento, in maniera più specifica, al terreno di fusione fra la volontà di dominio del fascismo e la capacità dei grandi interessi economici di plasmarla sulle scelte a essi più congeniali. Si attribuiva, dunque, al regime una esistenza riflessa, l’incapacità di costruire un progetto proprio, mentre si eviden-ziavano prevalentemente gli aspetti della repressione poliziesca e della vuota esibizione di prestigio4.

Nel passaggio tra anni Sessanta e Settanta avvenne una svolta negli studi, un nuovo slancio che trovava riflesso nelle parole di Quazza citate in apertura. C’era la crescente consapevolezza della complessità dell’esperienza fascista e della conseguente necessità di analizzare in modo più puntuale, di approfon-dire nel merito delle singole questioni, la dimensione politico-istituzionale del regime, i suoi rapporti con i diversi referenti sociali, nell’ambito dei processi di massificazione e di burocratizzazione drasticamente acceleratisi per effetto del-la Grande Guerra.

In questa svolta rivestì una importanza rilevante il lavoro di Renzo De Feli-ce, che volle peraltro marcare una netta e polemica distanza nei confronti del cosiddetto paradigma antifascista. Suo obiettivo dichiarato era quello di scrive-re una storia del fascismo che desse ragione del fenomeno prescindendo dalle condanne e negazioni aprioristiche dell’antifascismo. Il lavoro antologico sul-le interpretazioni del fascismo realizzato da De Felice ed edito da Laterza nel 1969-19705 ebbe il merito di porre all’attenzione, tra le altre cose, il tema dei ceti medi: la mobilitazione e il coinvolgimento da parte del regime degli strati inter-medi della società. Ceti medi che erano cresciuti nei decenni a cavallo del 1900 grazie ai processi di urbanizzazione, industrializzazione e sviluppo dei servizi, che avevano vissuto da protagonisti la mobilitazione bellica del 1915-18, che continuavano a rafforzarsi in termini organizzativi e occupazionali di pari passo

4 Massimo Legnani, Sistema di potere fascista, blocco dominante, alleanze sociali. Contributo a una discussione, in Angelo Del Boca, Massimo Legnani, Mario G. Rossi (a cura di), Il regime fascista: storia e storiografia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 414-445, p. 414; Massimo Legnani, Blocco di potere e regime fascista, in Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Storiografia e fascismo, Milano, Franco Angeli, 1985.5 Renzo De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Roma, Laterza, 1969; Renzo De Felice, Il fasci-smo: le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Roma, Laterza, 1970 (ripubblicata nel 1998 con una prefazione di G. Sabbatucci).

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con l’aumento dei processi di intervento statale6. Gli strati intermedi erano chia-mati dal regime a fornire i quadri degli apparati fascisti e, più in generale, degli apparati pubblici che durante il fascismo conobbero, specie negli anni Trenta, un massiccio incremento.

Nell’opera di revisione delle coordinate storiografiche avviata nei primi anni Settanta da De Felice (non solo l’antologia sul fascismo, ma la biografia musso-liniana, in particolare il quarto volume del 1974 sugli anni del consenso 1929-1936, e l’intervista sul fascismo del 1975) venne riservato un ampio spazio al settore della cultura, problematizzando e confutando la nota tesi di Benedetto Croce che rappresentava il fascismo come pura barbarie culturale. Il supposto rapporto antitetico tra fascismo e cultura; l’immagine retorica di una cultura na-turalmente identificata con l’antifascismo7. Interpretazione, quella crociana, già allora superata, ma che era stata ripresa, proprio all’inizio degli anni Settanta, da Norberto Bobbio, che aveva rivendicato una separatezza degli intellettuali dal regime e una loro sostanziale impermeabilità al fascismo8.

Una serie di indagini storiche fiorite tra anni Settanta e Ottanta ridiscusse in profondità l’immagine della separatezza tra intellettuali e regime, con appro-fondimenti specifici su intellettuali e istituzioni culturali del ventennio. In quel contesto, crebbe l’attenzione per l’analisi di alcuni strumenti della politica cul-turale del fascismo, portando alla ricostruzione, ad esempio, delle vicende che condussero nel 1937 alla nascita del Ministero della Cultura popolare9. Il tema della cultura si dilatò e a esso si affiancò gradualmente quello della società10.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta il rapporto cultura-fasci-smo perse di centralità, mentre trovò crescente spazio il processo di penetrazio-ne territoriale del fascismo, ovvero la capacità del regime di affondare nel corpo sociale. Andarono moltiplicandosi indagini a livello locale sempre più consape-

6 Cfr. Mariuccia Salvati, Da piccola borghesia a ceti medi, in Del Boca, Legnani, Rossi (a cura di), Il regime fascista: storia e storiografia, cit., pp. 446-474: 448, 457.7 Si veda la ricostruzione storiografica di Gabriele Turi, Fascismo e cultura ieri e oggi, in Del Boca, Legnani, Rossi (a cura di), Il regime fascista: storia e storiografia, cit., pp. 529-550: 530-533, 541.8 Norberto Bobbio, La cultura e il fascismo, in Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana, cit., pp. 209-246.9 Limitandosi ad alcuni titoli: Luisa Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1974; Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Roma-Bari, Laterza, 1975; Mario Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979; Mario Isnenghi, L’educazione dell’italiano. Il fascismo e l’organizzazione della cultura, Bologna, Cappelli, 1979; Gabriele Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, il Mulino, 1980.10 Victoria de Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del dopola-voro, Roma-Bari, Laterza, 1981; Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Italia, Cultura e società negli anni del fascismo, Milano, Cordani, 1987 (con un pezzo sull’istruzione tecnica di Carlo G. Lacaita e uno sulla pubblica lettura di Maria Luisa Betri).

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voli dei problemi generali di interpretazione del fenomeno e non di rado atten-te all’uso di tecniche interdisciplinari (soprattutto sociologiche)11. Si aprì, così, la prolifica stagione delle ricerche locali sul fascismo: il tema del “fascismo in provincia”, con le sue declinazioni territoriali (“fascismi” non solo in riferimen-to alla dimensione internazionale12, ma anche a quella locale-regionale) e una spiccata sensibilità per il rapporto centro-periferia13. Una stagione, quella degli studi locali e regionali sul fascismo, ricca di spunti e di iniziative ma che spesso raggiunse risultati intermedi e provvisori, anziché acquisizioni autenticamente importanti14. Con riferimento all’ambito emiliano-romagnolo, pur molto rappre-sentato in questi studi, manca ancora oggi una storia complessiva del fascismo a Bologna, così come manca una storia compiuta del fascismo in Romagna.

Tra anni Novanta e Duemila l’asse principale di analisi divenne quello della modernizzazione, un quadro di riferimento teorico che comportava una atten-zione simultanea ai fattori economici e a quelli politico-culturali15.

La mole di studi e di indagini, che ormai da alcuni decenni andavano sedi-mentandosi, cominciò ad assumere una rilevanza tale che i primi anni Duemila si contraddistinsero anche per l’uscita di alcuni dizionari del fascismo16.

11 Nicola Tranfaglia, Labirinto italiano: il fascismo, l’antifascismo, gli storici, Firenze, La Nuova Italia, 1989, p. 95.12 Enzo Collotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 1989.13 Maurizio Degl’Innocenti, Paolo Pombeni, Alessandro Roveri (a cura di), Il Pnf in Emilia-Romagna. Personale politico, quadri sindacali, cooperazione, Milano, Franco Angeli, 1988; Nicola Gallerano, Le ricerche locali sul fascismo, in “Italia contemporanea”, 1991, n. 184, pp. 388-397; Marco Palla, La presenza del fascismo. Geografia e storia quantitativa, ivi, pp. 397-405; Pier Paolo D’Attorre, Aspetti economici e territoriali del rapporto centro/periferia, ivi, pp. 405-417; Maria Serena Piretti, Il fa-scismo in Romagna: un terreno di ricerca dimenticato, in La Romagna contemporanea tra storia e storiografia, fascicolo monografico di “Padania”, 1991, n. 9, pp. 179-192. Fanno parte di questa “temperie” storiografica i primi due fascicoli monografici di “Memoria e Ricerca”, usciti nel 1993: Gli anni del regime fascista nella “provincia del Duce” e Sul fascismo in Romagna. La rivista, oggi promossa dalla Fondazione Casa Oriani di Ravenna, nacque nell’ambito del comitato scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena, che poi proseguì questo percorso d’indagine arrivando alle pubblicazioni di Massimo Lodovici (a cura di), Fascismi in Emilia Romagna, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1998, e Patrizia Dogliani (a cura di), Romagna tra fasci-smo e antifascismo, Bologna, Clueb, 2006.14 Tra gli ultimi esiti di questo filone di ricerca, il libro di Tommaso Baris, Il fascismo in provincia. Po-litica e società a Frosinone (1919-1940), Roma-Bari, Laterza, 2007, «una delle poche storie locali del fascismo che prende in esame l’intera parabola del regime: la ricerca copre infatti l’arco temporale dall’immediato primo dopoguerra alle soglie della seconda guerra mondiale» (si veda la scheda del libro in “Le Carte e la Storia”, 2007, n. 2, p. 88). Si veda anche Paul Corner, Valeria Galimi (a cura di), Il fascismo in provincia. Articolazioni e gestione del potere tra centro e periferia, Roma, Viella, 2014.15 Salvatore Lupo, Il fascismo: la politica di un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000; Alberto De Bernardi, Una dittatura moderna. Il fascismo come problema storico, Milano, Bruno Mondadori, 2001; Nicola Tranfaglia, Fascismi e modernizzazione in Europa, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.16 Victoria de Grazia, Sergio Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, 2 voll., Torino, Einaudi, 2002-2003; Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino (a cura di), Dizionario del fascismo: storia, per-

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Carlo De Maria, Introduzione 9

Tuttavia, arrivava solamente nel 2008 il primo ritratto complessivo della so-cietà italiana sotto il regime fascista: Il fascismo degli italiani di Patrizia Doglia-ni, che ha conosciuto una nuova edizione nel 201417. L’incidenza del fascismo nella vita quotidiana è al centro dell’interesse dell’autrice, che propone una ric-ca messa a punto su temi quali: le giovani generazioni; lo sport; la mutazione dei modi di vivere la socialità di uomini e donne; e ancora l’insediamento territoria-le; l’urbanistica e i servizi pubblici; biblioteche e pubblica lettura; istruzione e università; cinema e teatro18.

Forti dei risultati importanti che si sono accumulati negli ultimi quarant’anni ma con la perfetta consapevolezza che molto resta da fare, la più recente leva di studiosi, intervenuta nel dibattito storiografico negli ultimi dieci-quindici anni, si sta dimostrando capace di andare definitivamente oltre «le contrapposizioni frontali e l’incomunicabilità tra scuole diverse»19, tipiche dei decenni precedenti.

L’attenzione al merito dei problemi, anche attraverso una esplicita articola-zione – come nel presente volume – per temi e parole-chiave, unitamente a un uso intensivo degli archivi, sembra essere la strada giusta per dare compiuta-mente conto del radicamento del fascismo e della sua incidenza nella vita quo-tidiana di persone, gruppi e istituzioni.

sonaggi, cultura, economia, fonti e dibattito storiografico, Milano, Bruno Mondadori, 2003; Nicola Tranfaglia, Brunello Mantelli (a cura di), Dizionario dei fascismi, Milano, Bompiani, 2002, edizione italiana rivista e ampliata del Dictionnaire historiques des fascismes et du nazisme di Pierre Milza e Serge Berstein, Bruxelles, Editions complexe, 1992.17 Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani: una storia sociale, Milano, Utet, 2014 (prima edizione 2008).18 Proprio l’interesse di Patrizia Dogliani verso i molteplici aspetti della storia sociale del regime ha fatto sì che fosse lei a commentare, in veste di discussant, i lavori del seminario forlivese del 20 maggio 2016, dal quale nasce questo libro.19 Leonardo Rapone, Presentazione, in Fascismo: itinerari storiografici da un secolo all’altro, nume-ro monografico di “Studi storici”, 2014, n. 1, pp. 1-2.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 11-34

Introduzione

L’architettura ha costituito un mezzo essenziale per il fascismo per lasciare il proprio segno nella società italiana, in tal senso la Romagna e la città di Forlì hanno rappresentato un laboratorio privilegiato per questa operazione di ricer-ca del consenso. In effetti le costruzioni pubbliche hanno avuto il duplice ruolo di favorire la modernizzazione della società e di creare luoghi di aggregazione utili proprio al consenso. Forlì presenta monumenti ed edifici simbolo di questa particolare politica i quali possono essere “letti” in vari modi. Uno di questi è quello di focalizzare l’attenzione sulla vita quotidiana legata a questi punti della città. L’obiettivo di questo breve saggio è quello di raccontare alcuni aspetti del-la quotidianità forlivese del Ventennio legati alle grandi opere dell’architettura di quegli anni. Per fare ciò si è analizzata da un lato la pubblicistica ufficiale del regime, fatta soprattutto di articoli di quotidiani e riviste, dall’altro i documenti della Segreteria particolare del Duce, oggi all’Archivio centrale dello Stato, che mettono spesso in mostra verità difformi dall’immagine propagandata all’epoca. Si è diviso l’articolo in brevi percorsi tematici legati ognuno a un monumento simbolo del regime fascista a Forlì.

ArchitetturaMATTEO TROILO

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Fascismo e società italiana12

1. Il monumento ai caduti come luogo della memoria

Nel complesso clima ideologico e politico del primo dopoguerra furono cele-brati i numerosi soldati morti e dispersi nel conflitto, dando vita a dei luoghi in cui potessero svolgersi delle celebrazioni che avrebbero rafforzato il senso di appartenenza alla nazione italiana. Il più importante tra questi luoghi era la tomba del milite ignoto, che dal 4 novembre 1921 fu inserita nell’Altare della Pa-tria, facente parte del complesso del Vittoriano a Roma. Già prima della Marcia su Roma il fascismo aveva fatto suo il culto dei soldati scomparsi approprian-dosi così anche dei luoghi della memoria. Dopo la presa del potere da parte del regime, Mussolini e i suoi collaboratori lavorarono per migliorare ancor di più il culto dei caduti della guerra, aggiungendo nel ricordo anche i morti della cosiddetta “Rivoluzione fascista”. Fu proprio negli anni del regime che furono realizzati da un lato i grandi sacrari militari sul Grappa, sul Pasubio, ad Asiago e a Redipuglia, e dall’altro molti imponenti monumenti nelle varie città italiane1.

Il monumento ai caduti di piazzale della Vittoria a Forlì rappresentava per-fettamente questo doppio aspetto: certamente l’idea di ricordare i morti della Grande guerra, ma anche quello di celebrare il potere fascista appropriandosi del ricordo per le vittime di quel conflitto. L’anno scelto per l’inaugurazione non fu per niente casuale, il 1932, e cioè il decennale della Marcia su Roma. Un an-niversario che il regime aveva festeggiato a Forlì dando particolare rilievo alle opere pubbliche con l’obiettivo di conquistare un consenso che, proprio nella terra del Duce, era mancato soprattutto nei primi anni di dittatura. Anche il luo-go scelto era tutt’altro che casuale, il monumento era infatti il perno del nuovo Viale Mussolini sul quale era stata impostata tutta la nuova politica urbanistica cittadina. Inaugurato in pompa magna alla presenza dello stesso Mussolini il monumento fu esplicitamente dedicato oltre che ai caduti della guerra, anche ai “martiri della rivoluzione fascista”.

La realizzazione del monumento aveva in realtà presentato numerosi pro-blemi, la sua particolare posizione alla fine del nuovo viale Mussolini fu infatti motivo di preoccupazione per molti cittadini forlivesi che vedevano in questo un’interruzione del rettilineo costituito dal corso Vittorio Emanuele e dalla via Emilia a discapito della visuale e del transito delle automobili.

La commissione edilizia del comune, nel novembre del 1931, si espresse in maniera chiara per un cambiamento di ubicazione del monumento ai caduti. Da un documento conservato all’Archivio centrale dello Stato si possono leggere alcuni stralci del suo parere:

1 Bruno Tobia, L’altare della patria, Bologna, Il Mulino, 1998.

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Matteo Troilo, Architettura 13

Sembra errato il criterio che il monumento, per essere in completa evidenza debba essere posto su di una via di grande traffico; sembra invece che un monumento, ed un monumento ai Caduti soprattutto, esiga un ambiente diverso da quello offerto dal Piazzale Casalini, cioè più raccolto, ed esiga inoltre una cornice sulla quale l’occhio ri-posi, senza essere distratto dall’oggetto che deve essere posto nella più grande eviden-za. […] Per tutte le ragioni esposte, la commissione esprime il parere che l’unica località adatta per erigere il monumento ai Caduti, sia il giardino pubblico e precisamente il poggiolo terminale, convenientemente sistemato per ricevere la colonna votiva2.

Nonostante altre lettere inviate personalmente al Duce esprimessero il dissenso di privati cittadini forlivesi per l’ubicazione del monumento, il prefetto forlivese espresse al segretario personale di Mussolini un pensiero sostanzialmente di-verso. Il prefetto cercò insomma di nascondere persino questi piccoli segni di dissenso:

Le comunico perché possa informarne S. E. il Capo del Governo, che il Monumento alla Vittoria ed ai Caduti, opera dell’Accademico Bazzani, verrà elevato al piazzale Casa-lini e precisamente al punto di incontro dell’asse del Viale Mussolini con quello del Corso Vittorio Emanuele (Via Emilia). […] Contro la erezione del Monumento nel punto indicato non sorse mai in Forlì una seria opposizione, avendo la scelta della località, incontrato il plauso incondizionato delle organizzazioni combattentistiche, della Fe-derazione Fascista e della stragrande maggioranza della popolazione3.

Dopo la Seconda guerra mondiale il monumento ha continuato ad essere uno dei luoghi principali per la commemorazione delle vittime delle guerre, con l’ag-giunta anche dei simboli dell’ultimo conflitto e della Resistenza. Si è verificato così anche a Forlì quello che è capitato nel resto d’Italia con i monumenti ai caduti che hanno perso tutti i valori fascisti e militaristi per diventare invece simboli della pace e dell’antifascismo.

2. L’Istituto tecnico industriale e l’economia cittadina

L’economia del Ventennio fu caratterizzata da grandi contraddizioni con impor-tanti elementi di modernizzazione, che convivevano con forti situazioni di arre-

2 Archivio centrale dello Stato (d’ora in avanti Acs), Segreteria particolare del Duce, Corrisponden-za ordinaria, 513.544. 3 Sempre in Acs, Segreteria particolare del Duce, Corrispondenza ordinaria, 513.544.

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Fascismo e società italiana14

tratezza4. Anche nel Forlivese si videro le incoerenze della propaganda fascista in materia economica, con da una parte la celebrazione della vita e del lavoro delle campagne, teoricamente perfetti per realizzare il modello di vita del regi-me, e dall’altra l’esaltazione della forza industriale italiana, ancora molto da svi-luppare a dire il vero, ma ritenuta fondamentale per fare dell’Italia una potenza militare internazionale5.

L’economia e il lavoro nella provincia di Forlì si differenziavano a seconda del-le aree, il territorio forlivese ha infatti tre zone con caratteristiche molto differenti: la montagna, la collina e la pianura. Nella montagna e nella collina l’agricoltura era il settore più importante, mentre in pianura e a Forlì in particolare l’industria iniziava ad avere un ruolo maggiore. Nel 1936 quasi l’80 per cento di chi lavorava in collina lo faceva nei campi e simile era la percentuale per la montagna (73,4 per cento), mentre in pianura la quota si riduceva a poco più della metà della po-polazione lavorativa (54,1 per cento). Già di una certa importanza in pianura era il settore industriale che dava lavoro a un quarto dei lavoratori (24,6 per cento), una percentuale ancora più alta se si guarda solo a Forlì dove il 34,7 per cento di chi lavorava (si trattava di più di 9.500 persone) lo faceva in qualità di operaio o impiegato nelle industrie cittadine. Industrie alimentari, metallurgiche, tessili, chimiche avevano già raggiunto in città una dimensione di un certo interesse, queste avrebbero costituito la base industriale per il “boom” del dopoguerra6.

Anche l’istruzione, e l’istruzione tecnica in particolare, veniva considerata dal regime come essenziale allo sviluppo industriale del paese. Mentre si avvicina-va il conflitto partirono i lavori per la costruzione del nuovo istituto tecnico di Forlì, considerato dal regime il fiore all’occhiello delle proprie opere pubbliche. Inaugurato nel 1941 su progetto dell’ingegner Arnaldo Fuzzi la stampa locale evidenziò la sua importanza per l’economia cittadina:

Offre pertanto un certo interesse il mostrare i criteri che hanno presieduto alla nuova costituzione di R. Istituto Tecnico Industriale sorto recentemente sulle vestigia di un glorioso passato: si tratta più precisamente del R.I.T.I. “Alessandro Mussolini” in Forlì. L’aumento degli inscritti, le maggiori pretese in fatto di vita scolastica e di attrezzature rendevano ormai disadatta la vecchia sede, alle nuove esigenze7.

4 Tra gli altri vedi: Rolf Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, Il Mulino, 2002; Alberto Cova, Economia, lavoro e istituzioni nell’Italia del No-vecento. Scritti di storia economica, Milano, Vita e Pensiero, 2002 e Vera Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1981), Bologna, Il Mulino, 1990. 5 Vedi a tal proposito Ettore Casadei, Industrie forlivesi. Soc. An. Orsi Mangelli - Seta artificiale, in “Forum Livii”, 1941, 2. 6 I dati provengono da Istat, 8° censimento generale della popolazione, 1936. L’Emilia-Romagna, Roma 1939. 7 Vittorio Bosi, L’industria italiana e i suoi tecnici, in “Pattuglia”, anno I, n. 3, 1941, pp. 15-16.

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L’articolo metteva inoltre particolarmente in luce l’importanza delle varie spe-cializzazioni presenti nell’istituto: meccanici, elettricisti e chimici per le industrie agricole. Soprattutto dell’ultima specializzazione ci si faceva un vanto e in effetti il panorama economico locale poteva raccogliere interessanti elementi dalla fusione di industria e agricoltura.

Unica nel suo genere e di grande importanza per l’economia italiana è la sezione chi-mici per industrie agricole, la quale ha il compito di formare i tecnici che nelle industrie agricole esercitano la professione di chimico-analista, assistente e talvolta esplicano funzioni direttive nelle piccole aziende. Fino a pochi anni fa non esisteva nessuna scuo-la a differenza di altre nazioni come Germania, Francia e Belgio, che preparasse i tec-nici per queste industrie agricole sebbene l’Italia possedesse numerosissime e grandi fabbriche in questo campo di attività atte al potenziamento ed alla espansione dei nostri prodotti agricoli. Solo nell’anno 1932-33 fu creato a Cesena un corso libero d’Isti-tuto per periti capi-tecnici per dette industrie agricole; poi nel 1936 tale sezione venne trasferita ed annessa per ordine del Duce all’Istituto Industriale di Forlì, dove veniva regificata nell’ottobre 19408.

3. La Casa del Balilla e il controllo sul tempo libero

L’idea di un intervento organizzato nella sfera del tempo libero individuale at-trasse il regime sin dai primi anni, questo infatti era ritenuto fondamentale nel rafforzamento dello Stato totalitario. A tale scopo fu creata nel 1925 l’Opera nazionale dopolavoro, con la quale lo Stato voleva sostituirsi a organizzazioni e strutture create in precedenza dal movimento operaio, come le case del popo-lo e le società di mutuo soccorso. L’Opera nazionale dopolavoro lavorò all’or-ganizzazione di gite collettive, escursioni, attività sportive, spettacoli teatrali e musicali. L’organizzazione del tempo libero coinvolse anche le generazioni più giovani controllate dall’Opera nazionale balilla e dai Fasci giovanili di combat-timento. Queste due organizzazioni si fusero nel 1937 nella Gioventù italiana del Littorio (Gil) che aveva come scopo principale quello di organizzare attività sportive, culturali e ricreative per i giovani9.

8 Ivi. 9 Tra gli altri vedi: Carmen Betti, L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, Firenze, La Nuo-va Italia, 1984, e Antonio Gibelli, Gioventù italiana del Littorio (Gil), in Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, 2 voll., Torino, Einaudi, 2002-2003, vol. I, pp. 598-600.

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Nel 1933 venne iniziata a Forlì la costruzione di una grande struttura sportiva e ricreativa denominata Casa del Balilla ed oggi identificata più semplicemente come ex-Gil. La Casa del Balilla avrebbe dovuto costituire il primo passo per l’edificazione di un grande luogo per il tempo libero e l’indottrinamento delle nuove generazioni, costituito anche da piscina, palestra, un campo sportivo e un cinema. In un unico luogo si tentava insomma di concentrare i giovani della città per varie attività di svago. Il progetto originario avrebbe dovuto occupare un’a-rea di 29.000 metri quadrati con il fronte principale sul viale Mussolini, quello che era il centro, simbolico ma non solo, di tutti i lavori pubblici messi in atto in quegli anni. Il nome dei Mussolini veniva richiamato dalla dedica della struttura al fratello Arnaldo, non diversamente da come si era fatto dedicando case per lavoratori al padre del Duce, che era stato fabbro, o alla madre Rosa Maltoni, cui vennero dedicate numerose scuole elementari, essendo ella stata maestra. La stampa locale diede grande risalto all’opera che in effetti era di dimensioni con-siderevoli. Ovviamente la descrizione fatta dalla stampa era esaltata dai principi ideologici del regime, non si può però certo nascondere come alcuni aspetti, come le forme e la colorazione della struttura, così diverse dal resto delle grandi opere fasciste forlivesi, dovessero costituire uno spettacolo notevole per l’osser-vatore cittadino. “Il Popolo di Romagna” ne parlava così:

La casa del Balilla di Forlì, dedicata alla memoria di Arnaldo e che sorge nel viale Be-nito Mussolini ha con la colorazione dei muri esterni accentuato in questi giorni il suo aspetto caratteristico che la rende oggetto di curiosità e ammirazione. […] Una massa enorme ci si presenta allo sguardo: una massa ancora ingombra di armature comples-se, ma che lasciano agevolmente intravvedere l’agilità, l’arditezza e la vastità della genialissima costruzione10.

Eppure anche in questo caso alla fortissima propaganda del regime, che sugli or-gani di stampa parlava di un’opera di rara grandezza, compiuta con un’efficien-za senza pari, si contrapponeva una realtà fatta di problemi decisamente più pratici per la realizzazione della struttura. Il finanziamento di opere di questo genere era infatti meno semplice di quanto si possa pensare. Il denaro neces-sario al completamento dell’opera non veniva infatti direttamente dagli orga-ni statali o del partito ma arrivava spesso indirettamente attraverso mutui fatti presso istituti di credito o assicurativi. Proprio nel completamento della Casa del Balilla intervenne l’Istituto nazionale delle assicurazioni (Ina) non senza dif-ficoltà da parte dell’ente erogatore, risolte solo con l’intervento politico della stessa Segreteria particolare del Duce. Interessante in questo caso leggere una corrispondenza tra l’Opera Balilla di Forlì e la segreteria del Duce:

10 “Il Popolo di Romagna”, 18 settembre 1937.

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La Direzione Generale dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni ha risposto che il mu-tuo non può essere concesso altro che a condizioni normali di tasso, peraltro data l’alta finalità dell’operazione ha promesso un contributo per alleviare in parte l’Istituzione della forte perdita di interessi. Senonché l’Opera Balilla ha necessità di realizzare to-talmente il contributo della Amministrazione Provinciale per completare degnamente l’edificio progettato e non potendo diversamente risolvere la pratica si permette di in-vocare l’intervento del Duce presso la Direzione Generale dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, onde ottenere che il Concorso da detto Ente promesso sia tale da coprire interamente l’onere degli interessi11.

A dire il vero gli stessi problemi finanziari della Onb forlivese avevano spinto tra le altre cose a chiedere in precedenza a Mussolini di intercedere per la costru-zione della nuova sede. In un promemoria dato a Mussolini nel 1932 dall’Onb forlivese si legge infatti così:

L’O.N.B. ha sede attualmente in un palazzo posto fuori di mano, così che gli iscritti non frequentano i locali. D’altra parte sul palazzo gravano ancora passività a cui non si sa come porre rimedio. […] Il Comitato Provinciale dell’O.N.B. potrebbe allora fare sorgere una nuova sede rispondente a tutte le esigenze12.

4. La stazione ferroviaria e i servizi pubblici

Durante il Ventennio anche il miglioramento dei servizi pubblici, come i trasporti ferroviari e stradali, fu usato dal regime a scopo propagandistico. Ben nota è la campagna per la puntualità dei treni, un obiettivo tenacemente perseguito dalla dirigenza ferroviaria per ragioni d’immagine. Nei discorsi della propaganda del regime il rispetto degli orari rientrava fra i meriti attribuibili al ministro delle Comunicazioni Costanzo Ciano, il quale secondo l’aneddotica del tempo andava di persona a controllare gli orari dei treni e a chiedere di persona al persona-le ferroviario notizie sui motivi dei ritardi. Al di là degli aneddoti, più o meno credibili, il fascismo diede vita a una politica di razionalizzazione che arrivò a buoni risultati sul piano dei servizi ma che fu fatta con pesanti tagli al personale, andando anche a punire una delle categorie lavorative più sindacalizzate. Sul piano delle infrastrutture il governo fascista costruì le due linee “direttissime”

11 Acs, Segreteria particolare del Duce, Corrispondenza Ordinaria, 509.090/3. 12 Ivi.

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Roma-Napoli e Bologna-Firenze. Per promuovere il turismo interno si crearono inoltre i treni popolari che dal 1931 in poi portavano a prezzo ridotto comitive di cittadini verso le località di villeggiatura e le città d’arte. Per quanto riguarda le strade, nel 1928 fu creata l’Anas (Azienda nazionale autonoma delle strade) con il compito di provvedere alla sistemazione e alla manutenzione della rete stra-dale nazionale. Dalla fine degli anni Venti in poi iniziarono i lavori di costruzione delle prime autostrade a pedaggio che si irradiavano da Milano. L’auto però non era alla portata di tutti e il numero di mezzi presenti nel paese era ancora abba-stanza basso13.

A Forlì, come in altre città italiane, i lavori pubblici assunsero un valore non soltanto locale ma nazionale in quanto i risultati dovevano mostrare la forza del regime nel creare un paese nuovo e più moderno. A Forlì però, più che altrove, proprio perché era la “città del Duce”, si diede vita a un grande progetto di realiz-zazione di una città nuova, con una forte impronta fascista, che avrebbe dovuto svilupparsi tutta attorno al grande viale Benito Mussolini, nuovo asse della via-bilità cittadina. In quest’ottica il viale e la nuova stazione ferroviaria furono tra le prime importanti opere pubbliche del regime a Forlì. Inaugurata nel 1927 la nuova stazione faceva da sfondo al viale Mussolini nel quale iniziarono a essere innalzati i nuovi edifici.

L’occasione per celebrare i primi lavori nella città, come s’è detto, fu il de-cennale della Marcia su Roma. È interessante leggere la descrizione che ne fa il mensile “Il Rubicone”:

A guardare oggi la vasta stazione ferroviaria ed a contemplare il bel viale Mussolini, degno di una metropoli e già popolato di grandiosi edifici, e poi paragonarlo nel ricor-do a ciò che era la vecchia stazione coi suoi accessi, si ha veramente la impressione che si sia compiuto un miracolo. La visione cresce se, continuando per il bel viale ci fermiamo un attimo a meditare davanti al grande edificio delle scuole Rosa Maltoni e poi davanti al monumento della Vittoria, che è uno dei più spettacolosi d’Italia. E con-tinuando ancora gioiamo alla bellezza del rettifilo Vittorio Emanuele così pulitamente sistemato; ed entrando in piazza Saffi, emettiamo un altro grido di ammirazione per il modo come la piazza è stata sistemata, onde intonarla al grande palazzo delle Poste e Telegrafi che ne ha chiuso superbamente il quarto lato14.

Anche in Piazza Saffi, il luogo principale della città, il regime decise di lasciare il suo segno. Oltre al progetto di risistemazione della piazza fatto dall’ingegner Botteri si deve segnalare la costruzione di un palazzo molto importante per la cittadinanza, quello delle poste e telegrafi. Il nuovo palazzo fu inaugurato di-

13 Stefano Cavazza, Treni in orario, in Dizionario del fascismo, cit., vol. II, pp. 735-736. 14 Mario Campana, Il comune di Forlì nel decennale fascista. L’imponente mole di opere compiute, in “Il Rubicone”, n. 5, 1932.

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rettamente da Mussolini nel 1932, in un’occasione nella quale il regime pose un segno importante della propria presenza nella piazza principale. La retorica si espresse ovviamente al massimo e la stampa locale ne esaltò ancora di più la funzione ideologica. La cerimonia fu in realtà rapida, in quanto il palazzo delle poste non era ancora finito ed era accessibile solo il primo piano15.

Al risalto dato dai mezzi di informazione alla grande mole di lavori pubblici promossi, a Forlì, dal governo, facevano da contraltare una serie di problemi più pratici come, ad esempio, quello delle espropriazioni degli edifici esistenti per la costruzione dei nuovi palazzi. Nel caso ad esempio delle espropriazioni fatte per la costruzione del nuovo palazzo degli uffici governativi, altra grande opera fascista vicina a piazza Saffi, i tre proprietari degli uffici da demolire avevano protestato perché convinti che le cifre promesse fossero troppo basse. In effetti la prima stima era stata fatta dal Genio civile di Forlì, mentre la seconda venne fatta dal Ministero dei lavori pubblici che aveva ridotto il valore degli stabili di ben il 70 per cento. Il 3 aprile del 1934 i tre proprietari protestarono in forma scritta chiedendo l’intervento di Mussolini16. Sempre nell’ambito della costruzio-ne degli uffici governativi vi era il problema del palazzo Baratti, la cui demolizio-ne era stata ritardata perché soggetto a vincoli come bene artistico. Fu lo stesso Mussolini a spingere per accelerare i tempi così come si legge in una copia di un suo telegramma inviato al ministro dei Lavori pubblici Di Crollalanza: «Un so-pralluogo da me oggi compiuto a Forlì mi fa segnalarvi l’assoluta necessità che il Palazzo Baratti sia espropriato et demolito, altrimenti il nuovo palazzo Uffici statali risulterà incompleto»17.

Conclusioni

Lo studio fatto sulla pubblicistica e la documentazione del Ventennio forlivese ha confermato teorie storiografiche ben consolidate ma ha anche messo in luce delle novità legate alla costruzione dei principali monumenti cittadini. L’inter-vento statale sull’immagine di Forlì fu imponente e i segni del Ventennio sono ancora oggi fortemente visibili. L’architettura fascista cittadina è diventata an-che un luogo di attrazione turistica, il tutto legato a un più amplio progetto di

15 La memorabile adunata fascista di Forlì, in “Il Rubicone”, n. 4, 1932. 16 Acs, Segreteria particolare del Duce, Corrispondenza Ordinaria, 513.545. 17 Ivi.

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rivalutazione degli interventi architettonici e urbanistici delle dittature europee del Novecento18.

Ciò che è emerso di nuovo è che, dietro alla propagandata immagine del con-senso, vi erano in realtà problematiche e segnali di dissenso in grado di mettere in dubbio il forte intervento sull’architettura cittadina. Oltre alle preoccupazioni dei cittadini per degli interventi molto invasivi sulla città vi erano anche pesanti problematiche economiche derivanti dalla difficoltà di reperire i fondi necessari. A risolvere la situazione fu comunque l’intervento diretto del governo che con le sue ramificazioni, incluso il prefetto, riuscì a superare i dissensi locali, di fatto ignorandoli. Dal punto di vista economico fu sempre il governo a far superare i momenti di difficoltà derivanti dalla mancanza di fondi, in questo caso però il ruolo della comunità locale fu diverso in quanto fu spesso da Forlì che si alzò la richiesta di un intervento diretto delle istituzioni nazionali, se non dello stesso Mussolini.

18 Vedi a tal proposito http://atrium.comune.forli.fc.it/.

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Viale Mussolini in costruzione, oggi Viale della Libertà (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

La stazione ferroviaria in una cartolina dell’epoca (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

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Casa del Balilla – Gil. Primo progetto (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

Casa del Balilla – Gil. Pro-getto definitivo con una colorazione diversa (Ar-chivio storico Cesare Valle, Roma).

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Casa del Balilla – Gil. Progetto con la colorazione defini-tiva (Archivio sto-rico Cesare Valle, Roma).

Casa del Balilla – Gil. Esterno (Ar-chivio storico Cesare Valle, Roma).

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Casa del Balilla – Gil. Esterno (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

Casa del Balilla – Gil. Esterno (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

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Casa del Balilla – Gil. Interno (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

Casa del Balilla – Gil. Interno (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

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Casa del Balilla – Gil. Interno (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

Casa del Balilla – Gil. Modello del progetto (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

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Palazzo degli uffici statali (http://atrium.comune.forli.fc.it/).

Monumento ai caduti e colle-gio aeronautico (Archivio stori-co Cesare Valle, Roma).

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Istituto tecnico industriale. Progetto (Archivio dell’Istituto tecnico industriale statale Marconi, Forlì).

Istituto tecnico industriale. Aula magna (Archivio dell’Istituto tecnico industriale stata-le Marconi, Forlì).

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Istituto tecnico industriale. Laboratorio (Archivio dell’Istituto tecnico industria-le statale Marconi, Forlì).

Istituto tecnico industriale. Officina (Archivio dell’Istituto tecnico industriale statale Marconi, Forlì).

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Istituto tecnico industriale. Dopo i bombardamenti del 1944 (Archivio dell’Istituto tecnico in-dustriale statale Marconi, Forlì).

Istituto tecnico industriale. Gerarchi in visita (Archivio dell’Istituto tecnico industriale statale Marconi, Forlì).

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Istituto tecnico industriale. Imma-gine odierna (Archivio dell’Istituto tecnico industriale statale Marconi, Forlì).

Collegio aeronautico. Esterno (Ar-chivio storico Cesare Valle, Roma).

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Collegio aeronautico. Esterno (Ar-chivio storico Cesare Valle, Roma).

Collegio aeronautico. Interno (Ar-chivio storico Cesare Valle, Roma).

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Collegio aeronautico. Interno (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

Collegio aeronautico. Interno (Archivio storico Cesare Valle, Roma).

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 35-56

Mussolini è una persona di statura media, ha lo sguardo sempre fisso e buio,

ma quando sorride, fa piangere1.

Per ordine del DUCE tutti i bimbi devono essere felici2.

Sfollata alla fine del 1942 per i bombardamenti, Tilde Giani Gallino a otto anni era stata costretta ad abbandonare Torino per Trana, un «paese di campagna» della Val Sangone, a una trentina di chilometri, dove l’unica bottega «fungeva da negozio di ferramenta, salumeria, drogheria, pentolame, tessuti»3. Figlia di genitori della borghesia torinese e destinata, come psicologa dell’età evolutiva, a una brillante carriera accademica e professionale, quegli anni, furono un incu-bo. I suoi compagni di classe – scrive Tilde nella sua autobiografia – erano tutti figli di contadini, che guardavano con disturbo i suoi «comportamenti “urbani”» e la fecero sentire una «diversa». In quella scuola rurale i maschi vivevano «allo stato brado» e le femmine erano «vittime designate», non certo «per colpa e vo-

1 Il pensierino di un alunno delle elementari, contenuto in Dolores Mingozzi, Mussolini visto dai ragazzi, San Casciano Val di Pesa, Società Editrice Toscana, 1929, è citato in Giancarlo Ottaviani, I temi dei balilla. Mussolini visto dai bambini, Roma, Cultura e dintorni, 2013, p. 28.2 Scritta sui pacchi-dono della Befana fascista, in Patria. Letture per la terza classe dei centri urbani (testo di Adele e Maria Zanetti, illustrazioni di Mario Pompei), Roma, Libreria dello Stato, 1939, cita-to in Luisa Passerini, Mussolini immaginario, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 229.3 Tilde Giani Gallino, Non avevo sei anni ed ero già in guerra, Torino, Einaudi, 2015, p. 68.

BambiniFABIO MONTELLA

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lontà loro»4, ma per una società che teneva bambini e donne in un perenne stato di minorità. La piccola Tilde dovette presto «imparare il dialetto del paese» e rinunciare alle buone maniere, per una «forma di sopravvivenza in un ambiente ostile» in cui era stata «accettata poco alla volta e con fatica»5. Unica via di fuga da questo clima opprimente fu, per lei, la lettura dei libri che la sua madrina, donna di ampie vedute, le recapitava, attraverso il padre, da Torino. Gli autori «erano tutte donne: americane, anglosassoni, danesi, svedesi», che «negli anni Quaranta avevano fortunatamente apportato straordinarie innovazioni nell’am-bito della letteratura infantile rispetto ai precedenti libri, in apparenza scritti per i bambini, ma a ragion veduta a esclusivo vantaggio dei genitori, con oppressi-ve intenzioni moraleggianti e pedagogiche inserite astutamente nel corso della narrazione»6. Tra questi libri innovativi, che provenivano da «una società di gran lunga più avanzata di quella italiana, soprattutto in ambito femminile e infan-tile», vi erano quelli della serie delle Piccole donne di Louisa May Alcott, Mary Poppins di Pamela Lyndon Travers e Bibi. Bimba del Nord di Karin Michaëlis, «la cui protagonista era una bambina intraprendente […] che alla mia età andava in giro da sola in treno per tutta la Danimarca. Quanto la invidiavo, segregata com’ero in quel paese!»7.

Un’altra testimonianza interessante è quella di Rossana Rossanda, che nel 1943 comincerà ad attivarsi nella Resistenza. Nella seconda metà degli anni Trenta la troviamo invece, «né bambina, né donna», a leggere avidamente volu-mi di autori stranieri:

La biblioteca degli zii non era granché, ma non era chiusa, mentre in altre case le letture erano sorvegliate e guai a farsi pescare. Divoravo di tutto senza sosta come i bachi le foglie di gelso. […] Non so come vi si trovassero Ibsen e Victor Hugo accanto ai libri gialli di Wallace e S. S. Van Dine, e i romanzi di Delly, dove alla protagonista non si presentava mai la prova suprema, e quelli di Eleonora Glynn, dove la prova suprema ogni tanto si imponeva. […] Sdegnavo i libri per bambini e i polpettoncini tipo Scala d’Oro, avevo avuto la mia dose dei sadici Grimm e del tenero Andersen, Giamburrasca e Hector Malot, e guardavo dall’alto in basso Jolanda, la figlia del Corsaro nero8.

Le testimonianze delle due ex giovani del Ventennio ci forniscono diversi spunti di riflessione e almeno due preziose informazioni ai fini di questo saggio, che affronta il tema dell’infanzia sotto il fascismo. La prima è la separatezza, ai limiti

4 Ivi, p. 118.5 Ibid.6 Ivi, p. 68, corsivo nel testo.7 Ivi, p. 69.8 Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi, 2005, pp. 31 e 34.

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della frattura, tra il mondo della città – rappresentato, in forme diverse, dalle famiglie delle due autrici – e quello – ampiamente esaltato dal fascismo – della campagna, coi suoi valori ma anche – nella descrizione di Tilde – coi suoi disva-lori, come il rifiuto dei «comportamenti urbani» e lo spregio per la cultura e per i libri, che erano addirittura introvabili, nel paesello di 1.500 abitanti delle cam-pagne piemontesi. «Libro e moschetto, fascista perfetto» era lo slogan di quegli anni: ma quale libro e per quale giovane? È intorno a questa duplice domanda che ruota la seconda informazione tratta dalle belle pagine di Tilde Giani Galli-no. I suoi libri preferiti, che erano acquistati a Torino, erano stati messi all’indice dal fascismo alcuni anni prima. Con quale efficacia, lo vedremo più avanti.

Il 9 e 10 novembre 1938, a Bologna, si era svolto un convegno che ci permette di comprendere meglio quale fosse l’atteggiamento del fascismo nei confronti della letteratura, ma anche il grado di successo dei suoi obiettivi nei confronti dell’infanzia, dopo un quindicennio di politiche tese a fascistizzare la gioventù. Il convegno, incoraggiato dal Partito nazionale fascista (Pnf) e dai ministeri dell’E-ducazione nazionale e della Cultura popolare, era stato pensato come momento «nuovo per il suo orizzonte e la sua stessa organizzazione». Gli organizzatori, l’Ente nazionale per le biblioteche popolari e il Sindacato nazionale fascista au-tori e scrittori, avevano invitato scrittori, giornalisti, artisti, pedagogisti ed editori (ovviamente di provata “fede”) «a discutere i più sostanziali e urgenti problemi della letteratura infantile e giovanile»9. Si trattava evidentemente di problemi tutt’altro che marginali per il fascismo. Nel settembre di quello stesso anno 1938, Mussolini aveva istituito una Commissione per la Bonifica libraria, il cui scopo, secondo il direttore generale per i servizi della stampa italiana, Gherardo Casini, era quello di «adeguare la letteratura e l’arte da una parte, la cultura del popolo e dei giovani dall’altra, alle ispirazioni della nuova anima italiana e alle necessi-tà dell’etica fascista»10.

Pochi mesi dopo la nascita della Commissione di Bonifica era stato orga-nizzato il convegno bolognese, i cui atti vennero pubblicati nel 1939 con una prefazione dell’accademico d’Italia Filippo Tommaso Marinetti, che compilò un Manifesto della letteratura giovanile in 20 punti. Secondo il fondatore del Futu-rismo ed ora difensore della letteratura e della lingua italiana contro l’esterofi-lia dilagante, la letteratura per l’infanzia avrebbe dovuto «essere non artificial-mente ma sinceramente dettata» dalla «fede in Dio e nel Divino»; dall’«orgoglio italiano solidamente costruito sulla Grande Guerra»; dal «patriottismo assoluto

9 Convegno nazionale per la letteratura infantile e giovanile. Bologna 1938-XVII. Relazioni, Roma, Stab. tip. italiano Grandi edizioni-Stige, 1939, p. 5.10 Citato in Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, La-terza, 1975, p. 118.

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inteso come dedizione assoluta alla patria che può esigere ad ogni momento il sacrificio della nostra vita»; dalla «verità storica rispettata ma sottomessa all’or-goglio italiano per modo che in tutte le narrazioni i nostri infortuni siano trattati con laconismo e le nostre numerose vittorie con lirismo»; dall’«ottimismo gio-condo e festoso da offrire a tutti gli avvenimenti per illuminarli e perfezionarli»; dal «coraggio fisico di una forza muscolare agile pronta e spiritualizzata»; dal-l’«amore per la vita militare e per l’esercito»; dall’«esaltante poesia della guerra che sempre idealizzò ingrandì e velocizzò le razze intelligenti ed eroiche a di-spetto di tutte le rancide teorie pacifiste e avvilenti»; dal «gusto della letteratura moderna italiana e delle arti moderne italiane»; dalla «contentezza di vivere oggi da italiani fascisti imperiali»; da «una forte e propulsiva ambizione indivi-duale […] rispettosa davanti ai meriti dei concorrenti[,] dei predecessori[,] degli anziani [e] dei veterani; da «una generosità umana pronta a trasformarsi in una assistenza attiva e nemica d’ogni moralismo e d’ogni taccagneria»; da «una ado-razione del nuovo e dell’inventato che imprima alla vita un ritmo primaverile di attesa e conquista […] contro le cose consunte[,] della cenere [e] delle nostalgie»; dall’«istinto» e dalla «volontà del movimento» e dalla «sempre più abituale reli-gione della velocità»; dall’«estetica della macchina»; da «una piacevole e anche inebriante poesia dei tecnicismi […] che si propone […] d’idealizzare in profondità e originalità i calcoli[,] gl’ingranaggi e le miscele della chimica[,] della fisica[,] del commercio[,] della finanza[,] dell’artiglieria[,] dei trimotori bombardanti[,] dei mas e dei sottomarini»; da «un senso geografico diretto a liberare le giovani sensibilità dal gretto campanilismo e farle vibrare come se fossero limitate me-diante i confini stessi del nostro Impero»; da un’«affettuosa devozione a S.M. il Re Imperatore e alla Sua Dinastia»; da «un’affettuosa devozione al Duce Fondatore dell’Impero dinamico genio politico e aviatorio consacrato alla sintesi[,] alla ve-locità e alle immancabili conquiste del futuro»11.

I 20 punti del Manifesto marinettiano e gli interventi del convegno bolognese produssero alcune idee di fondo, così sintetizzabili: che il bambino era concepito come «naturalmente fascista»12; che il libro per l’infanzia doveva essere «gioia serena, sostanziale nutrimento, fonte di fede religiosa e patriottica, di bontà e di forza, di ardimento e di tenacia, di spirito di sacrificio e di disciplina»13; che la letteratura giovanile doveva affrancarsi dai libri stranieri, nocivi alla formazione delle nuove generazioni. Significativi, a questo proposito, furono i giudizi sulla letteratura straniera espressi al convegno da Nazareno Padellaro, tra i massimi promotori di pedagogia del regime e divenuto, in età repubblicana, dirigente

11 Convegno nazionale, cit., pp. 7-10.12 Giuseppe Giovanazzi, Gusti letterari dei ragazzi, ivi, p. 23.13 Ivi, pp. 25-26.

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generale del Ministero della Pubblica istruzione, «nonostante i trascorsi fascisti e razzisti»14. Per Padellaro erano meglio «libri mediocri di scrittori mediocri, ma italiani» che «libri famosi di scrittori famosi, ma stranieri», come la Alcott, la Tra-vers o la Michaëlis, le cui opere tanto affascinarono in quegli stessi anni la picco-la Tilde Giani Gallino, che in famiglia – è bene sottolinearlo – non aveva ricevuto insegnamenti antifascisti, ma “semplicemente” (si fa per dire) «un’educazione improntata al rigore etico, al rispetto per gli altri, all’impegno nel lavoro, all’a-more per la cultura»15. Padellaro vedeva annidati nelle traduzioni e riduzioni di libri stranieri, «fantasmi e sentimenti che si agglutinano in abiti mentali di altre razze e cadono così profondamente nella coscienza da non essere più estirpa-bili». Secondo il pedagogista-razzista, questi ectoplasmi, capaci di «mortificare le esigenze nascenti dello spirito» nazionale, prendevano forma tra le pagine di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, nelle quali «l’atmosfera d’incu-bo che grava sulla vicenda finisce col deformare quel senso plastico delle cose e quindi quel giudizio obiettivo di esse, che è dono innato di tutti gl’Italiani». Il mondo di Alice era nascosto da un’«immensa maschera» che produceva un «in-cubo visionario» nel quale «gli oggetti più ancora delle persone» agivano «sotto l’azione del cloroformio». Al convegno bolognese venne messo all’indice anche Rudyard Kipling, «creatore d’un imperialismo panteista» che nei suoi libri trat-teggiava gli indigeni ora con «una umanità migliore e superiore alla nostra» ora «come cose»: una «pericolosissima piega codesta, soprattutto per i nostri fan-ciulli, i quali di fronte agl’indigeni del nostro impero non debbono essere né ado-ranti, né brutali». Ancora: Louisa May Alcott, nella quadrilogia di Piccole donne, faceva «della promiscuità dei sessi un canone educativo, slargando il limite della libertà oltre il credibile, e garantendo che tutto finisce bene»; il Grande Nord raccontato nei libri di Jack London e James Oliver Curwood incentivava «una vita aspra e piena di pericoli […] dolcificata dall’impalpabile sentimentalismo anglo-sassone»; nella Bibi della Michaëlis, lasciata «scorazzare sola o in compagnia di girovaghi, mandriani, pescatori» grazie a «un malinteso rispetto per la libertà», era la mancanza del «senso dell’autorità paterna» e l’assenza di obbedienza a colpire Padellaro, che su Mary Poppins aveva un giudizio secco e sprezzante: «Strania i figli dai genitori per creare una sottomissione cieca alla governante»16.

Se Bibi e Mary Poppins erano i fantasmi che agitavano i sonni di uno dei prin-cipali difensori della pedagogia di massa fascista e se nel contempo quegli stessi personaggi immaginari facevano sognare tanti giovani italiani come Tilde, è leci-

14 Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Vol. 2, Milano, Garzanti, 1962, p. 358.15 Giani Gallino, Non avevo sei anni, cit., p. 61.16 Nazareno Padellaro, Traduzioni e riduzioni di libri per fanciulli, in Convegno nazionale, cit., pp. 40-41.

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to ritenere che nella poderosa macchina del consenso organizzata dal fascismo qualcosa non avesse funzionato a dovere… Eppure, secondo Patrizia Dogliani, tra gli studiosi che più approfonditamente, in Italia, si sono occupati del fasci-smo, tra le tante politiche attuate dal regime per organizzare e irreggimentare la società italiana secondo ordini professionali, generi e generazioni, quella nei confronti della gioventù è stata senza dubbio la più capillare, articolata, diffu-sa e, a conti fatti, la più riuscita17. Antonio Gibelli, d’altra parte, ha ampliato gli orizzonti della ricerca in Italia, considerando l’infanzia sotto il fascismo non solo e non tanto una categoria biologica o sociologica, ma come una categoria poli-tica, funzionale alla «nazionalizzazione» degli italiani. Il bambino era una parte privilegiata, e allo stesso tempo un «prototipo», del «popolo nuovo» perseguito tenacemente dal fascismo; un popolo trattato «come un minore da educare, con-quistare, sedurre, se occorre ingannare, per trasformarlo da punto di debolezza a punto di forza delle nazioni in competizione e in conflitto»18.

La storiografia si è occupata ampiamente e in profondità della storia dei gio-vani nel Novecento19. Si è scritto molto sulla rappresentazione e auto rappre-sentazione del fascismo come movimento giovanile, rivoluzionario e di rottura rispetto al vecchio mondo borghese. Numerose sono le ricerche sulla fascistizza-zione della scuola20. In diversi saggi e volumi emergono vari accenni sull’organiz-zazione e il controllo dei giovani italiani fuori dal mondo scolastico, attraverso la creazione di colonie marine, montane ed elioterapiche e di strutture per le attività sportive e il tempo libero21. Non mancano saggi e volumi sulle politiche assistenziali e previdenziali, come i lavori di Annalisa Bresci, Michela Minesso e Domenica La Banca sull’Opera nazionale maternità e infanzia22 e di Silvia Inaudi

17 Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani, Torino, Utet, 2008, p. 169. 18 Antonio Gibelli, Il popolo bambino, Torino, Einaudi, 2005, p. 4.19 Ci limitiamo qui a segnalare: Patrizia Dogliani, Storia dei giovani, Milano, Mondadori, 2003; Paolo Sorcinelli, Angelo Varni, a cura di, Il secolo dei giovani, Roma, Donzelli, 2004.20 Ci limitiamo qui a segnalare, rimandando all’ampia bibliografia contenuta: Luca Montecchi, I contadini a scuola. La scuola rurale in Italia dall’Unità alla caduta del fascismo, Macerata, EUM, 2015; Jürgen Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Firenze, La Nuova Italia, 1996 [Die Schulpolitik des faschistischen Regimes in Italien (1922-1943), Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1994]; Michel Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, Roma-Bari, La-terza, 1981.21 A partire dal classico: Alberto Aquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965. Sulle attività inquadrate nell,Opera nazionale balilla cfr. Carmen Betti, L’Opera nazionale balilla e l’educazione fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1984; Paolo Bartoli, Caterina Pasquini Romi-zi, Riccardo Romizi, La organizzazione del consenso nel regime fascista. L’Opera nazionale balilla (O.N.B.) come istituzione di controllo sociale, Perugia, Istituto di etnologia e antropologia culturale della Università degli studi, 1983.22 Annalisa Bresci, L’Opera nazionale maternità e infanzia nel ventennio fascista, in “Italia contem-poranea”, n. 192, 1993; Michela Minesso, a cura di, Stato e infanzia nell’Italia contemporanea. Ori-

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sull’Ente opere assistenziali23. Ciò che ancora non mi pare all’orizzonte è una storia complessiva dei bambini e delle bambine sotto il fascismo, che colga nes-si e metta in relazione l’abbondante (ma non sempre letterariamente elevata) memorialistica posteriore, ma anche i labili segni lasciati dai piccoli protagonisti (temi, pensierini, disegni, ecc.), con le politiche attuate dal regime, desumibili dalle fonti archivistiche; un’opera che soprattutto ci spieghi come e perché il «popolo bambino» fascista, così magistralmente tratteggiato da Gibelli, si sia poi trasformato – nonostante tutto – nel «popolo adulto repubblicano» del do-poguerra, compiendo quel «lungo viaggio» nelle monolitiche (ma non troppo) istituzioni del regime.

Di questa evoluzione la storia di Rossana Rossanda può essere considerata un prototipo. Nata nel 1924, appartiene alla «seconda generazione dell’epoca fascista», la cui adolescenza e giovinezza si sono svolte per intero nella cornice di un regime che si è consolidato nel corso della loro crescita. Come ha eviden-ziato Simonetta Piccone Stella, autrice di un bel saggio sui giovani prima del 1943, nascere prima degli anni Venti «avrebbe fatto non poca differenza: […] le famiglie non avrebbero dovuto prendere decisioni difficili su come mandare ve-stiti i figli a scuola, la presenza in classe di compagni ebrei non avrebbe rivestito alcun significato»24.

La conoscenza storica dell’infanzia è un percorso difficile, come osserva la studiosa della pedagogia e dell’educazione Egle Becchi. Più che in altri segmenti di ricerca sul passato, il terreno è in questo caso irto di ostacoli. Il quadro nel quale si deve muovere il ricercatore è di «incertezza discorsiva, di incoatività di saperi, di difficile identificazione dell’oggetto di cui si intende trattare, di ap-procci inediti e quasi sempre dubbiosi», che richiedono «quella mobilità dello sguardo e quella sensibilità dell’udito che l’antropologo e lo psicoanalista riten-gono propri dello studioso di un soggetto altro da lui, elusivo, quasi affatto muto o che si esprime in un codice del tutto peculiare». Lo storico dell’infanzia deve cimentarsi «con una figura del passato ambigua» al pari di altre, quali «la donna, l’anziano, il povero, chi non ha diritti, l’insano», che «non hanno lasciato quasi traccia di sé», ma quella del bambino è anche «più criptica, perché fortemente e fatalmente iscritta nel tempo della crescita del suo soggetto», che «si trasforma velocemente in un’altra figura, quella dell’adulto e diviene pertanto oggetto di

gini, sviluppo e fine dell’Onmi 1925-1975, Bologna, Il Mulino, 2007; Domenica La Banca, Assistenza o beneficienza? La Federazione napoletana dell’Onmi, in “Contemporanea”, n. 1, 2008, pp. 47-72.23 Silvia Inaudi, A tutti indistintamente. L’Ente opere assistenziali nel periodo fascista, Bologna, Clueb, 2008.24 Simonetta Piccone Stella, Davanti alla soglia. I giovani prima del ’43, in Giuseppe A. Micheli, Ales-sandro Rosina, Giovani nel ’43. La «generazione zero» dell’Italia del secondo dopoguerra, Milano, Mondadori, 2011, p. 30

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un altro discorso»25. Ricostruire la storia dei bambini sotto il fascismo richiede dunque uno sforzo

supplementare, rispetto a quello che serve per narrare le vicende degli italiani (nel loro complesso) sotto il regime. Come ha messo in luce Gibelli, il bambino del ventennio non è solo famiglia e scuola, ma è anche terreno di antagonismo tra Stato e Chiesa26, «segmento del mercato e icona capace di incrementarlo vei-colandone efficaci messaggi promozionali, titolare di un tempo libero cui occor-re offrire spazi e occasioni, protagonista di una mobilitazione pre e para-politica e soprattutto pre e para-militare destinata presto a divenire decisiva nella poli-tica di forza delle nazioni, garanzia biologica della loro vitalità e quindi del loro futuro»27.

Per raggiungere questi obiettivi il regime ricorse ampiamente a illustratori, pedagoghi, scrittori, maestri e giornalisti, che utilizzarono con grande abilità i mezzi e le tecniche di mobilitazione di un moderno regime mediatico proprio di una società in corso di massificazione, seppure ancora povera e arretrata come quella italiana28. Infantilizzazione della guerra e inclusione dell’infanzia nel cor-po della nazione guerriera furono, in questo processo, due facce della stessa medaglia, in stretta continuità con quanto emerso dal primo conflitto mondiale.

Ciò che continua a restare in ombra, negli studi sui bambini nel fascismo, è la spiegazione di come, nonostante vent’anni di moderna pedagogia di massa e di forzata “nazionalizzazione” dell’infanzia, il consenso sia sfumato alla prova dei fatti, in Italia più che altrove. Di come cioè da noi, più che nelle “fiacche” e decadenti democrazie denigrate dal fascismo, sia avvenuto un largo e diffuso rifiuto della guerra e dei miti ad essa legati. Quali resistenze si produssero? Quali incongruenze?

Lo sviluppo di studi comparati a livello europeo, come quello di Sandra Souto Kustrìn sulle culture giovanili tra le due guerre mondiali29, potrebbe fornire nuovi termini di paragone; così come apparirebbero preziosi nuovi studi su casi locali, come quello già citato di Domenica La Banca sull’Opera nazionale maternità e infanzia a Napoli, le ricerche sull’Onmi a Brescia di Sergio Onger30 e le prime

25 Egle Becchi, I bambini nella storia, Roma-Bari, Laterza, 2010 [1994], p. VI, corsivo nel testo.26 Gibelli, Il popolo, cit., p. 32.27 Ivi, p. 6.28 Ivi, p. 219.29 Sandra Souto Kustrìn, Culture giovanili, sollecitudini morali e mobilitazioni di massa in Europa tra le due guerre mondiali, in “Memoria e Ricerca”, n. 25, 2007, pp. 61-80.30 Sergio Onger, Il latte e la retorica: l’Opera nazionale maternità e infanzia a Brescia (1927-1939), in “Storia in Lombardia”, n. 1-2, 1989; Id., L’assistenza alla maternità e all’infanzia nel bresciano du-rante la seconda guerra mondiale, in “Sanità, scienza e storia”, n. 1, 1990.

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indagini di Fabrizio Monti sui giovani a Forlì31, che potrebbero far emergere un quadro nazionale meglio definito e più ricco di sfumature, in un mosaico ancora tutto da comporre.

Egle Becchi, nel fare il punto sulla ricerca storica sul tema dell’infanzia, sug-geriva di utilizzare alcune griglie interpretative tipiche di tutti gli individui, quali «la nascita, la malattia, la morte, la famiglia, la quotidianità, il lavoro, la fuga e l’abusività», ed altre invece peculiari ed esclusive dell’«esistenza bambina», come la scuola (su cui in Italia si è sufficientemente indagato) e il gioco. L’autrice li chiamava «universali metastorici della realtà puerile, che ogni epoca e ogni cultura hanno dettagliato e declinato a loro modo», e che anche per il fascismo consentirebbero di sapere di più di questo «soggetto quasi muto del passato» che è il bambino. Accanto a queste “griglie”, che pongono la ricerca al confine tra gli «indizi di realtà» e le «costruzioni dell’immaginario», stanno i «segni prodotti dal bambino stesso», materiale «raro, implicito, fragile, considerato sovente di scarto», quali «le voci, le tracce, le parole e i grafismi» dei fanciulli; un capitale «prezioso», «dotato di una sua forte peculiarità e significato storico», che tuttavia «i luoghi tradizionali di conservazione dei documenti del passato ignorano quasi affatto e che anche nel presente non ci si cura di custodire»32. Altri elementi utili ad una ricostruzione complessiva della storia dei bambini nel ventennio potreb-bero arrivare anche da settori di indagine già in parte battuti, quali la letteratura per l’infanzia, la stampa periodica e il fumetto33, sulle tracce degli studi di Boero e De Luca o di Walter Fochesato, che ha dedicato interessanti pagine al tema della guerra nei libri per ragazzi34, o da temi pressoché ignorati, come la moda, lo sport, il teatro, la radio e il cinema. Quanto e in che modo si rivolgevano ai fan-ciulli le trasmissioni radiofoniche o le proiezioni cinematografiche? Il fascismo era interessato a questo aspetto?

Alla vigilia della seconda guerra mondiale l’offerta radiofonica per i ragazzi si svolgeva «su due piani ben definiti: quello scolastico e quello post-scolastico». Il primo, rivolto esclusivamente alla scuola elementare, era stato affidato dal mar-zo 1934 all’Ente Radio Rurale (Err), sotto la presidenza del segretario del Pnf e

31 Fabrizio Monti, Giovani a Forlì durante il Fascismo, in L’architettura, i regimi totalitari e la me-moria del ‘900, atti del convegno di Forlì del 13-15 giugno 2013, Forlì, Casa Walden comunicazione, 2014, pp. 51-53.32 Becchi, I bambini, cit., p. XI, corsivo nel testo.33 Su questo tema, cfr. Claudio Carabba, Il fascismo a fumetti, Rimini, Guaraldi, 1973; Giuseppe Pa-zienti, Fumetto alalà. I comics italiani d’avventura durante il fascismo, Roma, Comic Art, 1986; Clau-dio Bertieri, Giovanni Burzio, a cura di, Fascio e fumetto. Mostra antologica di fumetti degli anni ’30 e ’40, catalogo della mostra omonima, Savona, s.n., 1990; Fabio Gadducci, Leonardo Gori, Sergio Lama, Eccetto Topolino. Lo scontro culturale tra fascismo e fumetti, s.l., Pesce, 2011.34 Pino Boero, Carmine De Luca, La letteratura per l’infanzia, Roma-Bari, Laterza, 1995; Walter Fo-chesato, La guerra nei libri per ragazzi, Milano, Mondadori, 1996.

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in accordo col Ministero dell’Educazione nazionale. In quattro anni l’Ente aveva effettuato 450 trasmissioni per i giovanissimi, ma per ammissione del suo stesso direttore, Lando Ambrosini, il loro valore era stato condizionato dalle «imposi-zioni» e dai «limiti dei programmi governativi», oltre che da «particolari orien-tamenti didattici» che se servivano «ad indirizzare», costringevano «nel contem-po, talvolta in disperante angustia, l’estro creativo». Gli autori per ragazzi erano pochi e la radio era entrata «nel santuario della scuola con precisi obblighi e finalità ben definite», «nella maniera più responsabile e ufficiale», senza poter «essere discussa dai giovanissimi»35. Della radiofonia post-scolastica si occupava invece direttamente l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche (Eiar)36, fin dai primi tempi della sua fondazione, avvenuta nel 1927. Anche in questo caso, gli autori erano scarsi e il «collaboratore specializzato» che in «ogni stazione tra-smittente» era chiamato a svolgere attività per i giovani non poteva sostituirsi ai primi. Per Ambrosini questo collaboratore «generalmente non organizza, non suscita, non coordina: crea. Crea tutti i mesi, tutte le settimane, qualche volta crea tutti i giorni. Raramente egli può chiedere collaborazione ad altri autori, per la non ultima ragione che non ne trova e non è facile trovarne»37. «Spettacoli, più che rubriche» era l’auspicio di Ambrosini per la radiofonia post-scolastica alla vigilia della seconda guerra mondiale, «spettacoli intonati all’ardente psicologia della nostra giovinezza sorridente e guerriera, studiosa e muscolosa, ed ai suoi compiti futuri; spettacoli che, dato un colpo di scopa ad ogni leziosa dolcifica-zione nonché a certa decadente retorica che tende ancora a spacciarsi per arte didattica, tengano conto di questa assiomatica verità: bimbi e ragazzi del tempo nostro hanno per suprema aspirazione quella di essere uomini e per supremo orgoglio quello di essere trattati come tali»38. Passando al cinema, lo sceneggia-tore e regista Domenico Paolella, tra i relatori del convegno bolognese del 1938, rilevava che non c’era «nessuna organizzazione» destinata «esclusivamente ai ragazzi»39, né sarebbe stata opportuna; esistevano tuttavia pellicole che «nella forma e nel contenuto» erano «di sicuro giovamento» ai giovani, «freschi film

35 Lando Ambrosini, La radio e la letteratura per i ragazzi, in Convegno nazionale, cit., p. 196, corsivo nel testo. Cfr. anche Id., Fini, organizzazione e sviluppi della radiofonia rurale, Milano, Stab. grafico S.A., 1937.36 Sulla storia dell’Ente, cfr. Lorenzo Hendel, L’organizzazione del consenso nel regime fascista. L’Ente italiano per le audizioni radiofoniche (EIAR) come istituzione di controllo sociale, Perugia, Istituto di etnologia e antropologia culturale della Università degli studi, 1983. Cfr. anche Gianni Isola, Abbassa la tua radio, per favore... Storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista, Scandicci, La Nuova Italia, 1996.37 Ambrosini, La radio, cit., p. 198. 38 Ivi, p. 199.39 Domenico Paolella, Il cinema e i ragazzi, in Convegno nazionale, cit., p. 201.

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avventurosi, che risvegliano il senso della forza e della giustizia», e «film di pro-paganda sportiva e militare»40. Anche in questo caso l’autarchia rappresentava la via maestra: andavano messi da parte «i filmetti della piccola [Shirley] Temple, che gli americani hanno fatto arrestare ad uno stadio di sviluppo, come si dice facevano una volta i “comprachicos” rinchiudendo i bimbi comprati o rapiti in vasi cinesi», mentre «una maggiore umanità» era dimostrata «nei film dell’or-mai tramontato Jackie Coogan»41. Per Paolella, che diventerà uno dei registi più rappresentativi del sottogenere popolare dei “musicarelli”, si doveva «incorag-giare la produzione nazionale di tutti i generi», e in particolare le pellicole che svolgessero «un nobile tema», che indirizzassero «verso il bene», che esaltassero «l’eroismo» e fossero «ispirati ad una vera sanità morale», e che mostrassero il male «nella sua vera luce e senza compiacersi di esso»42. Anche in questo caso, i desiderata del convegno bolognese sono un indizio, a contrario, che non tutto era andato nel verso auspicato.

La pluralità dei mezzi messi in campo dal fascismo era stata notevole. A par-tire dal 1926, la fascistizzazione dell’infanzia era proceduta a tappe forzate, con la costruzione di un rigido apparato di indottrinamento dei giovani che aveva il suo perno nell’Opera nazionale balilla, nata per assistere ed educare la gioventù e l’infanzia a partire dagli 8 anni (poi ridotti a 6). In realtà, già dopo la marcia su Roma l’apparato fascista si era messo al lavoro per organizzare i fanciulli tra gli 8 e i 14 anni. Nel febbraio del 1923 fu stilato un primo regolamento per le attività dei gruppi Balilla e fu deciso che a 17 anni compiuti i ragazzi potevano aderire alla Milizia nazionale e al Pnf. Ancora nel 1924 i Balilla raggiungevano tuttavia a stento le 3.000 unità.

La svolta avvenne quando il Partito decise di agganciare il nascente movi-mento dei giovani alla scuola pubblica. Il 3 aprile 1926 venne istituita per de-creto legge l’Opera nazionale balilla (Onb), ente autonomo con il compito di assistere ed educare i giovani maschi inizialmente tra gli 8 e i 18 anni. Negli anni l’Onb si rivolse a classi d’età sempre più giovani, sino a giungere, con un nuovo decreto del 30 ottobre 1934, ad una struttura definitiva suddivisa in tre categorie per i maschi (Figli della lupa, tra i 6 e gli 8 anni; Balilla a 8 anni e Balilla moschet-tiere a 11; Avanguardisti dai 13 ai 18) ed altrettante per le femmine (Figlie della lupa, 6-8 anni; Piccole italiane, 8-13 anni; Giovani italiane, 14-17 anni).

Nel 1929 il controllo dell’organizzazione giovanile passò dal Pnf al Ministero dell’Educazione nazionale, che lo assegnò a un sottosegretariato per l’Educa-zione fisica della gioventù, unificando il settore maschile e femminile (peraltro

40 Ivi, p. 20441 Ivi, pp. 204-205.42 Ivi, p. 206.

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rigidamente separati tra loro) sotto la giurisdizione della scuola. Questo passag-gio fu importante «per diffondere capillarmente» nel paese l’Onb, attraverso il sistema scolastico, in particolare le scuole elementari, «utilizzando gli insegnan-ti come agenti di propaganda»43; ed anche se fino all’approvazione della Carta della scuola, nel 1939, l’iscrizione all’organizzazione non fu resa obbligatoria, «di fatto l’appartenenza comportava una serie di privilegi sociali e soprattutto di benefici economici per i ceti più poveri»44.

L’assestamento definitivo avvenne nell’ottobre del 1937 con la costituzione della Gioventù italiana del littorio (Gil), organizzazione unitaria e totalitaria del-le forze giovanili del regime alle dirette dipendenze del segretario del Pnf. Il partito, attraverso la sua articolazione federale e provinciale, esercitava il di-retto controllo sulla Gil, ma «la scuola manteneva comunque la sua funzione di luogo privilegiato di reclutamento»45. In dieci anni i giovani inquadrati nelle organizzazioni del regime erano più che decuplicati: dai meno di 500 mila iscrit-ti all’Onb all’inizio dell’anno scolastico 1926-27 si era passati ai 5 milioni e 500 mila dell’ottobre del 1936. Con l’istituzione della Gil vennero incorporati tutti i minori dai 6 ai 21 anni e il loro numero crebbe da circa 7 milioni e 542 mila del 1937 a poco più di 8 milioni e 830 mila nel 194246.

L’apparato messo in piedi dal regime per inquadrare i giovani, descritto alle volte come monolitico, conobbe vari cedimenti, anche nel punto più alto dell’e-saltazione patriottica conseguente all’affermazione dell’Impero, come abbiamo cercato di raccontare nella prima parte di questo saggio, trattando nello spe-cifico dei libri per l’infanzia. Questi cedimenti derivavano anche dalle leggi del mercato. Nell’editoria, chi si agitava per l’affermazione di una politica realmen-te autarchica del regime e criticava l’esterofilia dominante, non comprendeva i reali meccanismi che regolavano la produzione. Come ha osservato Donald Sassoon, in pagine illuminanti, per gli editori nazionali era più semplice e più redditizio tradurre autori che avevano avuto successo all’estero e che avevano buone probabilità di averlo anche in Italia, piuttosto che promuovere scrittori italiani sconosciuti, tanto più se «mediocri» come quelli che Padellaro sostene-va di preferire, comunque, agli stranieri. I diritti d’autore corrisposti, all’epoca, erano in rapporto di uno a tre o uno a cinque, quindi molto meno onerosi per le traduzioni di autori che venivano dall’estero47.

43 Dogliani, Storia dei giovani, cit., p. 109.44 Ivi, p. 110.45 Ivi, p. 113.46 Ivi, p. 114.47 Donald Sassoon, La cultura degli europei dal 1800 a oggi, Milano, Rizzoli, 2008 [The Culture of Europeans, London, Harper Collins, 2006], p. 886.

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Nell’Italia del 1938, che annunciava al mondo le leggi razziali, le autorità avevano lanciato una crociata donchisciottesca contro gli autori stranieri per l’infanzia, i cui libri continuavano ad essere acquistati, letti e molto più apprez-zati di volumi quale Guerra e fascismo spiegati ai ragazzi di Leo Pollini, un’opera di dozzinale propaganda bellicista inserita nella collana “La scala d’oro” della Utet; o come albi della più patetica ortodossia, quale Un mago potente ovvero Aladino e la lanterna 900. L’autore di questa riscrittura della fiaba classica, il giornalista veronese Bruno Roghi48, direttore in quegli anni de La Gazzetta dello Sport, raggiunse in questo caso vette di piaggeria difficilmente avvicinabili:

- Grande Genio, a noi! – La lanterna si aprì, allora comparve ad Aladino, buono e sorri-dente, il potente Mago.- Che vuoi, piccolo caro? – disse il Mago accarezzando Aladino [un bimbetto malari-co inviato dai genitori a curarsi fra le pinete della Majella]. Aladino gettò un grido di meraviglia, il Mago Potente che si era presentato lo conosceva per aver visto la sua immagine in casa dello zio e del babbo.- Ma tu sei il…- Zitto! Io sono in questo momento il Mago della lanterna 900 e niente altro. Perché mi hai chiamato? Cosa vuoi?- Oh! Genio Potente, fa’ che le capanne delle paludi siano trasformate in belle case…- Sarà fatto.- Che le paludi siano asciugate per poter coltivare il terreno…- Sarà fatto.- Che vi siano delle strade belle per andare a scuola…- Sarà fatto.- Che la Strega Malaria sia cacciata in fondo al mare…- Sarà fatto. E tu bimbo caro, guarirai presto e tornerai alla tua casa, che sarà più bella di prima49.

È opinione di alcuni studiosi che gli sforzi per costruire una cultura infantile omogenea e conformistica avessero sortito effetti opposti. Questa ipotesi an-drebbe approfondita, seguendo le piste tracciate da Patrizia Dogliani e Gibelli, utilizzando le griglie interpretative di Egle Becchi e allargando l’analisi a nuovi ambiti di studio.

Torniamo ai fumetti. Alla fine degli anni Trenta le vendite avevano raggiunto lo straordinario risultato di un milione e 600 mila copie ogni settimana. Il “Cor-riere dei Piccoli”, il “Balilla”, il “Vittorioso”, l’“Avventuroso”, “Topolino” ed una miriade di altre testate si erano allineate – non sempre senza resistenze – al

48 Su Roghi, cfr. Passerini, Mussolini, cit., pp. 222-223. 49 L’albo, pubblicato nel 1934 nella collana “Fatine e gnometti” della casa editrice Carroccio, era illustrato da Rino Albertarelli, mentre il testo era di Nonno Ebe (Bruno Roghi), «non nuovo a spregiu-dicate, talora impudenti operazioni di riscrittura di fiabe classiche» (Fochesato, La guerra, cit., p. 57).

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generale clima imposto dal regime, che era stato abile a sfruttare le potenzialità suggestive dell’immagine, piegandole ai propri fini. Questo bombardamento che si riversò su bambini e ragazzi, considerati a tutti gli effetti consumatori politici di massa al pari degli adulti, ebbe momenti contrastanti.

Tra il 1942 e il 1943 fu impedita la pubblicazione di oltre 60 milioni di giorna-lini e albi per ragazzi di importazione straniera, giudicati «negativi dal punto di vista politico, letterario, artistico». A finire sotto la scure della censura, nel 1942, fu lo stesso Topolino, che da una settimana all’altra venne sostituito dal più au-tarchico Tuffolino.

La censura e la cappa di conformismo imposte dal regime non paiono tuttavia aver sortito gli effetti sperati. Anzi, come osserva Roberto Farnè, l’iperrealismo dei personaggi “fascistissimi” e l’eliminazione sistematica dei più avventurosi eroi americani, capaci di far spaziare la fantasia verso mondi e realtà lontane, finì per provocare disaffezione verso questo genere di letteratura, riducendone alla fine l’efficacia50.

La fascistizzazione dell’infanzia procedette a tappe forzate in una serie di ambiti, dalla scuola allo sport, dalle colonie ai campi Dux, dalla radio all’orga-nizzazione del tempo libero. Tuttavia, nuovi studi sul campo e nuovi ambiti di indagine potrebbero raccontarci ancora meglio quanto sia stata realmente ef-ficace la prassi del fascismo e quanto abbia contribuito a trasformare i bambini nell’«uomo nuovo» cui aspirava quel «genio» taumaturgo di Mussolini.

50 Roberto Farné, Iconologia didattica, Bologna, Zanichelli, 2002, pp. 237-238.

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Bargnano di Corzano (Brescia). Saggio ginnico davanti alla scuola di agricoltura Vincenzo Dandolo (collezione Fabio Montella).

Bargnano di Corzano (Brescia). Saggio ginnico davanti alla scuola di agricoltura Vincenzo Dandolo (collezione Fabio Montella).

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Bargnano di Corzano (Brescia). Saggio ginnico davanti alla scuola di agricoltura Vincenzo Dandolo (collezione Fabio Montella).

Bargnano di Corzano (Brescia). Saggio ginnico davanti alla scuola di agricoltura Vincenzo Dandolo (collezione Fabio Montella).

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Bargnano di Corzano (Brescia). Saggio ginnico davanti alla scuola di agricoltura Vincenzo Dandolo (collezione Fabio Montella).

Finale Emilia (Modena). Foto di un avanguardista in divisa scattata da Vasco Pedrazzi (collezione famiglia Pedrazzi).

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Mirandola (Modena), 1931. Nessuna alunna di questa classe delle elementari è in divisa (col-lezione privata).

Mirandola (Modena), classe mista elementare, 1928. Un solo alunno veste la divisa da balilla. La quinta ragazzina da destra, in alto, pare abbozzare un incerto saluto romano (collezione Felice Rebecchi).

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Mirandola (Modena), scuola elementare (collezione Mario Leporati).

Mirandola (Modena), scuola elementare (collezione Mario Leporati).

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A sinistra, piccole italiane. La taglia della divisa ap-pare piuttosto abbondante (collezione Fabio Montel-la).

In basso, San Possidonio (Modena), 10 marzo 1934. Funerali del locale pode-stà Vico Bellini, morto pre-maturamente. I bambini del paese partecipano in divisa, ma si notano anche ragazzi senza (collezione Ezio Sgarbi).

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San Possidonio (Modena), 1934. Istruzione pre militare alla colonia elioterapica in località Cristo del Secchia (collezione Ezio Sgarbi).

San Possidonio (Modena), 1928. Bambini nel fiume Secchia salutano romanamente (collezione Ezio Sgarbi).

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 57-82

Premessa

Ci sono pochi dubbi sul fatto che la politica bibliotecaria, l’amministrazione del-le biblioteche, il controllo e la promozione della pubblica lettura rappresentino alcuni di quei «problemi specifici» che vanno adeguatamente approfonditi per ricostruire in maniera dinamica la realtà storica del regime fascista.

Per lungo tempo, nella storia del nostro paese, l’espressione «biblioteca pub-blica» ha avuto il significato prevalente di «biblioteca statale aperta al pubbli-co»; qualcosa di molto diverso rispetto al modello anglosassone di public library, intesa come biblioteca legata all’autonomia degli enti locali e caratterizzata da un servizio “diffuso” alla cittadinanza. La situazione italiana dei primi decenni del Novecento vide delinearsi, più precisamente, un «dualismo bibliotecario» tra una trentina di prestigiose biblioteche pubbliche governative, da una parte, e una miriade di piccole o minuscole biblioteche popolari, di natura essenzialmen-te privata e legate a movimenti associativi, dall’altra1. Nel mezzo stavano un nu-mero relativamente esiguo (poche centinaia a livello nazionale) di biblioteche di ente locale, prive di un riconoscimento specifico.

Negli anni Trenta la riorganizzazione delle biblioteche popolari e il nuovo impulso dato alle soprintendenze bibliografiche – gli organi periferici dello Stato titolari della funzione di stimolo e controllo sulle biblioteche comunali e provin-ciali – sembrarono delineare una sorta di “via italiana alla biblioteca pubblica”,

1 Cfr. Paolo Traniello, Storia delle biblioteche in Italia. Dall’unità a oggi, Bologna, Il Mulino, 2002.

BibliotecheCARLO DE MARIA

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che rimase, tuttavia, inevitabilmente staccata da ogni idea di autonomia locale2.Per un passo in avanti in questo senso bisognerà attendere il dopoguerra, con

il riconoscimento costituzionale della categoria di «biblioteca di ente locale» operato dall’articolo 117 della Carta repubblicana nel 1948. E per misurare un reale e concreto mutamento nella situazione strutturale delle biblioteche locali sarà indispensabile arrivare prima alla legge 281/1970 di attuazione della rifor-ma regionale, con i relativi decreti di trasferimento delle funzioni amministrative (il d.p.r. 3/1972 assegnò, ad esempio, alle Regioni gli uffici delle soprintendenze bibliografiche), poi al riordino dell’ordinamento delle autonomie locali di inizio anni Novanta (legge 142/1990)3.

La realtà italiana, del resto, non ha mai mostrato un panorama uniforme, dal momento che in materie come queste le tradizioni civiche contano, eccome. An-cora negli anni Trenta, l’eredità del municipalismo popolare di epoca liberale continuava a percepirsi nella vitalità di alcune biblioteche comunali dell’Italia centro-settentrionale: le Comunali di Imola e Reggio Emilia, per limitarsi a due esempi particolarmente significativi per la storia del socialismo riformista otto-novecentesco, si distinguevano a livello nazionale per qualità e quantità dei ser-vizi bibliografici offerti alle rispettive comunità locali4.

1. L’amministrazione bibliotecaria nell’Italia fascista: linee inter-

pretative

Le biblioteche sono istituzioni coinvolte nei processi culturali e nelle dinamiche sociali di una nazione, per questo si collocano su di un terreno che è immediata-mente di natura interdisciplinare, richiamando con forza la necessità di ricerche in cui la dimensione istituzionale sappia intrecciarsi con quella socio-culturale. Rico-struire, per un dato momento storico, la fisionomia dell’amministrazione bibliote-caria significa incrociare temi vastissimi quali la politica culturale di un paese e il rapporto tra le sue istituzioni e la società5. Questo è tanto più vero nei decenni tra le due guerre mondiali, quando in tutta Europa – con una varietà di soluzioni che

2 Cfr. Carlo De Maria, Le biblioteche nell’Italia fascista, Milano, Biblion, 2016, capp. 1-2.3 Cfr. Paolo Traniello, Legislazione delle biblioteche in Italia, Roma, Carocci, 1999.4 Cfr. De Maria, Le biblioteche nell’Italia fascista, cit., Appendice V.5 Cfr. Maria Teresa Biagetti, Biblioteconomia italiana dell’Ottocento. Catalografia e Teoria biblio-grafica nella trattatistica italiana, Roma, Bulzoni, 1996, p. 9.

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andavano dal corporativismo fasci sta all’interventismo pubblico in campo so ciale dei regimi democratici – si registrò un protagonismo inedito degli apparati statali, con ripercussioni evidenti sulle istituzioni della propaganda e della cultura6.

Nella vicenda delle biblioteche italiane il fascismo rappresentò una cesura rispetto al periodo liberale ed è possibile misurare con efficacia la valenza di questa novità proprio sul versante istituzionale, considerando due grandi tappe successive. In un primo momento, intorno alla metà degli anni Venti, l’interesse del regime per l’organizzazione degli istituti bibliografici si tradusse in un profon-do intervento riformatore nel campo dell’amministrazione centrale dello Stato, con la creazione, nel 1926, della Direzione generale accademie e biblioteche, all’interno del dicastero della Pubblica istruzione (dal 1929, Ministero dell’Edu-cazione nazionale). Si trattava del primo ufficio dirigenziale di livello generale introdotto dal fascismo, e non già presente nella tradizione amministrativa italia-na7: a segnare, dunque, un cambiamento di rotta rispetto a quella cauta riduzione e semplificazione dell’apparato dello Stato che era stata realizzata dal governo Mussolini nel 1923-24, sotto l’impulso di Alberto De Stefani, ministro delle Finan-ze di formazione liberale. L’allontanamento nel 1925 di De Stefani rappresentò simbolicamente la fine della «smobilitazione amministrativa», preparando una fase radicalmente nuova di politica economica e amministrativa, caratterizzata da una massiccia espansione delle strutture pubbliche e da una dilatazione senza precedenti delle competenze e dei poteri di intervento dello Stato in sempre più vasti settori della vita economica e sociale8. La nuova direzione generale nasceva in questo contesto di espansione e istituzionalizzazione dell’intervento pubblico, efficacemente evocato dalle parole di Edoardo Scardamaglia, uno dei massimi dirigenti dell’amministrazione bibliotecaria nel Ventennio. Adottando un’ottica comparativa, Scardamaglia avrebbe, infatti, ricordato – durante un suo interven-to del 1934, davanti a una platea di bibliotecari – che la Direzione generale acca-demie e biblioteche era stata «certo la prima, forse ancora l’unica esistente nel mondo», visto che altrove, sia in Europa che negli Stati Uniti, grandi associazioni di categoria provvedevano a surrogare, nel campo dell’organizzazione bibliote-caria, quella che per il fascismo era «una funzione essenzialmente statale»9.

6 Cfr. Guido Melis (a cura di), Lo Stato negli anni Trenta. Istituzioni e regimi fascisti in Europa, Bo-logna, Il Mulino, 2008; Aldo Mazzacane (Hrsg.), Diritto economia e istituzioni nell’Italia fascista, Baden-Baden, Nomos Verlagsgesellschaft, 2002.7 Cfr. Francesco A. Salvagnini, Nobiltà delle biblioteche italiane, in “Accademie e Biblioteche d’Ita-lia”, a. V, n. 5, aprile 1932, pp. 341-357.8 Cfr. Cesare Mozzarelli, Stefano Nespor, Il personale e le strutture amministrative, in Sabino Casse-se (a cura di), L’amministrazione centrale, Torino, Utet, 1984, pp. 157-299, p. 269 (si tratta del vol. IX della Storia della società italiana dall’Unità ad oggi, diretta da Nicola Tranfaglia).9 Si veda l’intervento di Scardamaglia al Terzo congresso dell’Associazione italiana per le bibliote-

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La seconda fase di crescita dell’amministrazione bibliotecaria si ebbe all’ini-zio degli anni Trenta e interessò, questa volta, non l’amministrazione centrale, come nel ’26, ma il settore degli enti pubblici, che in quegli anni stava conoscen-do uno dei suoi grandi momenti di sviluppo10. Per iniziativa del Partito nazionale fascista, nasceva così, nel 1932, l’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche, che venne posto sotto il controllo procedurale e finanziario della stessa Direzione generale accademie e biblioteche. La preesistente rete di bi-blioteche popolari di ispirazione socialista-riformista non venne smantellata, ma profondamente rimodellata, attraverso lo strumento del commissariamento, a cui seguiva la «bonifica» delle raccolte, reintegrate da una produzione libraria ideologicamente controllata.

Pur con profonde contraddizioni tra gli ambiziosi piani di riorganizzazione e potenziamento intrapresi dal fascismo e i mezzi, troppo scarsi, impiegati per re-alizzarli (sarà costante e, addirittura, drammatica la carenza di personale nelle biblioteche pubbliche governative per buona parte degli anni Trenta)11 e senza fermarsi, in questo momento, sul capitolo della censura libraria, dei divieti di circolazione degli stampati e su quello della legislazione antiebraica – che, nel 1938-39, colpì immediatamente decine di operatori degli istituti bibliografici –, non è improprio parlare di una «grande stagione»12 dell’amministrazione biblio-tecaria nell’Italia fascista.

Sotto la scorta del lavoro di scavo compiuto sul fondo archivistico della Di-rezione generale accademie e biblioteche, depositato all’Archivio centrale del-lo Stato, si possono delineare alcuni temi fondamentali, prendendo le mosse dall’identità tradizionalmente debole dell’amministrazione bibliotecaria, che per oltre sessant’anni (1861-1926) ricoprì un ruolo di ufficio accessorio in varie divisioni e direzioni generali del Ministero della Pubblica istruzione. Istituendo un organo amministrativo centrale cui affidare la gestione delle biblioteche, il governo fascista accolse per la prima volta una esigenza ampiamente sentita da-

che (Bari, 20-23 ottobre 1934-XII), in “Accademie e Biblioteche d’Italia”, a. VIII, n. 6, dicembre 1934, pp. 542-544. 10 Cfr. Sabino Cassese, I caratteri originali della storia amministrativa italiana, in “Le Carte e la Sto-ria”, 1999, n. 1, pp. 7-15, p. 10; Id., I grandi periodi della storia amministrativa, in Cassese (a cura di), L’amministrazione centrale, cit., pp. 7-27, p. 14; Mariuccia Salvati, Gli Enti pubblici nel contesto dell’Italia fascista. Appunti su storiografia e nuovi indirizzi di ricerca, in “Le Carte e la Storia”, 2002, n. 2, pp. 28-41, p. 33.11 Cfr. De Maria, Le biblioteche nell’Italia fascista, cit., cap. 2.12 Riprendendo le parole usate da Elio Lodolini in un intervento dedicato ai beni culturali nel ven-tennio fascista, con particolare riferimento alle istituzioni concernenti l’archivistica: Fascismo, isti-tuzioni, archivistica, in uno studio di Ugo Falcone, in “Le Carte e la Storia”, 2006, n. 2, pp. 27-36 (il riferimento è al volume di U. Falcone, Gli archivi e l’archivistica nell’Italia fascista. Storia, teoria e legislazione, Udine, Forum, 2006).

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gli operatori delle biblioteche italiane, confermando una volta di più la necessità storiografica di riflettere sulle esperienze professionali delle élites tecnico-spe-cialistiche e sul loro rapporto con la politica durante il ventennio fascista. Secon-do le indicazioni di Sabino Cassese, è possibile parlare di una vera e propria «mo-bilitazione» che coinvolse in quegli anni, sotto l’impulso dell’intervento pubblico, il mondo dei tecnici impegnati nei settori dei libri e delle biblioteche, delle cose d’arte e degli archivi (quella che oggi definiremmo, nel suo complesso, la materia dei «beni culturali»), in una stretta collaborazione con la scienza giuridica e con la parte più intelligente della burocrazia13. Non è un caso che in questo clima nascesse, nella primavera 1930, su impulso della Direzione generale accademie e biblioteche, una associazione nazionale dei bibliotecari italiani (l’Associazione dei bibliotecari italiani, dal 1932 Associazione italiana per le biblioteche, l’odier-na Aib), con lo scopo di tutelare gli interessi delle biblioteche, di curare la diffu-sione del libro e di dare modo agli operatori del nostro paese di intervenire, con maggior peso, nelle riunioni internazionali. Durante gli anni Venti e Trenta, come ha osservato Alberto Petrucciani, si assistette indubbiamente a un processo di professionalizzazione dei bibliotecari, sia sotto l’aspetto di un riconoscimento del ruolo, che di un miglioramento qualitativo della formazione14. L’attenzione inedita, e senza dubbio «interessata»15, che il fascismo dedicò a tutte le bibliote-che – da quelle governative, a quelle comunali e provinciali, fino alle minuscole «bibliotechine» scolastiche e rurali – trovava un preciso movente nella duplice «funzione nazionale» che a esse veniva assegnata. Da una parte, verso l’esterno, una funzione “alta” di prestigio e di primato della cultura italiana nei confronti degli altri paesi europei e, dall’altra, verso l’interno, una funzione, diremmo così “quotidiana” e “diffusa”, di formazione e inquadramento delle masse.

La svolta impressa dal fascismo alla politica bibliotecaria deve però essere misurata anche sulla base dei “problemi del personale”. Il riferimento è ai con-corsi, agli organici, all’evoluzione dei ruoli dell’amministrazione bibliotecaria, a partire dal blocco dei concorsi del quinquennio 1926-30 fino all’incremento di assunzioni che si registrò a partire dalla seconda metà degli anni Trenta.

Se gli accresciuti mezzi finanziari messi a disposizione delle biblioteche con-

13 Cfr. S. Cassese, Introduzione a Vincenzo Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, 2 tomi, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Ufficio studi, 2001.14 Cfr. A. Petrucciani, Nascita e affermazione della professione bibliotecaria in Italia (1861-1969), in La professione bibliotecaria in Italia e altri studi, “Quaderni della Biblioteca nazionale centrale di Roma”, n. 9, Roma 2002, pp. 5-34, p. 18.15 Cfr. Luca Bellingeri, Dal sistema dei privilegi alla legge n. 633 del 1941: l’evoluzione del diritto d’autore nella normativa italiana, in Antonella De Robbio (a cura di), Diritto d’autore. La proprietà intellettuale tra biblioteche di carta e biblioteche digitali, Roma, Associazione italiana biblioteche, 2001, pp. 55-72.

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sentirono di intraprendere tutta una serie di interventi per dare migliore e più moderno assetto ai locali e ai servizi degli istituti governativi, queste opere di ammodernamento e ampliamento ebbero anche l’effetto di rendere sempre più evidente l’inadeguatezza degli organici. Approfondendo l’analisi sulle carte d’archivio, è possibile scorgere l’estenuante confronto che si consumò, lungo gli anni Trenta, tra le periodiche richieste di incremento degli organici avanzate dall’Educazione nazionale e la forte resistenza ad ogni concessione da parte del-le Finanze. Questo confronto dialettico, nel quale si inserirono di volta in volta anche il Consiglio di Stato e il Partito nazionale fascista (interessato soprattut-to al rafforzamento delle biblioteche popolari), è indicativo di una perdurante complessità di rapporti tra le varie istituzioni dello Stato, anche in un regime che si voleva totalitario.

In questo quadro, particolare attenzione va alla proposta di riforma dell’am-ministrazione bibliotecaria avanzata dal ministro Bottai nel febbraio 1937. Tesa alla valorizzazione delle soprintendenze bibliografiche, che avrebbero dovuto coordinare e «unificare» tutte le attività di carattere bibliografico delle rispettive aree regionali, la portata della riforma Bottai venne, però, sensibilmente ridi-mensionata durante l’esame preventivo del Ministero delle Finanze16.

In ogni caso, nel corso degli anni Trenta si accentuò una caratteristica pecu-liare dell’amministrazione bibliotecaria, quella di essere una amministrazione al femminile17. Se, infatti, è ormai assodato che il fascismo mantenne le donne impiegate nel settore pubblico e in quello privato in una posizione subordinata (segnando, dunque, un arretramento rispetto ai progressi legislativi che si erano registrati dopo la cesura del 1915-18), le biblioteche governative presentano una situazione almeno in parte diversa, ben rappresentata dal fatto che, alla fine del 1940, il personale direttivo e di concetto (gruppo A) dei 32 istituti bibliografici dello Stato aperti al pubblico fosse per il 59,4% femminile.

2. Legislazione antiebraica e biblioteche

Dopo aver sommariamente introdotto alcune delle principali linee interpretati-ve relative alla storia delle biblioteche nell’Italia fascista (già altrove approfon-dite), le prossime pagine saranno dedicate a un tema specifico: l’organizzazione

16 Cfr. De Maria, Le biblioteche nell’Italia fascista, cit., cap. 2, par. 3.17 Ivi, par. 4.

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amministrativa della persecuzione contro gli ebrei a partire dal 1938.L’attenzione alle modalità di schedatura ed esclusione attuate nei confronti

del personale di «razza ebraica» di un ufficio dirigenziale del Ministero dell’Edu-cazione nazionale, quale quello dell’amministrazione bibliotecaria, può costitu-ire, infatti, una interessante prospettiva d’indagine e di ricerca utile per inserire sempre più compiutamente lo studio della legislazione antiebraica all’interno della storia nazionale18.

Benché il ruolo trascinante del ministro Bottai nel processo di «arianizzazio-ne» della pubblica istruzione e, più in generale, «l’importanza, se non la centra-lità, della scuola, degli intellettuali e della cultura nella campagna antiebraica» siano ben noti19, tuttavia ancora da approfondire sono le modalità operative con-cretamente attuatesi in molti uffici del ministero20.

Uno dei pochi studi a disposizione, quello di Annalisa Capristo sull’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, ha confermato – anche per settori più ampi di quelli rappresentati dalla scuola e dall’università – la mobilitazione e l’alli-neamento che le élites intellettuali espressero rispetto alla svolta antisemita. Tra i soci delle accademie, infatti, le prese di posizione critiche furono, nel 1938, «assolutamente esigue», così come era accaduto, alcuni anni prima, al momento della prescrizione del giuramento di fedeltà al regime, allora «evidentemente accettato anche dagli accademici ebrei espulsi nel 1938»21.

Secondo una delle interpretazioni complessive più convincenti degli ultimi anni, quella di Marie-Anne Matard-Bonucci, il significato principale della svolta razziale del 1938 va ricercato nella volontà di Mussolini e del gruppo dirigente fascista di creare, intorno alla questione antisemita, una mobilitazione costante di uomini e apparati. Un banco di prova per la macchina politica e amministrati-va del regime e per la capacità delle sue élites di «allinearsi» prontamente alle direttive del governo:

18 Cfr. V. Galimi, La persecuzione degli ebrei in Italia (1938-1943). Note sulla storiografia recente, in “Contemporanea”, 2002, n. 3, pp. 587-596, p. 587. Si veda anche G. Miccoli, Antisemitismo e ricerca storica, in “Studi storici”, 2000, n. 3, pp. 605-618.19 Cfr. G. Turi, Ruolo e destino degli intellettuali nella politica razziale del fascismo, in “Passato e presente”, 1989, n. 19, pp. 31-51.20 Una carenza negli studi dovuta anche alla dispersione di molte carte prodotte dal Ministero dell’Educazione nazionale. Cfr. G. Tosatti, Le fonti dell’Archivio centrale dello Stato per la storia del fascismo, in A. Mazzacane (Hrsg.), Diritto economia e istituzioni nell’Italia fascista, Baden-Baden, Nomos Verlagsgesellschaft, 2002, pp. 281-304, p. 289.21 Cfr. A. Capristo, L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, prefazione di M. Sarfatti, To-rino, Zamorani, 2002, pp. 14-22 (si veda, anche, nella prefazione di Sarfatti, p. IX). Il giuramento di fedeltà al regime era stato prescritto ai membri delle accademie con decreto del 1933, due anni più tardi rispetto ai professori universitari.

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Dal punto di vista del potere fascista, la costituzione di una “questione ebraica” su scala nazionale rappresentò di per sé un successo. Il regime poté compiacersi dell’in-tensa attività amministrativa che la legislazione razziale aveva generato, della mol-teplicità di iniziative che aveva suscitato e del progresso inesorabile della macchina persecutoria una volta messa in moto. Allo stesso modo, la quasi assenza di proteste e l’esecuzione diligente delle disposizioni antisemite possono essere considerate una vittoria del regime, che in questo modo poté verificare con quale efficacia si operava il suo controllo sulla società22.

L’attenzione al versante istituzionale permette di superare di slancio le insisten-ze portate dal pionieristico studio di Renzo De Felice23 sui temi della psicologia popolare e della cultura media degli italiani (storicamente liberi, secondo l’auto-re, dai germi dell’antisemitismo) e procedere, invece, con la consapevolezza che, quando appena l’attività di censimento ed esclusione dell’amministrazione dello Stato funzioni con qualche efficienza, non è necessario che l’antisemitismo sia di massa per segnare profondamente la storia di un paese.

3. Interpretazioni storiografiche

È da tempo assodata la necessità di interpretare i provvedimenti antiebraici del 1938 a partire da esigenze di carattere interno della politica fascista, poiché – come scrisse Enzo Collotti alla fine degli anni Ottanta – attribuirne l’origine unicamente o soprattutto alla necessità di rendersi bene accetti alla Germania nazista sarebbe «profondamente fuorviante»24.

Appaiono, quindi, superate le prime affermazioni di Renzo De Felice (1961), secondo le quali l’antisemitismo di Stato sarebbe nato, «in larghissima misura», dalla volontà di Mussolini di «eliminare la più stridente frizione e dissonanza con l’alleato»25. Lo stesso De Felice avrebbe, almeno in parte, corretto questo indiriz-zo in una nuova introduzione alla sua opera (1993), elencando al primo posto tra gli obiettivi che Mussolini si proponeva con i provvedimenti razziali, «quello di

22 M.-A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, Bologna, il Mulino, 2008 [Pa-ris, Perrin, 2007], p. 12.23 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, prefazione di D. Cantimori, Torino, Einau-di, 1961.24 E. Collotti, Fascismo, fascismi, Milano, Sansoni, 1994, p. 56 (1ª ed. 1989).25 Cfr. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961), cit., p. 292.

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dare al fascismo un nuovo dinamismo»26.Nonostante l’intensificarsi, nella seconda metà degli anni Trenta, degli scam-

bi diplomatici e politici fra le due potenze fasciste, e benché sia evidente che l’attrazione esercitata dal regime hitleriano («patria dell’antisemitismo») sui mo-vimenti della destra nazionalista europea non potesse che aggravare la sorte degli ebrei in tutto il continente, è un punto ormai riconosciuto dalla storiografia che non vi furono pressioni dirette del regime hitleriano sull’alleato fascista e che «la decisione italiana di perseguitare gli ebrei fu adottata in piena autonomia»27.

In questa prospettiva, è stata più volte presa in considerazione dagli studiosi delle leggi antiebraiche e della politica della razza una acutissima affermazio-ne pronunciata, nel 1935, dall’anarchico Camillo Berneri, strenuo avversario del fascismo:

Se l’antisemitismo diventasse necessario alle necessità del fascismo italiano, Mussolini, peggio di Machiavelli, seguirebbe Gobineau, Chamberlain e Woltmann e parlerebbe, anche lui, di razza pura28.

Già citato da Sarfatti29, il brano di Berneri ha assunto centralità nell’interpreta-zione di Matard-Bonucci, che lo ha posto ad epigrafe al capitolo decimo (“L’an-tisemitismo, mito per l’azione”) del suo L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei30.

Nella lettura della storica francese, il punto di svolta è rappresentato dalla conquista dell’Etiopia nel 1935-36. Contrariamente però ad altre interpretazio-ni31, l’importanza di quell’evento non è dovuta all’adozione delle leggi contro il

26 Cfr. R. De Felice, Introduzione alla nuova edizione tascabile, Id., Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993, pp. VII-XXII, p. VIII.27 Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., pp. 120-121.28 C. Berneri, Il delirio razzista [1935], in Id., Mussolini grande attore. Scritti su razzismo, dittatura e psicologia delle masse, a cura di A. Cavaglion, Santa Maria Capua Vetere, Spartaco, 2007, pp. 171-233, p. 177.29 Cfr. M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Torino, Zamorani, 1994, p. 5; Id., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2000, p. 82.30 Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 117 e sgg.31 Cfr., ad esempio, E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2006 (1ª ed. 2003), cap. 2 “Razzismo anticoloniale e antisemitismo”; Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fa-scista. Vicende, identità, persecuzione, cit., pp. X, 108 e sgg. Un discorso a parte meritano gli studi di P. Dogliani (Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Torino, Utet, 2008; L’Italia fascista. 1922-1940, Firenze, Sansoni, 1999), dove nell’ambito di una interpretazione tutta interna alla storia del regime fascista e alla vicenda di una parte del cattolicesimo italiano, viene delineata una escalation attraverso la quale dal razzismo coloniale e dall’impegno per il miglioramento quantitativo e qua-litativo della «razza italiana» (con i temi connessi all’eugenetica, all’igiene sociale e alla condanna

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meticciato (dalle fonti, secondo Matard-Bonucci, non emergono legami necessa-ri tra la politica razzista che si costruì nell’impero e la legislazione antiebraica del 1938-39)32, quanto piuttosto al fatto che l’impresa africana pose la «storia interna del regime» sotto il segno di una mobilitazione continua33. Da allora in poi, come intuì uno dei più importanti interpreti coevi del fascismo, citato dalla stessa Matard-Bonucci, la guerra e il conseguente «clima» di tensione non avreb-bero rappresentato una «eventualità», ma «una certezza ed una necessità»34.

La disillusione che, nel 1936, seguì alle forti aspettative suscitate dalla con-quista dell’Etiopia («la grande avventura politico-militare» di una intera gene-razione di gerarchi fascisti) rese immediatamente necessaria «una nuova batta-glia». In quel contesto trovarono spazio, già nel corso del 1937, tutta una serie di manifestazioni pubblicistiche, le quali benché si limitassero – come nel caso del libro di Paolo Orano, Gli ebrei in Italia – a riprendere la tradizionale questione ebraica (senza, dunque, legami con la politica razzista dell’impero)35, erano co-munque «in sintonia con una svolta potenziale del regime», della quale costitui-vano un chiaro sintomo36. Secondo le parole di Matard-Bonucci:

Dopo aver permesso lo sviluppo sulla stampa italiana di un dibattito sulla questione ebraica, l’antisemitismo di Stato era una possibilità che Mussolini cominciava a pren-dere in considerazione. La decisione di trasformare il tentativo dal campo della propa-ganda in una pratica persecutoria, arrivò in un momento di stasi nella storia del tota-litarismo fascista. L’antisemitismo di Stato fu pensato come un mezzo per rilanciare la macchina totalitaria, per mobilitare le élite e le organizzazioni fasciste in una nuova battaglia37.

Per un breve periodo la partecipazione italiana alla guerra di Spagna, in nome della «crociata antibolscevica» (come ripeteva ossessivamente la propaganda),

dell’omosessualità) si arriva fino al 1938 e alla promulgazione delle leggi antiebraiche.32 Un esempio «a contrario» è facilmente individuabile ne “La Difesa della Razza” che, pubblicata a partire dall’agosto 1938, avrebbe rappresentato la vetrina del razzismo fascista, unendo l’odio per gli ebrei e quello per gli africani (cfr. F. Cassata, “La Difesa della razza”. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi, 2008). Tuttavia, fino al 1938, razzismo antiafricano e antisemitismo continuarono a inserirsi in tradizioni ideologiche diverse (Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 66).33 Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 123.34 Si veda l’epilogo di A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922, Firenze, La Nuova Italia, 1950, ora nella nuova edizione curata da S. Soave (Firenze, La Nuova Italia, 1995). L’edizione originale venne pubblicata a Parigi, in lingua francese, nel 1938.35 Cfr. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 123.36 Cfr. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, cit., p. 41.37 Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 124.

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sembrò dare nuovo slancio alla rivoluzione fascista. Tuttavia, la stabilizzazio-ne dei combattimenti, la fatica crescente nelle truppe, la moltiplicazione delle diserzioni determinarono la decisione, tra la fine del 1937 e l’inizio del 1938, di uscire dal conflitto spagnolo. In quel frangente, Mussolini rifletteva già sui nuovi mezzi per mantenere un clima di tensione, confidando a Ciano: «Quando finirà la Spagna, inventerò un’altra cosa; ma il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento»38. Si inserì a questo punto la scelta strumentale dell’antisemiti-smo di Stato, «destinata a mobilitare le élite fasciste e a mantenere in attività la macchina propagandistica e amministrativa del regime»39.

Come è ormai evidente, l’interpretazione di Matard-Bonucci fa esplicito rife-rimento alle tesi di Hannah Arendt, secondo la quale il bisogno di mobilitazio-ne è una delle caratteristiche dei regimi totalitari40. Il riferimento è a un’idea di «permanent revolution», intesa come priorità per i totalitarismi di applicare una legge del movimento del tutto artificiosa, pena l’arresto del loro funzionamento.

Secondo Matard-Bonucci, la scelta dell’antisemitismo di Stato venne presa da Mussolini fra l’estate e l’autunno del 1937. Le improvvisazioni che caratterizza-rono, l’anno successivo, l’esordio della campagna razziale41, fanno poi ritenere che le modalità di esecuzione non vennero precisate fino all’estate del 1938. An-che per questa valutazione dei meccanismi operativi, un approccio storiografico attento al versante amministrativo porta a prediligere analisi che mettano l’ac-cento sulla grande discontinuità rappresentata dall’applicazione delle leggi an-tiebraiche rispetto alla precedente storia dei rapporti tra fascismo ed ebraismo:

La prima differenza fra fascismo e nazismo – hanno scritto con chiarezza Alberto Ca-vaglion e Gian Paolo Romagnani – consiste nel fatto che al primo l’ebraismo legò per qualche tempo il suo destino, dal secondo fu perseguitato e basta42.

È senz’altro opportuno ricordare il decreto del 30 ottobre 1930, n. 1731, il co-siddetto «Concordato ebraico», con il quale il governo fascista diede un nuo-vo assetto giuridico alle comunità israelitiche italiane, trasformandole in enti pubblici. Questa normativa rappresenta un aspetto solitamente trascurato dalla storiografia e si dimentica così che venne salutata, invece, come un grande suc-

38 Citato ivi, p. 127.39 Ivi, pp. 128, 134.40 Cfr. ivi, p. 163.41 Con particolare riferimento alle concitate comunicazioni tra amministrazione centrale e ammi-nistrazioni periferiche in occasione del censimento speciale degli ebrei fissato per il 22 agosto 1938.42 Cfr. A. Cavaglion, G.P. Romagnani, Le interdizioni del duce. Le leggi razziali in Italia, prefazione di P. Treves, seconda edizione aggiornata e ampliata, Torino, Claudiana, 2002, pp. 23, 26.

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cesso da parte della minoranza ebraica. In molti casi, quanto accadde a partire dal 1938 ha favorito una lettura distorta del rapporto precedente tra fascismo ed ebrei, mentre è bene tener presente che questi ultimi non furono sempre una minoranza perseguitata dal regime43.

Pertanto, dal punto di vista giuridico e istituzionale si può ben dire che nel 1938 «lo Stato fascista si improvvisò antisemita»44. Al contrario, interpretazioni che pun-tino sulla storia culturale prediligono piuttosto letture all’insegna della continuità:

Alla luce della politica culturale fascista, la campagna antisemitica non fu che il culmi-ne logico – seppure estremo – degli atteggiamenti culturali del regime. Dal punto di vi-sta della politica culturale, l’antisemitismo fascista rafforzò infatti la ricerca delle radici storiche dell’identità nazionale, puntellò il tema della romanità, rinvigorì la campagna xenofoba e antiborghese, e alimentò la visione di un intatto fervore rivoluzionario45.

Resta inteso che il carattere di «improvvisatezza» non vuole concedere atte-nuanti al fascismo e, ancora meno, relativizzare le sue colpe. Infatti, come hanno voluto precisare Cavaglion e Romagnani, «l’impreparazione, la superficialità in mano a chi governa uno Stato totalitario sono armi non meno micidiali di quelle sguainate da chi persegue lo stesso obiettivo in modo più rigoroso»46.

4. L’organizzazione amministrativa della persecuzione

Nell’estate 1938, la stagione dell’antisemitismo di Stato si aprì con una propa-ganda di grande portata e con un rodaggio della macchina amministrativa. Men-tre, infatti, all’inizio di agosto cominciava a uscire il quindicinale di Telesio In-terlandi “La Difesa della razza”, nelle stesse settimane la Direzione generale per la demografia e la razza (istituita il mese precedente nell’ambito del Ministero dell’Interno) gestiva un censimento speciale degli ebrei, allo scopo «di identifi-care i potenziali perseguitandi»47.

43 Cfr. S. Dazzetti, Gli ebrei italiani e il fascismo: la formazione della legge del 1930 sulle comunità israelitiche, in Mazzacane (Hrsg.), Diritto economia e istituzioni nell’Italia fascista, cit., pp. 219-254.44 Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., pp. 9, 12. 45 P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, prefazione di R. De Felice, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 147.46 Cavaglion, Romagnani, Le interdizioni del duce. Le leggi razziali in Italia, cit., p. 24.47 Cfr. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, cit., p. 147. Il riferimento

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Indubbiamente, il censimento del 22 agosto 1938 rappresentò «un passaggio centrale nella politica antisemita del fascismo»48, la base della legislazione an-tisemita emanata a partire dal settembre successivo, in quanto ebbe – secondo le parole di Sarfatti – «un’impostazione razzistica e non religiosa», riguardando tutti coloro che, «indipendentemente dalle proprie identità e convinzioni religio-se», avessero «almeno un genitore ebreo o ex ebreo»49.

Il governo fascista, tuttavia, disponeva già di dati affidabili sulla presenza ebraica nel paese ed era difficile pensare che una rilevazione organizzata in tutta fretta nel mese di agosto potesse dare una stima più raffinata di quelle già in mano all’Istat. Ma, come ha scritto Matard-Bonucci, quel censimento

fu destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare; rap-presentò il primo test nazionale per giudicare l’efficienza delle amministrazioni pub-bliche e delle strutture fasciste attraverso una delle più vaste operazioni di ricerca e di controllo sociale mai realizzate dopo le grandi retate antifasciste degli anni Venti50.

Sotto la scorta dei migliori studi regionali e locali sui meccanismi del censimento e della persecuzione, Collotti ha parlato di mezzi di accertamento a volte «rozzi e banali», come il mandare vigili urbani o carabinieri a interrogare portinai e custodi di abitazioni circa la presenza di ebrei. Indagini che spesso avvenivano «sulla base di elementi del tutto approssimativi», come l’assonanza di cognomi ebraici. Tuttavia – prosegue lo studioso –,

l’avere demandato, come del resto era normale, le operazioni del censimento ai comu-ni coinvolse un notevole numero di dipendenti comunali, che si videro stretti al regime da una sorta di complicità; questo fu uno tra i non ultimi risultati anche psicologici del censimento, che ebbe tra i suoi effetti anche quello di preparare la popolazione alla segregazione e all’isolamento degli ebrei dal resto della società51.

È ancora Collotti a rilevare la complessità dell’accertamento dei dati, la mol-teplicità delle fonti interrogate e, di conseguenza, la «proliferazione di elenchi di ebrei» e le «notevoli confusioni» che si manifestarono in molte prefetture e questure d’Italia, a partire dalla tarda estate del 193852.

è al censimento del 22 agosto 1938.48 F. Cavarocchi, Il censimento degli ebrei dell’agosto 1938, in “La Rassegna mensile di Israel”, 2007, n. 2, pp. 119-130.49 Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, cit., p. 30.50 Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 28.51 Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, cit., pp. 65-66.52 Ivi, p. 67.

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Nello stesso tempo, gli approfondimenti locali consentono di delineare uno scenario diverso da quello tratteggiato da De Felice, stando al quale – come è noto – le autorità locali avrebbero dimostrato «in genere una certa tendenza a non infierire troppo sugli ebrei e a non applicare alla lettera le disposizioni che venivano emanate dal centro»53. Infatti, secondo le parole di Matard-Bonucci:

L’esecuzione delle leggi si compì attraverso il dialogo abituale fra le amministrazioni locali e il potere centrale, con la Demorazza che svolgeva una funzione consultiva in caso di dubbio o ambiguità54.

I prefetti costituirono il primo anello della catena di persecuzione che, dal Mini-stero dell’Interno, raggiungeva tutte le amministrazioni comunali, nessuna delle quali si oppose ai provvedimenti antisemiti: i podestà eseguivano fedelmente le direttive del prefetto. Si verificò a volte “l’inceppamento” di questo meccanismo amministrativo, ma non per ribellione degli impiegati al carattere iniquo delle mi-sure, quanto piuttosto per le conseguenze del sovraccarico di lavoro, a volte com-pensato dal versamento di una indennità. In occasione dell’indagine del 22 agosto 38, ad esempio, venne autorizzato il ricorso al lavoro straordinario degli impiegati comunali, per il quale lo stesso Ministero dell’Interno – venendo in soccorso delle amministrazioni municipali – avrebbe provveduto a un parziale rimborso55.

Nel 1938-39 la macchina persecutoria del regime prese forma basandosi non solo sull’apparato statale ordinario, ma anche sulle nuove strutture del settore pubblico cresciute negli anni tra le due guerre mondiali. Ai tradizionali setto-ri dell’amministrazione centrale, degli enti locali, della scuola e della difesa, si erano aggiunte infatti nuove burocrazie, quelle degli enti parastatali, del Partito nazionale fascista, delle amministrazioni sindacali e corporative, che già negli anni Venti erano state protagoniste della penetrazione del fascismo nel paese56.

Una volta lanciata la campagna antisemita, fu proprio il Pnf a essere conside-rato uno strumento privilegiato di mobilitazione sul territorio:

I quadri locali – segretari federali, segretari politici e responsabili dei gruppi di quar-tiere o dei Fasci femminili – furono incaricati di applicare le misure razziali all’interno stesso dell’organizzazione fascista; furono loro a radiare gli ebrei dalle fila del PNF, a controllare che nessun iscritto fosse di «razza ebraica»57.

53 De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961), cit., p. 415.54 Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 152.55 Cavarocchi, Il censimento degli ebrei dell’agosto 1938, cit., pp. 120-121.56 Cfr. S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000; Salvati, Gli Enti pubblici nel contesto dell’Italia fascista, cit., pp. 28-41.57 Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 166. La direttiva del partito

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Se dunque la macchina persecutoria del regime ebbe al suo centro il Ministero dell’Interno (con la Demorazza), si assistette altresì, fin dall’inizio, a una vera e propria «competizione fra le varie istituzioni», in una sorta di gara di zelo. Com-petizione che trovò riscontro anche dentro l’amministrazione centrale, dove «in ogni ministero ci si ingegnò a proporre innovazioni e perfezionamenti», ad esem-pio attraverso lo strumento delle circolari58. Cosicché, l’introduzione delle leggi antiebraiche venne preceduta e accompagnata da una serie di disposizioni am-ministrative che spesso svolsero un ruolo importante all’interno della campagna razziale, apportando correzioni tecniche o sostanziali alla normativa e talvolta anticipando misure persecutorie poi confermate da leggi successive59.

In anticipo sui tempi della rilevazione nazionale, il 9 agosto 1938, con una circolare firmata da Bottai e diretta a tutte le amministrazioni dipendenti, il Mi-nistero dell’Educazione nazionale dava il via, all’interno dei suoi ranghi, al cen-simento del personale di razza ebraica. Parlando in prima persona («trasmetto un congruo numero di schede»), il ministro avvertiva che i moduli inviati per il censimento dovevano essere distribuiti a tutti coloro che, «di ruolo o non di ruo-lo», prestassero servizio

presso i dipendenti uffici, istituti e scuole – anche se pareggiate o parificate – ivi com-presi, per le Università e gli Istituti superiori, i liberi docenti (anche se non esercitino temporaneamente l’insegnamento), con l’invito a riempirle ed a firmarle, sotto la per-sonale responsabilità del dichiarante60.

Le «schede personali» dovevano essere restituite alle rispettive direzioni gene-rali entro la fine di settembre. Nella parte superiore di ogni modulo, insieme al nome, al cognome, al luogo e alla data di nascita dell’impiegato, venivano richiesti i nominativi del padre, della madre ed eventualmente del coniuge. Se-guiva un questionario di sette domande, di cui solamente una offriva possibilità di argomentazione:

a) se appartenga alla razza ebraica da parte di padre: si/nob) se sia iscritto alla comunità israelitica: si/noc) se professi la religione ebraica: si/no

che prevedeva l’esclusione degli ebrei dal Pnf è del 26 ottobre 1938. 58 Cfr. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 155.59 Cfr. A. Cristaldi, La legislazione scolastica razziale e l’antisemitismo amministrativo del Ministero dell’Educazione nazionale, in “Le Carte e la Storia”, 2001, n. 2, pp. 191-197, p. 191.60 Circolare del gabinetto del Ministero dell’Educazione nazionale, firmata Bottai, a tutte le auto-rità dipendenti, 9.8.1938, n. 12336, in Archivio centrale dello Stato (Acs), Ministero della Pubblica istruzione (Mpi), Accademie e Biblioteche, 1926-1948, b. 74, f. “Censimento del personale di razza ebraica”.

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d) se professi altra religione e quale: si/noe) se la conversione ad altra religione sia stata effettuata da lui o dai propri

ascendenti, e quali, ed in quale data … [spazio per scrivere]f) se la madre sia di razza ebraica: si/nog) se il coniuge sia di razza ebraica: si/no

Il modulo si concludeva con lo spazio riservato alla data e alla firma dell’im-piegato. All’inizio di ottobre, quando secondo i tempi dettati dalla circolare del 9 agosto il censimento doveva essersi concluso, una nota del gabinetto dell’E-ducazione nazionale, rivolta ai direttori generali del dicastero, richiamava alla necessità di presentare al più presto i risultati, se non altro provvisori, di quel lavoro di schedatura:

In attesa che siano pervenute alle singole Direzioni generali tutte le schede relative al censimento del personale di razza ebraica, e che sia, conseguentemente, possibile comunicare il prospetto riassuntivo richiesto dalla circolare ministeriale n. 12336 del 9 agosto, S.E. il Ministro, nell’imminenza della riunione del Gran Consiglio del Fascismo, dispone che siano inviate al suo Gabinetto non oltre il giorno di martedì 4 corrente, le seguenti notizie per ciascuna delle categorie del dipendente personale: a) numero complessivo del personale censito; b) numero del personale che si trova nelle condi-zioni di cui all’art. 6 del R.D. 5 settembre 1938 XVI n. 1390 (nato da genitori entrambi di razza ebraica)61; c) numero del personale nato da genitori, uno solo dei quali sia di raz-za ebraica (da suddividere in due categorie, a seconda che alla razza stessa apparten-ga il padre, oppure la madre). Vi prego di volere cortesemente provvedere in conformi-tà e di sollecitare altresì telegraficamente le dipendenti autorità per l’immediato invio di tutte le schede del censimento che eventualmente non fossero ancora pervenute62.

Come si diceva inizialmente, il ruolo trascinante del ministro Bottai nel proces-so di «arianizzazione» della scuola è ben noto; ancora da approfondire, invece, sono le modalità operative concretamente attuatesi nei singoli uffici del ministe-ro, ad esempio nell’ambito dell’amministrazione bibliotecaria. Possiamo subito dire che quest’ultima tenne il passo imposto da Bottai e, nei tempi richiesti, fornì i dati riprodotti nella tabella sottostante.

61 Si trattava del primo provvedimento legislativo antisemita adottato dallo Stato fascista, quello che disponeva l’«arianizzazione» della scuola, con l’esclusione di studenti e docenti di «razza ebrai-ca».62 La nota del gabinetto dell’Educazione nazionale, 2.10.1938, era indirizzata ai direttori generali dell’Istruzione elementare; dell’Istruzione media classica, scientifica e magistrale; dell’Istruzione media tecnica; delle Antichità e belle arti; delle Accademie, biblioteche, affari generali e personale (Acs, Mpi, Accademie e Biblioteche, 1926-1948, b. 74, f. “Censimento del personale di razza ebraica”). Nello stesso fascicolo si veda, anche, una successiva nota del gabinetto dell’Educazione nazionale, datata 8.10.1938.

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Carlo De Maria, Biblioteche 73

Tab. I. Censimento del personale di «razza ebraica» addetto alle biblioteche pubbliche gover-native e alle soprintendenze bibliografiche, al 30 settembre 1938.

Categoria

Personale censito

con entrambi i genitori di razza

ebraica

solo il padre di

razza ebraicasolo la madre di

razza ebraicaTotale

schede

Gruppo A 5 1 / 91

Gruppo B / / 1 54

Gruppo C 1 1 1 104

Personale subalterno / / 1 101

Professori comandati 4 / 3 90

Avventizi / / / 2

Fattorini / / / 140

Volontari 1 / / 29

Ispettori bibliografici onorari 6 1 / 371

Fonte: Acs, Mpi, Accademie e Biblioteche, 1926-1948, b. 74, f. “Censimento del personale di razza ebraica”.

Nel settembre 1938 vennero promulgati i primi provvedimenti legislativi. Dopo il decreto di espulsione degli ebrei stranieri (r.d.l. 1381/1938) e i provvedimenti relativi all’arianizzazione della scuola pubblica (a partire dal r.d.l. 1390/1938), con allontanamento dalle scuole di ogni ordine e grado, università comprese, di tutti gli insegnanti, scolari, studenti di «razza ebraica», venne sancita in novem-bre, con un provvedimento di ordine generale, l’esclusione da tutti gli impieghi pubblici e assimilati (r.d.l. 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la dife-sa della razza italiana) e in dicembre quella dal servizio militare e dall’esercito (r.d.l. 2111/1938)63. Contemporaneamente iniziò, con lo stesso r.d.l. 1728/1938, la progressiva espulsione degli ebrei dalle attività e dagli impieghi privati, che sarebbe proseguita con l’emanazione della legge 29 giugno 1939, n. 1054, rela-tiva alla Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica, e con altri provvedimenti minori. Accanto ai divieti relativi alle perso-ne, si andarono accumulando anche i divieti relativi alle cose (i limiti imposti alla proprietà e alla gestione di aziende e i limiti sulla proprietà immobiliare), accompagnati naturalmente da ulteriori e specifici censimenti, che coinvolsero

63 Si veda l’esaustiva esposizione di Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecu-zione, cit., p. 150 e sgg. (il par. “Caratteristiche e svolgimento della persecuzione”).

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banche, intendenze di finanza, uffici tecnici erariali, ecc.64 I beni «eccedenti» ve-nivano espropriati e incamerati dal nuovo Ente di gestione e liquidazione immo-biliare, istituito nel febbraio 1939.

Per comprendere i successivi passaggi dell’antisemitismo amministrativo, sarà utile prima conoscere il sistema classificatorio fissato dal r.d. 17 novembre 1938, n. 1728 (Provvedimenti per la difesa della razza italiana). Riassumendo a grandi linee la normativa, il regime fascista considerava di «razza ebraica»: 1) chi fosse nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se non professava la religione ebraica; 2) chi avesse uno solo dei genitori di razza ebraica, ma l’altro fosse di nazionalità straniera, anche in questo caso senza riguardo alla scelta re-ligiosa dell’interessato; 3) chi fosse nato da genitori italiani uno solo dei quali di razza ebraica, ma professasse la religione ebraica o fosse, comunque, iscritto a una comunità israelitica. Si salvavano, dunque, dalle misure persecutorie i figli di unioni miste, i quali (alla data del 1° ottobre 1938) non risultassero appartenenti alla religione ebraica e a patto, naturalmente, che i genitori fossero di nazionali-tà italiana. Come si vede, nei criteri di valutazione si intrecciavano motivi biolo-gici, xenofobi e religiosi, con una netta prevalenza, comunque, dell’impostazione razzista-biologica65.

5. Censimento ed esclusione nelle biblioteche

Tra l’agosto e il settembre 1938, furono censiti 350 impiegati di ruolo delle bi-blioteche pubbliche governative (gruppi A, B, C e personale subalterno). Appena due mesi prima, in giugno, era stato approvato un nuovo organico di 451 unità, ma alla prova dei fatti l’ordinamento del personale era, all’inizio di autunno, ancora quello fissato dal r.d. 690/1932, le cui tabelle prevedevano 361 impiegati. Infatti, secondo una «avvertenza» che l’amministrazione bibliotecaria accompa-gnò ai primi dati del censimento, mancavano all’appello solamente 4 schede del personale di ruolo (previsione plausibile considerando la possibilità di alcuni posti vacanti), oltre a circa 150 schede di ispettori bibliografici onorari, che in tut-to superavano il mezzo migliaio. Le schede mancanti erano state naturalmente «sollecitate».

64 Per un importante “caso” di studio, F. Levi (a cura di), Le case e le cose. La persecuzione degli ebrei torinesi nelle carte dell’EGELI. 1938-1945, Torino, Compagnia di San Paolo, 1998.65 Cfr. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., pp. 156-159.

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La percentuale più alta di impiegati di ruolo di origine ebraica si riscontrava nel gruppo A, cioè la categoria (direttiva e di concetto) che implicava un titolo di studio universitario. Qui la presenza ebraica raggiungeva un dato del 6,6% (6 impiegati su 91) rispetto a una percentuale complessiva, nelle quattro categorie dell’ordinamento organico, pari al 3,1%. Analogamente, fuori dal ruolo delle bi-blioteche, emergeva la categoria dei professori comandati (7 docenti di origine ebraica su 90, pari al 7,8%), mentre troppo incompleti erano i dati relativi agli ispettori bibliografici onorari per poter compiere delle valutazioni attendibili.

Negli anni Trenta, gli ebrei costituivano circa l’1,1 per mille dell’intera popo-lazione italiana, «una minoranza di dimensioni assai ridotte», ma con caratteri peculiari66. Fortemente urbanizzata e con gradi di alfabetizzazione e di istruzio-ne nettamente più elevati di quelli medi nazionali, il 70% della minoranza ebrai-ca faceva parte di nuclei con capofamiglia commerciante, impiegato o profes-sionista, delineando i contorni di un gruppo a fisionomia prettamente borghese67. Se i dati relativi ai bibliotecari di Stato non devono quindi sorprendere, tuttavia il gruppo A delle biblioteche pubbliche governative va segnalato come uno dei profili professionali dove la presenza ebraica raggiungeva i valori più elevati. Ri-spetto ai dati statistici forniti da Sarfatti (che non considera i bibliotecari), solo i professori ordinari e straordinari «di razza ebraica» raggiungevano, nell’autunno 1938, un valore superiore a quello dei bibliotecari, pari al 7% della categoria68.

Di rilievo appaiono senza dubbio le singole «schede personali»69. Tra gli im-piegati di ruolo, si contavano dunque cinque funzionari di gruppo A con entram-bi i genitori di «razza ebraica», ai quali era da aggiungere un agente d’ordine del gruppo C. Elencandoli in ordine gerarchico, incontriamo, innanzi tutto, i nomi di Anita Mondolfo (Senigallia 1886) e di Giuseppe Guglielmo Passigli (Firenze 1877). La prima, benché ferma al grado VII di «bibliotecario direttore di 2ª clas-se», era già stata alla guida, nel 1936-37, della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, prima di esserne allontanata per motivi politici e trovarsi destinata alla Biblioteca universitaria di Padova, poi all’Angelica di Roma. Il secondo, anch’egli funzionario di grado VII, era stato nominato segretario dell’Aib nel 1936 e ricopri-va, dal 1933, il ruolo di vicedirettore alla Nazionale centrale “Vittorio Emanuele

66 Cfr. ivi, p. 27.67 Cfr. ivi, pp. 42-43.68 Cfr. ivi, p. 49.69 Le «schede personali» conservate nel fascicolo in esame (Acs, Mpi, Accademie e Biblioteche, 1926-1948, b. 74, f. “Censimento del personale di razza ebraica”) sono tutte copie conformi, compi-late a macchina negli uffici del ministero, mentre le schede originali, solitamente riempite a mano dai singoli impiegati, sono conservate nella successiva b. 75. Oltre alle «schede personali», le bb. 74-75 contengono anche dati e informazioni professionali sui singoli dipendenti raccolte, autono-mamente, dalla Direzione generale accademie e biblioteche.

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II” di Roma, dopo aver compiuto difficili esperienze direttive all’Universitaria di Messina e alla Nazionale di Palermo70. Il terzo nominativo dell’elenco era quello di Fernanda Ascarelli (Roma 1903), che con il grado VIII di «bibliotecario capo» lavorava alla Nazionale centrale di Roma e aveva appena partecipato, insieme al collega Passigli e alla stessa Anita Mondolfo, al V congresso dell’Aib tenutosi a Trento e Bolzano nel maggio 193871. Ancora all’inizio di una promettente car-riera si trovavano, invece, Mario Rossi (Roma 1910) e Laura Luzzatto Coen (Trie-ste 1911), entrambi bibliotecari di grado IX, entrati in servizio con i concorsi dei primi anni Trenta e impiegati, rispettivamente, alla Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma (ma distaccato al ministero) e alla Biblioteca nazio-nale centrale di Firenze. Oltre a questi cinque dipendenti di gruppo A, risultava di origine ebraica da parte di entrambi i genitori anche Maria Luisa Efrati (Roma 1914), assistente d’ordine di grado XII, addetta alla Nazionale centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma.

Le loro schede personali vennero compilate e firmate tra il 18 agosto e il 16 settembre 193872. Mentre Mondolfo, Ascarelli, Rossi ed Efrati dichiararono di professare la religione ebraica, al contrario Passigli e Luzzatto Coen resero noto di essersi convertiti al cattolicesimo: il primo nel 1933, insieme alla madre, la seconda nel gennaio 1938. Nonostante questo, il fatto che entrambi i genito-ri fossero di «razza ebraica» portò come necessaria conseguenza che anch’essi fossero considerati ebrei e, dunque, esclusi e licenziati dalla pubblica ammini-strazione.

L’antisemitismo amministrativo conosceva però delle complicazioni (e, dun-que, la necessità di impegnare gli uffici in ulteriori verifiche) nel caso di impiegati «meticci», cioè di «sangue ariano» per il 50%. Si trattava, in particolare, del per-sonale «nato da genitori uno solo dei quali di razza ebraica», che nella tabella approntata dall’amministrazione bibliotecaria nell’autunno 1938 venne suddivi-so in due colonne, a seconda che l’origine ebraica fosse da attribuire al padre o alla madre.

Ricadevano nel primo caso due operatori delle biblioteche: una funzionaria di gruppo A, Emma Coen Pirani (Pisa 1910), bibliotecaria di grado IX presso l’Uni-versitaria di Bologna, e una aiutante di gruppo C, Mafalda Sangalli Del Vecchio (Milano 1907), in servizio alla Biblioteca nazionale Braidense. La prima era di

70 Cfr. A. Petrucciani, Un bibliotecario giramondo e la damnatio memoriae: Gugliemo Passigli (1877-1942), in Studi e testimonianze offerti a Luigi Crocetti, Milano, Editrice Bibliografica, 2004, pp. 389-409.71 Lo rileva sempre Petrucciani, Un bibliotecario giramondo e la damnatio memoriae: Gugliemo Passigli (1877-1942), cit.72 Si fa riferimento alle «schede personali» autografe e alle altre informazioni biografiche raccolte in Acs, Mpi, Accademie e Biblioteche, 1926-1948, bb. 74-75.

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religione ebraica, mentre la seconda non risultava iscritta alla comunità israe-litica e si professava cattolica73. Di conseguenza, mentre la legislazione razzia-le condannava Coen Pirani, lasciava invece uno spiraglio a Mafalda Sangalli, a meno che la madre non fosse di nazionalità straniera. È proprio quello che ve-rificarono, nella prima metà di ottobre, gli uffici della Direzione generale acca-demie e biblioteche. Si misero in contatto, a questo scopo, con il direttore della Braidense, Paolo Nalli, che poté confermare la nazionalità italiana della madre della sua dipendente. La stessa verifica venne fatta anche per Coen Pirani (nel caso giungessero notizie di una sua recente conversione): anche sua madre risul-tava italiana, come ribadiva il direttore dell’Universitaria di Bologna, Domenico Fava74.

Il censimento interno individuò, infine, tre dipendenti di origine ebraica da parte materna: Bianca Delfini (Roma 1905), ordinatrice presso la Nazionale cen-trale “Vittorio Emanuele II”; Ugo Aschieri (Parma 1881), primo coadiutore presso la Braidense di Milano, e Giorgio Leoni (Milano 1910), custode, anch’egli in servi-zio alla Braidense75. Tutti professavano la religione cattolica e non erano iscritti alla comunità israelitica. Prima di archiviare la loro pratica, l’amministrazione bibliotecaria volle verificare anche in questo caso la nazionalità dei genitori, che risultarono italiani, secondo le assicurazioni provenienti dai direttori delle rispettive biblioteche, Paolo Nalli e Nella Vichi Santovito76.

Concluse le procedure di verifica, con decreto ministeriale del 13 febbraio 1939, furono dispensati dal servizio – ai sensi del r.d.l. 17 novembre 1938, n. 1728, che prevedeva il licenziamento degli ebrei da tutti gli impieghi pubblici e assi-milati –, i sette impiegati di «razza ebraica»: Anita Mondolfo, Giuseppe Gugliel-mo Passigli, Fernanda Ascarelli, Mario Rossi, Emma Coen Pirani, Laura Luzzatto Coen, Maria Luisa Efrati. Il direttore generale delle Accademie e Biblioteche ne informava in aprile anche la Ragioneria centrale del Ministero dell’Educazione nazionale77.

Uscendo dai ruoli (e dai bilanci) dell’amministrazione bibliotecaria, è il caso di soffermarsi anche sui dati del censimento che si riferiscono agli insegnanti co-mandati, cioè quei docenti delle scuole secondarie posti al servizio delle biblio-

73 Le loro schede originali, entrambe compilate in settembre, sono conservate ivi.74 I telegrammi provenienti dalla Braidense di Milano e dall’Universitaria di Bologna, entrambi da-tati 13.10.1938, sono conservati ivi.75 Le loro schede originali, compilate in settembre, sono conservate ivi.76 I telegrammi provenienti dalla Nazionale centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma e dalla Brai-dense di Milano, entrambi datati 24.11.1938, sono conservati ivi.77 Nota del direttore generale delle Accademie e Biblioteche alla Ragioneria centrale del Ministero dell’Educazione nazionale, 18.4.1939, ivi.

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teche pubbliche governative e delle soprintendenze bibliografiche. Le procedu-re di controllo ed esclusione furono le medesime, ma dalle «schede personali» emergono alcuni frammenti di vita significativi.

Quattro di loro avevano entrambi i genitori di «razza ebraica»: Roberto Mena-sci (Livorno 1883), ex provveditore agli studi, comandato presso la Soprintenden-za bibliografica di Firenze e assegnato, in particolare, alla Biblioteca Labronica di Livorno; Ernesta Romanelli, in servizio al Centro nazionale di informazioni bi-bliografiche (su di lei non emergono altre notizie); infine, Giulio Reichembach (Verona 1886) e la più giovane Marcella Ravà (Camerino 1905), entrambi docenti di latino, ora colleghi presso la Soprintendenza bibliografica di Venezia. Al con-trario dei primi tre (Menasci, Romanelli e Reichembach), che nella loro scheda affermarono di professare la religione ebraica, Marcella Ravà si dichiarò atea e ammise di essere iscritta alla comunità israelitica di Padova, ma solo perché in-serita «nello stato di famiglia del padre». Compilando il questionario volle, anzi, aggiungere:

Ella si è sempre sentita italiana sotto ogni riguardo; e non ha mai avuto alcun particola-re attaccamento alla religione, e meno ancora alla razza ebraica. La sua adolescenza è stata dominata dall’impressione del padre che partecipò alla guerra e tornò ferito.

È stato Renzo De Felice a parlare di «un profondo attaccamento all’Italia, ai suoi destini e al suo Stato» da parte della minoranza ebraica della penisola. Note-volissimo era stato l’apporto degli ebrei al volontariato delle guerre coloniali e della Prima guerra mondiale. Un attaccamento che in parecchi casi – come quello che abbiamo appena visto – arrivò anche ad assumere forme di «ripudio della propria ebraicità»78. Certamente pesava il contesto nel quale si rispondeva a quelle domande: il carattere “estorto” delle dichiarazioni rese in quella sede, fatte anche per tentare di evitare conseguenze più gravi che allora solo si intu-ivano.

Tali dichiarazioni non risparmiarono, comunque, a Marcella Ravà l’applica-zione di quelle misure persecutorie, che riuscirono invece ad evitare altri tre pro-fessori comandati, di origine ebraica solamente da parte materna: Maria Strazio-ta (Bari 1888), insegnante di francese nei ginnasi; Emilia Cabrini (Piacenza 1894), docente di filosofia e storia nei licei; Alessandro Sabatucci (Roma 1882), già preside del liceo di Jesi. Come emergeva dalle loro schede personali, compilate puntualmente durante il mese di settembre, i tre non professavano la religione ebraica e non erano iscritti alla comunità israelitica. Poterono, così, conservare il posto di lavoro presso la Soprintendenza bibliografica di Roma, dove erano stati

78 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, nuova edizione ampliata, Torino, Einaudi, 1993, p. 16.

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comandati. In novembre, comunque, la Direzione generale accademie e biblio-teche non mancò di compiere – rivolgendosi alla soprintendente bibliografica di Roma, Nella Vichi Santovito – la consueta verifica sulla nazionalità dei genitori, che risultarono tutti di nazionalità italiana79.

Perse, invece, il posto in quei mesi il giovane Ezechia Mestre (Genova 1909), aspirante bibliotecario, allora in servizio «volontario» all’Universitaria di Geno-va. Essendo nato da «genitori entrambi di razza ebraica», Mestre non ebbe alcu-na possibilità di evitare i provvedimenti persecutori. La rimozione dal servizio fu inevitabile anche per sei ispettori bibliografici onorari (personale non retribuito al quale, su base volontaria, era affidata la sorveglianza sulle biblioteche popo-lari). Tra di loro un vecchio appassionato di libri, come doveva essere, guardan-do la data di nascita, Arnaldo Bonaventura (Livorno 1862), che svolgeva attività ispettiva per la Soprintendenza bibliografica di Firenze. Nella sua stessa situa-zione, si trovavano Salvatore Foà (Torino 1885), Adolfo Vital (Caregliano 1879), Alberto Gentili (Vittorio Veneto 1873), Riccardo Finzi (Correggio 1899) e Fernan-do Liuzzi (Senigallia 1884), che facevano riferimento alle soprintendenze biblio-grafiche delle rispettive regioni. Poté conservare le sue funzioni, invece, Emilio Ottolenghi, ispettore per le biblioteche popolari della provincia di Piacenza, che era di origine ebraica solo da parte del padre e professava la religione cattolica80.

6. L’oblio della persecuzione

Nel decennio 1945-1955, la cultura italiana dedicò «scarsissima attenzione» all’analisi della campagna antiebraica fascista, mentre il «perno centrale» della memoria collettiva elaborata nel dopoguerra fu sicuramente l’esperienza della Resistenza81. Emergeva sostanzialmente l’immagine, retorica, di una incompati-bilità di fondo tra società italiana e legislazione razziale, giungendo poi fino al punto di delineare una lettura apertamente assolutoria, tutta tesa ad attribuire le responsabilità della persecuzione al «tedesco», sopraggiunto nel 1943, aiutato da pochi «delatori». Questa interpretazione dei fatti sembrava dimenticare la

79 Cfr. il telegramma di risposta, 24.11.1938, è conservato in Acs, Mpi, Accademie e Biblioteche, 1926-1948, b. 74, f. “Censimento del personale di razza ebraica”.80 Ivi, bb. 74-75.81 G. Schwarz, Gli ebrei italiani e la memoria della persecuzione fascista (1945-1955), in “Passato e presente”, 1999, n. 47, pp. 109-130.

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capillare e implacabile «persecuzione dei diritti» che gli ebrei avevano subito in Italia a partire dalla svolta antisemita del 193882. Ma il punto veramente centrale, è che essa era largamente «diffusa nelle culture politiche italiane del dopoguer-ra», sia nel campo moderato che in quello delle sinistre83.

La prima storia degli ebrei negli anni del fascismo, quella pubblicata da Renzo De Felice nel 1961, rimase per lungo tempo un contributo isolato nel panorama della storiografia italiana, e venne promossa e finanziata, peraltro, dall’Unione delle comunità ebraiche (allora «israelitiche»).

È necessario almeno accennare ad alcuni dei motivi che determinarono que-sta duratura linea di tendenza. Tanto per cominciare, bisogna ricordare la funzio-ne deterrente che a una faticosa opera di riflessione oppose la continuità degli apparati, cioè la «continuità di istituzioni e persone, dall’amministrazione pub-blica all’università, già coinvolte nella propaganda e nella politica razziale»84. Il riferimento, insomma, è al fallimento delle politiche di epurazione85.

Si sarebbe dovuto attendere il 1988, cinquantenario dell’emanazione del-la normativa antiebraica, perché lo Stato italiano si facesse promotore, per la prima volta, attraverso la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, di iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla persecuzione degli ebrei86. Proprio gli atti del convegno allora promosso dalla Camera dei deputati comprendono «saggi che costituiscono il nucleo centrale di studi che troveranno compimento e completezza nel corso del decennio successivo», avviando così

82 Cfr. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, cit. A seguito della per-secuzione dei diritti, il «periodo della persecuzione delle vite» cominciò, nel nostro paese, dopo l’8 settembre 1943.83 Come nota, acutamente, T. Dell’Era, Contributi sul razzismo e l’antisemitismo a settant’anni dalle leggi razziali italiane, in A settant’anni dalle leggi razziali, numero monografico di “Ventunesimo secolo”, 2008, n. 17, pp. 9-20, p. 11.84 M. Toscano, Fascismo, razzismo, antisemitismo. Osservazioni per un bilancio storiografico, in Id., Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 208-243, p. 210.85 Si veda, anche per un bilancio storiografico, M. Salvati, Amnistia e amnesia nell’Italia del 1946, in M. Flores (a cura di), Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 141-161. Sull’epurazione amministrativa, G. Melis, Percorsi di continuità. L’epurazione nei ministeri, in N. Gallerano (a cura di), La Resistenza tra storia e memoria, Milano, Mursia, 1999, pp. 298-329. Per un quadro di riferimento sui rapporti tra Resistenza, epurazione e amministrazione dello Stato, C. Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini [1974], in Id., Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 70-159. 86 M. Toscano (a cura di), L’abrogazione delle leggi razziali in Italia, 1943-1987: reintegrazione dei diritti dei cittadini e ritorno ai valori del Risorgimento, Roma, Senato della Repubblica, 1988; Came-ra dei deputati, La legislazione antiebraica in Italia e in Europa. Atti del convegno nel cinquantena-rio delle leggi razziali (Roma, 17-18 ottobre 1988), Roma, Camera dei deputati, 1989.

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quella intensa stagione di studi che ha caratterizzato gli ultimi decenni87. Più recentemente, l’attività della commissione governativa incaricata di rico-

struire le vicende relative alla spoliazione dei beni ebraici (la cosiddetta «Com-missione Anselmi», il Resoconto dei lavori di questa commissione è datata 2001) ha indubbiamente contribuito, coinvolgendo alcuni consulenti-ricercatori, ad avviare una pista di indagine nuova, che in molti casi è stata sviluppata autono-mamente dal lavoro degli stessi studiosi in essa impegnati. Ne è un esempio la recente apertura storiografica sui complessi problemi relativi alle leggi di rein-tegrazione degli ex perseguitati e di restituzione dei beni ebraici sequestrati, confiscati o svenduti nel periodo 1938-4588.

La storia delle leggi razziali va cioè seguita ben oltre il 1945, ormai impossibi-le da considerare come un anno zero. Per i bibliotecari allontanati nel 1938 vale lo stesso discorso, come ha mostrato Alberto Petrucciani, in un ottimo saggio pubblicato nel 201089.

Terminata la guerra, ma non senza lentezze e contenziosi amministrativi, fun-zionari e impiegati delle biblioteche vennero reintegrati in servizio.

87 Cfr. Galimi, La persecuzione degli ebrei in Italia (1938-1943). Note sulla storiografia recente, cit., p. 587.88 Cfr. I. Pavan, G. Schwarz (a cura di), Gli ebrei in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione postbellica, Firenze, Giuntina, 2001.89 A. Petrucciani, Licenziamenti per motivi politici o razziali nelle biblioteche nel periodo fascista (1938-1943): appunti e ricerche, in R. Gorian (a cura di), Dalla bibliografia alla storia. Studi in onore di Ugo Rozzo, Udine, Forum, 2010, pp. 217-240, p. 234 e sgg.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 83-96

1. Bonificare la terra, lo spirito, la società

Al termine bonifica, genericamente, si associa la realizzazione di un complesso di opere infrastrutturali per la progettazione e l’esecuzione di lavori di sistema-zione dei suoli. In età moderna e fino agli inizi del Novecento, l’Italia sperimentò l’apertura di diversi cantieri per opere necessarie a prosciugare e risanare, argi-nare e ricostruire, a fini produttivi e igienici, terreni che periodicamente o occa-sionalmente erano soggetti a dissesto idrogeologico, con conseguente rischio di alluvionamento delle acque ristagnanti (bonifica idraulica-idrogeologica)1. I processi miravano alla trasformazione dei paesaggi, chiamavano in causa opere di rimboschimento e, più in generale, la modificazione strutturale di assetti ter-ritoriali al fine di rigenerare una condizione di equilibrio naturale tra montagna e pianura, e, ancora, tra costa e collina, tra città e campagna. Indubbiamente, non vi era solo la finalità produttiva, anzi, in origine la bonifica nacque con la fondamentale finalità di arginare emergenze sanitarie in seguito all’insorgenza di focolai epidemici che falcidiavano le popolazioni di determinate zone. Spes-so le bonifiche sanitarie si accompagnavano, precedendole, a quelle agrarie, in un altrettanto complesso sistema di misure profilattiche (visite mediche, veteri-narie, individuazione e trattamento dei portatori sani di determinate malattie, disinfestazione, distruzione dei serbatoi di virus) su persone, cose, vegetazione e

1 E. Novello, La bonifica in Italia. Legislazione, credito e lotta alla malaria dall’Unità al fascismo, Milano, Franco Angeli, 2003; P. Bevilacqua, M. Rossi Doria, Le bonifiche in Italia dal ‘700 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1984.

BonificaFRANCESCO DI BARTOLO

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animali per eliminare le fonti di contagio e debellare le malattie endemiche ed epidemiche2.

Con l’avvento del fascismo la bonifica si trasformò in una delle principali azio-ni sociali del regime. Essa divenne una delle leve attraverso cui la politica del fascismo tentò di trasmettere al paese quel sentimento di «rigenerazione» del corpo «vitale e pulsante» della nazione all’interno di una visione prettamente organicista3. In continuità amministrativa e finanziaria con il primo decennio del XX secolo, l’impegno politico nelle opere di bonifica fu declinato, questa volta, in un’enfasi crescente di rappresentazioni simboliche e di finalità sociali a forte impronta ideologica. Il fascismo volle intendere la bonifica non solo un fatto materiale, che ricoprì comunque un posto di primo piano nella programmazio-ne centralizzata del regime, ma soprattutto spirituale, che mirava a costruire l’uomo nuovo, e una rinnovata adesione alla nazione purificata dagli agenti in-fetti del vecchio regime incapace di risollevarne le sorti. Pertanto, termini come «bonifica spirituale» o «umana» evocarono metafore palingenetiche che entra-vano prepotentemente nella cultura politica del tempo, dilatando gli orizzonti di quest’ultima fino alla medicina che serviva a giustificare l’avvento del nuovo regime e l’irreggimentazione dei corpi e degli animi come una necessaria «pro-filassi nazionale»:

No, non è terrore, è appena rigore. E forse nemmeno; è igiene sociale, profilassi nazio-nale. Si levano questi individui dalla circolazione come un medico toglie dalla circola-zione un infetto4.

In questa prospettiva anche le città non erano risparmiate dalle politiche di bo-nifica. Interi quartieri all’interno delle mura urbane, ma abitati dal sottoproleta-riato urbano, furono considerati insalubri e fatiscenti e sarebbero stati sventrati per edificare i viali degli antichi «fasti imperiali». Pertanto, fu necessario trasfe-rire la popolazione dei rioni demoliti lontano dal centro, in aperta campagna, là dove essa avrebbe potuto apprezzare gli aspetti positivi della «vita rurale»5. 

L’urbanesimo, o la concentrazione massiccia della popolazione nella città, era visto ideologicamente come una modernità deteriore che deformava gli ag-glomerati urbani in «città tentacolare»6, luoghi di corruzione e di vizio per chi

2 P. Tino, Malaria e modernizzazione dell’Italia dopo l’Unità, in “I frutti di Demetra”, n. 8, 2005.3 R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 11-14.4 B. Mussolini, Discorso sull’ascensione, Roma, Libreria del Littorio, 1927, p. 52.5 Ci riferiamo al lavoro pioneristico di U. Viccaro, Storia di Borgata Gordiani. Dal fascismo agli anni del “boom”, Milano, Franco Angeli, 2007.6 David G. Corno, Organi sociali. Scienza, riproduzione, la modernità e l’italiano, Princeton, Prince-

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vi affluiva dalla campagna in cerca di lavoro. Tale modernità avrebbe creato disordine politico e sociale perché innestata in un sistema economico industrial-mente arretrato e incapace di assorbire tale eccedenza di manodopera:

Impedire l’immigrazione nelle città, sfollare spietatamente le medesime; facilitare con ogni mezzo e anche, se necessario, con mezzi coercitivi, l’esodo dai centri urbani; dif-ficoltare con ogni mezzo [...] l’abbandono delle campagne, osteggiare con ogni mezzo l’immigrazione a ondate nelle città7.

La conseguente pericolosità sociale, rappresentata dalla concentrazione di mas-se proletarie e irrequiete, sarebbe sorta facilmente dalla seduzione della propa-ganda socialista. Solo attraverso una espansione demografica, volta a favorire politiche che scoraggiavano l’abbandono delle campagne, si sarebbe costruita l’Italia nuova e bonificata e quindi immune dai mali dell’«edonismo, borghesi-smo, filisteismo».

Nelle campagne, invece, la bonifica doveva essere, per la prima volta, inte-grale, e cioè recuperare e rilanciare la produzione della nazione, veicolando, allo stesso tempo, l’ideologia ruralista8. Dal punto di vista tecnico significava rompere tutti i vincoli ecologici che avevano tenuto a freno lo sviluppo econo-mico di molte aree del paese e dare un rinnovato impulso all’attività di generale progresso dell’agricoltura, sia mediante la radicale trasformazione dell’ambien-te fisico, sia col perfezionamento dei sistemi di produzione terriera. Con le leggi del 1928 e del 1933 lo Stato detenne una quota sempre maggiore nel finanziare le opere di bonifica ma anche nel pilotare le partecipazioni miste e quelle a carico dei privati, obbligati a sottostare ai Consorzi di bonifica9. I proprietari pri-vati, per la prima volta dovettero obbedire a una logica corporativa, in quanto la gestione della cosa pubblica fu affidata loro attraverso i consorzi a guida statale; all’interno di uno schema collettivo, effettuando investimenti e ricavi fuori da quello necessariamente privatistico10.

Tra il 1928 e il 1938, con la bonifica integrale si pianificò la completa uti-lizzazione agraria dei terreni e il riassetto globale idrogeologico, estendendo, inoltre, l’ambito territoriale (Meridione e isole) e strutturale (irrigazione, dighe e acquedotti, costruzione di borgate e fabbricati rurali, strade). La spesa globale

ton University Press, 1994.7 B. Mussolini, Sfollare le città, in “Il popolo d’Italia”, 22 dicembre 1928.8 Sul ruralismo segnalo, A. Di Michele, I diversi volti del ruralismo fascista, in “Italia contempora-nea”, n. 199, 1995, pp. 243-267.9 Cfr. A. Serpieri, La bonifica integrale, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 1935.10 S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Milano, Feltrinelli, 2013 [2000], p. 343.

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ammontò ad oltre sette miliardi di lire, un finanziamento davvero imponente in rapporto a quell’epoca11.

L’azione bonificatrice fu guidata dall’Opera nazionale combattenti che, all’i-nizio, si concentrò nel Settentrione (pianure padana e veneta) in Italia centrale (Toscana e alto Lazio) e in Italia meridionale e insulare.

Oltre ai vincoli ecologici, il fascismo puntava molto ad abbattere e ridefinire quelli sociali. Innanzitutto, l’Italia fascista e bonificata doveva essere nuova e antica, tradizionalista e innovatrice, feconda e obbediente. Si delineava così l’i-dealtipo dell’italiano che doveva ritornare nei luoghi bonificati dalla malaria e dalle paludi, non solo luoghi fisici ma anche politici, infestati in precedenza dagli oppositori del regime. L’homo novus doveva evocare l’ex combattente contadino che aveva col sangue difeso nelle trincee la nazione12, e mostrare un moderno attivismo produttivista e una innata frugalità, ma anche un’anima militaresca e gerarchica, formatasi in seguito alla disciplina del comando e dell’obbedien-za all’interno del nucleo familiare di tipo patriarcale. Alla base di tutto ciò la componente della virilità che, associata all’aria salubre della campagna, doveva ridare forza alla nazione tramite l’aumento della natalità.

Il problema non si limitava al solo aspetto economico e investiva un ben più ampio ambito sociale e simbolico. In un regime che poneva alla base della pro-pria politica

la creazione e il rafforzamento dei più vivi e fecondi legami tra uomo e terra, tra lavoro e impresa; che esalta l’unità e la tradizione familiare; per il quale i valori etici debbono essere fondamento e motore degli stessi fatti economici; non ci si può limitare al solo aspetto materiale della indivisibilità del fondo, ma occorre andare ben oltre, al con-solidamento cioè alla continuità del vincolo: lavoratore-podere, alla durevolezza del rapporto: famiglia-patrimonio13.

L’ideologia fascista aveva trasformato la piccola proprietà in un valore etico-sociale, trasformando il bene materiale in bene spirituale, connaturandolo con la personalità stessa del possessore – il milite colono – e trasferendo loro quel valore etico, non altrimenti esprimibile in denaro, dove essi costituiscono un le-game sociale la cui distruzione recide le fonti stesse dell’esistenza della fami-glia. All’interno di tale rappresentazione idealtipica, il bracciante meridionale

11 G. Tassinari, La bonifica integrale nel decennale della legge Mussolini, Roma, Editrice arti grafica “Aldina”, 1939.12 F. Di Bartolo, “La terra è dei combattenti”. I programmi di redistribuzione della terra (1915-1918), in “Mediterranea”, n. 16, 2009, pp. 353-372. 13 N. Mazzocchi Alemanni, Difendere la piccola proprietà coltivatrice, Roma, Stabilimento tipogra-fico Carlo Colombo, 1935, pp. 6-7.

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o padano non rientrava nel modello di contadino delineato dal regime, perché era estraneo alla gestione della terra e non era legato al podere. A queste figure rurali, il fascismo contrappose il mezzadro o il piccolo proprietario. Anzi, non un mezzadro qualunque, come esisteva nel Lazio o in Sicilia che, in una condizio-ne lavorativa precaria, divideva, una volta finito di coltivare, il raccolto a metà col proprietario, ma il mezzadro toscano che, vivendo stabilmente nel fondo da molte generazioni, era abituato a dirigere l’azienda agricola e che si avvaleva della manodopera familiare senza ricorrere al rapporto salariato. Addirittura si insisteva sullo schema bracciante menefreghista-mezzadro coscienzioso, che esprimeva la dicotomica differenziazione tra il sano concetto del mezzadro e il bracciante privo del senso di responsabilità verso la nazione e la famiglia, poco parsimonioso e con una mentalità salariale che lo portava sempre ad accetta-re, come operaio altri guadagni e lavori lontano dal podere. Il modello rurale della colonizzazione rurale rappresentava simbolicamente l’unione tra le classi sociali in un armonico rapporto tra uomo, terra, famiglia, patria. In tal modo la bonifica restituiva alla nazione la figura ideale del piccolo proprietario benevo-lo e prodigo e del contadino fedele e sobrio. Così il mezzadro divenne il porta bandiera dell’Italia agricola, bonificata e fascistizzata. Tale modello, che fissava il contadino alla terra, fu addirittura sancito nella nuova carta contrattuale fa-scista nelle campagne: la “Carta della mezzadria” (1933) all’interno della “Carta del lavoro”.

L’obiettivo però si rivelava molto arduo da realizzare e, nonostante la propa-ganda del regime, molte opere furono lasciate a metà a causa di una riduzione dal 1931 del flusso di spesa pubblica che scoraggiò ulteriormente i proprietari a sottostare all’applicazione delle leggi sugli adempimenti di bonifica. Le resi-stenze dei proprietari ad accettare gli espropri e i piani degli investimenti per le migliorie agrarie, come nel caso del Tavoliere di Puglia, sancirono il fallimento della politica dei consorzi14. D’altra parte, l’immagine del contadino obbedien-te e frugale naufragò perché mostrava la distanza esistente tra la realtà e la rappresentazione di essa. Ugualmente la politica della sbracciantizzazione che voleva trasformare il ribelle salariato in colono mezzadro, dedito a coltivare il suo pezzo di terra bonificato, rimase distante dalla sua realizzazione a causa degli effetti di una politica economica che non aveva consolidato il processo di formazione di piccola proprietà contadina come invece il regime e gli ambienti tecnico-culturali propagandavano quando ci si riferiva alla bonifica15. Era molto

14 P. Bevilacqua (a cura di), Il Tavoliere di Puglia: bonifica e trasformazioni tra XIX e XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 1988.15 Istituto nazionale di economica agraria, Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice formatasi nel dopoguerra, relazione finale di Giovanni Lorenzoni, Roma 1938.

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dubbio e utopico che il modello mezzadrile potesse essere assimilabile in tutte le diverse regioni italiane. Nella grande azione di bonifica che procedeva l’epo-pea del Nation-building, l’avvalersi delle tematiche ruraliste trasformò la fatico-sa opera di trasformazione del territorio in una maestosa azione di propaganda.

2. L’erma bifronte della bonifica pontina

La più riuscita opera di bonifica contro i vincoli ambientali e di propaganda del regime fu quella delle Paludi pontine nel Lazio meridionale, cominciata nel 1930 e condotta dall’Opera nazionale combattenti. Si trattava di una superficie deli-mitata dalle catene dei monti Lepini e Ausoni, da Terracina, dal Circeo, da Cister-na e da Nettuno, costituita da duemila anni, lungo il litorale che si estendeva tra Roma e Gaeta, in una landa boschiva, melmosa, paludosa e pestilenziale, ove si svolgeva una vita primitiva da mandriani, largamente falciati dalla malaria. 

La prima iniziativa di bonifica integrale fu presentata da Mussolini in nume-rosi scritti e discorsi come una grandiosa operazione destinata ad accrescere, oltre che la superficie, anche le capacità produttive dell’agricoltura italiana, co-lonizzando e risanando terreni paludosi, e trasferendo contadini da zone sovraf-follate a terre nelle quali c’era maggiore bisogno di «popolare la campagna». L’Onc godeva ormai della massima considerazione del Duce, il quale lodò l’ente descrivendolo: «come una di quelle forze che io chiamo mobilitate per effet-tuare quello che mi appare sempre più urgente: la ruralizzazione dell’Italia»16. Il regime proveniva dall’esecuzione di cinque bonifiche, la maggior parte delle quali concentrate nel Sud e nel Centro Italia17 (Coltano in provincia di Pisa, la Stornara in provincia di Taranto, S. Cataldo di Lecce, Licola-Varcaturo vicino Na-poli, e nella località Sanluri in provincia di Cagliari). Ma, mentre queste ultime furono tentativi, in taluni casi anche riusciti di modificare l’ambiente fisico per una maggiore produzione agricola, e di diffondere attraverso la mostra nazio-nale delle bonifiche tenuta a Napoli nel 1924 «la coscienza della fondamentale importanza che il problema delle bonifiche riveste per l’economia nazionale»18, a cominciare dal 1930 e con il concetto di bonifica integrale applicato alla Pa-

16 Il Codice della terra. Biblioteca agraria dell’Opera nazionale combattenti, Roma 1928, p. 11.17 Opera nazionale combattenti, Bonifiche idrauliche e trasformazioni fondiarie compiute ed in cor-so al 31 dicembre 1926, Roma, s.d., p. 1 e sgg.18 Notiziario, Vita dell’Opera nazionale combattenti, in “Problemi d’Italia”, settembre 1924, p. 55.

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ludi pontine si annunciava in via di esecuzione un vasto programma non solo tecnico-agrario ma soprattutto rivolto a “moralizzare” la nazione.

Lo schema di massima puntava alla realizzazione di un ambizioso progetto di pianificazione. I temi forti del ritorno alla terra, della de-urbanizzazione e della ruralizzazione si intrecciavano tra di loro formando la direttrice ideologica prin-cipale di una grande trasformazione che prevedeva la massima utilizzazione del suolo, parallelamente ai temi già accennati del ruralismo: incremento della popolazione, attenuazione degli squilibri di densità demografica tra regione e regione, accentuazione di positive caratteristiche umane e sociali, quali prolifici-tà, sanità, parsimonia, stabilizzazione sulla terra del lavoratore con la creazione di nuovi insediamenti di vita che permettessero una conveniente continuità di occupazione familiare.

Il progetto prevedeva la trasformazione di un vasto patrimonio fondiario di proprietà dello Stato, circa 18.000 ha., dopo l’esperienza del fallimento della Società bonifiche pontine in età liberale19. La realizzazione dell’impresa non fu affidata ai consorzi di bonifica, come prevedeva il progetto corporativista serpie-riano della «autodisciplina dei produttori, sotto l’egida dello Stato»20. Quest’ulti-mi, come già rilevato, si erano arenati. I lavori iniziarono nel novembre del 1930, coinvolgendo migliaia di manovali nella realizzazione in un primo momento di canali e di strade, ma già la stampa inglese ne dava notizia un anno prima con una serie di supplementi illustrati del “Morning post”, scrivendo «della mirabile espansione della produzione agricola italiana e delle grandiose opere di bonifi-ca in Italia»21.

Nel biennio successivo, il ritmo dei lavori procedette con grande solerzia su una estensione di circa 80.000 ha. in una pianura che era una delle più ampie d’Italia. Il disordinato paesaggio, formato da boscaglia selvaggia, campi acqui-trinosi, pantani impraticabili, acque graveolenti e infettate dalla malaria, fu pre-so d’assalto e riconvertito alla salubrità con una fitta rete di canali primari e secondari, che nel primo biennio 1930-32 ammontava a 380 chilometri; con la costruzione di impianti idrovori che mantenevano in costante emersione, nono-stante le piogge, anche le minime depressioni di terreno grazie a una efficace riorganizzazione idraulica dei suoli22.

Fino a quella data furono dissodati circa 10.500 ha. con la costruzione di una

19 G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, Torino, Einaudi, 1986, pp. 316-360.20 A. Serpieri, La legge sulla bonifica integrale nel quinto anno di applicazione, Roma 1935, p. 274 e sgg.21 Valorizzazione agricola, in “La conquista della terra”, gennaio 1930, p. 11.22 Cfr. P. Riva, Fascismo, politica agraria, O.N.C. nella bonificazione pontina dal 1917 al 1943: con foto e documenti originali, Roma, Sallustiana, 1983.

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rete stradale per oltre 300 km e la costruzione delle prime 500 case coloniche; alla fine del 1939 gli ettari trasformati e appoderati si estendevano per circa 65.000 ha., nella gran parte dei casi dall’Opera, in parte molto minore dai privati e dai comuni23. I nomi topografici che evocavano al passante luoghi spettrali si-mile agli inferi di un girone dantesco «Pantano dell’intossicata, Femmina morta, Macchia dei cinque scudi, Pantano d’inferno, Pantano della morte, Gnif-gnaf, Ca-ronte, Piscina della tomba» furono presto dimenticati dalle nuove generazioni, le quali «crescevano in una campagna irriconoscibilmente diversa da quella del-la generazione, tuttora in vita, che li ha preceduti»24.

Il progetto di bonifica, nel delineare il nuovo modello di società, doveva tene-re in considerazione l’ambizioso progetto ideologico di ruralizzazione dell’Italia, alimentato dalla polemica contro l’urbanesimo: popolare la campagna median-te un modello di insediamento territoriale individuale formato da casolari isolati e sparsi, dove il contadino restava ancorato alle leggi elementari della vita dei campi piuttosto che ai luoghi ad alta concentrazione abitative dove il contadino rischiava di essere esposto all’influenza corruttrice morale e politica tipica dei centri urbanizzati.

All’inizio furono istituiti poderi sperimentali sui quali, in piccole proporzioni, era possibile collaudare tutte le colture che si presumevano adatte all’habitat naturale, ma la frenesia di mostrare i primi germi del successo imponeva al re-gime di accelerare le tappe dell’insediamento umano sulle paludi ancora in via di bonifica. A lasciare il segno e, quindi, il senso della rumorosa campagna de-mografico-ruralista illustrata alle masse fu l’evento migratorio dei primi coloni, formati di tre mila famiglie travasate nei nuovi poderi tutti in maggioranza pro-venienti dal Veneto e dalla valle padana25. Prelevati dai loro paesi nativi furono spediti nelle località della “pontina” come soldati inviati in trincea26. L’immagine del successo offerto dal regime faceva parte dell’investimento ideologico e pro-pagandistico su cui puntare perché, i coloni padani, provenendo dalle regioni contadine per eccellenza, mezzadri e per di più molti dei quali ex combattenti, miles agricola, incarnavano i modelli di fedeltà e disciplina a tutti gli italiani.

Lo scarto tra la realtà e la rappresentazione di essa fu notevole e i contadini veneti e ferraresi, trapiantati nel nuovo Agro pontino, per cultura, abitudini diffe-renti, non corrispondevano al modello dell’antico e mitico legionario che pren-

23 R. Mariani, fascismo e città nuove, Milano, Feltrinelli, 1976; L. Nuti, R. Martinelli, La città di Strapa-ese. La politica di fondazione del ventennio, Milano, Franco Angeli, 1981.24 Onc, L’agro pontino anno, Roma 1940.25 A. Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 1976, p. 120 e sgg.26 E. Franzina, A. Parisella, La Merica in Piscinara: emigrazione, bonifiche e colonizzazione veneta nell’Agro Romano e Pontino tra fascismo e post fascismo, Albano Terme, Francisci, 1984.

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deva in possesso le terre a lui assegnate. Il ruralismo messo alla prova, mostrava segni di cedimento: poteva anche darsi che alla lunga, i contadini riuscissero ad incarnare il perfetto mezzadro, ma di sicuro non ne conoscevano né i metodi, né le finalità del progetto di appoderamento. Che cosa trova il colono all’atto del suo ingresso al podere? «Il terreno totalmente disboscato, dissodato, con la rete delle scoline e canali o completamente terminate o in corso di lavorazione. La casa composta di un numero di camere da letto variante da tre, quattro, o cinque»27, e poi, nient’altro, ma solo decaloghi di comportamento e cantieri di lavoro.

Attraverso la documentazione e le preziose testimonianze orali dei coloni ve-neti dell’Agro Pontino28, emerge un quadro del tutto nuovo, mostrando un’«erma bifronte»: da un lato ha rappresentato un sicuro successo per il regime. La bo-nifica idraulica si rivelava la vittoria di una agricoltura produttiva e ricca sulla palude malarica29. Caduto il fascismo, la realizzazione delle nuove città sarà ri-cordata come una delle migliori opere compiute dal regime, la formazione della nuova provincia e, con essa, l’inaugurazione di centri urbani come Latina, Sabau-dia, Pomezia, Aprilia restano ancora oggi la prova della vitalità che accompa-gnava l’intero progetto30, nonostante fosse stato preceduto dalle dichiarazioni di una presunta adesione all’ideologia antiurbana31. Da questo punto di vista, la bonifica pontina fu la prima esperienza di pianificazione territoriale di un’area vasta per il nostro paese, e ha rappresentato anche quella che, in qualche modo, per prima ha posto al centro della propria attenzione la questione ambientale, intesa nella sua accezione più ampia e complessa, in cui rientra la problematica della sicurezza del territorio rispetto ai rischi, piuttosto che quella, più scontata, concernente la tutela naturalistica. Dal lato opposto, invece, il grande trapianto di “ingegneria sociale” della bonifica non realizzò lo stesso successo in relazione agli obiettivi più strettamente ideologici prefissati.

Il fascismo aveva dichiarato di volere una società ruralizzata secondo un’or-ganizzazione gerarchica, ma le lettere anonime, i rapporti di polizia, a seguito dei ricorsi e delle denuncie di maltrattamenti di cui erano soggetti i coloni32, fu-

27 Ibid.28 Mariani, Fascismo e città nuove, cit.; O. Gaspari, L’emigrazione veneta nell’agro pontino, Brescia, Morcelliana, 1985.29 V. D’Erme, R. Mammuccari, P.E. Trastulli, Le paludi pontine, Roma, Newton Compton, 1984.30 A. Pennacchi, M. Vittori, I borghi dell’Agropontino, Latina, Novecento, 2001. Cfr. H.R. Weiner, New Towns in Twentieth Century Italy, in “Urbanism Past and Present”, n. 2, 1977.31 Cfr. L. Nuti, R. Martinelli, La città di Strapaese. La politica di fondazione del ventennio, Milano, Franco Angeli, 1981; Weiner, New Towns in Twentieth Century Italy, cit.32 Mariani, Fascismo e città nuove, cit.

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rono il sintomo dell’esistenza di un conflitto sotterraneo nei confronti dei pro-grammi di lavori pianificati e ipercentralizzati dei funzionari del regime. Ai rac-conti apologetici della vita dei coloni immigrati fecero da contro altare anche narrazioni di alcolismo diffuso, di prostituzione, di lavori in nero e di salariato al di fuori della chiusa cellula poderale, di rivendita dei prodotti nel mercato ille-gale33. Ben presto, il vasto programma di azione di bonifica delle paludi pontini assorbì e immobilizzò tutte le restanti attività finanziarie di bonifica in Italia fino agli anni Cinquanta.

3. Verso Sud

Interventi di bonifica pianificati divennero prassi anche in altri luoghi e regioni d’Italia: in Sicilia, per esempio, dove alla palude si sostituiva un altro male, al-trettanto avvertito come insopportabile “nodo irrisolto” dal regime fascista: il latifondo.

Il luogo quasi “mitico” del latifondo cerealicolo-pastorale evocava non solo arretratezza economica ma soprattutto, per un regime che voleva essere tota-litario, un sentimento di impermeabilità, quasi ostile e racchiuso ostinatamen-te all’interno delle logiche notabilati dell’Italia liberale. Agli occhi del regime esso manteneva tutti i caratteri e i meccanismi di funzionamento di un sistema arcaico, che andava disarticolato sia sotto l’aspetto tecnico-produttivo e della proprietà, sia dal punto di vista politico-sociale e, quindi, riaggregato sotto altre nuove sembianze, in cui sarebbe stato possibile effettuare l’alleggerimento di molti centri abitati sovraccarichi di popolazione. In Sicilia, la bonifica doveva essere non solo di natura ambientale ma anche politico-sociale.

Il latifondo non è mai stato un’eredità del passato e neanche un residuo feu-dale. Semmai, esso era il frutto di una logica intrinseca all’organizzazione eco-nomica, che induceva gli agricoltori e i proprietari a ricavare il massimo profitto possibile, con ridotti investimenti, da una condizione ambientale abbastanza av-versa e comunque segnata da vincoli ecologici molto rigidi.

La crisi del latifondo avvenuta a più riprese lungo la metà dell’Ottocento e nel decennio giolittiano, fino al primo dopoguerra, e il miglioramento dei pro-cessi produttivi non avevano determinato cambiamenti tali da ridisegnare le

33 M. Pompei, Paese che vai, Roma, Unione editoriale italiana, 1937; C. Alvaro, Terra nuova: prima cronaca dell’Agro pontino, Roma, Istituto nazionale fascista di cultura, 1934; Gaspari, L’emigrazione veneta nell’agro pontino, cit.

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mappe territoriali, in cui prevalevano la monocoltura estensiva con al centro la grande azienda o masseria e il lavoro bracciantile stagionale. Questi ultimi fattori creavano modelli insediativi che non consentivano la presenza stabile di forza lavoro nelle campagne. Disarticolare tale struttura, apparentemente così semplice ma allo stesso tempo sedimentata e, quindi, molto complessa, fu la politica di intervento pubblico di bonifica del regime fascista. Ciò avrebbe com-portato il tentativo da parte del governo centrale di incrementare il patrimonio edilizio rurale e di riorganizzare la fruizione economica ma soprattutto sociale delle campagne34. Anche a queste latitudini, i temi della “sbracciantizzazione” e della colonizzazione del tardo fascismo assunsero un ruolo di primo piano fino a imporsi sulle stesse opzioni tecnico-agronomiche, che erano stati i presupposti e le formulazioni teoriche della bonifica integrale. Qui, il fascismo non solo ac-cantonò progressivamente l’argomento tecnico della trasformazione fondiaria ma non riconobbe la questione della bonifica idraulica come un tema distinto e prioritario rispetto alle altre opere, come invece andavano predicando i bonifi-catori negli anni Trenta35. Questo tentativo di costruire una campagna organizza-ta in modo differente, estranea alle consuetudini e alle convenienze produttive esistenti e ai vincoli ambientali preesistenti, fu, a differenza di quanto accadde nel Nord del paese, la caratteristica principale dell’intervento bonificatore nel Mezzogiorno fascista. La politica dei consorzi aveva realizzato solo la parte re-lativa alle opere di infrastrutture primarie, condotta quasi esclusivamente con fondi pubblici, mentre tutto il resto scivolò in un black out che toglieva di mezzo qualsiasi ipotesi di modificazione del sistema estensivo-latifondistico.

Di seguito, con l’intervento legislativo del 2 gennaio 1940 sulla colonizzazio-ne del latifondo siciliano36 , attuato da un apposito organismo, l’Ente di coloniz-zazione del latifondo siciliano, fu dato l’“assalto al latifondo”37. Il cambiamento di indirizzo politico, con il passaggio dalle trasformazioni fondiarie alla rivalu-tazione della dimensione sociale e la costruzione di borghi rurali, passò anche questa volta attraverso i temi ruralisti della polemica contro il sistema latifon-distico, accusato di stimolare il disordine politico e sociale e di negare le stesse condizioni di esistenza della famiglia colonica e di un suo un legame simbiotico alla terra.

34 F. Mercurio, S. Russo, L’organizzazione spaziale della grande azienda, in “Meridiana”, n. 3, 1990, p. 108.35 N. Prestianni, Le trasformazioni fondiario-agrarie in Sicilia, in Comitato promotore dei consorzi di bonifica nell’Italia meridionale e insulare, Roma 1930, p. 314.36 M. Stampacchia, Sull’“assalto” al latifondo siciliano nel 1939-1943, in “Rivista di storia contempo-ranea”, 1978, p. 586.37 S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, in La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Torino, Einaudi, 1987, p. 464.

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Anche nel caso dell’appoderamento siciliano, come nell’Agro pontino, l’inter-vento fu teso a ricondurre la varietà di rapporti di lavoro esistenti nell’economia latifondistica all’interno dello schema della mezzadria toscana per garantire la stabilità sociale38: residenza obbligatoria sul fondo, costruzione di case coloni-che e di borghi simili a centri di servizio per le famiglie poli nucleari sparse nelle campagne. Un ribaltamento, quello fascista, della realtà così come fu osservata dagli antropologi i quali evidenziarono che chi viveva in campagna era consi-derato non solo un incivile, un isolato, ma soprattutto sospettato di essere por-tatore di atteggiamenti moralmente condannabili39. L’applicazione in Sicilia di questo modello di appoderamento diede vita a un sistema di case sparse attorno a un borgo, utilizzato per lo più come spazio di servizio soprattutto nei periodi di lavoro, dalla primavera all’autunno40. Niente a che vedere con le nuove realtà comunali o con i centri di attività aziendale del Lazio. Ma anche qui i coloni non riuscivano a essere disciplinati e non lasciavano cadere l’opzione del lavoro sa-lariale41. Si rifiutavano ad andare a vivere e a stanziarsi in campagna con la pro-spettiva di abbandonare il paese, considerato un consolidato modello abitativo e sociale e garanzia di vita collettiva42.

La bonifica fu applicata anche sul versante della politica, che considerava, specie i paesi rurali della Sicilia come dei pericolosi reticoli sociali di «pratiche sovversive», ed erano dunque visti allo stesso modo di corpi infetti da bonificare da una dannosa infezione, che, come tale, doveva essere debellata, come acca-deva con la bonifica ambientale. Il network politico informale paesano formato da circoli, club, casse rurali, cooperative, andava ancor di più di quello formale delle aggregazioni partitiche, disarticolato e scomposto per essere inquadrato nelle nuove strutture del regime.

L’attacco del regime alle pre-esistenti aggregazioni politiche riproduceva un modus operandi riconducibile all’ansia di rinnovare le forme delle aggregazioni sociali, comprendenti circondari e interi paesi, e a disarticolarne le aggregazioni orizzontali profonde, per penetrare fin dentro le società, in modo da organizzare

38 L. Franchetti, S. Sonnino, Inchiesta in Sicilia, Firenze, Vallecchi, 1974, vol. I, pp. 222-223.39 A. Blok, South Italian agro-town, in “Comparative Studies in Society and History”, n. 2, 1969, pp. 121-135.40 S. Lupo, Storia e società nel Mezzogiorno in alcuni studi recenti, in “Italia contemporanea”, n. 154, 1984, in particolare pp. 70-75. Per uno spaccato delle abitudini di famiglie contadine negli anni Trenta, si veda Istituto nazionale di economia agraria, Nuove costruzioni rurali in Italia. VII. Sicilia, a cura di E. Taddei, Roma 1934, in particolare pp. 3-19.41 C. Schifani, Condizioni economiche e sociali nelle famiglie coloniche di un appoderamento sici-liano del 1940, Palermo 1958, p. 11 e sgg.42 Un bello spaccato di famiglie agricole è stato curato dall’ Istituto nazionale di economia agraria, Monografie di famiglie agricole. IX. Contadini siciliani, Roma 1935, p. 72.

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il consenso attorno al regime. Quest’ultimo mirava alla diretta ricerca del con-senso delle masse e al controllo della dimensione sociale senza l’ausilio della mediazione degli istituti della democrazia clientelare locale: il notabile, il circo-lo, la cooperativa, il bar.

Pertanto era necessario bonificare e disarticolare i centri del potere perife-rici, come fece il prefetto Mori, nella convinzione che nei paesi della Sicilia si annidassero i centri del potere non del tutto fascistizzati. Così la lotta alla mafia diventò uno strumento per colpire i centri più refrattari alla nuova società totali-taria e gerarchizzata43. Le famose retate nella seconda metà degli anni Venti del super prefetto nei paesi delle province palermitane, agrigentine e nissene, che si concludevano con centinaia di arresti, erano simili alle azioni di bonifica e di profilassi di un territorio infestato dai parassiti. Tuttavia, anche in questo caso, l’azione fu più propagandistica, e celava l’esigenza di trasmettere l’immagine di uno Stato forte ed efficiente in grado di porre fine a una questione, quella mafiosa, che i governi liberali non avevano saputo o voluto mai risolvere defini-tivamente44.

Conclusioni

Due luoghi: Sabaudia (Lazio), Borgo Lupo (Sicilia).

Due libri: C. Alvaro, Terra nuova: prima cronaca dell’Agro pontino, Roma, Istituto nazionale fascista di cultura, 1934; A. Pennacchi, Palude. Storia d’amore, di spet-tri e trapianti, Roma, Donzelli, 2000.

43 C. Duggan, La mafia durante il fascismo, Soveria Mannelli, Rubettino, 2007. 44 S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 1993.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 97-120

L’azione censoria del regime si accentuò nel corso degli anni, conformandosi più alle frequenti circolari ministeriali in materia, che non a veri e propri provvedi-menti legislativi. Si può dire anzi che, a partire dalla fine degli anni Venti e per buona parte degli anni Trenta, la censura libraria fascista si resse su provvedi-menti amministrativi e non legislativi. Dunque non senza ambiguità normative e spazi di discrezionalità.

Nell’introduzione alla Storia degli editori italiani, Nicola Tranfaglia suggeri-sce di suddividere il ventennio fascista in tre periodi1. Se la prima partizione è prevedibile, andando dall’insediamento del governo Mussolini alle «leggi fasci-stissime» in materia di libertà del 1925-26, non lo sono affatto le due successive che individuano come momento di cesura il 1934. Nell’aprile di quell’anno Mus-solini firmava una circolare del Ministero dell’Interno che introduceva in Italia la censura preventiva. Con questo giro di vite, nel quale era già riscontrabile una impronta razzista2, si colpiva ulteriormente l’autonomia degli editori e si apriva contemporaneamente la stagione culturale e politica che culminerà con la legi-slazione antiebraica del 1938.

Nei primi anni dopo la marcia su Roma, 1922-25, era stato ancora possibile

1 Nicola Tranfaglia, Editori italiani ieri e oggi, Roma-Bari, Laterza, 2001 (dove si ripropone l’introdu-zione al volume di Nicola Tranfaglia, Albertina Vittoria, Storia degli editori italiani. Dall’Unità alla fine degli anni Sessanta, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 3-59).2 Rivolta non contro gli ebrei, ma contro i neri, alla vigilia della campagna d’Etiopia. È stato uno studio di Giorgio Fabre (L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino, Zamorani, 1998) a sottolineare per la prima volta l’importanza della circolare Mussolini del ’34 come elemento di svol-ta nella strategia del regime e a ricordare l’occasione che, con ogni probabilità, spinse il dittatore e i suoi collaboratori all’intervento: era stato appena pubblicato un romanzo che parlava di una storia sentimentale tra un’italiana e un africano e che in copertina illustrava la vicenda con un disegno.

Censura librariaCARLO DE MARIA

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per gli operatori culturali, a prezzo di molti rischi, scegliere la strada dell’aperta opposizione al fascismo. È il caso, ad esempio, di due giovani editori, Piero Go-betti, con l’omonima casa editrice torinese, ed Enrico dall’Oglio, che dirigeva a Milano le edizioni Corbaccio. La loro attività editoriale è stata ricostruita con at-tenzione da Maria Adelaide Frabotta (Gobetti. L’editore giovane)3 e da Ada Gigli Marchetti (Le edizioni Corbaccio. Storia di libri e di libertà)4.

Questa breve stagione di aspra battaglia culturale venne chiusa dai provve-dimenti raccolti nel testo unico di pubblica sicurezza del novembre 1926, che andava esplicitamente a colpire – con l’articolo 112 – i libri avversi al regime. Dall’Oglio, per sopravvivere, cambiò la sua politica editoriale, pur mantenendosi tra gli editori meno allineati alle direttive del regime. Gobetti, aggredito a Torino dai fascisti nel 1925, morì in esilio l’anno successivo, mentre sua moglie, Ada Pro-spero5, lavorò a partire dagli anni Trenta in veste di traduttrice presso Laterza6.

Con il 1926 si aprì indubbiamente una pagina nuova nella storia della censura libraria in Italia, ma fino alla circolare Mussolini del ’34 gli editori conservarono ancora «margini di autonomia» all’interno dei quali poter compiere scelte non conformiste7. Infatti, fino alla svolta dell’aprile 1934, chi pubblicava nel nostro paese correva certamente il rischio di vedersi sequestrati dalle prefetture i libri già distribuiti, ma non doveva ancora sottostare al controllo preventivo, capilla-re e sistematico dell’autorità censoria8.

A proposito della circolare Mussolini del 3 aprile 1934 si è parlato di una censura «semi-preventiva» o «falsamente non preventiva»9. In effetti, il provve-dimento risultava addirittura beffardo per gli editori, in quanto le pubblicazioni venivano vagliate (e nel caso bloccate) quando già erano stampate e prima di

3 Bologna, il Mulino, 1988.4 Con una prefazione di F. Della Peruta, Milano, FrancoAngeli, 2000.5 Maria Elena Mancini, La funzione politica delle traduzioni di Ada Prospero Gobetti nella “resi-stenza culturale” di Croce e Laterza, in “Il Risorgimento”, 2005, n. 1, pp. 123-166; Id., Promuovere movimenti di idee: Ada Gobetti, Croce, Laterza, Bari, Cacucci, 2006.6 Paradossalmente, come ha osservato Luisa Mangoni, con particolare riferimento all’esperienza della casa editrice Einaudi, gli anni Trenta «furono per la cultura italiana uno dei periodi più per-meabili alle sollecitazioni internazionali». Cfr. Luisa Mangoni, Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni cinquanta, Torino, Einaudi, 1994, pp. 617-718 (in part., p. 627). Si veda, anche, della stessa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.7 Cfr. Tranfaglia, Editori italiani ieri e oggi, cit., pp. 38-39.8 Lo rileva anche Philip Cannistraro (La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, prefazione di Renzo De Felice, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 115): «Durante gli anni Venti il regime si interessò alla produzione libraria in modo episodico, non sistematico».9 Cfr. Fabre, L’elenco, cit., p. 18.

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essere distribuite. Cosicché gli editori – di fronte all’infittirsi dei sequestri – ri-schiavano di dover mandare al macero intere tirature e rimetterci grandi quan-tità di denaro.

Oltre a introdurre una forma di censura preventiva, il provvedimento del ’34 avviava un’altra trasformazione nella politica culturale del regime: il passaggio della funzione censoria dalle mani dei singoli prefetti e del Ministero dell’In-terno a quelle dell’Ufficio stampa del Capo del governo, diretto da Galeazzo Ciano. L’Ufficio stampa proprio nel 1934-35 sarebbe stato trasformato prima in sottosegretariato poi in ministero di Stampa e propaganda. Nel 1937, infine, si sarebbe arrivati alla denominazione di Ministero della Cultura popolare. Come ha osservato Cannistraro:

Con la conclusiva trasformazione dell’Ufficio stampa nel ministero della Cultura po-polare il regime rafforzò anche il suo controllo su tutti i campi della vita culturale, a tal punto che propaganda e cultura finirono sempre più col divenire due aspetti di una politica unica, mirante ad accrescere l’efficacia della dittatura di massa. Giunta a questo stadio, la politica fascista di integrazione cominciò ad inserirsi più a fondo, e in modo più sottile, nella vita del paese10.

Se ci sono studi approfonditi sull’opposizione al fascismo nel primo periodo (1922-25) da parte di Gobetti, Amendola e dei loro gruppi, e ci sono studi sull’ul-timo periodo della legislazione razziale e persecutoria nei confronti degli autori ed editori di origine ebraica, non altrettanto si può dire del periodo 1926-34.

Per indagare in dettaglio i diversi atteggiamenti assunti, nel corso del tempo, dagli editori – spesso in risposta ai condizionamenti di volta in volta subiti – è necessario fare riferimento ai loro carteggi con gli altri protagonisti dell’attivi-tà editoriale (direttori di collana, autori e traduttori). In questo modo è possi-bile aprire nuove prospettive di ricerca che dedichino maggiore attenzione ai processi sottesi alle pubblicazioni di singole opere. È quello che è stato fatto, qui, nel caso della collaborazione di Alessandro Schiavi con Giovanni Laterza e Benedetto Croce. Un impegno professionale e culturale che iniziò nel 1928 e terminò significativamente nel 1934-35, proprio in corrispondenza della circo-lare Mussolini più volte ricordata, e che è stato possibile ricostruire nei dettagli attraverso le numerose lettere scambiate dai tre.

Protagonista di primo piano della storia del socialismo riformista e del muni-cipalismo popolare in età giolittiana, Schiavi era stato, all’inizio del Novecento, animatore e interprete del laboratorio metropolitano milanese, come direttore dell’Ufficio del lavoro della Società Umanitaria, poi dell’Istituto autonomo per le case popolari e come assessore nelle giunte socialiste Caldara e Filippetti. Or-

10 Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 99.

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mai impossibilitato a svolgere qualunque attività politica nella città lombarda, a partire dalla primavera 1926 Schiavi tornò a vivere a Forlì, la città nella quale era cresciuto. Lasciare Milano, inventandosi una nuova collocazione professionale nella provincia romagnola, significò per Schiavi affrontare – a partire dal 1926-27 – una sorta di esilio in patria. A distanza di anni, ricordando quel frangente della sua vita, scriveva: «Estromesso dal fascismo mi confinai in campagna»11.

Schiavi finì per convincersi che l’occupazione indipendente, a casa propria, come collaboratore di riviste e di case editrici, e come agricoltore sui poderi di famiglia, era effettivamente «nel momento attuale la più adatta»12. L’abbina-mento tra lavoro culturale e lavoro agricolo si presentava perfino suggestivo, da vecchio gentiluomo di campagna.

Approfondire la biografia di Schiavi, cioè l’esperienza di un antifascista che scelse di rimanere all’interno del suo paese, e che, non senza difficoltà e censure, si impegnò a seguire e a confrontarsi con i cambiamenti istituzionali e sociali che interessarono la realtà nazionale, costituisce un osservatorio formidabile per meglio comprendere la storia d’Italia tra le due guerre mondiali. Una poten-zialità che invece non hanno le pur intense e ricche biografie di molti esuli poli-tici, che persero drammaticamente (e inevitabilmente) il contatto con il proprio paese.

Tra anni Venti e Trenta, Schiavi continuò a intervenire nel dibattito pubblico su diversi temi, a partire da quelli relativi alle politiche urbane, in merito alle quali segnalò, tra i primi, come buona parte dei funzionari e dei tecnici che nei primi due decenni del Novecento si erano formati nell’ambito del governo loca-le democratico e socialista avevano finito col dare il loro consenso al regime13: un’adesione spesso giustificata in nome del superamento dei particolarismi mu-nicipali, ma anche dei conflitti politici e sociali, nella prospettiva di un rafforza-

11 Cit. in Carlo De Maria, Alessandro Schiavi. Dal riformismo municipale alla federazione europea dei comuni. Una biografia: 1872-1965, Bologna, Clueb, 2008, cap. 7 “L’esilio in patria”, p. 185.12 Era questo il convincimento espressogli da Alessandro Molinari, già suo collaboratore a Milano, in una lettera del 5 aprile 1927 (A. Schiavi, Carteggi. Tomo secondo: 1927-1965, a cura di Carlo De Maria, presentazione di Dino Mengozzi, Manduria, Lacaita, 2004, pp. 79-81). La corrispondenza con Schiavi, scoperta dalla polizia, creò a Molinari alcuni grattacapi, quando negli anni successivi approdò alla direzione generale dell’Istat, presieduta da Corrado Gini. Quest’ultimo, comunque, difese il suo collaboratore facendo archiviare il caso. Cfr. Francesco Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Roma, Carocci, 2006, p. 97. 13 Schiavi affrontava questi temi in due articoli pubblicati, nel 1929, dalla “Riforma sociale” (la ri-vista diretta da Luigi Einaudi), dove non mancava di rilevare come la «tendenza accentratrice e su-bordinatrice dell’autonomia comunale» espressa dal governo fascista trovasse riscontro e venisse rafforzata «anche dalla periferia». A. Schiavi, La municipalizzazione dei servizi pubblici nell’ultimo decennio in Italia, in “La Riforma sociale”, a. XXXVI (1929), vol. XXXX, p. 239-255; Id., Impulsi, rèmo-re e soste, nell’attività dei comuni italiani, ivi, pp. 355-388. I due articoli del 1929 furono raccolti in opuscolo: A. Schiavi, Municipalizzazioni, lavori straordinari e debiti dei comuni italiani, Torino, Pozzo, 1929.

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mento dello Stato, inteso come migliore garante dell’interesse generale14.Schiavi analizzò, inoltre, il cambiamento sensibile nelle scelte urbanistiche ri-

spetto alle tendenze che avevano caratterizzato l’edilizia popolare di epoca gio-littiana; un cambiamento che andava nella direzione di una standardizzazione tipologica tesa a risolvere il problema della casa per le masse, ma che lasciava meno spazio all’autonomia personale15.

Di rilievo anche la sua riflessione critica sul corporativismo fascista, nella quale riuscì a non eludere il tema della crisi della democrazia parlamentare e arrivò a delineare i contorni di un sistema corporativo “decentrato”, improntato alla libertà politica e sindacale16.

Ma l’attività che più lo impegnò in quegli anni fu quella di traduttore e colla-boratore editoriale per la casa editrice Laterza.

14 Cfr. Salvo Adorno, Tecnici, professionisti, città e territorio fra storiografia e storia disciplinare. Dall’età liberale al fascismo, in Id. (a cura di), Professionisti, città e territorio. Percorsi di ricerca tra storia dell’urbanistica e storia della città, Roma, Gangemi, 2002, pp. 125-143; Mariuccia Salvati, L’i-nutile salotto. L’abitazione piccolo-borghese nell’Italia fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 32 e 36; Id., Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 78 e sgg.15 Si stava affermando il modello della città compatta con edifici multipiano (cioè, con apparta-menti disposti, intensivamente, in edifici di almeno 4-5 piani). Diversamente Schiavi era rimasto legato all’idea, particolarmente in auge all’inizio del Novecento negli ambienti del riformismo de-mocratico e socialista in Italia e non solo, della città-giardino, una tipologia abitativa decentrata, ritenuta ideale per favorire la libertà e l’autonomia personale: abitazioni di 1-2 piani, ognuna con piccolo giardino, disposte a schiere diradate. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, Schiavi continuò, tenacemente, a sostenere il modello della città-giardino come dimostrano i suoi interventi sulla rivista del Touring Club Italiano e sulla rivista di edilizia e urbanistica “La Casa”. Schiavi ampliava, anzi, il discorso sostenendo che, oltre ai villaggi-giardino urbani per gli operai qualificati e gli impiegati, bisognasse prendere in considerazione l’idea di villaggi campestri «per i braccianti e per gli artigiani dei nostri borghi e delle nostre campagne», inserendosi di fatto nel di-battito allora in corso su temi quali: sbracciantizzazione, piccola proprietà contadina, norme contro l’inurbamento e utilizzo dei fondi previdenziali ai fini del riassetto del territorio. Cfr. A. Schiavi, Le città satelliti, in “Le vie d’Italia. Rivista mensile del Touring club italiano”, luglio 1926, pp. 751-752; A. Schiavi, Il villaggio campestre per i braccianti e gli artigiani, Casale Monferrato, Tip. Miglietta, 1931 (estratto da “La Casa”). 16 Schiavi seguì con interesse e spirito critico il percorso della corrente operaista che si avvicinò al corporativismo fascista. Collaborò, ad esempio, alla rivista “Problemi del lavoro”, nata nel 1927 intorno a Rinaldo Rigola e ad altri ex dirigenti del sindacato confederale rimasti in Italia. Valutò sen-za pregiudizi anche il tentativo di dialogo con Mussolini che, nel 1934, cercò di stabilire – sui temi del corporativismo – l’ex sindaco socialista di Milano, Emilio Caldara, che nell’aprile di quell’anno venne in visita a Forlì per consultarsi con Schiavi (De Maria, Alessandro Schiavi. Dal riformismo municipale alla federazione europea dei comuni, cit., cap. 7 “L’esilio in patria”, par. “La critica al corporativismo fascista”).

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Alessandro Schiavi, Benedetto Croce, Giovanni Laterza. Traduzio-

ni e censura libraria sotto il fascismo

Il triangolo epistolare Schiavi-Croce-Laterza è quanto mai significativo come ter-mometro dell’azione di controllo e di censura da parte del regime, sia per le ca-ratteristiche del collaboratore – un importante esponente del socialismo italia-no, immersosi nel lavoro di traduttore perché impossibilitato a svolgere, sotto il regime fascista, l’abituale attività politica e amministrativa – sia per la posizione della casa editrice verso il regime. Alla fine degli anni Settanta, a Mario Isnenghi bastavano alcuni sondaggi dell’Archivio Laterza per scrivere in una raccolta di saggi sulla cultura in Italia tra le due guerre:

Ci interessa meno, in questo contesto, portare il discorso su case editrici nate anticon-formiste, come l’Einaudi, del cui spirito antifascista si sa, tramite le persone di Pavese, Leone Ginzburg, ecc. Più interessante sarebbe analizzare in dettaglio la vita di una casa editrice di frontiera, come la Laterza: tenuta in sospetto perché notoriamente ispi-rata da Croce, ma che non per questo ormai può apparirci a priori estranea al clima culturale che sfocia politicamente nel fascismo: non a caso, del resto, era stata anche per lungo tempo la casa editrice di Gentile, anzi è una delle classiche sedi di incontro dei maestri eponimi dei due corni dell’idealismo e quindi di tanta parte della cultura italiana di maggior prestigio, allora e oggi17.

È il momento, dunque, di approfondire la ricerca sui carteggi. Nell’agosto 1928, Schiavi inviava a Benedetto Croce, ormai divenuto il punto di riferimento della resistenza culturale al regime, una lettera fondamentale, grazie alla quale ebbe inizio la sua lunga collaborazione con la casa editrice Laterza. Schiavi sottopo-neva all’attenzione del filosofo l’idea di tradurre il volume di Henri De Man, Au delà du marxisme18. Confidava che tramite Croce questo progetto venisse accolto da Laterza, editore noto per la sua posizione indipendente19. Così avvenne. Croce non conosceva il libro di De Man e se ne fece inviare una copia da Schiavi20. Dopo averlo letto ne scrisse in termini entusiastici a Laterza: «Non solo ve lo propongo, ma ve lo raccomando fervidamente. È un libro di grande importanza, una critica

17 Mario Isnenghi, Per la storia delle istituzioni culturali fasciste, in Id. Intellettuali militanti e intel-lettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979, pp. 29-91, p. 75.18 Cfr. A. Schiavi a B. Croce, [Poggio, Forlì], 1.8.1928, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., pp. 86-87. Il riferimento era a H. de Man, Au delà du marxisme, Bruxelles, l’Eglantine, 1927 (ed. or. Zur Psychologie des Sozialismus, Diederichs, Jena, 1926).19 Cfr. Eugenio Garin, La casa editrice Laterza e mezzo secolo di cultura italiana (1961), in Id., Editori italiani tra ’800 e ’900, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 109-127.20 Cfr. B. Croce ad A. Schiavi, Meana, 7.8.1928, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., p. 88.

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del socialismo convenzionale e rivoluzionario, fatta da uno dei più intelligenti e colti agitatori del socialismo belga»21. Dopo la fervida raccomandazione del filosofo a Laterza perché accettasse la proposta editoriale di Schiavi, l’editore barese scriveva per la prima volta a Forlì:

Il senatore Croce mi scrive a proposito di un libro di Henri De Man “Au de là du Marxi-sme” che Ella vuol tradurre e pubblicare. Naturalmente occorre prima intendersi circa le pretese per diritti dell’editore belga, perché dato che in Italia, specie ora, i libri a ca-rattere politico non hanno troppa fortuna, se l’editore avesse delle pretese esagerate non sarà possibile intendersi. Questo ho voluto notarle perché Ella possa nel frattempo informarsi scrivendo direttamente all’editore22.

Laterza era indeciso sulla collana in cui comprendere il libro. La prima ipotesi era la “Biblioteca di cultura moderna”, ma in quel caso sarebbe stato necessario dividere il volume in due tomi, come in effetti avvenne, mentre un’alternativa po-teva essere rappresentata dalla collana di “Politica ed economia”, che secondo le sue stesse parole, però, era «un po’ meno accreditata»23. L’editore chiedeva un parere a Schiavi, che caldeggiò la prima soluzione, descrivendo così la sostanza del libro:

né «politica», né «economica», ma comprende insieme di politica, di sociologia e di filosofia; oltre a ciò, fa fare, a mio avviso, un passo innanzi in questo genere di studi, e il suo posto, per la sua modernità, parmi nella Biblioteca di coltura moderna24.

L’anno successivo, Il superamento del marxismo di De Man usciva, a cura di Ales-sandro Schiavi, nella “Biblioteca di cultura moderna”, una delle collane promos-se da Croce presso la casa editrice di Bari25. Nell’avvertenza collocata a premes-sa del testo, il curatore spiegò come avesse preferito, alla traduzione letterale del francese «au delà», il termine «superamento», inteso idealisticamente come «conservazione», a «base» di successivi sviluppi del pensiero26.

Oltre alla traduzione di De Man, Schiavi propose a Croce e a Laterza la pub-blicazione di materiale autobiografico che – fin dagli ultimi anni trascorsi a Mi-

21 B. Croce, G. Laterza, Carteggio. III. 1921-1930, a cura di A. Pompilio, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 497-498 (Croce a Laterza, Meana, 16.8.1928).22 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 20.8.1928, in Archivio di Stato di Bari (Asba), Archivio storico della casa editrice Laterza (AL), Registri copialettere.23 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 21.11.1928, ivi.24 A. Schiavi a G. Laterza, Forlì, 25.11.1928, in Asba, AL, Archivio autori, b. 32.25 H. De Man, Il superamento del marxismo, a cura di A. Schiavi, 2 voll., Bari, Laterza, 1929.26 A. Schiavi, Avvertenza, in De Man, Il superamento del marxismo, cit., vol. I, pp. V-VIII.

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lano – aveva iniziato a raccogliere presso alcuni ex dirigenti socialisti27. Lo stesso Croce auspicava in una pagina della sua Storia d’Italia di vedere un giorno pub-blicati «lettere e documenti e memorie» sulla storia del socialismo italiano tra Otto e Novecento, nonché

le biografie degli uomini di quel periodo, di molti umili e oscuri, oltreché dei famosi, oscurati e offuscati anche questi, assai spesso, dai misconoscimenti, dalle diffidenze, dalle iniquità, di cui furono fatti segno nelle varie vicende politiche28.

Per iniziativa congiunta di Schiavi e Croce si inaugurò, così, all’interno della “Bi-blioteca di cultura moderna” una serie di saggi sulla storia del movimento ope-raio in Italia. Uscirono solamente tre titoli – di Giovanni Zibordi, Rinaldo Rigola e Biagio Riguzzi29 –, ma nelle intenzioni il progetto editoriale era aperto a uno sviluppo più vasto. Ad esempio, nell’aprile 1929 Schiavi scriveva a Rigola:

Spero di poter far pubblicare prossimamente la tua autobiografia. A suo tempo te ne scriverò. Avevo scritto a Giuseppe Canepa di fare altrettanto per la storia del movi-mento operaio in Liguria, ma non ho avuto risposta. Se hai occasione di scrivergli, vuoi domandargli se ha ricevuto la mia e se è probabile che acconsenta al mio desiderio?30

Pubblicazioni di quel tipo suscitavano nell’editoria di quegli anni una certa ap-prensione. Nel maggio 1929, in procinto di iniziare la lavorazione del libro di Giovanni Zibordi su Prampolini, Laterza esprimeva a Schiavi il dubbio che quel testo potesse esigere il nulla osta preventivo sulle bozze: «cosa alla quale non ho piacere di assoggettarmi, preferendo alla placida sottomissione d’astenermi dagli argomenti soggetti ad essere prima approvati, tanto più che trattasi di uo-mini e cose ai quali non mi sento per nessun verso legato»31. È noto, infatti, che anche prima della circolare Mussolini del 1934 alcune prefetture e questure ave-

27 Si veda la risposta di Croce ad A. Schiavi, Meana, 24.8.1928, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., pp. 88-89.28 Cfr. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 19282, p. 161. Questo volume è pre-sente nella biblioteca di Schiavi (Biblioteca comunale “Aurelio Saffi” di Forlì), che segnò in rosso il brano citato. Sull’importanza della Storia d’Italia nei progetti editoriali di Schiavi, si veda anche la lettera a B. Croce del 23.11.1941, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., pp. 218-219.29 G. Zibordi, Saggio sulla storia del movimento operaio in Italia. Camillo Prampolini e i lavoratori reggiani, Bari, Laterza, 1929 (poi 19302); R. Rigola, Rinaldo Rigola e il movimento operaio nel biel-lese. Autobiografia, Bari, Laterza, 1930; B. Riguzzi, Sindacalismo e riformismo nel Parmense. Luigi Musini. Agostino Berenini, Bari, Laterza, 1931.30 A. Schiavi a R. Rigola, Forlì 28.4.1929, in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (Fgf), Fondo Rinaldo Rigola (Frr), serie 1, f. 541. Si veda, anche, B. Croce ad A. Schiavi, Bari, 26.3.1929, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., pp. 95-96.31 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 2.5.1929, ivi, pp. 100-101.

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vano cominciato a muoversi, benché in modo non ufficiale, in direzione di una censura preventiva, condotta soprattutto sulla base dei titoli e degli autori dei libri in corso di pubblicazione. Schiavi, comunque, tranquillizzava il suo editore:

Quanto al Saggio su Camillo Parmpolini parmi non dovrebbe aver bisogno del nulla osta per il fatto che la narrazione arriva sino alla guerra, che non vi è dentro alcun accenno al fascismo, che il socialismo di Prampolini è, anche nella loro letteratura, am-messo come idealità e non peccaminoso. Lo stesso si può dire dell’altro saggio che avrei pronto: Rinaldo Rigola e i lavoratori del Biellese (autobiografia), in quanto il Rigola è attualmente non disturbato neppure nella sua pubblicazione “I Problemi del Lavoro”32.

Il mese precedente Laterza aveva anzi pensato di rimandare «a miglior tempo» la pubblicazione del volume su Prampolini. Si incrociavano, qui, i motivi concreti del-la censura istituzionale, esercitata dalle autorità, e quelli più indiretti della censu-ra ambientale. Non bisognava, infatti, dimenticare – secondo le parole di Laterza – che la biografia scritta da Zibordi metteva «in buon rilievo l’opera di un deputato di opposizione decaduto nel 1926»33. Fu Croce ad essere ancora una volta decisivo:

Pel Prampolini, non credo che sia il caso di avere paura. Uomo mitissimo, rispettato da tutti, non ha attirato odio contro di sé. Anche negli ultimi anni, e nonostante le vicende a cui ha partecipato, nessuno ha parlato di lui per attaccarlo. D’altra parte, credo molto interessante quella storia del movimento operaio. Ora, che tanto si parla di corporativi-smo, ecc., dovrebbe essere letta con interesse. Non ve la fate sfuggire34.

Rassicurato dai suoi interlocutori, verso la metà di maggio Laterza mandava il te-sto di Zibordi in tipografia, ma dopo pochi giorni bloccava i lavori perché contra-riato dall’improvvisa decisione dell’autore – anch’egli intimorito dalla censura e dal clima che si respirava nel paese – di adottare uno pseudonimo. Così Laterza scriveva in modo risoluto a Schiavi:

Avevo già passato il ms. dello Zibordi in tipografia, ma dato che Ella mi dice che sul volume si metterà uno pseudonimo invece del nome dell’autore, ho fatto sospendere la composizione, perché trattandosi di un libro di storia è necessario che tutto risulti chiaro all’acquirente, a cominciare dalla copertina. Ha fatto bene ad avvisarmi, perché insistendo l’autore a non voler essere nominato, mi avrebbe costretto a distruggere l’edizione35.

32 A. Schiavi a G. Laterza, Forlì, 4.5.1929, in Asba, AL, Archivio autori, b. 33.33 Cfr. G. Laterza a B. Croce, Bari, 3.4.1929, in Croce, Laterza, Carteggio. III. 1921-1930, cit., p. 555.34 B. Croce a G. Laterza, Napoli, 6.4.1929, ivi, p. 557. Si veda, anche, ivi, p. 561.35 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 22.5.1929, in Archivio di Stato di Forlì (Asfo), Fondo Alessandro Schiavi (Fas), b. 12, f. 68.

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Schiavi si impegnò subito a mediare con Zibordi, con il quale si incontrò a Mila-no, persuadendolo a rinunciare alla strategia dello pseudonimo36, mentre Croce ribadiva in quei giorni di fine maggio il proprio giudizio: «Resto d’avviso che sa-rebbe bene pubblicare quel libro assai interessante, e farlo seguire da altri dello stesso genere»37.

Il libro di Zibordi uscì nell’ottobre 1929 e – al contrario di quanto era accadu-to con De Man (appena 200 copie in un anno) – vendette piuttosto bene, tanto da indurre subito l’editore a una ristampa38.

Sulla scia di questo piccolo successo editoriale uscirono, come detto, altri due volumi (di Rinaldo Rigola e Biagio Riguzzi), entrambi recensiti da Schiavi per “I Problemi del lavoro” su preciso incarico della redazione39, dopo i quali Laterza preferì fermarsi, rifiutando, nel febbraio-marzo 1931, prima un lavoro di Mario Bet-tinotti sul movimento operaio genovese40, poi un testo di Emilio Zanella sul Polesi-ne41, infine un secondo libro di Zibordi (Storia del partito socialista italiano nei suoi congressi)42. Tutte ricerche che era Schiavi a incoraggiare e a proporre all’editore.

Il fatto è che la pubblicazione del volume di Rigola si era rivelata più rischio-sa del previsto. Nel gennaio 1930, quando ormai si credeva prossima l’uscita dell’autobiografia dell’ex segretario della Cgdl, Laterza informava Schiavi di una visita imprevista:

Io avevo già fatto mettere mano a comporre il volume dell’on. Rigola, ma giorni fa venne un brigadiere di polizia a chiedermi copia dell’autorizzazione che avevo per pubblicare il volume di Zibordi, naturalmente risposi che non ne avevo e né occorreva, ma dato che era stato mandato con preciso incarico, non essendo a conoscenza di di-sposizioni in proposito, feci sospendere la composizione di questo nuovo volume. Sa lei qualche cosa? Come devo regolarmi? Se occorrerà per i libri il nulla osta, esigerò che se lo procurino gli autori prima che mi mandino gli originali in esame43.

36 Cfr. A. Schiavi a G. Laterza, Forlì, 24.5.1929 e 1.6.1929, in Asba, AL, Archivio autori, b. 33.37 B. Croce a G. Laterza, Napoli, 29.5.1929, in Croce, Laterza, Carteggio. III. 1921-1930, cit., p. 567.38 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 3.12.1929, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., pp. 109-110. Sulle scarse vendite del Superamento del marxismo, che Laterza aveva tirato in duemila copie, si veda G. Laterza a B. Croce, Bari, 13.6.1930, in Croce, Laterza, Carteggio. III. 1921-1930, cit., p. 647.39 Si vedano le due lettere di G.B. Maglione a R. Rigola, del 28.2.1931 e 14.3.1931, in Fgf, Frr, serie 1, f. 377. Entrambe le missive sono su carta intestata: «Associazione nazionale per lo studio dei problemi del lavoro».40 Cfr. A. Schiavi a G. Laterza, Forlì, 27.2.1931, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., pp. 140-142. 41 Cfr. A. Schiavi a G. Laterza, Forlì, 19.3.1931; risposta di Laterza, Bari, 28.3.1931, conservate rispet-tivamente in Asba, AL, Archivio autori, b. 38 e Asfo, Fas, b. 12, f. 70.42 Cfr. A. Schiavi a G. Laterza, [Forlì], 11.3.1931; risposta di Laterza, Bari, 28.3.1931, conservate rispet-tivamente in Asba, AL, Archivio autori, b. 38 e Asfo, Fas, b. 12, f. 70.43 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 15.1.1930, in Asba, AL, Registri copialettere.

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Schiavi girò immediatamente le perplessità dell’editore a Rigola, consigliandosi con lui sulle possibili vie d’uscita. Si poteva procedere con la stampa o era neces-sario cercare qualche mediazione con il potere politico?

A mia volta mi rivolgo a te per sapere: 1° Credi che in base alle disposizioni vigenti sulla stampa, si possa senz’altro stampare e correre l’alea? 2° Credi tu di fare qualche passo, se ne hai il modo, per ottenere il nulla osta? 3° Credi opportuno che tu od io interes-siamo Nanni perché a sua volta interessi per il nulla osta il sottosegretario agli esteri? Gradirò il tuo consiglio per riuscire, purché salviamo innanzitutto l’onore44.

Pur di vedere pubblicato il volume di Rigola, Schiavi era pronto a entrare in con-tatto con gli ambienti fascisti, ma si accingeva a farlo con il tormento di chi vole-va evitare assolutamente ogni compromissione con il regime («purché salviamo innanzitutto l’onore»). Ricevuto a breve giro di posta il parere positivo di Rigola, Schiavi interpellò immediatamente Torquato Nanni. Quest’ultimo era una sua conoscenza di vecchia data. Ex sindaco socialista di Santa Sofia di Romagna45, da sempre ammiratore di Benito Mussolini, Nanni era particolarmente vicino a Leandro Arpinati46, che era stato nominato recentemente sottosegretario all’In-terno47. Avvicinare dal punto di vista teorico fascismo e socialismo, sintetizzati ai suoi occhi nella figura maestosa del “Duce”, era ormai da anni uno degli esercizi preferiti della penna entusiasta di Nanni, che accolse dunque di buon grado la richiesta di Schiavi. Così egli stesso ne scriveva a Rigola:

Carissimo Rigola, l’amico Schiavi mi comunica le difficoltà sorte per la pubblicazione della vostra “autobiografia”. L’ho pregato di inviarmene una copia ed interesserò subito qualcuno a Roma. Non posso nemmeno pensare a un divieto. Fui alla capitale per una diecina di giorni ed ebbi l’occasione di intrattenermi a lungo con Arpinati. [...]. Certo è, caro Rigola, che il breve mio soggiorno di Roma, a contatto con elementi responsabili,

44 A. Schiavi a R. Rigola, Forlì 17.1.1930, in Fgf, Frr, serie 1, f. 541.45 Sull’attività politico-amministrativa di Nanni come sindaco socialista di Santa Sofia (Forlì) nel se-condo decennio del Novecento, si veda Maurizio Degl’Innocenti, Cittadini e rurali nell’Emilia Roma-gna rossa tra ’800 e ’900, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 154-170 (il cap. 6 “Nella Romagna toscana: politica e amministrazione in Torquato Nanni”).46 Cfr. T. Nanni, Leandro Arpinati e il fascismo bolognese, Bologna, Edizioni Autarchia, 1927. Una co-pia del libro è in Biblioteca comunale “Aurelio Saffi” di Forlì, Fondo Alessandro Schiavi, b. 7. Schiavi rimproverava a Nanni, suo «buon amico», di essersi «infatuato di Mussolini» e di cadere per questo in «errori politici». Cfr. A. Schiavi, Diari e note sparse (1894-1964), a cura di Carlo De Maria e Dino Mengozzi, Manduria, Lacaita, 2003, pp. 225, 295; A. Schiavi, Carteggi. Tomo primo: 1892-1926, a cura di Carlo De Maria, saggio introduttivo di Dino Mengozzi, Manduria, Lacaita, 2003, pp. 625-626; Tomo secondo, cit., pp. 81-82, 162-164.47 Nella lettera a Rigola appena citata, Schiavi si confondeva parlando di sottosegretario agli esteri. Cfr. M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1989, p. 154.

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ha ribadito le mie ormai note convinzioni. Mussolini, nel profondo del cuore e del sen-timento, non ha dimenticato le sue origini e vuole veramente bene al proletariato. [...]. E poi mi è parso di cogliere, così, diffusa nell’aria di Roma, una certa quale tendenza alla distensione degli animi, una vaga aspirazione di tendere la mano a quel mondo italiano che non è fascismo, una comprensione più matura dei problemi sociali48.

Lo stesso giorno in cui Nanni scriveva a Rigola, Schiavi rassicurava Laterza:

C’è qui persona amica del Sottosegretario agli interni la quale si propone di sottoporre al suo esame l’Autobiografia, con esito, pensa, favorevole. Occorrerebbe avere, o la dattilografia o, meglio ancora, le bozze in due copie. Credo anch’io, dato il contenuto del libro, che nessun ostacolo verrà frapposto, per cui se Ella compirà la composizione non ci andrà per le sue spese49.

Lasciatasi alle spalle la visita della polizia, Laterza riprese immediatamente la composizione del libro: «Prendo nota di quanto mi comunica, manderò a Lei due copie di bozze e Lei penserà a farle esaminare»50. Quindici giorni dopo, a fine gennaio 1930, Schiavi poteva annunciare a Rigola la spedizione delle prime boz-ze: «Tengo il dattiloscritto per non farlo spiare per posta. Credo tu potrai cor-reggere anche senza»51. Quest’ultima precauzione è da mettere in relazione alla possibilità – che Schiavi e Laterza stavano valutando – di compiere alcuni tagli sul testo originale di Rigola. L’editore infatti, in febbraio, scriveva di nuovo a Forlì con la preghiera di «rivedere accuratamente l’impaginato dell’Autobiografia del Rigola e togliere ogni occasione a possibili noie. Non abbia premura di riman-darmi le bozze»52.

Sulla decisione di Laterza di interrompere la serie di saggi relativa alla storia del socialismo italiano pesarono, forse, anche alcune reazioni degli organi di stampa del regime. Ad esempio, “Il Lavoro fascista”, foglio delle confederazioni nazionali dei sindacati fascisti, aveva commentato aspramente l’uscita dell’au-tobiografia di Rigola, con un corsivo intitolato E due!53. Secondo l’anonimo arti-colista, la casa editrice Laterza sembrava smentire la propria «rispettabile tradi-zione», mettendosi ultimamente «per una strada un po’ diversa». Dopo il libro di Zibordi su Prampolini, ecco le memorie di Rigola:

48 T. Nanni a R. Rigola, Santa Sofia di Romagna, 22.1.1930, in Fgf, Frr, serie 3, f. 775. La lettera è su carta intestata «Autarchia. Le nuove amministrazioni locali». 49 A. Schiavi a G. Laterza, Forlì, 22.1.1930, in Asba, AL, Archivio autori, b. 35.50 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 23.1.1930, in Asba, AL, Registri copialettere.51 A. Schiavi a R. Rigola, [Forlì,] 31.1.1930, in Fgf, Frr, serie 1, f. 541. 52 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 21.2.1930, in Asba, AL, Registri copialettere.53 “Il Lavoro fascista” (Roma), a. III, n. 87, 11 aprile 1930, p. 1.

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Attendiamo ora che i solerti editori Laterza pubblichino le memorie di Filippo Turati, una raccolta completa dei discorsi di Miglioli e (perché no?) una biografia romanzata di Don Sturzo.

Del resto, perché meravigliarsi di un editore che aveva nel proprio catalogo la Storia d’Italia di Croce, «in cui è glorificata l’Italietta pantofolaia e in cui sono mortificati tutti gli slanci, tutti gli eroismi, tutte le impazienze che, represse dal ’70 al 1915, dovevano esplodere nella guerra e creare col Fascismo l’Italia nuo-va». In definitiva, concludeva il commentatore fascista, «Prampolini e Rigola sono, con Benedetto Croce vessillifero, i rappresentanti superstiti di quella Ita-lia». Schiavi conservava tra le sue carte l’articolo del “Lavoro fascista” e, insieme a Rigola, lo commentava con soddisfazione:

Caro Rigola, il tuo libro piace; di quello di Zibordi si fa la seconda edizione; qualche avversario stride. Dunque vuol dire che l’idea era buona e bisogna continuarla54.

Diversamente Laterza espresse a Schiavi la preoccupazione che proseguendo su quella strada si potessero «acuire gli attacchi contro l’editore»55.

L’autobiografia di Rigola venne recensita anche da Schiavi per i lettori dei “Problemi del lavoro”56. È interessante fare riferimento a questo articolo, poiché vi si trova espresso il progetto editoriale di Schiavi. Egli notava come in Italia si fosse ancora «agli albori» degli studi sulla storia del movimento operaio. Si sentiva quindi il bisogno di ricerche condotte «in profondità»: evitando cioè le «generalità nelle quali tutto si sbiadisce (data la varietà delle condizioni etniche, politiche, economiche storiche delle diverse parti del nostro paese)» e concen-trandosi invece «su analisi accurate di cose, di fatti e di uomini, luogo per luogo, al fine di preparare i materiali per la sintesi che verrà». Schiavi prendeva spunto dalla storiografia sulla Rivoluzione francese, osservando come le fonti migliori si fossero rivelate «i cahiers dei dipartimenti, le monografie locali, le memorie e gli epistolari dei maggiori e dei minori uomini che vi ebbero parte». Tutto questo sug-geriva di procedere anche in Italia per «saggi» di carattere regionale e biografico.

La recensione di Schiavi venne pubblicata nel maggio 1930. All’incirca un anno più tardi, la rivista di Rinaldo Rigola e Giovan Battista Maglione diede spa-zio a un suo appello. Schiavi pregava i lettori dei “Problemi del lavoro” che con-servassero documenti riguardanti la storia del movimento operaio in Italia – e cioè «giornali, settimanali, numeri unici, fogli volanti, manifesti, opuscoli, ritagli

54 A. Schiavi a R. Rigola, Forlì, 6.6.1930, in Fgf, Frr, serie 1, f. 541.55 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 19.8.1930, in Asba, AL, Registri copialettere.56 a.s., L’Autobiografia di Rigola, in “I Problemi del lavoro”, a. IV, n. 5, 1.5.1930, pp. 7-9.

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di articoli, riviste, libri rari, memorie manoscritte, diarii, lettere autografe od in copia, notizie biografiche, ricordi aneddotici, ed altro intorno a fatti e ad uomini che parteciparono al movimento specialmente nel periodo 1860-1900» – di vo-lerli inviare al suo indirizzo forlivese oppure di dargliene notizia57.

In effetti, dopo il disimpegno di Giovanni Laterza, furono “I Problemi del lavo-ro”, grazie alla piccola casa editrice legata alla rivista, a proseguire le pubblica-zioni programmate da Schiavi58. Tra i primi titoli della collana “Cronistorie e bio-grafie”, inaugurata nel 1931, si ritrovano proprio i volumi di Bettinotti e Zanella, appena scartati da Laterza59.

Se la serie dei saggi sulla storia del movimento operaio in Italia si esaurì, presso Laterza, nel giro di un paio di anni, la collaborazione di Schiavi con la casa editrice barese in veste di traduttore fu molto più lunga, proseguendo fino al 1934-35.

Grazie al rapporto diretto che aveva stabilito con De Man, nel maggio 1930 Schiavi poteva già avere tra le mani le bozze di La Joie au Travail allora in corso di pubblicazione per i tipi dell’editore parigino Alcan60. Ne scriveva immediatamen-te a Laterza, parlando di un’inchiesta sul lavoro operaio relativa all’«antinomia uomo-macchina». Al centro del volume di De Man, come anticipava il titolo, c’era la «ricerca della gioia nel lavoro meccanico», al posto di quella oppressione che, invece, era «tanta parte del malcontento delle classi lavoratrici odierne». Schiavi proseguiva sottolineando l’esito dell’indagine svolta dal sociologo fiammingo:

La dimostrazione, attraverso le risposte ai questionari – di un interesse alla lettura, contrariamente a quanto si potrebbe credere, davvero sorprendente, perché è la parte più intima di sé che quei lavoratori scoprono – porta, in fondo, ad una conclusione otti-

57 Cfr. “I Problemi del lavoro”, a. V, n. 4, 1.4.1931, p. 14.58 Schiavi se ne compiaceva con Maglione, segretario dell’Associazione nazionale per lo studio dei problemi del lavoro: cfr. copia di una lettera di A. Schiavi a G.B. Maglione, Villa Poggio, 24.1.1932, in Archivio centrale dello Stato (Acs), Casellario politico centrale (Cpc), b. 4689, Schiavi Alessandro.59 E. Zanella, Dalla barbarie alla civiltà nel Polesine. L’opera di Nicola Badaloni, Milano, Problemi del lavoro, 1931; M. Bettinotti, Vent’anni di movimento operaio genovese. Pietro Chiesa, Giuseppe Canepa, Lodovico Calda, premessa di A. Cabrini, Milano, Problemi del lavoro, 1932. Nella stessa collana apparvero in quegli anni: C. Azimonti, Tempi passati. Un trentennio di vita sociale nella culla dell’industria tessile, Milano, Problemi del lavoro, 1931; F. Anzi, Il Partito operaio italiano, 1882-1891. Episodi e appunti. Cronistoria autobiografica di un giornalaio-giornalista, Milano, Pro-blemi del lavoro, 1933. Di ben altro respiro, il saggio storico di R. Rigola, Cento anni di movimento operaio. Panorama storico del movimento sociale internazionale (1830-1934), Milano, Problemi del lavoro, 1935.60 H. de Man, La Joie au Travail. Enquête basée sur des témoignages d’ouvriers et d’employés, Pa-ris, Alcan, 1930. Questo volume è presente nella biblioteca di Schiavi (Biblioteca comunale “Aure-lio Saffi” di Forlì). Sulla copertina, il timbro: «Hommage de l’auteur». Al testo francese è premessa un’avvertenza: «Ce livre est la traduction d’un ouvrage allemand publié en 1927, chez Diederichs à Iéna, sous le titre Der Kampf um die Arbeitsfreude – littéralement: la lutte pour la Joie au Travail».

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mista, nel senso che il problema non è insolubile, e che i coefficienti per far trovare la gioia nel lavoro industriale moderno esistono. Si tratta poi di vedere come si possono mettere in funzione e chi deve farlo. Da questi brevi accenni, e dall’esame del libro che le spedisco Ella potrà rendersi conto della originalità della ricerca, e dell’interesse vivo dell’opera non solo per oggi, ma anche per domani61.

Nonostante il pubblico italiano, «ora specialmente», poco s’interessasse delle «questioni sociali», Laterza accettava la proposta di traduzione62. Il libro usciva all’inizio dell’anno successivo con una densa premessa del curatore. Per la prima volta, notava Schiavi, la questione del lavoro operaio era vista, nell’inchiesta di De Man, «dall’interno», attraverso ciò che ne pensavano, «per la loro esperien-za», i lavoratori stessi. Si trattava, dunque, di una vera e propria «indagine psi-cologica» sulla condizione operaia, capace di porre al centro dell’attenzione le situazioni concrete e individuali. Schiavi valorizzava questo impegno, proprio in opposizione all’epoca in cui esso si inseriva:

Oggi, in due Stati, l’ideologia del lavoro impronta di sé la Carta fondamentale che reg-ge i destini del popolo: nella Russia bolscevica e nell’Italia fascista, per cui si potrebbe pensare che, saggiata sul terreno della realtà poggiante sulle formidabili forze dello Stato, essa prepari l’attuazione della gioia nel lavoro per l’intera popolazione attiva.

Tuttavia, continuava Schiavi, «in Russia, oggi, il lavoro è un dovere che la legge impone e lo Stato fa osservare come un obbligo», avendo come fine ultimo il bene astratto di quella «comunità proletaria e socialista» che il potere pubblico «assomma, controlla e dirige». Qualcosa di affine accadeva in Italia, dove

esaltato e onorato dai poteri dello Stato, il lavoratore dovrebbe essere tutelato dagli organi corporativi appositamente creati in quanto egli collabori coi datori di lavoro e riconosca la convergenza dei rispettivi interessi per il fine ultimo del bene dello Stato.

In un caso e nell’altro, si trattava evidentemente di «coefficienti esteriori, lontani ed estranei al luogo, al modo, alla gerarchia del lavoro ed alla destinazione del suo prodotto». Come potevano, perciò, produrre la gioia nel lavoro?

Cioè: mancando nel lavoratore la libertà di consentire all’ordinamento del lavoro nell’interno della fabbrica, del cantiere o nel campo, come può svilupparsi la coscienza di gruppo su base democratica che, sola può, come dimostra il De Man, risvegliare negli operai il senso di responsabilità e la gioia di disporre liberamente di sé? E come può lo

61 A. Schiavi a G. Laterza, Forlì, 1.6.1930, in Asba, AL, Archivio autori, b. 35.62 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 7.6.1930; G. Laterza a H. De Man, Bari, 2.7.1930, entrambe in Asba, AL, Registri copialettere.

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stesso comandamento di lavorare per la comunità, per istintivo che sia in noi, diventare una legge etica e trasformare il lavoro-dovere in un obbligo morale quando, invece di essere liberamente eseguito in grazia dell’educazione, lo è in forza della costrizione?63

I temi del macchinismo, della divisione e «razionalizzazione» del lavoro, della salvaguardia dell’intelligenza e dignità dei lavoratori in fabbrica erano al centro anche del successivo volume che Schiavi propose per la traduzione a Laterza, parlandone all’editore nel novembre 1930, ancor prima che La gioia del lavoro uscisse nelle librerie. L’autore, il francese Hyacinthe Dubreuil, che negli anni suc-cessivi si sarebbe affermato come dirigente del Bureau international du travail, era allora pressoché sconosciuto in Italia. Schiavi, però, frequentando la stampa transalpina, aveva letto la recensione di un suo libro, Le travail americain vu par un ouvrier français64, a cui subito si interessò sembrandogli «una perfetta ripresa, su osservazioni dirette, di quanto ha esposto il De Man»65.

Insieme al libro di Dubreuil, poneva all’attenzione di Laterza un saggio del filosofo della politica Harold Laski, Liberty in the Modern State66, lavoro di cui aveva già accennato a Croce e che giudicava quanto mai «opportuno» tradurre «in questo periodo storico in cui la libertà è, per lo meno, discussa»67. Laski muo-veva, infatti, la sua riflessione fra marxismo e liberalismo, cercando di integrare fra loro le due tradizioni politiche68.

Laterza accoglieva, in linea di massima, entrambe le proposte e invitava il suo traduttore a informarsi circa i diritti d’autore69. Schiavi, da parte sua, continuava a non fare questioni di denaro:

Quanto a me, le ripeto quanto ebbi a scriverle, mi sembra, in una delle prime mie let-tere: non ho mai fissato onorari per l’opera mia. Quindi mi rimetto a Lei pago dei frutti

63 A. Schiavi, Premessa a H. De Man, La gioia nel lavoro, a cura di A. Schiavi, Bari, Laterza, 1931, pp. V-XXXIX (in part., pp. XXXVII-XXXIX).64 H. Dubreuil, Standards. Le travail américain vu par un ouvrier français, préface de H. Le Chatelier, Paris, Grasset, 1929.65 Cfr. A. Schiavi a G. Laterza, [Forlì], 6.11.1930, in Asba, AL, Archivio autori, b. 35.66 H.J. Laski, Liberty in the Modern State, London, Faber, 1930.67 Cfr. A. Schiavi a G. Laterza, [Forlì], 23.10.1930 (in realtà, 23.11.1930), in Asba, AL, Archivio autori, b. 35. Si veda, anche, A. Schiavi a B. Croce, [Forlì, settembre 1930], in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., p. 124.68 Secondo George L. Mosse (Di fronte alla storia, premessa di Emilio Gentile, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 133) il tentativo di Laski era quello di «tenere insieme marxismo e liberalismo». Si veda, anche, Raffaella Baritono, Un intellettuale di fronte alla crisi di legittimazione degli anni Venti. Harold Laski fra «body politics» e modello federale americano, in Paolo Pombeni (a cura di), Crisi, legittimazione, consenso, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 183-233.69 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 27.11.1930, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., p. 128.

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che le idee diffuse potranno, col tempo, e dovranno, necessariamente, dare. I tempi son duri per tutti, anche per chi, come me, cambiando mestiere si è messo a fare l’agricol-tura. Ma la fiducia che il buon senso finirà di prevalere anche nei lettori e che le opere di pensiero ritorneranno in onore, mi sorregge e non dubito… la guida70.

Sul volume di Laski, l’editore volle interpellare direttamente Croce, che giudicò Liberty in the Modern State «eccellente». Entrando nei particolari della traduzio-ne, suggeriva:

Io proporrei di togliere cinque o sei piccole e incidentali citazioni di cose italiane pre-senti, e ciò perché, mettendomi nei vostri panni, voglio abbondare in prudenza. Il resto va benissimo e riuscirà assai istruttivo. Caso mai, potreste inviare a me o il manoscritto o le bozze della traduzione, ed io stesso eseguirei, con mano leggera, queste soppres-sioncelle o questi velamenti71.

Il parere di Croce, che si faceva attendere ormai da un mese72, arrivò all’inizio di aprile 1931 e subito Laterza dava il via libera a Schiavi:

Va bene il volume del Laski “Liberty in the modern state” che oggi stesso Le rimando, ma occorrono qua e là lievi e prudenti ritocchi. Circa le condizioni sono disposto a pa-gare lire 1000 per diritto d’autore e L. 850 per la traduzione dattiloscritta73.

A sua volta, Schiavi informava Laski circa la necessità di alcuni prudenti ritocchi nella traduzione italiana74. Del resto, con grande sensibilità, era stato proprio lo studioso inglese a porre per primo questo problema:

The one point I make is that I should not wish that the translation of so radical a book should get either you or your publisher into political difficulties. You, of course, would be the best judge of this75.

In agosto Schiavi spediva a Laterza il dattiloscritto della traduzione assicuran-do l’editore di aver «espurgato il testo» dai riferimenti alla situazione italiana76.

70 A. Schiavi a G. Laterza, [Forlì], 12.1.1930 (in realtà, 1931), in Asba, AL, Archivio autori, b. 38.71 B. Croce a G. Laterza, Torino, 6.4.1931, in Asba, AL, Archivio autori, b. 36.72 Cfr. G. Laterza a B. Croce, Bari, 4.3.1931, in Asba, AL, Registri copialettere: «Oggi stesso Le ho spe-dito il volumetto inglese del Laski su “La libertà nello stato moderno” per avere il Suo giudizio, dato che il dott. Schiavi insiste nell’offrirmi la traduzione».73 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 9.4.1931, in Asfo, Fas, b. 12, f. 70.74 Cfr. A. Schiavi a H.J. Laski, [Forlì, 10-11 aprile 1931], in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., p. 145.75 H.J. Laski ad A. Schiavi, London, 15.12.1930, ivi, p. 130.76 Cfr. A. Schiavi a G. Laterza, Poggio, 15.8.1931, in Asba, AL, Archivio autori, b. 38.

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Attraverso l’esperienza professionale di Alessandro Schiavi, la figura del tradut-tore sotto il fascismo appare in una dimensione drammatica. In Schiavi, infatti, convivevano il censore e il censurato, in un delicato equilibrio teso a mantenere aperta una difficilissima battaglia culturale: «Io sono animato da questo proposi-to: ridestare nel nostro paese il gusto e l’amore per la libertà», così aveva scritto a Laterza in aprile ringraziandolo per aver accettato la traduzione del Laski77.

La libertà nello Stato moderno usciva in libreria nell’autunno 193178, ferman-dosi a un risultato scarsissimo di vendite (350 copie in due anni) e provocando alcune critiche negli addetti ai lavori:

Mi si è fatto notare – scriveva Laterza a Schiavi – che la traduzione del Laski contiene parecchie sviste, che non si tratti dei ritocchi dovutisi fare?79

Il volume di Dubreuil era uscito in aprile80, vendendo anch’esso pochissimo. La-terza, su quei titoli, continuava consapevolmente a «lavorare in perdita»81. Le esigenze di bilancio imponevano anche considerazioni di carattere strettamente commerciale, che Laterza esponeva con franchezza a Schiavi: «Certo è che di libri di argomenti sociali non se ne vendono quasi più. Conviene perciò occuparsi di altro»82. Talvolta, l’editore trovava quindi opportuno orientarsi con decisione verso opere più disimpegnate. Egli stesso ne suggeriva una Schiavi: «Ho sentito dire un gran bene di un altro libro del Madariaga su “Inglesi tedeschi e francesi” non ho il titolo preciso, lo conosce Lei?»83

In effetti, Laterza non aveva ancora avuto il modo di vedere il testo di Salva-dor de Madariaga, Anglais, Français, Espagnols84, «perché ora i libri che giungono

77 A. Schiavi a G. Laterza, Forlì, 11.4.1931, ivi. Alcune interessanti considerazioni sui traduttori nei re-gimi totalitari emergono dalla lettura di G. Vitiello, Le traduzioni nella storia del libro e dell’editoria. Materiale per uno studio, in “Biblioteche oggi”, 1987, n. 1, pp. 67-76 (in part., pp. 70-71).78 H.J. Laski, La libertà nello Stato moderno, a cura di A. Schiavi, Bari, Laterza, 1931.79 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 18.1.1932, in Asba, AL, Registri copialettere. Per l’«esito molto li-mitato» delle vendite di Laski, si vedano G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 23.3.1933 e 18.12.1933, ivi (l’originale della seconda è conservato in Asfo, Fas, b. 13, f. 72).80 H. Dubreuil, Standards. Il lavoro americano veduto da un operaio francese, a cura di A. Schiavi, Bari, Laterza, 1931.81 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 16.12.1930, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., p. 131; G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 18.6.1931, in Asba, AL, Registri copialettere.82 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 9.1.1931, in Asfo, Fas, b. 12, f. 70.83 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 5.10.1932, in Asfo, Fas, b. 12, f. 71.84 S. de Madariaga, Anglais, Français, Espagnols, septième édition, Paris, Librairie Gallimard, 1930. La traduzione italiana uscì l’anno successivo: S. de Madariaga, Inglesi Francesi Spagnoli, a cura di A. Schiavi, Bari, Laterza, 1933.

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dall’estero fanno troppa sosta negli uffici»85. Pregava, allora, Schiavi di informarsi direttamente dall’autore sull’entità del volume e i diritti di traduzione: «circa il quantitativo di tiratura – aggiungeva – gli si può assicurare che nelle attuali con-dizioni noi non possiamo tirare oltre 1500 copie». Di Madariaga, noto saggista e diplomatico spagnolo, Schiavi aveva recentemente tradotto per Laterza un altro volume, Spain86, che registrava in quei mesi un buon riscontro in libreria, anche se la traduzione ancora una volta – secondo i pareri raccolti da Laterza – lasciava a desiderare87.

Mentre la pubblicazione dei due volumi di Madariaga, nel 1932-33, non diede motivo di inquietudini di fronte alla censura, una situazione del tutto simile a quella creatasi per Liberty in the Modern State di Laski si presentò con il nuo-vo libro di De Man, Le socialisme constructif88. Già all’inizio del 1931, l’autore ne parlava al suo traduttore italiano, annunciando per quell’anno l’uscita del volume in Germania; mentre l’edizione francese (la più accessibile a Schiavi) avrebbe tardato ancora due anni. De Man, comunque, dubitava che quel testo si prestasse alla pubblicazione in Italia: «surtout en ce qui concerne le dernier des quatre chapitres, qui traite du Nationalisme»89. Su richiesta di Schiavi e dopo aver sentito il parere di Croce90, Laterza diede invece il suo benestare, a condizione che il libro fosse «tradotto in modo da non aver noie»91. Naturalmente, De Man comprendeva la situazione e non poteva che rallegrarsi dell’insperata pubblica-zione: «Il va sans dire que je vous accorde une complète latitude pour toutes les retouches que vous jugerez nécessaires»92.

In realtà, Le socialisme constructif non entrò nel catalogo Laterza. Fu lo stes-so De Man, all’inizio del 1933, ancora in attesa dell’edizione francese, a chiedersi se non fosse meglio abbandonare la traduzione di quel libro, a favore del suo ultimo lavoro dedicato all’idea socialista («mon livre sur l’Idée Socialiste»), in

85 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 25.10.1932, in Asfo, Fas, b. 12, f. 71. 86 S. de Madariaga, Spain, 2 ed., London, Ernest Benn, 1931; S. de Madariaga, Spagna. Saggio di storia contemporanea, a cura di A. Schiavi, Bari, Laterza, 1932.87 «Devo intanto avvertirla che anche la traduzione di Spagna, ho sentito da persona competente, che lascia a desiderare». Laterza a Schiavi, Bari, 25.10.1932, cit. Sul buon successo del volume, si veda A. Schiavi a G. Laterza, Villa Poggio, 27.9.1932, in Asba, AL, Archivio autori, b. 41. 88 H. de Man, Le socialisme constructif, traduit de l’allemand par L.-C. Herbert, Paris, Alcan, 1933.89 H. De Man ad A. Schiavi, Frankfurt a. M., 23.1.1931, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., pp. 139-140.90 G. Laterza a B. Croce, Bari, 14.4.1931, in Asba, AL, Registri copialettere.91 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 18.4.1931, in Asfo, Fas, b. 12, f. 70.92 H. De Man ad A. Schiavi, Frankfurt a. M., 22.4.1931, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., p. 147.

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quel momento in corso di stampa in Germania (Die sozialistische Idee)93, ma per il quale si poteva prevedere anche un’edizione francese94. Quest’ultima si fece attendere i consueti due anni, arrivando nel 193595, ma nel frattempo, in Italia, le condizioni del lavoro editoriale erano ulteriormente peggiorate, a causa della circolare Mussolini dell’aprile 1934. Il mese successivo all’emanazione di quel provvedimento Laterza si confrontava con Schiavi sui prevedibili effetti:

Lei avrà saputo che il Governo ha stabilito, non la censura preventiva che sarebbe stata meglio, ma una censura sui libri pubblicati, per cui occorre che gli editori attendano, se ho ben capito, perché la circolare non è sufficientemente chiara, il «nulla osta» dai Pre-fetti per metterli in commercio. Quindi comprenderà bene con che animo si possono mettere in composizione libri di pensiero e stare con l’incubo del responso di uomini di parte96.

Proprio in quei mesi della primavera 1934 sarebbe dovuta andare in stampa quella che si rivelò essere l’ultima traduzione di Schiavi pubblicata da Laterza, e cioè Democracy in Crisis del Laski97. Ancora una volta il testo era stato proposto da Schiavi, nel corso del 1933, ed aveva raccolto il parere favorevole di Croce98. L’editore, però, si mostrava ora perentorio nelle raccomandazioni al suo tradut-tore:

Vorrei inoltre avere assolute assicurazioni che l’autore non discute, offendendo, fosse anche lontanamente il nostro regime attuale, caso contrario occorrerà saltare di pian-ta tutto il pezzo, non potendo io permettere che ciò sia riportato99.

Evidentemente, Laterza era sotto pressione, ma non aveva comunque perso fidu-cia in Schiavi, al quale confidava: «Io non sono un lettore attento, bado alla parte sostanziale dei libri che pubblico e mi possono sfuggire delle sfumature che in-teressano chi le va cercando, ma Lei che ha tradotto questo libro mi può dare un

93 Jena, Diederichs, 1933.94 Cfr. H. De Man ad A. Schiavi, [Francoforte], 16.2.1933, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., p. 165.95 H. de Man, L’idée socialiste, traduit de l’allemand par H. Corbin et A. Kojevnikov, Paris, Grasset, 1935.96 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 4.5.1934, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., p. 170. 97 H.J. Laski, Democracy in Crisis, London, George Allen & Unwin, 1933.98 Cfr. B. Croce a G. Laterza, s.l., 26.11.1933, in Asba, AL, Archivio autori, b. 42. Croce allegava una lettera indirizzatagli da Schiavi, Villa Poggio, 23.11.1933, conservata ivi.99 G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 11.1.1934, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., pp. 167-168.

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giudizio sicuro senza farmi incorrere in rischi»100. La situazione si era fatta estre-mamente pesante. In giugno, Laterza descriveva a Croce, con toni grotteschi, le nuove modalità della censura:

Ho mandato i primi libri alla Prefettura e man mano che li finiscono di leggere (povera gente) si affrettano a scrivere, per ciascuno, una lettera pel «nulla osta». Speriamo che non trovino nulla in contrario, perché stanno ancora esaminando libri usciti dai primi di aprile, come Pancrazi ecc.101

Nel settembre 1934, era Benedetto Croce a informare Schiavi di come Laterza, nella pubblicazione del libro di Laski, fosse «tenuto sospeso dai capricci del di-vieto», che colpivano – come temuto – «una edizione già pronta per la vendita». Croce sollevava comunque, implicitamente, Schiavi da ogni responsabilità, af-fermando che anche lui era stato del parere che per il libro di Laski non ci fosse «nulla da temere; ma – aggiungeva – si va sempre alla cieca… »102.

La traduzione di Schiavi era pronta da tempo (per questo Croce parlava di «edizione già pronta per la vendita»), ma venne messa in composizione solo nel gennaio 1935103. Laterza informava del ritardo la casa editrice londinese George Allen & Unwin, detentrice dei diritti, con parole estremamente chiare:

Noi non abbiamo ancora pubblicato la traduzione italiana dell’altro libro del Prof. La-ski “Democracy in Crisis”, perché dovendo sottoporlo all’approvazione delle autorità competenti prima di metterlo in commercio, per non dare occasioni d’impedimento, sarà necessario togliere tutti gli apprezzamenti riguardanti l’Italia104.

Schiavi, infatti, traducendo il volume aveva contrassegnato tutti i passaggi che avrebbero potuto comportare un intervento della censura, in modo che l’editore e il tipografo, al momento della composizione e della stampa, potessero even-tualmente saltarli «di piè pari»105.

100 Laterza a Schiavi, Bari, 4.5.1934, ivi, p. 170.101 G. Laterza a B. Croce, Bari, 16.6.1934, in Asba, AL, Registri copialettere. Il riferimento è a Pietro Pancrazi, Scrittori italiani del Novecento, uscito in primavera nella “Biblioteca di cultura moderna”. Cfr. B. Croce - P. Pancrazi, Caro Senatore. Epistolario (1913-1952), prefazione di E. Croce, Firenze, Passigli, 1989, pp. 59-61. 102 B. Croce ad A. Schiavi, Meana, 24.9.1934, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., p. 176.103 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 27.12.1934 e 9.1.1935, in Asfo, Fas, b. 13, ff. 73-74.104 G. Laterza alla casa editrice George Allen & Unwin Ltd., Bari, 18.1.1935, in Asba, AL, Registri co-pialettere. Laterza respingeva, pertanto, l’offerta della casa editrice inglese riguardante i diritti di traduzione dell’ultima opera di Laski, The State in Theory and Practice (cfr. George Allen & Unwin Ltd. alla casa editrice Laterza, London, 8.1.1935, ivi, Archivio autori, b. 48).105 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 19.10.1934, in Asba, AL, Registri copialettere.

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L’uscita di Democrazia in crisi, ritardata di un anno, avvenne finalmente nel giugno 1935106. Quell’anno si chiuse, senza spaccature, anche la collaborazione di Schiavi con Giovanni Laterza107. Era sempre più difficile per un intellettuale impegnato e non conformista come Schiavi perseguire le proprie scelte edito-riali. Come si è visto, infatti, era lui a proporre le traduzioni a Laterza e Croce e a mantenere i contatti con gli autori e gli editori stranieri, svolgendo dunque un ruolo autonomo nell’impresa editoriale.

Gravi avvisaglie degli ostacoli opposti al proprio lavoro culturale si erano avute, del resto, negli anni precedenti. Nel giugno 1929, arrestato senza precise motivazioni, Schiavi aveva dovuto trascorrere una settimana nel carcere di For-lì108. Nel frattempo la polizia perquisiva la villa di Poggio, residenza di Schiavi nella campagna forlivese, asportando «lettere, appunti, ritagli di giornale, dat-tilografie, manoscritti e stampati», relativi proprio alla sua attività editoriale. Lo stesso mese – come informano due verbali di polizia – il socialista Gustavo Sa-cerdote era stato interrogato alla questura di Milano circa i suoi rapporti con Schiavi. Quest’ultimo, infatti, a partire dal 1927 aveva fornito mensilmente a Sa-cerdote una somma di 100 lire (poi a ridotte a 50) per soccorrere alcune famiglie di confinati e arrestati politici. Sacerdote risiedeva a Milano e la somma gli era stata periodicamente corrisposta dal figlio di Schiavi, Sigfrid, impiegato in quella città presso la Banca commerciale italiana109.

Una nuova perquisizione domiciliare era scattata a Poggio nell’aprile 1930, con il sequestro di «alcuni fogli dattilografati contenenti appunti di natura eco-nomico-politica»110. In agosto, la prefettura di Forlì aveva incluso Schiavi «nell’e-lenco delle persone pericolose da arrestarsi in determinate contingenze», men-tre continuava il controllo accurato della sua posta111.

Due anni più tardi, un libro del teorico francese del «neosocialismo» Marcel Déat, Perspectives socialistes112, spedito da Schiavi a Laterza in vista di una possi-

106 H.J. Laski, Democrazia in crisi, a cura di A. Schiavi, Bari, Laterza, 1935.107 Nella seconda metà degli anni Trenta, Schiavi mantenne un flebile contatto epistolare con Gio-vanni Laterza, poi con il figlio dell’editore, Franco, ma senza ristabilire un’effettiva collaborazione con la casa di Bari. Nel dopoguerra, invece, uscirono due volumi curati da Schiavi: Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti (1880-1925), Bari 1947; F. Turati, Uomini della politica e della cultura, Bari 1949. Cfr. Asba, AL, Archivio autori, bb. 54, 63, 73; ivi, Registri copialettere, 1936-38; Asfo, Fas, b. 14, f. 82; Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., pp. 273-274.108 Cfr. Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., pp. 103-109. Si veda anche la nota della prefettura di Forlì, 10.7.1929, in Acs, Cpc, b. 4689, Schiavi Alessandro.109 Cfr. copie di due verbali di polizia del 12 e 14 giugno 1929, in Asfo, Fas, b. 12, f. 68.110 Nota della prefettura di Forlì, 11.5.1930, in Acs, Cps, b. 4689, Schiavi Alessandro.111 Note della prefettura di Forlì, 2.8.1930, 17.6.1931 e 1.2.1933, ivi.112 M. Déat, Perspectives socialistes, Paris, Valois, 1930.

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Carlo De Maria, Censura libraria 119

bile traduzione, era stato intercettato e trattenuto dalla polizia. Subito l’editore si era raccomandato con il suo collaboratore di non proporgli più «ciò che alle autorità politiche non fa[ceva] piacere»113.

Schiavi, da parte sua, era rimasto con quel «disagio morale» che lui sentiva «più grave, più umiliante, più doloroso da sopportare dell’inopia, del disagio eco-nomico, del lutto domestico»114.

113 Cfr. G. Laterza ad A. Schiavi, Bari, 20.10.1932, in Schiavi, Carteggi. Tomo secondo, cit., p. 162.114 A. Schiavi a T. Nanni, Villa Poggio, 26.11.1932, ivi, p. 164.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 121-140

1. La cinematografia nell’orizzonte fascista: la fallita costruzione di una prossemica di regime in un “totalitarismo imperfetto”

In virtù della sua natura intrinsecamente comunicazionale ed empatica rispet-to a un pubblico di massa1, la cinematografia si propose al fascismo come uno straordinario medium di veicolazione propagandista verso una società che s’in-tendeva inquadrare e indottrinare nell’ambito di una novella mistica nazionale2. La “settima arte” – i cui canoni estetici e metodologici erano peraltro ancora in corso di definizione negli anni fra le due guerre3 – pareva in sostanza contenere quegli attributi di attrattività e fruibilità universale indispensabili per trasmette-re nel corpo sociale l’immagine della modernizzazione alimentata dal fascismo4.

1 Potenzialità già chiara agli albori, cfr. Influenza sociale del cinematografo, in “Rivista Fono-cine-matografica”, 1908, n. 12, pp. 33-34. 2 Si vedano: Gian Piero Brunetta, Miti, modelli e organizzazione del consenso nel cinema fascista, Bologna, Consorzio di pubblica lettura, 1976; Mino Argentieri, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1977; Jean-Antoine Gili, Stato fascista e cinematografia. Repressione e promozione, Roma, Bulzoni, 1981; Daniela Manetti, “Un’arma pode-rosissima”. Industria cinematografica e Stato durante il fascismo 1922-1943, Milano, FrancoAngeli, 2012. 3 Fra i teorici che maggiormente influenzeranno la disciplina cinematografica italiana in questi anni di “formazione”, ci saranno Béla Balàzs (cfr. Der Sichtbare Mensch: oder, die Kultur des Films, Vienna-Lipsia, Deutsch-Österreichischer Verlag, 1924) e Vsevolod Pudovkin (cfr. Film e fonofilm: il soggetto, la direzione artistica, l’attore, il film sonoro, Roma, Le edizioni d’Italia, 1935).4 Si vedano: Philip V. Cannistraro, Il cinema italiano sotto il fascismo, in “Storia Contemporanea”, 1972, n. 33 pp. 413-463; James Hay, Placing Cinema, Fascism and Nation in a Diagram of Italian

CinematografiaDOMENICO GUZZO

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L’integrazione dei dati archivistici5 nel più vasto solco della letteratura e del-la ricerca contemporanea, ribadisce tuttavia la tesi storiografica della dittatura fascista come “totalitarismo imperfetto”, al fondo incapace – malgrado esplicite velleità ed intenzioni – di elaborare una propria estetica monolitica, né tantome-no di andare oltre all’imposizione di stilemi esteriori (divieti, censure, incentivi, pressioni) nei confronti del settore cinematografico, per il quale nella pratica resterà sempre disponibile uno spazio per la “fronda interna” e un certo margine di astensione dalla partecipazione attiva alla prosopopea del regime6.

2. L’aporia fondamentale della propaganda audiovisiva del regi-me: l’iscrizione della cinematografia di Stato nell’alveo del libe-

ralismo monarchico

Le carte restituiscono le coordinate operative di una cinematografia fascista che si organizza prioritariamente attorno agli aspetti divulgativo-giornalistici, lasciando sostanzialmente ad una legge di mercato temperata da un tutoraggio paterna-lista, l’indirizzo dell’industria commerciale e d’intrattenimento7. Difatti, lungi dal

Modernity, in Jaqueline Reich e Piero Garofalo (a cura di), Re-Viewing Fascism. Italian Cinema 1922-1943, Boommington, Indiana University Press, 2002; Vito Zagarrio, Cinema e fascismo: film, modelli, immaginari, Venezia, Marsilio, 2004. Per una lettura interna e coeva: Il cinema come arte civilizzatri-ce (inchiesta fra gli intellettuali della nuova Italia), in “Rivista internazionale del cinema educatore”, 1933, n. 6, pp. 427-450.5 In questa sede si sfrutterà in particolar modo il fondo “Giacomo Paulucci di Calboli Barone”, con-servato presso l’Archivio di Stato di Forlì-Cesena. Cfr. Saverio Amadori, Archivio Paulucci di Calboli, in Marco Pizzo e Gabriele D’Autilia (a cura di), Fonti d’archivio per la storia del Luce 1925-1945, Roma, Archivio storico Luce, 2004, pp. 99-235. Su Giacomo Paulucci di Calboli Barone, si veda: Gio-vanni Tassani, Diplomatico tra due guerre. Vita di Giacomo Paulucci di Calboli Barone, Firenze, Le Lettere, 2012.6 Si veda: Claudio Bisoni, Fascismo e cinema. Dal paradigma della propaganda al paradigma della soggettivazione politica: una proposta di rilettura, intervento al seminario internazionale Retòricas do poder. Arte e propaganda nos fascismos da Europa do Sul (20-21 settembre 2007, Lisbona), di-sponibile presso il link: http://amsacta.unibo.it/2916/. Si veda anche: Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 179-190.7 Si veda: Alfonso Venturini, La politica cinematografica del regime fascista, Roma, Carocci, 2015. Sugli aspetti propriamente industriali, si vedano gli ormai classici: Libero Bizzarri e Libero Solaroli, L’industria cinematografica italiana, Firenze, Parenti Editore, 1958; Gian Piero Brunetta, Cinema-tografia come industria, in AA.VV., L’economia italiana tra le due guerra: 1919-1939, Milano, Ipsoa, 1984, pp. 320-322.

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potere (per mancanza di risorse e di visioni gestionali univoche)8 e dal volere (nel-la convinzione che una propaganda smaccata e onnipresente fosse infine nociva alla creazione di un consenso diffuso)9 prendere il totale e diretto controllo della produzione filmica nazionale, il regime si premura inizialmente di uniformare alle proprie esigenze solo le branche cinematografiche che afferiscono all’informazio-ne di massa ed all’educazione popolare. In questo senso, già agli albori della svolta dittatoriale si dà avvio ad una vasta operazione di razionalizzazione coatta di quel frammentato comparto di società private che sin dagli anni Dieci hanno tentato con magre fortune di creare un mercato della “pellicola didattica”10: a stretto giro di posta dalla concessione dei primi patrocini ufficiali11, si passa infatti all’indivi-duazione nel Sindacato istruzione cinematografica (Sic) del nuovo braccio opera-tivo dello Stato12. Fondato da pochi mesi dal giornalista e avvocato Luciano De Feo – come casa di produzione per documentari scientifici ed etnografici – il Sic viene dapprima trasformato in un organismo a ingente partecipazione pubblica (settem-bre 1924) e poi nazionalizzato l’anno seguente in qualità di ente morale, avente come scopo «la diffusione della cultura popolare e della istruzione generale per mezzo delle visioni cinematografiche messe in commercio alle minime condizioni di vendita possibile o distribuite a scopo di beneficienza e propaganda nazionale e patriottica»13. Ribattezzato astutamente L’Unione Cinematografia Educativa, per impiegare l’evocativo acronimo di Luce, la direzione esecutiva viene lasciata nelle mani del De Feo14, mentre ai vertici presidenziali sono demandati due diplomati-

8 Sulla gravissima crisi in cui era sprofondata l’industria cinematografica italiana negli anni Venti, scoraggiando un intervento politico-finanziario dello Stato, si vedano: Aldo Bernardini e Vittorio Martinelli, Il cinema italiano degli anni Venti, Bologna, Assessorato alla cultura del comune di Bolo-gna, 1979; Paolo Cherchi Usai, Les derniers jours de la cinématographie italienne, in AA.VV., Retour aux années 20, “Les Cahiers de la Cinémathèque”, 1988, n. 49, pp. 29-36. 9 Su questo orientamento accorto in ambito mass-mediale, pesava fortemente la sensibilità gior-nalistica del Mussolini. Si veda: Renzo De Felice (a cura di), Mussolini giornalista, Milano, Bur, 2001. Il Duce dimostrò, tuttavia, una capacità e una volontà di controllo molto inferiore per quello che sarà della costruzione del “culto iconografico e simbolico”. Si veda: Simonetta Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Soveria Mannelli, Rubettino, 2003.10 Si veda: Roberto Farné, Il cinema educatore, in “Studium Educationis”, 2002, n. 3.11 Cfr. Circolare con oggetto I.I.P.L. (Istituto Italiano di Proiezioni Luminose) a firma di S.E. Benito Mussolini – Ministro degli Esteri, 29 febbraio 1924, in Archivio di Stato di Forlì-Cesena (d’ora in poi, Asfc), Archivio della famiglia Paulucci di Calboli-Fondo Giacomo Paulucci di Calboli Barone (d’ora in poi, AGPdCB), b. 245, fasc. 3 “M.se Paulucci. Istituto Naz.le Luce”.12 Si veda: Luciano De Feo, Come nacque l’Istituto Nazionale Luce, in “Lo Schermo”, 1936, n. 7, pp. 20-21.13 Regio decreto legge n. 1985 del 5 novembre 1925, convertito nella legge n. 562 del 18 marzo 1926. 14 Si veda: Fiamma Lussana, Cinema “educatore”. Luciano De Feo direttore dell’Istituto L.u.c.e., in “Studi Storici”, 2015, n. 4, pp. 935-962.

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ci di professione, divenuti “commis d’État” nel nuovo regime, come Giuseppe De Michelis15 ed il nostro Giacomo Paulucci di Calboli. Un peculiare “imprinting ma-nageriale”, che profonda incidenza avrà sulla connotazione della relazione tenuta dall’Istituto Luce nei confronti dell’apparato fascista in via di irreggimentazione16. Guidata infatti da esponenti di una area socio-ideologica extra-fascista – liberali monarchici formatisi nelle articolazioni estere dello Stato, che hanno aderito ra-zionalmente al “mussolinismo” scorgendovi un fattore storico di argine antibol-scevico e di completamento della costruzione nazionale post-risorgimentale17 – la gestione dell’Istituto Luce sarà sin da subito improntata ad un economicismo tecnocratico e ad una vocazione più internazionale che domestica18: paradossal-mente, il primo esperimento al mondo di avocazione nelle mani del potere pub-blico dell’educazione filmica e della cronaca cine-giornalistica – il Luce diventa nel 1929 “unico organo tecnico cinematografico al servizio dello Stato”19 – viene affidato a figure estranee all’apparato del Pnf e strettamente legate al passato ante-marcia20. Le ragioni di questa atipica strutturazione risalgono al ruolo giocato dal gabinetto del Ministero Affari esteri nel predisporre le condizioni per la sta-talizzazione di un ente di cinematografia pubblica: Giacomo Paulucci di Calboli, a capo di quella struttura sin dal 1922, si dimostra in effetti capace dapprima di intercedere efficacemente presso Benito Mussolini (che presiede la Farnesina ad interim) in favore del suo protégé Luciano De Feo21 e poi di porsi quale referente unico del neonato Istituto nei confronti del Duce – sotto la cui diretta dipendenza il Luce viene posto – cortocircuitando del tutto il funzionariato di partito, anche quando il De Michelis viene sostituito alla Presidenza dal “fascistissimo” Filippo Cremonesi (1926-1928), già governatore di Roma22.

15 Si veda: Maria Rosaria Ostuni, De Michelis Giuseppe, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 38, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, 1990.16 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 245, 250bis e 254. Si veda: Daniela Calanca, Bianco e nero. L’Istituto Naziona-le Luce e l’immaginario del fascismo (1924-1940), Bologna, Bononia University Press, 2016.17 Su questo filone politico che sosterrà l’affermazione del regime fascista, si veda: Luigi Salvatorel-li, Nazionalfascismo, Torino, Piero Gobetti editore, 1923. Per una visione più ampia della fascinazio-ne fascista come “costruttore della nazione”, si veda: Paul Corner, Riformismo e fascismo. L’Italia fra il 1900 e il 1940, Roma, Bulzoni, 2002.18 Si veda: Pierluigi Erbaggio, Istituto Nazionale Luce: A National Company with an International Reach, in Giorgio Bertellini (a cura di), Italian Silent Cinema: A Reader, Londra, John Libbey, 2013, pp. 221-231. 19 Regio decreto legge n. 122 del 24 gennaio 1929.20 Si veda: Ernesto G. Laura, Le stagioni dell’aquila. Storia dell’Istituto Luce, Roma, Ente dello Spet-tacolo, 2000, pp. 11-24.21 Cfr. Carteggio fra Luigi De Feo e Giacomo Paulucci di Calboli Barone, 5 marzo 1925-8 luglio 1926, Asfc, AGPdCB, b. 245, fasc. “Istituto Nazionale Luce”. 22 Si veda: Cristina Fratelloni, Cremonesi Filippo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 30,

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Prima testimonianza della mal sopportazione nella “nomenclatura littoria” di tale eccentricità dell’Istituto, sostanzialmente resiliente rispetto alla piega massimalista intrapresa da una dittatura in costruzione, è la serie di articoli al vetriolo apparsa nel 1928, al volgere della Presidenza Cremonesi, sulla rivista militante “Brillante”, nei quali si stigmatizza pesantemente il carattere «a-fasci-sta di un ente parastatale che contrariamente al senso comune non difende l’i-talianità nelle sue pellicole e in cui solo 13 funzionari su 70 hanno la tessera del Pnf», diretto da «un factotum [De Feo] iscritto al partito solo nell’aprile del ’26» e finanche protettore di dissidenti dichiarati «provenienti da giornali soppressi d’autorità quali Il Mondo e il Becco Giallo»23.

3. L’incapacità del regime nell’elaborare un’estetica del fascismo e la crisi dell’Istituto Luce a cavallo degli anni Trenta

D’altronde, l’iscrizione del Luce nell’alveo diplomatico liberale permea in pro-fondità una linea editoriale che si rivela attenta prioritariamente all’elevazione del rango dell’Italia fascista nel consesso europeo – attraverso la diffusione in ambito internazionale dell’immagine di un Paese pacificato e in piena palinge-nesi infrastrutturale – e solo in secondo luogo all’ideologizzazione delle masse domestiche24: un esercizio di chiara propaganda certamente, che tuttavia ten-ta di non sovraccaricare di tensione lo spinoso trapasso dal parlamentarismo alla dittatura, dissolvendo volutamente il fascismo (generalmente dipinto come espressione del progresso e dei valori della nuova Italia) in un panorama di cu-riosità e meraviglie della vita moderna provenienti da tutto il mondo occidenta-le25. Specchio di un Paese ancora ruralista ed aderente alla Società delle Nazioni (SdN), la produzione del Luce lungo gli anni Venti si caratterizza dunque per do-

Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, 1984.23 Cfr. Rassegna stampa da “Brillante” (1 febbraio 1928-22 febbraio 1928), Asfc, AGPdCB, b. 245, fasc. “Istituto Luce”. Fra i più fieri fogli antifascisti, “Il Mondo” e “Il Becco Giallo” saranno soppressi dal regime fra il gennaio e l’ottobre 1926, mentre i loro fondatori saranno costretti all’esilio (Alberto Giannini) o addirittura pestati a morte (Giovanni Amendola).24 Sulle strumentalizzazioni della politica estera per finalità mitopoietiche di politica interna, du-rante il primo dicastero mussoliniano alla Farnesina, sono ancora valide le indicazioni del Carocci. Si veda: Giampiero Carocci, La politica estera dell’Italia fascista (1925-1928), Roma-Bari, Laterza, 1969.25 Cfr. Laura, Le stagioni dell’aquila, cit., p. 79.

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cumentari dall’alto profilo tecnico-scientifico26 e per cine-giornali27 asciutti, nei quali Mussolini gioca solo un ruolo da coprotagonista, di primus inter pares, di infaticabile uomo a servizio del popolo nel quadro di una “Italia in cammino” sul nuovo corso littorio:

i cinegiornali e i documentari intendevano raccontare da una parte con spirito enciclo-pedico, dall’altra con la voce del cantore epico, la spinta dell’Italia in cammino verso la modernizzazione, senza mai dimenticare le radici nella tradizione. Così, accanto a titoli come L’Italia di domani, lungometraggio del 1927, o a documentari sul varo del transatlantico “Conte Grande”, o a quelli dedicati all’igiene della casa o ai successi nella lotta contro la tubercolosi, o ai lavori di costruzione della diga di Santa Vittoria in Sardegna, o all’industria idroelettrica italiana, vi sono altri documentari rivolti al mondo contadino28.

Un’impostazione essenzialmente pedagogica e positivista, sul momento lontana dal furore fanatico di uno strumento totalitario, che resiste al progressivo irreg-gimentarsi dello Stato. In effetti, nonostante nel 1928 il Luce venga sottoposto ad un rimpasto radicale dei suoi vertici29, con l’intenzione di allineare maggiormen-te l’organo di cinematografia pubblica all’evoluzione autoritaria del regime30, l’inerzia di fondo della produzione informativa ed educativa non viene granché scalfita31: ciò anche perché i due ex uomini forti dell’Istituto, De Feo e Paulucci, finiscono uno dopo l’altro in quell’Istituto internazionale di cinematografia edu-cativa (Iice) – il primo come direttore (1928-1935), il secondo come presidente (1935-1936)32 – che grande incidenza avrà sugli indirizzi strategici europei in ma-teria di comunicazione sociale, fra le due guerre 33. Creatura ibrida e singolare

26 Si veda: Simone Sperduto, Roberto Omegna e l’Istituto Luce: il cinema scientifico ed educativo nell’Italia fascista, Roma, Herald, 2016.27 Il Luce inizia a produrre cine-giornali dal 1927. Si veda: Federico Caprotti, Information Manage-ment and Fascist Identity. Newsreels in Fascist Italy, in “Media History”, 2005, n. 3, pp. 177-191. 28 Gian Piero Brunetta, Istituto Nazionale L.U.C.E, in Enciclopedia del cinema, Roma, Treccani, 2003. 29 Alla Presidenza viene demandato Alessandro Sardi, uno squadrista dannunziano che arrivò nel Gran Consiglio del fascismo già nell’agosto 1924. La direzione esecutiva passa invece nelle mani di Domenico Musso, Grande Ufficiale dalle vaste entrature.30 Si veda: Argentieri, L’occhio del regime, cit., pp. 46-51.31 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 250, fasc. 1 “Verbali delle Sedute del Consiglio di Amministrazione. Anno IX” e fasc. 2 “Verbali delle Sedute del Consiglio di Amministrazione. Anno X”. Si veda anche: Alessandro Sardi, Cinque anni di vita dell’Istituto Nazionale L.U.C.E., Roma, Istituto Nazionale Luce, 1930.32 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 249, fasc. 21 “I.C.E.” e fasc. 24 “Presidente Istituto Internazionale per la Cine-matografia Educativa. 1935-1936”.33 Si veda: Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano 1895-1945, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 309-313.

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– egemonizzata dall’Italia al punto da monopolizzarne le nomine apicali e da fissarne la sede operativa nello stesso complesso residenziale del Duce (Villa Torlonia), ma formalmente dipendente dalla Società delle Nazioni – l’Iice nasce nel 1928 con il compito di regolare materie altamente tecniche e specializzate, quali la standardizzazione internazionale dei formati produttivi, la metodologia dell’insegnamento audio-visivo e lo sviluppo della “telecinematografia”, antesi-gnana della televisione odierna34. Per l’appunto giocando su questa ambigua bi-cefalìa, il De Feo riesce, nonostante la defenestrazione dal Luce, a continuare ad esercitare da Roma la sua potente azione in ambito di cinematografia pubblica, aumentando – grazie all’incardinamento nella SdN, di cui il suo “mecenate” Pau-lucci è divenuto nel frattempo vice-segretario generale35 – la soglia di protezione rispetto alle persistenti accuse di a-fascismo nei suoi confronti36.

In assenza di una definita estetica di regime – che continuava a dimenarsi contraddittoriamente fra sciovinismo reazionario e modernismo futurista37 – il Luce mal-amministrato dalla nuova dirigenza “diciannovista” (al punto da dover richiedere un commissariamento nel biennio 1932-1933)38 e preso alla sprovvi-sta dall’innovazione tecnologica del sonoro39, soccombeva infatti alla proattività dell’Iice, che di contro – per di più irradiando proprio da Roma la propria influen-za – arrivava a definire proprio in questi anni standards tecnici e canoni stilisti-ci della cinematografia educativa40. Culmine di questa interferenza positivista e sovranazionale è la fondazione della Mostra Internazionale d’arte cinematogra-

34 Si veda; Christel Taillibert, L’Institut international du cinématograhe éducatif. Regards sur le role du cinéma édicatif dans la politique internationale du fascisme italien, Paris, L’Harmattan, 2000.35 Si vedano i carteggi nei confronti del De Feo e della famiglia Mussolini, sul tema dell’Iice, negli anni del vice-segretariato a Ginevra, in Tassani, Diplomatico tra due guerre, cit., pp. 131-157. 36 Cfr. Taillibert, L’Institut international du cinématograhe éducatif, cit., pp. 102-110.37 Cfr. Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, cit., pp. 9-31. Per un inquadramento più vasto, si veda: Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista, Bologna, Il Mulino, 2004.38 Le malversazioni, la corruzione e gli insuccessi che si diffusero durante la Presidenza Sardi (1928-1932), portarono dapprima al commissariamento del Luce (nelle mani di Ezio Maria Gray) e poi all’apertura di una inchiesta che sancirà addirittura l’espulsione del gerarca dal Pnf (1934). Cfr. b Asfc, AGPdCB, b. 247, fasc. 5 et b. 251, fasc. 1. 39 Benché divenuto oramai di utilizzo comune in ambito cinematografico già sul finire degli anni Venti, per la prima macchina sonora acquistata dal Luce bisognerà attendere la primavera 1931. Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 248, fasc. 8 “Attività Istituto Luce”.40 Il lavoro di standardizzazione tecnica dell’Iice si completerà nella primavera del 1934 con il I° Congresso internazionale del Cinema educativo (Roma, 19-25 aprile), incentrato sulla metodologia del cine-insegnamento popolare, e con i due convegni sull’unificazione del formato a passo ridotto (si opterà per il sub standard 16mm) di Baden-Baden (27-29 maggio) e Stresa (24-25 giugno). Sugli stilemi estetici, largamente influenzati dalle teorie sovietiche, si veda: Films culturali, in “Rivista internazionale del cinema educatore”, 1930, n. 3.

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fica di Venezia (6-21 agosto 1932), la quale allestita e diretta proprio dall’Iice41, s’impone subitamente come la principale vetrina europea del settore filmico, ivi compresa la categoria del documentarismo d’attualità in cui rientrano anche le opere a carattere divulgativo42. La discrasia fra l’immediato successo della prima edizione del festival e la scarsissima attenzione che il regime riserva ad essa43, testimonia ancora una volta dell’incapacità ad appropriarsi pienamente del me-dium cinematografico, nonostante i pomposi proclami mediatici: d’altra parte, i primi tentativi dello Stato fascista di andare al di là della mera produzione cine-giornalistica ed educativa44, effettuati commissionando al proprio organo tecni-co (il Luce) pellicole di fiction nell’ambito di un esercizio di “propaganda diretta”, erano risultati disastrosi sul piano economico-finanziario e mediocri in termini estetico-comunicazionali. Al di là degli ovvi incensi cortigiani45 e dell’esigenza di promuovere a tutti costi un’opera che non ha precedenti in Italia per impegno distributivo46, la realizzazione del film Camicia nera (Giovacchino Forzano, 1933) voluto per celebrare le conquiste del regime nel decennale della rivoluzione fascista, determina per l’appunto un enorme scoperto di bilancio – che getterà il Luce sull’orlo della bancarotta – a fronte di un’accoglienza del pubblico piut-tosto tiepida47. Di taglio filo-drammatico e didascalico, il film incontrava poco il gusto comune, che invece chiedeva soprattutto visioni fantasmagoriche, kolos-sal eroici e grandiose sceneggiature emozionali48.

Un palese insuccesso del “cinema littorio” che non si poteva sperare di com-

41 Luciano De Feo, Il cinema educatore. Venezia e il cinema, in “Rivista del cinema educatore”, 1934, n. 8.42 Si veda: Francesco Bono, La Mostra del cinema di Venezia: nascita e sviluppo nell’anteguerra (1932-1939), in “Storia contemporanea”, 1991, n. 3, pp. 513-549.43 Ead., Cronaca di un festival senza orbace, censure e coppe di regime, in Venezia 1932. Il cinema diventa arte, Venezia, Edizione La Biennale di Venezia, 1992, pp. 91-109.44 Cfr. Verbale della Seduta del Consiglio di Amministrazione del 15 ottobre 1931 – IX, Asfc, AGPdCB, b. 250, fasc. 1. 45 Cfr. Corrado D’Errico, Camicia Nera: film della Guerra e della Rivoluzione, in “La Tribuna”, 21 marzo 1933; Mario Gromo, Il film del Decennale. “Camicia Nera”, in “La Stampa”, 24 marzo 1933.46 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 250, fasc. 4 “Verbali delle Sedute del Consiglio di Amministrazione. Anno XII”. Il film sarebbe dovuto uscire il 23 marzo 1933 in 22 città nazionali (Tripoli compresa) e nelle tre principali capitali europee contemporaneamente. Si veda: Benedetta Garzarelli, Cinema e pro-paganda all’estero nel regime fascista: le proiezioni di Camicia nera a Parigi, Berlino e Londra, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 2003, n. 2, pp. 148-165. 47 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 251, fasc. 1 “Luce”. Si veda anche: Relazione a S. E. il Capo del Governo del presidente dell’Istituto Marchese Paulucci di Calboli Barone, 31 marzo 1934, in Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi, Acs), Ministero della Cultura popolare, Gabinetto, b. 9, fasc. 50 “Istituto nazionale Luce”. 48 Si veda: Mariagrazia Fanchi, I generi: identità, trasformazioni e pratiche di consumo, in Orio Cal-diron (a cura di), Storia del cinema italiano, cit., pp. 277-293.

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pensare neppure con gli slanci “celebrativi” della fiction privata49 che, seppur più fortunati in termini di critica e di botteghino, si rivelavano troppo estemporanei50 e spesso così ambigui nell’interpretazione del messaggio fascista51, da sfuggire alle maglie della censura a posteriori52 e da rendersi incompatibili con gli sforzi di “normalizzazione” di un regime che voleva affacciarsi agli anni Trenta come testa di un organismo nazionale coeso e pacificato53.

4. 1934, la necessità di un ripensamento complessivo della politi-ca audiovisiva del regime

Non è tuttavia casuale che il «primo sforzo coordinato da parte del regime di far compiere un passo in avanti deciso all’uso del cinema in funzione propa-gandistica e celebrativa»54, attraverso Camicia nera, abbia a manifestarsi pro-prio all’indomani del “Decennale”, ovvero in un momento storico che vede l’i-stituzionalizzarsi del fascismo in forma pienamente statuale55, nel seno di una decisa evoluzione internazionale marcata dall’ascesa del nazismo e dalla fine della “grande depressione”. In un tale mutato contesto, nel quale il regime e la nazione sarebbero ormai giunte a fondersi, potendo anche per questo rilanciare

49 Già nel 1930, fra gli addetti ai lavori più prossimi al regime ci si chiedeva dubbiosi se mai sarebbe nato “un cinematografo ispirato alla rivoluzione fascista”, così come era accaduto per la rivoluzio-ne comunista in Urss. Cfr. Giuseppe V. Sampieri, Lo stile e gli indirizzi del nuovo cinema italiano, in “Rivista italiana di cinetecnica”, 1930, n. 4.50 Fra i pochi esempi di cinema commerciale “spontaneamente fascista”, si possono citare: Il grido dell’aquila (Mario Volpe, 1923), Terra madre (Alessandro Blasetti, 1931), L’armata azzurra (Gennaro Righelli, 1932).51 Per comprendere i corto-circuiti e le aporie dell’approccio fascista al medium cinematografico, si veda: Vito Zagarrio, Schizofrenie del modello fascista, in Caldiron (a cura di), Storia del cinema italiano, cit., pp. 37-61.52 La “censura preventiva” fu introdotta solo nel 1939.53 Si vedano in questo senso le critiche del regime a due importanti film di Alessandro Blasetti, 1860 e Vecchia Guardia, usciti entrambi nel 1934. Cfr. Gianfranco Miro Gori, Alessandro Blasetti, Firenze, La Nuova Italia, 1984. Ragazzo di Ivo Perilli (1933), fu addirittura bandito dal mercato per ordine diretto del Duce. Sul fascismo degli anni Trenta, si veda: Renzo De Felice, Mussolini il Duce, vol. I: Gli anni del consenso, 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974.54 Brunetta, Storia del cinema italiano, cit., vol. II, pp. 132-3.55 Cfr. Benito Mussolini, La dottrina del Fascismo. Con una storia del movimento fascista di Gioac-chino Volpe, Milano, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932.

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l’Italia quale faro della civilizzazione occidentale56, urgerebbe un «nuovo poten-te mezzo per fare conoscere al mondo quello spirito e quella civiltà del Littorio che noi diffonderemo e difenderemo ovunque, contro chiunque e con qualunque arma»57.

Tuttavia, proprio alla IIa Mostra di Venezia (1-25 agosto 1934) – già molto più attenzionata dalle gerarchie fasciste rispetto alla prima edizione58 – il regi-me si rende conto della superiorità che gli altri grandi Stati a vocazione totali-taria hanno nel frattempo maturato in quanto ad utilizzo propagandistico e a capacità di strumentalizzazione del medium cinematografico59: con le pellicole presentate, l’Urss dimostrava infatti di aver già formato leve di registi e sceneg-giatori visceralmente comunisti; mentre la Germania iniziava a dare sfoggio di una rapidissima e colossale riorganizzazione dell’intera industria filmica tede-sca secondo le esigenze del neonato Terzo Reich60. Agli occhi del regime italiano, veniva dunque fattivamente dimostrato come la “settima arte” possedesse enor-mi potenzialità ancora inesplorate, in materia di costruzione del consenso, di ac-culturazione delle masse e di accrescimento dell’influenza nazionale all’estero61.

È da queste constatazioni e necessità che origina una svolta radicale nella politica cinematografica fascista, la quale dal 1934 si rivolge all’inquadramento della totalità dei settori produttivi, estendendo l’intervento dello Stato dalla nic-chia didattico-divulgativa al più vasto mondo della fiction, premurandosi anche di attivare percorsi e centri di formazione per i futuri “operatori in camicia nera”: un anno «spartiacque, tra un cinema diciamo naturalmente fascista, spontanea-mente fascista e un cinema invece indirizzato, voluto, curato dal regime»62.

Per ciò fare, viene istituita la Direzione generale per la cinematografia (Dgc), all’interno del Ministero della Cultura popolare, con il compito, secondo le pa-role del funzionario messo a capo di questa nuova struttura (Luigi Freddi), di «regolare, ispirare, dirigere, controllare, quando è necessario premiare, punire,

56 Si veda: Emilio Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1993.57 Discorso inaugurale della 3a Mostra di Venezia, tenuto dal Ministro della Cultura popolare Gale-azzo Ciano, riportato dalla “Gazzetta di Venezia” dell’11 agosto 1935. 58 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 249, fasc. 17 “Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica”.59 Cfr. Alberto Consiglio, La seconda Biennale del cinema. Ultime conclusioni, in “L’Italia Letteraria”, 1 settembre 1934. 60 Sulla circolazione di modelli culturali fra regimi a vocazione totalitaria, si veda: Igor Golmstock, Arte totalitaria nell’URSS di Stalin, nella Germania di Hitler, nell’Italia di Mussolini e nella Cina di Mao, Leonardo, Milano 1990.61 Si veda: Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre, cit., p. 41-43.62 Dalla relazione di Giuseppe Ferrara, in Giorgio Tinazzi (a cura di), Il cinema italiano dal fascismo all’antifascismo, Padova, Marsilio, 1966, p. 47.

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tutte le forme e tutte le manifestazioni, tutte le iniziative e tutti i risultati che entrino nel campo della cinematografia italiana»63. Il filo-nazista Freddi si mette immediatamente ad un lavoro alacre con un progetto gestionale incentrato sul monitoraggio statale dei consigli d’amministrazione e sull’espansione della fru-izione di massa, che fonde l’esempio delle majors hollywoodiane con le misure di “allineamento coatto” messe in pratica da Goebbels in Germania64. Convinto dai suoi soggiorni californiani e dai suoi studi sulla “prossemica nazionalsocia-lista”, che il didascalismo propagandista annoi e crei repulsione nel cittadino medio – a maggior ragione in una nazione ancora fragile e lontana dall’ideale dell’homo novus, come quella italiana65 – Freddi ritiene che l’unica strada valida per creare una “cinematografia fascista” sia trovare un connubio fra mistica di regime e mercato commerciale: l’idea di fondo sta nel confinare “l’educazione popolare” nell’alveo di cine-giornali e di documentari girati con tecniche di alto impatto scenografico che antepongano comunque la forma al contenuto, riser-vando il grosso delle risorse alla produzione di svago ed intrattenimento, la qua-le giocando sulle esigenze di evasione e sulla voglia di sbalordimento del grande pubblico viene deputata ad immergerlo progressivamente in un sentire sempre più “littorio”66. Ciò significa imbastire un’ingerenza latente ma capillarizzata, che condizioni fortemente l’imprenditoria cinematografica attraverso un sistema di premi, sovvenzioni, punizioni, censure, per spingere i produttori a selezionare artisti e maestranze vicini al Pnf, nel quadro di una programmazione che resta però molto alla moda, composta prevalentemente da “commedie leggere”, “film storici” e “pellicole coloniali”67: la fondazione del Centro sperimentale di cinema-

63 Luigi Freddi, Relazione sul cinema italiano, 1933-1934, in Bono, Cronaca di un festival senza or-bace, cit., p. 108.64 Si veda: Emanuela Piovano, Il sogno di Freddi, in “Il nuovo spettatore cinematografico”, 1985, n. 10. 65 Sulla dialettica fra fascistizzazione della società ed evoluzione dell’intervento statale nell’indu-stria cinematografica, si veda: Steven Ricci, Cinema and Fascism: Italian Film and Society, 1922-1943, Berkeley-Los Angeles-Londra, University of California Press, 2008.66 Cfr. Luigi Freddi, Il Cinema, Roma, L’Arnia, 1948.67 Sulle tipologie filmiche prevalenti, tendenzialmente espressioni di una forma di propaganda in-diretta di un regime che, allorquando appariva in sceneggiatura, non andava oltre una posizione di sfondo e di richiamo, si vedano: Marcia Landy, Fascism in Film. The Italian Commercial Cinema, 1931-1943, Princeton, Princeton University Press, 1986; Gianfranco Miro Gori, Patria Diva. La storia d’Italia nei film del ventennio, Firenze, Usher, 1988; Francesco Bolzoni, La commedia all’ungherese nel cinema italiano, in “Bianco & Nero”, 1988, n. 3, pp. 7-41; Gianfranco Casadio, Il grigio e il nero: spettacolo e propaganda nel cinema italiano degli anni Trenta (1931-1943), Ravenna, Longo, 1988; Jean-Antoine Gili, Le cinéma italien à l’ombre des faisceaux (1922-1945), Perpignan, Institut Jean Vigo, 1990; Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano di regime. Da “La canzone dell’amore” a “Osses-sione”. 1929-1945, Roma-Bari, Laterza, 2009.

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tografia (Csc)68 il 13 aprile 1935, esprime in questo senso l’intenzione di costituire una fucina nazionale delle nuove leve di cineasti fascisti che nel lasso di una ge-nerazione dovranno diventare maggioranza assoluta della “settima arte” italia-na69, anche grazie al concomitante lancio di riviste specializzate, pubblicamente finanziate, destinate ad «incoraggiare la formazione di un mondo intellettuale e spirituale, premessa all’imperio di Roma sulla barbarie, mentre si documentano le vittoriose conquiste della cinematografia del Regime, in nobile gara con la migliore produzione straniera»70. Così come in un’ottica di rafforzamento indu-striale e di accrescimento dell’attrattività del regime, Freddi ottiene la costru-zione della “città del cinema” (Cinecittà) in cui far confluire gli stabilimenti della Cines-Pittaluga, la più grande casa di produzione italiana, appena salvata dalla bancarotta da un intervento dell’IRI71: un enorme complesso di moderni teatri di posa, in grado di rivaleggiare con le infrastrutture americane, che sorgeranno nel 1937 nell’allora periferia sudorientale della capitale72.

Nello stesso tempo, in virtù di questa sua funzione pivotale, alla Dgc viene de-mandata anche la supervisione della cinematografia pubblica, prodotta in quali-tà di “broadcast governativo” dall’Istituto Luce, che difatti cessa la sua dipenden-za diretta dall’Ufficio Stampa del Duce per passare sotto l’egida del Minculpop73: un passaggio di competenze che, tuttavia, nella pratica si rivelerà puramente formale, determinando nell’intervallo fra la proclamazione dell’Impero (1936) e l’entrata in guerra (1940) un dualismo di poteri ed una sovrapposizione di stra-tegie divergenti, infine decisivi per concorrere al fallimento del regime nello svi-luppo di una produzione audiovisiva di compiuta marca fascista.

68 Modellato sulla scuola di cinema di Mosca fondata nel 1919.69 Cfr. Luigi Chiarini, Il cinema e i giovani, in “Lo Schermo”, 1935, n. 1. Chiarini è il direttore del Csc. Si veda: Alfredo Baldi, La formazione dei quadri: il Centro Sperimentale di Cinematografia, in Ernesto G. Laura (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. 5: 1940-1944, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 566-581. 70 Lando Ferretti, Programma de “Lo Schermo”, in “Lo Schermo”, 1935, n. 1. Fra le riviste principali: “Lo Schermo”, “Cinema”, “Film” e “Bianco e Nero”. Si veda: Callisto Casulich, Il problema del cinema italiano nella stampa specializzata, in Caldiron (a cura di), Storia del cinema italiano, cit., pp. 166-175.71 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 250, fasc. 5 “Verbali delle Sedute del Consiglio di Amministrazione. Anno XIII”.72 Cfr. Giacomo Paulucci di Calboli, La città del cinema, in “Cinema”, 1936, n. 1. Si veda: Barbara Grespi, Cinecittà: utopia fascista e mito americano, in Caldiron (a cura di), Storia del cinema italiano, cit., pp. 128-237.73 Regio decreto legislativo n. 2121 del 24 settembre 1936.

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5. Il fallimento di un “totalitarismo imperfetto” fra l’Impero e la guerra

Dopo la disastrosa gestione Sardi (1928-1932) ed il commissariamento Gray (1932-1933), a risollevare un Luce contabilmente fallito, mediaticamente secon-dario e tecnologicamente arretrato, viene chiamato Paulucci di Calboli, che nel frattempo ha esperito il suo mandato presso la SdN. Il ritorno del diplomatico nell’Istituto è voluto dallo stesso Mussolini, che gli affida carta bianca e gli mette a disposizione un rinnovato CdA composto dai responsabili delle più importanti articolazioni pubbliche74. L’avvento alla testa del “megafono del governo” di un monarchico moderato, inviso all’ala dura della “nomenclatura” per il suo mai re-ciso legame con il cosmopolitismo liberale, testimonia dell’istituzionalizzazione dell’aporia fondamentale della propaganda audiovisiva fascista: a bene vedere, una sconfitta bruciante per un regime che ha dovuto ammettere la propria inca-pacità nel produrre un nuovo ceto dirigente ed una nuova estetica comunicazio-nale adeguata alla palingenesi littoria, finendo per rivolgersi ad un tecnocrate di lungo corso, cui vengono peraltro offerti pieni poteri, non potendo più per-mettersi una tale inefficienza economica e gestionale nella nuova fase storica aperta dal “Decennale”.

In effetti, sussumendo la doppia carica di Presidente e Direttore generale, Paulucci riporta nel giro di due anni il Luce al pareggio di bilancio, riuscendo per di più sia a dare piena attuazione al mandato legislativo di “unico organo tecni-co” dello Stato75 sia a consolidare l’intervento dell’Istituto nel campo della fiction di propaganda, nonostante il disastroso esordio di Camicia nera76: agli albori del 1936, il Luce può dirsi una vera e propria “holding pubblica” che comincia a pro-durre utili, che ammoderna rapidamente apparecchiature e metodologie, che si impone come produttore monopolista di materiali cine-giornalistici legati al regime, che allestisce i primi reparti fotocinematografici di guerra (Africa orien-tale, Spagna), che ottiene il ruolo di gestore della distribuzione all’estero dei film italiani e dell’importazione di pellicole straniere, che entra nell’industria com-merciale rilevando dall’Iri la Cines-Pittaluga e facendone il perno di un nuovo ente ad hoc (Enic) in grado di gestire in maniera verticale tutta la filiera produt-

74 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 247, fasc. 5 “Nomina a Presidente Istituto Luce”.75 Ancora nel 1934, persistevano strutture e società (come la Siced e la Cifit) che svolgevano in ambiti specifici una funzione concorrente a quella del Luce. Allo stesso tempo, fino all’avvento di Paulucci, il Luce non aveva mai definito un protocollo univoco per la tutela, la fornitura e la cessio-ne dei materiali prodotti alla stampa ed alle altre articolazioni dello Stato.76 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 245, fasc. “Riorganizzazione Istituto Luce” e b. 246, fasc. “Rossoni Edmondo”.

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tiva, dalla scrittura alla distribuzione di un film77. Al contempo, Paulucci conserva ed estende i suoi addentellati al di fuori del Luce, ottenendo nomine permanenti nel Consiglio d’Amministrazione del Csc e nelle Commissioni selezionatrici nella Mostra di Venezia, nel frattempo anch’essa passa sotto il controllo della Dgc78.

In virtù di questi suoi rapidi successi manageriali e della sua relazione diretta con Mussolini, Paulucci fa del Luce una sorta di potere autonomo che si rende refrattario all’ingerenza di Freddi e di tutto il Minculpop diretto da Dino Alfieri, e che quindi con la sua indisponibilità mina alla base il progetto di una “raccolta in fascio” di tutta l’attività cinematografica fascista. A monte, vi è sicuramen-te un problema di rapporti personali, rispetto ad una categoria di funzionari – Freddi e Alfieri sono arditi della prima ora e filo-nazisti79 – con la quale non si condivide che disistima e diffidenza: ma a determinare il grosso dello scontro è soprattutto l’interpretazione dell’esercizio della propaganda di Stato80. Se infatti il Luce guidato da Paulucci segue accuratamente l’evoluzione dell’irreggimen-tazione della nazione e della trasformazione di Mussolini da primus inter pares a “imperatore” del popolo, abbandonando la retorica ruralista e modificando in senso sempre più “enfatico” e “militaresco” la prossemica dei suoi cine-giornali e delle sue rubriche lungo la seconda metà degli anni Trenta – mettendo così a sistema quell’immaginario di “iperattività ducesca”, di “avanzate irresistibili” e di “oceaniche adunate” che ancora oggi si associa istintivamente alla prosopopea littoria81 – ciò avviene sempre “a rimorchio” e con una sensibile distanza rispetto ai modelli spiritual-scenografici nazisti che si sono ormai imposti internazional-mente come primo paradigma della comunicazione totalitaria82. Come nota Gian Piero Brunetta:

77 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 247, fasc. 1 “Reparto Cinematografico A.O.”; b. 248, fasc. 7 “Luce-Enic. 1940”; b. 248, fasc. 8 “Attività Istituto Luce”; b. 254, fasc. 1 “Relazione al Duce. Istituto Nazionale Luce”. Per un inquadramento storiografico, si veda: Laura, Le stagioni dell’aquila, cit., p. 92 et ss.78 L’Iice cessa la sua operatività nel 1936 (le sanzioni per la guerra in Etiopia sono un elemento decisivo per sancirne la soppressione).79 Alfieri e Freddi erano stati rispettivamente direttore e vicedirettore della Mostra della Rivoluzio-ne Fascista, la Biennale (Palazzo delle Esposizioni di Roma) che celebrava il “Decennale”. Si veda: Jeffrey T. Schnapp, Anno X - La mostra della Rivoluzione fascista del 1932, Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2003. 80 Si vedano: Laura, Le stagioni dell’aquila, cit., pp. 119-150; Tassani, Diplomatico tra due guerre, cit., pp. 301-318. 81 Si veda: David Gargani et Antonella Pagliarulo, La costruzione semiotica delle ideologie: il caso dei cinegiornali Luce e Incom, in “Esercizi Filosofici”, 2011, n. 6, pp. 281-298.82 Si vedano: Massimo Cardillo, Il duce in moviola: politica e divismo nei cinegiornali e documentari “Luce”, Bari, Dedalo, 1983; Federica Dalla Pria, Dittatura e Immagine: Hitler e Mussolini nei Cinegior-nali, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012; Calanca, Bianco e Nero, cit.

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In quel periodo cominciò a manifestarsi una maggiore attenzione per la qualità delle riprese e delle inquadrature, e una cura stilistica che portava a utilizzare controluce, effetti notturni, panoramiche verticali e orizzontali, movimenti ascensionali che spin-gevano in direzione simbolica, quasi a suggerire un ascensus collettivo sulle orme di Mussolini, ormai lanciato dalla conquista dell’Impero verso destini sempre più gloriosi. Tuttavia forse solo in due momenti, quando venne dato di notte l’annuncio della fine vittoriosa della guerra d’Etiopia, con i riflettori che circondavano di un alone l’imma-gine del duce, e quando Mussolini tornò da Monaco nel 1938 e venne accolto da una folla plaudente che si snodava lungo il suo percorso, e la sera confluì a piazza Venezia accendendo fiaccole votive per manifestare la propria riconoscenza e la propria fede, giunsero a compimento una metabolizzazione completa dei rituali presi a prestito dal nazismo e una comunione altrove mai riuscita del tutto83.

Di fronte a un Paulucci che, per resistere alle pretese ministeriali, si fa ripetu-tamente scudo di vincoli contabili-amministrativi e di una peculiare dinamica di morigeratezza che il Luce sarebbe tenuto a perseguire al fine di adempiere pienamente alla sua missione statutaria84, Alfieri arriva alle minacce di defe-nestrazione più o meno velate, senza tuttavia riuscire durante il suo mandato (1937-1939) a emendare significativamente la produzione dell’Istituto, né tan-tomeno a rimuovere il suo avversario. In una missiva del 3 aprile 1939, a ben 5 anni dall’avvio della nuova politica cinematografica fascista, riportando anche il severo giudizio del segretario del Pnf Starace e constatando «che i miei richiami e i miei rilievi non hanno avuto l’effetto desiderato», il Ministro riafferma furi-bondo come interessi

al Regime, non che il L.U.C.E. realizzi utili, quanto realizzi produzione all’altezza della situazione. […] Già altre volte ti ho fatto presente che il criterio di carattere ammini-strativo della gestione deve essere armonizzato con il criterio di carattere politico. […] I giornali L.U.C.E. non sono che un’arida elencazione fotografica degli avvenimenti; i do-cumentari non sono trattati con il necessario criterio di regìa. […] Desidero conclusiva-mente conferire con te, allo scopo di conoscere con precisione le modalità attraverso le quali ti proponi di svolgere i servizi accennati per l’avvenire85.

Agganciandosi a questa aridità narrativa, a questa debolezza militante e a questa mancanza di creatività artistica86, la Dgc esternava rimostranze – tuttavia pure

83 Brunetta, Istituto Nazionale L.U.C.E, cit.84 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 250, Seduta del 28 maggio 1935, fasc. 5 “Verbali delle Sedute del Consiglio di Amministrazione. Anno XIII” e Seduta del 28 aprile 1937, b. 250, fasc. 7 “Verbali delle Sedute del Consiglio di Amministrazione. Anno XV”.85 Dino Alfieri a S.E. Il Presidente dell’Istituto Luce, lettera riservata del 3 aprile 1939, Asfc, AGPdCB, b. 245, fasc. “S.E. Il Presidente (corriere in arrivo)”.86 Freddi ed Alfieri riprendevano le critiche di Mario Morganti che già in una lettera del marzo 1934

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esse vane – ancora più astiose, denunciando il grave vulnus rappresentato dal veto governativo ad incorporare il Luce nel Ministero della Cultura popolare e, ancor peggio, dall’assenza di disposizioni ispettive e sanzionatorie, che impedi-vano di controllare e di indirizzare la produzione di Stato verso forme espressive di più alto impatto e fervore87. Secondo le informative riservate inviate da Freddi ad Alfieri, nel cuore della cinematografica pubblica albergherebbe: «una per-manente truffa ai danni del popolo italiano […] un’incalcolabile azione negativa che l’Istituto dissemina ogni giorno nel buio delle sale, compensata soltanto da quei trenta denari che costituiscono la vantata virtù amministrativa dei dirigenti dell’Istituto stesso»; situazione che avrebbe spinto lo stesso direttore generale a promuovere «la costituzione di organismi privati per la realizzazione dei docu-mentari stessi, che il Luce non ha mai saputo o voluto tempestivamente produrre: sono proprio io, infatti, che ho sollecitato e favorito la creazione della Incom»88.

E’ giustamente la decisione di Freddi di creare occultamente nel 1938 una so-cietà privata (Industria Cortometraggi Milano, Incom) per entrare in concorrenza diretta con il Luce – ovvero il broadcast monopolista del governo, a cui, peraltro, tramite offerte contrattuali allettanti vengono sottratti i migliori operatori – con la realizzazione di reportage di guerra dal sapore fanatico ed hollywoodiano, sancisce il primo fallimento della politica cinematografica di regime. Durante la Guerra di Spagna, ad esempio, l’Italia fascista impegnata nel conflitto si ritroverà difatti con due reparti cine-giornalistici, uno ufficiale legato al Luce ed uno uffi-cioso afferente alla Dgc, che racconteranno con modalità e prismi diversissimi – a volte contrastanti – le imprese belliche: «si assiste così al paradosso di un alto dirigente dello stato che mette in opera una azione per minare alle basi il presti-gio e l’efficacia di un organismo dello stato stesso»89. Un’ambigua contraddizione che distrugge alla radice le velleità di controllo totalitario del fascismo.

L’autonomia e l’estensione industriale del Luce poneva grossi ostacoli all’a-zione accentratrice e dirigista di Freddi anche nell’ambito delle pellicole com-merciali: la Dgc sognava in effetti di entrare con una propria società nel mercato – al fine di aumentare il proprio peso di condizionamento oltre la sfera della premialità censoria, influenzando così ancora più pesantemente i gusti del pub-

inviata a Mussolini aveva accusato il Paulucci di non essere in grado di indirizzare artisticamente il Luce verso una reale propaganda fascista, poiché le sue competenze erano estranee alla tecnica del settore cinematografico. Cfr. lettera di Mario Morganti del 10 marzo 1934, Acs, Segreteria parti-colare del Duce – carteggio ordinario, b. 1251, fasc. 509.797/1. 87 Si pensi che Freddi entrerà nel CdA del Luce solo nel corso del 1937 e solo dietro suggerimento del potente consigliere Marinelli, segretario amministrativo del Pnf e membro del Gran Consiglio del fascismo.88 Freddi, Il Cinema, cit., pp. 45-46.89 Laura, Le stagioni dell’aquila, cit., pp. 156 e 163.

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blico e le scelte degli impresari privati – attraverso la dettatura di una linea per un cinema “sicuramente fascista”. Ma il già attivo Enic, l’ente per la produzione e la distribuzione di “fiction di Stato” controllato dal Luce, costituiva in questo senso un punto bloccante e non sormontabile: i suoi kolossal di carattere epico (Condottieri; Scipione l’Africano; Luciano Serra pilota) realizzati fra il ’37 e il ’38, avevano tentato fra grandi difficoltà logistiche di coniugare il favore del pubbli-co con una chiara propaganda in favore del regime, descritto come l’erede delle antiche virtù e prosecutore dei valori eroici nella contemporaneità moderna90. I loro costi erano però risultati altissimi91 e, a fronte dei contrastanti successi ottenuti, né Mussolini né Alfieri si dimostravano disposti in tempi di sanzioni ed autarchia a convogliare nuove risorse per l’ambizioso progetto di Freddi92.

6. L’eterogenesi dei fini: “l’arma più forte” che diviene culla dell’antifascismo

Quando nel 1940 l’Italia entra in guerra, i propositi palingenetici di una cine-matografia fascista si spezzano definitivamente: le esigenze del conflitto ridefi-niscono le priorità e, non a caso, all’approssimarsi dello scoppio delle ostilità i protagonisti della politica cinematografica vengono tutti contemporaneamente estromessi dai loro posti per essere destinati ad altri incarichi. Luigi Freddi è allontanato dalla Dgc – anche su esplicita richiesta della Federazione degli in-dustriali dello spettacolo che non ne tollerano più l’ingerenza e i progetti di sta-talizzazione – e ridotto a coordinatore esecutivo della “fiction foraggiata dallo Stato”, con le nomine a presidente di “Cinecittà” (1940) ed Enic (1941). Dino Alfie-ri lascia il Minculpop per divenire dapprima ambasciatore presso la Santa Sede e poi a Berlino (1940). Paulucci esce dalla holding del Luce per l’assegnazione presso la rappresentanza diplomatica in Belgio93.

90 Si veda: Raffaele De Berti, Figure e miti ricorrenti, in Caldiron (a cura di), Storia del cinema ita-liano, cit., pp. 294-311; Giancarlo Chiariglione, Luciano Serra pilota ovvero: la rivoluzione mediale fascista tra patrioti, superuomini e divismo, in Eusebio Ciccotti (a cura di), Novellizzare il cinema, “Il lettore di provincia”, 2015, Vol. 144. Sui problemi di Condottieri, produzione italo-tedesca, si veda: Silvio Celli, Condottieri all’ombra dell’Anschluss, in “Bianco e Nero”, 2003, nn. 1-3, pp. 125-130.91 Cfr. Asfc, AGPdCB, b. 246, fasc. 1 e b. 248, fasc. 4.92 Si veda: Gili, Stato fascista e cinematografia, cit., pp. 147-150. Solo Luciano Serra pilota ebbe un grande successo di botteghino.93 Luciano De Feo, dopo la fine del mandato all’Iice, era stato direttore per due anni direttore della

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Con l’arrivo del nuovo decennio, della svolta del 1934 mirante ad organizzare lo sviluppo di un cinema spiritualmente ed esteticamente fascista, già non rima-neva più nulla.

Senza più il freno tecnocratico delle “gestioni liberali” e destabilizzato dalla crescente concorrenza della Incom, il Luce si perdeva rapidamente nelle derive superomistiche e nelle narrazioni iperboliche che già si erano fatte largo negli anni dell’Impero94: alcuno degli iniziali intendimenti “elevatori” e delle coordina-te educative riusciva a sopravvivere fra i rumori del conflitto.

Furono proprio gli anni di guerra a mostrare i limiti del Luce come strumento di pro-paganda e il suo procedere non in sintonia con il passo del regime: anche se venne creato un reparto speciale e si cercò di rendere più efficace il racconto bellico con un arricchimento dell’enfasi visiva, di montaggio e verbale, di fatto il Luce sembrò girare a vuoto come macchina di propaganda, quasi avesse di colpo perso le sue capacità di comunicare al pubblico degli italiani95.

L’industria commerciale – nonostante il potente combinato disposto messo in campo dalla Dgc – dimostrava di essersi ben poco allineata al sentire del regime, continuando a dare priorità a una produzione di gusto “escapista”: ad eccezione di pochi titoli direttamente incentrati sulle contemporanee vicende belliche e sulla propaganda anti-alleata96, la situazione corrente del Paese veniva sostan-zialmente rimossa dalle sale cinematografiche, che di contro si riempivano di commedie leggere di stile ungherese (“telefoni bianchi”), il cui unico “fattore fascista” risiedeva nella celebrazione di un ideale di vita conformista e piccolo-borghese ben inserito nello statu quo97.

Ancor più contradditori ed indesiderati apparivano, infine, gli investimenti fatti sulla cosiddetta “generazione del decennale”98, quale futura leva dell’arte

rivista “Cinema”, finanziata fortemente dallo Stato. A partire dal 1938 era stato progressivamente allontanato da incarichi cinematografici.94 Si veda: Luigi Passarelli, La guerra italiana. Nei documentari dell’Istituto Luce 1940-1943, Civita-vecchia, Prospettiva editrice, 2015. Fra le poche produzioni valide, si citano Grano fra due battaglie (Romolo Marcellini, 1941) e I trecento della settima (Mario Baffico, 1943).95 Brunetta, Istituto Nazionale L.U.C.E., cit.96 L’assedio di Alcazar (1940), La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1941), Uomini sul fondo (1941), Addio Kira (1942), Uomini e cieli (1943), L’uomo della croce (1943), Harlem (1943).97 Si veda: Francesco Savio, Ma l’amore no: realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime 1930-1943, Milano, Sonzogno, 1975. Si noti come il principale regista di questo filone, Mario Camerini, riuscì a lavorare con grande successo senza mai prendere la tessera del Pnf.98 Definizione giornalistica che si riferisce a quella generazione di italiani – nata fra lo scoppio della prima guerra mondiale e l’instaurazione della dittatura – che raggiunge la maggiore età at-traversando tutte le fasi e i momenti educativi previsti dal regime: si tratta della prima ed unica

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cinematografica fascista: dalla rete di scuole, club, concorsi e circuiti di critica e dibattito99 imbastita dal regime a tal fine, emergevano infatti, non artisti ed ope-ratori “in camicia nera”, ma militanti sempre più ostili al mussolinismo a mano a mano che la sconfitta bellica si faceva palese. Gli spazi di discussione e di confronto lasciato all’interno di questi sedicenti incubatori di “nuovo cinema lit-torio”, si erano in definitiva rivelati come delle culle di antifascismo: d’altronde, lo stesso Csc – la massima fucina del regime – era diretto da Luigi Chiarini, un esteta vicino al “calligrafismo”, ovvero ad una concezione della “settima arte” come disimpegno sociale e come esercizio di complessità stilistica e culturale volto a valorizzare la professionalità di ogni componente produttiva di un film100. Una visione che tendeva ad isolare la formazione cinematografica dal contesto politico in essere, favorendo spesso la cooptazione di docenti dall’alto potenzia-le artistico ma dalla scarsa o nulla adesione al fascismo: fra i più alti dirigenti ed insegnanti vi sono, non a caso, un dichiarato comunista come Umberto Barbano e un militante disilluso e ormai ostile come Alessandro Blasetti101. Dai corsi e dalla rivista del Centro sperimentale si origina pertanto una spinta alla rifles-sione critica ed autonoma, che incontra il favore di una gioventù nazionale che si sente parte di una generazione destinata a far maturare il sistema fascista, depurandolo dalle rigidità e dalle violenze che ne hanno contraddistinto l’istitu-zione a discapito del “marcescente mondo liberale”: il loro discorso attorno ad un “cinema nuovo” – un “cinema cinematografico”, secondo il loro vocabolario – dipanandosi fra reti dei Guf e pubblicazioni di settore102, si alimenta dei margini offerti dall’eterodossia sperimentatrice del Ministero dell’educazione naziona-le diretto dal 1936 da Giuseppe Bottai103, finendo per individuare nell’Occidente latino e non in quello germanico, il loro paradigma maieutico. Determinazione

generazione anagraficamente e culturalmente fascista. Si veda: Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Torino, Einaudi, 1948.99 Si veda: Luca La Rovere, I cineguf e i littoriali del cinema, in Caldiron (a cura di), Storia del cinema italiano, cit., pp. 85-95. Nel panorama delle riviste giovanili attente alla cinematografia, spiccano le pubblicazioni del Guf forlivese. Si veda: Armando Ravaglioli, Un crocevia di provincia. Via consolare, Spettacolo, Pattuglia: i giornali forlivesi per la gioventù dell’ultima stagione del fascismo 1939-1943, Roma, Edizioni di Roma Centro Storico, 1984. 100 Cfr. Luigi Chiarini, Il film è un’arte, il cinema è un’industria, in “Bianco e Nero”, 1938, n. 7, pp. 3-8. Si veda: Andrea Martini, La bella forma. Poggioli, i calligrafici e dintorni, Venezia, Marsilio, 1992.101 Si veda: Gian Piero Brunetta, Intellettuali, cinema e propaganda tra le due guerre, Bologna, Pàtron, 1972.102 Si veda l’enorme risonanza mediatica che avrà il numero monografico Invito alle immagini della rivista giovanile “Pattuglia”, con redazione sita in Forlì, edito nel gennaio 1943. Cfr. Dietro Lo scher-mo: “Invito alle immagini”, in “La Stampa”, 17 marzo 1943.103 Sull’azione di Bottai nel campo delle arti, si veda: Vito Zagarrio, “Primato”: arte, cultura, cinema nel fascismo attraverso una rivista esemplare, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007.

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cognitiva ed emozionale che mette naturalmente l’intera nidiata in contrasto con l’irreversibile dinamica filo-nazista del regime104.

Al momento della materializzazione di quella mistica guerresca che per un ventennio aveva fatto da gran cassa alla costruzione dell’homo novus fascista, l’arma più forte del regime – definizione mussoliniana che campeggiava all’in-gresso di Cinecittà – implodeva così in una clamorosa eterogenesi dei fini: alla Mostra di Venezia del 1941, il consorzio di Stato Enic presieduto da Luigi Freddi quasi non s’avvede di presentare un film commissionato ad Alessandro Blasetti (La corona di ferro) dal chiaro messaggio pacifista, la cui visione difatti manda su tutte le furie Joseph Goebbels105; mentre a Penisola ormai invasa, al notorio dissi-dente Luchino Visconti – che nonostante tale nomea ha potuto lungamente col-laborare con la rivista “Cinema” diretta addirittura dal 1939 dal figlio del Duce, Vittorio Mussolini – viene concesso nel 1943 il visto di censura per Ossessione, un’opera che con la narrazione spietata dell’angoscia quotidiana di provincia rompe ogni sovrastruttura ideologica e propagandistica (elemento che, non a caso, porterà le gerarchie della RSI a decretare la distruzione della pellicola ad inizio1944), determinando la nascita di quel filone neo-realista che segnerà il trapasso della nazione alla democrazia repubblicana106.

104 Si veda: Giovanni Tassani, Tre riviste e un laboratorio di idee, in Id., Fabrizio Pompei, Umberto Dante, Una generazione in fermento. Arte e vita a fine ventennio, Roma, Palombi, 2010, pp. 9-64.105 Cfr. Gili, Le cinéma italien, cit., p. 37.106 Si veda: Mark Shiel, Italian Neorealism. Rebuilding the Cinematic City, Londra-New York, Wallflo-wer, 2006.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 141-148

Nel 2005 Antonio Gibelli apriva il suo Il popolo bambino interrogandosi sul rap-porto tra infanzia e nazione nell’Italia della prima metà del Novecento e affer-mava che «le nuove leve» (bambini/ragazzi, in primo luogo, e bambine/ragaz-ze) furono «interpellate, mobilitate, inquadrate, conquistate, utilizzate e così accompagnate a saldarsi […] nella nazione»1. Per l’autore, dunque, le politiche rivolte all’infanzia e all’adolescenza fanno parte del processo di nazionalizza-zione delle masse, messo in pratica, non solo in Italia, nei primi decenni del XX secolo.

Il fascismo – che investì moltissimo sull’irreggimentazione della gioventù allo scopo di acquistare il consenso dei giovani e delle loro famiglie, e, in ultimo, di creare l’“uomo nuovo fascista” – portò alle estreme conseguenze i processi di nazionalizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza2.

Nel disegno totalitario del regime, l’intera società doveva essere controllata, inquadrata e organizzata all’interno dello Stato e divenire integralmente fasci-sta. Non si trattava di portare le masse a essere consapevoli politicamente e a partecipare in maniera attiva alla vita dello Stato; si trattava bensì di una mobili-tazione permanente in cui l’individuo perdeva la propria autonomia per divenire parte della collettività, della «comunità totalitaria»3. Il Partito nazionale fascista (Pnf) e le sue strutture dovevano servire allo scopo di fascistizzare le masse, se-

1 Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005, p. 4.2 Ibid.3 Emilio Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma, Ca-rocci, 2002 (I ed. 1995), pp. 141-143.

Colonie di vacanzaROBERTA MIRA

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guendo i singoli dalla nascita alla morte, lungo tutte le fasi della loro crescita e della loro vita, organizzandoli nelle diverse forme aggregative dipendenti dal partito e dallo Stato, e facendo passare attraverso di esse modelli culturali ed educativi utili a perseguire le finalità del regime.

Al di là del mito della giovinezza sfruttato dal fascismo anche per definire le caratteristiche del nuovo movimento politico – poi divenuto partito e regime – e della nuova Italia che i fascisti volevano plasmare4, è indubbio che le giovani ge-nerazioni si presentassero come un terreno particolarmente fertile per la costru-zione del consenso e per fondare la religione fascista5. Uno degli obiettivi che l’educazione fascista dei giovani si prefiggeva, infatti, era plasmare e rafforzare il «carattere» degli alunni per ottenere «una dedizione assoluta ed indiscrimina-ta alla Causa» e creare dei «credent[i] in un nuovo verbo»6.

Deputata all’inquadramento delle giovani generazioni era l’Opera nazionale Balilla (Onb), fondata nel 1926 a partire dalle preesistenti organizzazioni gio-vanili del Pnf, e posta sotto la direzione di Renato Ricci, prima alle dipendenze del capo del governo e poi del ministero dell’Istruzione (Educazione nazionale dal 1929). Inizialmente riservata ai maschi, nel 1929 si aprì alle bambine e alle ragazze. L’Onb era composta da Balilla (maschi) e Piccole italiane (femmine) dagli otto ai quattordici anni, e, per i più grandi fino ai diciotto anni, da Avanguar-disti (organizzazione maschile) e Giovani italiane (organizzazione femminile). Dal 1933 si aggiunsero i Figli della lupa per la fascia d’età tra i sei e gli otto anni. Le iscrizioni all’Onb, che erano facoltative, crebbero in modo piuttosto costante dalla fondazione fino al 1934, giungendo in quell’anno a inquadrare più di quat-tro milioni di aderenti, in grande maggioranza bambini e bambine fino ai quat-tordici anni. L’organizzazione interna mimava l’ambiente militare (con tanto di giuramento, uniforme, gradi, decalogo dei “militi”, procedure di promozione e degradazione, e così via) e le attività principali, specialmente per i maschi, con-sistevano nell’educazione fisica, nella pratica dello sport e nella preparazione militare che aveva il suo culmine nelle parate e nelle esercitazioni paramilitari del “sabato fascista”. Per le bambine e le ragazze delle Piccole e delle Giova-

4 Si vedano per tutti Bruno Wanrooij, The Rise and Fall of Italian Fascism as a Generational Revolt, in “Journal of Contemporary History”, 1987, vol. 22, n. 3, pp. 401-418 e Dianella Gagliani, Giovinezza e generazioni nel fascismo italiano: dalle origini alla Rsi, in “Parolechiave”, 1998, n. 16, pp. 129-158. Per una disamina storiografica vedere Simona Salustri, La nuova guardia. Gli universitari bolognesi tra le due guerre (1919-1943), Bologna, Clueb, 2009, in particolare pp. 6-9.5 Il riferimento è ancora a Emilio Gentile, in particolare a Il culto del littorio. La sacralizzazione del-la politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1993, a Fascismo. Storia e interpretazioni, Roma-Bari, Laterza, 2002 e a Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Roma-Bari, Laterza, 2001. Inoltre George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Il Mulino, Bologna, 1975 (ed. or. 1974).6 Tina Tomasi, Idealismo e fascismo nella scuola italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 150-151.

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ni italiane erano previsti corsi di igiene, economia domestica e cura della casa, canto, puericultura, mentre il programma di educazione fisica era pensato per lo sviluppo delle qualità che il corpo femminile doveva possedere secondo i det-tami fascisti. Gli iscritti all’Onb venivano coinvolti, accanto ai membri delle altre organizzazioni fasciste, nelle cerimonie ufficiali del regime a livello nazionale o locale come esempio di riuscita fascistizzazione e irreggimentazione della so-cietà italiana. Nel 1937 con la creazione della Gil (Gioventù italiana del littorio), che aveva la stessa struttura e gli stessi compiti dell’Opera nazionale Balilla, fu incrementato il controllo diretto del fascismo sulle attività delle organizzazioni giovanili, inserite da quel momento sotto l’egida del Partito7.

Tra i compiti affidati all’Onb prima e alla Gil poi vi era la gestione delle colo-nie di vacanza, validi strumenti di natura assistenziale8 e di educazione politica ad un tempo, impiegati dal fascismo per l’indottrinamento e la fascistizzazione delle giovani generazioni, in particolare dei bambini e delle bambine. Gli storici che studiano l’Italia fino ad ora non si sono occupati del tema in maniera com-piuta, lasciando che a trattare l’argomento fossero piuttosto architetti e urbani-sti. Vedremo che effettivamente l’aspetto architettonico e la gestione degli spazi nelle colonie fatte costruire dal fascismo ebbero un ruolo nella trasmissione di modelli educativi e sociali, e quindi nella propaganda, ma per quanto validi e ri-levanti possano essere gli studi di architettura in materia, a nostro avviso restano auspicabili approfondimenti di carattere storico su una tematica che viene spes-so solo toccata nei lavori sul consenso, sull’educazione e sulle organizzazioni di massa fasciste, anche alla luce della dimensione non solo italiana ma europea del fenomeno delle strutture per le vacanze dell’infanzia e della gioventù, al di là dei confini temporali e ideologici del regime mussoliniano9.

7 Cfr. Antonio Gibelli, Opera nazionale Balilla e Piccole italiane e Giovani italiane, in Victoria de Grazia, Sergio Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, vol. II, L-Z, Torino, Einaudi, 2003, pp. 267-271 e 372-373 e Id., Gioventù italiana del littorio, in Victoria de Grazia, Sergio Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, vol. I, A-K, Torino, Einaudi, 2002, pp. 598-600.8 Per un inquadramento delle colonie sotto il profilo dell’assistenza cfr. Simona Salustri, Le colonie di vacanza fasciste: un esempio di welfare nel Ventennio, in Anna Salfi, Fiorenza Tarozzi (a cura di), Dalle società di mutuo soccorso alle conquiste del welfare state, Roma, Ediesse, 2014, pp. 129-146.9 Per alcuni riferimenti storiografici sulle colonie di vacanza fasciste: Tracy H. Koon, Believe, Obey, Fight. Political Socialization of Youth in Fascist Italy, 1922-1943, The University of North Carolina Press, 1985; Claudia Baldoli, Le Navi. Fascismo e vacanze in una colonia estiva per i figli degli italiani all’estero, in “Memoria e Ricerca”, 2000, n. 6, pp. 163-176; Patrizia Dogliani, Colonie di vacanza, in de Grazia, Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, vol. I, cit., pp. 313-316; Gibelli, Il popolo bam-bino, cit. Maggiormente attenti agli aspetti architettonici Stefano De Martino, Alex Wall, Cities of Childhood. Italian Colonie of the 1930s, The Architectural Association, London, 1988; Valter Balducci (a cura di), Architetture per le colonie di vacanza. Esperienze europee, Firenze, Allinea, 2005; Fran-cesca Franchini (a cura di), Colonie per l’infanzia tra le due guerre. Storia e tecnica, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2009; Elena Mucelli, Colonie di vacanza italiane degli anni ’30. Architetture per l’educazione del corpo e dello spirito, Firenze, Allinea, 2009. Per la diffusione delle colonie

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Il fascismo mutuò l’esperienza delle colonie di vacanze da quella degli ospi-zi marini e montani attivi in Italia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, sull’esempio di quelli sorti in vari paesi d’Europa. Le colonie a cavallo tra il XIX e il XX secolo avevano finalità essenzialmente curative ed erano rivolte a bam-bini bisognosi e malati, impossibilitati ad accedere alle terapie sanitarie contro malanni diffusi, secondo i medici, prevalentemente in ambiente cittadino, e che venivano messi in condizione di trascorrere un periodo di tempo in luoghi salubri dove potevano prendere il sole, respirare aria buona e fare il bagno al mare.

Il primo esperimento di colonia estiva per la cura di bambini poveri in Italia risale al 1856 e fu avviato in Toscana dal medico Giuseppe Barellai, il quale aprì il primo ospizio marino per scrofolosi indigenti. Nei decenni successivi ospizi si-mili sorsero in diverse regioni italiane e a partire dal 1881 si affiancarono ad essi le prime strutture di vacanza per bambini in montagna, ideate dal medico milanese Malachia De Cristoforis; a inizio Novecento vi erano colonie marine e montane in Toscana, Liguria, Marche, Veneto, Lazio, Sicilia e Sardegna, Lombar-dia, Piemonte, Emilia Romagna10. Il fine prevalente era ancora quello curativo e assistenziale, ma all’idea di ospizio si sostituì progressivamente quella di colonia di vacanza per bambini in condizioni economiche disagiate, ma sani, con una funzione preventiva che, alla finalità di migliorare la salute, affiancava quella educativa, intellettuale e morale, sul modello delle colonie di vacanza per ra-gazzi ideate nel 1876 dal pastore svizzero Walter Hermann Bion e diffusesi in vari paesi europei11.

Fino agli anni Venti del Novecento la creazione delle colonie rimase pre-valentemente in mano ai privati (specialmente banche, opere pie e singoli be-nefattori): lo Stato evidentemente non aveva interesse ad intervenire nella co-struzione e nella gestione delle colonie e solo alcuni Comuni raccolsero fondi e contribuirono in parte alle colonie di vacanza12. L’avvento del fascismo mutò questo stato di cose in modo radicale. Non solo il regime investì prepotentemen-te nello sviluppo della rete delle colonie, ma, come si è detto, ne sfruttò a pieno il potenziale educativo e di veicolo di propaganda e creazione del consenso.

Come per il resto delle strutture politiche e istituzionali e per l’intera società

estive a livello europeo anche nel periodo precedente il fascismo e in quello successivo si veda Balducci (a cura di), Architetture per le colonie di vacanza, cit.10 Franco Frabboni, Tempo libero infantile e colonie di vacanza, Firenze, La Nuova Italia, 1971, pp. 104-109 e note. Cento anni di colonie marine, in Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, Colonie a mare. Il patrimonio delle colonie sulla costa romagnola quale risorsa urbana e ambientale, Bologna, Grafis, 1986, p. 19.11 Valter Balducci, L’identità molteplice, delle colonie di vacanza, in Id. (a cura di), Architetture per le colonie di vacanza, cit., pp. 8-19: 12-13.12 Frabboni, Tempo libero infantile, cit., p. 108.

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italiana, gli anni Trenta segnarono un salto di qualità nei processi di costruzione dello Stato totalitario con un progressivo accentramento del potere al vertice e nelle mani del Pnf. In questi anni crebbero sia il numero delle colonie di vacan-za che quello dei bambini ospitati. L’annuario dell’Istituto centrale di statistica italiano indica una crescita esponenziale di tali strutture fino al 1942, compren-dendo però nel calcolo non solo le colonie di vacanza estive, ma anche quelle di cura permanenti aperte tutto l’anno, dove i bambini restavano dai quattro ai sei mesi, e quelle diurne aperte d’estate senza pernottamento e con finalità di pre-venzione delle malattie: dalle 107 colonie per circa 60.000 bambini nel 1926 si passò a 1.195 strutture nel 1931, che ospitavano 242.233 bambini, a 4.357 colonie con 772.000 ospiti nel 1938, e a 5.805 colonie per 940.615 bambini nel 1942. Le colonie di vacanza estive, montane, fluviali e soprattutto marine, erano preva-lenti13. Durante la Seconda guerra mondiale il fascismo utilizzò prevalentemente le colonie diurne per l’assistenza dell’infanzia e per gli scopi di propaganda, tra-lasciando di sviluppare ulteriormente le colonie residenziali estive.

Le colonie furono uno strumento duttile nelle mani del regime. Già quelle ottocentesche e del primo Novecento prevedevano regolamenti interni piutto-sto rigidi, una scansione del tempo quotidiano attorno a momenti fissi (preghie-ra comune, pasti, esercizi scolastici, cure, riposo), un’organizzazione gerarchica degli ospiti basata su principi di stampo militare14. Il fascismo amplificò questa impostazione aggiungendovi i caratteri propri della sua ideologia. Si passò dalle finalità curative a quelle preventive delle malattie, per garantire all’Italia bambi-ni e giovani sani e futuri cittadini e soldati forti, in sintonia con le politiche demo-grafiche del regime, con la politica di potenza e con le teorie sul rafforzamento e la purezza della stirpe e della razza italiane. Il personale di colonia, prevalente-mente femminile, era formato agli ideali fascisti in appositi corsi di puericultura e pedagogia che seguivano i dettami del partito. La giornata restò scandita da ri-gidi orari, l’articolazione gerarchica interna e il mimetismo con le organizzazioni militari vennero rafforzati; doveva essere rispettato puntualmente il regolamen-to di colonia; i bambini, che indossavano divise e abbigliamento uguali specifici per ogni tipo di attività (bagni, cure elioterapiche, uscite, riposo) erano educati ai principi di disciplina, obbedienza, nazionalismo, ad argomenti elementari di po-litica fascista, al rispetto e alla fede nel Duce, al culto della patria e del fascismo come religione politica che si affiancava alla religione cattolica. Il poco tempo dedicato al gioco libero nelle colonie di inizio Novecento scomparve del tutto

13 Koon, Believe, Obey, Fight, cit., pp. 102-103; Partito nazionale fascista - Direttorio nazionale Co-lonie estive. Organizzazione e funzionamento. Regolamento e diposizioni del segretario del Pnf, 1935; Cento anni, cit., p. 31 e nota 39.14 Frabboni, Tempo libero infantile, cit., pp. 105, 108-109 e note 15 e 19.

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per lasciare spazio ad attività organizzate di ginnastica ed educazione fisica nel-le quali gli aspetti dell’ordine, del ritmo e del movimento collettivi avevano un peso predominante ed erano uniti a temi educativi e politici15.

Dalle esperienze precedenti il fascismo riprese anche la separatezza delle colonie di vacanza dal resto del territorio in cui erano collocate e soprattutto la segregazione dei bambini ospitati in colonia dal resto della società. Se tra Otto e Novecento la costruzione delle colonie e degli ospizi marini in luoghi lontani e separati da quelli della villeggiatura delle classi benestanti rispondeva, oltre che a scopi curativi e igienici, anche al tentativo di non mostrare la povertà per non turbare i signori in vacanza16, durante il periodo fascista la separatezza del-le colonie divenne strumentale anche per rafforzare il carattere di eterotopia delle strutture riservate alle vacanze dei bambini. Le colonie sono infatti luoghi localizzabili, ma si distinguono da ogni altro luogo e hanno una forte valenza simbolica, poiché al loro interno la comunità residente è immersa in una real-tà completamente alternativa al vissuto quotidiano consueto17. Gli ospiti sono per un determinato periodo chiusi in uno spazio definito e conducono una vita distinta da quella vissuta a scuola, in famiglia, nel vicinato dove abitano, e così via; e questa vita si sostituisce completamente alle altre esperienze possibili per i bambini per tutto il tempo di permanenza nella colonia. Gli stessi tempi e rit-mi di vita nelle colonie sono scanditi secondo le regole interne e sono diversi da quelli cui si è abituati fuori da esse. In questo senso la colonia, intesa come realtà quotidiana unica della comunità che vive al suo interno e che è isolata dal resto della società, diviene un potente veicolo di modelli educativi, culturali, di vita e di relazione con gli altri e crea le condizioni perché tali modelli siano introiettati18. Un regolamento fascista delle colonie, citato da Elena Mucelli nel suo testo sulle colonie di vacanza degli anni Trenta, esplicita tale concetto con le seguenti parole:

l’azione educativa, nel senso politico, dev’essere indirizzata a fissare opportunamente nella mente e nel cuore dei fanciulli la grande opera del DUCE, e quei principii capaci di alimentare il più grande amore per la Patria che tutti unisce. Ciò farà [l’insegnante] nei momenti di riposo, fra un esercizio e l’altro, nonché mediante esempi di valore e di

15 Ivi, pp. 109-111; Mucelli, Colonie di vacanza italiane degli anni ’30, cit.16 Cento anni, cit., pp. 20-28; Claudio Fabbri, Ospizi e colonie marine nella edificazione della costa romagnola tra ’800 e II guerra mondiale, in Franchini (a cura di), Colonie per l’infanzia tra le due guerre, cit., pp. 13-39; Frabboni, Il tempo libero infantile, cit., pp. 150-151.17 Mucelli, Colonie di vacanza italiane degli anni ’30, cit., pp. 99-109.18 Raffaele Laporta, Il tempo libero dai sei agli undici anni, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. 142-143. Matilde Callari Galli, Annotazioni per una lettura antropologica del territorio, in Colonie a mare, cit. pp. 41-47.

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abnegazione della storia d’Italia e del periodo della Rivoluzione.In tal modo la colonia diventerà oltre ad un centro di cure sanitarie, di propaganda igienica e di rigenerazione fisica della razza, anche un fattore importante dell’educa-zione spirituale19.

L’architettura delle colonie di vacanza riflette i loro scopi educativi e il tentativo di plasmare lo spazio dei bambini in termini sociali. Anche in questo ambito il fa-scismo recuperò alcune caratteristiche della stagione precedente delle colonie piegandole, alle finalità del regime, e ne introdusse altre sempre funzionali agli scopi della propaganda e della creazione del consenso. All’interno degli spazi della colonia vi erano luoghi riservati al riposo e altri deputati alla vita comune: nei primi si tendeva a separare bambini e adulti, maschi e femmine, a creare gruppi omogenei che potessero incentivare l’identificazione e che avessero re-gole e strutture gerarchiche; i secondi, dove dovevano avere luogo i rituali come l’alzabandiera o il saluto al Duce, e le grandi adunate collettive, acquistarono maggiore importanza e assunsero aspetti scenografici che prima del fascismo erano ignoti alle strutture di vacanza per bambini. Si inserirono nell’architettura delle colonie elementi simbolici come torri che richiamavano fasci littori, dor-mitori in forma di nave, piante a forma di aereo o di M; piani inclinati, scale, ampi corridoi, grandi vetrate per dare l’impressione di un effetto ritmico, di movi-mento, di continuità e di grandezza; non mancavano decorazioni, statue, scritte, dipinti, fotografie che richiamavano le radici romane e classiche del fascismo, riproponevano immagini o frasi di Mussolini e riproducevano i simboli del regi-me come le aquile o i fasci. L’intera architettura delle colonie venne pensata per essere funzionale alle coreografie delle manifestazioni propagandistiche del fa-scismo volte ad esaltarne la potenza e l’efficienza, e diventò quindi parte della costruzione del consenso come mezzo per trasmettere l’ideologia fascista e i risultati conseguiti dal regime20.

La costa romagnola tra Cattolica e Marina di Ravenna fu uno dei luoghi pre-scelti dal fascismo per costruire un cospicuo numero di strutture da destinare alle vacanze dei bambini e delle bambine nel quadro delle attività dell’Onb e della Gil. A Rimini, Cattolica, Cesenatico, Cervia le colonie sorsero, come si è det-

19 Cit. in Mucelli, Colonie di vacanza italiane degli anni ’30, cit., p. 43; corsivi e maiuscoli sono ripor-tati come compaiono in Mucelli.20 Balducci, L’identità molteplice, cit., pp. 17-18; Elena Mucelli, Colonie di vacanza italiane degli anni ’30, cit.; Francesco Saverio Fera, Un nuovo programma organizzativo: la “colonia” marina un simbolo della formazione giovanile del regime fascista?, in Balducci (a cura di), Architetture per le colonie di vacanza, cit., pp. 61-66; Maurizio Castelvetro, Architettura + anni ’30 + Cattolica + colonie marine, in Franchini (a cura di), Colonie per l’infanzia tra le due guerre, cit, pp. 41-67; Giovanna Mulazzani, Architettura e percezione nelle colonie, ivi, pp. 69-79. Più in generale sul rapporto fra architettura e ideologia fascista attraverso il caso esemplare di Roma cfr. Emilio Gentile, Fascismo di pietra, Roma-Bari, Laterza, 2007.

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to, in luoghi relativamente separati da quelli del turismo balneare dei ceti agiati, ma le amministrazioni comunali, su richiesta e impulso del fascismo centrale, furono pronte a cedere aree edificabili poste lungomare con lo scopo duplice di incentivare l’edilizia e il mercato del lavoro locale, e di assecondare le fina-lità del regime. Le colonie divennero parte dello sviluppo del tessuto urbano delle cittadine della riviera, si legarono ai progetti di realizzazione di un’unica strada litoranea che congiungesse le diverse località balneari, quelle costruite da valenti architetti, come il Giuseppe Vaccaro della colonia Sandro Mussolini dell’Agip a Cesenatico, arricchirono il paesaggio urbano sotto il profilo archi-tettonico e rappresentarono luoghi di esercizio stilistico e di applicazione delle correnti dell’architettura della prima metà del Novecento21, in quel processo di modernizzazione senza modernità che contraddistinse diversi ambiti e aspetti del fascismo e della vita italiana durante il regime22.

Alcune delle strutture create per le colonie restano ancora oggi a testimonia-re quello che fu un rilevante strumento di costruzione del consenso e per parte di esse si pone un problema di recupero e di riuso che deve necessariamente intrecciarsi alle politiche pubbliche legate alla storia e ai luoghi della memoria.

21 Cfr. Fabbri, Ospizi e colonie marine nella edificazione della costa romagnola, cit.; Castelvetro, Ar-chitettura + anni ’30 + Cattolica + colonie marine, cit.; Mucelli, Colonie di vacanza italiane degli anni ’30, cit.; Valentina Orioli, Colonie e riqualificazione urbana: il caso di Cesenatico, Silvia Barisione, Questioni di linguaggio nelle colonie del regime, Francesco Gulinello, Le ragioni del linguaggio, Pier Giorgio Massaretti, La colonia “Sandro Mussolini” dell’A.G.I.P. a Cesenatico (1937-1938), Giovanni Poletti, Una storia tra paradigmi e singolarità:l’ex colonia permanente della provincia di Verona a Cesenatico, tutti in Balducci (a cura di), Architetture per le colonie di vacanza, cit., pp. 49-52, 71-74, 83-94.22 Sul concetto di modernizzazione senza modernità, proposto da Tim Mason negli anni Settanta a proposito del nazismo e ormai acquisito dalla storiografia anche per il caso italiano, si rinvia a Nico-la Tranfaglia, La modernizzazione contraddittoria negli anni della stabilizzazione del regime (1926-1936), in Angelo Del Boca, Massimo Legnani, Mario G. Rossi, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 127-138.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 149-162

1. Premessa: cosa sono le cooperative e perché il fascismo le ha osteggiate

La cooperazione è una forma d’impresa universalmente considerata democrati-ca, in cui la proprietà è dei soci, i quali, su base paritaria – «una testa, un voto» –, decidono le sorti future della propria organizzazione. Nata nell’Inghilterra della prima metà dell’Ottocento con scopi economici e valori progressisti, la coopera-zione si dichiarava inizialmente apolitica e aconfessionale. Nell’imponente svi-luppo che successivamente ebbe, questa caratteristica è stata spesso messa da parte, anche in Italia, dove la tradizione repubblicana, quella socialista e quella cattolico-sociale hanno avuto un forte ruolo nel promuovere le singole esperien-ze1.

Nel nostro paese, in particolar modo nelle altre aree centro-settentrionali, il movimento cooperativo fiorì copiosamente nel corso della seconda metà del XIX secolo. Nelle campagne come nelle città, centinaia e centinaia di sodalizi si affermarono nei settori agricolo, edile, manifatturiero, dei trasporti, del credito e del consumo, in un variopinto caleidoscopio di percorsi differenti. In età gio-littiana questa variegata galassia si consolidò fino a diventare una caratteristica fondamentale del tessuto socio-economico di numerose comunità padane2. Ag-

1 Massimo Fornasari, Vera Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-economi-co (1854-1992), Firenze, Vallecchi, 1997; Alberto Ianes, Le cooperative, Roma, Carocci, 2011.2 Patrizia Battilani, I mille volti della cooperazione italiana: obiettivi e risultati di una nuova forma di impresa dalle origini alla seconda guerra mondiale, in Enea Mazzoli, Stefano Zamagni (a cura di),

CooperativeTITO MENZANI

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ganciate al mondo della politica, ma forti di vivaci propulsioni imprenditoriali, le cooperative si distinsero per una crescente popolarità e per un tipo di organiz-zazione interna sensibilmente differente da quello delle aziende convenzionali.

Di recente, la storia del movimento cooperativo italiano fra le due guerre mondiali è stata oggetto di un rinnovato interesse, teso ad approfondire ed ampliare le conoscenze e ripensare alcune formulazioni. Si tratta di una fase particolarmente delicata per le cooperative, dato che l’avvento e l’istituziona-lizzazione del fascismo produssero un reale e forte turbamento all’interno del movimento.

L’avversione fascista per la cooperazione derivava da tre elementi principali. Innanzi tutto, la cooperativa è un’impresa democratica, mentre il fascismo è an-tidemocratico. Secondariamente, il movimento cooperativo italiano era legato a culture politiche apertamente antifasciste, quali quelle sopra ricordate. Infine, in molti settori, i diretti concorrenti delle cooperative erano i negozianti privati, gli imprenditori edili, i grandi agrari, ossia coloro che rappresentavano quel corpo sociale che contribuiva a costituire la base di massa del fascismo.

La storiografia successiva alla Liberazione ha prodotto una serie di interes-santi studi sul movimento cooperativo in età fascista; in particolare, sono state sottolineate le vicende dello squadrismo e dello snaturamento autoritario del-le cooperative, mentre sono stati lasciati più sullo sfondo i momenti successivi, quando il regime governò un riorientamento dei sodalizi. Influenzata da questo squilibrio tematico, la storiografia ha esteso i caratteri distruttivi e violenti del primo fascismo – venati di forti accenti anticooperativi – a tutti gli anni Venti e Trenta, e ha giudicato l’intero periodo fra le due guerre una battuta d’arresto per il movimento. Tuttavia, pur se si riconosce che dal punto di vista socio-culturale e di partecipazione democratica dei soci si ebbe un effettivo ripiegamento – al di là degli sforzi del regime per creare un nuovo spirito cooperativo deideologizza-to –, altrettanto non si può dire per gli aspetti di carattere economico. Per molte imprese cooperative, infatti, gli anni Venti e Trenta rappresentarono comunque un periodo di crescita, e soprattutto di acquisizione di know-how – in termini di strategie imprenditoriali, di tecnologie e di esperienze sul campo –, che si sareb-be poi rivelato decisivo nel secondo dopoguerra.

Da un punto di vista squisitamente numerico, tra il 1920 e il 1938, la coopera-zione italiana passava da 20.000 a 14.000 cooperative3. Purtroppo non abbiamo informazioni sul numero dei soci e degli addetti, né informazioni sui fatturati, anche se alcune ricerche locali o settoriali ci dicono che fu soprattutto la coope-

Verso una nuova teoria economica della cooperazione, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 97-140. 3 Tito Menzani, Il movimento cooperativo fra le due guerre. Il caso italiano nel contesto europeo, Roma, Carocci, 2009.

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razione di credito a subire effetti negativi, mentre quella agricola visse una fase addirittura espansiva4.

2. Dalle frammentazioni del primo dopoguerra allo squadrismo

L’assoggettamento della cooperazione italiana da parte del nuovo regime fu indubbiamente facilitato dal fatto che il movimento mancasse di unità, fram-mentato in diverse compagini, la principale delle quali – quella di tradizione marxista – era a sua volta lacerata da una serie dispute intestine. La Lega, infatti, maggiore e più antica centrale cooperativa italiana, era sempre più condiziona-ta dal crescente contrasto interno che opponeva il gruppo massimalista e quel-lo riformista. A complicare il quadro, contribuì la nascita di una corrente che si richiamava esplicitamente alla Rivoluzione d’ottobre, che avrebbe poi dato appoggio al Partito comunista italiano5. Al contrario, il movimento cattolico sembrava in forte sviluppo, dopo che le fioriture di cooperative «bianche» in età giolittiana e nel primo dopoguerra si erano accompagnate all’istituzione di una centrale autonoma, e cioè la Confederazione delle cooperative italiane (Cci)6. Una terza compagine – minoritaria e geograficamente concentrata nelle Roma-gne – si richiamava al mazzinianesimo, e si radunava attorno al Partito repubbli-cano e ai suoi organismo periferici o collaterali. Infine, dobbiamo ricordare come varie cooperative, di orientamento liberale o addirittura conservatore, costituite fra agrari o nell’ambito di certi circuiti corporativi o professionali cittadini, non avessero mai trovato una collocazione all’interno del movimento cooperativo organizzato, verso il quale, anzi, spesso nutrivano un sentimento rancoroso, fa-cendo proprie le accuse mosse dalla stampa conservatrice.

Questa frammentazione politico-istituzionale si ripercuoteva negativamente sul movimento. In questo contesto, la trasformazione della società italiana in una società di massa – un processo che aveva subito forti accelerazioni negli anni del conflitto mondiale e del primo dopoguerra – finì con avere effetti di-

4 Andrea Leonardi, Una stagione «nera» per il credito cooperativo. Casse rurali e Raiffeisenkassen tra 1919 e 1945, Bologna, Il Mulino, 2005; Andrea Giuntini, Andrea Rinaldi, La cooperazione agricola italiana fra le due guerre, in “La rivista della cooperazione”, 2009, n. 4, pp. 107-121.5 Renato Zangheri, Giuseppe Galasso, Valerio Castronovo, Storia del movimento cooperativo in Italia. La Lega nazionale delle cooperative e mutue, 1886-1986, Torino, Einaudi, 1987.6 Pietro Cafaro, Il lavoro e l’ingegno. Confcooperative: premesse, costituzione, rinascita, Bologna, Il Mulino, 2012.

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rompenti sul piano politico-istituzionale. Una delle conseguenze più vistose fu la ricerca di nuovi strumenti di aggregazione sociale, qualitativamente diversi da quelli proposti dalle culture politiche emergenti – le parrocchie e le case del popolo –, ma pure differenti rispetto a quelli tradizionali dell’Italia liberale. Molti reduci ed ex-combattenti parafrasarono il solidarismo della vita in comune in trincea nella sollecitazione ad associarsi, per affrettare l’attuazione delle pro-messe avute durante la guerra dalla classe dirigente, ma questo avvenne quasi sempre al di fuori dei circuiti imperniati sulla Lega o sulla Cci7.

Sulla base di questi bisogni, quindi, nascevano tre nuove organizzazioni coo-perativistiche, quali il Sindacato nazionale delle cooperative, fondato da Carlo Bazzi, la Federazione italiana delle cooperative fra ex-combattenti, governa-ta da Rosario Labadessa, e il Sindacato italiano delle cooperative, guidato da Gaetano Postiglione. Soprattutto queste ultime due organizzazioni ebbero una crescita di assoluto rilievo, che consentì anche alla cooperazione filofascista di avere un significativo riconoscimento dal basso.

Vediamo allora in che maniera il regime attaccò la cooperazione democra-tica e promosse quella di stampo nazionalistico. Innanzi tutto, il fascismo non fu l’inventore della polemica anticooperativa del primo dopoguerra, che anzi affondava la proprie radici nell’età giolittiana, quando varie frange reazionarie avevano iniziato a denunciare presunti legami illeciti fra mondo politico e coo-perativo.

Al fervore di queste accuse verbali erano seguite rapidamente le violenze squadriste perpetrate dal nascente fascismo che, forte di una diffusa protezione istituzionale, poté dare consistenza ad una lunga serie di attacchi e aggressio-ni a uomini e sedi della cooperazione, con la giustificazione della necessità di bloccare le prospettive sovversive aperte dal biennio rosso8. Mussolini era ro-magnolo ed ex socialista e aveva ben compreso come la cooperativa rappre-sentasse un decisivo collegamento tra organizzazioni di massa e società civile. Infatti, era un’impresa che veniva percepita anche come un’entità politica, che andava ad inserirsi, assieme alle leghe rurali, ai sindacati, alle camere del lavoro e alle case del popolo in quell’insieme di strutture che permeavano la società civile dell’epoca, rappresentando di fatto un’insostituibile cerniera tra partiti e cittadini. Tant’è vero che diverse forze politiche avevano in questo tessuto di organizzazioni il fulcro della propria popolarità, attraverso il quale si rappor-tavano biunivocamente alla popolazione, cercandone il consenso, cogliendone

7 Maurizio Degl’Innocenti, La società unificata. Associazione, sindacato, partito sotto il fascismo, Manduria, Lacaita, 1995.8 Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo, 1918-1921, Torino, Utet, 2009.

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le esigenze e le aspirazioni, coordinando la propaganda e l’informazione. Per il fascismo la rottura di questi legami avrebbe significato la crisi delle forze av-versarie, e dunque si trattava di un tassello imprescindibile per la conquista del potere istituzionale. Nei primi anni Venti, centinaia di cooperative furono teatro di assalti e devastazioni di ogni tipo, e tutto questo fu il preludio di un successivo controllo sul movimento9.

3. Verso il controllo del movimento

Dopo una prima fase di esclusiva violenza fine a sé stessa, con il passaggio dal movimentismo squadrista al partito compiuto e istituzionale, il fascismo cambiò gradualmente strategia, orientandosi verso un’opera di ricostruzione e, contem-poraneamente, di ridefinizione di quanto aveva fino a quel momento distrut-to e colpito. L’insieme delle organizzazioni che avevano costituito la preziosa giuntura tra partiti e società civile cominciò ad essere visto come un possibile strumento per l’allargamento del consenso ed il controllo delle masse. Il fasci-smo non fece altro che utilizzare, entro un’inedita cornice autoritaria, illiberale e antidemocratica, organizzazioni come le cooperative che in precedenza erano state concepite all’interno di dottrine ideologiche di differente natura. Puntando l’indice contro le gestioni di socialisti e cattolici, dipinte come parassitarie o eco-nomicamente fallimentari, il fascismo prese ad esaltare una cooperazione che dipingeva come «apolitica», baluardo contro la speculazione ed esaltatrice del lavoro, nonché depurata ideologicamente dai concetti che avevano contribuito a partorirla10.

Pur viziato da indubbie contraddizioni, non ultima il far coesistere l’autori-tarismo e l’imposizione con una parvenza di autogestione, il progetto andava inscrivendosi all’interno del più vasto piano di realizzazione del totalitarismo. Il principale obiettivo immediato che il regime si era dato in fatto di politica coo-perativa era la formulazione di un modello interprete dei valori fascisti, che tro-vava un facile interlocutore nelle neonate organizzazioni di Bazzi, Labadessa e Postiglione. Si trattava di realizzare questo ambizioso progetto coniugando una

9 Mario Franceschelli, L’assalto del fascismo alla cooperazione italiana. (1921-1922), Parma, Step, 1994 (ristampa anastatica dell’edizione originale, Roma, Editrice Coop, 1949).10 Giulio Sapelli, La cooperazione e il fascismo: organizzazione delle masse e dominazione buro-cratica, in Fabio Fabbri (a cura di), Il movimento cooperativo nella Storia d’Italia, 1854-1975, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 285-316.

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violenza sotterranea fatta di ricatti, minacce e pressioni politiche, con una par-venza di legalità, in modo da non far troppo apertamente scoprire la manovra11.

In generale, i fascisti tentavano di sfruttare il meccanismo democratico delle cooperative a proprio vantaggio, cercando cioè di far eleggere propri uomini in consiglio di amministrazione e, addirittura, alla presidenza. In vari casi, quest’o-perazione fu primariamente condotta per gli enti consortili o le federazioni pro-vinciali e mediante pressioni e violenze che inducevano le basi sociali a sceglie-re controvoglia persone gradite al regime.

Una volta che il fascismo si era impossessato di consorzi strategici e di coope-rative particolarmente importanti, era in grado di allargare il proprio controllo a praticamente tutto il movimento. Dato che i consorzi e le federazioni avevano la funzione di convogliare appalti e crediti verso le affiliate, le nuove dirigenze fa-sciste potevano utilizzare questa facoltà in maniera ricattatoria, concedendo ad una cooperativa un prestito o una commessa solo qualora questa avesse accet-tato l’imposizione di un presidente, di un direttore o di un consigliere di volontà del Pnf12. Qualora la cooperativa non sottostesse al ricatto, si cercava di condurla sull’orlo di una crisi finanziaria, negandole credito e lavoro, per poi intervenire d’autorità con la scusa della malagestione ed imporre un commissariamento13.

Una volta assunto il controllo di buona parte delle strutture cooperative ter-ritoriali, a livello nazionale il fascismo riuscì ad imporre lo scioglimento della Lega e della Cci, sostituite da una ristrutturazione del Sindacato italiano del-le cooperative che, nel 1926 – dopo l’estromissione di Postiglione, sostituito da Dino Alfieri, e dopo aver assorbito le organizzazioni similari di Bazzi e Labadessa – assunse il nome di Ente nazionale della cooperazione, riconosciuto immediata-mente come istituto di diritto pubblico, al quale sarebbe poi stato aggiunto nel 1931 l’aggettivo «fascista», diventando comunemente noto anche come Enfc14.

11 Zeffiro Ciuffoletti, Dirigenti e ideologie del movimento cooperativo, in Giulio Sapelli (a cura di), Il movimento cooperativo in Italia: storia e problemi, Torino, Einaudi, 1981, pp. 181-189.12 Sebastiano Tringali (a cura di), Liguria solidale. Mutualismo e cooperazione nel Novecento, Ge-nova, Ames, 2007-2008, in 2. voll.13 Massimo Rodolfi, La cooperazione di ispirazione cattolica nella provincia di Modena fra Stato liberale e fascismo, in Lorenzo Bertucelli, Stefano Magagnoli (a cura di), Regime fascista e società modenese. Aspetti e problemi del fascismo locale (1922-1939), Modena, Mucchi, 1995, pp. 608-624.14 Maurizio Degl’Innocenti, Storia della cooperazione in Italia: la Lega nazionale delle cooperative, 1886-1925, Roma, Editori Riuniti, 1977.

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4. Il nuovo quadro ideologico

Questi progetti totalitari e corporativi furono supportati da una ideologia della «cooperazione fascista», che si voleva inedita, ma che in realtà era una sostan-ziale rapsodia di temi, principi ed argomentazioni di altre culture politiche. La tradizione liberale, esaltatrice delle istanze antispeculative e mutualistiche del-la cooperazione, fornì al fascismo un ampio impianto teorico di riferimento.

Inoltre, il fascismo aveva facilmente recuperato buona parte delle tematiche del sindacalismo rivoluzionario, dell’anarco-sindacalismo, del combattentismo o di certi filoni del repubblicanesimo, presentandole in un’aggiornata veste na-zionalista. In ultimo, furono acquisiti i valori dell’interclassismo e della collabo-razione fra i ceti sociali, propri della cultura cattolica che – nella sua compo-nente clerico-fascista – fornì un altrettanto importante supporto ideologico alla costituenda cooperazione mussoliniana.

Quindi, partendo dal presupposto che, in tema di lavoro, lo scopo di Mussolini era quello di valorizzare globalmente le energie economiche del Paese e di agi-re sul terreno previdenziale e assistenziale, la cooperazione doveva essere uno strumento economico di promozione imprenditoriale, ma anche e soprattutto un mezzo per l’inquadramento, il controllo e l’educazione delle masse15.

All’atto pratico, il principale provvedimento per adeguare la cooperazione italiana a questi nuovi indirizzi fu la razionalizzazione della sua distribuzione sul territorio. Dato che in molte province si sovrapponevano due o tre movimen-ti cooperativi distinti, che si rifacevano a culture politiche differenti, bisognava procedere ad una serie di accorpamenti. Poiché la nuova dottrina cooperativa era presentata come apolitica, appariva certamente irrazionale ed inutile che in uno stesso paese convivessero più cooperative fra muratori o fra birocciai. Que-ste divisioni, maturate a partire da interpretazioni diverse dell’associazionismo cooperativo e dei suoi scopi, dovevano essere cancellate, e i singoli sodalizi di uno stesso comparto e di uno stesso comune dovevano essere indotti a fondersi. In tale prospettiva – che pure conteneva indubbiamente alcuni elementi di mo-dernità – si condensavano le contraddizioni di un pensiero cooperativo fascista che tentava di coniugare autogestione ed autoritarismo.

Con una serie di richieste, pressioni e minacce, si forzarono questi accor-pamenti, che quasi sempre portavano alla decapitazione del gruppo dirigente meno accondiscendente ed alla sostanziale conferma di quei consiglieri e di quei tecnici che non si erano opposti all’unificazione. In quasi tutti i casi la fusione fu imposta dall’alto e condotta all’insegna di un generale disinteresse dell’opinione

15 Rosario Labadessa, L’organizzazione cooperativa nel decennale, Roma, s.n., 1932.

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dei soci, per lo più persuasi ad assecondare il volere dei gerarchi fascisti16.Conclusa la fase di riorganizzazione tecnica del movimento, che veniva rigi-

damente inquadrato all’interno di una struttura gerarchica e antidemocratica, il fascismo si preoccupava di insistere nell’individuazione di una teoria sociale ed economica della cooperazione fascista, preoccupato di dare una legittimazione a posteriori del proprio operato, e di godere anche in ambito internazionale di una certa stima17. A cavallo tra anni Venti e Trenta, una ricchissima letteratura pseudo-scientifica si preoccupava di avallare i nuovi tratti culturali della neona-ta «cooperazione fascista», anche se, più che analizzare questo nuovo soggetto, si preferivano attaccare duramente le vecchie esperienze cooperative prefasci-ste, ricorrendo a tutta quella pletora di argomenti che già erano stati utilizzati nel primo dopoguerra. Lo stesso Dino Alfieri parlava di una cooperazione che in passato era stata «completamente deformata» e «asservita al partito socialista», gestita da quei «riformisti italiani», che con la loro «mentalità ambigua» pote-vano essere considerati «i più grandi corruttori del carattere politico del nostro paese»18.

In generale, si sosteneva l’idea che il socialismo non avesse fatto altro che «snaturare» una teoria cooperativa di carattere liberale e mazziniano, per asser-virla ai propri scopi rivoluzionari e sovversivi, e che il fascismo fosse intervenuto proprio per evitare che questa manovra andasse a buon fine, migliorando poi il cooperativismo delle origini con inediti tratti patriottici.

La letteratura di questo stampo occupa migliaia e migliaia di pagine, in deci-ne e decine di monografie, riviste e pamphlet, tutti impegnati a denigrare la vec-chia cooperazione socialista e cattolica, senza che si riuscisse a formulare una qualche riflessione originale sulla cooperazione fascista19. In effetti, quest’ultima era un ibrido particolarmente contraddittorio, in cui – a livello teorico – il culto del capo si fondeva con una democrazia assembleare, il verticismo si scontrava con la partecipazione, e le libere elezioni dovevano conciliarsi con le volontà dei piani alti. Effettivamente, dunque, non sorprende che a fronte di questa debolez-za teorica, il comportamento concreto delle cooperative fasciste o fascistizzate fosse altrettanto controverso.

16 Nazario Galassi, La cooperazione imolese dalle origini ai nostri giorni (1859-1967), Imola, Gale-ati, 1986, pp. 182-197. 17 Fabio Fabbri, La cooperazione italiana di fronte al fascismo: dall’assalto squadrista allo stato corporativo (1921-1934), in “Incontri meridionali”, 2002, nn. 1-2, pp. 269-338.18 Dino Alfieri, Premessa a Roberto Scheggi (a cura di), La cooperazione nell’Italia fascista, Milano, Alpes, 1929, pp. IX-XVI.19 Rosario Labadessa, Caratteri distintivi della impresa cooperativa, Roma, Sai, 1928; Cristiano Fo-carile, La funzione sociale della cooperazione fascista per il potenziamento della stirpe, Roma, Esperienza Cooperativa, 1930.

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5. Le gestioni clientelari o privatistiche: i mali della cooperazione fra le due guerre

La gestione delle cooperative da parte di amministratori fascisti, o vicini al fasci-smo, o non fascisti ma intimiditi dal regime, merita una serie di considerazioni specifiche, perché nel concreto fu abbastanza distante dalle dichiarazioni teori-che. In vari casi si trattò di amministrazioni molto negative, fraudolente, parassi-tarie o clientelari. Le cooperative che aderivano all’Enfc erano in massima parte il prodotto di un’opera di «fascistizzazione» di esperienze precedenti, principal-mente di stampo socialista o cattolico, mentre più contenuto era il numero di cooperative nate dopo la presa del potere di Mussolini, per lo più su iniziativa di ex-combattenti. Quindi, a fronte di una base sociale in parte ancora orientata in senso antifascista, le cooperative italiane erano governate e gestite da ammi-nistratori filofascisti, oppure, in altri casi, dalle vecchie dirigenze che avevano in qualche modo accondisceso alla nuova situazione politica, e accettato vari compromessi e certe imposizioni20.

Soprattutto in quei sodalizi nei quali erano stati immessi degli amministratori vicini al regime, la distanza tra queste nuove dirigenze e la vecchia base socia-le era nettissima, ed era maturato un rapporto di forza per cui le imposizioni autoritarie avevano quasi completamente annullato i meccanismi democratici, per originare molto spesso una concezione privatistica della cooperazione. Il fa-scismo, di fatto, sviliva gli strumenti partecipativi e accentuava i poteri di quelle figure – come i tecnici o il direttore – nei cui ruoli era riuscito ad imporre dei pro-pri uomini21. Attraverso costoro, in certi casi era iniziata una gestione di rapina nei confronti delle proprietà della cooperativa: i beni strumentali, la sede o altre proprietà potevano essere venduti a prezzi di assoluto favore a persone esterne alla cooperativa, naturalmente vicine al fascismo o con legami di parentela con i nuovi amministratori in camicia nera. In varie province si verificarono «delle usurpazioni legalizzate, condotte senza clamori, ma con uguale determinazione annientatrice: [...] delle vendite forzose, degli scioglimenti coatti, delle donazio-ni fasulle, provocate da pressioni illecite e da minacce e […] sostenute da atti notarili, da verbali d’assemblee, […] da decreti liquidatori di autorità prefettizie compiacenti»22.

20 Fabio Fabbri, Angiolo Cabrini (1869-1937). Dalle lotte proletarie alla cooperazione fascista, in “Cooperazione e società”, 1972, n. 1-2, pp. 3-63.21 Delfina Tromboni, «A noi la libertà non fa paura...». La Lega provinciale delle cooperative e mu-tue di Ferrara dalle origini alla ricostruzione, 1903-1945, Bologna, Il Mulino, 2005.22 Luigi Arbizzani, Nazario Sauro Onofri, Giuliana Ricci Garotti, L’unione dei mille strumenti. Storia

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Oppure, sempre in quelle cooperative dove il fascismo aveva raggiunto un sostanziale ed effettivo controllo, i soci e i dipendenti che maggiormente aveva-no manifestato – o continuavano a manifestare – tendenze antifasciste venivano vessati in varia maniera, dalla retrocessione di qualifica, fino all’espulsione con un qualche pretesto. Di contro, la cooperativa cominciò anche a diventare uno strumento per trovare una collocazione ai sostenitori del regime: magazzinie-ri, commessi, impiegati, tecnici venivano immessi nelle strutture del movimento spesso a prescindere da un effettivo bisogno o da una valutazione delle loro competenze, ma per un’esclusiva logica di scambio di favori, perché magari co-storo erano stati squadristi, avanguardisti o reduci d’Africa23.

A queste tendenze, si sovrapponeva un generico intento di utilizzo delle co-operative per scopi di propaganda24. Da una parte, infatti, le concessioni di age-volazioni e riconoscimenti agli iscritti costituivano un mezzo di comunicazione politica; dall’altro, invece, l’operato delle società cooperative più solide poteva essere indicato dal regime come uno dei risultati più apprezzabili della nuova cooperazione spoliticizzata.

Va da sé, che la propaganda doveva quanto più possibile accompagnarsi ad una effettiva solidità aziendale, che mal si conciliava con gli usi clientelari pre-cedentemente descritti. In generale, la cooperazione fu sostenuta ed aiutata là dove non rischiava di danneggiare i commercianti, gli imprenditori o gli agrari vicini al regime, o dove – ancora meglio – vedeva la partecipazione diretta di quei ceti medi che simpatizzavano per il governo25.

E dunque, in certi casi, l’operato dei nuovi amministratori fascisti fu anche positivo. Nelle campagne, molte cooperative si inserirono con profitto nel pro-mettente settore delle trasformazioni agroalimentari. Così come, alcune coo-perative di consumo divennero più efficienti, più grandi, magari attraverso le unificazioni, più orientate verso la classe media e dunque più moderne perché meno politicizzate e meno oberate da oneri sociali26. Inoltre, le colonie africane divennero un luogo dove promuovere e incentivare le istanze cooperative, per-

della cooperazione bolognese dal 1943 al 1956, Bologna, Editrice Emilia-Romagna, 1991. 23 Maurizio Degl’Innocenti, La cooperazione emiliana negli anni del fascismo, in Maurizio Degl’In-nocenti, Paolo Pombeni, Alessandro Roveri (a cura di), Il Pnf in Emilia Romagna: personale politico, quadri sindacali e cooperazione, Milano, Franco Angeli, 1988, pp. 13-50. 24 Massimo Storchi, «Lasciarsi rimorchiare o guidare il movimento». L’Enfc a Reggio Emilia: funzioni e cooperatori (1933-1943), in Giorgio Boccolari, Vladimiro Ferretti (a cura di), La cooperazione “ros-sa” sotto la scure littoria, numero monografico de “l’Almanacco”, 1987, n. 11, pp. 159-169. 25 Maria Gabriela Chiodo, Cooperazione e Mezzogiorno: il movimento cooperativo italiano tra svi-luppo e crisi, 1900-1938, Cosenza, Pellegrini, 1990.26 Tito Menzani, Studi di genere alimentare. Le cooperative di consumo in provincia di Bologna (1915-1945), in “E-Review”, 2016, n.1, www.e-review.it.

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ché si trattava di mercati nei quali non si rischiava di danneggiare agrari o com-mercianti fascisti, e perché si riteneva utile creare delle reti che aumentassero la coesione sociale delle nuove comunità che vi si insediavano.

6. Cooperazione fascista o cooperazione sotto il fascismo?

Il principale obiettivo che il regime si era dato in fatto di politica cooperativa era lo snaturamento del carattere popolare-proletario del movimento e la concet-tualizzazione di un modello alternativo che fosse interprete dei valori che sotten-devano al fascismo. A seconda che si ritenga raggiunto o fallito questo scopo, si è soliti usare la diversa terminologia di «cooperazione fascista» o «cooperazione sotto il fascismo». Da diverso tempo, la storiografia sta affrontando un vivace di-battito che – al di là della questione terminologica – indaga sull’apporto teorico che gli intellettuali vicini al regime o apertamente fascisti riuscirono a dare al mo-vimento. Si tratta di un tema che abbiamo già anticipato nei paragrafi precedenti, e sul quale è necessario un approfondimento anche alla luce del fatto che nel resto d’Europa le discussioni sul cooperativismo furono feconde e proficue. Anche in Italia, in effetti, in seno all’Enfc e in vari ambienti ad esso correlati, si ebbe un lungo ed intenso dibattito, che però seguì tematiche e direttrici molto diverse da quelle che si potevano avere in Inghilterra, in Francia o in Scandinavia27.

In particolare, si ebbe una prima fase, che va dallo squadrismo alla grande depressione, in cui il fascismo si preoccupò di insistere sugli stereotipi negativi che avevano accompagnato la cooperazione in età giolittiana e nel primo dopo-guerra, alimentando le accuse di parassitismo, sovversivismo e collateralismo ai partiti. Questa demagogia tentava di nascondere alla bell’è meglio la seria dif-ficoltà dei sedicenti cooperatori fascisti ad operare senza fare ricorso agli stru-menti che erano stati della cooperazione socialista e cattolica, nella consapevo-lezza che vi erano dei meccanismi – sociali e di mercato – dai quali non si poteva prescindere, e che con i quali si sarebbe dovuto convivere in qualche maniera.

Poi, sul finire degli anni Venti, iniziò un dibattito che cercava di fare luce su che cosa fosse la cooperazione fascista. Si trattava, peraltro, di un problema mol-to più vasto e generale, nel quale il movimento autogestito era solo un piccolo tassello, ma che abbracciava il concetto stesso di fascismo, il quale poggiava su un’ideologia alquanto farraginosa e contraddittoria.

27 Menzani, Il movimento cooperativo fra le due guerre, cit.

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Va da sé, che la cooperazione fascista dovesse forzatamente scontare un’e-laborazione teorica debole, alla quale si tentava di supplire con dichiarazioni monocratiche, al limite del paradossale e del ridicolo, che non risolvevano nes-suna delle contraddizioni in cui il movimento si ritrovava paralizzato, ma che avevano solamente un compito propagandistico, non a caso spesso affidato agli uomini del regime più carismatici. Lo stesso Mussolini, nel suo (breve) Discorso ai dirigenti di cooperative, del 1928, dichiarava tautologicamente che «la coopera-zione è fascista e non può essere che fascista»28. Questa formulazione veniva poi approfondita da Ernesto Lama, che definiva le cooperative «le più fascistiche di tutte le imprese», perché animate da «un’idea virile», ma che finiva anche con il ripetere alcune vecchie formulazioni socialiste, sostenendo che la cooperazione era una forma «di emancipazione e di ribellione», portata avanti da «gente che non vuole sottostare alle condizioni»29.

Un decisivo contributo al prosieguo del dibattito venne dagli effetti della crisi del 1929, che catalizzarono le vocazioni fasciste a rafforzare la «mano visibile» in economia, e a guidare direttamente o indirettamente imprese o associazioni di categoria in modo da implementare il controllo dello Stato sulla società civile e sul mercato. Con le svolte di politica economica dei primi anni Trenta, la coo-perazione diventava uno strumento quasi ideale – nel suo ossimoro fra controllo dall’alto e partecipazione dal basso – per penetrare a fondo nei tessuti econo-mici e sociali delle varie province italiane. È da questo momento che, tramontati gli ideali utopici delle origini, e superate le incertezze del primo fascismo istitu-zionale, la cooperazione ritrova un ruolo un poco più originale all’interno delle teorie economiche dell’epoca, mentre prendeva forma qualche concezione che – a dispetto di quelle precedenti – non fosse semplicemente la negazione dei suoi legami col socialismo o col cattolicesimo sociale.

Se la tradizione liberale, mischiata a suggestioni di altro genere, aveva fornito al fascismo una base teorica accettabile ma per nulla originale, che recuperava le istanze antispeculative di una cooperazione così come era intesa da Leone Bolaf-fio o Ulisse Gobbi, per incrociarla con il nazionalismo mutualistico di Labadessa, negli anni Trenta il dibattito ripiegava verso l’istanza corporativa, e in questa fase si ebbero gli unici apporti un poco autentici del fascismo. In questo senso, veniva per la prima volta apertamente discussa e criticata la natura «democratica» della cooperazione, che rappresentava forse il nodo più spinoso, perché richiamava im-mediatamente l’inconciliabilità teorica tra culto del capo e struttura assembleare.

28 Discorso ai dirigenti di cooperative, Roma 11 novembre 1928, citato in Walter Briganti (a cura di), Il movimento cooperativo in Italia. 1926-1962, Roma-Bologna, Editrice cooperativa-Ape, 1978, pp. 39-40.29 Ernesto Lama, Cooperazione, Lanciano, Carabba, 1931, pp. 6 e 50.

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Ma questi tentativi di concettualizzare una cooperativa non democratica die-dero ben pochi risultati, se non nella formulazione classica del rapporto biuni-voco tra capo e massa popolare, che era il nerbo costitutivo del totalitarismo fascista. Al di là di questa concezione, che forse poteva funzionare idealmente e visivamente nelle adunate oceaniche attorno a Mussolini, ma pareva grottesca se applicata alle assemblee dei soci, nelle quali il presidente leggeva e spiega-va il bilancio, il fascismo non riuscì mai a sradicare la nozione di democrazia da quella di cooperazione. Alla luce di questa difficoltà concettuale, lo stesso approfondimento della compenetrazione tra cooperazione e corporativismo sa-rebbe risultata incompleta30.

Più che di «cooperazione fascista» o di «cooperazione sotto il fascismo», quin-di, il ventennio fu caratterizzato dalla dicotomia tra una «pseudo-cooperazione fascista» e una «cooperazione pseudo-fascista», ad indicare sia un certo snatura-mento dei principi cooperativi, sia un utilizzo strumentale di categorie derivate dal mazzinianesimo o dal liberalismo per creare un’ideologia cooperativa che non solo era poco originale, ma che non aveva neppure un granché di fascista. Infatti, dato che i principi fascisti e quelli della cooperazione erano inconciliabili – se non altro per il diverso giudizio che si dava della democrazia – a seconda che il regime ponesse il proprio marchio sui sodalizi con più o meno vigore si po-teva avere una cooperazione fascista che di fatto non era più una forma di coo-perazione, oppure una reale cooperazione che di fatto non era fascista. Dunque, per dirla con Epicuro, là dove c’era l’ideologia fascista non c’era la cooperazione, e là dove c’era la cooperazione non c’era l’ideologia fascista.

In sintesi, l’impatto del fascismo sulla cooperazione italiana è da considerare in termini generalmente negativi, pur se con alcune significative eccezioni. La sorte di molte cooperative finì per dipendere dal comportamento dei nuovi am-ministratori filofascisti. In vari casi si resero complici di spoliazioni fraudolente, dettate dalla volontà di sfruttare la cooperative per arricchire se stessi. In altri, la cooperativa fu utilizzata strumentalmente per discriminare i socialisti, per dare occupazione a ex squadristi, o anche per fungere da cassa di risonanza per la propaganda di regime. Infine, in certe realtà, l’operato dei nuovi amministratori fu imprenditorialmente valido, perché improntato ad una visione aziendale più moderna. Dunque, dopo la seconda guerra mondiale, il movimento cooperativo italiano non dovette ripartire da zero, ma si trovò una consistente eredità com-posta da imprese, da persone, da strutture e da esperienze sul campo.

30 Ugo Melloni, La cooperazione nello stato corporativo, Bologna, Vighi e Rizzoli, 1941.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 163-180

Per quanto gli storici si siano finora dedicati ampliamente allo studio della pro-paganda fascista, nessun lavoro è stato finora dedicato alla pratica del dono durante il fascismo e al valore che questo genere di oggetti assunse durante la Seconda guerra mondiale e nel periodo immediatamente successivo. Tuttavia, anche alla luce della recente ripresa da parte di filosofi e sociologi della rifles-sione sul valore politico del dono, è evidente che il dono, e più latamente le inse-gne e gli oggetti creati e donati per commemorare un evento politico o sociale, costituiscono un elemento essenziale per comprendere il funzionamento del re-gime e il modo in cui ha potuto radicarsi quello che Renzo De Felice ha definito il suo consenso. In altri termini il dono riflette in maniera particolarmente chiara i meccanismi attraverso cui il fascismo è riuscito ad integrarsi nell’identità pub-blica e privata degli italiani.

Se infatti è vero che, in anni recenti, non sono mancati numerosissimi studi sull’arte e la propaganda fascista, è anche vero che l’arte e l’oggettistica di tema politico sono state finora interpretate come mere materializzazioni di un discor-so ideologico sovrastante. Le circostanze storiche che hanno caratterizzato la creazione di oggetti politici, il fatto che siano stati commissionati o meno, la loro aderenza a modelli e tradizioni artistiche o artigianali precise, il loro fato commerciale: questo tipo di questioni ha ricevuto pochissima attenzione. Da ciò risulta che ad oggi manca una analisi sistematica e convincente del design poli-tico nell’Italia fascista.

Una scoperta fatta nel 2013 all’Archivio di Stato di Forlì mi ha permesso di gettare le basi per uno studio più sistematico di questa questione e in particola-re sulla produzione e sullo scambio di oggetti dal valore marcatamente politi-

Doni (a Mussolini)MARIA ELENA VERSARI

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co durante il fascismo1. Parlando con il personale dell’archivio2, venni a sapere dell’esistenza di alcuni oggetti di propaganda fascista che erano presenti nei loro magazzini. L’idea che circolava era che fossero oggetti provenienti dalla Federazione fascista di Forlì, sequestrati dopo la caduta del regime. A conferma di questa ipotesi, uno di questi oggetti, un ritratto a ricamo di Mussolini, riporta tuttora un’etichetta con la scritta «dalla federazione fascista di Forlì».

Qualche mese dopo, all’Archivio centrale dello Stato di Roma, ho chiesto di poter vedere i documenti relativi alla Rocca delle Caminate. Nonostante l’in-teresse di alcuni studiosi e la possibilità di portare a termine ulteriori analisi in occasione dei recenti restauri, non esiste a tutt’oggi uno studio complessivo che riassuma la storia e le funzioni che questo luogo ha assunto durante il fascismo. In particolare manca un elenco dettagliato delle collezioni artistiche e docu-mentarie conservate nel castello: cosa c’era alla Rocca, cosa’è stato distrutto, cos’è stato portato via.

La Rocca essa stessa fu uno dei primi regali che Benito Mussolini ottenne da un gruppo di privati cittadini. Il castello, il cui primo impianto risale probabil-mente al decimo secolo, fu più volte ricostruito, passò tra le mani di numerose famiglie della Romagna, per poi finire tra le proprietà delle famiglie nobili ro-mane che infine la diedero in enfiteusi a due famiglie forlivesi, i Baccarini e suc-cessivamente i Delle Vacche. All’inizio del Novecento, dopo il violento terremoto del 1870, la rocca era non più di un rudere. Nel 1923, all’indomani della Marcia su Roma, un gruppo di simpatizzanti indisse una sottoscrizione tra 70.000 fasci-sti della Romagna per acquistare e restaurare la Rocca e donarla al dittatore. La ricostruzione quasi completa dell’edificio offrì l’occasione di unire passato e presente in un sovrapporsi di simboli. L’elemento più spettacolare da questo punto di vista era un faro dalla potenza di 8000 candele installato in cima alla torre. Lanciava un raggio tricolore sulla vallata, visibile a 60 km di distanza, che apparentemente veniva messo in funzione solo quando il Duce era presente alla Rocca. In Romagna i Mussolini possedevano anche una villa a Carpena ma, dalla fine degli anni Venti, la Rocca delle Caminate assunse un valore notevole sia pubblico che privato. Divenne ben presto il ritiro preferito di Mussolini lontano da Roma. Il dittatore era persino solito pilotare un aereo privato da Roma a Forlì pur di poter passarvi anche solo qualche giorno. All’indomani del 25 luglio agli

1 Il presente saggio espande i miei precedenti sullo stesso soggetto a cui rimando comunque per ulteriori riferimenti archivistici e bibliografici: Fascist Spoils: Gifts to Mussolini, in “The Burlington Magazine”, CLVII, giugno 2015, pp. 407-413 e Tra iconoclastia e oblio. Guerra e requisizioni alla Rocca delle Caminate, in Visualizzare la guerra. L’iconografia del conflitto e l’Italia, a cura di Maria Giuseppina Di Monte, Giuliana Pieri e Simona Storchi, Milano-Udine, Mimesis, 2016, pp. 109-123.2 Desidero ringraziare il direttore dell’Archivio, Gianluca Braschi, la dott.ssa Anna Maria Bambi, Marco Catozzi e tutto il personale dell’Archivio per la disponibilità e l’aiuto che hanno offerto alla mia ricerca.

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arresti chiese di poter essere incarcerato alla Rocca, venne invece trasferito a Ponza e poi al Gran Sasso. Nel 1932, temendo di poter essere accusato di arri-chimenti illeciti, Mussolini donò nominalmente la Rocca a sua moglie Rachele. Progressivamente egli trasferì alla Rocca la maggior parte della sua biblioteca e anche una collezione eterogenea di oggetti che egli andava ricevendo nel corso degli anni.

Celebrata nelle guide degli anni Venti e Trenta come la Sala dei cimeli del fascismo, e situata nel vano più ampio della Rocca, al piano terra dietro alla tor-re, la stanza in cui si conservavano i doni ricevuti da Mussolini non sembra mai essere stata aperta al pubblico. A quanto ricorda Rachele Guidi, Mussolini utiliz-zava un soprannome molto meno aulico per riferirsi alla Sala dei cimeli del fasci-smo, la chiamava: il «museo degli orrori». Rachele racconta anche che nel 1931 il marito ebbe l’idea di vendere alcuni di questi oggetti per finanziare dei lavori di risanamento delle case di contadini che lavoravano nella sua proprietà ma, all’arrivo del perito per la stima, i coniugi scoprirono che i doni avevano limitato valore pecuniario. Questo fatto sembra confermato dai pochi documenti rimasti.

In una fotografia scattata all’interno della sala nella seconda metà degli anni Trenta gli oggetti si accumulano sul pavimento, su alcuni larghi tavoli centrali e sulle pareti (ill. 1). Oltre a una testa del Duce in metallo, possiamo identificare anche diversi oggetti di minore importanza artistica: sulla sinistra la statuetta di un cavaliere col braccio alzato nel saluto fascista; un piccolo busto di Garibaldi; il modello di una nave, probabilmente la Santa Maria di Colombo. In primo pia-no vediamo anche il modellino di una biga guidata da un antico Romano, la cui testa calva fu probabilmente concepita come un omaggio non troppo sottile allo stesso Mussolini.

Dai documenti dell’Archivio centrale dello Stato di Roma sembra non essersi conservato un elenco ufficiale degli oggetti contenuti alla Rocca. Dovevano esi-stere però delle liste di oggetti in entrata e in uscita, ma l’unica traccia che ho po-tuto ritrovare è un quadernetto scritto a mano nei primi mesi del ’43, con poche annotazioni di regali modesti dai contadini della zona (un cesto d’uva; fiori…). Il quaderno è stato stracciato in diversi pezzi ed è conservato in una busta con altri documenti di poco valore stracciati anch’essi. Non si sa bene come sia stato distrutto, ma sembra non improbabile che si trattasse di uno degli oggetti pre-senti nello studio di Mussolini a Palazzo Venezia, e che sia stato Pietro Badoglio, installatosi in quello stesso studio dopo il 25 luglio, a distruggerlo con un certo compiacimento iconoclasta. In ogni caso, l’elenco non aiuta molto a individuare i doni diplomatici e personali conservati alla Rocca.

L’archivio romano offre tuttavia un ben più significativo contributo a questa indagine. Si tratta della copia del documento, datato 30 ottobre 1951, di confisca di 26 oggetti da parte dalle autorità italiane, selezionati tra i beni appartenuti al dittatore e a sua moglie. In base alla descrizione e ai numeri di inventario degli

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elementi sequestrati si può dedurre con certezza che gli undici oggetti conser-vati all’Archivio di Stato di Forlì facevano parte di questo gruppo. Dei quindici oggetti mancanti si è persa per il momento ogni traccia.

Tutti gli oggetti sequestrati, ritrovati o mancanti, erano per lo più di limitato valore artistico e commerciale. La maggior parte proveniva dalla Rocca delle Caminate, 5 su 26 da Villa Carpena. I doni rintracciati a Forlì sono, nell’ordine: una testa di Hitler in metallo; due placche di metallo; un album contenente ri-produzioni di poster editi dall’Istituto di propagana nazionale (ill. 2); una cartella vuota per documenti (ill 3); un ritratto di Mussolini ricamato a mano e firmato dall’autrice, Maria Puccini Pucci (ill. 4); una base-piedistallo in marmo e metallo con dedica della città di Bari; un dipinto con cornice intagliata; un sostegno in le-gno in forma di fascio littorio (concepito come supporto per una coppa con dedi-ca oggi scomparsa); un piatto decorativo in ceramica (frantumato) con ritratto di Mussolini; una scultura in legno raffigurante un’aquila su di un capitello in legno.

Questa scoperta è significativa sotto due aspetti diversi. In primo luogo, rive-la l’identità problematica che questi oggetti assunsero durante e all’indomani della guerra, agli occhi dei primi governi post-fascisti in Italia. In secondo luogo, ci costringe a riconsiderare i criteri finora usati nello studio della propaganda e della cultura di massa durante il fascismo. Si tratta di un ritrovamento che porta alla ribalta un tema per nulla studiato finora, e cioè quella produzione spesso minore, ufficiale o meno, di oggetti creati per essere donati al dittatore non solo da privati cittadini, ma anche da imprese commerciali e associazioni grandi e piccole.

In anni recenti il dono ha suscitato nuovo interesse come oggetto di indagi-ne in ambito sociologico e filosofico. A partire dallo studio classico di Marcel Mauss, ripreso poi da Claude Lévy-Strauss e Jacques Derrida, fino all’analisi piu’ recente di Roberto Esposito, il dono costituisce un campo di indagine che porta a vagliare il sistema di organizzazione dei legami sociali e il suo rapporto con strutture economiche e pratiche simboliche. Mauss ha sottolineato come il dono sia l’espressione di «fenomeni sociali totali, al tempo stesso politici e domestici»3 e ha identificato lo status particolare degli oggetti creati, usati, decorati, lustrati, ammassati e trasmessi come una fonte di emozioni su due livelli intrecciati. Da un lato i doni creano emozioni puramente estetiche, dall’altro il loro valore emo-tivo si definisce anche in base agli interessi privati e pubblici, economici e sociali, che essi rappresentano. Questo intrecciarsi di codici è evidente nei doni ricevuti da Mussolini, che si basano su di una forma particolare di reciprocità. Sono, per natura, non limitati al processo di scambio materiale ma basati invece su quello

3 Marcel Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques, in “L’Année Sociologique” (Seconda serie), 1923-24, 1, pp. 30–186.

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che Jacques Derrida ha indicato come un contenuto simbolico supplementare4. Il fatto stesso di indicare l’invio di questi oggetti come doni permette al donatore di istituire un rapporto simbolico col ricevente. Per comprendere questo, credo sia importante addentrarsi sul significato politico del dono che finora non è stato chiarito in maniera esaustiva. Il filosofo Roberto Esposito ha tuttavia recente-mente affrontato questo tema, identificando la radice concettuale del termine comunità nella parola latina munus, che vuol dire regalo, dono. A differenza di un’altra parola latina, donum, da cui viene il nostro “dono”, il munus era un ter-mine che originariamente veniva usato quando si doveva sanzionare un atto. Più specificatamente, munus è un termine che implica l’obbligazione contrattuale che uno ha di fronte a qualcun’altro5. Il munus, o dono, è il segno di una recipro-cità stabilita dal regalo stesso che lega gli individui ed è capace di fondare una comunità6.

Se manca finora uno studio sul valore del dono all’interno del fascismo, è evidente che l’importanza simbolica di questo genere di oggetti non è stata com-presa neanche dagli intellettuali e dai politici antifascisti negli ultimi anni della guerra e in quelli immediatamente successivi.

In margine agli episodi di iconoclastia spontanea che accompagnarono la caduta del regime il 25 luglio 1943, e che sono stati largamente riportati nei resoconti storici, ritroviamo infatti anche una serie di prese di posizione legisla-tive rivolte a gestire su un piano ufficiale ciò che rimaneva del fascismo. L’idea di confiscare le proprietà di Mussolini si fece strada immediatamente, all’indo-mani del 25 luglio. Una delle prime mosse di Badoglio all’epoca fu la creazione di una commissione d’inchiesta sull’illecito arricchimento da parte di membri del partito fascista, la cosiddetta Commissione sui profitti di regime. La stam-pa pubblicizzò largamente l’istituzione della commissione e la ricerca di prove dell’arricchimento, dei tesori ammassati dai fascisti, acquisì un valore simbolico enorme: si trattava di identificare qualcosa che potesse ripagare idealmente gli italiani delle sofferenze imposte dalla dittatura e dalla guerra. L’idea della con-fisca divenne un fatto pubblico, e il pubblico aspettava di vedere i risultati delle requisizioni.

Ma, almeno per quanto riguarda Benito Mussolini, il mito fu tuttavia quasi sempre aniconico: la visualizzazione di tesori nascosti rimase una proiezione su-scitata dalla stampa di guerra, esacerbata dalla penuria della guerra stessa.

4 Per la discussione di questo elemento nelle teorie di Mauss e Claude Lévi-Strauss si veda in part. Jacques Derrida, Donner le temps, 1. La fausse monnaie, Paris 1991, p. 26 e pp. 98-111.5 Roberto Esposito, Il dono della vita tra communitas e immunitas, in “Idee”, vol. 55, 2004, pp. 31-43: 31.6 Ibid.

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Tuttavia rimangono diverse domande aperte. Perché i beni di Mussolini ri-masti alla Rocca furono incamerati dallo Stato solo nel 1951? E perché proprio quegli oggetti e non altri?

In un resoconto pubblicato su “Risorgimento liberale” nel 1944, all’indomani del passaggio del fronte, Bruno Romani descrive una visita alla Rocca: «Ritor-nammo al piano terreno, e affondammo le mani nei mucchi di carte. Tutto parla del dittatore: ogni pezzo di carta, ogni frontespizio, ogni ritaglio di giornale [...] Mussolini, che ha fatto trasportare al nord i suoi mobili e le sue cose, ha lascia-to questi documenti, queste testimonianze della sua fortuna»7. Stando a questa testimonianza, la biblioteca conteneva tutti i libri usciti in Italia e all’estero su Mussolini, nonchè altri documenti, come temi sulla figura del dittatore scritti da alunni delle scuole. Il tutto era datato e perfettamente inventariato. Niente di tutto questo si ritrova però nei documenti relativi al sequestro. I libri vennero in gran parte lasciati alle intemperie. Altri ricomparirono poi sul mercato nero.

Quelli che si trovano all’Archivio centrale dello Stato oggi derivano in gran parte dalla parte della biblioteca che Mussolini fece trasportare a Salò e che lo Stato italiano lì requisì. Dalle requisizioni di Salò derivano anche una serie di opere d’arte giapponesi di valore, che formano oggi la base delle collezioni d’arte dell’Estremo Oriente dei musei di Brescia.

Un resoconto di Giorgio Spini ripercorre il sopraluogo che egli fece alla Rocca all’indomani della liberazione, alla ricerca di documenti per conto dell’esercito inglese. Scrive Spini: «Dappertutto si camminava su uno strato alto una trentina di centimetri, parte di fotografie del duce e parte di cianfrusaglie varie, di un cattivo gusto incredibile, esaltanti anch’esse il duce e le sue imprese. Mai in vita mia avevo visto qualcosa di altrettanto platealmente cafone, squallido e beota. E anche oggi confesso di non essere riuscito a capire come facesse Mussolini a vivere circondato da fasci di proprie fotografie come un’attricetta del varietà e da quintali di robaccia grottesca di quella specie. Tra quella marea di ciarpame che inondava completamente i pavimenti, non c’era nulla, assolutamente nulla, di quello che ci si potrebbe aspettare nella villa, non dirò di uno statista, ma di una persona di appena normale istruzione e di buon gusto»8. Spini descrive la Rocca come un luogo di pessimo gusto, ironizzando sulla presenza tra i libri, get-tati confusamente per terra, di opere di noti antifascisti. Pretende di non capire quanto, ad esempio, un particolare di questo tipo chiarisca l’attitudine del regi-me nei confronti dei fuoriusciti. L’ironia di Spini, certo, appare oggi funzionale

7 Bruno Romani, Il nido del dittatore, in “Risorgimento liberale. Organo del Partito liberale italiano”, anno II, n. 159, 29 novembre 1944, pp. 1-2.8 Giorgio Spini, La strada della liberazione. Dalla riscoperta di Calvino al Fronte della VIII Armata, a cura di Valdo Spini, Torino, Claudiana, 2002, p. 180.

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a un’interpretazione, si sarebbe tentati di dire volontariamente, riduttiva: Spini presenta il contenuto della Rocca alla stregua del risultato di una scelta perso-nale di Mussolini, di un Mussolini privato, quasi che l’oggettistica totalitaria po-tesse essere giudicata semplicemente da punto di vista del bon ton dell’epoca. È lo stesso giudizio, del resto, espresso nel nomignolo di «museo degli orrori»» già attribuito da Mussolini stesso alla Sala dei cimeli alla Rocca. È evidente però che a Spini sta a cuore demitizzare l’immagine del dittatore, ricondurlo a un registro comune, dipingerlo come degno di disprezzo sul piano umano, ancor prima che politico. E trascinarlo nel ridicolo. È una posizione comprensibile per la penna di un antifascista che ha finito appena allora di combattere e scrive non tanto per i posteri ma per un pubblico che reputa smarrito e bisognoso di indirizzi morali. È tuttavia anche una posizione pericolosa sul piano della gestione critica della storia, che nasconde il portato reale degli elementi in gioco. Nel suo studio dedi-cato agli archivi italiani durante la Seconda guerra mondiale, edito dall’Archivio centrale dello Stato nel 1979, Elvira Gencarelli identifica tre casi drammatici di perdita di documenti fondamentali per lo studio della storia d’Italia durante il fa-scismo, i più gravi per l’importanza dei fondi e per il tipo di perdite a essi toccata. Sono la distruzione dei documenti del Ministero dell’Aeronautica, sgomberato nel luglio 1944; quella dell’archivio della sede centrale del Partito nazionale fa-scista di Roma, trasformata in fretta in una casa di riposo; e, terzo caso, la sorte toccata ai documenti della Rocca delle Caminate.

In origine, almeno, è evidente che tra i doni della Rocca non c’era solo ciarpa-me. Alcuni degli oggetti donati a Mussolini e lì conservati avevano un certo va-lore artistico. Nella fotografia scattata all’interno del «museo degli orrori» pos-siamo riconoscere sullo sfondo la figura dello stesso Mussolini vestito di bianco, il figlio Romano al suo fianco. Dietro di lui un grande quadro è accastastato al muro (ill. 1). Si tratta di una delle ultime immagini – forse l’ultima – del monu-mentale quadro semi-astratto La Marcia su Roma, creato nel 1923 dall’artista futurista Tato (Guglielmo Sansoni). L’opera è ora considerata perduta. Donare opere d’arte al Duce divenne ben presto un fatto comune per gli artisti sotto il Regime, uno dei modi più veloci di attrarre l’attenzione della stampa e di otte-nere una sorta di confermazione ufficiale. Per alcuni, era una sorta di scorciatoia per lanciare la propria carriera ed entrare nel giro delle commissioni di regime. Il caso di Tato tuttavia è diverso. Il suo quadro è uno dei primi, sul piano storico, a creare una iconologia deliberatamente fascista. È un’opera che riunisce stile d’avanguardia e contenuto fascista. Se è vero che i futuristi si erano alleati con Mussolini alle elezioni del 1919, è anche vero che l’alleanza si era sciolta poco dopo l’insuccesso elettorale. Nel triennio 1919-1922 i rapporti fra futuristi e fa-scisti rimasero in gran parte problematici. Tuttavia, verso la fine del 1923 Tato crea questo lavoro monumentale, eseguito su due tele riunite al centro. L’opera è esibita a Bologna all’inizio del 1924. Attraverso la mediazione del capo del Fu-

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turismo, Filippo Tommaso Marinetti, Tato viene poco dopo ricevuto da Mussolini e gli dona ufficialmente il quadro «a nome di tutti i Futuristi Italiani»9. La Marcia su Roma ha un valore oltre che artistico, anche storico. Questo quadro è il segno tangibile della riconciliazione tra futuristi e fascismo, una delle prime mosse di Marinetti per ottenere visibilità all’interno dell’organizzazione ufficiale del fa-scismo. Si tratta a quest’epoca ancora di un dono a Mussolini come capo del partito fascista al potere. Il complesso sistema totalitario non è ancora piena-mente in funzione a questa data. La Marcia su Roma ci offre un’ultimo dettaglio significativo: è accatastata contro il muro sottosopra, un segno che ci chiarisce la natura non ufficiale e in qualche modo casuale dell’organizzazione interna della Sala dei cimeli alla Rocca, più un magazzino che un vero e proprio museo.

Alcuni documenti d’archivio ci testimoniano che anche oggetti di un certo va-lore vennero inviati alla Rocca. Diversi doni diplomatici vennero lì trasferiti. Il più famoso è probabilmente la Spada dell’Islam, dall’elsa d’oro massiccio, che Mus-solini ottenne nel 1937 durante la sua visita in Libia. L’oggetto, probabilmente trafugato dalla Rocca nell’immediato dopoguerra e ora perduto, divenne il sim-bolo della politica filo-islamica del fascismo. Sono meno conosciuti invece, i doni scambiati da Mussolini e Chiang Kai-Shek nel 1934, di cui si trova testimonianza tuttavia nell’Archivio centrale dello Stato10. Il generale cinese donò a Mussolini un suo saggio e due vasi. Questi vennero esposti in un primo momento nella “Sala omaggi” di Palazzo Venezia, concepita all’uopo. I vasi erano parte di una serie molto rara, creata per il Palazzo Imperiale di Yuan Shikai, prima della sua ascesa al trono nel 1915. Nell’ottobre 1934, vennero inviati alla Rocca. Mussolini contraccambiò il regalo inviando a Chiang Kai-Shek un suo ritratto fotografico con dedica e un pugnale da Ufficiale Generale della Milizia con bandoliera in oro. Come per la Spada dell’Islam, i vasi di Yuan Shikai furono probabilmente rubati o distrutti nel 1944, tuttavia esiste un riferimento a un vaso cinese tra gli oggetti confiscati e poi restituiti a Rachele Mussolini nel 1951. Forse si trattava proprio di parte del dono diplomatico di Chiang Kai-Shek.

Gli oggetti scoperti a Forlì non sono doni diplomatici o opere d’arte di note-vole valore. Il loro interesse è soprattutto storico ma rappresentano per questo un esempio importante dell’universo visivo del fascismo. Inoltre, testimoniano di una delle pratiche più interessanti e meno studiate della propaganda fasci-sta: l’attività di imprese private a fianco di organismi ufficiali nella definizione di un’oggettistica propriamente politica.

Mi soffermerò qui soltanto sulla storia di due degli oggetti rintracciati a Forlì.

9 Tato, Tato raccontato da Tato (20 anni di Futurismo), Milano, Oberdan Zucchi, 1941, p. 83.10 Archivio centrale dello Stato (Acs), Segreteria particolare del Duce, Corrispondenza ordinaria, fasc. 155428.

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Nel 1925, un grande album di pelle entra nelle collezioni di Mussolini. Sulla copertina, in grandi lettere in metallo, una dedica al Duce (ill. 2). All’interno, una serie di poster editi dall’Istituto di propaganda italiana. Questo nome dal suono ufficiale maschera in realtà un’azienda privata. Si tratta della creazione di un solo uomo, il fiorentino Carlo Mannucci che nel 1909 aveva fondato l’Istituto sotto gli auspici del motto “Buon senso e tricolore”. A partire dal 1911 Mannucci aveva ini-ziato a pubblicare diversi poster e cartoline patriottici nonché un periodico, “Buon senso e tricolore. Rivista bimestrale illustrata di propaganda italiana”. La rivista era soprattutto finalizzata a pubblicizzare i poster dell’Istituto e veniva inviata agli insegnati e ai presidi della scuole del Regno. Con l’avvento del fascismo al potere, Mannucci iniziò ad aggiungere prodotti più esplicitamente legati al Par-tito nel suo catalogo e nel 1925, l’anno in cui donò l’album a Mussolini, lanciò sul suo giornale una campagna per esporre «il ritratto del Duce in tutte le scuole del Regno […] per far in modo che l’amata immagine del Duce brilli di fronte agli occhi dei nostri figli»11. Naturalmente si sarebbe trattato di ritratti di Mussolini prodotti dalla sua azienda. Mannucci propagandava i suoi prodotti sotto una vaga aura di ufficialità; l’impresa veniva identificata come una sorta di attività di volontariato, visto che, come si legge in uno dei suoi avvisi pubblicitari, i profitti di queste ven-dite venivano reinvestiti in ulteriori opere di «propaganda nazionale»12.

L’album donato a Mussolini rappresenta dunque una mossa strategica da par-te di Mannucci, una forma di captatio benevolentiae, con la quale cercava di ot-tenere un appoggio politico per la sua impresa di propaganada, sostanzialmente privata. Dei 33 poster contenuti nell’album, diversi sono dedicati ai sovrani e ai più alti membri dell’esercito, 11 pubblicizzano la ricostruzione dopo la Prima guerra mondiale (ill. 5) e alcuni sono ritratti di Mussolini e membri del partito fascista, aggiunti per ultimi alla collezione. Alla data dell’invio dell’album a Mus-solini, infatti, alcuni dei poster, tra cui uno raffigurante il dittatore, erano ancora in corso di stampa (ill. 6). Non sembra che Mussolini abbia gradito questo genere di produzione. Poco dopo l’invio sappiamo che l’impresa di Mannucci chiuse, e Mussolini già alla fine degli anni Venti si adoperò per limitare la speculazione commerciale dei simboli del fascismo, soprattutto del fascio littorio13.

Un’altro oggetto scoperto a Forlì chiarisce ulteriormente il complesso intrec-ciarsi di interessi pubblici e privati nella costruzione del culto del Duce. Si tratta in questo caso di un ritratto ricamato inviato a Mussolini da una ammiratrice di

11 [Carlo Mannucci], Il ritratto del Duce nelle Scuole del Regno, supplemento a “Buon senso e trico-lore”, novembre 1925, non paginato.12 Ibid.13 Emilio Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1993, p.89.

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cui conosciamo solo il nome: Maria Puccini Pucci. La qualità del ricamo è molto alta; non c’è dedica, solo la firma ricamata in corsivo della donna. Se non sap-piamo molto di Puccini Pucci, sappiamo invece che per il suo ritratto la donna ha usato una fotografia famosa di Mussolini, scattata da Ambrogio Petitti, un fotografo che collaborava con il giornale romano “Il Tevere”.

Si tratta di uno dei ritratti giornalistici di Mussolini della fine degli anni Venti: Mussolini non indossa un’uniforme militare ma con certa nonchalance un imper-meabile e una bombetta, a lato la custodia di un binocolo: un sofisticato gentle-man qualsiasi alle corse. Questa immagine veniva riprodotta in formato cartoli-na o formato più grande da imprese private, che la vendevano nelle edicole e dai tabaccai, insieme ad ogni altra sorta di cartolina illustrata con messaggi d’auguri o ritratti di attori famosi. Tuttavia, recentemente una versione di questa immagi-ne, in formato 26 per 19,5 cm, è apparsa sul mercato collezionistico. Questa fo-tografia riporta il marchio di Petitti sul fronte e sul retro il marchio stampigliato dell’editore: Casa Editrice Ballerini e Fratini Firenze.

L’importanza di quest’oggetto risiede nel fatto che vi si può leggere a pen-na anche una dedica autografa di Mussolini «Benito Mussolini 18 maggio anno IX». Quindi sappiamo che intorno al 1931 Mussolini utilizzava un’immagine di se stesso prodotta commercialmente per inviare foto autografate ai suoi soste-nitori. A volte i suoi corrispondenti gli inviavano essi stessi una copia della foto da autografare, ma apparentemente il Duce ne disponeva di sue, già pronte per essere firmate datate e spedite. È ciò che accadde con la fotografia inviata a Chiang Kai-Shek e, come riporta Rachele nelle sue memorie, capitò più volte anche a lei di ricevere la foto autografata del marito come dono di compleanno.

Questa foto chiarisce ulteriormente l’interesse del manufatto ritrovato a For-lì. Richiesto di un’immagine autografata, Mussolini probabilmente inviò alla Puc-cini Pucci una foto come questa. Lei ricambiò il dono, creando con le sue mani una versione artistica dell’oggetto ricevuto. Il ritratto ricamato del Duce non è di per sé un unicum storico. Deriva infatti da una tradizione importante, quella che testimonia della partecipazione attiva – a volta dell’unica forma di partecipazio-ne possibile – delle donne italiane alla storia della nazione.

Nell’Ottocento, in Italia, ritratti a ricamo degli eroi del Risorgimento, e in par-ticolare di Giuseppe Garibaldi divennero popolari. Il processo di creazione di un ricamo riproducente un ritratto costituisce tuttavia un tipo molto particolare di produzione dal punto di vista antropologico. Rivela l’importanza del sistema di scambio alla base del dono, o per dirlo con Esposito, del munus che in questo caso stabilisce una relazione mutuale tra il Duce e i suoi seguaci. Ricambiando il dono della fotografia e traducendolo in un processo molto laborioso e lungo di ri-produzione visiva, la donna ha iscritto la sua azione personale, la sua praxis, nella immagine pubblica del Duce. Ha proiettato la propria individualità attra-verso una sorta di rituale laico sulla figura del capo. Si tratta di un dono creato

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attraverso l’autorità riconosciuta di Mussolini: sua è l’immagine inviata e, una volta investita della pratica artigianale della donna e così sublimata, ri-scambia-ta. L’oggetto diviene in questo modo, nella Sala dei cimeli, una prova visibile di un tipo di devozione che richiedeva, da parte di Mussolini, non il ripagamento at-traverso un altro, ulteriore dono, ma il riconoscimento della partecipazione dei suoi ammiratori all’interno del suo status di capo della nazione. In questo modo e con doni di questo genere dunque i privati si auto-inscrivevano come individui nel sistema totalizzante della sua autorità.

Ma come sono arrivati gli oggetti della Rocca nel deposito dell’Archivio di Stato?

Un decreto legislativo luogoteneneziale per le sanzioni contro il fascismo ri-portato nella Gazzetta ufficiale in data 27 luglio 1944 ordina la confisca di tutte le proprietà dei membri del partito fascista, delle loro famiglie e dei loro eredi e di tutti gli italiani che sostengono il governo della Repubblica sociale italiana. Il Decreto impone inoltre la confisca di tutti i profitti di regime indicando che le proprietà acquisite tra il 1938 e il 1943 dai coniugi di criminali fascisti siano trat-tate come appartenenti direttamente al fascista stesso. Nell’ottobre 1944 tutte le proprietà della famiglia Mussolini furono dichiarate proprietà dello Stato14.

Con l’arrivo del fronte a Predappio e alla Rocca le cose si complicarono. In ottobre furono le truppe polacche ad entrare a Predappio, qualche giorno dopo, comodamente, entrarono gli inglesi. La Rocca fu saccheggiata dalle truppe e dalla popolazione locale. Non abbiamo documentazione dell’attività dei polac-chi alla Rocca, ma sappiamo che vi entrarono. Abbiamo alcune immagini delle truppe inglesi alle prese con ciò che resta della biblioteca di Mussolini e della Sala dei cimeli. È interessante rileggere i pochi resoconti che vengono pubbli-cati sulla Rocca all’indomani della liberazione, come quello di Romani e Spini, soprattutto perché ci rivelano un interessante sviluppo anticlimatico. Con l’isti-tuzione della Commissione per i profitti di regime il governo Badoglio aveva in qualche modo proiettato sull’opulenza dei Mussolini e soprattutto su Benito il valore di una sorta di retribuzione simbolica per le sofferenze patite dalla po-polazione durante la guerra. Significativamente invece, ben poche sono le im-magini che circolarono poi della Rocca, e degli oggetti ivi contenuti. Le poche immagini sono di devastazione e i pochi resoconti cercano di ironizzare sul catti-vo gusto del dittatore, sulla meschinità delle sue proprietà piccolo borghesi. I po-chissimi resoconti sono pubblicati quasi sempre senza immagini. Non c’è niente da vedere. E allora forse proprio per questo, progressivamente, la Rocca divenne un luogo presente nel mito della nazione ma inaccessibile in pratica. Un macro

14 Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, Sanzioni contro il fascismo. Decreto legi-slativo luogotenenziale (legge 27 luglio 1944, n. 159), “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia”, 41, 29 luglio 1944.

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oggetto che testimonia più della devastazione della guerra che della retribuzio-ne che ne sarebbe dovuta seguire.

Solo nel 1947 il governo italiano nominò un sequestratario per i beni Mussoli-ni nel territorio della Romagna e questo, in un primo momento, si trovò alle pre-se con la necessità di mettere al sicuro gli oggetti sequestrati, quelli cioè rimasti dai saccheggi. Gli elenchi ci rimandano un’immagine desolante: tra il materiale sequestrato troviamo sì 18 quadri ad olio non meglio specificati e un solo vaso cinese, ma anche una quantità di sedie sfondate, infissi divelti, lavandini e stufe abbandonati alla rinfusa. C’è persino uno scopino da bagno. Nel frattempo, nel 1946, il governo italiano concesse l’amnistia per reati politici e nel 1948 riconsi-derò il valore della confisca sul piano penale. Mentre i beni di Mussolini rimasero tutti proprietà dello Stato, i beni della vedova Rachele vennero soggetti a confi-sca solo se acquisiti tra il ’38 e il ’43. Nel 1950 il tribunale di Roma decretò infine che i beni le fossero ritornati, pur mantenendo a suo carico la necessità di ripa-gare lo Stato per profitti illeciti. A differenza di quanto avvenne per gli oggetti sequestrati a Salò dall’Intendenza di Finanza di Brescia, dove si formò una com-missione di storici competenti, nel 1951 la scelta di quali tra gli oggetti rimasti alla Rocca dovessero essere ritenuti doni inviati a Mussolini e dovessero quindi entrare a far parte della proprietà dello Stato italiano fu lasciata al sequestra-tore, un ragioniere, aiutato da un perito del Tribunale di Forlì. Nessuno dei due aveva competenze storiche o storico-artistiche. Il criterio pare esser stato quello di scegliere solo oggetti che riportavano una esplicita dedica a Mussolini. Dei 18 quadri ad olio solo uno fu sequestrato, non per il suo valore o soggetto, ma solo per via della cornice intagliata con esplicita dedica al Duce. Tra le sculture in metallo, solo una testa di Hitler, senza dedica questa, ma che probabilmente a quel punto nessuno voleva più. La maggior parte degli oggetti sequestrati furono targhe commemorative, in gran parte donate a Mussolini per conferirgli la cit-tadinanza onoraria di questa o quella località italiana. Nessuno si preoccupò di valutare se tra gli oggetti rimasti ci fosse qualche dono diplomatico, nonostante le direttive inviate da Roma alcuni anni prima facessero menzione esplicita di questa eventualità. Nel 1951, la questione “profitti di regime” che si era trascina-ta a lungo rischiando di divenire un ingorgo burocratico, doveva essere chiusa al più presto, con meno strepito possibile. Gli oggetti vennero sequestrati in si-lenzio e in silenzio dimenticati in un deposito. Non si trova notizia di essi nelle cronache dell’epoca.

Un ultimo dettaglio ci permette di chiarire ulteriormente la sorte dei doni sequestrati dalla Rocca delle Caminate e il loro status particolare, in bilico tra iconoclastia e oblio. All’inizio degli anni Ottanta, trent’anni dopo la confisca del ritratto ricamato di Puccini Pucci, qualcuno tra i funzionari preposti alla sua con-servazione deve essersi chiesto da dove provenisse. È possibile che gli ogget-ti siano stati trasferiti proprio a quell’epoca da un deposito, forse quello della

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Guardia di Finanza di Forlì, al luogo in cui si trovano attualmente, il deposito dell’Archivio di Stato di Forlì. Qualche zelante funzionario ha deciso dunque di attaccare un’etichetta su quest’oggetto, con la scritta «dalla Federazione Fasci-sta di Forlì». Sappiamo, dai documenti scoperti a Roma e dal numero di inventa-rio originale che l’oggetto riporta ancora sul retro, che questa etichetta mente. È l’unico oggetto del gruppo con un’etichetta di questo tipo. Si può datarla con una certa precisione perché è stata creata con una macchina da scrivere elettronica Olivetti modello ET 221, che non è entrata in produzione prima dell’inizio degli anni Ottanta15.

Si è trattato di un depistaggio vero e proprio o più semplicemente di un errore in buona fede? Comunque stiano le cose, questa etichetta è l’unica testimonian-za di un qualche interesse suscitato dai doni requisiti dalle collezioni della Roc-ca dal 1951 ad oggi. Lungi dal ripagare, sul piano economico o almeno simbolico, il popolo italiano per i crimini del fascismo, questi oggetti non potevano neppure essere esibiti come prova della supposta avidità di Mussolini. E non potevano testimoniare neanche quello che stigmatizzavano i pochissimi visitatori della Rocca alla fine della guerra: il cattivo gusto personale del dittatore. Non erano oggetti acquistati da Mussolini, erano regali. Doni degli italiani a lui. L’unica cosa che questi oggetti dimostravano, già nel «museo degli orrori» che non piaceva neanche a Mussolini, e che dimostrano ancor oggi, nello scantinato dove sono riposti, è che numerosi italiani espressero un aperto desiderio, disinteressato o meno, di identificarsi con il fascismo. Sono spoglie di guerra che discreditano l’i-dea che tra fascismo e paese reale ci fosse una separazione radicale – un discor-so retorico questo funzionale al progetto di Badoglio e forse anche necessario nei primi anni del dopoguerra, ma sostanzialmente avulso dalla realtà.

Sono spoglie di guerra che era meglio nascondere e dimenticare.

15 Ringrazio il dott. Pierantonio Casagrande della Associazione italiana collezionisti di macchine da scrivere per l’aiuto nell’identificazione.

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Maria Elena Versari, Doni (a Mussolini) 177

La Sala dei cimeli del fascismo alla Rocca delle Caminate, 1933-40 circa (Biblioteca comunale di Forlì, Archivio fotografico).

Busta vuota, originariamente contenente un non meglio identificato omaggio a Mussolini (Ar-chivio di Stato, Forlì).

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Fascismo e società italiana178

Ritratto ricamato di Mussolini, opera di Maria Puccini Pucci (Archivio di Stato, Forlì).

Album donato a Benito Mussolini contenente poster editi dall’Istituto di propaganda italiana, 1925 (Archivio di Stato, Forlì).

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Maria Elena Versari, Doni (a Mussolini) 179

Poster di propaganda per la ricostru-zione nazionale inserito nell’album edito dall’Istituto di propaganda ita-liana, 1925 circa (Archivio di Stato, Forlì).

Pagina di prova per un poster dedi-cato a Mussolini inserito nell’album edito dall’Istituto di propaganda ita-liana, 1925 circa (Archivio di Stato, Forlì).

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 181-194

Premessa

L’interazione tra editoria e regime mussoliniano costituisce uno snodo cruciale del complesso rapporto tra cultura e fascismo. Infatti, grazie al ruolo di media-zione culturale svolto dalle case editrici, l’analisi dell’articolazione tra potere politico e sistema editoriale italiano ha consentito nel tempo di mettere a fuoco diversi aspetti della questione: dalla politica statale di sostegno nei confronti degli editori all’opera di controllo e censura sulla produzione libraria, dalla cre-azione e ristrutturazione delle istituzioni culturali fino al posizionamento delle case editrici rispetto al regime. Alla luce di questi studi è opinione ormai conso-lidata che il nesso tra editoria e fascismo seguì un «percorso complesso, assai poco lineare e non poche volte contrassegnato da antinomie e dalla mancanza di unità mostrata dall’azione censoria nel corso degli anni»1.

Per ripercorrere le tappe principali di tale processo in queste pagine saranno tracciate le coordinate di fondo del sistema editoriale nazionale negli anni tra le due guerre e la loro interazione con il regime fascista. Successivamente ver-ranno delineati i tratti salienti dell’azione di controllo statale sulla produzione e sulle imprese editoriali nell’ambito delle politiche culturali promosse dal fasci-smo, per poi concentrare l’attenzione su una sintetica mappa – inevitabilmente approssimativa – delle principali case editrici italiane.

La ricognizione, prendendo le mosse dalla ricca letteratura esistente sul

1 M.E. Mancini, L’Archivio Laterza e la storia dell’editoria negli anni del fascismo, in “La fabbrica del libro”, 2006, n. 1, p. 41.

EditoriaALBERTO FERRABOSCHI

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Fascismo e società italiana182

tema2, sarà supportata da riferimenti tratti da perlustrazioni sull’esperienza di fi-gure di rilievo attive nel panorama editoriale e culturale del Ventennio fascista3.

1. La modernizzazione del sistema editoriale

Il periodo compreso tra le due guerre fu un periodo di profonde trasformazioni per l’intero sistema editoriale italiano: si registra infatti l’emergere di un’industria culturale (editoria, cinema, radio) che cominciò a orientarsi verso un modello di consumo standardizzato e su larga scala4. Durante questo cruciale passaggio storico gli assetti editoriali subirono mutamenti di carattere strutturale legati, tra l’altro, a un ricambio degli imprenditori, alla richiesta di consumo culturale da parte di fasce sempre più ampie (a partire dalle donne), al superamento di una fruizione libraria elitaria con l’emergere di nuovi soggetti sociali (in parti-colare la piccola borghesia impiegatizia)5 che, tra l’altro, sollecitarono le case editrici a sperimentare nuove strategie per la conquista del lettore (dalla vendita rateale per corrispondenza alla diffusione nelle edicole).

All’interno di questo scenario in forte evoluzione, si segnala la nascita di nuo-ve case editrici attente alle tendenze di un mercato dell’industria culturale im-prontato a innovativi modelli di consumo destinati ad affermarsi definitivamente

2 In effetti la produzione storiografica sulle vicende editoriali italiane dell’età contemporanea ri-sulta piuttosto corposa sebbene assai disomogenea (in quanto a lungo incentrata su alcuni centri editoriali e specifici editori) sicché anche sul periodo del fascismo disponiamo di un significativo quadro di conoscenze. Tra gli studi di sintesi si ricordano in particolare: E. Garin, Editori italiani tra Ottocento e Novecento, Bari, Laterza, 1991; Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Firenze, Giunti, 1997; G. Ragone, Un secolo di libri. Storia dell’editoria in Italia dall’Unità al post-moderno, Torino, Einaudi, 1999; N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani, Roma-Bari, Laterza, 2000; N. Tranfaglia, Editori italiani ieri e oggi, Roma-Bari, Laterza, 2001; G.C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Torino, Einaudi, 2004. Sulla questione del rapporto tra editoria e fascismo è d’obbligo in questa sede fare riferimento alle specifiche voci dei Dizionari sul fascismo disponibili: A. Scotto di Luzio, Editoria, in Dizionario del fascismo, a cura di V. de Grazia e S. Luzzatto, vol. I, Torino, Einaudi, 2002, pp. 455-458; M. Isnenghi, Stampa dell’Italia fascista, in Dizionario dei fascismi, Milano, Bompiani, 2002, pp. 684-687.3 Nello specifico, una particolare attenzione verrà riservata al percorso del poliedrico intellettuale Cesare Zavattini, del filosofo Antonio Banfi e degli scrittori emiliani Daria Malaguzzi Valeri e Silvio D’Arzo, i cui archivi sono conservati presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia.4 D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana, 1936-1954, Bologna, Il Mulino, 2007.5 Sull’affermazione della nuova cultura della «piccola borghesia impiegatizia» negli anni del fasci-smo, in particolare, cfr. M. Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista, Roma-Bari, Laterza, 1992.

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nel secondo dopoguerra. Emblematica da questo punto di vista è l’esperienza della Mondadori che contribuì a rinnovare tra le due guerre il circuito editoriale nazionale sancendo il passaggio da un’attività tradizionale di tipo artigianale alla moderna grande industria. In effetti, con Arnoldo Mondadori, che trasformò la sua piccola casa editrice veronese di libri per ragazzi, si affermò il primo vero editore industriale italiano6. Trattando il libro come un oggetto di largo consu-mo, Mondadori seppe rivolgersi a un pubblico non omogeneo, comprendente tipologie sociali diversificate e non più di élite, orientate all’intrattenimento e al disimpegno, svincolandosi da scelte precise di destinatario. Pertanto, come si vedrà meglio più avanti, l’imprenditore milanese adottò la strategia della diver-sificazione della produzione, dando vita a nuovi prodotti editoriali con l’utilizzo di diversi strumenti: libri, settimanali, pubblicazioni periodiche.

Oltre all’emergere di grandi gruppi editoriali, nel corso degli anni Venti e Trenta si affacciarono sul mercato librario anche case editrici di dimensioni più ridotte, alcune delle quali destinate ad assumere un ruolo di rilievo nel panora-ma culturale del dopoguerra. Ad esempio, nel 1926 a Venezia aprì i battenti La Nuova Italia che si impegnò in una produzione vocata all’impegno civile. Nel 1929 invece avviò l’attività editoriale Valentino Bompiani che si aprì non solo alla letteratura ma anche alla saggistica. Qualche anno dopo, nel 1933 a Torino nacque la casa editrice Einaudi, animata da intellettuali e letterati come Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Massimo Mila, Elio Vittorini, e caratterizzata da un pro-filo militante sul modello gobettiano. Alla metamorfosi dell’editoria nazionale corrispose una trasformazione della geografia editoriale, sulla scia dei muta-menti innescati nel secondo Ottocento. Infatti in questi anni si registra il passag-gio da una mappa editoriale policentrica, contrassegnata dal tradizionale ruolo egemone di Firenze, al progressivo predominio delle realtà metropolitane di Mi-lano e Torino. Il primato editoriale passò così dal capoluogo toscano ai maggiori centri urbani del nord Italia dove si concentrarono editori di notevoli capacità produttive. La leadership delle imprese lombarde e torinesi contribuì al declino dell’egemonia culturale di Firenze dove erano attive fin dall’età risorgimentale prestigiose case editrici come Le Monnier e Barbera7 ma anche Vallecchi (fonda-ta nel 1913) oltre a riviste come “La Voce” ed altri periodici editi o distribuiti dalla stessa Vallecchi. L’illustre tradizione editoriale fiorentina nel corso degli anni Trenta-Quaranta dovette dunque lasciare il passo alla realtà editoriale di Milano

6 Sugli esordi e la parabola ascendente della Mondadori, cfr. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, Mila-no, Mondadori, 2007, pp. 1-76; A. Gimmi, Mondadori: collane, autori e tendenze dagli esordi agli anni Quaranta, in Editori e piccoli lettori tra Otto e Novecento, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 159-172.7 Riferimenti essenziali sull’importante ruolo dell’editoria fiorentina nella fase ottocentesca sono rinvenibili in A.G. Marchetti, Le nuove dimensioni dell’impresa editoriale, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, cit., pp. 134-137.

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che consolidò in questi anni il suo primato divenendo la capitale dell’editoria e del mercato librario italiano. Tale processo, attestato anche dall’insediamento lombardo di numerose riviste (oltre che dei grandi quotidiani nazionali), ebbe modo di svilupparsi grazie anche alla concentrazione del capitale finanziario e al crescente processo di industrializzazione8. La modifica degli equilibri editoria-li si sarebbe riflessa anche nel fenomeno della diffusa emigrazione intellettua-le dalla “provincia” italiana nelle metropoli del nord Italia negli anni Trenta. In particolare Milano diventò un centro capace di attrarre intellettuali provenienti da varie realtà della penisola (oltre a Eugenio Montale, Elio Vittorini, Massimo Bontempelli, Giansiro Ferrata, Cesare Zavattini, Giovannino Guareschi, per non citarne che alcuni), affermandosi come un polo strategico per attività e iniziative culturali9.

La modernizzazione del sistema editoriale italiano si manifestò anche nell’in-novazione, sperimentazione e sviluppo di nuovi prodotti destinati a creare un vero e proprio sistema dei media10. In questa direzione si inquadra la diffusione della letteratura scolastica e per ragazzi che diventò un veicolo fondamentale per l’affermazione ideologica del regime. In particolare l’espansione dell’edito-ria scolastica si collegava strettamente alla riforma della scuola e all’attenzione del fascismo per l’educazione nazionale sicché il settore della produzione dei testi scolastici ebbe un notevole impulso11. Analogamente anche il filone della narrativa per ragazzi conobbe una significativa crescita con l’ingresso in que-sto mercato di molti editori, anche di notevole forza imprenditoriale, dando vita a una vera e propria moderna editoria per ragazzi12. Negli anni Trenta si svi-lupparono collane specializzate per i ragazzi13, talora anche sotto la spinta di editori interessati ad affermarsi nel campo del pubblico giovanile. Esemplare è il caso di Enrico Vallecchi, editore tra l’altro della collana “Vallecchi per i ragaz-

8 Su questo aspetto, tra gli altri, R. De Berti, La nascita dell’editoria contemporanea milanese, in Libri giornali e riviste a Milano, Milano, Abitare Segesta, 1998, pp. 117-122; A. Scotto di Luzio, L’indu-stria dell’informazione, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, Torino, Einaudi, 2001, pp. 348-374. Per un inquadramento di carattere generale, cfr. Ferretti, Storia dell’editoria let-teraria in Italia, cit., pp. 46-47. 9 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Editoria e cultura a Milano tra le due guerre (1920-1940). Milano 19-20-21 febbraio 1981. Atti del convegno, Milano, Mondadori, 1983.10 E. Scarpellini, L’industria culturale e il mercato dell’editoria, in Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e guerra, Milano, Cisalpino, 2009, pp. 77-78.11 M. Galfré, Il regime degli editori. Libri, scuola e fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2005.12 G. Turi, Editoria per ragazzi: un secolo di vita, in Editori e piccoli lettori tra Otto e Novecento, cit., p. 17. Più in generale sul tema, cfr. A. Scotto di Luzio, L’appropriazione imperfetta. Editori, bibliote-che e libri per ragazzi durante il fascismo, Bologna, Il Mulino, 1996. 13 Emblematica al riguardo è la collana di letteratura per l’infanzia “La scala d’oro” diretta dal 1932 da Vincenzo Errante e Fernando Palazzi della casa editrice Utet.

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zi”, che invitò lo scrittore reggiano Silvio D’Arzo a cimentarsi con questo genere letterario14. Si ampliò anche l’offerta differenziata per ragazzi e ragazze, per le quali l’attenzione crebbe notevolmente. Fra gli autori ebbero un ruolo impor-tante anche donne dell’aristocrazia intellettuale come Daria Malaguzzi Valeri, scrittrice di romanzi per giovinette tra cui Jagul e Pali premiato nel 1939 con il Premio Bologna15. A questo filone si collega un altro genere di consumo in forte espansione, la letteratura femminile, che in questi anni si arricchì di una quantità crescente di periodici16. Il variegato panorama delle riviste rivolte al pubblico femminile (comprendente noti rotocalchi mondadoriani come “Grazia”, nata nel 1938)17, oltre a costituire un osservatorio privilegiato per indagare i modelli cul-turali proposti dal regime alle donne italiane, testimonia la vitalità dell’editoria italiana di quegli anni18. In questo ambito sono poi da menzionare le collane di “romanzi rosa” di alcune case editrici che contribuirono all’affermazione di un folto gruppo di scrittrici come Liala (Liana Cambiasi Negretti Odescalchi), Flavia Steno (Amelia Osta Cottini), Rina Maria Pierazzi, Carola Prosperi, Willy Dias (For-tunata Morpurgo Petronio), Teresah (Corinna Teresa Ubertis Gray), Milly Dando-lo e Mura (Maria Volpi)19.

L’allargamento dei generi editoriali si manifestò anche nell’ampia diffusione di periodici d’intrattenimento o di pura evasione rivolti a un pubblico ampio e differenziato. Questo modello, di derivazione europeo ed americano, risultava

14 Risale infatti al 12 febbraio 1943 la lettera di Enrico Vallecchi nella quale l’editore si rivolge allo scrittore reggiano Silvio D’Arzo (1920-1952) per «sapere se vi sorriderebbe l’idea di scrivere per conto nostro un libro per i ragazzi. Con la vostra fantasia, che si accende anche nelle occasioni più modeste, mi sembra che potreste riuscire brillantemente anche nel settore della letteratura infantile» (Silvio D’Arzo - Enrico Vallecchi. Carteggio 1941-1951, a cura di A.L. Lenzi, in “Contributi”, 1984, nn. 15-16, p. 72).15 Sull’opera letteraria di Daria Malaguzzi Valeri (1883-1979), cfr. L. Margherita Alfieri, Tra le carte di Daria Banfi Malaguzzi Valeri conservate nell’archivio dell’Istituto Antonio Banfi al Mauriziano, in “Il Pescatore reggiano”, 2011, pp. 65-87. 16 R. De Longis, Stampa femminile, in Dizionario del fascismo, cit., vol. II, pp. 681-681-685. Per un inquadramento della tradizione della letteratura del genere femminile nell’Italia tra Otto e No-vecento, cfr. A. Chemello, La letteratura popolare e di consumo, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, cit., pp.182- 187. 17 P. Landi, «La rivista ideale della donna italiana». I primi passi di “Grazia” tra innovazione e infor-mazione, in Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e guerra, cit., pp. 235-304.18 Sulle riviste femminili, tra i vari lavori disponibili, cfr. E. Mondello, La nuova italiana. La donna nella stampa e nella cultura del Ventennio, Roma, Editori Riuniti, 1987; V. de Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993; S. Salvatici, Il rotocalco femminile: una presenza nuova negli anni del fascismo, in Donne e giornalismo. Percorsi e presenze di una storia di genere, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 110-126; E. Mosconi, Irene, Luciana, Mura e le altre. La cronaca mondana e di costume, in Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e guerra, cit., pp. 443-467.19 Tranfaglia, Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., p. 301; R. Pickering-Iazzi, Romanzi rosa, in Dizionario del fascismo, cit., vol. II, pp. 544-545.

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fortemente condizionato dall’avvento di una cultura visiva legata al linguaggio cinematografico. In particolare l’irruzione del rotocalco popolare nel panorama della carta stampata italiana, caratterizzata dall’uso innovativo delle immagi-ni rappresenta un capitolo fondamentale nell’affermazione del nuovo “lettore-spettatore” dei mass-media20, destinato a coinvolgere anche una componente significativa del mondo dell’intellettualità nazionale (da Vittorini a Bontempelli, da Alvaro a Brancati fino a Soldati e Barilli)21. Figura chiave di questa nuova ten-denza fu Cesare Zavattini, esempio d’intellettuale-editore22 che sul finire degli anni Trenta si affermò tra i protagonisti della scena editoriale italiana. Dando impulso all’ideazione di nuovi periodici o alla trasformazione di testate storiche, «il deus ex machina di tutta l’editoria milanese degli anni Trenta»23 fu tra i princi-pali artefici dei più venduti rotocalchi popolari nelle vesti di direttore editoriale dapprima alla Rizzoli24 e quindi alla Mondadori25. Ma non furono solo i periodici ad affermarsi come genere di largo consumo. Accanto a essi nacquero altre nuo-ve forme editoriali come i “libri gialli” grazie alla nascita nel 1929 della collana dei “Gialli Mondadori” importata dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra26. Il successo ottenuto indusse l’editore milanese ad aggiungere nel 1933 la collana dei “Gialli economici”, con supplemento annuale del “Supergiallo” che raccoglieva di vol-ta in volta la produzione migliore dei singoli autori27. Un altro indicatore della modificazione dell’offerta libraria è costituita dall’avvento dei fumetti. Anche in questo caso fu cruciale l’apporto di Zavattini, direttore editoriale della Walt

20 R. De Berti, Il nuovo periodico. Rotocalchi tra fotogiornalismo, cronaca e costume, in Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e guerra, cit., p. 13. 21 Ivi, p. XII.22 Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia, cit., p. 40.23 G. Conti, Cesare Zavattini direttore editoriale. Le novità nei rotocalchi di Rizzoli e Mondadori, in Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e guerra, cit., p. 424.24 Nell’ambito dei periodici Rizzoli si ricordano in particolare il giornale satirico umoristico “Marc’Aurelio”, il giornale satirico “Bertoldo”, “AnnaBella” e “Cinema Illustrazione”.25 Tra i periodici mondadoriani d’impronta zavattiniana si devono menzionare almeno la rivista dai contenuti vari “Le Grandi firme”, il settimanale umoristico “Settebello”, il giornale di divulgazione scientifica “Il Giornale delle meraviglie”, il settimanale di letteratura e varietà “Il Milione” fino al settimanale d’attualità “Tempo”, antesignano dei grandi periodici d’informazione del dopoguerra. Sul ruolo di Zavattini nella casa editrice milanese è particolarmente eloquente il ricco carteggio dello scrittore emiliano con Arnoldo Mondadori conservato presso l’Archivio Cesare Zavattini della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, Epistolario, Carteggio con Alberto Mondadori (corr M 893). 26 «Nel 1930, Alessandro Varaldo pubblicò Il sette bello, di ambientazione romana: significativa nella prima edizione la dedica dell’autore all’editore Arnoldo Mondadori, dove si rivendicava con orgoglio la composizione del primo giallo italiano» (A. Pecoraro, Romanzi gialli, in Dizionario del fascismo, cit., vol. II, pp. 543).27 M. Carpi, Cesare Zavattini direttore editoriale, Reggio Emilia, Aliberti, 2002, p. 28.

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Disney-Mondadori28, che nel 1936 cominciò a pubblicare I tre porcellini, quindi con notevole successo Topolino29 e poi Paperino. 

Peraltro, la transizione dal predominio culturale francese, di cui il prodot-to tipico era il romanzo popolare ottocentesco, all’egemonia americana30 è do-cumentata anche dalla comparsa negli anni Trenta dei fumetti di fantascienza. Ancora una volta giocò un ruolo fondamentale la febbrile creatività di Zavattini che inventò nel 1936 il primo fumetto italiano di fantascienza, Saturno contro la Terra, sul modello del Flash Gordon americano31. Il serial, sceneggiato da Federi-co Pedrotti, ottenne grande successo nonostante le diffidenze ed i sospetti antia-mericani che pervadevano larghi settori della cultura italiana degli anni Trenta32. In effetti sebbene le direttive del Minculpop già dal 1938 misero al bando le strip straniere, la Mondadori fu autorizzata a proseguire con le storie firmate Disney fino all’entrata in guerra dell’Italia contro gli Stati Uniti quando anche l’editore milanese dovette adeguarsi alle direttive del regime33.

2. Editoria e regime fascista

Le dinamiche alle quali si è fatto cenno, legate all’evoluzione del sistema edito-riale italiano, si confrontarono tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento con i vincoli e i condizionamenti del quadro politico-istituzionale. I contraccolpi desti-nati a incidere sulla condizione complessiva dell’editoria sono evidenti anzitutto a partire dal coinvolgimento del settore editoriale nelle strutture economiche nazionali. In effetti l’editoria italiana aveva sperimentato una prima crisi di pro-duzione all’inizio degli anni Venti inducendo buona parte degli editori, salvo

28 Decleva, Arnaldo Mondadori, cit., pp. 234-238.29 In effetti alla fine degli anni Trenta la tiratura settimanale di “Topolino” raggiungeva le 130.000 copie. 30 M. Iolanda Palazzolo, L’editoria verso un pubblico di massa in Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1993, vol. II, p. 296.31 L. Tamagnini, Il fanta-Zavattini. I fumetti fantascientifici di Cesare Zavattini. Considerazioni su un’attività poco nota a vent’anni dalla morte del grande artista luzzarese, in “L’Almanacco”, 2009, n. 53, pp. 117-119.32 Sulla diffusa ostilità antiamericana nell’Italia degli anni Trenta, cfr. M. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta, Torino, Bollati Boringhieri, 1989.33 Decleva, Arnaldo Mondadori, cit., pp. 261-262.

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qualche eccezione, a sostenere il fascismo34. Nel corso degli anni Trenta il rap-porto s’intensificò grazie anche all’avvento di una dinamica basata sulla conces-sione di agevolazioni economiche a fronte del rispetto della censura e dell’alli-neamento preventivo alle politiche del regime. In tal modo l’industria editoriale italiana divenne un settore fortemente protetto dalle autorità governative. Il regime, infatti, all’insegna dello slogan «Libro e moschetto, fascista perfetto» (lanciato in occasione della prima “Festa del libro” del 1927) intervenne su vari aspetti del mondo editoriale: attuò una politica di sgravi fiscali e di facilitazioni delle spedizioni postali e ferroviarie; incentivò le edizioni nazionali dell’Opera Omnia di diversi autori35; promosse la distribuzione dei libri italiani, attraverso l’organizzazione di mostre e fiere in Italia e all’estero; creò, nel 1926, la Federa-zione nazionale fascista dell’industria editoriale; impose nel 1928 il libro unico per le scuole elementari affidando la stampa, la rilegatura e la distribuzione alle case editrici; finanziò e promosse collane di carattere propagandistico di molti editori; contribuì al risanamento economico di imprese editoriali entrate in crisi a causa delle trasformazioni scolastiche imposte dal regime36. Inoltre le autorità statali diedero un notevole impulso alla committenza pubblica37: la rete delle biblioteche pubbliche fu chiamata a supportare la crisi dell’editoria, operando di fatto un monopolio di alcune case editrici38.

Le politiche di sostegno economico al sistema editoriale furono accompagna-te dal processo di fascistizzazione delle strutture culturali che, nel quadro delle più ampie strategie pedagogiche perseguite tramite i media (in primo luogo il cinema39, ma anche la radio e la stampa), determinò una politicizzazione del

34 P. Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Milano, Utet, 2008, p. 218.35 Ad esempio, nel 1937 fu inaugurata l’edizione nazionale delle Opere di Manzoni curata da Mi-chele Barbi per conto della Sansoni, nel 1939 fu promossa l’edizione nazionale delle opere di Vit-torio Alfieri a cura del Centro nazionale di studi alfieriani e nel 1940 furono eletti i comitati per le opere di Alessandro Volta e Niccolò Tommaseo.36 Emblematico è il caso della Bemporad, cfr. C. Betti, L’editoria scolastica della Bemporad, in Paggi e Bemporad editori per la scuola, Prato, Giunti, 2007, pp. 138-142.37 G. Pedullà, Gli anni del fascismo: imprenditoria privata e intervento statale, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, cit., p. 378.38 «Nel 1932 nacque l’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche che, sostituendosi all’Associazione nazionale fascista per le biblioteche delle scuole italiane, si propone la divulga-zione di testi educativi – dal 1926 al 1937 il Ministero della pubblica istruzione (poi trasformato in Ministero dell’educazione nazionale) investe circa 40 miliardi di lire nell’acquisto di oltre 1.500.000 volumi destinati alle biblioteche governative – e l’allargamento del numero delle biblioteche po-polari» (ivi, p. 356).39 Vale la pena rimarcare che a partire dagli anni Sessanta diversi studi hanno considerato il cinema come un indicatore particolarmente significativo delle politiche di propaganda promosse dal regi-me nella sua battaglia di fascistizzazione della società italiana. Tra i lavori più recenti si segnala: A. Venturini, La politica cinematografica del regime fascista, Roma, Carocci, 2015.

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mondo editoriale. Di conseguenza esponenti di fiducia del regime s’insediarono al vertice di case editrici ed istituzioni culturali mentre si attuò un processo d’in-quadramento delle varie componenti dell’intellettualità in sindacati corporativi. In questo contesto un ruolo nevralgico fu assunto dalla figura centrale della vita culturale italiana del Ventennio: Giovanni Gentile. In effetti l’egemonia dell’in-tellettuale siciliano durante il fascismo non si esercitò solo mediante la direzio-ne di istituti e organismi culturali (a partire dall’Istituto Giovanni Treccani creato nel 1925 per la pubblicazione dell’Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti)40, ma anche mediante fitti rapporti con il circuito editoriale italiano. In parti-colare Gentile tra il 1934-1936 fu presente contemporaneamente nei consigli di amministrazione delle case editrici Sansoni, Bemporad e Le Monnier, esercitan-do in tal modo la sua influenza sull’ambiente editoriale fiorentino41.

In questo quadro l’azione pervasiva della politica all’interno del sistema edi-toriale si dispiegò anche attraverso una gamma diversificata di strumenti di pres-sione: dalla facoltà dei funzionari di concedere un permesso di pubblicazione42 passando per veline e rapporti politici preferenziali fino alle direttive del Ministe-ro della Cultura popolare rivolte anche all’attuazione di una vera e propria “au-tarchia editoriale”. Sul finire degli anni Trenta le pratiche censorie s’inasprirono portando nel 1938 ad un’ulteriore svolta repressiva, anche attraverso un’opera di «bonifica libraria» affidata ad un’apposita commissione preposta al controllo dei libri stranieri43; in quella congiuntura si registrano anche la chiusura di alcuni pe-riodici “scomodi”, le sistematiche intimidazioni all’Einaudi e alla Laterza, il blocco di nuove traduzioni, il ritiro di libri stranieri e soprattutto di autori ebrei dopo l’e-manazione delle leggi razziali fino al sequestro di molti titoli di varie case editrici.

Ciononostante, con il fascismo non si determinò una totale omologazione dell’editoria italiana e la mappa degli editori appare piuttosto composita44. In ef-fetti, pur con gli inevitabili compromessi45, il quadro complessivo risulta articola-

40 Pedullà, Gli anni del fascismo: imprenditoria privata e intervento statale, cit., pp. 364-365.41 Sull’“imperialismo intellettuale” di Gentile, cfr. Tranfaglia, Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., pp. 263-280.42 I. Piazzoni, I periodici italiani negli anni del regime fascista, in Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e guerra, cit., p. 93.43 Dall’aprile 1938 tutte le opere di autori stranieri dovevano sottostare al nulla osta del Ministero della Cultura popolare; subito dopo gli autori ebrei vennero epurati dai cataloghi editoriali. Cfr. Pedullà, Gli anni del fascismo: imprenditoria privata e intervento statale, cit., p. 377.44 La sintetica ricostruzione della geografia editoriale svolta in queste pagine è basata essenzial-mente sulle due storie dell’editoria di maggiore rilievo, quella a cura di Gabriele Turi (Storia dell’e-ditoria nell’Italia contemporanea, cit.) e quella curata da Nicola Tranfaglia e Albertina Vittoria (Sto-ria degli editori italiani: dall’unità alla fine degli anni Sessanta, cit.), oltre che su studi dedicati a singole case editrici. 45 «Certamente quasi per tutti fu necessario – per sopravvivere – giungere a compromessi e inserire

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to e meritevole di una serie di distinguo. Accanto ad editori che assecondarono esplicitamente il regime pubblicando opere di propaganda e di divulgazione del fascismo (tra cui Carish e Ravagnati di Milano, Chiurazzi di Napoli)46, si registra l’attività di un’editoria organica al regime in grado tuttavia di mantenere uno spa-zio culturale su cui apporre la propria impronta. Ad esempio la stessa Vallecchi, la casa editrice nel capoluogo toscano considerata più vicina al fascismo e punto di riferimento di buona parte dell’intellettualità del regime (in quanto editore di Gentile, dell’idealismo, dei nazionalisti nonché di testi di propaganda47 e sulla legislazione fascista), non mancò di esprimere umori e spinte culturali non del tutto consoni alla politica culturale fascista48. D’altro canto anche La Nuova Ita-lia di Venezia (trasferita a Perugia e quindi a Firenze nel 1930), oltre a coltivare uno stretto rapporto con l’idealismo gentiliano e il mercato scolastico di regime, ebbe modo di dare spazio a intellettuali non allineati: intorno al giovane editore gravitarono infatti una serie di personalità che stavano maturando una crescente insofferenza per il fascismo aprendosi a filoni di cultura innovativi (soprattutto in campo storiografico, pedagogico e filosofico). Emblematico è il caso di Antonio Banfi che, pubblicando nel 1926 presso la Nuova Italia la sua maggiore opera, I principi di una teoria della ragione, apriva la cultura filosofica italiana alla cono-scenza della scuola di Marburgo e della fenomenologia di Edmund Husserl49.

Passando ai grandi editori lombardi, non c’è dubbio che l’impresa di Arnoldo Mondadori si segnala come una delle case editrici più attive nell’utilizzare le mediazioni politiche, godendo anche di ampi favori da parte dell’establishment politico e culturale50. Emblematico fu il ruolo dell’editore lombardo nella realiz-zazione del testo unico di stato per le scuole elementari, iniziativa che avvantag-

nei propri cataloghi testi consoni alla politica e all’ideologia dominanti; così come molti accettaro-no le commesse che gli enti governativi stabilivano per la pubblicazione di opere o libri scolastici» (Tranfaglia, Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., p. 250).46 Ivi, p. 250.47 Ad esempio, nel 1926 Vallecchi pubblicò il Vademecum del perfetto fascista, una raccolta di assiomi che contribuì alla diffusione del culto della personalità di Mussolini.48 Si ricorda il sostegno ad «un genere di esperienza letteraria e poetica – basti solo pensare all’er-metismo – che nei fatti cozzava contro i roboanti miti imperiali del regime. Anche sul versante stori-co e filosofico, accolse studi e collaboratori nei fatti non più consoni alla politica culturale fascista» (Tranfaglia, Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., p. 287).49 F. Rizzo, I primi studi su Husserl in Italia: tra Antonio Banfi e Guido De Ruggiero, in Le avanguardie della filosofia italiana nel XX secolo, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 169-183.50 Sul rapporto tra Mondadori e il fascismo tra i vari materiali disponibili sull’argomento, cfr. De-cleva, Arnoldo Mondadori, cit.; G.B. Guerri, La Mondadori e la politica del ventennio, in Editoria e cultura a Milano tra le due guerre, cit., pp. 87-92; Università degli Studi di Milano, Centro Apice, Edi-tori durante il fascismo. Allineamento e distacco, in https://users.unimi.it/apice/mostre/decennale/percorso_editoria.html

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giò soprattutto lo stesso Mondadori. Sempre nel campo scolastico poi instaurò positivi rapporti con il ministro Alessandro Casati, ottenendo la stampa degli “An-nali della Pubblica istruzione”51. Mondadori fu poi la casa editrice che si occupò di pubblicare l’opera omnia di D’Annunzio52, nonché diverse opere apologetiche del regime tra cui la biografia di Mussolini, Dux, scritta da Margherita Sarfatti; inoltre diede alle stampe buona parte dei libri della nomenklatura del regime oltre al catechismo politico del fascismo nella versione per le scuole elementari e per le scuole medie. Tuttavia l’esperienza della Mondadori non può essere ri-dotta solamente alla “produzione di regime” che rimase comunque quantitativa-mente limitata53. In effetti, l’azione di fiancheggiamento editoriale del fascismo non pose la casa editrice al riparo da divieti e restrizioni. Ad esempio, sul finire degli anni Trenta si registra la chiusura forzata di diversi periodici mondadoria-ni (nel 1938 il settimanale “Le Grandi firme” fu soppresso dalla censura fasci-sta54 mentre nel 1939 furono chiusi “Il Milione”, “Ecco” e “Novellissima”55). Inoltre all’interno della Mondadori operarono collaboratori antifascisti e l’editore non mancò di pubblicare anche volumi lontani dalla retorica del regime56, in parti-colare nell’ambito letterario; si permise poi di mettere in vendita fino a guerra iniziata traduzioni di autori di stranieri sottoposti al veto della censura.

Dunque, nel panorama nazionale del Ventennio «l’editoria milanese mostra un sostanziale allineamento al fascismo»57 e anche il rapporto tra il regime e la casa editrice Rizzoli appare improntato a una sostanziale reciproca convenienza e convergenza d’interessi58, sebbene non del tutto priva di punti di frizione. Vale la pena di ricordare che anche la Rizzoli dovette fare i conti con la censura fa-scista con la brusca soppressione nel 1939 del settimanale di attualità politica e letteraria di Leo Longanesi “Omnibus”59.

51 Pedullà, Gli anni del fascismo: imprenditoria privata e intervento statale, cit., p. 349.52 Sul rapporto tra Mondadori e D’Annunzio, cfr. P. Chiara, D’Annunzio, in Editoria e cultura a Milano tra le due guerre (1920-1940), cit., pp. 179-187.53 «Per quanto certamente significativa e ricca di oggettivi vantaggi da più punti di vista, la produ-zione per dir così di regime rappresentava […] quanto a titoli, meno del 10% del totale» (Decleva, Arnaldo Mondadori, cit., p. 223).54 Carpi, Cesare Zavattini direttore editoriale, cit., pp. 94-95.55 Ivi, p. 122.56 Decleva, Arnoldo Mondadori, cit., in particolare pp. 139-147.57 Pedullà, Gli anni del fascismo: imprenditoria privata e intervento statale, cit., p. 350.58 Ad esempio, tra le entrate della Rizzoli si contano, tra l’altro, quelle provenienti dall’incarico di stampare le fotografie del re e di Mussolini per tutte le scuole del Regno. Cfr. Tranfaglia, Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., p. 320.59 Sul controverso ruolo frondista svolto da Longanesi con “Omnibus”, cfr. I. Granata, Tra politica e attualità. L’”Omnibus” di Leo Longanesi, in Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e

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Il caso della Bompiani di Milano è invece rappresentativa dell’ambiguità de-gli orientamenti di una componente “impegnata” del mondo editoriale: in effet-ti, pur pubblicando testi di regime (come l’edizione italiana del Mein Kampf di Hitler nel 1934) si dedicò anche a iniziative editoriali non del tutto ortodosse; in effetti il catalogo Bompiani si caratterizzò per una notevole apertura verso la letteratura straniera (specialmente anglosassone), diventando bersaglio della censura fascista60. Inoltre, nell’ambito della saggistica tra le collane più impor-tanti si ricorda quella filosofica, “Idee nuove”, diretta da Antonio Banfi a partire dal 1934 con un programma di valorizzazione di nuove correnti di pensiero (l’e-sistenzialismo, il pragmatismo, lo storicismo, la fenomenologia), in antitesi con l’egemonia dell’idealismo gentiliano e crociano61.

Rivolgendo lo sguardo al panorama editoriale non assimilabile alla cultura fascista appare fondamentale il ruolo della casa editrice Laterza di Bari62, fonda-ta nel 1901 che legò la sua fortuna a Benedetto Croce di cui pubblicò la serie del-le opere complete63. Infatti, «l’editore barese divenne […] il riferimento simbolico di chi non approvava i principi fondamentali della cultura fascista e sopportò con fermezza eccezionale i problemi che gli derivavano dall’essere editore delle opere di Croce e di opere non gradite al regime»64. L’esperienza della Laterza du-rante il Ventennio fu dunque segnata da contrasti con le autorità statali e dalla rottura con Gentile per la pubblicazione della Storia d’Italia di Croce nel 192865.

L’altro centro propulsore di una cultura non allineata fu la casa editrice Ei-naudi, destinata ad assumere la fisionomia di una «giovane Laterza» torinese66

guerra, cit., pp. 123-210.60 Ad esempio, l’importante antologia di Vittorini, Americana. Raccolta di narratori dalle origini ai giorni nostri, venne bloccata dal Ministro della Cultura popolare nel 1941. Cfr. Tranfaglia, Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., p. 371.61 Cfr. al riguardo il carteggio di Antonio Banfi con l’editore Bompiani in Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, Archivio Antonio Banfi, Serie I/3 Corrispondenza con le case editrici, fasc. 3. 62 Sull’esperienza e l’importante contributo della Laterza alla vita culturale italiana del Novecento, tra gli altri, E. Garin, La casa editrice Laterza e mezzo secolo di cultura italiana, in La cultura italiana tra ‘800 e ‘900, Bari, Laterza, 1962, pp. 155-173; C. Patuzzi, Laterza, Napoli, Liguori, 1982; D. Coli, Croce Laterza e la cultura europea, Bologna, Il Mulino, 1983; Mancini, L’Archivio Laterza e la storia dell’editoria negli anni del fascismo, cit. 63 B. Croce-G. Laterza, Carteggio 1901-1910, a cura di A. Pompilio, Roma-Bari, Laterza, 2004.64 Mancini, L’Archivio Laterza e la storia dell’editoria negli anni del fascismo, cit., p. 43.65 Come noto, il lungo rapporto editoriale tra Giovanni Laterza e Giovanni Gentile si interruppe nel 1928 per la decisione dell’editore di assecondare il rifiuto crociano di attenuare un giudizio su Gentile nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915.66 L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 43.

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in quanto autorevole punto di riferimento di intellettuali oppositori del regime67. Pur non mancando anche in casa Einaudi casi di cedimento nei confronti del fa-scismo (come i libri di propaganda della guerra d’Etiopia e di quella di Spagna), nel complesso l’editore mantenne «la fama di centro di cultura estraneo, se non ostile al regime»68: gli arresti del 1934-5 portarono in carcere diversi aderenti to-rinesi di “Giustizia e Libertà” legati all’Einaudi e anche Roberto e Giulio Einaudi furono imprigionati con l’accusa di cospirazione contro lo Stato. Nel 1936, con la ricostituzione del nucleo dirigente della casa editrice, Leone Ginzburg assunse una funzione centrale nell’impostazione editoriale ideando e seguendo anche le prime importanti collane (“La biblioteca di cultura storica”, i “Saggi”, i “Narratori stranieri tradotti”)69.

Tra le altre voci ideologicamente estranee al fascismo si ricordano in parti-colare l’attività editoriale di Piero Gobetti a Torino70 oltre a due esperienze sorte nell’area emiliana e accomunate da un intenso impegno morale e civile: Guanda (fondata nel 1932 da Ugo Gualandini)71 e Formiggini72. Quest’ultima, fortemente penalizzata dalla censura fascista, si concluse drammaticamente con il suicidio di Angelo Fortunato Formiggini come estremo atto di protesta contro le leggi razziali.

Infine, una sommaria perlustrazione degli assetti editoriali italiani non può trascurare la produzione espressione delle principali culture politiche popolari emerse nel passaggio tra Otto e Novecento. Esaurita la breve esperienza dell’e-ditoria “militante” socialista73, assunse un ruolo significativo l’editoria cattolica che dopo la Prima guerra mondiale conobbe un rilevante sviluppo strutturale e qualitativo74. Infatti, nel quadro di una rinnovata attenzione ai temi della forma-

67 Sulla vicenda storica della casa editrice torinese, oltre all’opera realizzata per il 50° anniversario (Cinquant’anni di un editore. Le edizioni Einaudi negli anni 1933-1983, Torino, Einaudi, 1983), è d’ob-bligo il rinvio all’accurato lavoro di Mangoni, Pensare i libri, cit. 68 A. D’Orsi, Einaudi, casa editrice, in Dizionario del fascismo, cit., vol. I, p. 459. 69 Tranfaglia, Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., p. 382.70 In particolare si ricordano le riviste “Energie nove” (1918-1920), “La Rivoluzione liberale” (1921-1925) e “Il Baretti” (1924-1928) con la fondazione della società Arnaldo Pittavino come organismo editoriale con un preciso obiettivo culturale e “spirituale”. 71 M. Giuffredi, La fenice. Decadenza e grandezza dell’editoria parmigiana, in Editoria e cultura in Emilia Romagna dal 1900 al 1945, Bologna, Editrice Compositori, 2007, pp. 34-39.72 Sull’azienda editoriale di Angelo Fortunato Formiggini, tra gli altri, G. Montecchi, Itinerari biblio-grafici. Storie di libri, di tipografi e di editori, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 156-176.73 M. Ridolfi, La breve stagione dell’editoria socialista, in Storia dell’editoria nell’Italia contempora-nea, cit., pp. 321-338.74 Sull’editoria cattolica del primo dopoguerra, cfr. F. Traniello, L’editoria cattolica tra libri e riviste, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, cit., pp. 313-319; R. Sani, Editori cattolici ed educa-zione della gioventù tra le due guerre in Editori e piccoli lettori tra Otto e Novecento, cit., pp. 198-

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zione cristiana delle nuove generazioni, gli editori di stampo confessionale pote-rono godere di maggiore libertà d’azione, nonostante i condizionamenti del re-gime, specialmente dopo il Concordato fra Stato e Chiesa. Le diverse sensibilità dell’editoria cattolica nei confronti del governo sono ben rappresentate da Vita e Pensiero e dalla Morcelliana di Brescia. La prima, fondata nel 1918 in stretta re-lazione con l’Università Cattolica di Milano, agì all’interno del regime nell’ottica di giungere alla realizzazione di un “fascismo cattolico”, secondo la strategia di padre Gemelli. La nascita della casa milanese Vita e Pensiero fu seguita nel 1925 dalla Morcelliana di Brescia. Diversamente dal precedente, collegato agli organi istituzionali della Chiesa, l’editore bresciano trovò particolare attenzione presso i movimenti dei laureati cattolici e in settori non irreggimentati del cattolicesimo italiano. Grazie anche a un catalogo aperto alle suggestioni del cattolicesimo europeo75, la Morcelliana evidenziò una certa indipendenza ed un’insofferenza al conformismo del regime.

209; Tranfaglia, Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., pp. 394-403.75 La Morcelliana promosse un programma di valorizzazione della cultura teologica europea sic-ché «a parte il volume di esordio, costituito da una nuova versione italiana dei Vangeli, l’editrice bresciana si dedicò quasi esclusivamente, nei suoi primi anni di vita, a un lavoro di traduzioni dal francese, dall’inglese e dal tedesco» (Traniello, L’editoria cattolica tra libri e riviste, cit., p. 318).

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 195-204

Introduzione

Il termine eugenics fu coniato nel 1883 da Francis Galton, cugino del più noto Charles Darwin, con l’obiettivo di identificare un nuovo campo di studi utile a frenare le degenerazioni umane, attraverso una tensione costante al migliora-mento del materiale biologico delle popolazioni. Si provava ad arginare la pau-ra, sempre più grande, dell’uomo moderno che grazie alle spinte della nascente società di massa, sul finire dell’Ottocento, aveva subìto una mutazione antropo-logica che ne aveva messo in discussione l’ottimismo verso un futuro sempre più radioso.

Il programma eugenetico, inteso come modello di ingegneria sociale fondato sulla razionalizzazione dei processi riproduttivi, ha trovato grande spinta subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, affascinando i governi di molti paesi, tanto del nord quanto del sud del mondo, attraverso la promessa di protezione alle future generazioni dagli incipienti processi connessi ai mutamenti in corso. Per lungo tempo l’eugenetica è stata studiata solo nella sua versione “nordica”, ovvero nella declinazione anglo-americana o tedesco-scandinava. A partire da-gli anni Settanta del secolo scorso la storiografia1 ha invece messo in evidenza la presenza di una corrente di studi e pratiche eugenetiche di carattere “latino”, ampiamente diffusa nei paesi di matrice cattolica, formalizzando definitivamen-te l’immagine dell’eugenetica come un campo di studi articolato, di portata in-

1 Mark B. Adams, Towards a Comparative History of Eugenics, in Id., The Well-Born Science: Euge-nics in Germany, France, Brazil, and Russia, New York, Oxford University Press, 1990.

EugeneticaGABRIELE LICCIARDI

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ternazionale, e fortemente legato alle caratteristiche politiche sociali e culturali dei diversi paesi che hanno istituzionalizzato pratiche eugenetiche.

Nonostante la particolarità del caso italiano, dovuta alla forte ingerenza del-le istituzioni cattoliche e all’ingombrante presenza della dittatura fascista, alme-no fino a metà anni Ottanta non sono stati prodotti studi di una certa rilevanza. Ma da quel momento un panorama interpretativo abbastanza arido ha comin-ciato a mostrare i primi frutti, in alcuni casi inevitabilmente acerbi, tracciando un percorso che giunge fino ai nostri giorni con gli studi importanti di Francesco Cassata2. In Italia il discorso eugenetico subì una indubbia accelerazione durante il ventennio fascista, attraverso alcuni aspetti dell’ideologia del regime che bene si sposarono con la tanto agognata “difesa della razza”, tema centrale nella pro-paganda mussoliniana, particolarmente efficace nella mobilitazione di risorse e uomini. Nella battaglia contro le élites tradizionali che il fascismo promosse subito dopo il primo conflitto mondiale, il tema centrale era quello della rivolu-zione antropologica fatta di carattere morale, ma soprattutto di rigenerazione biologica della stirpe, così come pensato da scienziati ed eugenisti. Il darwini-smo politico della dittatura trovava, in questo modo, una perfetta coniugazione nell’esigenza della costruzione dell’“uomo nuovo”, progetto al quale la classe medica italiana, nella sua grande parte, rispose con entusiasmo e perseveran-za. «La tubercolosi, l’alcolismo, la lue, la malaria, i tumori maligni, le vesanie […] attendono che il Fascismo rigeneratore provveda: noi Medici siamo pronti al nostro dovere»3, così scriveva Umberto Gabbi, fascista della prima ora e membro del Consiglio superiore di sanità del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) nel 1927, manifestando la robusta adesione al regime da parte di medici e scienziati. Ma lo stesso Mussolini nel Discorso ai medici proclamato nel 1931 aveva esplici-tamente invitato il corpo professionale non solo a diventare protagonista della rivoluzione auspicata dal regime, ma aveva individuato nei medici lo strumento opportuno per entrare nelle quotidiane abitudini delle famiglie, soprattutto den-

2 Claudio Pogliano, Scienza e stirpe: Eugenetica in Italia (1912-1939), in “Passato e Presente”, 5, 1984, pp. 61-97; Id., L’utopia igienista (1870-1920), in F. Della Paruta (a cura di), Storia d’Italia, Annali, 7, Malattia e medicina, Torino, Einaudi, 1984, pp. 589-634; Id., Eugenisti, ma con giudizio, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 423-442; Massimo Ciceri, Origini controllate: l’eugenetica in Italia 1900-1924, tesi di laurea, 1992; Roberto Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1999; Giorgio Israel, Pietro Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino, 1999; Francesco Cassata, An unknown history: eugenics in Italy, in “Medicina & Storia”, 5, 2005, pp. 133-141; Id., Molti, sani e forti: l’eugenetica in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Id., Verso l’uomo nuovo: il fascismo e l’euge-netica latina, in Claudio Pogliano, Francesco Cassata (a cura di), Storia d’Italia, Annali 26, Scienza e cultura dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2013, pp. 131-156; Claudia Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004.3 Umberto Gabbi, Medicina e politica, in “Archivio fascista di medicina politica”, II, 1927, pp. 57-61, cit., in Mantovani, op. cit., p. 270.

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tro la sfera intima dei comportamenti sessuali4, al fine di modificarne stili e abi-tudini, in nome, ancora una volta, della rigenerazione della tanto agognata boni-fica sociale, passaggio indispensabile per la protezione dell’intera popolazione.

La cornice teorica che sorreggeva quest’idea era ravvisabile nella superiorità, proclamata senza infingimenti dal regime, della società nei confronti del singolo individuo. Allo stesso modo i medici sociali non avrebbero avuto alcuna remora nell’anteporre la “difesa sociale” a quella del singolo paziente, nella lotta alle singole patologie degenerative che quotidianamente minavano l’integrità del corpo della nazione, ormai identificato con quello del regime. Questa visione non ha fatto altro che legittimare l’ampliamento del potere politico all’inter-no degli spazi privati. Visione che trovava riscontro nel progetto di assistenza sociale integrale che il regime iniziava a porre in essere, provando ad occupar-si dell’uomo dall’atto del concepimento, sino al suo decesso. Un tentativo che avrebbe messo al centro il sapere tecnico e scientifico della classe medica, che dentro questo nuovo quadro politico trovava una collocazione di primo piano rispetto al progetto di costruzione nazionale.

Un’utopia tecnocratica al tempo del fascismo

In Italia la diffusione delle teorie eugeniste, che in molti paesi del mondo ave-vano un robusto aggancio nei principali centri di ricerca accademici, si trovò a fare i conti con uno scarso retroterra culturale, condizione consolidata dalle scelte fatte in campo culturale dal regime, come testimonia la riforma Genti-le. La biologia sociale non fu mai al centro delle attenzioni del regime, almeno non lo fu mai nella declinazione di quella ch’è stata definita come eugenetica “qualitativa”. Il capo stesso del regime non fu mai propenso a politiche di birth control, o favorevole alla sterilizzazione, tantomeno al controllo delle pratiche matrimoniali e quindi riproduttive. La sua attenzione si concentrò, di contro, nel promuovere un’eugenetica popolazionista, convinto che il numero dei compo-nenti della nazione, da solo, rappresentasse un elemento di forza, di virilità proli-fica5. Politica protonatalista che fu innestata all’interno della visione assistenzia-

4 Cfr. Anna Morelli, La missione del medico negli anni 30’, in Gabriele Turi (a cura di), Libere profes-sioni e fascismo, Milano, Franco Angeli, 1994, p. 87.5 Cfr. Benito Mussolini, Discorso dell’Ascensione, in Opera Omnia di Benito Mussolini, Firenze, La Fenice, 1951

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le universalistica che il regime aveva a più riprese espresso. Tassa sul celibato, esenzioni fiscali e assegni per famiglie numerose, la repressione dell’aborto e della contraccezione, sono misure esemplificative di quanto appena detto6. La declinazione assunta dall’eugenetica italiana ha scontato, senza dubbio, l’in-fluenza della chiesa cattolica, che a più riprese s’era espressa contro le politiche di difesa sociale di matrice anglosassone. Emblematica appare in tal senso l’En-ciclica Casti connubi, emanata da Pio XI nel dicembre del 1930 dove venivano esplicitamente condannati tutti strumenti di controllo delle nascite, anche se col fine di proteggere la popolazione da potenziali contagi degenerativi. Inoltre, in perfetta sintonia con le politiche protonatali favorite dal regime, nella famiglia veniva individuato il fulcro dell’azione generativa e dell’atto sessuale come fina-lizzato alla procreazione.

Partendo da queste premesse, Mussolini non cedette mai alle proposte del deputato Pietro Capasso, convinto sostenitore del certificato prematrimoniale, che già nel 1923 aveva discusso col Duce in persona della sua idea, come bene spiega Claudia Mantovani nel suo studio Rigenerare la società. Se l’idea di Ca-passo mirava a istituzionale una pratica di profilassi prematrimoniale, idea riget-tata dal regime, la posizione di Sante De Sanctis, presidente della sezione laziale della Lega di igiene mentale, trovò una maggiore diffusione nelle prassi mediche periferiche, ovvero provare a modificare i comportamenti sessuali della popola-zione attraverso un’azione diffusa di costante informazione presso i consultori matrimoniali disseminati sul territorio nazionale7. Ma anche questo tipo di ini-ziative fu presto bollato dal regime come contrario alla politica popolazionista che il fascismo aveva messo in campo, come testimonia lo sfoglio della “Difesa sociale” ben prima del 1927. Il pericolo era quello di vedere frenata la spinta che il regime aveva dato all’obiettivo di crescita della nazione. Bastò poco e i con-sultori prematrimoniali furono da Mussolini in persona messi a tacere, attraverso un controllo personale, attraverso le sedi periferiche prefettizie, dello sviluppo della politica demografica del regime8.

Quanto detto fino ad ora non deve trarre in inganno. Il fascismo si fece por-tatore di un’idea precisa di eugenetica, certamente non “negativa”, mettendo al bando qualsiasi forma di controllo scientifico dei caratteri biologici dell’uomo, incentivando, di contro, la formazione di un welfare di carattere universalistico che sviluppò alcuni pilastri fondamentali, come ad esempio un controllo assistito e continuo della maternità e dell’infanzia, seguendo l’idea della subordinazione

6 Carl Ipsen, Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino, 1992.7 Cfr. Sante De Sanctis, Per la profilassi e la igiene mentale, Roma, Ipas, 1926. 8 Cfr. Mantovani, Rigenerare la società, cit., p. 290-91.

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dell’interesse del singolo a quello della collettività nazionale. Altro cardine del-la politica eugenista fascista fu quello ideato da Nicola Pende con le sue teorie ortogenetiche, per finire con l’eugenetica rinnovatrice interpretata da Corrado Gini attraverso l’Istituto centrale di statistica. Ma andiamo con ordine.

Nel dicembre del 1925 il regime pose le basi per la sua politica demogra-fica di carattere popolazionista, con la fondazione di un’opera nazionale per la protezione della maternità, l’Onmi. L’interesse del regime era tentare di ac-compagnare, nel percorso di gestazione, le donne italiane al fine di prevenire la mortalità infantile. «Vigilare seriamente sul destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia, a questo tende l’Opera Nazionale per la protezione della Maternità e dell’Infanzia», con queste parole lo stesso Mussolini salutava l’avvento del nuovo istituto, caricandolo di quell’im-portanza palingenetica che allo stesso modo il regime aveva riversato nelle sue politiche di difesa sociale. Che l’organo tecnocratico fosse esemplarmente alli-neato alle politiche sociali del regime lo testimoniano gli interventi al secondo Congresso nazionale di genetica ed eugenetica tenutosi a Roma nel 1929, dove viene ribadita la completa contrarietà a qualsiasi ipotesi eugenetica negativa di matrice anglosassone9, di seguito vengono esposti tutti gli interventi messi in campo dal regime, refettori materni, cliniche per il ricovero di partorienti, catte-dre ambulanti di puericultura, monitoraggio sanitario delle gestanti, formazione di personale specializzato. L’Onmi si configurava, quindi, come il luogo princi-pale all’interno del quale sviluppare il potenziale propagandistico del fascismo nella formazione di quel welfare universalistico che se da un lato provava ad incrementare il potenziale della nazione, dall’altro coniugava perfettamente le sue istanze di sistema assistenzialistico di matrice laica con le esigenze del mondo cattolico, che aveva sposato per intero le linee del regime in tema di implemento delle nascite.

Ma un problema affliggeva tutte le comunità scientifiche nazionali, ovvero la gestione dei cosiddetti “deboli”. La Prima guerra mondiale aveva consegnato ai rispettivi paesi migliaia di maniaci, e una politica efficace di difesa sociale non poteva eludere il problema, soprattutto nel controllo della loro proliferazione. Avendo scartato qualsiasi opzione di natura “negativa” come la soppressione e la castrazione forzata, il fascismo optò per il coinvolgimento dell’ennesima figu-ra tecnocratica: i “selezionatori”, figura ricavata ancora una volta all’interno del sapere tecnico che la medicina aveva deciso di mettere al servizio del regime. Il loro compito consisteva nel distinguere quanti fra maniaci, malformati, degene-rati e criminali di diversa natura potessero ancora essere, in qualche forma, utili

9 Attilio Lo Monaco Aprile, La genesi della legge per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia, in “Maternità e infanzia”, 1, 1927, pp. 19-29, cit. in Mantovani, op. cit., p. 310.

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all’opera di rinascita nazionale, e quanti, invece, irrecuperabili alla funzionalità del regime. Per i primi furono creati percorsi di integrazione sociale miranti alla produttività, per i secondi si aprivano le porte degli asili della maggior sventura, ovvero quei frenocomi e reparti per maniaci che durante il periodo fascista han-no vissuto un costante aumento.

Per comprendere in fondo il rapporto che durante il Ventennio si istaurò fra il regime e le scienze alieniste non dobbiamo cambiare paradigma di lettura. Ancora una volta è il problema della difesa sociale, in questo caso specifico dalla malattia mentale, a spiegare alcuni comportamenti nati durante gli anni Venti all’interno dei centri di discussione della psichiatria italiana e l’idiosincrasia che un certo discorso medico ha trovato all’interno della sfera politica10.

Nell’ottobre del 1924 viene fondata la Lega italiana di igiene e profilassi men-tale (Lipim). Il Consiglio di presidenza è composto da Giulio Cesare Ferrari, Ettore Levi ed Eugenio Medea. Il dibattito assembleare si conclude con alcune indica-zioni precise, su tutte la terza: coordinare l’azione della Lega a quella di enti pubblici o associazioni che conducono campagne affini contro alcoolismo, ma-lattie veneree e deficienza intellettuale, con speciale riguardo alla prevenzione della criminalità11. Il tema era entrato nel dibattito politico dalla porta princi-pale, ovvero discusso dalla Commissione nazionale per il dopoguerra. Durante una sessione di discussione al Senato, nel 1922, fu Leonardo Bianchi a levare la sua voce in difesa della popolazione contro gli attacchi, ormai massicci, portati dalle malattie mentali a un corpo sociale sempre più stremato dagli strascichi della guerra. Istituire cure sanatoriali delle forme guaribili di psicosi, alleggeren-do così i manicomi, e intensificare la lotta all’alcoolismo e contro tutte le cause di degenerazione fisica furono le proposte avanzate da Bianchi e votate dalla Commissione. Insieme ai dispensari psichiatrici e alle scuole speciali per bimbi deficienti, Bianchi elenca un terzo rimedio: l’eugenetica. L’illustre psichiatra era convinto che il valore della razza fosse direttamente collegato con la salute fi-sica e mentale, di conseguenza una legislazione incentrata sul controllo delle unioni avrebbe risposto in primis a un’esigenza di carattere politico. «È ben sa-pere che per ogni ricoverato nel manicomio non esistono meno di 50 o forse 100 deboli avviati alla degenerazione; sappiamo che molti di questi provengono da matrimoni tra imbecilli, criminali, epilettici, alcoolisti cronici, e altre varietà di degenerati. Verrà anche l’ora di una legislazione eugenica»12.

10 Matteo Petracci, I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, Roma, Don-zelli, 2014.11 Cfr. Francesco Cassata, Il lavoro degli inutili: Fascismo e igiene mentale, in Francesco Cassata, Massimo Moraglio (a cura di), Manicomio, società e politica. Storia, memoria e cultura della devian-za mentale dal Piemonte all’Italia, Bfs, Pisa, p. 24.12 Ivi, p. 25.

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Negli stessi anni e sulla stessa linea di Bianchi si posizionò un altro padre no-bile della psichiatria italiana, Enrico Morselli, che dai suoi “Quaderni di Psichia-tria” non fece mancare l’apporto alla discussione, ponendo, ancora una volta, la psichiatria al servizio della costruzione del carattere della nazione, operazione che nei decenni precedenti aveva impegnato a fondo la categoria degli alienisti, procurando loro un ruolo rilevante all’interno della borghesia nazionale. «La psi-chiatria, in quanto ha rapporti multipli e stretti con la vita sociale, deve per prima avere coscienza dei propri bisogni, dei servigii che può rendere, della parte che le spetta nel rinnovarsi della Nazione».

Morselli, inoltre, pose al centro dei suoi interventi la necessità di una politica eugenica per il paese associata alla profilassi sociale, fondamentale alla costitu-zione di una nazione sana e forte, quindi una lotta profonda contro l’alcoolismo, la sifilide e la tubercolosi, auspicando ferree misure per sviluppare un’attitudine alla cura del corpo fin dalla fanciullezza. Ancora una volta assistiamo all’azione ostinata di una corporazione medica che vede nel regime l’opportunità per as-sumere un ruolo di primo piano all’interno degli equilibri di potere della politica culturale del paese.

Non stupisce quindi se Nicola Pende, fondatore della Facoltà di medicina e primo Rettore dell’Università Adriatica “Benito Mussolini” di Bari, nel 1924, lan-cia la sua proposta, formalizzata poi nel 1933 nel saggio Bonifica umana razio-nale e biologia politica13, e fonda nel 1926 l’Istituto biotipologico ortogenetico, in Genova, con lo scopo di migliorare la razza attraverso un controllo costante dello sviluppo fisico, morale e psichico degli italiani. Lo strumento per perse-guire l’obiettivo Pende lo individua nel “quaderno biotipologico”, un taccuino dove riversare tutte le informazioni possibili su eredità, morfologia, psicologia, e comportamento del soggetto. Una scheda molto dettagliata che nel 1934 verrà istituzionalizzata anche se in una forma molto più snella e nel 1936 fu reso ob-bligatorio per tutti i fanciulli in età scolare il libretto sanitario del cittadino e del soldato. La sintonia fra le idee di Pende e la politica sociale del regime è forse uno degli esempi più emblematici di come le carriere dei singoli scienziati si sia-no plasmate sull’esigenze di propaganda culturale del regime. Ecco allora Pen-de diventare membro del Cnr, collaboratore dell’Enciclopedia italiana, senatore del Partito nazionale fascista e, nel 1935, professore alla cattedra di Patologia medica a Roma.14

Ma l’apporto dell’apparato tecnocratico all’implementazione delle politiche popolazioniste del regime continua con la nascita dell’Istat, nel 1926. A presi-dente del nuovo ente, alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio,

13 Nicola Pende, Bonifica razionale umana e biologia politica, Bologna, Cappelli, 193314 Cfr. Mantovani, op. cit., p. 323.

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fu posto Corrado Gini15 ed anche in questo caso la sintonia fra la scienza e il regime è suggellata da una carriera sfolgorante. Gini nel 1925 è membro del-la “Commissione dei 18” per la riforma costituzionale, preminenza politica che si coniuga perfettamente con quella accademica, infatti è lo stesso presidente dell’Istat a fondare il primo Istituto di Statica e Politica economica, incardinato presso la neonata Facoltà di Scienze politiche di Roma. Gini non ha alcun dubbio che la scelta di un’eugenetica quantitativa compiuta dal regime sia la strada giusta sulla quale far convergere gli studi di demografia statistica, studiando i livelli geografici di prolificità natale, ed anche se non profondamente convinto dalle politiche di sostegno al reddito per le famiglie numerose, Gini ha chiaro la soluzione al problema «bisogna individuare nella popolazione i nuovi cespiti fre-schi, vigorosi e adatti a rinnovare grazie ad opportuni rimescolamenti di sangue, gli organismi demograficamente invecchiati»16. Queste parole rappresentavano il fulcro dell’eugenica rinnovatrice di Gini, un pilastro fondamentale nelle politi-che di difesa sociale e incentivazione alla nascita adottate dal regime.

La questione eugenetica, così come declinata dal fascismo, si trovò ad affron-tare uno snodo fondamentale a partire dall’agosto del 1938, momento in cui inizia la pubblicazione de “La Difesa della Razza”, periodico diretto da Telesio Interlandi17. Il nuovo foglio del regime pose subito al centro del dibattito la que-stione che da sempre aveva diviso il campo degli studi dell’eugenetica, ovvero il miglioramento della razza può essere perseguito con misure di carattere “am-bientale”, quelle scelte dal fascismo, oppure proteggendo la popolazione dalle tare ereditarie fonte dell’impoverimento biologico nazionale? La rivista, attra-verso la penna di uno dei suoi più importanti redattori, Guido Landra, si schierò in favore della seconda opzione, e lo fece richiamando addirittura nomi illustri come quelli di Galton e Mendel, legittimando il paradigma ereditarista, ma allo stesso tempo schierandosi per un’eugenetica negativa, in quanto il travaso di caratteri biologici degenerati poteva essere fermato solo attraverso quegli stru-menti individuati dall’eugenetica anglo-tedesca, castrazione obbligatoria, certi-ficato prematrimoniale, abbattimento dei tarati, misure che il regime aveva sin dagli anni venti rifiutato di attuare, ma che adesso, ritornano al centro del dibat-tito18.

15 Francesco Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Roma, Carocci, 2006. 16 Corrado Gini, Vecchi problemi e nuovi indirizzi nel campo dell’eugenetica, in Atti del secondo Congresso Italiano di Genetica e Eugenetica, 1929, Roma, Tip. Failli, 1932, pp. 3-15.17 Francesco Cassata, “La Difesa della Razza”. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi, 200818 Guido Landra, Il certificato prematrimoniale, in “La Difesa della Razza”, II, 6, giugno 1941, pp. 24-25.

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Ma la vicenda del rapporto fra la rivista di Interlandi e la gestione delle poli-tiche sociali del regime è paradigmatica per l’affermazione del potere politico, su quella che in apertura abbiamo definito un’utopia tecnocratica. Mussolini non cedette mai alle derive oligarchiche delle frange interne al regime, regolando i contenziosi personali attraverso l’uso del suo potere dittatoriale. Le politiche razziste del fascismo, sfociate nelle leggi del 1938, logico epilogo di una ten-denza antica del regime, come ha dimostrato la più avvertita storiografia19, non hanno inficiato le priorità che Mussolini aveva individuato nel campo delle po-litiche popolazioniste. Il Duce, abile nell’armonizzare stili obiettivi e strumenti, ancora una volta era lui stesso unico e ultimo protagonista di ogni decisione. La medicina e i suoi interpreti solo l’ennesimo strumento nelle mani del dittatore.

19 Cassata, “La Difesa della Razza”, cit., pp. 197-224.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 205-220

Per capire quanto il fascismo abbia cercato di penetrare nella vita quotidiana di ogni persona e in ogni settore è di notevole importanza indagare le piccole comunità. Per studiare alcuni aspetti della fascistizzazione delle campagne si è preso quindi come spunto Bagnile, ultima frazione del territorio cesenate confi-nate a nord con la provincia di Ravenna.

Bagnile all’inizio del Novecento contava circa 850 residenti ed era, come lo è tutt’oggi, un territorio interamente vocato all’agricoltura, nello specifico 52 abi-tanti erano mezzadri, 70 braccianti, 6 coltivatori diretti, 9 piccoli affittuari e 3 possidenti1.

Il Comune di Cesena, che naturalmente poggiava le sue fondamenta eco-nomiche sull’attività agricola, vedeva la forza lavoro della terra suddivisa nel seguente modo: 5.545 mezzadri, 2.885 braccianti, 606 coltivatori diretti e 135 terziari2 su una popolazione di 43.468 abitanti3.

Dal censimento del 1921 si apprende che Cesena superava Forlì e Rimini per addetti impegnati nel settore agricolo, sia per numero che in percentuale rispet-to alla popolazione totale, nello specifico e nell’ordine sopra citato il 46,7%, il

1 Claudio Riva, Il circolo cattolico di Bagnile, in Da sempre con la gente, Origine e sviluppo della Banca di Cesena, Cesena, Banca di Cesena, 1999, p. 57. L’autore ricava i dati da Archivio parrocchiale di Bagnile, Stato d’anime, 1899.2 Sigfrido Sozzi, La prima agitazione sindacale agraria nel Cesenate (1900-1903), in Le campagne emiliane nell’epoca moderna, Milano, Feltrinelli, 1957, p. 252. L’autore ricava i dati dal censimento della popolazione del Comune di Cesena del 1901.3 Dato riportato nella relazione del Piano regolatore generale del Comune di Cesena 1964 reperita in Comune di Cesena, Archivio del Servizio programmazione urbanistica. Si consideri che Cesena in quel periodo si estendeva per un’area inferiore all’attuale, in quanto non comprendeva l’allora Comune di Roversano e altre zone in seguito annesse al proprio territorio.

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41,2% ed il 35,1%, nettamente superiore al dato riferito all’industria che vede a Cesena impiegato il 12,5% della popolazione, a Forlì il 13,4 (anche se inferiore in numero assoluto) e a Rimini il 13,64.

Da sottolineare che l’economia agricola del Cesenate si andava legando sem-pre di più con l’attività industriale di trasformazione, vedi la Cia (Consorzio indu-strie agrarie poi Arrigoni), lo zuccherificio e i diversi essiccatoi di tabacco.

In questo contesto si deve ricordare anche il divario che esisteva fra le zone di collina, più arretrate rispetto a quelle di pianura. Infatti «lo stesso progresso agrario, decantato dalla pubblicistica coeva e dagli organi ufficiali del regime fascista, va ridimensionato» in «raffronto fra le diverse zone agricole del circon-dario e fra queste e i territori contermini»5.

A Cesena gli anni precedenti all’avvento del fascismo erano stati caratterizzati da diverse agitazioni agrarie che miravano a portare una condizione di vita miglio-re per i lavoratori della campagna. Questo lo si deve anche al fatto che già nel Ra-vennate e nel Forlivese i contadini avevano maggiori diritti rispetto al Cesenate6.

Proprio a Bagnile, di sicuro influenzata da questi territori vicini, nel 1901 nac-que la prima Lega contadina7 di Cesena e nel 1903 una delle prime casse rurali cattoliche8. Di li a pochi anni si contarono in questa piccola località, oltre alle associazioni citate, il Circolo socialista, poi social-comunista, quello repubblica-no, cattolico, il Mutuo soccorso, la Lega braccianti maschile e quella femminile.

Questa rete di associazioni democratiche, che caratterizzò i primi anni del Novecento, venne duramente colpita dalle squadre fasciste finanziate dagli agrari che terrorizzarono questo territorio, prima e dopo la Marcia su Roma. La violenza a Bagnile si presentò il primo ottobre 1922 con l’assalto al Circolo giovanile cattolico e al Circolo social-comunista a cui vennero distrutte alcune mobilie9; quest’ultimo venne assalito nuovamente e dato alle fiamme il 12 otto-

4 Massimo Lodovici, Economia e classi sociali a Cesena dalla Marcia su Roma alla ricostruzione (1922-1948), in Storia di Cesena, Vol. IV, tomo 3, Rimini, Cassa di Risparmio di Cesena e Bruno Ghigi Editore, 1994, p. 300. L’autore ricava i dati da Istat, Censimento della popolazione d’Italia 1921, Vol. VIII. Emilia, Roma 1927.5 Lodovici, Economia e classi sociali a Cesena dalla Marcia su Roma alla ricostruzione (1922-1948), cit., pp. 297-299.6 Le leghe dei contadini, in “Il Popolano”, periodico repubblicano, n. 2, 12 maggio 1901.7 Da Cesena, 20.6. Per le leghe di resistenza fra i contadini, in “Il Risveglio”, giornale socialista, n. 24, 29 e 30 giugno 1900.8 Nostre corrispondenze, Bagnile, 10 Dicembre, in “Il Savio”, periodico settimanale popolare, n. 50, 21 e 22 dicembre 1901; Nostre corrispondenze, Bagnile, in “Il Savio”, periodico settimanale demo-cratico cristiano, n. 6, 7 e 8 febbraio 1903.9 Verbale dei Carabinieri, denuncia del parroco don Giuseppe Mancini e denuncia di Urbano Strada, in Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena (d’ora in poi, Istituto storico), Fondo Gastone Sozzi, b. 24 “cronologia 1922”, fasc. ottobre.

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bre distruggendolo completamente10. Nel 1923 venne invece occupato il Circolo repubblicano11 che diventerà sede del circolo fascista fino al 1933 quando si tra-sferì nell’ex Circolo social-comunista riedificato.

È interessante far partire l’indagine da questa frazione, sia per il tessuto de-mocratico esistente prima della dittatura, sia perché nella futura lotta di Libera-zione fu uno dei luoghi simbolo della Resistenza.

Una volta salito al potere, il fascismo doveva occupare lo spazio che fino a quel momento era stato impegnato dalle varie associazioni e dai diversi partiti politici e per fare questo costituì nuove organizzazioni, culturali, sociali, politico-amministrative e di propaganda.

Una delle prime notizie che si apprende dalle cronache del tempo, in merito al rapporto fascismo-campagna, si ha in occasione delle elezioni per la nomina del consiglio della Società operaia di mutuo soccorso di Pievesestina del 1926 che si conclusero con la vittoria fascista. Il cronista dell’evento scrisse: «questo significa che il Fascismo è penetrato nei lavoratori delle nostre Ville, ma non bisogna fermarsi, ma lavorare sempre, perché il Fascismo deve vivificare e pene-trare nella classe lavoratrice»12.

Se è vero che la rete di associazioni che caratterizzava il tessuto sociale e poli-tico del territorio romagnolo di inizio Novecento, come circoli e leghe, fu devasta-ta dagli squadristi è anche vero che il fascismo penetrò e modificò quelle rimaste e ne creò di nuove. Si può parlare infatti di un vero e proprio “cooperativismo fa-scista”. Esisteva infatti un Ente nazionale della cooperazione e vi era una divisione per mestieri come lo era per le leghe, citiamo come esempio la Cooperativa brac-cianti, muratori, falegnami e cementisti. I fascisti sostenevano che il movimento cooperativo italiano «fino al 1922 era stato asservito all’elettoralismo socialista e repubblicano ed era stato contrario ai sani principi della cooperazione in quanto ne aveva acuito la lotta di classe». Inoltre parlavano di «scettici» del tempo a cui dimostrare «che la cooperazione esiste, […] che il Fascismo non ha distrutto la cooperazione come essi han predicato ma che invero l’ha ricostruita, su basi più solide e più pure»13. Naturalmente non è paragonabile una rete cooperativa di uno Stato democratico con una di uno Stato dittatoriale nato dalla violenza squadrista.

10 Verbale dei Carabinieri, in Istituto storico, Fondo Gastone Sozzi, b. 24 “cronologia 1922”, fasc. ottobre.11 Registro di Protocollo della Prefettura dell’anno 1923, in Archivio di Stato di Forlì, Archivio di Gabinetto.12 Dai Fasci della Provincia, Pievesestina, in “Il Popolo di Romagna”, settimanale della Federazione provinciale fascista forlivese, n. 3, 17 gennaio 1926.13 Il cooperativismo fascista in una conferenza del dott. Focarile, ivi, n. 11, 12 marzo 1929.

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Un «laborioso» impegno fu messo in atto dalle gerarchie fasciste locali per il tesseramento del 1928 dei circoli rurali che su tutto il territorio comunale erano cinquanta, alcuni di questi non erano però ancora in sedi stabili. Durante il periodo del tesseramento i membri del direttorio vi si recavano personalmente e si cimen-tavano in comizi dai temi politici ed economici sia locali che nazionali, in partico-lare il «complesso problema agricolo è stato trattato sia nelle possibilità immedia-te di sviluppo, sia nelle sue interferenze coi problemi industriali e demografici»14. Durante queste visite ai circoli «appare in tutta la sua potenza il comandamento del Duce di ruralizzare il fascismo. Approfondire, il fascismo, immedesimarlo colla nazione, dargli una base certa per ogni futura conquista: questo è il significato del fascismo rurale». Ricordando il già citato rapporto pianura-collina si fa notare quanto scritto ne “Il Popolo di Romagna”, settimanale della Federazione provin-ciale fascista forlivese, e cioè che «il Fascio di Cesena non ha voluto restringersi ad un oligarchia cittadina, ma si è esteso e si è ramificato nella vasta piana agricola e sui colli resi fecondi da salde braccia. Nei più lontani villaggi e nei casolari remoti è giunta l’ansia rinnovatrice, è giunto il palpito della nazione».15

La campagna di tesseramento, per citare solo alcuni circoli, è terminata con 177 iscritti a San Vittore, 157 a Torre del Moro, 148 a Pievesestina, 140 Sant’An-drea in Bagnolo, 88 San Mauro in Valle, 68 San Giorgio, 52 Macerone, 42 Bagni-le, 19 Osteriaccia (attuale Villa Calabra)16. Nei numeri indicati non rientrano gli avanguardisti che comunque «si adunano nelle sedi rurali»17.

Una forte attenzione fu posta proprio verso i giovani che furono organizzati per età e genere; c’era al proposito lo specifico ordine di non lasciare bambini e adolescenti liberi durante la giornata:

Si comunica di ottemperare sollecitamente all’ordine di iscrizione di tutti i fanciulli che hanno compiuto l’8. anno di età alla Milizia Balilla, di modo che, nessuno e per nessuna ragione, sfugga al controllo ed alla assistenza delle nostre Organizzazioni Giovanili. Il Balilla che lascia la Scuola, non deve considerarsi libero anche dalla Milizia ma questi deve rimanere, più attivo che mai, nella formazione giovanile, fino al 14 anno di età, epoca in cui passerà, attraverso la Leva, nella Milizia Avanguardista18.

14 Attività fascista, Tesseramento nei circoli rurali, ivi, n. 10, 11 marzo 1928.15 Fascismo rurale, Consegna delle Tessere, ivi, n. 13, 31 marzo 1928.16 Attività fascista, Tesseramento nei circoli rurali, ivi, n. 10, 11 marzo 1928; Tesseramento nei circoli rurali, Ivi, n. 12, 25 marzo 1928 e ivi, n. 18, 5 maggio 1928; Ultimi circoli tesserati, ivi, n. 21, 26 maggio 1928.17 Attività fascista, Tesseramento nei circoli rurali, ivi, n. 10, 11 marzo 1928.18 Opera Nazionale Balilla, ivi, n. 64, 23 dicembre 1929.

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In un così ristretto ambito di movimento non mancavano però le voci fuori dal coro come ricorda Melchiorra, figlia di Aldo Zamagna, noto antifascista di Bagnile:

Noi quando eravamo bambini che si andava nelle scuole, ti vestivano da balilla, però noi, almeno noi bambini non potevamo andare via da casa vestiti così perché mio bab-bo non voleva, guai!! A scuola ci vestivamo, perché mio babbo diceva: “Guai a te!”, con la mia mamma, “Se li mandi là…”19.

L’Opera nazionale balilla (Onb) aveva una fiduciaria che spesso nei piccoli centri rurali era la maestra. Questa aveva il compito di redigere l’elenco dei balilla del-la frazione e di compilare la modulistica per i nuovi iscritti. Non essere iscritto significava non beneficiare dell’assistenza per eventuali infortuni e della visita medica gratuita20.

Occorre sottolineare che in queste piccole località di campagna i maestri era-no «tra le poche voci dello Stato e dello spazio pubblico, i quali inevitabilmente si venivano a sovrapporre alla nazione e al Partito Nazionale Fascista». Quindi si può ben dire che fra attività scolastiche e parascolastiche, più o meno legate al partito, i maestri «hanno significato un punto di incontro tra politica e le persone comuni»21.

Di seguito si riporta la testimonianza di Bianca Lelli, maestra di Cesena classe 1922, che giovanissima iniziò l’insegnamento in una sperduta scuola rurale delle colline cesenati. Le sue parole rendono bene l’idea di quanto alcune iniziative, se non supportate con un minimo di logica da parte delle autorità, possano dare esiti completamente negativi.

Già dall’anno scolastico 1941-42 ho cominciato ad insegnare. Avevo 19 anni. Fui man-data a Petrella, sulla montagna sopra Ranchio. Si doveva attraversare ben sette volte il fiume per raggiungere la scuola che aveva sede in un’ala di una casa colonica. Si tratta-va di un’unica aula che ospitava le 5 classi della cosiddetta scuola rurale di quei tempi. Ero l’insegnate unica di una pluriclasse cui erano iscritti 40 tra bambini e ragazzi. […] Non ho mai contato più di 28 frequentanti: dovevano lavorare a casa e per di più era molto disagevole raggiungere la scuola. […] Ci era imposto di fare le rurali per l’appun-to, cioè dovevamo allevare conigli, pulcini, bachi da seta e coltivare il cosiddetto orto di guerra. Poi, alla fine dell’anno avremmo dovuto consegnare una percentuale dei supposti ricavi al Federale del PNF. Da questi ricavi dipendeva anche la valutazione annuale sul nostro operato.I miei risultati erano pessimi: i conigli se li mangiarono i topi, i pulcini morirono tutti,

19 Intervista a Melchiorra Zamagna, 2013.20 Opera Nazionale Balilla ne “Il Popolo di Romagna”, n. 64, 23 dicembre 1929.21 Davide Montino, Maestri e Maestre, in Gianluca Gabrielli, Davide Montino (a cura di), La scuola fascista. Istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario, Verona, Ombre corte, Centro studi per la scuola pubblica, 2009, pp. 123, 124.

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[…], i bachi da seta mi facevano schifo per cui non riuscivo ad averne cura e finirono in gran parte mangiati dalle galline. […] L’orto, poi, era tutto sassi e non si riusciva a far crescere quasi nulla. D’altra parte io ero un’insegnate e non sapevo nulla di come si allevava o si coltivava.22

Sotto la direzione dell’Onb, affiancata dall’Ente opere assistenziali, era la Refe-zione scolastica che nel 1934 a Cesena contava 3 refettori nel territorio urbano e 36 nel forese. A questa si poteva accedere mediante la tessera di povertà e quella scolastica e nelle zone rurali l’indicazione era che la refezione venisse «preparata e consumata preferibilmente nelle Sedi delle Sottosezioni Fasciste» e «ciascun fanciullo deve trovar posto in apposite tavole apparecchiate sulle quali non deve mai mancare qualche pianta ornamentale o qualche mazzo di fiori, dono gentile dei compagni agiati che hanno giardino e serra»23. In totale i bambini che usufrui-vano della refezione erano 2.800, 1.200 in città e 1.600 in campagna24.

A distanza di 5 anni (l’Onb intanto fu sostituita dalla Gioventù italiana del litto-rio, Gil) le sezioni di campagna erano scese a 26 ed i bambini assistiti a 1.800, 650 in ambito urbano e 1.150 in zona rurale, ma non cambiò la sorveglianza dei giovani:

Egli infatti, terminate le lezioni mattutine, anziché dopo un pasto non sempre suffi-ciente, andarsene a bighellonare per le strade, va ad assidersi a mensa quasi ad un cameratesco rancio con i suoi compagni. [...]Terminato poi il pasto il giovanetto passa alla sua ora di ricreazione dove ritempra ed allena le membra in giuochi sportivi sani e corroboranti, soprattutto stando lontano da quel linguaggio e da quelle azioni veramente poco simpatiche e spesso riprovevoli che si riscontrano talvolta in quei giovanetti che passano anzi sciupano il loro tempo in mezzo alla strada avendo questa a turpe maestra. Dopo l’ora di ricreazione i nostri giovani entrano al Doposcuola dove si eleva la loro mente specialmente nella consi-derazione di argomenti di carattere storico e politico e si forma veramente in loro, e ciò in collaborazione ed affiancando la scuola quotidiana, un carattere serio ed attivo pieno di volontà e di ardire25.

Spesso quando veniva affrontato il rapporto città-campagna si sottolineavano le azioni volte a diminuire il divario fra questi due territori e quindi si mettevano in atto iniziative fino a quel momento tipiche dei centri urbani. Questo vale anche per la radio, strumento di informazione e propaganda, che fu oggetto di un de-

22 Testimonianza di una protagonista, Bianca Lelli, in “il diario”, settimanale edito dal Partito demo-cratico della sinistra, Federazione di Cesena, n. 4, 5 giugno 2006.23 L’organizzazione dei refettori scolastici, in “Il Popolo di Romagna”, n. 2, 13 gennaio 1934.24 S.E. il Prefetto visita i refettori scolastici e popolari, ivi, n. 10, 13 marzo 1934.25 La refezione scolastica a milleottocento bambini – tre refettori urbani e 26 nel forese, ivi, n. 5, 4 febbraio 1939.

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creto legge con il quale si istituiva l’Ente radio rurale che di li a poco fu diretto dal Pnf fino al 1940, anno di cessazione. «Centri agricoli, sedi dell’OND [Opera nazionale dopolavoro], scuole e caserme furono invitati a dotarsi di apparecchi radiofonici»26. Questo tema venne affrontato in un articolo del 1934 apparso su “Il Popolo di Romagna”:

La radio è entrata nelle scuole rurali; quelle scuole lontane e un tempo dimenticate, povere di materiale scolastico, isolate nei borghi, nelle campagne, nelle lontane peri-ferie. […]E così che i Balilla delle campagne, vengono richiamati ad un’unica voce che li invita e li ammonisce a partecipare in spirito, e direttamente, alla vita del nostro tempo fa-scista. […]Ciò significa, riavvicinare, con sentimenti nuovi e vivezza di concetti, la campagna alla città; significa suscitare il sentimento unitario; significa infine, compiere un’opera edu-cativa, forte e lieta, di indubbia efficacia e di massima importanza27.

Naturalmente non mancavano paragoni con la situazione politica precedente allo Stato fascista: «con la Radio-rurale viene inferto un altro colpo all’ignoranza in cui le popolazioni rurali erano lasciate dai governi social-democratici»28.

Non solo ai bambini si guardava con interesse, varie iniziative venivano pre-se per cercare di raggiungere diverse classi sociali e i diversi generi. Le donne furono oggetto di attenzione anche se dal fascismo furono relegate ad un mero ruolo casalingo e di allevamento dei figli. Nei vari centri rurali nel 1933 vennero istituite le Massaie rurali, associazioni guidate da una fiduciaria, nella maggior parte dei casi una maestra assistita dal medico condotto e dalla levatrice. Que-sta associazione organizzava attività di tematiche differenti, come corsi di «pue-ricoltura, di igiene e di economia domestica». Con l’affiancamento dell’Unione dell’agricoltura si svolgevano corsi di artigianato rurale, orticoltura, bachicol-tura ecc. L’intento era di far percepire che «anche nelle campagne più lontane sentano il costante vigile interessamento del Regime verso i rurali».29 Questa, che non si poteva definire un’associazione sindacale femminile in quanto sarebbe stato contrario al principio fascista di «allontanamento delle donne dal mercato del lavoro», dal 1934 fu curata dai Fasci femminili ed aveva anche l’obbiettivo di aiutare le donne a contribuire al bilancio familiare30.

Il Fascio rurale aveva un sua struttura politico-amministrativa che al 1929 a Ce-

26 Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani, Milano, Utet, 2014, p. 227.27 Radio rurale, “Il Popolo di Romagna”, n. 12, 27 marzo 1934.28 La Radio-rurale, ivi, n. 4, 22 gennaio 1935.29 Attività del Fascio Femminile, Massaie rurali, ivi, n. 48, 4 novembre 1934.30 Dogliani, Il fascismo degli italiani, cit., p. 123.

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sena era formata da un ispettore politico, un ispettore amministrativo ed 11 capi zona che comprendevano dalle 3 alle 7 località. L’inquadramento fu voluto dal se-gretario politico del fascio Alfredo Vantadori che durante la cerimonia di nomina volle sottolineare che i vertici «sono tutti fascisti di vecchia data e di provata fede.» Inoltre volle anche ricordare «le norme che devono regolare la vita e gli scopi dei circoli rurali fascisti, che non possono limitarsi ad essere degli spacci di vino, ma bensì devono costituire nelle campagne quel nucleo di persone atte a dare il tono a quello che deve essere il sistema di vita in regime fascista, così come è nelle città.» Questo inquadramento venne istituito proprio per seguire più da vicino i circoli del forese che fino a quel momento erano stati «troppo abbandonati dal centro» in modo che anche in campagna «si senta, si segua e si viva il fascismo»31.

Nel corso degli anni ci furono modifiche a questa organizzazione e nel 1938 in diverse frazioni dove in precedenza vi erano sottosezioni del Pnf vennero co-stituiti Fasci di combattimento32. Al 1940 i Fasci di combattimento della provincia di Forlì erano organizzati in 25 zone33, al 1941 in 2634.

Negli anni Quaranta furono frequenti i cambi al vertice anche nei fasci rurali in quanto l’entrata in guerra portò al richiamo alle armi.

Prendendo sempre come esempio Bagnile si apprende quanto, anche dopo un ventennio, era vivo il legame fra il fascismo e gli agrari. Infatti il marchese Anto-nio Donati, nel giugno 1940, pochi giorni prima della nomina a segretario politico di quel fascio, fu festeggiato in paese, in quanto con «un magnifico e significati-vo gesto, che denota la sua squisita sensibilità fascista, ha voluto devolvere una rilevante somma per l’impianto della luce elettrica», a seguire «ha poi invitato l’ispettore di zona, il Direttorio del Fascio e la popolazione di Bagnile in un suo podere che rappresenta un modello di tecnica e di perfezione di coltivazioni»35.

Anche nelle località di campagna erano frequenti eventi ludici, culturali e di propaganda. Si possono ricordare fra quelle ludiche e di intrattenimento le feste pro Onb per la raccolta fondi sotto forma di pesca in cui la gente inviò doni, «fra i quali spiccavano quello di Donna Rachele Mussolini»36. Il ricavato di queste fe-ste aiutava a sostenere spese varie e in alcuni casi veniva utilizzato per lasciti al paese come ad esempio «il ricordo marmoreo donato dall’O.N.B. della Frazione

31 Nel fascio rurale, in “Il Popolo di Romagna”, n. 39, 6 luglio 1929.32 Atti federali, Costituzione di fasci di combattimento, ivi, n. 45, 12 novembre 1938.33 Atti federali, Nomine, Ispettorati di zona, ivi, n. 9, 2 marzo 1940.34 Atti federali, Ispettori di Zona, ivi, n. 51, 22 dicembre 1941.35 E della Provincia, Cesena, ivi, n. 22, 1 giugno 1940; E della Provincia, ivi, n. 25, 15 giugno 1940.36 Simpatica festa pro O.N.B, ivi, n. 33, 25 maggio 1929.

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ai suoi Caduti» della Prima guerra mondiale tanto esaltata dal fascismo37.Una delle attività principali dei balilla era la ginnastica, arricchita da un’am-

pia parte coreografica, in modo da temprare i giovani e a farli diventare “fascisti modello”. Anche in questo caso non mancava l’attività nella campagna con l’isti-tuzione del Concorso ginnico rurale. Questa iniziativa veniva svolta nelle varie frazioni e spesso non essendo i locali scolastici adatti allo svolgimento di tale evento ci si doveva adattare «sulla strada pubblica o in ambienti chiusi, il più delle volte ristretti ed inadatti».

Lo scopo del concorso rurale non deve essere quello di ottenere una preparazione perfetta su un numero ristretto di unità, ma di esercitare la totalità degli organizzati, sicché il beneficio dell’addestramento fisico si estenda su tutta la fanciullezza. Solo in questo modo l’Opera Balilla perseguirà lo scopo prefissosi, e assolverà il compito assegnatole dal DUCE38.

Una festa che aveva origini precedenti, già dal 1898, ma che il fascismo fece sua era la “festa dell’albero”, che aveva valenza sia simbolica che pratica, infatti nel corso degli anni si era tenuti a creare un «vero e proprio “Bosco del Littorio”» e gli appuntamenti per celebrare la festa potevano essere primaverili o autunnali in un giorno di chiusura scolastica.

Il motivo per cui questa festa interessava l’intero territorio nazionale lo spie-ga Arnaldo Mussolini nel giornale “Il Bosco” del 15 giugno 1928:

Quando noi parliamo di boschi, il pensiero si riporta quasi sempre ed esclusivamente alla montagna. È vero che le montagne occupano la parte preminente per ciò che significa ricostruzione boschiva; ma in Italia si deve generalizzare un nuovo convinci-mento, che io vorrei definire il culto dell’albero, e […], può interessare le montagne e le marine, le rupi scoscese e i greti dei fiumi, la pianura, i viali alberati della città e le piantagioni che dovrebbero allinearsi lungo le strade nazionali.39

A Bagnile nel 1933 la festa dell’albero fu celebrata al «risveglio della primavera […] opportunamente la domenica delle Palme» dove «le giovani piante sono sta-te benedette dal Reverendo Parroco»40.

Altra iniziativa, che si svolse nel 1937 in alcuni fasci rurali, fu la Sagra della nuzialità, di cui di seguito si riporta la cronaca della giornata:

37 I risultati della pesca pro Opera Balilla di Bagnile, ivi, n. 29, 15 luglio 1933.38 Il secondo Concorso ginnico-rurale, ivi, n. 28, 17 luglio 1934.39 Alberto Gagliardo, Festa degli alberi, in Gabrielli, Montino (a cura di), La scuola fascista, cit., pp. 73 - 76.40 La Festa degli alberi a Bagnile di Cesena, in “ Il Popolo di Romagna”, n. 16, 14 aprile 1933.

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Solenni riti di nuzialità si sono svolti, […], in alcuni Fasci di Combattimento Rurali del Cesenate. Le diciassette coppie si sono adunate a S. Giorgio, alla Casa del Fascio, da dove sono partite in corteo, precedute dai Gagliardetti e dalle fiamme del Fascio, e del-le Associazioni e da rappresentanze delle organizzazioni giovanili. Nella Chiesa hanno quindi fatto ingresso per assistere alla consacrazione delle loro nozze, […]. Il corteo si è ricomposto per portarsi alla Casa del Fascio, dove il Fiduciario del N.U.F. [Nucleo uni-versitario fascista] di Cesena dott. Oddino Garaffoni ha portato […] il saluto ed il fervido augurio del Partito alle nuove cellule dell’Istituto famigliare […]. Ha avuto luogo quindi la distribuzione dei premi di nuzialità stabiliti dal Partito alle giovani coppie, cui è stato per ultimo offerto un rinfresco nella sala maggiore del Fascio41.

Iniziativa che vedeva protagonisti i bambini era invece la Befana fascista, svolta-si per la prima volta nel 1922 su iniziativa privata di un Fascio di combattimento di Roma fu successivamente istituzionalizzata dal Regime. A questa iniziativa, che consisteva nella consegna di doni ai bambini, si accedeva tramite domanda da parte dei più poveri42.

Questa manifestazione si svolgeva sia in città che in campagna e prendendo in esame la Befana fascista cesenate del 1939 la distribuzione dei doni nel cen-tro urbano si svolse nella sede della Gil dove i regali consistevano in

150 paia di scarpe agli organizzati, maschi e femmine, e di oltre 300 doni, consistenti di indumenti. Ciascun pacchetto conteneva pure un torrone, della marmellata, un giu-ocattolo ed altro oggetto utile. […] Altre cerimonie si sono ripetute in campagna, nelle sedi dei Fasci rurali […] (dove) sono stati complessivamente distribuiti mille doni, dei quali 100 paia di scarpe e 900 pacchi contenenti indumenti e giuocattoli. Ogni dono era accompagnato da una bella fotografia del Duce nell’atteggiamento di deporre un ba-cio sulla fronte di una piccola italiana: è il bacio che il Capo comunica a tutti i fanciulli d’Italia, nel giorno della loro festa43.

La ricorrenza della Befana è uno dei ricordi indelebili che ha impresso nella mente Ornello Armuzzi, figlio di un noto repubblicano antifascista di Bagnile, che in giovane età non capiva perché a lui non venisse distribuito alcun dono:

ricordo l’episodio della befana, in quel periodo c’era il Marchese Donati, […], che era pa-drone del podere dei Zanelli, lui era un gerarca fascista, qualcuno dice anche piuttosto mite, che veniva, veniva a distribuire la Befana fascista davanti al circolo, lì c’era una cattedra, c’eran dei cartoccini e chiamavano questi ragazzini, noi bambini, […], ma quan-do c’era da chiamare Armuzzi Ornello non lo chiamava mai nessuno, io andavo a casa,

41 Sagre della Nuzialità nei Fasci Rurali, ivi, n. 18, 09 maggio 1937.42 Davide Montino, Befana fascista, in Gabrielli, Montino (a cura di), La scuola fascista, cit., pp. 32 – 34.43 Significative manifestazioni di omaggio al Duce in occasione della Befana Fascista, A Cesena, ivi, n. 2, 14 gennaio 1939.

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andavo a casa molto dispiaciuto perché vedere i miei amici che andavano su, un bel sa-luto, che era il saluto fascista, e poi venivano fuori col cartoccio, arance, carruba, quello che c’era, insomma mi è rimasto dentro, quello non me lo scorderò mai! Io ho chiesto a mio babbo perché non me lo davano, mio babbo diceva: “Si saranno dimenticati…”44

Le iniziative culturali erano organizzate quasi esclusivamente dall’Istituto fasci-sta di cultura e nei vari fasci rurali le tematiche erano le più svariate, da quelle attinenti alla vita agricola a quelle relative alla quotidianità. I titoli potevano essere: “La cambiale”, “Elementi d’igiene”, “Risparmio”, “I soccorsi d’urgenza”, “Diffusione e profilassi del tifo”, ecc.45

Altre potevano essere: “Organizzazione del dopolavoro”, “Malattie delle pian-te”, “L’Italia nella Storia”, “I lavori del terreno” e “La lotta contro la tubercolosi”.46

Quando i temi erano specifici dell’attività agricola l’organizzazione era ge-stita dalla Cattedra ambulante di agricoltura «che tutti gli anni svolge opera al-tamente proficua e lodevole con conferenze granarie e corsi di agricoltura e di frutticoltura»47.

La Cattedra oltre alle singole conferenze svolgeva veri e propri corsi, gratuiti, di «insegnamento professionale ai contadini, affittuari e piccoli agricoltori. […] I frequentanti riceveranno in premio dei libri e degli attrezzi rurali»48. Oltre a questo, per coloro che meglio avevano svolto i corsi, venivano organizzate anche gite d’i-struzione che consistevano nella visita a poderi modello con impianti innovativi49.

Sempre l’Istituto fascista di cultura organizzava conferenze di propaganda che si tenevano nelle sezioni del forese ma che toccavano tematiche di respiro nazionale e internazionale. Gli «oratori hanno parlato del significato della santa battaglia che il Regime combatte in difesa della sanità della razza, illustrando l’opera colossale cui ha dato impulso con la creazione di Istituti, di sanatori e delle assicurazioni obbligatorie»50.

Un’ occasione per propagandare la macchina fascista erano gli anniversari della Marcia su Roma, circostanze nella quale si inauguravano opere pubbliche in tutto il territorio. Se in città i lavori potevano interessare l’ospedale, parchi, giardini, piazzale della stazione, in campagna erano per lo più attinenti a scuole,

44 Intervista a Giuseppe Ornello Armuzzi, 2016.45 Attività dell’Istituto Fascista di Cultura, Nelle Sottosezioni rurali, ivi, n. 65, 30 dicembre 1930.46 Conferenze nelle sottosezioni rurali, ivi, n. 7, 17 febbraio 1930.47 Conferenze di cultura agricola nelle Zone Fasciste Rurali, ivi, n. 43, 2 novembre 1934.48 Scuole Professionali ai contadini, ivi, n. 4, 26 gennaio 1931.49 Corsi professionali per contadini, ivi, n. 38, 19 settembre 1931.50 Istituto Fascista di Cultura, Cesena, ivi, n. 15, 15 aprile 1936.

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cimiteri e case rurali51.Oltre alle conferenze tradizionali erano vari i momenti in cui si diffondeva la

voce del Duce, interessante è un’iniziativa messa in atto dall’istituto culturale in collaborazione con il Gruppo fascista universitario che si cimentò in «conversa-zioni di propaganda politica durante la trebbiatura»:

I fascisti universitari del nucleo di propaganda si recano in bicicletta presso le aie dei contadini, ove si svolge la trebbiatura e, facendo sospendere momentaneamente il la-voro della macchina, illustrano ai rurali ed agli operai i momenti salienti della situazio-ne internazionale […]. Le conversazioni, tenute in tono facile ed aderente quindi a tutte le mentalità, sollevano fervide dimostrazioni di patriottismo e di devozione da parte delle masse rurali52.

Interessante in questo senso leggere quello che lo stesso periodico fascista scri-veva alcuni anni prima sempre in riferimento alla trebbiatura, la cui buona riu-scita era in capo ai fiduciari e «ognuno di essi dovrà rigidamente controllare le squadre della propria zona, segnalando tempestivamente chiunque turbasse in qualsiasi modo il regolare andamento del lavoro». Rigide erano anche le rego-le per i mulini che non potevano svolgere il proprio compito prima della data prefissata dalle autorità neanche per piccole quantità di grano, tranne apposite autorizzazioni53. Una parte del grano si doveva donare in beneficienza all’En-te opere assistenziali e per espresso desiderio del Segretario del Fascio questa quantità doveva essere depositata «presso le Sedi delle Sottosezioni Rurali Fa-sciste, evitando il più possibile di ricorrere a magazzeni di privati»54.

La parte in beneficienza variava dalle zone di pianura, 1 kg di grano per ogni quintale trebbiato, alle zone di collina, 0,600 kg e per quelle di montagna 0,400 kg. Queste quantità erano per metà a carico del proprietario del fondo e per metà del colono55.

Oltre il grano, cultura per eccellenza del tempo, una pratica diffusa in molte case coloniche era la sericoltura, e nel 1935 venne messa in atto una campagna dal governo fascista per l’incremento di questo allevamento e si propose di af-fidare «tale attività […] ai braccianti disoccupati» che incrementerebbero così

51 Le opere inaugurate nella nostra Provincia il 28 Ottobre, ivi, n. 44, 3 novembre 1930; Le opere del Comune di Cesena, ivi, n. 45, 30 ottobre 1932.52 G.U.F., Conversazioni di propaganda durante la trebbiatura, ivi, n. 30, 20 luglio 1940.53 La riunione dei Fiduciari dei Gruppi rurali presieduta dal Segretario del Fascio, ivi, n. 25, 26 giugno 1934.54 Il Segretario del Fascio presiede la riunione dei Gruppi Rurali e Rionali Fascisti, ivi, n. 27, 10 luglio 1934.55 I Fiduciari dei Gruppi Rurali Fascisti riuniti al Fascio Cesenate, ivi, n. 28, 10 luglio 1935.

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il loro reddito sempre misero56. Il problema dell’occupazione dei braccianti era sempre stato presente anche nello stato prefascista ed era una delle motivazioni delle diverse agitazioni agrarie di inizio Novecento.

A proposito di conferenze e lavoro ai bisognosi è interessante notare quello che ricorda Primo Calbi, figlio del gestore della Casa del fascio di Bagnile:

Il mio babbo era custode nel bar del fascio, e io andavo, quando avevo diciassette, quindici, sedici anni insomma, a dargli una mano; una sera venne uno da Cesena a fare una riunione lì, allora dopo la riunione chiese a uno lì, […]: “Lavorate, qui?” e lui disse: “Lavorano solo loro”. Erano i capi dei fascisti, e lo presero a botte dopo, degli schiaffoni, e lo mandarono fuori perché aveva detto così che il lavoro non c’era57.

In questa situazione di miseria per la vita di braccianti e mezzadri bisogna aggiun-gere il dato riferito al nucleo famigliare che poteva contare anche una ventina di componenti; lo Stato fascista mise comunque in atto una «propaganda demo-grafica» che mirava all’incremento dei matrimoni e delle natalità «in obbedienza ai voleri del Capo e alla necessità della Nazione, e a sfatare tutte le insinuazioni tendenti a far credere alla massa che l’aumento di numero valga ad acuire la mi-seria.» La convinzione delle autorità era che il maggior numero di persone portas-se a un miglioramento economico del Paese. In merito a questo il segretario del Partito di Cesena nel 1935 rese «un vivo elogio alla sanità fisica e morale dei nostri rurali che nella battaglia demografica hanno saputo essere all’avanguardia»58.

Un altro importante aspetto che riguardava la vita dei contadini era l’ambien-te abitativo, differente fra mezzadri e braccianti. I primi abitavano ampie case coloniche a due piani, spesso però degradate, in cui vi erano camere da letto, cucina, stalle e vari servizi presenti nell’aia a pertinenza del fondo. I secondi ri-siedevano in piccole case spesso ad un piano e formate da una o due stanze. Nel 1934 venne fatto un censimento delle case rurali nell’intera provincia di Forlì59, da parte della Federazione provinciale fascista degli agricoltori per verificare lo stato delle abitazioni dal punto di vista igienico ed edilizio. Il censimento inte-ressò case sparse, comprese in centri «nominalmente» urbani ed agglomerati. Prendendo in esame solo quelle del Cesenate risultò che su un totale di 6.500 case, 2.426 bisognavano di piccole riparazioni e 189 erano inagibili. Il lavoro di eventuali ristrutturazioni, più o meno invasive o di demolizione e ricostruzione doveva essere imponente e per questo Mussolini promise un intervento statale,

56 I Fiduciari dei Gruppi rionali e rurali a rapporto, ivi, n. 16, 16 aprile 1935.57 Intervista a Primo Calbi, 2011.58 I Fiduciari dei Gruppi rionali e rurali a rapporto, in “Il Popolo di Romagna”, n. 16, 16 aprile 1935.59 La provincia di Forlì al tempo comprendeva anche il territorio riminese.

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anche se dilazionato in trent’anni. Il problema fu che in successione all’annun-cio degli incentivi ci fu un arresto del lavoro edilizio in zona rurale in attesa dei finanziamenti60.

Se dalle fonti fasciste esaminate spesso si leggono intenzioni rivolte a favori-re un’emancipazione della classe rurale è dalle testimonianze orali, come quelle riportate precedentemente, che si apprende come in realtà la dittatura abbia trattato le classi meno abbienti di cui la campagna era la terra madre e questo fu anche uno dei motivi per cui al momento della caduta di Mussolini fu intenso l’apporto che venne da questi luoghi poveri di denaro ma ricchi di spirito alla lotta di Liberazione.

Dopo la disfatta del 25 luglio 1943 e la ricostituzione dello Stato fascista, ov-vero la Repubblica sociale italiana, vennero ipotizzate alcune iniziative da parte del nuovo governo che miravano a raggiungere il consenso delle classi sociali più deboli. Nel “Manifesto di Verona”, emanato il 14 novembre 1943, durante il primo congresso del Partito fascista repubblicano (Pfr), si parlava anche di una forma di socializzazione delle industrie, mai realizzata, e della espropriazione delle terre incolte a favore dei contadini. In riferimento a questo nel marzo del 1944 sul-le colonne de “Il Popolo di Romagna” apparvero due corposi articoli, nel primo è scritto: «per quanto concerne l’impresa agricola, il manifesto programma del P.F.R. se non accenna alla socializzazione della terra, d’altra parte non la nega. Tuttavia, i grossi agricoltori possono mettere il cuore in pace, poiché, sin qui, nes-suno ha chiesto di socializzare la terra»61. Nel secondo articolo è aggiunto però:

Ma noi che aspiriamo e vogliamo, come ha sempre voluto il Duce, il benessere del popolo siamo anticapitalisti e desideriamo che il capitale sia ridotto da strumento di ricchezza individuale e di odiosa padronanza a strumento di produzione alla quale solo chi lavora ha il diritto di partecipare e di dividerne gli utili; e vogliamo ancora, noi uomini dei campi, l’abolizione del latifondo sia esso condotto a mezzadria o ad altro sistema e la eliminazione di ogni forma di salariato agricolo che si arresti alla sola mercede62.

Parole che suonano stonate, dette da chi, ventidue anni prima aveva raggiunto il potere proprio seminando terrore nelle campagne grazie al finanziamento degli agrari.

60 Le nostre case rurali, ivi, n. 22, 5 giugno 1934.61 La socializzazione dell’azienda e i contadini ne “Il Popolo di Romagna”, settimanale dei fascisti repubblicani forlivesi, n. 10, 11 marzo 1944.62 Socializzare l’agricoltura, ivi, n. 10, 11 marzo 1944.

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Mattia Brighi, Fascismo rurale 219

“Il Popolo di Romagna”, 11.2.1939.

“Il Popolo di Romagna”, 17.11.1941.

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Fascismo e società italiana220

“Il Popolo di R o m a g n a ” , set t imanale della Fede-razione pro-vinciale fasci-sta forlivese, 27.11.1934.

Il “Corriere Padano”, 11.3.1937.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 221-228

Non ci si occuperà qui del periodo propriamente bellico della Seconda guerra mondiale per gli evidenti stravolgimenti che essa portò. Ci si limiterà a fare un primo cappello introduttivo e riepilogativo delle fasi più salienti per poi soffer-marsi sugli aspetti meno noti. Aspetti, si vuole sottolineare, anche tecnici, ma che traducevano pur sempre lo spirito del regime, e di conseguenza il suo riflesso nella società, in tutto quel mondo che sono stati i trasporti in particolare quello ferroviario.

La società italiana, durante il regime, fu gestita da un governo dittatoriale che aveva l’obiettivo di conformare il modo d’essere e di comportarsi degli ita-liani al modello sociale imposto dall’ideologia fascista, la quale veniva proposta (o meglio imposta) come fonte ispiratrice di un movimento alternativo verso le restanti e opposte ideologie dell’epoca rappresentate dal capitalismo e dal co-munismo. Questo doveva realizzarsi attraverso un sistema che faceva leva sulla costituzione delle corporazioni e sul raggiungimento di un duraturo benesse-re economico. L’immagine dell’Italia fascista non doveva solo essere marziale e forte, ma anche produttiva ed efficiente. In questo contesto furono assunti a miti i trasvolatori dei mari e i primati in campo aeronautico e navale, mentre l’efficienza era rappresentata dai treni in orario, sintesi, quest’ultima, di una or-ganizzazione realizzata anche grazie alle innovazioni tecnologiche. L’idea che si voleva dare era quella di una modernità da paese avanzato ed anche questo doveva contribuire a cambiare la mentalità degli italiani. In sostanza quello che veniva celebrato era costituito da un senso di supremazia legato alle specifiche scelte imposte dal regime.

Occorre sottolineare innanzitutto come il regime, anche nell’ambito dei tra-sporti e di questa categoria di lavoratori, fu autoritario e repressivo arrivando a peggiorare le condizioni di lavoro, riducendo gli stipendi e aumentando le ore

FerrovieFABIO CASINI

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di attività lavorativa, ma in cambio fu in grado, successivamente, di fornire quel relativo benessere, soprattutto ai ferrovieri (e alle proprie famiglie), attraverso una politica fatta, come si direbbe ora, di particolari benefit tipici della politica corporativa che espresse. Il regime fu pertanto autoritario e repressivo nella pri-ma fase, seguita alla presa del potere ed alla necessità di riorganizzare l’intero sistema dei trasporti (in particolare quello ferroviario)1. Basti citare il ruolo svol-to dall’istituito (1923) reparto di Milizia ferroviaria facente parte della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale che aveva compiti di vigilanza e di sorve-glianza anche verso lo stesso personale ferroviario2. Agli inizi degli anni Venti vennero ridimensionati i poteri del Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie dello Stato e le responsabilità apicali di gestione dell’ente venivano assunte dal neo nato Ministero delle Comunicazioni che subentrava al Ministero dei Lavo-ri pubblici (1924). Nel 1926 venne istituito il Ministero delle Corporazioni con funzioni di gestione e di controllo sui lavoratori e sui salari. Nelle Ferrovie dello Stato (Fs), in questo periodo, furono ad esempio prese misure per contrastare il potere sindacale dei lavoratori adottando forti epurazioni verso di essi in parti-colare contro quelli avversi al regime. Il risultato che ne scaturì fu il licenziamen-to di molti ferrovieri che pagarono il costo del raggiungimento dell’obiettivo del risanamento di bilancio. Come vedremo, successivamente furono però introdot-te quelle iniziative (come ad esempio la “provvida ferroviaria” o la costruzione di alloggi riservati ai ferrovieri o l’elargizione di sussidi vari), volte a perseguire il benessere sociale dei lavoratori, che come detto traducevano la politica cor-porativa del regime nell’intento di ampliare il consenso e di legare indissolu-bilmente i lavoratori (e le proprie famiglie) al regime stesso. L’opera di riforma razionalizzatrice messa in atto non conseguì sempre gli obiettivi prefissati, ma se da un lato colpì inesorabilmente talune classi di lavoratori, dall’altro conteneva anche velleità modernizzatici assegnando, ad esempio, alla funzione tecnica ed ai tecnici un ruolo da protagonisti. In ambito ferroviario questo si tradusse in una ventata di progresso tecnologico in grado di raggiungere importanti risultati e primati. Fra i meno noti si vuole qui sottolineare l’opera svolta dall’ufficio mate-riale e trazione di Firenze delle Ferrovie dello Stato che raggiunse un livello di competenza in grado di fare scuola anche per le generazioni future. Tutte queste iniziative fecero cadere in uno stato latente il dissenso, ma era evidente come tale politica, alla lunga, avrebbe soffocato comunque ogni idea portando al di-sastro la nazione. Lo stile di vita dei ferrovieri si conformò, in ogni caso, alle linee guida comandate dal fascismo e si espresse in un forte senso di appartenenza alla categoria dovuto alle particolari iniziative od agevolazioni ad essi riservate.

1 Stefano Maggi, Le ferrovie, Bologna, Il Mulino, 20123, pp. 135-136.2 Ibid.

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Emblematico in tal senso fu l’istituzione del premio “Abbellimento Stazioni” che aveva lo scopo di migliorare l’aspetto e la pulizia dei fabbricati viaggiatori, dei locali ferroviari e dei piccoli giardini di pertinenza attraverso un intervento atti-vo del personale. Ai capi impianto più solerti era assegnato un riconoscimento3. Non di meno è qui utile ricordare l’opera svolta dal Dopolavoro ferroviario isti-tuito con Regio decreto 25 ottobre 1925 il quale aveva lo scopo «di incoraggiare anche nel campo ferroviario, l’impiego sano e proficuo delle ore di libertà dei lavoratori per mezzo di istituzioni intese a sviluppare le loro capacità fisiche, intellettuali e morali»4. I campi in cui si svolgevano le attività riguardavano gene-ralmente la cultura, lo sport, la ricreazione e l’assistenza. Il Dopolavoro poteva contare su fondi propri ed era in gran parte finanziato dall’amministrazione fer-roviaria stessa. Il personale iscritto aveva a disposizione, per le attività previste, locali adibiti a: sale riunioni, palestre, biblioteche, ecc.

Per conseguire agli obiettivi che ci si era posti si fece largo uso di sistemi di propaganda individuando, in taluni settori, una ideale cassa di risonanza. I trasporti, in questo senso, ben si prestavano per il compimento di questa opera. Relativamente a questo campo, si sviluppò pure una sorta di arte grafica mirata alla pubblicità dei mezzi e dei servizi ferroviari di prestigio (vedi la realizzazione di dépliant pubblicitari specificatamente studiati come ad esempio quelli realiz-zati per l’autotreno ATR100) che trovava, in questa celebrazione del superfluo, il messaggio ideale di un benessere finalmente raggiunto5.

In questo ambito si vuole pure ricordare come le stazioni ferroviarie rappre-sentassero innanzitutto un biglietto da visita del regime. Questo si evidenziava in modo esemplare nell’architettura delle nuove stazioni anche di media impor-tanza (es. Montecatini) oltre che di primaria importanza (es. Firenze Santa Maria Novella) che cominciarono ad essere costruite o rinnovate nella classica impron-ta fascista.

Inoltre furono perseguite quelle strategie in grado di migliorare l’infrastrut-tura ferroviaria e il materiale mobile portandoli, in parte, ai livelli degli standard europei. Come vedremo, le innovazioni apportate contribuirono in modo rile-vante ad accorciare le distanze e ad avvicinare gli italiani.

I più veloci e funzionali spostamenti conseguiti, associati ad una mirata politi-ca di agevolazioni (vedi l’introduzione dei treni popolari), consentirono l’accesso alle località di villeggiatura anche alle classi sociali meno abbienti e consenti-rono una migliore rapidità dei viaggi d’affari oltre che ad un impulso ai viaggi di

3 Franco Rebagliati, Franco Dell’Amico, Il treno unisce l’Italia. Un viaggio lungo 150 anni 1861-2011, Pinerolo, Alzani Editore, 2011, p. 153.4 Ibid.5 Claudio Pedrazzini, Pubblicità per un treno blasonato, in “I Treni”, 2012, n. 351, pp. 20-21.

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lusso per le classi economicamente più avvantaggiate. L’architettura dei nuovi edifici di stazione, le infrastrutture (vedi la costruzione delle direttissime), i nuovi servizi (vedi l’istituzione dei treni rapidi) e l’innovativo materiale mobile (vedi gli elettrotreni e le littorine) contribuirono ad elevare il grado di benessere degli italiani modificando le loro abitudini e proiettavano la società italiana, o quan-tomeno una parte di essa, verso una dimensione europea da paese sviluppato.

1. Il materiale mobile e i sistemi di trazione

Se fino la prima metà degli anni Venti si era continuato a puntare ancora sulle locomotive a vapore, successivamente si cambiò strategia. Per ragioni di tipo economico (vedi la carenza di combustibile fossile come il carbone), in Italia si erano già cominciate a effettuare – ancora prima dell’avvento del fascismo anche grazie agli studi dell’italiano Galileo Ferraris – delle sperimentazioni sulla trazione elettrica poi confluite nell’adozione del sistema trifase6. La progettazio-ne di locomotive come la E550, adatte per il servizio da montagna, fecero l’Italia pioniera in questo campo. Ciononostante, questo sistema non rispose appieno alle esigenze della rete italiana, ma pur tuttavia i tecnici rimanevano titubanti verso l’adozione di un sistema diverso come quello a corrente continua (i cui miglioramenti tecnologici cominciavano ad affermarsi proprio in quel periodo lasciando già intravedere una migliore adattabilità rispetto la connotazione ge-omorfologica del paese costituita anche da importanti spazi di pianura). Fu solo grazie all’intervento del potere politico che si propese verso questa sperimen-tazione (fine anni Venti)7. Gli eventi, alla lunga, fecero emergere la bontà della decisione degli enti governativi e l’adozione del sistema a corrente continua (a 3000 V) si rivelò estremamente funzionale alle esigenze del paese anche grazie alla costruzione di potenti elettrotreni (gli Etr 2008) dal caratteristico frontale elegantemente aerodinamico e di grandi locomotive come la E428 e la E626. L’elettrificazione rappresentò un bel salto di qualità per la maggiore rapidità raggiunta dai convogli. Inoltre, per quanto concerneva le linee secondarie e i

6 Giovanni Cornolò, Locomotive Elettriche, Ponte San Nicolò (Pd), Ermanno Albertelli Editore, 2016, vol. I, pp. 9-54.7 Ivi, pp. 55-96.8 Angelo Nascimbene, Una storia feconda, Verso l’alta velocità, L’ETR per eccellenza, Le quattro metamorfosi, in “Tutto treno”, 2013, n. 276, pp. 16-51.

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servizi locali e per contrastare la nascente concorrenza del trasporto su gomma, furono concepite particolari automotrici “leggere”, subito ribattezzate “Littori-ne”, funzionali al servizio vicinale. L’introduzione di tali mezzi fu incentivata da particolari disposizioni del Ministero delle Comunicazioni e consentiva l’eleva-zione della velocità d’esercizio in funzione di una minore sollecitazione all’ar-mamento ferroviario (effetto particolarmente amplificato e quindi dannoso sulle linee tortuose di montagna). Nel panorama dei mezzi in dotazione alle Fs non poteva mancare il treno destinato ai viaggi del Duce e dei gerarchi in completa «sintonia con il dinamismo futurista di cui si ammantava il fascismo»9.

2. Il servizio

Contestualmente allo sviluppo e alla politica della trazione elettrica venne quin-di intrapresa anche la politica dei mezzi leggeri (sia diesel che elettrici); entram-be le iniziative furono portate avanti per sopperire alle limitazioni imposte da un territorio, come quello italiano, prevalentemente montano, ma pur sempre con ampie tratte importanti in pianura. La progettazione dei veicoli leggeri non fu solo rivolta ai mezzi destinati ai servizi locali, ma anche a quelli destinati ai servizi rapidi sulle lunghe distanze (vedi gli Atr 100 che riproducevano una tela del pittore torinese Mario Caffaro Rore10). Fra gli anni Venti e Trenta, per venire incontro alla domanda di un più veloce spostamento da parte delle classi più ricche con treni più veloci e comodi si era imposta l’idea di accrescere tale of-ferta istituendo la categoria dei treni “rapidi”. L’importanza che dava il regime, all’istituzione di questi servizi, era tale che anche i maggiori quotidiani locali ne riportavano notizia come ad esempio avvenne in occasione dell’immissione in orario dell’istituendo rapido Torino-Venezia11. Questi treni, che collegavano le città principali con poche fermate intermedie, erano effettuati con l’ausilio di carrozze di prima classe e del convoglio poteva far parte una carrozza ristoran-te. Tutto questo alimentava l’idea di vivere in uno stato di progresso all’altez-za dei maggiori paesi europei e assecondava i desideri della classe sociale più abbiente. Le razionalizzazioni e le migliorie sui servizi offerti furono conseguiti

9 Angelo Nascimbene, L’Elettoreno Salone, in “Tuttotreno & Storia”, 2014, n. 31, pp. 16-25.10 Angelo Nascimbene, ATR100: i Padani, in “Tuttotreno & Storia”, 2012, n. 28, pp. 34-47.11 Claudio Pedrazzini, 1937: nasce il servizio rapido Torino-Venezia con l’ALn 40 Fiat, in “Mondo ferroviario”, 2016, n. 342, pp. 32-47.

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anche attraverso i regimi di circolazione dove si arrivò dapprima a sperimentare (nel 1926 sulla Fabriano-Urbino), e poi ad introdurre definitivamente su deter-minate linee, il sistema a dirigenza unica12. Il meccanismo, molto funzionale alle tratte con traffico limitato, prevedeva un abbattimento dei costi sul personale a vantaggio dell’economia di gestione e garantiva quindi la sopravvivenza della linea.

3. Le infrastrutture

Vere e proprie icone del regime, tanto da essere raffigurate (nei loro molteplici aspetti) in numerose cartoline postali, furono le direttissime13. Tali opere, oltre all’innegabile funzionalità, dovevano celebrare la supremazia italica nel campo della tecnica e delle scienze e contribuirono ad alimentare il consenso. Come già avvenuto per le autostrade di prima generazione, esse proponevano un nuo-vo modo di viaggiare agli italiani attraverso specifiche vie di comunicazione che si affrancavano dalle vecchie vie e dai vecchi sistemi e mezzi di trasporto fino ad allora utilizzati. A loro erano infatti destinati gli elettrotreni di nuova concezio-ne (ETR 200). Le direttissime Roma-Napoli (1927) e Bologna-Prato (1934) furono pensate come raddoppi a linee storiche esistenti, ma avevano meno stazioni in-termedie ed un andamento più rettilineo e meno acclive (grazie alla costruzione di gallerie pure queste rientranti nel novero dei vanti nazionali). Tali realizza-zioni contribuirono a far raggiungere, agli inizi degli anni 40, la massima esten-sione della rete ferroviaria (fra Fs e concessionarie). Ad onor del vero occorre sottolineare che tali opere erano state concepite ancora prima dell’avvento del fascismo al governo, ma furono da esso fatte proprie e completate durante il ventennio. Come l’autarchia, quella della costruzione di nuove infrastrutture fu una politica mirata, tendente a sostenere l’economia (in questo caso a carico della spesa pubblica).

12 Maggi, Le ferrovie, cit., pp. 137-138.13 Ivi, p. 150.

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4. I treni per tutti (i treni popolari)

Quella dei treni popolari (1931-1939) fu un’iniziativa fortemente voluta dal re-gime che intendeva dimostrare come i benefici della politica sociale intrapresa riguardassero anche le classi meno abbienti della popolazione. Se i benestanti potevano contare sui treni rapidi effettuanti servizi di prestigio, a tutti gli altri non erano precluse, ad esempio, le vie di accesso alle spiagge ed ai luoghi di vil-leggiatura ottenute, appunto, attraverso l’istituzione dei treni popolari organiz-zati dall’Opera nazionale dopolavoro. Per consentire un’agevole fruizione, a tali treni, furono anche migliorate le carrozze ed appositamente studiati gli orari che consentivano “una andata e ritorno” in giornata relativamente al raggiungimen-to delle località di villeggiatura. Ma la forza di tale iniziativa stava nelle conside-revoli agevolazioni tariffarie riservate, a questi treni, nelle particolari giornate di effettuazione (quelle festive o comunque libere dal lavoro).

I convogli popolari rappresentarono un fenomeno di massa e con essi si in-staurano abitudini come la gita fuori porta o il fine settimana che si consoli-darono nel tempo ben oltre la caduta del regime. Di tutto questo ne ebbe un giovamento pure l’amministrazione ferroviaria che traduceva in un risultato economico la saturazione delle carrozze ferroviarie e inoltre veniva data una risposta atta a contrastare l’aumentato livello di traffico concorrente su gomma. Dall’inizio alla fine, il tutto fu concepito come un’operazione politico-sociale-culturale di largo respiro immancabilmente alimentata dalla propaganda. I treni popolari rimasero indelebilmente associati alle prime forme di turismo di massa, anche se riguardarono prevalentemente una parte del territorio ovvero quello circoscritto al bacino della rete ferroviaria. Questa peculiarità però non faceva altro che evidenziare una situazione che metteva in luce le due facce di una stes-sa medaglia ovvero quella di un regime appariscente da un lato, ma arretrato dall’altro. Questa connotazione, di un paese diviso e carente nella diffusione dei servizi ferroviari (ad onor del vero in parte compensati da quelli automobilistici) rimase in eredità ai governi del dopoguerra in quanto consegnò ai posteri una rete ferroviaria certamente inadeguata a soddisfare le esigenze di una nazione emergente (quella degli anni del boom economico). Già a partire dalla fine degli anni Venti la politica fascista stava orientandosi verso la diffusione dei servizi automobilistici introducendo, ad esempio, le linee di gran turismo e comincian-do a sopprimere, dal 1931-32, un certo numero di linee ferroviarie (in particolare tranviarie extraurbane andando queste, anche fisicamente, in diretta concorren-za col mezzo stradale)14. Questa particolarità cominciò a sovvertire il difficile

14 Stefano Maggi, Storia dei trasporti in Italia, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 224.

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rapporto fra strada e ferrovia che vide poi il mezzo su gomma vincere su quello su strada ferrata imponendo l’automobile come indispensabile strumento a ser-vizio degli stili di vita delle generazioni future.

5. Le ferrovie coloniali

La rete ferroviaria coloniale italiana fu certamente di minore importanza e im-patto rispetto le esigenze dei paesi attraversati e rispetto le reti degli altri im-peri coloniali. Ciononostante rappresentava un’impronta fascista irrinunciabile oltre che un indispensabile modo per muoversi all’interno dei paesi assoggettati. La ferrovia (così come beninteso le altre opere del regime: strade, ponti, ecc.) contribuì ad alimentare l’idea che l’occupazione italiana portava progresso e modernità nei paesi occupati. La rete, per la maggior parte ereditata dai governi precedenti, non ebbe sviluppi felici a causa dello scartamento ridotto adottato e del debole armamento utilizzato. Inoltre la distanza dalla madrepatria e gli eventi bellici non ne consentirono un adeguato sviluppo. Poche sono le tratte sopravissute al giorno d’oggi.

6. La provvida ferroviaria

Si chiude citando un’iniziativa tornata recentemente alla ribalta, in veste moder-na, negli odierni gruppi di acquisto collettivo, ma che in precedenza era stata già sperimentata e avviata per iniziativa dell’amministrazione ferroviaria a favore dei propri lavoratori. Tale iniziativa, conosciuta col nome di “provvida ferroviaria”, fu istituita nel 1924 e si faceva carico dell’acquisto, a prezzi estremamente agevola-ti, dei maggiori beni di consumo direttamente dai produttori15. Tali beni venivano poi rivenduti tramite l’ausilio di veri e propri negozi allestiti direttamente su dei vagoni ferroviari i quali venivano spostati da una stazione all’altra secondo date programmate. Tale iniziativa, che si protrasse fino al 1969, incontrò i favori dei ferrovieri entrando di fatto nel novero delle loro abitudini e delle loro aspettative.

15 Maggi, Le ferrovie, cit., p. 136.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 229-246

La storia dell’istruzione tecnica e professionale non ha ancora trovato, per quan-to riguarda il periodo fascista, l’attenzione che merita. Alcuni contributi di ot-timo livello si sono fermati all’età liberale, mentre la svolta che questa branca dell’educazione vive tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta non è stata tematizzata se non in maniera estremamente sintetica all’interno di opere di carattere generale sulla storia della scuola. Manca, ad esempio, una storia della Direzione generale dell’istruzione tecnica, fondata nel 1928 all’interno del Ministero della Pubblica istruzione, e sono rarissimi per questo periodo gli studi su singoli istituti che riescano a collegare, in modo convincente, la dimensione locale a quella nazionale e i temi della storia della scuola e delle istituzioni sco-lastiche a quelli più ampi della storia sociale1.

Il crescente interesse che si sta manifestando negli ultimi anni per la salvaguar-dia e l’inventariazione degli archivi scolastici e per ricerche scientifiche o iniziati-ve didattiche che facciano tesoro di questi nuclei documentari lascia, comunque, sperare in importanti novità sul versante degli studi storici, sia per quanto riguarda l’approfondimento delle dinamiche sociali e culturali del nostro paese (e delle sue realtà regionali e cittadine), sia per quello che concerne la storia di un settore fon-damentale dell’amministrazione pubblica, quello appunto dell’istruzione2.

Il fondo dell’istituto bolognese Aldini-Valeriani, riordinato e inventariato

1 Una esigenza rimarcata anche da Stefano Pivato, Storia locale, storia nazionale e storia dell’istru-zione artistico-professionale, in Wanda Bergamini et al. (a cura di), Arti e professioni. Istituto statale d’arte di Bologna, 1885-1985, Modena, Panini, 1986, pp. 9-14.2 Cfr. Simonetta Soldani, Andar per scuole: archivi da conoscere, archivi da salvare, in Istituto ro-mano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza, Memorie di scuola. Indagine sul patrimonio archivistico delle scuole di Roma e provincia, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 9-29.

Istituti tecnici industrialiCARLO DE MARIA

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nell’ambito del progetto “Una città per gli archivi” 3, ha nelle carte relative agli anni Trenta e Quaranta una delle sue parti più ricche e consistenti. Nate per ini-ziativa municipale nella prima metà del XIX secolo, le scuole di scienze applicate Aldini-Valeriani erano state rifondate e rilanciate, nel 1878, come Istituto profes-sionale di arti e mestieri, ancora di proprietà comunale, ma sottoposto al control-lo del Ministero di agricoltura, industria e commercio (Maic). Fu, infatti, il dicaste-ro economico, e non la Pubblica istruzione, a occuparsi per quasi settant’anni, in Italia, della formazione professionale, fino alla riforma Belluzzo del 1928.

1. Il primo sviluppo dell’educazione tecnico-professionale in Ita-

lia: dalla fine dell’Ottocento alla Grande guerra

La crescente importanza dell’istruzione tecnico-professionale nei decenni a ca-vallo del 1900 è da ricondurre, prima ancora che a processi oggettivi di trasfor-mazione economica (e quindi di richiesta e sollecitazione da parte del mondo industriale), a un lento allargamento della partecipazione politica e sociale dei ceti urbani di tipo artigiano, piccolo-borghese e proletario.

In un secondo momento, con il decollo industriale di inizio Novecento le scel-te scolastiche si orientarono in maniere sempre più eloquente: l’incremento de-gli iscritti fu particolarmente forte nel ramo tecnico, mentre un lieve regresso si registrò in quello classico. Se ancora alla fine dell’Ottocento gli studenti del ginnasio-liceo erano non solo in continua crescita, ma costituivano il doppio de-gli iscritti a scuole e istituti tecnici, bastarono pochi anni perché si giungesse a un sorpasso dei secondi sui primi4.

Questi fenomeni di modernizzazione, assai diseguali tra Nord e Sud, si riper-cossero sull’organizzazione interna delle scuole per le arti e i mestieri. Queste

3 Carlo De Maria, Matteo Troilo (a cura di), Archivio dell’Istituto Aldini Valeriani Sirani (1901-2007). Inventario, 2015, in Città per gli Archivi, Sistema informativo on line del progetto “Una città per gli archivi”, http://www.cittadegliarchivi.it/it-cpa-sc-aldini-valeriani-sirani. Si veda, anche, Armando Antonelli (a cura di), Spigolature d’archivio. Contributi di archivistica e storia del progetto “Una città per gli archivi”, Bologna, Bononia University Press, 2011.4 Cfr. Giuseppe Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, in Storia d’Italia, Volume quinto, I documenti, Tomo II, Torino, Einaudi, 1973, pp. 1695-1736 (in part., pp. 1704-1705); Carlo G. Lacaita, L’istruzione tecnica e lo sviluppo economico in Italia, 1840-1914, in “Rivista milanese di economia”, 1986, n. 19, pp. 135-144, p. 142; Vera Zamagni, Istruzione e sviluppo economico. Il caso italiano. 1861-1913, in Gianni Toniolo (a cura di), L’economia italiana, 1861-1940, prefazione di Alberto Caracciolo, Roma-Bari, Laterza, 1978, pp. 137-178, p. 152.

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erano nate all’interno di una società sostanzialmente agricola e artigiana, ma in epoca giolittiana cominciarono a modellarsi sulle nuove esigenze del mondo in-dustriale, ponendosi in relazione con i primi bisogni di stratificazione delle man-sioni operaie e individuando un rapporto concreto con le qualifiche di fabbrica.

A spingere verso il cambiamento fu l’intervento legislativo nazionale, che con la legge 14 luglio 1912, n. 854 (legata al nome del ministro Francesco Saverio Nitti)5, e il successivo regolamento attuativo del 22 giugno 1913, ristrutturò l’i-struzione professionale in base a una partizione su tre livelli formativi: di primo grado per operai, di secondo grado per capi operai, di terzo grado per capi tecni-ci. Sotto la scorta di quei provvedimenti, le Aldini-Valeriani assunsero la fisiono-mie di una vera e propria scuola industriale, mettendosi rapidamente in sintonia con lo sviluppo economico delle regione centro-settentrionali.

Malgrado la crescente attenzione dimostrata per le scuole professionali dall’autorità governativa, sia in termini di una più precisa definizione legislativa che di maggiori contributi finanziari, la struttura portante di questo ramo dell’istru-zione continuò ad avere carattere prettamente locale, come espressione di una convergenza di sforzi e di interessi da parte di amministrazioni comunali e provin-ciali, di organizzazioni operaie e sindacali, di istituzioni private e camere di com-mercio; una convergenza che diede risultati concreti di non scarsa importanza, anche se con il limite di una forte concentrazione proprio nelle città e regioni già economicamente e socialmente più progredite. Inoltre, la maggiore sensibilità per il rapporto fra sviluppo produttivo, formazione professionale, ricerca scientifica e innovazione tecnologica si tradusse unicamente in iniziative e modifiche sparse e di varia portata settoriale che rimasero, però, sempre «al di qua di una riforma globale, organicamente concepita, dell’organizzazione degli studi ai vari livelli»6.

2. La riforma Gentile e la successiva revisione

Il regio decreto 6 maggio 1923, n. 1054, relativo all’ordinamento dell’istruzione

5 Carlo G. Lacaita, Istruzione, cultura e sviluppo in Francesco Saverio Nitti, in Francesco Saverio Nitti. Meridionalismo e europeismo. Atti del convegno di Potenza, 27-28 settembre 1984, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 81-102 (in part., pp. 98-100).6 I persistenti limiti della politica scolastica della classe dirigente giolittiana, con particolare rife-rimento all’istruzione tecnico-professionale, sono messi in rilievo in maniera magistrale in alcune pagine di Alberto Aquarone, L’Italia giolittiana, Bologna, il Mulino, 1988, ripubblicate nella parte antologica del volume di Angelo Malinverno, La scuola in Italia. Dalla legge Casati alla riforma Moratti (1860-2004), Milano, Unicopli, 2006, pp. 134-135.

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secondaria, è riconosciuto come il provvedimento più importante della riforma attuata da Giovanni Gentile, ministro della Pubblica istruzione del governo Mus-solini. Nel complesso, l’istruzione tecnico-professionale subì un arretramento, rispetto al precedente periodo di espansione. Per prima cosa vennero soppresse le scuole tecniche, che avevano costituito, per oltre settant’anni, «una vera scuo-la di popolo», offrendo «alle classi inferiori la possibilità di salire socialmente e culturalmente» e rappresentando per questo «l’organo principale della demo-crazia italiana in formazione»7.

Gli studi tecnici delineati dalla legislazione del 1859-60 prevedevano, infatti, dopo la licenza elementare, l’iscrizione alla scuola tecnica (biennale, poi trien-nale) e da questa, attraverso un esame, all’istituto tecnico, articolato in quattro sezioni: commerciale (per ragionieri), agronomica (per geometri), industriale e fisico-matematica. Quest’ultima, che durava tre anni anziché due come le altre, era la sola a dare accesso all’università e, più precisamente, alla facoltà di scien-ze matematiche, fisiche e naturali, costituendo una via per l’emersione sociale della piccola borghesia e del proletariato urbano.

Al posto delle scuole tecniche vennero introdotte le scuole complementari, che erano di durata triennale come le precedenti, ma che non davano la pos-sibilità di proseguire gli studi. A un livello ancora inferiore, la riforma Gentile prevedeva dei corsi integrativi o corsi postelementari rivolti soprattutto alla po-polazione delle campagne.

L’istruzione tecnica contemplata dalla riforma del 1923 era unicamente quel-la relativa alla formazione di geometri e ragionieri (cioè figure socio-professio-nali molto tradizionali), mentre l’educazione industriale venne lasciata «sde-gnosamente da parte» e demandata completamente al Ministero dell’Economia nazionale, nato dall’accorpamento dei ministeri di Industria e commercio e del Lavoro8. La sezione fisico-matematica dei vecchi istituti tecnici, che era stata in qualche modo una scuola di preparazione all’università per i “non predestinati”, venne abolita. Il canale privilegiato per le facoltà non umanistiche divenne il liceo scientifico, di nuova istituzione. L’insegnamento del latino venne esteso an-che ai percorsi scolastici di geometri e ragionieri, conferendo a questi studi una patina di rispettabilità sociale, rispetto agli altri indirizzi tecnico-professionali esclusi dalla Pubblica istruzione.

7 Questa suggestiva analisi è contenuta nel fondamentale studio di Lamberto Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1951, p. 251, ed è ripresa da Giovanni Genove-si, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 170.8 Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, cit., p. 1715. Si vedano, anche, Federico Cereja, La scuola e il mondo del lavoro. Problemi dell’istruzione tecnica e professionale, in La classe operaia durante il fascismo, “Annali della Fondazione Feltrinelli”, n. 20, Milano 1981, pp. 51-79, (in part., pp. 57-58); Aldo Tonelli, L’istruzione tecnica e professionale di Stato nelle strutture e nei programmi da Casati ai giorni nostri, Milano, Giuffrè, 1964, p. 101.

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L’invenzione più significativa della riforma Gentile fu indubbiamente la scuo-la complementare. Essa rappresentò il tentativo di dirottare in un vero e proprio «canale di scarico», chiuso a sbocchi formativi ulteriori e quindi a ogni passaggio verso l’alto, la gran parte degli strati popolari, che in virtù del diploma ottenuto avrebbero potuto accedere, nel migliore dei casi, a un impiego nel grado più basso dell’amministrazione statale9. Gli effetti quantitativi della riforma furono impressionanti. Diminuirono gli iscritti alle scuole secondarie: 260 mila nel 1913, 337 mila nel 1922-23, 237 mila nel 1926-27. A livello universitario la flessione si ebbe nelle facoltà come scienze matematiche e ingegneria alle quali, in prece-denza, si poteva accedere passando attraverso la scuola tecnica. La percentua-le dei figli di operai iscritti all’università passò dal 5 al 3 per cento, nonostante l’aumento complessivo del proletariato industriale, mentre i figli di impiegati salirono dal 10 al 24 per cento. La stessa scuola complementare andò incontro a un fallimento clamoroso: nel 1923-24 i suoi iscritti furono 83 mila, contro i 141 mila che aveva avuto la scuola tecnica appena l’anno precedente10.

Un vero e proprio rifiuto di massa, al quale si aggiunsero le preoccupazioni espresse, di fronte al carattere fortemente umanistico della riforma, dalle forze imprenditoriali più moderne, di cui si fece portavoce “La Stampa” di Torino. Se-condo i critici più arguti, «l’instaurazione universale del latino» avrebbe finito per formare niente altro che «una generazione di retori»11.

Per comprendere questa levata di scudi della borghesia industriale, bisogna considerare che, soprattutto nel «triangolo» Torino-Genova-Milano (ma anche a Bologna, capitale industriale dell’Emilia), la Prima guerra mondiale aveva ac-celerato le trasformazioni tecnologiche e generalizzato la produzione in serie, ponendo sempre più l’accento sulla formazione del lavoratore industriale12. Al-cuni «ritocchi» alla riforma del 1923 (all’epoca si parlò proprio di «politica dei ritocchi») parvero presto indispensabili.

9 Giorgio Canestri, Giuseppe Ricuperati, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, Torino, Loe-scher, 1976, p. 141.10 Per l’analisi quantitativa degli effetti della riforma Gentile, si veda ancora una volta Canestri, Ricuperati, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, cit., p. 142, dove si attinge alle precedenti ricerche di Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, il Mulino, 1974.11 Le parole citate sono tratte da un editoriale della “Stampa” pubblicato il 1° maggio 1923, poi ripreso in Carlo G. Lacaita, L’istruzione tecnica dalla riforma Gentile alle leggi Belluzzo, in Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Italia, Cultura e società negli anni del fasci-smo, Milano, Cordani, 1987, pp. 261-297, p. 265.12 Interessanti spunti, a questo proposito, emergono dal volume di Diego Robotti (a cura di), Scuole di industria a Torino. Cento e cinquanta anni delle Scuole tecniche San Carlo, Torino, Centro studi piemontesi, 1998, e sono messi bene in rilievo in una recensione di Ester De Fort compresa all’inter-no della rassegna bibliografica A scuola in Italia, a cura di Simonetta Soldani, in “Passato e Presen-te”, 2000, n. 51, pp. 159-190, p. 185.

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Si cominciò con il richiamo dell’istruzione tecnico-professionale: nel 1928 la legge 20 dicembre, n. 3230, convertì il decreto legge 17 giugno dello stesso anno, n. 1314, e segnò il passaggio delle scuole e degli istituti d’istruzione tecnico-pro-fessionali dalla dipendenza del Ministero dell’Economia nazionale a quello del-la Pubblica istruzione. La transizione fu gestita dal ministro Giuseppe Belluzzo, un ingegnere che era stato prima ministro dell’Economia nazionale e, a partire dalla seconda metà del ’28, titolare della Pubblica istruzione. Un fatto «insolito ed eccezionale» nella storia italiana che a un tecnico, invece che a un umanista, venisse affidato quel dicastero13.

La nomina di Belluzzo era stata dettata dalla necessità di riequilibrare lo svi-luppo, fino a quel momento troppo accentuatamente umanistico, della Pubblica istruzione. Del resto, proprio in quegli anni, il fascismo fu artefice di un processo di organizzazione dei ceti medi attraverso la regolazione giuridica delle profes-sioni tecniche (ingegneri, architetti, chimici, geometri, periti industriali e agrari, agronomi e dottori commercialisti), sottolineando sempre più gli aspetti di inter-vento economico del regime e dando il via – con la promulgazione della Carta del lavoro nel 1927 – alla costruzione dell’«Italia corporativa».

A coronare il passaggio di competenze, il 1° luglio 1928 venne istituita, presso il Ministero della Pubblica istruzione (dall’anno successivo Ministero dell’Edu-cazione nazionale), la Direzione generale dell’istruzione tecnica. Poco dopo, a livello periferico, nascevano i Consorzi provinciali per l’istruzione tecnica, cioè dei centri di coordinamento territoriali incaricati di gestire le varie iniziative private nel settore della formazione tecnico-professionale (al loro interno era prevalente il peso del mondo imprenditoriale, benché fossero presenti anche rappresentanti degli enti locali e della scuola)14.

Venne poi certificato il fallimento della scuola complementare, che iniziò la sua trasformazione (leggi del gennaio 1929, dell’ottobre 1930, del giugno 1931) in Scuola secondaria di avviamento al lavoro. Quest’ultima venne successiva-mente denominata «di avviamento professionale», con una nota interclassista che bene si intonava alle auto-rappresentazioni del regime e che rendeva il cor-so di studio anche più accattivante per la piccola borghesia15.

La funzione della Scuola di avviamento, al cui interno erano assorbiti anche i corsi inferiori dei vecchi istituti per le arti e i mestieri, era quella di preparare alle carriere scolastiche professionali e tecniche, oppure direttamente all’ingresso nel mondo del lavoro. Di durata triennale, si divideva in cinque sezioni: il corso

13 Cereja, La scuola e il mondo del lavoro. Problemi dell’istruzione tecnica e professionale, cit., p. 71.14 Cfr. Canestri, Ricuperati, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, cit., pp. 163-164; Cereja, La scuola e il mondo del lavoro. Problemi dell’istruzione tecnica e professionale, cit., pp. 72-73.15 Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, cit., p. 1719.

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«marinaro», che si chiudeva senza ulteriori sbocchi scolastici; quello «femmini-le», che dopo tre anni diventava Scuola industriale femminile (tre anni) e infine Scuola di magistero professionale per la donna (due anni); infine, i corsi «indu-striale e artigiano», «commerciale» e «agrario». Queste tre ultime sezioni por-tavano alla Scuola tecnica, della durata di due anni, divisa negli stessi indirizzi, oppure, dopo un anno integrativo, al corso superiore quadriennale dell’Istituto tecnico (industriale, agrario o commerciale), che rappresentava l’eccellenza di quel percorso formativo. Come ha notato Davide Montino, «si tentò di articolare e razionalizzare un’offerta formativa che doveva, ad un tempo, accontentare le esigenze di un mercato del lavoro che richiedeva capacità professionali e tec-niche precise, e distribuire la frequenza scolastica media e superiore anche in relazione della stratificazione sociale»16.

In sostanza, in seguito alla riforma Belluzzo del 1928 e ai provvedimenti suc-cessivi le scuole professionali passarono – per la prima volta nella loro storia – sotto l’egida della Pubblica istruzione e vennero in gran parte fuse con le scuo-le e gli istituti tecnici, in un processo di razionalizzazione e omogeneizzazione diretto dal “centro”, pur con la persistenza di tutta una serie di elementi specifici profondamente legati alle diverse realtà economiche e sociali dei singoli terri-tori17.

3. La nascita dell’Istituto tecnico industriale Aldini-Valeriani

Con deliberazione podestarile del 17 settembre 1932 l’amministrazione comu-nale di Bologna recepì il riordinamento dell’istruzione tecnica fissato dalle leggi 15 giugno 1931, n. 889, e 22 aprile 1932, n. 490. Il complesso scolastico Aldini-Valeriani assunse la denominazione di Istituto di istruzione tecnica industriale,

16 Davide Montino, Istruzione tecnica e professionale, in Gianluca Gabrielli, Davide Montino (a cura di), La scuola fascista. Istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario, introduzione di Monica Galfré, Verona, Ombre Corte, 2009, pp. 94-99, p. 98.17 Cfr. Michelangelo Vasta, Capitale umano e ricerca scientifica e tecnologica, in Storia d’Italia. An-nali 15. L’industria, a cura di Franco Amatori et al., Torino, Einaudi, 1999, pp. 1043-1124, p. 1050; Pivato, Storia locale, storia nazionale e storia dell’istruzione artistico-professionale, cit., p. 10, dove l’autore riprende e sviluppa una osservazione di Raicich sui rapporti tra “centro” e “periferia” nella storia dell’istruzione tecnica, con particolare riferimento alla prima metà del Novecento (M. Rai-cich, Le trasformazioni di una scuola commerciale fiorentina nella prima metà del ventesimo seco-lo, in Istituto tecnico “Duca D’Aosta”, Un secolo di insegnamento commerciale 1876-1983, Firenze, Il Sedicesimo, 1983, pp. 59-79).

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abbandonando del tutto il riferimento ottocentesco alle arti e ai mestieri. A par-tire dall’anno 1932-33, l’insegnamento all’interno dell’Istituto di articolò su tre livelli che comprendevano: la Scuola secondaria di avviamento professionale a tipo industriale, con specializzazione per meccanici, falegnami e per tipografi; la Scuola tecnica industriale a corso biennale, con specializzazione per meccanici e tipografi; il corso superiore, quadriennale, dell’Istituto tecnico industriale, con specializzazione per meccanici-elettricisti e per chimici. Inoltre, erano previsti corsi per maestranze, a orario ridotto serale, di disegno geometrico, d’ornato e di macchine, e di composizione e impressione tipografica18.

Le officine e i laboratori si aggiornarono, diventando strumenti di consulenza esterna per le piccole e medie imprese locali. Il profilo stesso dell’insegnamento cambiò e da quel momento in poi l’Istituto tecnico avrebbe formato periti indu-striali, capaci di predisporre ogni particolare inerente il ciclo di lavoro, di gestire prove e collaudi di laboratorio, di coprire ruoli intermedi di officina, di progetta-re ed introdurre innovazioni di prodotto. È significativo, a questo proposito, che alla fine del 1934 la Ducati di Bologna si rivolgesse al direttore dell’Istituto per una indicazione sui nominativi degli allievi più adatti ad assumere la mansione di capi reparto:

Ella ha sicuramente ben presente la grande responsabilità e sicurezza del proprio la-voro che devono avere questi elementi, e pertanto noi crediamo potrà sottoporci nomi-nativi rispondenti allo scopo. Non sarebbe male che fossero già stati un po’ a contatto col lavoro pratico dopo terminata la scuola. Questo per avere già una certa dimesti-chezza con gli operai, il laboratorio e il dinamismo insito nelle officine moderne19.

Del resto, almeno fin dal 1928, il tema della «istruzione industriale» era entrato a pieno titolo nel dibattito pubblico, dopo che solo pochi anni prima era rimasto completamente escluso dal discorso di Gentile. Nel 1930, la Direzione genera-le dell’istruzione tecnica si impegnò in un primo bilancio del suo intervento in questo settore, dando alle stampe un ponderoso volume su L’istruzione indu-striale in Italia. Come rilevò, ormai quarant’anni fa, Giuseppe Ricuperati, in un saggio che rimane per alcuni versi insuperato, quel volume edito dal Ministero dell’educazione nazionale può essere considerato «il punto di partenza di una nuova fase di interventi» che andava ormai al di là dell’applicazione di singoli correttivi ed era orientata invece a una strategia diversa. Pesavano «da una par-

18 Cfr. Roberto Curti, Insegnare la macchina. Le trasformazioni introdotte nell’Istituto Aldini-Vale-riani con la legislazione degli anni ’30 sull’istruzione tecnica e professionale, in “Scuolaofficina”, 1992, n. 2, pp. 12-15; Id., L’Aldini-Valeriani compie 150 anni, in “Scuolaofficina”, 1994, n. 2, pp. 3-9.19 Lettera del direttore dei lavori della Società scientifica radio brevetti Ducati al direttore dell’Isti-tuto di istruzione tecnica industriale Aldini-Valeriani, Bologna, 31.12.1934, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 6, fasc. 1.

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te l’interesse ad adeguare la scuola a forme professionali meno arcaiche e più corrispondenti alla realtà industriale, dall’altra una collaborazione più stretta del Ministero dell’Educazione nazionale non solo con l’industria, ma soprattutto con le forze armate, sia nella fase di progettazione, sia in quella di realizzazione di professionalità nuove»20.

Insomma, dopo che la riforma Gentile aveva perfino accentuato la tradizio-nale mancanza di interesse per l’istruzione tecnico-professionale (soprattutto di quella legata all’industria) che aveva a lungo caratterizzato la classe dirigente dell’Italia liberale, il regime fascista cambiava rotta.

Gli istituti tecnici industriali conobbero una impennata nelle iscrizioni in cor-rispondenza dello sviluppo industriale che si verificò nella seconda metà degli anni Trenta e che fu in buona parte legato all’economia di guerra, contribuendo a orientare il processo di industrializzazione verso la meccanica e il settore metal-lurgico, oltre che verso la chimica. L’offerta di lavoro in settori tecnologicamente avanzati cominciò ad alterare il tradizionale modello di promozione sociale e a influenzare le scelte delle famiglie dei ceti medi e popolari, che mostrarono di prendere sempre più spesso in considerazione la possibilità di avviare i loro figli verso una formazione tecnica industriale21.

La progressione delle iscrizioni al ramo tecnico-professionale durante il Ven-tennio è sintetizzata da queste cifre: gli studenti erano circa 145 mila nel 1925-26, per salire a 290 mila nel 1932-33 e superare i 420 mila nel 1936-37. A conti fatti, si trattava del tipo di percorso scolastico che

attirava, in termini assoluti, il numero più alto di allievi, e da questo punto di vista si con-figuravano, dopo la scuola elementare, come uno dei principali luoghi di socializzazio-ne politica in cui operava il regime. Non a caso, proprio in questo ordine di istruzione fu per la prima volta introdotta la cultura fascista tra le materie. E in questo senso va letta anche la grande attenzione posta allo sport, come elemento di crescita fisica e morale. In generale, la didattica, per ovvie ragioni, era soprattutto di tipo tecnico, ma non esau-riva tutto l’impianto formativo: cultura generale, un minimo di storia patria e di lettera-tura dovevano completare il sapere di un “produttore” fascista, di un tecnico inquadrato nella volontà di grandezza della nazione, così come il fascismo la immaginava nelle scuole italiane. Se nei Licei, soprattutto al classico, si preparavano le future classi diri-genti, nelle Scuole e negli Istituti tecnici e professionali si costituiva il nerbo produttivo del paese, quel ceto medio del lavoro e dell’impresa che avrebbe dovuto sostenere lo sviluppo industriale che sempre più connotava la fisionomia socio-economica italiana tra le due guerre, pur tra crisi e ritardi. Anche per queste ragioni l’istruzione professiona-le e tecnica ebbe un ruolo importante nelle strategie educative del fascismo22.

20 Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, cit., p. 1718.21 Cfr. ivi, pp. 1719-1721.22 Montino, Istruzione tecnica e professionale, cit., p. 99.

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4. I corsi di specializzazione promossi dai ministeri dell’Aeronau-

tica e della Guerra

Fin dal 1925, in collaborazione con il Ministero dell’Aeronautica, si attivarono presso i locali della Scuola industriale Aldini-Valeriani dei corsi serali e festivi di specializzazione pre-aeronautica, finalizzati a formare motoristi e montatori d’aeroplano. I corsi erano rivolti a giovani in possesso della licenza elementare e ben presto un numero crescente di ragazzi, provenienti da tutta la regione, si misero in fila per consegnare la domanda di iscrizione. Tanto è vero che pochi anni dopo si accese anche un corso serale per radiotelegrafisti, voluto questa volta dal Ministero della Guerra, e destinato ai giovani fascisti di leva23.

Non è difficile spiegare i motivi di questo successo. Si considerino, ad esem-pio, i vantaggi che poteva portare il corso annuale di pre-aeronautica e che non erano di poco conto, in un periodo di grave crisi economica. Nel bando relativo al corso del 1931-32 si leggeva a questo proposito:

Coloro che risulteranno idonei agli esami finali riceveranno dal Ministero dell’Aero-nautica una speciale tessera costituente titolo valido per l’arruolamento nella R. Ae-ronautica all’atto della chiamata alle armi come specializzati di leva; inoltre i giovani muniti del brevetto di cui sopra potranno partecipare con diritto preferenziale, a parità di altri titoli, ai concorsi prescritti per l’ammissione dei volontari a lunga ferma alla Scuola specialisti dell’Arma Aeronautica. Gli ammessi nella R. Aeronautica come spe-cialisti di leva, dopo un breve corso di perfezionamento, percepiranno un’indennità giornaliera di L. 1. Coloro invece che in base ai reclutamenti volontari di cui sopra contrarranno ferme di 4 o 6 anni, avranno diritto alle indennità di mestiere previste per le categorie di specializzati della R. Aeronautica24.

Le ragioni delle tante adesioni non erano, comunque, solamente economiche. Nel corso degli anni Trenta si accentuò quella mobilitazione degli apparati civili e militari che avrebbe portato il regime fino all’ingresso nella Seconda guerra mondiale. Proprio nel 1935, l’anno dell’aggressione all’Etiopia, «in conseguenza dei buoni risultati ottenuti in un decennio di corsi pre-aeronautici», il Ministe-ro dell’Educazione nazionale e quello dell’Aeronautica affidavano all’Istituto Aldini-Valeriani «un importante corso per avieri allievi specialisti (montatori) di

23 Per alcuni dati statistici sulla diffusione a livello nazionale dei corsi premilitari presso gli istituti e le scuole di istruzione tecnica industriale, si veda Filippo Hazon, Storia della formazione tecnica e professionale in Italia, Roma, Armando, 1991, p. 95. I corsi premilitari erano 96 nel 1930-31 (3.052 alunni) e 261 nel 1938-39 (9.697 alunni) con una progressione che si fece particolarmente intensa a partire dalla metà del decennio.24 Comune di Bologna, Scuola industriale Aldini-Valeriani, Corsi di specializzazione pre-aeronauti-ca, 1931-32, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 2, fasc. 1.

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carattere completamente militare»25. A tutte le spese relative a materiali e per-sonale docente avrebbe pensato l’amministrazione centrale.

5. L’inquadramento ideologico degli studenti

Fascistizzare le nuove generazioni di italiani fu uno dei principali obiettivi che il regime si diede26. Come confermano le carte Aldini-Valeriani, i protagonisti delle strategie di controllo sulle attività culturali, educative e propagandistiche furo-no, oltre agli apparati ministeriali, il Partito nazionale fascista, l’Opera nazionale balilla e l’Istituto nazionale fascista di cultura.

Periodicamente, venivano aggiornati gli elenchi di «tutti gli alunni Giovani Fascisti» e gli studenti erano inquadrati in precise gerarchie27. Così, ad esempio, l’Istituto Aldini-Valeriani costituiva, all’interno della «coorte studentesca» di Bo-logna, una «centuria», disciplinata sotto il comando di «capi squadra» e «capi manipolo»28. Si insisteva, in particolare, sulla solennità delle cerimonie pubbliche:

È mia intenzione – scriveva il presidente del comitato provinciale dell’Onb – che la con-segna delle tessere agli Avanguardisti si svolga con la dovuta solennità e soprattutto con utilità organizzativa. La consegna in parola perciò dovrà essere fatta dai delegati dell’Onb e dai comandanti delle centurie avanguardiste, in accordo con i sigg. presidi e direttori di istituto. Il comandante la Coorte studentesca, che dovrà presenziare alle di-stribuzioni in parola in rappresentanza di questa presidenza, ed al quale l’ufficio ammi-nistrazione darà di volta in volta comunicazione dell’avvenuta compilazione delle tes-sere dei vari istituti, predisporrà gli opportuni accordi e riferirà a consegna avvenuta29.

25 Lettera del direttore dell’Istituto Aldini-Valeriani, Pietro Brunè, al vice segretario generale del Co-mune di Bologna, 14.6.1935, con allegato, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 6, fasc. 1. 26 Esiste una ampia letteratura in materia, si vedano comunque per una utile e originale sintesi le pagine dedicate al fascismo da Patrizia Dogliani, Storia dei giovani, Milano, B. Mondadori, 2003, p. 106. Della stessa autrice, si tenga presente anche Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Torino, Utet, 2008.27 Circolare del fiduciario per le scuole medie del Fascio giovanile bolognese di combattimento ai direttori delle scuole private e serali di Bologna, 9.12.1931, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 2, fasc. 1.28 Comunicazione del comitato provinciale dell’Opera nazionale Balilla a tutti i capi squadra della centuria Aldini-Valeriani, 3.2.1931, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’uffi-cio, b. 2, fasc. 1.29 Circolare del presidente del comitato provinciale dell’Opera nazionale balilla ai delegati Onb

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Fascismo e società italiana240

Gli alunni, ripartiti in «avanguardisti» e «balilla», venivano indottrinati attraverso la stampa, la radio e il cinema. La mattina del 3 febbraio 1935, tutti gli avanguar-disti dell’Istituto tecnico industriale ebbero la possibilità di vedere al cinema Sa-voia, a un prezzo fortemente scontato, il film Vecchia Guardia. Si trattava di una domenica mattina, ma «data la spesa irrisoria – aggiungeva il comandante di centuria, il giovane Alfio Pappalardo, che sarà a lungo preside dell’Istituto negli anni Sessanta e Settanta – intendo che tutti vedano questo documento della ri-voluzione fascista. Giovedì 31 c.m. i comandanti di manipolo passeranno per le classi a riscuotere da tutti gli avanguardisti detta somma»30. Negli stessi giorni, la federazione bolognese del Pnf sollecitava il preside ad abbonare il suo istituto al “Popolo d’Italia”, esprimendo la certezza che gli insegnanti sarebbero stati «lieti di poter leggere il periodico italiano fondato dal Duce e sorto in un momento decisivo per la rinascita della nazione»31.

Nel maggio 1936, dopo la presa di Addis Abeba, arrivava in tutte le scuole italiane, per ordine del ministro dell’Educazione nazionale, De Vecchi, un tele-gramma che non ammetteva repliche:

Domani lunedì 11 maggio in tutti gli istituti di istruzione e scuole di ogni ordine e grado sarà illustrata ai giovani la fondazione dell’Impero. Saranno letti e spiegati i discorsi del Duce del 5 e 9 maggio e sarà insegnato alla infanzia e alla gioventù che l’Impero riconquistato dal fascismo dovrà essere dalle generazioni presenti e future difeso con le armi fino all’ultimo respiro32.

A partire dal 1938, il sistema di propaganda e mobilitazione promosso dallo Sta-to fascista si arricchì di un nuovo, terribile, elemento: l’antisemitismo. A questo proposito appaiono particolarmente significativi i due punti messi a fuoco da una circolare della federazione bolognese del Pnf indirizzata ai presidi di tutte le scuole della provincia:

per le scuole medie e ai presidi, 2.3.1931, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 2, fasc. 1.30 Circolare del comandante della centuria Aldini-Valeriani, Alfio Pappalardo, a tutti gli avanguar-disti, i graduati e al preside, 29.1.1935, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 6, fasc. 1. 31 Lettera del fiduciario per la sezione professori medi dell’Associazione fascista della scuola (Par-tito nazionale fascista, Federazione dei fasci di combattimento di Bologna) al preside, 19.1.1935, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 6, fasc. 1.32 Il testo del telegramma, firmato De Vecchi di Val Cismon, è integralmente citato in una circolare «urgentissima» del provveditore agli studi di Bologna a tutti i direttori, presidi e ispettori scolastici del territorio, 11.5.1936, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 6, fasc. 1.

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Carlo De Maria, Istituti tecnici industriali 241

1°) Inno “Giovinezza” […] L’inno “Giovinezza” deve essere ascoltato nella posizione di attenti. Alle prime battute si saluta romanamente. Impartite tempestivamente esatte disposizioni affinché ognuno conosca tale preciso ordine […].2°) Dati sulla razza e religione. Ogni qualvolta si chiedano o vengano trasmesse in-formazioni, dati biografici od altro, sul conto di qualsiasi persona, le notizie devono essere sempre accompagnate dalla precisa indicazione della razza e della religione dell’interessato e di ambedue i genitori33.

Negli stessi mesi, l’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche, che era sottoposto al controllo del Ministero dell’Educazione nazionale, invitava all’acquisto e alla lettura della nuova edizione di Mussolini aviatore, un volu-me «necessario per comprendere la grandezza del Duce anche come pioniere e fondatore della potenza aerea italiana»34, mentre l’Istituto nazionale di cultura fascista, che aveva una propria sede anche a Bologna, presso la Casa del Fascio di via Manzoni, auspicava maggiori adesioni nel mondo della scuola:

È desiderio delle gerarchie fasciste che gli educatori di ogni grado prendano attiva parte alla vita dell’INCF. È naturale, infatti, che chi è dedito all’educazione fascista della gioventù senta il dovere di elevare e migliorare la sua cultura fascista, parteci-pando alla vita dell’Istituto, al quale soltanto spetta di inquadrare e dirigere l’attività culturale del Littorio e diffonderne i principii. Ai capi degli istituti l’istruzione la sezione di Bologna dell’INFC chiede, pertanto, di voler dare la loro opera perché tutti gli inse-gnanti loro dipendenti rinnovino l’adesione o la sottoscrizione, a partire da quest’anno. Sembra poi opportuno suggerire la convenienza di diffondere l’associazione all’INCF anche fra i giovani studenti: i capi d’istituto potrebbero offrire agli alunni migliori e più maturi la quota d’associazione, quale premio ed incitamento a partecipare, fin dalla prima giovinezza, alla vita culturale fascista35.

33 Circolare del segretario federale del Partito nazionale fascista e del fiduciario provinciale dell’Associazione fascista della scuola ai presidi e direttori delle scuole della provincia di Bologna, 19.9.1938, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’Ufficio, b. 12, fasc. 1.34 Circolare dell’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche, Roma, s.d., in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 12, fasc. 1.35 Circolare della sezione bolognese dell’Istituto nazionale fascista di cultura ai presidi e direttori degli istituti medi d’istruzione, 9.11.1938, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 12, fasc. 1.

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6. La scuola tra antisemitismo di Stato e catastrofe bellica

La legislazione antisemita del 1938 investì pesantemente il mondo della scuo-la, con l’espulsione degli studenti e dei professori di origine ebraica. A partire da settembre, con l’inizio dell’anno scolastico, si moltiplicarono le circolari del provveditore agli studi nelle quali venivano scrupolosamente richiamate le di-sposizioni legislative prese a livello nazionale36.

Contestualmente, furono vietati i libri di testo scritti da ebrei. Le prime circo-lari in questo senso arrivarono alle Aldini-Valeriani già in agosto. Per la precisio-ne, con una comunicazione del giorno 25, il provveditore cercava di disciplinare l’azione delle scuole in una materia ancora confusa, dal momento che le prime disposizione di legge sarebbero arrivate solamente all’inizio del mese successi-vo:

Facendo seguito alla mia circolare n. 6103 del 16 corrente, relativa al divieto di ado-zione nelle scuole di libri di testo di autori di razza ebraica, vi comunico che riceverete da quest’ufficio un elenco di nomi di tali autori, elenco che sarà compilato di intesa con la Federazione fascista industriale editori. Ciò stante, soprassedete alle eventuali sostituzioni, finché l’elenco in parola, che mi deve pervenire da parte dell’on. Ministero, non vi pervenga37.

Immediatamente molti editori (Cappelli di Bologna, Cedam di Padova, Le Mon-nier di Firenze)38 si affrettarono ad assicurare le scuole che nei loro cataloghi erano presenti solamente autori di «razza ariana». Il conformismo dilagava. Ba-sti leggere le comunicazioni pubblicitarie inviate alla presidenza dell’Istituto Aldini-Valeriani dalle case editrici. La Zanichelli, ad esempio, sul finire di agosto, faceva presente che i testi scolastici di matematica già editi con i nomi associati dei professori Enriques e Amaldi «saranno pubblicati d’ora innanzi sotto il nome del solo prof. Ugo Amaldi, al quale già apparteneva la rielaborazione delle ulti-me edizioni»39. Si spingeva oltre la Editoriale Libraria di Trieste che, più esplicita-

36 Si veda, ad esempio, la circolare del provveditore agli studi di Bologna ai «capi» degli istituti medi, tecnici e di avviamento, 16.11.1938, avente per oggetto «alunni di razza ebraica», in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 12, fasc. 1. 37 Circolare del provveditore agli studi di Bologna ai presidi degli istituti medi classici, scientifici, magistrali e tecnici, 25.8.1938, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 12, fasc. 1.38 Si vedano, tra le altre, le comunicazioni della casa editrice Cappelli, Bologna, 22.8.1938; Cedam, Padova, 24.8.1938; Le Monnier, Firenze, 24.8.1938, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Carte e corri-spondenza d’ufficio, b. 12, fasc. 1.39 Comunicazione della casa editrice Zanichelli, Bologna, 22.8.1938, in Fondo Istituti Aldini-Valeria-

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mente di altri, approfittava dei provvedimenti antisemiti per guadagnare fette di mercato. Così si rivolgeva ai librai e alle scuole di Bologna:

Come sarà certo a vs. conoscenza, nel prossimo anno scolastico 1938-1939 non potran-no essere usati nelle scuole testi di autori di razza ebraica. Per tale ragione, si rende necessaria la sostituzione dei suddetti testi con altri di autori di razza ariana. Anzitutto vi comunichiamo che gli autori dei testi di ns. edizione adottati a Bologna sono tutti italiani di razza ariana, e perciò vi preghiamo di vigilare affinché non vengano per equivoco sostituiti. Potrebbe esservi un dubbio sul nome del prof. Braun, collaboratore come sapete della grammatica e dell’antologia tedesca, ma a questo riguardo vi signi-fichiamo che il prof. Giacomo Braun è italiano, cattolico, di razza ariana, discendente da antica famiglia di ariani. Del resto questo verrà anche confermato dal Ministero dell’Educazione nazionale, il quale formulerà un elenco di quei testi che dovranno es-sere sostituiti. Abbiamo eseguito uno spoglio degli elenchi dei testi di scuola adottati nelle scuole di Bologna, ed abbiamo preso nota di quei libri che con ogni probabilità dovrebbero essere eliminati, trascrivendoli nel foglio che troverete allegato alla pre-sente e segnando a fianco di ognuno di essi i testi di ns. edizione che proponiamo per la sostituzione40.

Il clima di mobilitazione e di tensione creato dalla legislazione antiebraica sa-rebbe stato funzionale ai passaggi decisivi e drammatici vissuti dal regime in quegli anni, che ebbero come esito finale la catastrofe bellica del 1940-4541.

Conclusione

Nel secondo dopoguerra, l’organizzazione di fondo della scuola italiana rimase, ancora per molti anni, quella delineata dai provvedimenti del Ventennio: a par-tire dalla riforma Gentile del 1923 fino alla Carta della scuola di Bottai del 1939.

Quest’ultima, a causa del sopraggiungere degli eventi bellici, ebbe come uni-co, ma duraturo effetto, l’accorpamento nella nuova «scuola media» dei percorsi scolastici finalizzati alla prosecuzione degli studi. In altre parole, approdavano alla scuola media (triennale) gli studenti che avevano poi intenzione di iscriversi

ni, Carte e corrispondenza d’ufficio, b. 12, fasc. 1.40 Comunicazione della Editoriale Libraria, Trieste, 29.8.1938, in Fondo Istituti Aldini-Valeriani, Car-te e corrispondenza d’ufficio, b. 12, fasc. 1.41 Si veda, soprattutto, Marie-Anne Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, Bologna, il Mulino, 2008. Per una riflessione storiografica su questi temi, Carlo De Maria, Ammini-strare il razzismo: la persecuzione antiebraica in Italia, in “Storica”, 2008, n. 40, pp. 115-144.

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ai licei o alle magistrali, mentre per coloro che – dopo le scuole elementari – pre-vedevano un percorso tecnico-professionale rimaneva la scuola di avviamento.

Un sistema scolastico ancora «fortemente classista»42, che implicava scelte precoci e, dunque, dettate inesorabilmente dall’ambito sociale di provenienza, ma che nonostante tutto resse fino al 1962, cioè fino all’inizio dell’esperienza politica del centro-sinistra.

Grazie a un compromesso tra Democrazia cristiana e Partito socialista si arri-vò all’approvazione della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962, che rese la scuola media «unica» e valida per l’accesso a tutte le scuole superiori. Per effetto di que-sta riforma la Scuola secondaria di avviamento professionale Aldini-Valeriani, come tutte le altre sparse per la penisola, si esaurì con l’anno scolastico 1964-65, mentre la Scuola tecnica industriale si trasformò nell’Istituto professionale per l’industria e l’artigianato, ancora oggi esistente. Continuarono, invece, immutati i corsi dell’Istituto tecnico industriale.

Gli effetti dello sviluppo economico stavano producendo una accelerazione nella crescita della popolazione scolastica. Si esprimeva, anche in questo modo, una ricerca di mobilità sociale ascendente da parte dei ceti popolari, che di fatto rendeva del tutto superato e inadeguato il sistema scolastico uscito dal fascismo. Gli utenti della media inferiore, ancora distinta in scuola media con il latino e avviamento professionale, erano passati dai 518.660 del 1946-47 al 1.539.029 del 1961-62.

Basterà aggiungere ancora pochi dati quantitativi, per completare il quadro. L’istruzione media superiore, rimasta dal 1946 al 1951 sotto le 400.000 unità, raggiunse nel 1958 le 649.923 per salire repentinamente al 1.009.538 del 1963. Una crescita che si riverberò, nel giro di pochi anni, sulla popolazione universi-taria, che contava 312.344 unità nel 1962-63 e raggiunse le 616.898 nel 1969-70, continuando poi a lievitare: 850.000 nel 1973-74 e 900.000 nel 1975.

La riorganizzazione dell’educazione tecnico-professionale venne premiata con un veloce sviluppo degli istituti professionali, a cui corrispose una cresci-ta più lenta degli istituti tecnici industriali (tra il 1965 e la metà del decennio successivo, i primi passarono da 165.783 a 311.919 iscritti, mentre i secondi da 229.650 a 295.126). Il grande successo dei professionali si spiegava anche con l’allungamento dei corsi a una durata quinquennale, grazie all’aggiunta (a par-tire dall’ottobre 1969, inizialmente in via sperimentale) di un biennio facoltativo all’originale corso triennale. In seguito alla liberalizzazione degli accessi uni-versitari (legge 11 dicembre 1969, n. 910), ciò permetteva anche ai diplomati del

42 Cfr. Malinverno, La scuola in Italia. Dalla legge Casati alla riforma Moratti (1860-2004), cit., p. 179, dove si cita lungamente un importante saggio di Massimo Baldacci, La riforma della media, in Massimo Baldacci, Franco Cambi, Maurizio Degl’Innocenti, Il Centrosinistra e la riforma della scuola media (1962), Manduria, Lacaita, 2004.

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professionale di iscriversi a qualunque facoltà universitaria43.Contrariamente a quanto accadde in altre aree regionali, in Emilia-Romagna

il processo di allargamento dell’occupazione industriale e, dunque, l’incremento della formazione tecnico-professionale continuarono alacremente anche negli anni Settanta, quando si affermò appieno il cosiddetto «modello emiliano», ba-sato sulle piccole e medie imprese e sui distretti industriali. Negli stessi anni, co-minciava invece il declino del «modello torinese», quello della grande fabbrica fordista, che subiva le conseguenze della crisi internazionale.

Le capacità di aggiornamento tecnologico e flessibilità operativa si rivelaro-no sempre più importanti, così come la diffusione di conoscenze tecniche attra-verso prestigiose scuole industriali (Aldini-Valeriani di Bologna, Fermo Corni di Modena, Alberghetti di Imola), che continuarono ad alimentare quel peculiare intreccio di rapporti personali fra imprenditori e tecnici in grado di perfezionare senza sosta il ciclo produttivo44.

Una organizzazione industriale orizzontale e diffusa che bene si intrecciava con tradizioni politiche e civili molto sensibili allo sviluppo delle autonomie lo-cali.

43 Cfr. Canestri, Ricuperati, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, cit., p. 269.44 Cfr. Vera Zamagni, Una vocazione industriale diffusa in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. L’Emilia-Romagna, a cura di Roberto Finzi, Torino, Einaudi, 1997, pp. 127-161 (in part., pp. 131, 151).

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 247-262

Il superamento del conflitto tra capitale e lavoro in nome di un superiore “in-teresse nazionale” ha rappresentato uno dei maggiori propositi totalitari del fascismo. Alla radice di questa utopia/distopia stavano gli sconvolgimenti im-pressi dalla Prima guerra mondiale alla società, all’economia e alla coscienza collettiva dei contemporanei. La “mobilitazione industriale” aveva comportato modificazioni strutturali nell’organizzazione della produzione, nell’approccio dello Stato ai problemi economici, nella cultura imprenditoriale e nelle relazio-ni industriali1. Nel “triangolo industriale” si erano consolidati nuclei operai rap-presentativi, preparati nella contrattazione e qualificati politicamente. Dopo la guerra furono ottenuti risultati contrattuali straordinari, come le otto ore per i metalmeccanici, e la Confederazione generale del lavoro divenne un’organizza-zione di massa, nelle città e nelle campagne.

Il fascismo si presentò e agì in primo luogo come l’antitesi di questo movi-mento, dando voce ai desideri di rivalsa e alle paure degli strati piccolo-borghesi minacciati dall’inflazione e minati dall’esperienza di trincea. Nel 1921 sorsero i primi sindacati fascisti, trovando terreno fertile dove era forte la presenza di ex combattenti (come tra i ferrovieri), in categorie poco considerate dal sindaca-lismo confederale (impiegati) e in settori a tradizionale vocazione corporativa (portuali)2. Nelle roccaforti del sindacalismo confederale, invece – tra le leghe

1  Luigi Tomassini, Lavoro e guerra. La mobilitazione industriale italiana 1915-1918, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997.2  Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti 1918-1926, Roma-Bari, Laterza, 1974; Adolfo Pepe, Il sindacato fascista, in Angelo Del Boca, Massimo Legnani, Mario G. Rossi (a cura di), Il regime fascista. Storia e storiografia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 220-243; Ivano Granata, Dal “biennio rosso” al regime fascista. Il sindacato italiano fra le due guerre, in Maurizio Antonioli (a cura di), Per

LavoroGILDA ZAZZARA

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Fascismo e società italiana248

bracciantili e tra gli operai delle grandi fabbriche – fu la violenza squadrista e poi la repressione istituzionale ad avere la meglio sui lavoratori.

Assai più complesso fu stabilire cosa dovesse sostituire il sistema di relazioni industriali prefasciste, di cui il conflitto di classe era stato una componente fon-damentale, ma certo non l’unica, se si pensa a interventi regolativi come l’isti-tuzione del Consiglio superiore del lavoro o della magistratura probivirale. Sin dai primi “patti” siglati tra industriali e sindacato fascista (Palazzo Chigi, Palazzo Vidoni) venne accantonata le proposta sindacale radicale di Edmondo Rossoni: dalla legge Rocco del 1926 scomparve ogni riferimento alla “corporazione inte-grale” e all’istituzione dei fiduciari3. Il sindacato, espulso dai luoghi di lavoro, fu ridotto «ad un simulacro, ad una parodia di un centro decisionale», mentre agli industriali vennero lasciati ampi margini di autonomia organizzativa4.

Distrutto il movimento operaio e svuotato il sindacato di poteri effettivi, ai pro-blemi del lavoro il regime contrappose una serie di interventi dall’alto. A un mer-cato del lavoro afflitto da una cronica sovrabbondanza di manodopera si rispose con le leggi antiurbanesimo e le politiche ruraliste, cercando nel controllo della mobilità territoriale un argine al conflitto tra lavoratori rurali e urbani. Attorno alla questione fondamentale del collocamento, divenuta esplosiva in seguito alla Grande crisi, si giocò un’estenuante competizione tra burocrazie parastatali5. L’e-spansione della previdenza sociale e l’invenzione del Dopolavoro (la cui gestione fu affidata al partito) tentarono di colmare i bisogni di protezione e socializzazione delle classi lavoratrici. L’insieme di questi interventi, tuttavia, non bastò a garantire al fascismo il consenso tra i lavoratori industriali, non solo per opposizione ideolo-gica, ma perché essi videro peggiorare il loro status e le loro condizioni materiali6.

Come si combinarono questi fattori in un caso di industrializzazione tarda, ac-celerata e periferica rispetto al “triangolo industriale” come quello di Porto Mar-ghera? Il progetto – porto, zona industriale ma anche “città di fondazione” – era stato messo a punto prima dell’avvento del fascismo, ma nel fascismo riuscì a tro-vare ottimali condizioni di prosperità. Nel porto veneziano si realizzò una perfet-

una storia del sindacato in Europa, Milano, Bruno Mondadori, 2012, pp. 51-57.3  Alessio Gagliardi, Il corporativismo fascista, Roma-Bari, Laterza, 2010.4  Pier Giorgio Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, il Mulino, 1985, p. 252.5  Stefano Musso, Le regole e l’elusione. Il governo del mercato del lavoro nell’industrializzazione italiana (1888-2003), Torino, Rosenberg & Sellier, 2004; Manfredi Alberti, Senza lavoro. La disoccu-pazione in Italia dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2016.6  Alberto De Bernardi, Operai e nazione. Sindacati, operai e Stato nell’Italia fascista, Milano, Franco Angeli, 1993. Sul tema del consenso cfr. anche Luisa Passerini, Soggettività operaia e fascismo: indi-cazioni di ricerca dalle fonti orali, in “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”, 1979-1980, n. 20, pp. 285-313.

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Gilda Zazzara, Lavoro 249

ta fusione tra poteri locali, capitali nazionali e politica economica di Stato, di cui Giuseppe Volpi – che transitò dalla diplomazia giolittiana e dalla mobilitazione industriale alla politica economica del regime e alla guida di Confindustria senza che il suo disegno economico fosse intaccato – rappresenta la figura chiave7.

Per il successo dell’operazione non fu necessario mobilitare l’armamentario ideologico della nazionalizzazione delle masse e dell’unità di capitale e lavo-ro; bastò lasciare mano libera agli industriali. La classe operaia di Marghera fu integrata nella nazione in una posizione di completa subalternità e impotenza, rispetto alla quale l’unico contrappeso furono le risorse del turn over e della pluriattività. A rendere questi operai ancora più soli, tuttavia, contribuì anche una frattura culturale: tra lavoratori di estrazione rurale, inseriti in un rapporto fluttuante con il lavoro salariato e privi di tradizioni associative di mestiere, e sindacalisti altrettanto digiuni di esperienza industriale e dalla mentalità urbana e localista.

1. Sindacalisti urbani e operai rurali: Porto Marghera negli anni Trenta

L’area portuale-industriale di Porto Marghera fu istituita nell’estate del 1917. La convenzione firmata a Palazzo Chigi tra lo Stato, il Comune di Venezia e la So-cietà del porto industriale, concessionaria di tutte le opere da realizzare, era l’esito di una discussione più che decennale. Il progetto di spostare il porto di Venezia “fronte a terra” – e di farne un insediamento non solo commerciale ma anche produttivo – era stato concepito agli inizi del secolo per rispondere a una stagnazione ormai cronica: con l’apertura del Canale di Suez le rotte, gli scambi, le tecnologie marittime non consentivano più a un porto gelosamente custodito entro i confini insulari di essere competitivo8.

Al progetto tecnico, elaborato da un ingegnere del Genio civile, i nazionalisti del conte Piero Foscari diedero una forte cornice ideologica: un porto moderno rispondeva all’ambizione di restituire a Venezia il ruolo di “dominatrice dell’A-

7 Utili spunti di riflessione sono in Paul Corner, Valeria Galimi (a cura di), Il fascismo in provincia. Articolazioni e gestione del potere tra centro e periferia, Roma, Viella, 2014.8  Sulle origini di Porto Marghera cfr. Cesco Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del “problema di Venezia”, Venezia, Marsilio, 1979.

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driatico” e di snodo dei traffici tra Oriente e Occidente9. Meno esibita, ma nondi-meno ben presente, era l’idea che l’espansione in terraferma avrebbe dato rispo-ste ai problemi sociali del centro storico; mentre il gruppo consiliare socialista, seppure escluso da tutti i processi decisionali, vi intravedeva un’opportunità di sviluppo del proletariato10.

Un investimento di tale portata, tuttavia, non sarebbe stato possibile senza le entrature romane e i capitali di Volpi11. Fu quest’ultimo a saldare in un cartello – la Società del porto industriale, appunto – gli interessi di una serie di imprendito-ri e possidenti locali con i grandi nomi del capitalismo nazionale e internaziona-le (Fiat, Breda, Montecatini, il colosso svizzero dell’alluminio Aiag)12. L’ubicazione dell’area tra l’acqua e la ferrovia, e soprattutto l’ampia disponibilità di energia elettrica fornita dalla principale impresa di Volpi, la Sade, costituivano i primi fattori di attrattiva per gli investitori. Non minori vantaggi sarebbero derivati dal-le agevolazioni fiscali e tributarie che il governo – ricalcando provvedimenti che erano stati concessi al porto di Napoli a inizio secolo – accordò generosamente.

Lo spostamento del porto in terraferma rappresentò per la città di Venezia una rivoluzione non soltanto economica. La creazione di Porto Marghera segnò un’ardita reinvenzione della forma urbis: non solo l’area destinata alle industrie, ma altri cinque paesi – Mestre, Favaro, Chirignago, Zelarino e Malcontenta – fu-rono annessi al Comune. Nasceva allora la “grande Venezia” di acqua e di ter-ra, con aree distinte per funzioni: la produzione a Porto Marghera, la residenza popolare nell’hinterland di terraferma, la cultura, il turismo e il commercio in quello che sarebbe diventato in pochi decenni un centro storico o «un quartiere per un’entità artificiale», cessando di essere una città13.

9  Foscari illustrò la sua posizione in un opuscolo distribuito a tutti i consiglieri nel 1905, divenuto poi Id., Per il più largo dominio di Venezia. La città e il porto, Milano, Fratelli Treves, 1917. 10  Sulle posizioni dei socialisti cfr. Chinello, Porto Marghera 1902-1926, cit., pp. 169-171; sui pro-blemi abitativi del centro storico Paola Somma, L’attività di Raffaele Vivante al Comune di Venezia nella prima metà del secolo, in “Storia urbana”, 1981, n. 14, pp. 213-231.11  Sulla figura di Volpi cfr. Maurizio Reberschak, Capitalisti in camicia nera: Giuseppe Volpi, in Ma-rio Isnenghi, Giulia Albanese (a cura di), Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risor-gimento ai nostri giorni. Il Ventennio fascista. Dall’impresa di Fiume alla Seconda guerra mondiale (1919-1940), vol. IV, t. 1, Torino, Utet, 2008, pp. 519-531; Roland Sarti, Giuseppe Volpi, in Ferdinando Cordova (a cura di), Uomini e volti del fascismo, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 523-546; Sergio Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano, Bompiani, 1979.12  Maurizio Reberschak, Gli uomini capitali: il «gruppo veneziano» (Volpi, Cini e gli altri), in Mario Isnenghi, Stuart Woolf (a cura di), Storia di Venezia. L’Ottocento e il Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2002, t. II, pp. 1255-1311. Per il caso di Porto Marghera Wladimiro Dorigo ha parlato di «colonialismo industriale», cfr. Id., Una legge contro Venezia. Natura storia interessi nella questione della città e della laguna, Roma, Officina Edizioni, 1973.13  Guido Zucconi (a cura di), La grande Venezia. Una metropoli incompiuta tra Otto e Novecento, Venezia, Marsilio, 2002; Gherardo Ortalli, Venezia. Una città? Un quartiere per un’entità artificiale,

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Oltre all’ambiente, l’identità urbana fu la dimensione su cui più profondo sa-rebbe rimasto impresso il segno dell’industrializzazione accelerata. Venezia di-venne in effetti allora una città policentrica, le cui parti, tuttavia, avrebbero sten-tato a sentirsi coese: l’isola non ha mai pienamente percepito la sua terraferma come parte integrante della città; a loro volta, le frazioni di terraferma – inve-stite soprattutto nel secondo dopoguerra da un tumultuoso processo di crescita edilizia e demografica – non hanno ancora smesso di faticare nel costruire una propria cultura urbana14.

2. Fascisti a Venezia

La Grande guerra ritardò l’avvio dei lavori di infrastrutturazione del nuovo porto. Quando le prime squadre di edili cominciarono a bonificare le barene e scavare i canali, le campagne della provincia erano attraversate dagli scioperi di brac-cianti e coloni per le terre e i contratti15. Nella primavera del 1919, nella sede del quotidiano “Il Gazzettino”, nasceva il fascio di combattimento di Venezia. Esso tuttavia non aveva nessun rapporto diretto con la reazione agraria: a fondarlo erano stati gli avvocati Piero Marsich e Giovanni Giuriati, entrambi provenienti dall’esperienza dell’interventismo democratico e dell’irredentismo, ed entrambi profondamente legati alla figura di Gabriele D’Annunzio16. All’impresa fiumana, infatti, Venezia fornì uomini – a Fiume Giuriati fu capo gabinetto – e il palco-scenico dell’ideologia navalista e imperialista17. Proprio attorno alla questione

Venezia, Corte del Fontego, 2015.14  Michele Casarin, Venezia Mestre. Mestre Venezia. Luoghi, parole e percorsi di un’identità, Por-togruaro, Nuova Dimensione, 2002; Sergio Barizza, Storia di Mestre. La prima età della città con-temporanea, Padova, Il Poligrafo, 2014; Elia Barbiani, Giorgio Sarto (a cura di), Mestre Novecento. Il secolo breve della città di Terraferma, Venezia, Marsilio, 2007.15  Francesco Piva, Lotte contadine e origini del fascismo. Padova-Venezia 1919-1922, Venezia, Mar-silio, 1977.16  Giulia Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia. 1919-1922, Padova, Il Poligrafo, 2001; Luca Pes, Il fascismo urbano a Venezia. Origine e primi sviluppi 1895-1922, in “Italia contemporanea”, 1987, n. 169, pp. 63-84; Id., Il fascismo adriatico, in Isnenghi, Woolf, Storia di Vene-zia. L’Ottocento e il Novecento, t. II, cit., pp. 1313-1354; Maurizio De Marco, Il Gazzettino. Storia di un quotidiano, Venezia, Marsilio, 1976. 17  Mario Isnenghi, D’Annunzio e l’ideologia della venezianità, in Emilio Mariano (a cura di), D’An-nunzio e Venezia, Roma, Lucarini, 1991, pp. 229-244; Filippo Maria Paladini, Storia di Venezia e reto-rica del dominio adriatico. Venezianità e imperialismo (1938-1943), in “Atti e memorie dell’Ateneo Veneto”, 2000, pp. 254-298.

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fiumana si aprì una prima crepa tra il fascismo locale e il “giolittiano” Volpi (che pure ne era stato tra i primi finanziatori): il suo ruolo nelle trattative che a Ra-pallo segnarono – con l’assenso di Benito Mussolini – la resa dei legionari non sarebbe mai stato dimenticato dai fondatori del movimento.

Nel 1920 il Comune fu conquistato da un blocco moderato composto da libe-rali, cattolici, nazionalisti e fascisti. Le sedi e i circoli socialisti divennero obiettivi di intimidazioni e violenze sistematiche, fino alla conquista della Camera del la-voro, “consegnata” al sindacato fascista qualche giorno dopo la Marcia su Roma18. Già prima, sfruttando le divisioni tra lavoratori stabili e avventizi, le cooperative portuali – storica roccaforte socialista – erano state portate sotto il controllo del sindacato fascista19. Marsich riuscì inoltre a trovare una sponda in alcuni sindaca-ti autonomi (imprese elettriche, impiego pubblico e dipendenti delle opere pie), tradizionalmente estranei all’esperienza del sindacalismo confederale.

Compatti sul fronte dell’odio antisocialista, i fascisti veneziani lo erano assai meno circa il futuro del loro movimento. Nel 1922 Marsich uscì di scena in oppo-sizione al “patto di pacificazione” e alla trasformazione del fascismo in partito20. Nello stesso momento Volpi si iscriveva al Pnf, conducendolo progressivamente – assieme agli organi di informazione, le istituzioni culturali e i gangli del potere economico – sotto il suo controllo21.

La nomina di Volpi a ministro delle Finanze, nel 1925, favorì il trattamento di riguardo per i suoi interessi lagunari. Una serie di convenzioni aggiuntive per-fezionò il quadro degli incentivi per la Società del porto industriale (la cui gui-da passò nel 1930 a Vittorio Cini) e per le imprese investitrici. In particolare fu consolidato il regime di autonomia funzionale, che consentiva alle aziende di gestire il lavoro di carico e scarico dalle banchine senza ricorrere al lavoro dei portuali. Rispetto a questa agevolazione sia i socialisti (nel breve lasso di tempo rimasto loro prima della messa al bando) sia il sindacato fascista presero le dife-se dei lavoratori veneziani del porto22.

Nel corso degli anni Venti a Porto Marghera si installarono fabbriche chimi-che (fertilizzanti, vetro, coke, carburo di calcio), diversi stabilimenti per la produ-zione integrale dell’alluminio (dall’allumina alle seconde lavorazioni), un’accia-

18  Giovanni Sbordone, La Camera del lavoro, Padova, Il Poligrafo, 2005, p. 97.19  Pes, Il fascismo urbano a Venezia, cit., pp. 79-83; Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, cit., pp. 216-218; Girolamo Federici, Portuali a Venezia. Cinquant’anni di storia del porto 1945-1995, Venezia, Il cardo, 1996, p. 47.20  Cfr. Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000, p. 106.21  Ernesto Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, in Emilio Franzina (a cura di), Vene-zia, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 152-225, pp. 166 sgg.22  Giovanni Sbordone, Nella Repubblica di Santa Margherita. Storie di un campo veneziano nel primo Novecento, Portogruaro, Nuova dimensione, 2003, pp. 143-144.

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ieria, un cantiere navale, una centrale termoelettrica, alcuni depositi petroliferi, più diverse piccole e medie attività di altri settori23. Nel decennio successivo ampliamenti, ricapitalizzazioni e nuove produzioni (nel campo dei refrattari e dei metalli non ferrosi, ad esempio) consolidarono la predominanza dei cicli di lavorazione chimici ed elettrometallurgici rispetto a quelli tipicamente manifat-turieri24. Gli occupati passarono dai 1.200 del 1922 ai 16.000 del 1938, per supera-re durante la guerra, quando diverse fabbriche divennero ausiliarie all’impegno militare, i 20.000 addetti25.

Porto Marghera divenne un fiore all’occhiello del regime26. Nel 1934 – quando Mussolini tornò per la terza volta a visitare la zona industriale – Volpi fu nomi-nato presidente della Confindustria. Il «doge in camicia nera» godeva ormai del totale sostegno dei vertici del regime e decideva le sorti del potere locale: chi tentava di opporsi ai suoi disegni – come il federale Giorgio Suppiej sostenendo la necessità di riequilibrare i flussi di lavoro tra il porto di Marghera e quello insulare – veniva rimosso dall’incarico27. A Venezia, in sostanza, il compromesso tra la “rivoluzione fascista” e gli interessi economici della borghesia capitalistica dell’età liberale si risolse a tutto vantaggio di questi ultimi28.

3. Operai a Porto Marghera

I cicli produttivi delle fabbriche di Porto Marghera necessitavano in prevalenza di lavoratori dequalificati e flessibili alla stagionalità delle lavorazioni e del ri-fornimento energetico. Il bacino di reclutamento di questo nuovo proletariato

23  Per un quadro degli insediamenti cfr. Sergio Barizza, Daniele Resini (a cura di), Portomarghera. Il Novecento industriale a Venezia, Treviso, Vianello Libri, 2004.24  Rolf Petri, La zona industriale di Marghera 1919-1939. Un’analisi quantitativa dello sviluppo tra le due guerre, Venezia, in “Quaderni del Centro tedesco di studi veneziani”, 1985, n. 32.25  Fabio Ravanne, Migrazioni interne e mobilità della forza lavoro: Venezia e Marghera, in La classe operaia durante il fascismo, cit., pp. 579-631: 623.26  Cfr. il resoconto della visita del ministro delle Corporazioni Il quartiere industriale di Porto Mar-ghera e la visita di S. E. Bottai, in “Le Tre Venezie”, 1931, n. 8, pp. 549-556.27  De Marco, Il Gazzettino, cit., p. 101. Sui conflitti interni al fascismo veneziano si sofferma anche Richard Bosworth, Italian Venice. A History, New Haven-London, Yale University Press, 2014, pp. 127 ss. La definizione di «doge in camicia nera» è in Renato Camurri, La classe politica nazionalfascista, in Isnenghi, Woolf, Storia di Venezia. L’Ottocento e il Novecento, t. II, cit., pp. 1355-1438, p. 1417.28  Camurri, La classe politica nazionalfascista, cit.

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industriale fu trovato nell’entroterra rurale della fascia mediana della provin-cia. Un’importante ricerca collettiva degli anni Ottanta, basata sull’analisi dei libri matricola di alcuni degli stabilimenti maggiori, ha dimostrato che la prima manodopera margherina fu trovata in un raggio massimo di 30 km di distanza dalle fabbriche, il tragitto più lungo che potesse essere affrontato quotidiana-mente – due volte al giorno – con il solo mezzo della bicicletta. Figli di fittavoli o di piccoli proprietari, questa manovalanza di contadini-operai era l’esito di una lunga crisi delle comunità rurali, per le quali la diversificazione delle occasioni di impiego era diventata una necessità strutturale29.

Rimanendo a vivere nella casa di famiglia questo «proletariato fluttuante» consentì agli industriali di risparmiare i costi del paternalismo: non fu necessa-rio dotare i dintorni della zona industriale né di abitazioni né di servizi, come dimostra il fallimento del quartiere urbano previsto sin dal 1917. L’utopia di una rispettabile e igienica città-giardino per 30.000 operai tramontò precocemente, lasciando la “città di fondazione” di Marghera in balia di linee di sviluppo assai meno illuminate30. Nel 1924 l’Istituto autonomo per le case popolari di Venezia (Iacp) intraprese la costruzione dei primi alloggi economici, destinati però esclu-sivamente al proletariato espulso dal centro storico, con il fermo proposito che non andassero «a profitto della popolazione agricola delle località contermini»31. Negli anni Trenta, a fasce ancora più marginali di veneziani, furono riservati al-cuni villaggi periferici di baracche, che nulla avevano da invidiare agli squallidi piani terra della città insulare.

A differenza che nella Schio di Alessandro Rossi cinquant’anni prima, a Por-to Marghera gli industriali non dovettero fare nessuno sforzo per educare gli operai al regime di fabbrica e per forgiare una manodopera stabile e fedele32. Il serbatoio di manodopera disponibile a impiegarsi era talmente ampio da non essere intaccato dall’alto turn over delle maestranze e soprattutto pienamente confacente a mansioni pesanti, monotone e dequalificate. Le imprese, in sostan-za, trovarono in laguna eccezionali vantaggi localizzativi, che assicurarono un comando pressoché assoluto sulla forza lavoro.

Un ulteriore elemento di vantaggio, tuttavia, va cercato più “in basso”, nella

29  Francesco Piva, Giuseppe Tattara (a cura di), I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione 1917-1940, Venezia, Marsilio, 1983.30  Aa. Vv., Marghera, il quartiere urbano, Venezia, Alcione, 2000; Gianni Facca, Marghera, nascita di un quartiere, in Aa. Vv., La città invisibile. Storie di Mestre, Venezia, Arsenale, 1990, pp. 130-139.31  Istituto autonomo per le case popolari di Venezia, in “Le Tre Venezie”, 1932, n. 10, pp. 801-805.32  Giovanni Luigi Fontana (a cura di), Schio e Alessandro Rossi. Imprenditorialità, politica, cultura e paesaggi sociali del secondo Ottocento, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1985-1986, 2 voll.; Silvio Lanaro, Società e ideologie nel Veneto rurale 1866-1898, Roma, Edizioni di storia e letteratu-ra, 1976.

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mentalità dei quadri sindacali fascisti, che concorse all’assenza di “contrappesi” di rappresentanza e di tutela della condizione operaia33. Il sindacato veneziano rimase un’organizzazione urbana e “insulare”, e affrontò i problemi della classe operaia esclusivamente dal punto di vista della difesa dei lavoratori del cen-tro storico dalla concorrenza dei contadini. Come ha scritto Francesco Piva, nel «conflitto tra l’operaio-contadino, rimasto in qualche modo protetto dal reddito agricolo, e l’operaio di città, dipendente in modo esclusivo dal lavoro salariato […] si inserirono le autorità fasciste che tentarono di dare un volto urbano alla classe operaia del porto»34.

La risposta ai problemi del lavoro lungo la linea di frattura tra “migranti” e lo-cali fu una caratteristica dell’azione dell’organizzazione fascista dei lavoratori in diverse zone d’Italia, ma nel contesto della rivoluzione urbana di Venezia assunse una fisionomia peculiare35. L’inaugurazione del ponte automobilistico translagu-nare, nel 1933, fu salutata dal federale Suppiej come l’opera che avrebbe fatto cessare «un fenomeno ormai in atto, secondo il quale il nuovo centro di attività andava sviluppandosi con energie tratte dalla terraferma senza beneficio per la vecchia Venezia»36.

Nella polemica contro il dumping degli operai di terraferma a detrimento di quelli del centro storico finirono anche coloro che erano diventati formalmente “cittadini” con le annessioni territoriali che erano state parte integrante della co-struzione di Porto Marghera. Secondo i dirigenti del sindacato, oltre che allonta-nati dalle fabbriche di Marghera, gli abitanti delle frazioni di terraferma e delle campagne circostanti avrebbero dovuto essere privati anche delle occasioni di lavoro nella città storica. Nel 1931, ad esempio, due manovali impiegati per un lavoro occasionale presso il manicomio dell’isola di San Servolo «con loro pro-fondo rammarico, venivano licenziati per ordine dei locali sindacati, con la moti-vazione che i sottoscritti non sono di Venezia». Rivolgevano le loro preghiere al prefetto, avanzando l’ineccepibile motivazione che «Zellarino [sic] appartiene al Comune di Venezia a tutti gli effetti»37. La “grande Venezia” dei nazionalisti, in al-

33  Sui limiti del sindacalismo fascista cfr. Fabrizio Loreto, Sindacalismi. La rappresentanza del la-voro tra economia e politica, in Stefano Musso (a cura di), Storia del lavoro in Italia. Il Novecento. 1896-1945. Il lavoro nell’età industriale, vol. II, Roma, Castelvecchi, 2015, pp. 350-389. 34  Francesco Piva, Il reclutamento della forza-lavoro: paesaggi sociali e politica imprenditoriale, in Piva, Tattara, I primi operai di Marghera, cit., p. 421.35  Stefano Gallo, Senza attraversare le frontiere. Le migrazioni interne dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 98. 36  Giorgio Suppiej, 25 aprile 1933-A. XI, in “Le Tre Venezie”, 1933, n. 5, pp. 251-252, p. 251.37  Archivio di Stato di Venezia (d’ora in poi, Asve), Gabinetto di Prefettura (d’ora in poi, Gp), b. 9, fasc. “Occupazione di mano d’opera e spostamento di operai”, Evaristo Pavan e Umberto Ferrabo-schi al prefetto, lettera ms., 2 [settembre] 1931.

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tre parole, aveva creato, invece che una città prospera e integrata, un hinterland rural-urbano per cittadini di rango inferiore.

La polemica del sindacato fascista – a cui le leggi di attuazione della Carta del lavoro avevano affidato la gestione dei servizi di collocamento – contro le politiche di reclutamento degli industriali alzò i toni all’inizio degli anni Trenta, quando la morsa della crisi economica cominciò a stringere. In centro storico il numero degli iscritti al collocamento era raddoppiato in poco tempo, e rag-giungeva la cifra di almeno 15.000 persone38. Al contrario, le fabbriche di Porto Marghera avevano risposto bene al contesto della Grande crisi: qui, del resto, i principali cicli produttivi erano autarchici sin da prima dell’Autarchia e con l’av-vio delle politiche di riarmo si sarebbero presto presentate nuove occasioni di profitto39. Nel 1935 la Banca d’Italia di Venezia registrava il miglior risultato del porto commerciale di Marghera dalla sua istituzione, il buon andamento delle produzioni industriali e l’aumento di 8.000 addetti in un solo anno40.

Contro la concorrenza degli operai-contadini il sindacato provò a fare leva sulle disposizioni antiurbanesimo che, sin dalla prima formulazione del 1928, lasciavano ampia discrezionalità al prefetto. La richiesta di vietare l’assunzione nelle fabbriche di Porto Marghera di chi non avesse la residenza nel Comune cadde nel vuoto per la risoluta opposizione dell’Unione industriali, così come quella di ostacolare lo spostamento di residenza nelle frazioni di terraferma. Nel 1932 il prefetto Giovanni Battista Bianchetti accordò il divieto di trasferimento anagrafico per l’intero Comune, ma si trattò di una misura puramente propagan-distica, che non bloccò in nessun modo il flusso di lavoratori dalle campagne e l’inurbamento nelle frazioni dell’hinterland41.

L’ostacolo insormontabile a qualunque elemento di rigidità nella mobilità della forza lavoro impiegabile nelle fabbriche del porto industriale era rappre-sentato dall’interesse delle imprese a continuare ad attingere alla manodopera di estrazione rurale. In questo obiettivo esse trovarono il governo saldamente schierato in loro appoggio. Nel 1938 il commissario per le Migrazioni interne spiegava appunto al prefetto che le leggi antiurbanesimo non andavano appli-

38  Ravanne, Migrazioni interne e mobilità della forza lavoro, cit., p. 592.39  Bruna Bianchi, L’economia di guerra a Porto Marghera: produzione, occupazione, lavoro. 1935-1945, in Giannantonio Paladini, Maurizio Reberschak (a cura di), La Resistenza nel Veneziano. La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, Venezia, Università di Venezia-Comune di Venezia, 1985, 2 voll., vol. I, pp. 163-225.40  Banca d’Italia-Sede di Venezia, Relazione sull’andamento delle industrie, dei commerci e degli istituti finanziari della regione durante l’anno 1935, cit. in Lorenzo Tognato, Il Veneto e l’economia di guerra fascista 1935-1946, Padova-Venezia, Istituto veneto per la storia della Resistenza e dell’e-tà contemporanea-Marsilio, 2013, pp. 69-83.41  Ravanne, Migrazioni interne e mobilità della forza lavoro, cit., p. 592.

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cate alla lettera, perché «gli operai di Mogliano [uno dei comuni del bacino di reclutamento] godono, meritatamente, fama di essere laboriosi, e di rendimento certamente superiore a molti del Comune di Venezia, abitanti nella cerchia della città, non adatti per lavori faticosi e pesanti: ciò spiega la preferenza che ai mo-glianesi viene accordata dai datori di lavoro, che sanno di assumere una mano d’opera che rende bene, disciplinata e sobria»42.

Ciò che in effetti sembrava sfuggire al sindacato fascista era proprio la cen-tralità di questo elemento soggettivo dell’incontro tra l’offerta e la domanda di lavoro. Tra i disoccupati veneziani erano prevalenti lavoratori di mestiere delle manifatture del centro storico, spesso sospettabili di umori “sovversivi”, oppure soggetti già da tempo inseriti nei servizi turistici e commerciali, in quell’“industria del forestiero” sgradita tanto ai socialisti quanto ai fascisti della prima ora, e ca-ratterizzata da lauti guadagni e ingaggi intermittenti. Per costoro i lavori di Porto Marghera – che potevano raggiungere con una costosa e inefficiente linea di vaporetto – erano assai poco attraenti.

Nel 1930 la Montecatini acconsentì alle pressioni sindacali e reclutò per la campagna estiva di spedizione dei concimi alcune squadre di veneziani. Il capo dell’Unione industriali doveva però informare il prefetto che «dei sei manovali assunti il 21 Agosto 1930, quattro abbandonarono il lavoro il giorno seguente, e uno il successivo 25. In un altro esperimento, di tredici manovali assunti il 24 settembre 1930, dodici abbandonarono il lavoro il giorno successivo, e uno il 27 dello stesso mese»43. Il danno all’azienda, nel momento di massimo sforzo pro-duttivo, era evidente.

«Benché trattasi di mansioni di carattere materiale e di fatica» – spiegava il vicedirettore della Montecatini – esse però richiedono, dato il ritmo febbrile con cui le spedizioni necessariamente si svolgono, un allenamento preesistente ed una regolarità e costanza di sforzo e di destrezza che sono frutto di selezione anteriore e di analoga prestazione ripetuta»44. Il riferimento era alle squadre di contadini-manovali che ogni anno si ripresentavano ai cancelli dello stabilimen-to, già formate sulla base di legami di parentela o di vicinato, e già abituate «all’azione del perfosfato sulle parti del corpo esposte al contatto»45.

42  Asve, Gp, b. 9, fasc. “1938. Disoccupazione”, Sergio Nannini (commissario per le Migrazioni e la Colonizzazione interna) al prefetto, 29 luglio 1938.43  Ivi, fasc. “Occupazione di mano d’opera e spostamento di operai”, Giuseppe Fusinato (Unione industriale fascista di Venezia) al segretario del Pnf, al Comitato amministrativo dell’Ufficio di col-locamento per l’industria e p.c. al prefetto, 29 luglio 1931.44  Ibidem, vicedirettore centrale della Montecatini di Milano [firma illeggibile] al prefetto, 27 luglio 1931.45  Lettera di Fusinato, 29 luglio 1931, cit.

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4. Il nodo del collocamento

Non di maggiore efficacia risultò per il sindacato fascista la gestione del collo-camento: non solo perchè le leggi in materia di chiamate furono costantemente eluse dalle aziende, ma anche a causa dell’ottica esclusivamente repressiva con cui fu governato il servizio e della dubbia moralità dei suoi dirigenti. All’inizio degli anni Trenta l’Ufficio di collocamento e le sedi del sindacato divennero il teatro di una quotidiana espressione di malcontento popolare. A Venezia si ri-versavano i disoccupati di tutta la provincia, perché la sede di Mestre, come la-mentava il segretario del fascio locale, non aveva facoltà di ingaggio, riservata esclusivamente al collocamento insulare46. Nel 1931 il segretario della Confede-razione del sindacato industriale Giovanni Bissi avvisò Suppiej del fatto che

molte donne con bambini cominciano ad affluire nella ns. sede per patrocinare la cau-sa dei loro congiunti da molto tempo senza lavoro. Inopportuno riuscirebbe un tratta-mento da parte ns. poco riguardoso verso tali donne, diretto soprattutto ad arginare la loro affluenza, ma d’altronde, se si diffonde la convinzione che sia sufficiente, per trovare lavoro, inviare alla Sede dei Sindacati la moglie, la mamma, ed i bambini, non dovrà considerarsi imminente il pericolo di vedere invaso il corridoio della ns. Sede di un numeroso stuolo di donne rumorose e di bambini piangenti, con tutte le ovvie conseguenze annesse?47

Il sindacalista avanzava alcune proposte concrete (ridurre il lavoro straordina-rio, introdurre sistemi di turnazione, sospendere le chiamate nominative, dare priorità in relazione all’anzianità di disoccupazione), ma nel complesso il suo ap-proccio limitava il problema a una questione di ordine pubblico – le sedi erano costantemente piantonate dai carabinieri – e di reputazione del regime.

Il peggior servizio alla reputazione del fascismo, tuttavia, lo resero i collocatori stessi. In prefettura fioccavano denunce di arbitri, corruzioni, violenze fisiche e per-sino ricatti sessuali subiti dai disoccupati. Il sindacato era al corrente del caos che regnava nell’ufficio di Venezia: assenteismo dei dirigenti, mancanza di schedario e di colloqui orientativi, discrezionalità assoluta degli ingaggi. In una situazione del genere non poteva stupire che il malcontento popolare si riversasse sul governo, «poiché gli operai non fanno distinzione – e si capisce – fra Ufficio di Collocamen-

46  Asve, Gp, b. 56, fasc. “Ufficio di collocamento. Collocatori”, il questore [firma illeggibile] al pre-fetto, 19 settembre 1931.47  Asve, Gp, b. 9, fasc. “Occupazione di mano d’opera e spostamento di operai”, Giovanni Bissi (Unio-ne provinciale dei sindacati fascisti dell’industria) a Giorgio Suppiej (Pnf) e p.c. al prefetto, 19 mag-gio 1931.

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to e Unione dei Sindacati, come non fanno distinzione fra Sindacati e Partito»48.Nel 1934 il ministero delle Corporazioni dispose un’ispezione nell’ufficio ve-

neziano da cui emerse un quadro organizzativo disastroso: con il massimo diri-gente il più delle volte assente, che «riceve eventualmente in massa i disoccupati nel suo ufficio salvo poi espellerli senz’altro» e che «qualche volta “prende qual-che operaio per il colletto” (dichiarazione dei suoi impiegati)», attorniato da uno staff del tutto inefficiente nella gestione del servizio49.

Già da qualche anno il sistema del collocamento nazionale era entrato in una fase di riorganizzazione nel senso di un più stretto controllo centrale. A capo dell’Ufficio unico provinciale di Venezia venne messo Francesco Molin, un fasci-sta della prima ora, già capomanipolo della Milizia, proveniente da una facolto-sa famiglia di medici. Tuttavia, sul tavolo del prefetto continuarono a giungere denunce di corruzioni e abusi, non solo nella sede di Venezia, per le quali l’unica risposta restò quella repressiva. Un bracciante disoccupato di un comune limi-trofo, ad esempio, accusava il dirigente dell’ufficio «di aver fatto assumere dalla società Sava di Marghera un certo Zoia, perché questi gli aveva regalato quindici uova ed un salame», ricevendone in cambio una denuncia all’autorità giudizia-ria50. Non andava meglio a un disoccupato di Favaro che, per aver riferito la voce di una tangente di 1.000 lire corrisposta a un funzionario del collocamento, ven-ne diffidato51.

5. Una rappresentanza impossibile

Lontani fisicamente dai luoghi di lavoro e culturalmente estranei, quando non ostili, al mondo operaio di Porto Marghera, forse non è esagerato affermare che nella moderna industria veneziana i sindacati fascisti «non contavano nulla»52.

48  Asve, Gp, b. 56, fasc. “Ufficio di collocamento. Collocatori”, Edoardo Malusardi (Unione provincia-le dei sindacati fascisti dell’industria) a Giorgio Suppiej e p.c. al prefetto, 4 dicembre 1933.49  Asve, Gp, b. 59, fasc. “Unione provinciale dei sindacati fascisti della industria. Dirigenti”, Rela-zione sulla inchiesta compiuta nei riguardi del funzionamento dell’ufficio di collocamento per i lavoratori dell’industria di Venezia, 8 ottobre 1934, 10 cc. ds.50  Asve, Gp, b. 56, fasc. “Ufficio di collocamento. Collocatori”, il questore [firma illeggibile] al pre-fetto, 1 maggio 1935.51  Asve, Gp, b. 9, fasc. “Ufficio collocamento Sindacati industria-Mestre. Esposto operai disoccupa-ti”, il questore al prefetto, 8 settembre 1935.52  Ravanne, Migrazioni interne e mobilità della forza lavoro, cit., p. 590.

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Eppure, con le ristrutturazioni aziendali degli anni Trenta e l’aggravamento del-la situazione economica nelle campagne, tra gli operai di Marghera si erano formati nuclei di lavoratori più stabili, il cui rapporto con la realtà industriale andava perdendo i tratti di ciclicità ed estemporaneità in direzione di un investi-mento esistenziale completo e definitivo53. La crescita dei Dopolavoro aziendali a partire dal 1935 potrebbe inoltre aver fornito occasioni di sociabilità operaia inizialmente inesistenti tra lavoratori prevalentemente turnisti e dispersi nel ter-ritorio54.

Nell’estate del 1932 il prefetto Bianchetti – raccogliendo l’invito del Duce ad «andare decisamente verso il popolo»55 – aveva visitato personalmente i princi-pali stabilimenti di Marghera, intrattenendosi con gli operai in alcuni incontri privati. Di quelle “udienze” restano solo degli scarni appunti manoscritti, che la-sciano però intuire come, tra le maestranze del porto industriale, il contadino apatico e mansueto – ammesso che tale rappresentazione fosse mai stata reale – cominciasse a elaborare le ragioni del suo disagio56. Accanto a molte invoca-zioni di patronage individuale o al massimo familiare – un aiuto per saldare i debiti con il negozio di generi alimentari, prorogare uno sfratto o depennare una multa per aver circolato senza il fanale della bicicletta; una raccomandazione per l’assunzione di un figlio o il trasferimento della moglie maestra – dalle note del prefetto affiora un malcontento tutto centrato sulla condizione di fabbrica.

Diversi operai degli stabilimenti della Montecatini si sarebbero lamentati dei bassi salari e della discontinuità dell’ingaggio. Tre lavoratori veneziani della stessa azienda (gli unici, secondo il prefetto) avrebbero detto che «col pretesto della crisi, [gli industriali] cercano di sottrarsi all’adempimento degli obblighi contrattuali», corrispondendo qualifiche inferiori alle mansioni svolte. Ancora più in là si sarebbero spinti i lavoratori della Breda e della San Marco (in queste realtà sarebbero apparsi i primi nuclei di antifascisti attivi) chiedendo di fissare le tariffe di cottimo e un regolare contratto57.

53  Interessanti considerazioni sul ruolo delle “minoranze stabili” sono nell’intervento di Duccio Bi-gazzi in Luciano Cafagna, Silvio Lanaro, Gianni Toniolo, Duccio Bigazzi, Sui primi operai di Marghe-ra, in “Venetica”, 1984, n. 1, pp. 69-108.54  Asve, Gp, b. 49, fasc. “Opera nazionale dopolavoro”. Notizie sui Dopolavoro di Porto Marghera sono anche in Giuseppe Dell’Oro, Istruzione tecnica e sociale a Marghera, in “Le Tre Venezie”, 1937, n. 1-2, pp. 32-34.55  Renzo De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936, vol. I, Torino, Einaudi 1974, p. 169.56  Asve, Gp, b. 53, fasc. “Visita stabilimenti Marghera. Udienze operai con S.E. il prefetto”.57  Isabella Peretti, Lotte operaie a Portomarghera durante la Resistenza, Mestre, Comitato zona industriale Pci, 1972; Pietro Cornaglia, in A voi cari compagni. La militanza sindacale ieri e oggi: la parola ai protagonisti, interviste di Sesa Tatò, Bari, De Donato, 1981, pp. 95-100; Cesco Chinello, La Resistenza a Marghera: rottura e ricomposizione nella lotta operaia. Una nuova soggettività sociale

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Nelle settimane successive alla sua visita a Porto Marghera Bianchetti di-mostrò un certo attivismo in materia di condizione operaia. Riportò alcuni dei problemi riferitigli dagli operai al podestà, all’Unione industriali e al sindacato, sollecitando maggior impegno nei trasporti pubblici, nelle retribuzioni e persino nelle condizioni ambientali. «Nelle udienze concesse agli operai in occasione delle recenti visite agli stabilimenti di Porto Marghera» – scriveva ad esempio al capo del sindacato industriale – «si sono presentati gli operai Bellan Gino e Cecchin Armando saldatori elettrici occupati alla Sava, nonché i fiduciari dei sin-dacati Mazza Attilio e Brazzarotti Luigi occupati alla Breda, lamentando i primi due le tenui paghe in relazione al loro lavoro pericoloso ed insalubre specie per il petto e per gli occhi, e gli altri due facendo presente le condizioni degli operai della Breda costretti ad un lavoro gravoso e poco rimunerativo»58. A questi ten-tativi di interessare le autorità politiche e sindacali corrisposero però risposte sbrigative e liquidatorie. Ad ogni modo nel settembre del 1933 Bianchetti, un prefetto forse un po’ troppo solerte sul fronte del lavoro, fu rimosso59.

Né i tentativi di mediazione del prefetto né tantomeno le rivendicazioni sin-dacali di un “principio di autoctonia” nell’accesso al lavoro in fabbrica sembrano aver inciso minimamente sulla composizione e sulle condizioni della classe ope-raia margherina. A dispetto di quanto pensavano i sindacalisti, Porto Marghera non era stata creata in funzione del consenso al fascismo “insulare”. A Roma non faceva problema la provenienza degli operai, ma solo il risultato economico: «se il porto industriale e le industrie traggono un beneficio dalla esistenza dell’hin-terland» – così ancora il commissario delle Migrazioni interne – «esse debbono a loro volta poter restituire questo beneficio alla classe lavoratrice, che necessa-riamente gravita intorno a questo centro di lavoro»60.

Il drenaggio di forza lavoro dall’hinterland – una sempre più estesa periferia diffusa – sarebbe continuato dopo la guerra, quando Porto Marghera visse il suo secondo boom, arrivando a impiegare quasi 40.000 lavoratori. Tra questi vi furo-no molti veneziani, benché ormai inurbati in una città-periferia completamen-te diversa dall’ambiente da cui provenivano, spinti fuori dall’isola da un «esodo di classe» mai più interrottosi a partire dall’inizio degli anni Cinquanta61 . Se il

e politica, in Paladini, Reberschak, La Resistenza nel Veneziano, vol. I, cit., pp. 235-293.58  Asve, Gp, b. 53, “Visita stabilimenti Marghera. Udienze operai con S.E. il prefetto”, il prefetto all’U-nione industriale fascista della Provincia di Venezia, 27 luglio 1932.59  Alberto Cifelli, I prefetti del Regno nel ventennio fascista, Roma, Scuola superiore dell’ammi-nistrazione dell’Interno, 1999, anche on line http://ssai.interno.it/download/allegati1/quaderni_12.pdf [19-9-2016]60  Lettera di Nannini al prefetto, 29 luglio 1938, cit.61  Dorigo, Una legge contro Venezia, cit., p. 33.

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rapporto tra Venezia e la sua terraferma rimase problematico, almeno si può rilevare come in quella diversa stagione il sindacato nelle fabbriche riuscì infine a entrare, facendo spazio a una generazione di quadri di base che avrebbero portato a compimento l’esperienza degli operai-contadini a Porto Marghera.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 263-270

La Grande guerra rappresentò un momento di svolta anche in riferimento ai flus-si migratori su scala globale. Al freno imposto agli spostamenti di popolazione dall’eccezionalità bellica che determinò il rientro (volontario o imposto che fos-se) di molti migranti nel proprio paese di origine, ne seguì uno ulteriore determi-nato dalla volontà di numerosi governi di adottare politiche finalizzate a ridurre i flussi in entrata, intervenendo peraltro con un approccio selettivo degli stessi lavoratori migranti in entrata1.

Le difficoltà dell’economia mondiale che stentò a tornare a crescere secon-do i ritmi prebellici producendo tensioni sociali che attraversarono tutti i paesi coinvolti nello scontro militare, e i controlli e le limitazioni sempre più stringenti adottati dai paesi di arrivo, finirono con il determinare un inceppamento del «gi-gantesco meccanismo di trasferimento della forza lavoro che aveva caratteriz-zato tutta la prima globalizzazione»2. In particolare, i vincoli «si tradussero, da un lato, nell’introduzione di limitazioni all’entrata di nuovi immigrati e nella pre-disposizione di quote di accesso e, dall’altro, nella realizzazione di accordi tra singoli paesi di partenza e di arrivo per regolamentare la libertà dei movimenti individuali e favorire la stipulazione di contratti collettivi»3.

Il confronto sull’arruolamento dei lavoratori si spostò da un piano prevalen-temente privato ad un piano interamente pubblico: il passaggio di manodopera da uno Stato all’altro non venne più regolata tra i soggetti privati coinvolti (la-voratori e datori di lavoro), ma tra governi in rappresentanza delle singole cate-

1 P. Corti, M. Sanfilippo, L’Italia e le migrazioni, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 112.2 C. Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 116.3 Corti, Sanfilippo, L’Italia e le migrazioni, cit., p. 112.

MigrazioniLUCA GORGOLINI

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gorie interessate4. In tal senso, contratti di lavori importanti furono, per quel che riguarda l’Italia, quelli siglati con la Francia (1919) prima e con il Brasile (1921) poi. Ma non ve dubbio che furono innanzitutto le nuove politiche immigrato-rie adottate dagli Stati Uniti ad avere l’impatto maggiore sui flussi migratori in uscita dalla penisola. Anche per effetto delle proteste avanzate dal movimento restrizionista che vedeva nella new immigration una minaccia all’equilibrio raz-ziale anglosassone5, il governo americano cominciò già nel corso della Gran-de Guerra ad adottare provvedimenti restrittivi: nel 1917, infatti, fu approvato il Burnett Bill, con cui veniva introdotto il Literacy Test allo scopo di impedire l’ingresso nel paese agli stranieri analfabeti6. Successivamente, nel dopoguerra, la legislazione degli Stati Uniti registrò l’introduzione del principio delle quote che fissava un tetto di ingressi per ciascuna nazionalità d’origine. Il primo prov-vedimento, emanato nel 1921, stabiliva un tetto di ingressi pari al 3% dei con-nazionali residenti negli Stati Uniti nel 1910 (nel caso degli italiani era dunque consentito un massimale di ingressi pari a poco più di 42 mila ingressi annui); a seguire, nel 1924, un secondo provvedimento abbassava la quota al 2% con base di riferimento al numero dei connazionali presenti nel 1890, anno in cui la gran-de emigrazione degli italiani diretti negli Usa era ancora alle origini7. In questo modo, veniva garantito l’accesso solamente a poco più di 4 mila unità8. Intanto, però, nel solo periodo 1921-1924 si erano avute 400.000 richieste di espatrio a fronte della “quota” appena richiamata di poco più di 40 mila posti disponibili. Considerando i dati annuali che riguardano i flussi in entrata negli Stati Uniti, si osserva che la quota degli italiani sul totale dell’immigrazione scese dal 27,6% del 1921 al 13% dell’anno successivo, per mantenersi sotto il 10% nel resto degli anni Venti9.

Interventi legislativi analoghi a quelli decisi a Washington furono adottati an-che in altri Stati e vennero resi progressivamente più restrittivi in conseguenza della profonda crisi economica che si manifestò a partire dall’autunno del 1929 e si protrasse per tutto il decennio successivo, interrotta di fatto solo dallo scoppio del secondo conflitto mondiale. L’impennata del numero dei disoccupati azzerò tutte le speranze di un ritorno ad una maggiore apertura delle frontiere: dopo il

4 F. Fauri, Storia economica delle migrazioni italiane, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 169.5 E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 407.6 Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, cit., p. 122. 7 Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, cit., p. 407; Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, cit., p. 122.8 Fauri, Storia economica delle migrazioni italiane, cit., p. 171.9 Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, cit., pp. 127-128.

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1929 il tasso di disoccupazione superò infatti il 19% in Australia e Canada, il 23% per cento in Belgio e Svezia, raggiunse il 25% negli Stati Uniti e superò la soglia del 30% in Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Danimarca10. In Canada, considera-to da molti emigranti come paese di “passaggio” per arrivare negli Stati Uniti ag-girando le leggi sopra richiamate, una legge analoga al Literacy Act fu introdotta nel 1919; in seguito, il governo canadese decise di accogliere solo agricoltori con “ampi mezzi”, braccianti agricoli e persone di servizio, con ispezioni nei paesi d’origine condotti da appositi ispettori canadesi e non più da consoli britannici; a partire dal 1924, l’Australia optò per una politica di selezione degli agricoltori immigrati che si traduceva nella scelta di occupare coloro i quali si trovavano senza adeguati mezzi agricoli e finanziari nella colonizzazione dei difficili ter-ritori tropicali; passando all’America latina, in Brasile, la crisi della coltivazione del caucciù, battuto dalla concorrenza delle piantagioni presenti in Asia, deter-minò l’adozione della sistema delle “quote”. Nel caso della Francia, invece, una legge mirata a proteggere la manodopera nazionale dalla concorrenza stranie-ra fu introdotta solo nel 193211.

In Italia, la politica messa in campo dai governi che si succedettero negli ul-timi anni di vita del sistema liberale, prima dell’avvento del fascismo, fu all’in-segna della riattivazione dei meccanismi che puntavano a facilitare la parten-za dei connazionali, tanti e provenienti soprattutto dalle file della popolazione contadina, che non riuscivano a trovare possibilità di sopravvivenza per sé e le proprie famiglie. L’emigrazione dunque continuava ad essere interpretata come una “valvola di sfogo” ad una situazione di endemica sottoccupazione e povertà, all’interno di un quadro economico produttivo arretrato, contraddistinto dal per-manere di forti sperequazioni geografiche e sociali. E, dall’altra parte, le rimesse che gli espatriati inviavano ai familiari rimasti nelle comunità d’origine rappre-sentavano uno stimolo di straordinaria importanza ai microsistemi economici locali.

Nel 1919 fu approvato il Testo Unico dei provvedimenti sull’emigrazione e sul-la tutela giuridica degli emigranti, con l’intendo di rimettere ordine alla legge del 1901, con la quale era stato istituito il Commissariato generale dell’emigrazione, aggiornandone ulteriormente i contenuti in funzione della nuova situazione del quadro internazionale dei flussi migratori che vedeva una ridefinizione della ge-rarchia delle destinazioni principali, ciò in conseguenza della nuova situazione economica internazionale e delle nuove politiche immigratorie adottate da al-cuni Stati che negli anni precedenti lo scoppio della guerra erano divenuti mete privilegiate degli emigranti italiani. In particolare, il nuovo impianto normativo

10 Ivi, p. 123.11 Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, cit., pp. 421-422.

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tendeva a promuovere un maggiore intervento pubblico con particolare atten-zione alle modalità di trasferimento, le tutele di cui doveva essere destinatario il migrante e la definizione degli organi preposti al controllo delle diverse fasi del processo migratorio12 . In risposta al Literacy act e ad altri interventi analoghi, si decise di incentivare l’alfabetizzazione e la formazione professionale degli aspi-ranti migranti. Così, nel biennio 1920-21 furono attive circa 800 scuole serali e festive che prevedevano la figura del maestro di emigrazione e che registrarono la presenza di 28 mila alunni. Il Commissariato dell’emigrazione mise in campo anche una significativa spinta alla riqualificazione professionale di coloro che si dichiaravano pronti ad emigrare: i corsi formativi passarono da 17 nel 1922-23 a 214 del 1925-26. Si trattava in prevalenza di cattedre ambulanti per cementisti, muratori, scalpellini, pavimentisti, minatori, tessitrici, intagliatori che avevano il compito di attrezzare l’emigrante italiano a muoversi con meno difficoltà nel mercato del lavoro continentale, dopo che le mete americane diventavano, per quanto sopra ricordato, sempre più difficili da raggiungere13. Vennero quindi sti-pulati accordi bilaterali con Francia, Belgio e Brasile. E nel 1920 venne costituito l’INCILE (Istituto nazionale per la colonizzazione e le imprese di lavoro all’este-ro), la cui missione era il finanziamento per intero o in parte di imprese di lavoro o di colonizzazione all’estero, e la raccolta di elementi e notizie relativi a lavori di colonizzazione da compiersi fuori dai confini nazionali14. L’esiguità dei mezzi a sua disposizione finì però per segnare in negativo la breve vicenda di questo Istituto che nel 1923 venne chiuso per volontà di Mussolini, il quale diede il via all’esperienza dell’Icle (Istituto di credito per il lavoro italiano all’estero) con l’intento «di finanziare imprese di lavori e colonizzazione agricola che impie-gassero prevalentemente manodopera italiana, di fornire anticipazioni anche a singoli coloni, raccogliere dati e notizie sulla possibilità di lavoro da effettuarsi all’estero e in generale di compiere tutte le operazioni finanziarie connesse con l’emigrazione, inclusa la raccolta del risparmio degli italiani all’estero»15. Questa iniziativa promossa Mussolini poco dopo il suo insediamento a capo del governo ci consente di sottolineare come, inizialmente, il fascismo non apportò modifiche alla politica migratoria portata avanti da chi l’aveva preceduto: la promozione dell’emigrazione che aveva rappresentato un tratto caratterizzante dei governi liberali veniva fatta propria anche dal fascismo. Ribadendo che l’emigrazione era «una necessità fisiologica del popolo italiano… serrato in questa angusta e

12 Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, cit., p. 136.13 Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, cit., p. 413.14 Fauri, Storia economica delle migrazioni italiane, cit., p. 178.15 Ivi, p. 179.

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adorabile penisola»16, Mussolini portò avanti, senza successo, una aperta oppo-sizione nei confronti della prima formulazione della legge Quota decise a Wa-shington nel 1921. Dichiarando pubblicamente che il suo governo era «persuaso della opportunità di inviare in America buoni lavoratori» che fossero «dal punto tecnico specializzati e dal punto di vista sociale tranquilli»17, in occasione del-la Conferenza internazionale sull’emigrazione e l’immigrazione che si tenne a Roma nel 1924, il capo del governo italiano si lamentò formalmente con l’amba-sciatore degli Stati Uniti per l’eccessiva rigidità della nuova norma. Le proteste però non ebbero effetto (di lì a poco gli Stati Uniti, come anticipato, diedero un ulteriore giro di vite al sistema di quote precedentemente definito), e segnarono l’avvio di una ridefinizione della politica del fascismo, contraria agli espatri, che trovava terreno fertile nel retroterra culturale di un impianto nazionalistico che tanta parte aveva avuto nella costruzione dell’ideologia fascista:

Dopo un periodo, in cui era stata sostanzialmente seguita la strada tracciata dai gover-ni precedenti, il cambiamento di rotta verso la restrizione degli espatri fu un adeguarsi ad una situazione non voluta: si trattò di interpretare uno stato di fatto per volgerlo a proprio favore, facendone un punto distintivo dell’agenda politica. Ovviamente questo fu possibile grazie alla presenza all’interno del composito fronte fascista di un’anima nazionalista che guardava all’emigrazione come alla massima iattura per la dignità e la forza della nazione: scegliere quella visione piuttosto che altre significò dare un taglio netto col periodo liberale, caratterizzato dalla convivenza di giudizi opposti sul fenomeno migratorio. Alla precedente varietà e complessità si sostituì una visione mo-nolitica, contraria al concetto di valvola di sfogo, ma proprio per questo portatrice di problemi tutt’altro che semplici. L’organizzazione degli spostamenti di masse di disoc-cupati, inizialmente verso l’Agro Pontino e la Libia, poi verso l’Etiopia e la Germania, non si sarebbe realizzata in assenza di questo primo momento fondativo, o almeno non con quei caratteri peculiari18.

Ecco che nella sua Prefazione alla Relazione annuale del Commissariato per il biennio 1924-1925, Mussolini scriveva: «Si può riconoscere, come io riconosco, che l’emigrazione è un male, perché depaupera, la nostra gente di elementi at-tivi che vanno a costituire i globuli di anemici paesi stranieri»19. Dichiarazioni esplicite, rapidamente seguite da scelte politiche puntuali che miravano a sman-tellare tutta l’architettura normativa in vigore allo scopo di ostacolare i flussi in uscita dalla penisola. E che vale la pena ripercorre al fine di comprendere l’in-

16 Ivi, p. 170.17 Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, cit., p. 414.18 S. Gallo, Il commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna (1930-1940. Per una storia della politica migratoria del fascismo, Foligno, Editoriale Umbra 2015, p. 10.19 Fauri, Storia economica delle migrazioni italiane, cit., p. 171.

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tensità con cui Mussolini decise di portare avanti il cambio di rotta in direzione di una nuova politica migratoria che puntava a sostituire l’emigrazione con i flussi di colonizzazione interna e con quelli diretti verso le colonie20; in concreto, gli interventi normativi puntarono a contenere l’emigrazione, tentando di ridurre quella temporanea e bloccando quella permanente.

Nel 1926 venne creato il Comitato permanente per le migrazioni interne (Cpmi), nell’aprile dell’anno successivo il Commissariato generale dell’emigra-zione venne abolito e sostituito con la Direzione generale degli italiani all’estero, direttamente dipendente del Ministero degli Affari Esteri21; entro il 1928 furono cancellati tutti i programmi di assistenza agli emigranti – inclusi quelli condotti dalla Società Umanitaria e dall’Opera Bonomelli (che venne soppressa) – la cui tutela esclusiva venne affidata ai Fasci attivi all’estero; a partire dall’estate del 1927, l’atto di chiamata da parte di un datore di lavoro divenne indispensabile: in questo modo veniva di fatto interrotto il libero flusso degli emigrati che ave-va caratterizzato la stagione precedente dei flussi in uscita dall’Italia; dal 1928 si procedette inoltre verso un aumento progressivo della tassa sul passaporto che salì da 2 a 80 lire; mentre l’espatrio definitivo venne permesso solamente ai parenti entro il 3° grado; una nuova norma, approvata nel 1929, stabilì che gli arruolamenti per l’estero dovessero riguardare esclusivamente i lavoratori che risultavano ufficialmente disoccupati, iscritti dunque nelle apposite liste; infine, il 24 luglio 1930 Mussolini fece approvare una nuova legge che introduceva san-zioni penali particolarmente severe per coloro che fossero emigrati illegalmen-te o avessero favorito illecitamente gli espatri22.

Di fronte al permanere della pressione derivata dalla crescita demografica e dalla condizione di sottosviluppo e scarsa occupazione in cui versavano molte regioni italiane, la soluzione “nazionale” che il regime fascista mise in campo per aggirare il problema della chiusura degli sbocchi tradizionali dei flussi in uscita, fu rappresentata dal tentativo di procedere con insediamenti di colonizzazione interna nelle aree interessate dalle bonifiche e con spostamenti di popolazione in direzione delle colonie africane o della Germania hitleriana23.

Al Comitato per le migrazioni e per la colonizzazione interna (Cmci), nato nel 1930, e divenuto in seguito Commissariato per le migrazioni e per la colonizza-zione (Cmc), venne affidato il compito di controllare e coordinare i trasferimenti temporanei e di colonizzazione demografica:

20 Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, cit., p. 137.21 Ibid.22 Fauri, Storia economica delle migrazioni italiane, cit., pp. 171-173; Bonifazi, L’Italia delle migra-zioni, cit., pp. 137-138.23 Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, cit., p. 152.

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Il primo tipo di spostamento interessò 61 mila lavoratori impegnati nelle opere di boni-fica tra il 1930 e il 1934, 201 mila trasferiti nell’Africa orientale italiana dal 1935 al 1939 e 491 mila emigrati in Germania in base ad accordi speciali tra il 1938 e il 1942. Gli interventi di colonizzazione, nel corso degli anni trenta, riguardarono invece, 80 mila persone all’interno del paese, 40 in Libia e appena 3 mila e 500 nell’africa orientale24.

Per quel che riguarda la colonizzazione interna, aldilà dei numeri appena citati e dell’incessante opera di propaganda messa in atto dal regime, essa si rivelò particolarmente dura per via delle difficoltà ambientali con cui dovettero fare i conti i coloni (si trattava di aree non di rado infestate dalla malaria), dei pro-blemi incontrati da questi tanto nella coltivazione di alcuni prodotti quanto nel mancato rispetto di alcuni clausole contrattuali dettate dall’Opera nazionale combattenti, ente cui era stato affidato il piano di colonizzazione. In conseguen-za delle proteste animate dagli immigrati – sia all’interno dell’Agro pontino che in alcune aree del Friuli e della Sardegna – il governo procedette con la nascita di numerosi centri rurali e la fondazione delle nuove città cui furono attribuite denominazioni che, come noto, erano ispirate alla prosopopea mussoliniana25. Azioni che, almeno in parte, contraddicevano la politica ruralista fin lì condotta.

Per quel che riguarda la colonizzazione del “posto al sole”, occorre osservare che, dal punto di vista economico, l’impero coloniale voluto da Mussolini e che raggiunse il suo culmine con l’aggressione all’Etiopia (1935-1936), si rivelò una costruzione non redditizia e certamente costosa (sia per la guerra di conquista sia per l’esplicazione del governo amministrativo). In buona sostanza, nessuna colonia presentava risorse minerali e del sottosuolo di una qualche importanza, e la stessa agricoltura si presentava ancora come tradizionale e poco sviluppa-ta26. Così, come mostrano i dati sopra riportati, «lo sforzo organizzativo messo in campo dal fascismo per la colonizzazione di Etiopia, Eritrea e Somalia e Libia portò a magri risultati e anche i numeri confermano la poca attrattiva dei nuovi possedimenti africani»27.

Un’ultima, rapida riflessione, va riservata ai movimenti migratori interni che gli italiani animarono spontaneamente. Come è noto, il fascismo puntò ad ostacolare questo genere di spostamenti con l’intento di arginare il fenomeno dell’urbanesimo. I primi vincoli alla mobilità vennero introdotti nel 1928 e, raf-forzati nel 1931, divennero particolarmente stringenti con l’approvazione della legge del 1939 che, abolita solo nel secondo dopoguerra, ebbe l’effetto di ren-

24 Ivi, p. 138.25 Corti, Sanfilippo, L’Italia e le migrazioni, cit., pp. 126-127. Cfr. anche P. Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Torino, Utet, 2008, pp. 130-145.26 Fauri, Storia economica delle migrazioni italiane, cit., p. 177. 27 Ivi, p. 178.

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dere centinaia di migliaia di italiani clandestini all’interno della loro stessa pa-trizia. Il provvedimento, infatti, «legava il trasferimento di residenza nei comuni con più di 25 mila abitanti o di notevole importanza industriale al possesso di un’occupazione, quando la legge sul collocamento riservava quest’ultima ai soli residenti»28. Ma, nonostante questo tipo di impedimenti burocratici alla libertà di circolazione e le politiche ruraliste, gli anni Trenta furono comunque caratteriz-zati da una forte mobilità interna: 1,5 milioni di persone si spostarono lungo la penisola e le isole29. In particolare, in quegli anni prese avvio un consistente pro-cesso di urbanizzazione che vide una crescita progressiva dei flussi provenienti dal Meridione in direzione del Settentrione, anticipando così l’esodo massiccio che si sarebbe verificato nel secondo dopoguerra. Nel 1931, i residenti nell’Italia centrosettentrionale nati nel Mezzogiorno erano poco meno di 600 mila unità. E tra il 1921 e il 1951 la crescita della popolazione nei comuni capoluoghi di provincia aumentò del 44%, mentre nel resto dei comuni l’aumento della popo-lazione non superò il 13%30.

Dato questo quadro, «paradossalmente, in definitiva, tanto per la sbandiera-ta campagna di ruralizzazione intrapresa dal regime, quanto per il complessivo movimento geografico della popolazione, l’aspetto più significativo delle tra-sformazioni intervenute negli anni tra le due guerre sembra riguardare il muta-mento del profilo demografico urbano anziché di quello rurale»31.

28 Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, cit., p. 145.29 Fauri, Storia economica delle migrazioni italiane, cit., p. 174.30 Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, cit., pp. 148-149.31 Corti, Sanfilippo, L’Italia e le migrazioni, cit., p. 127.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 271-280

Proposte didattiche per una narrazione biografica dell’antifascismo

Immaginare una didattica dell’antifascismo per i ragazzi e le ragazze delle scuo-le secondarie (inferiori e superiori) non è un’impresa nuova ma richiede, oggi più di ieri, grande attenzione nel valutare le capacità di recepimento del dato storico da parte dei giovani e un ripensamento di linguaggi e modelli che vada oltre l’in-sistente richiamo all’utilizzo del digitale e consenta di ragionare su come e cosa trasmettere prima di interrogarsi sulla metodologia da utilizzare. Gli strumenti digitali applicati alla didattica consentono di creare connessioni immediate tra temi e soggetti, di entrare in contatto con le fonti storiche (documenti e intervi-ste, testi, immagini e suoni), di accompagnare la comprensione con l’ausilio di rimandi semantici, repertori, indici, bibliografie: soluzioni ricche di potenzialità ma insufficienti da sole a garantire una maggiore capacità di fruizione e com-prensione del contesto storico dell’antifascismo da parte dei giovani1.

Le biografie degli oppositori, salvate al trascorrere del tempo da oltre set-tant’anni di ricerca storica e di raccolta della memoria, pur nei dati ormai persi e in quelli ancora da recuperare, rappresentano nel complesso un patrimonio

1 Molte delle riflessioni contenute in questo testo sull’efficacia degli strumenti di trasmissione sto-rica legati alla didattica dell’antifascismo derivano dall’analisi dei progetti svolti in questo ambito negli ultimi anni dalla Fiap, la Federazione italiana associazioni partigiane, in autonomia e in colla-borazione con altri enti e istituzioni della memoria. Tra questi progetti si segnalano laboratori nelle scuole, mostre didattiche, corsi di formazione per docenti e pubblicazioni per cui si rimanda al sito www.fiapitalia.it.

OppositoriFIORELLA IMPRENTI

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fondamentale per la costruzione di percorsi didattici. L’utilizzo della narrazione biografica, su cui si tornerà più avanti, è valido oggi come lo era ieri nei processi di trasmissione della memoria poiché consente ai ragazzi e alle ragazze di en-trare nei vissuti dei protagonisti e di immedesimarsi con le scelte fatte nei diversi contesti. Le storie degli individui parlano dei soggetti biografati e al contempo hanno la capacità di raccontare il mondo in cui questi soggetti vissero e agirono, trascendendo quindi il valore individuale della biografia, utilizzata per svelare la densità sociale e la stratificazione storica di una vita, dove l’accento oscilla in continuazione tra il generale e il particolare, mettendo in risalto proprio la dialettica fra i due poli2.

Lo strumento della biografia permette in sintesi di evidenziare il nesso tra di-mensione storica individuale e collettiva e offre spunti per comprendere la com-plessità dei rapporti tra vita privata e pubblica, tra percorsi differenti, famigliari e istituzionali, tra storia culturale, sociale e politica. Seguendo questa prospetti-va, attraverso le vite degli oppositori ci si pone dunque l’obbiettivo di illuminare l’intero panorama dell’antifascismo e il contesto della società italiana del perio-do, ma quali soggetti e il racconto di quali storie risponde a tale finalità?

Occorre preliminarmente definire chi furono gli oppositori, restituendo la complessità del fenomeno, trasmettendo un’immagine plurale dell’antifascismo sia in termini valoriali e politici, sia rispetto alle generazioni che attraversarono gli anni del regime fascista, sia infine assegnando la giusta dimensione ai dati sociali, geografici, di classe e di genere. Il dibattito su quali confini porre alla de-finizione di “antifascismo” e di “oppositore” ha segnato la storiografia sul tema. Manifestare o celare il proprio dissenso in contesti differenti, con motivazioni diverse, operare individualmente o all’interno di una organizzazione clandesti-na, conservare un convincimento personale di opposizione e agire con esso nel proprio ambiente famigliare e lavorativo: quando si può considerare un atteg-giamento, un’azione o un’idea “antifascista” e questa resta tale se si sviluppa nella sola sfera intima? Tali valutazioni se applicate non al singolo ma alle gran-di masse costringono a confrontarsi con categorie come quella dell’a-fascismo, che incontra e si intreccia in più momenti con l’espressione dell’antifascismo di lotta3.

Senza rinunciare a mettere in risalto l’impegno di chi più pesò (e pagò) nella lotta al fascismo, uno sguardo più ampio sul contesto del periodo consente da una parte di scongiurare il rischio agiografico, dall’altra di evitare un’immagine

2 Su questo mi limito a rimandare a Sabina Loriga, La piccola x. Dalla biografia alla storia, Palermo, Sellerio editore, 2012.

3 Simona Colarizi, L’opinione pubblica degli italiani sotto il regime. 1929-1943, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 4.

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uniformante dell’antifascismo, inteso esclusivamente come esperienza eccezio-nale di una minoranza eroica4. Testimonianze in tutto lineari e coerenti, prive di sfumature, dubbi, cedimenti o contraddizioni possono inoltre risultare scorag-gianti per i ragazzi che vi si approcciano; vi è poi soprattutto l’incapacità delle giovani generazioni di comprendere l’esemplarità di esperienze individuali e collettive tutte schiacciate sulla dimensione valoriale politica quando viene a mancare un contesto di trasmissione del pensiero e dell’etica politica.

Per un articolato insieme di ragioni, dalla distanza temporale dal mondo in cui si definì il pensiero politico novecentesco all’ancora incompiuto cambiamen-to di paradigma del sistema politico attuale, le strutture educative, le famiglie, le scuole, i circuiti associativi giovanili si dimostrano per lo più incapaci o a disagio nel trasmettere un patrimonio culturale di pensiero politico, indispensabile per contestualizzare e comprendere appieno il carattere esemplare delle biogra-fie. Queste risulteranno quindi più efficaci se, viste singolarmente, riusciranno a contenere in sé un pezzo di quel patrimonio e se, presentate collettivamente, proveranno a rispondere alla fondamentale domanda di cosa fu l’antifascismo5.

Degli oppositori è tradizionalmente possibile dare una dimensione numerica, contando i deferiti al Tribunale speciale, i condannati, i confinati, gli ammoniti, i partigiani combattenti, tutte categorie che portano ad assegnare un particolare status all’opposizione politica e spesso a leggere tutto l’antifascismo guardando all’indietro dai venti mesi della Resistenza, come fosse un’anticipazione di que-sta, «una fase preparatoria, priva di una sua autonomia e di una sua specificità». Tale impostazione trascura inoltre espressioni oppositive, quali quella femmini-le, che per la loro complessità non possono essere considerate nella loro valen-za esclusivamente politica e che nella loro dimensione di massa furono determi-nanti per il crollo del regime6.

L’insistenza nel voler porre un accento sul contesto sociale dell’antifascismo e sui soggetti diversi che lo abitarono non vuol dire trascurare il dato politico ma porre le basi per la sua comprensione. Resta centrale l’esemplarità dei percorsi ideali e ideologici sviluppati in clandestinità, all’estero, al confino o in carcere, luoghi di elaborazione, di confronto e di scambio, oltre che di sofferenza e, spes-so, di lutto. Proprio il carcere fu ad esempio inteso da una generazione di donne e uomini che non avevano avuto accesso agli studi come una vera e propria

4 Su questo punto insisteva già a metà degli anni Settanta Colarizi (a cura di), L’Italia antifascista dal 1922 al 1940. La lotta dei protagonisti, I volume, Roma-Bari, Laterza, 1976, p. 2.

5 Un esempio in questo è il volume di Roberta Cairoli, Federica Artali (a cura di), Viva L’Italia. Donne e uomini dall’antifascismo alla Repubblica, Collana “I nuovi Quaderni della Fiap”, Milano, Edizioni Enciclopedia delle donne, 2015.

6 Giovanni De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana (1922-1939), Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 20.

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«università proletaria»7, una dimensione collettiva che si rispecchiò anche nell’e-laborazione di una memoria comune, di un “noi” eroico, in cui il privato veniva percepito come secondario rispetto alla centralità del credo politico8. Questa centralità restò però a lungo prevalente sia nella memorialistica sia nella storio-grafia, lasciando più in ombra lo studio dell’antifascismo che si espresse in forme diverse nella realtà più viva del paese, nei quartieri delle città e nei borghi, nei luoghi di lavoro e nelle famiglie9.

Nell’impostare un progetto didattico basato sulla narrazione biografica, in-trodurre il racconto della vita di soggetti considerati “minori” per il loro ruolo politico o di lotta può aprire la strada alla comprensione di quell’antifascismo popolare operante anche negli anni di maggiore forza repressiva del regime e che fu capace di sopravvivere proprio perché radicato nelle idee e nel senso co-mune provenienti da processi lunghi di acculturazione collettiva10. L’opposizione al fascismo, per quanto nascosta o non sempre pienamente consapevole, poteva in questo senso essere rintracciata anche nella passività e nell’apatia con cui si rispondeva alla chiamata enfatica del regime alla mobilitazione di massa e ai momenti di “religione civile”, atteggiamento diffuso in modo crescente nel corso degli anni Trenta parallelamente all’abbassamento del tenore di vita in diversi settori della società11.

Anche lo scherno, la parodia, le barzellette scambiate a tavola o per le strade contribuirono a costruire il disincanto rispetto ai rituali di massa del regime, così come, per le donne, il ricorso a pratiche di controllo delle nascite e l’attaccamen-to al proprio lavoro segnavano la distanza dal modello di femminilità prolifica e passiva, devota all’idea di mettere al mondo soldati fascisti da sacrificare alla grandezza della patria12.

Un esempio di queste biografie antifasciste “minori” lo si deve a Giovanni De Luna che nel prendere in considerazione tutte le carte e gli oggetti appartenuti agli antifascisti deferiti al Tribunale speciale seppe rintracciare, nel suo Donne

7 Colarizi (a cura di), L’Italia antifascista dal 1922 al 1940, cit., pp. 2-3.

8 Queste riflessioni sono proposte da Patrizia Gabrielli che analizza le autobiografie delle donne comuniste che vissero l’esperienza carceraria: P. Gabrielli, Fenicotteri in volo. Donne comuniste nel ventennio fascista, Roma, Carocci, 1999, pp. 16-17.

9 Giovanni De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana (1922-1939), Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 26

10 Colarizi, L’opinione pubblica degli italiani sotto il regime. 1929-1943, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 5

11 Roberta Fossati, Donne controcorrente: essere antifasciste negli anni Trenta, in F. Lussana (a cura di), Una storia nella storia. Gisella Floreanini e l’antifascismo italiano dalla clandestinità al dopoguerra, Roma, Res, 1999, p. 53.

12 Cfr. Luisa Passerini, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Roma-Bari, Laterza, 1984.

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in oggetto, non solo le cospiratrici e le “rivoluzionarie di professione”, ma anche una rete tutta femminile fatta di sorelle, mogli, madri e fidanzate di detenuti po-litici e di militanti clandestini. Molte di loro continuarono a muoversi all’interno di un contesto di frontiera, senza mai scindere completamente i legami con la propria quotidianità per passare all’antifascismo organizzato. Partendo da que-ste ricerche De Luna arrivò alla categoria di “antifascismo esistenziale”, chiaren-do che la politica, per quanto importante, non potesse essere considerata l’unico stimolo all’agire contro il regime, ampliando quindi lo sguardo sulle motivazioni e sui comportamenti di uomini e donne «in quanto individui concreti», spostando l’asse della ricerca dalle istituzioni al sociale e dalle teorie ai soggetti13.

Per restituire l’intero panorama antifascista e aumentarne la comprensione, anche in una narrazione biografica, è dunque necessario che accanto alla di-mensione più propriamente politica e organizzata, nei tre momenti fondamen-tali della cospirazione interna, dell’emigrazione politica e del carcere/confino, si ponga attenzione anche ai soggetti che animarono un campo più vasto e non nettamente identificabile di opposizione al regime. Rientrano in esso i pensieri, le azioni e gli atteggiamenti di uomini e donne che, senza avere un rapporto diretto con l’antifascismo organizzato né con un pensiero politico organico o chiaramente espresso, si resero comunque protagonisti di episodi di protesta contro il regime. Si esprimeva in questo ambito spesso «un ribellismo istintivo, generico, primitivo, ma che manifestava una significativa area di non consenso e di adesione a valori ed aspirazioni che nascevano innanzitutto all’interno della propria dimensione esistenziale»14.

Queste espressioni di dissenso convissero e a volte si intrecciarono, sosten-nero, nascosero, diffusero le ragioni dei partiti messi fuori legge, mantenendo il filo della memoria in un regime che tendeva a cancellare non solo gli oppositori ma tutto il contesto politico, culturale e sociale esistente prima della marcia su Roma. In questo ebbero un ruolo fondamentale gli insegnanti di ogni ordine e grado che, a rischio della propria vita, tennero vivo il legame con il mondo pre-cedente e traghettarono idee, valori e narrazioni all’interno di paradigmi nuovi.

Il confronto, lo scambio e anche a volte il silenzio tra generazioni furono elementi del processo di costruzione politica e di opposizione al fascismo ed è proprio attraverso la narrazione biografica che queste dinamiche emergono in modo vivo, esaltando lo scarto o il riconoscimento tra adulti e ragazzi, nelle fa-miglie, nelle reti amicali, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei momenti di svago, nelle relazioni epistolari.

13 De Luna, Donne in oggetto, cit., p. 26.

14 Roberta Cairoli (a cura di), Fatti e idee della Resistenza: un approccio di genere, Milano-Venezia, Biblion, 2013, p. 28.

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Più generazioni si confrontarono ad esempio con l’omicidio Matteotti, il pri-mo vero momento periodizzante dell’antifascismo. Quel rapimento il 10 giugno 1924, il corpo ritrovato solo in agosto in una boscaglia fuori Roma, le notizie sempre più dettagliate che chiarivano le vicinanze del commando squadrista con il governo, determinarono un’impressione enorme. Per molti, giovani e meno giovani, fu la presa di coscienza di una rottura, morale, politica e istituzionale cui le forze e gli individui reagirono in modi diversi.

La risposta legalitaria e parlamentare dell’Aventino, pur segnando per le op-posizioni l’inizio di «un processo al fascismo e a Mussolini»15, mancò l’obbiettivo di provocare le dimissioni del governo, facilitandone invece la svolta repressiva dopo il 3 gennaio 1925. Nacquero in risposta a quell’assassinio e all’arroganza di un governo che se ne assumeva la responsabilità senza alcuna conseguenza, le prime coraggiose voci di opposizione organizzata attorno a fogli come il “Non mollare”, “Il Caffè”, il “Quarto stato” portati avanti da figure quali «i Salvemini e i Parri, i Rosselli e gli Ernesto Rossi che tanta parte avrebbero avuto nelle succes-sive vicende dell’antifascismo»16. Iniziava qui

un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffoca-zione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile. Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 comin-ciarono ad uscire i primi foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell’aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c’era un caduto, il cui nome risuonava in quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio rincuorava i superstiti a conti-nuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda: ma era resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura e la più sconsolata17.

Seguirono nel novembre del 1926 le leggi “fascistissime” che costrinsero a scelte estreme tutti coloro che non si riconoscevano nel regime: o nascondere il pro-prio antifascismo in una sfera intima e morale o passare alla clandestinità, all’e-migrazione, al rischio di finire in carcere o al confino. Tutti i partiti, le organiz-zazioni e le associazioni di opposizione al fascismo vennero infatti sciolte, con pene severissime – dai tre a dieci anni di carcere – per chi tentasse di ricostruirle; vennero soppresse tutte le libertà e ogni libero canale di informazione; venne

15 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Il fascismo e le sue guerre, Milano, Feltrinelli, 20029, p. 78.

16 Enzo Collotti, L’antifascismo in Italia e in Europa 1922-1939, Torino, Loescher, 1978, p. 16.

17 Passato e avvenire della Resistenza, discorso tenuto da Piero Calamandrei il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano.

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istituito il confino di polizia per chi avesse anche solo manifestato il proposito di commettere atti miranti a sovvertire gli ordinamenti politici e sociali dello Stato, vennero annullati i passaporti e ordinato alle guardie di confine di sparare contro chi avesse tentato di passare clandestinamente la frontiera, ancora, si stabilì la confisca dei beni per i fuoriusciti che dall’estero facevano propaganda antifascista. Venne istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, contro le cui sentenze non si poteva fare appello, e si istituì, nel 1927, la polizia politica, l’Ovra.

Gli antifascisti italiani che riuscirono a scappare all’estero formarono una co-munità forzatamente cosmopolita, strappata agli affetti, in cui emergevano le storie di giovani donne e giovani uomini passati alla lotta all’inizio della loro età adulta, sacrificando la costruzione del proprio futuro individuale e famigliare: Nello Rosselli, ad esempio, chiedeva nelle lettere scritte dal confino a Ustica e poi a Ponza, notizie del figlio che stava per nascere e degli amici dispersi18, dall’estero si cercavano insistentemente le notizie di chi, come Pertini e Gramsci, consumava in carcere e nella solitudine il pieno della propria vita. Nella prima-vera del 1933 “La Libertà”, organo della Concentrazione antifascista di Parigi, pubblicò in più numeri stralci delle lettere che Pertini scrisse alla madre dal car-cere, commentando: «Le sue lettere sono una sublime vendetta. Quando mai si vide un recluso fare l’elogio della solitudine? Carlyle ha scritto che solo i grandi ingrandiscono nella solitudine, Alessandro Pertini è della loro famiglia. Pertini non tornò già in Italia cedendo alla nostalgia della patria e della famiglia, vi andò per nostalgia della battaglia […]. Non si chiede pietà per Pertini: nel nome di Pertini si dà l’assalto ad una Bastiglia»19.

Una comunità costretta a riconoscersi anche nel lutto. Fu Carlo Rosselli, fra-tello di Nello, il 30 aprile del 1937 a raccontare da Parigi sulle pagine di “Giu-stizia e Libertà” l’appena avvenuta morte di Antonio Gramsci dopo anni di re-clusione, vedendovi il più grave atto del fascismo dopo l’assassinio Matteotti, sentenziando che «un regime che assassina un Gramsci ha la vita segnata». Ep-pure il regime fascista aveva ancora forza e contatti internazionali che gli con-sentirono appena 40 giorni dopo di allungare le sue mani armate fino in Francia per commissionare l’assassinio dei due fratelli Rosselli, uccisi dai fascisti francesi della milizia Cagoule20.

L’arrivo a Parigi di Carlo Rosselli e la nascita nel 1929 del movimento di Giu-

18 L’Italia democratica era viva, in “Lettera ai compagni”, mensile della Fiap, anno IX, n. 11, novem-bre 1977, pp. 1-3.

19 Michele Pagano, Lettere alla madre. Sandro Pertini al confino, in “Lettera ai compagni”, anno III, n. 7-8, luglio-agosto 1971, pp. 4-8.

20 Il sacrificio di Gramsci nelle pagine di GL, in “Lettera ai compagni”, anno IX, n. 7-8, luglio-agosto 1977, p. 3.

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stizia e Libertà (GL), aveva segnato un salto di qualità poiché Rosselli chiariva la necessità di mantenere più stretto il legame con l’Italia, lavorando per innescarvi una “rivoluzione antifascista”, sebbene le occasioni di espressione del dissenso fossero ormai ridotte al minimo. In patria era rimasto il Partito comunista d’Italia con il suo Centro interno clandestino diretto da Camilla Ravera, prima a Genova poi a Lugano, in raccordo con il Centro estero, con funzioni operative come la diffusione della stampa clandestina e con una base nelle fabbriche e nei luoghi lavoro. Si trattava però di una struttura esile e continuamente sconvolta dagli arresti e dalla repressione fascista, come anche i piccoli nuclei di GL, che scel-sero la strada delle azioni dimostrative, rapide e il più possibile clamorose per rompere il muro del silenzio fascista. Entrambe queste forze, cui si aggiunse dal 1934 il centro interno socialista, pur nella loro diversità, ebbero in comune la preoccupazione di stimolare e riorganizzare l’antifascismo in Italia, sopravvissu-to carsico nelle fabbriche, dove il movente economico sostenne il giudizio politi-co, nelle organizzazioni cattoliche nonostante la posizione della Chiesa sempre più di appoggio al regime, nelle famiglie e nelle scuole.

L’antifascismo passivo, conservato nella propria coscienza e pur non espresso pubblicamente, servì quindi da sostegno per un nuovo antifascismo, destinato a rafforzarsi col passare degli anni, che affiorò spontaneamente soprattutto tra i giovani, nonostante la rigida gabbia della dottrina fascista: «la società fascista non era riuscita mai a dare ai giovani la sensazione di un reale movimento, di una possibile avventura... Il fascismo era eminentemente ordine e gerarchia, cioè stasi, inerzia, noia, era il foglio d’ordini che sostituiva l’iniziativa, la ripetizione al posto della fantasia»21.

Il ribellismo e l’impazienza giovanile verso l’autorità costituita generarono uno stato d’animo di non accettazione passiva dell’esistente potenzialmente pericolo-so per il regime. Da un generico atteggiamento di contestazione si passò, infatti, alla formazione di sacche critiche nelle file delle organizzazioni giovanili che la dittatura, alla fine degli anni Trenta, riuscì sempre con maggiori difficoltà a riassor-bire: «Nell’ambiente studentesco esiste tra i giovani scetticismo e cinismo, critica demolitrice dei valori morali e sociali e una forma spiccata di avversione al Fasci-smo […] assolutamente inesplicabile in giovani allevati in pieno Regime fascista in un’atmosfera che dovrebbe essere permeata da idee e da principi ben diversi»22.

La ripresa antifascista in Italia dagli anni 1937-1939 si dovette proprio in larga misura ai giovani: una parte di loro non aveva mai svolto attività nelle organizza-

21 Giovanni De Luna, Così la strada della libertà, in “Lettera ai compagni”, anno XXI, n. 6, giugno 1989, pp. 6-7.

22 Colarizi riporta ad esempio su questo tema una relazione fiduciaria inviata al Partito nazionale fascista nel 1937 (Colarizi, L’opinione pubblica degli italiani sotto il regime, cit., p. 287).

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zioni fasciste e venne spinta all’opposizione attiva sia dall’esempio dei genitori, di parenti o conoscenti antifascisti, sia per una spontanea ripugnanza verso il conformismo burocratico e ritualistico del regime. Altri giovani arrivarono inve-ce all’antifascismo dopo aver militato nelle organizzazioni studentesche o sin-dacali del regime o dopo aver partecipato ai Littoriali della Cultura, arrivando alla svolta in momenti e forme diverse ma comunque interessanti da indagare e da raccontare, soprattutto nella dimensione biografica individuale, poiché «il travaso di forze dal fascismo all’antifascismo» fu fondamentale per conferire alla Resistenza quella dimensione di massa su cui si basò poi la condivisione di valori e ideali che permise la costruzione del nuovo ordine dopo il crollo del regime23.

Alla rivolta dell’8 settembre 1943 le generazioni più giovani non giunsero im-preparate e la resistenza fu anche un’esperienza giovanile che si radicò nelle università e nelle scuole superiori. Ne fu un esempio tra tanti la storia di Orlando Orlandi che compì 18 anni nel carcere romano di via Tasso, scrivendo lettere strazianti nelle quali immaginava una vita che non avrebbe mai avuto con la sua Marcella. Come lui Marisa Musu che, condannata a morte a diciassette anni, rimpiangeva più di tutto di non aver «conosciuto l’amore nella sua pienezza»24.

In queste storie emerge anche il ruolo degli insegnanti che nel corso del ven-tennio riuscirono a tener viva la critica, esponendosi a gravi rischi e conferman-dosi per i ragazzi come «maestri di vita morale». La scuola fu assieme il luogo della propaganda di regime e lo spazio in cui i fermenti antifascisti crebbero e si svilupparono tra i giovani, mostrando il fallimento del progetto pedagogico fascista. Nonostante l’adesione dell’apparato burocratico della scuola, continuò a sopravvivere un’opposizione latente ripercorribile in molte storie individuali: Cesira Fiori, insegnante elementare, fu allontanata dalla scuola «per incompa-tibilità politica»; il professore di liceo Attilio Nulli, venne licenziato nel 1926 dal preside per essersi rifiutato di fare «il saluto romano»; il professore cattolico Gui-do Gonnella, fu costretto alle dimissioni e arrestato nel 1939 per opposizione al fascismo.

Questi fermenti trovarono un punto di coagulo nell’Associazione italiana de-gli insegnanti (Aidi), nata ufficialmente il 24 novembre 1943, sotto l’occupazio-ne nazista, in collegamento con il Cln e attiva a Roma, Milano, Torino, Genova, Padova. Il 21 gennaio 1944 l’Aidi lanciò un appello ai docenti invitandoli alla lotta contro i tedeschi ed i fascisti, con lo scopo primario di boicottare l’opera di reclutamento che i fascisti avevano iniziato nelle scuole superiori e nelle univer-

23 Candeloro, Storia dell’Italia moderna, cit., pp. 470-471.

24 La storia dell’antifascismo studentesco romano è raccontata in un volume prodotto in proprio da Franca e Giorgio Caputo, La speranza ardente. Storia e memoria del movimento studentesco antifascista romano, Roma 1998.

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sità per convincere i ragazzi ad arruolarsi nella Guardia nazionale repubblicana. L’Aidi non si limitò inoltre a indicare obiettivi immediati di lotta e forme di par-tecipazione, affermando nel suo manifesto programmatico, «il principio dell’au-tonomia della scuola, in contrasto con l’autoritarismo burocratico che per tanti anni ha gravato sulla scuola italiana»25.

Alla mobilitazione degli insegnanti corrispose quella degli studenti. Signifi-cativa fu l’esperienza dell’Arsi, l’Associazione Rivoluzionaria Studentesca Italia-na, una delle prime organizzazioni della resistenza, nata subito dopo l’8 settem-bre a Roma come rete tra i ragazzi del Liceo Quinto Orazio Flacco e gli studenti universitari. L’Arsi, promossa da un gruppo di giovani tra cui Ferdinando Agnini e Orlando Orlandi (di cui si è già detto), entrambi poi catturati e uccisi alle Fosse Ardeatine, riuscì a intessere solide relazioni anche con diversi gruppi operai e si pose come elemento di mediazione e di raccordo tra gruppi antifascisti di diver-so orientamento26.

Anche nelle vite di questi ragazzi e ragazze, come in quelle dei loro insegnan-ti e dei loro famigliari, risiede quella potenzialità di rispecchiamento utile a com-prendere scelte e idee altrimenti oggi troppo lontane, eppure indispensabili per esercitare quella capacità critica sull’oggi che ogni percorso didattico dovrebbe porsi l’obbiettivo di stimolare.

25 Giorgio Giannini, Studenti e insegnanti nella Resistenza romana, in “Lettera ai compagni”, anno LXII, n. 2, marzo-aprile 2010, pp. 20-23.

26 Altri studenti uccisi alle Ardeatine furono Ferruccio Caputo, Gastone De Nicolò, Michele Di Ve-roli, Unico Guidoni, Armando Ottaviano, Renzo Pensuti, Bruno Rodella, Felice Salemme. Cfr. Edgar-da Ferri, Uno dei tanti. Storia di Orlando Orlandi Posti, ucciso alle Fosse Ardeatine. Una storia mai raccontata, Milano, Mondadori, 2009.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 281-296

Benito Mussolini fu uno dei politici più consapevoli della capacità che i discorsi pubblici hanno di suscitare emozioni e reazioni, razionali e irrazionali. Uno degli elementi costanti del suo linguaggio è l’uso di strategie retoriche volte a instilla-re e rafforzare nel pubblico due concetti fondamentali: il pubblico deve sentirsi parte di una massa e, come diretta conseguenza di ciò, deve essere capace di percepire la propria posizione e il proprio ruolo nella storia. All’inizio degli anni Trenta, in un’intervista con Emil Ludwig, Mussolini parlò dell’«impressione misti-ca» della parola «rivoluzione», che «costituisce un’eccezione nel tempo e desta nell’uomo comune l’impressione di prender parte a un movimento eccezionale»1. «La potenza della parola», aggiunse, «ha un valore inestimabile per chi governa. Occorre solo variare continuamente. Alla massa bisogna parlare in tono imperio-so, ragionevole di fronte a un’assemblea, in modo familiare a un piccolo gruppo. È un errore di molti uomini politici quello di non mutare mai tono»2. E, ancora, confidò a Ludwig: «Solo la fede smuove le montagne., non la ragione. Questa è uno strumento, ma non può essere mai la forza motrice della massa. Oggi meno di prima. Oggi la gente ha meno tempo di pensare. La disposizione dell’uomo moderno a credere è incredibile»3.

Sulla base dell’analisi che Gustave Le Bon aveva fatto del potere “magico” che le parole e le “formulae” hanno sulla folla – un potere spesso indirettamente proporzionale alla veridicità o alla logicità dei discorsi stessi –, la fraseologia di

1 Emil Ludwig, Colloqui con Mussolini (1932), Milano, Mondadori, 1965, p. 116.2 Ivi, p. 188.3 Ivi, p. 134.

Parole (Iscrizioni)MARIA ELENA VERSARI

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Mussolini si distinse come un perfetto esercizio della retorica dell’“inculcatio”4. Ma anche se le sue parole furono originariamente create per essere enunciate pubblicamente, divennero ben presto una presenza materiale autonoma nella vita degli italiani.

Già verso la fine degli anni Venti, ma soprattutto negli anni Trenta e Qua-ranta, si ebbe un’enorme diffusione di placchette metalliche, lapidi e iscrizioni che ripetevano slogan e citazioni tratti dai discorsi del Duce. Lungi dall’essere una caratteristica specifica del fascismo o del linguaggio totalitario tout-court, la feticizzazione delle parole di Mussolini e la loro trasformazione in elementi decorativi e persino oggetti di consumo ricalca la tradizione di epigrafia patriot-tica che aveva definito l’identità dell’Italia all’indomani del Risorgimento. Que-sto sovrapporsi di modelli ideologici e storici non fu un caso fortuito. Si trattò di una strategia attuata consapevolmente, legata alla volontà del regime di stori-cizzare precocemente le proprie imprese. Come ha sottolineato Claudio Fogu, già nei primi anni del fascismo, documenti relativi alla Marcia su Roma venivano accuratamente selezionati ed esposti in occasione di eventi ufficiali, seguendo l’esempio delle acquisizione da parte di musei e collezioni nazionali di materiali relativi alla Guerra di Indipendenza e alla Prima guerra mondiale5.

Nel 1932, per il decimo anniversario del suo arrivo al potere, il regime com-memorò se stesso attraverso una enorme esposizione dedicata alla Marcia su Roma. Il Palazzo delle Esposizioni a Roma venne suddiviso in diverse stanze, ognuna delle quali dedicata a uno specifico momento storico: dall’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, alla presa del potere da parte del fascismo nell’ot-tobre del 1922. Si trattò di un’auto-celebrazione del fascismo non solo come momento capitale del passato recente dell’Italia ma anche come chiave con-cettuale per reinterpretare la storia nella nazione. Il fascismo ne emerse come il momento iniziale di una nuova era. La grandiosa struttura scenografica della mostra derivava dalla volontà di trasmettere nella maniera più efficiente possi-bile il messaggio ideologico dell’iniziativa. Come indicato dalla guida ufficiale, il fine della mostra era di costruire un’«atmosfera», per veicolare una comprensio-ne intima del messaggio ideologico, basata sui sentimenti e non necessariamen-te sulla ragione. Un passaggio della guida riporta infatti: «Ed è perciò che questa Mostra non ha l’aspetto arido, neutro, estraneo che hanno di solito i musei. Essa invece si rivolge alla fantasia, eccita l’immaginazione, ricrea lo spirito, il visitato-

4 Sull’uso della tripla paratassi, come nel famoso slogan «Credere. Obbedire. Combattere», e di strutture binarie e ternarie nel linguaggio di Mussolini, cfr. Augusto Simonini, Il linguaggio di Mus-solini, Milano, Bompiani, 1978, p. 62.5 Claudio Fogu, Il duce taumaturgo: Modernist Rhetorics in Fascist Representations of History, in “Representations”, n. 57, Winter 1997, pp. 24-51.

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re ne resterà conquistato e preso fin dentro l’anima»6.In questo processo di spettacolarizzazione della politica, giocavano un ruo-

lo centrale numerose citazioni tratte dai discorsi di Mussolini. Ingigantite in di-mensioni monumentali, la parole si imponevano in un dialogo diretto e perso-nale con il visitatore: costituivano l’elemento di transizione visivo – ma anche concettuale – fra la immagini disposte sui muri e la documentazione in gran parte scritta (lettere, note autografe di reduci, ritagli di giornale) esposta nelle bacheche. La sala Q della mostra, ad esempio, progettata da Mario Sironi (ill. 1), accoglieva i visitatori con le parole, in caratteri giganteschi, pronunciate da Mussolini di fronte al re in occasione della Marcia su Roma: «Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto». Come ha suggerito Jeffrey Schnapp nella sua analisi del contributo di Sironi alla mostra, «il ciclo storico dell’esposizione si chiude-va così con l’identificazione della vittoria dell’Italia in guerra con il momento del trionfo del Fascismo»7. Tuttavia, in maniera più specifica, potremmo dire che questa identificazione era resa visibile dalla gigantesca materializzazione della retorica mussoliniana. La frase doveva suggerire il legame tra i fascisti del 1922, che avevano marciato sulla capitale, e la generazione dei giovani soldati italiani della Prima Guerra Mondiale, che avevano cambiato il fato del conflitto attra-verso un atto di impetuoso eroismo8. In maniera più sottile, alludeva a un’altra famosa frase pronunciata da un capo di uomini davanti ad un re d’Italia. Con il suo famoso telegramma a Vittorio Emanuele II, «Obbedisco», Giuseppe Garibaldi si era sottomesso all’autorità del re e aveva accettato seppur con riluttanza di sospendere l’assalto contro gli Austriaci fino alle Alpi. Per molti italiani, questo evento indicava la vittoria della cauta diplomazia della famiglia Savoia sui diritti della nazione e aveva nutrito parte della propaganda irredentista della Prima guerra mondiale, vista come la conclusione del tentativo risorgimentale di libe-rare Trento e Trieste dall’occupazione austriaca.

Gli studiosi hanno nel frattempo sollevato diversi dubbi sul fatto che Musso-lini abbia veramente pronunciato quelle parole9. Già Margherita Sarfatti nella sua biografia del dittatore rigettò l’episodio, dicendo: «Altisonanti parole furono

6 Dino Alfieri e Luigi Freddi, Mostra della rivoluzione fascista. Guida storica, Bergamo, Istituto ita-liano d’Arti grafiche, 1933, p. 9.7 Jeffrey T. Schnapp, Flash Memories (Sironi on Exhibit), in Claudia Lazzaro, Roger J. Crum (a cura di), Donatello among the Blackshirts. History and Modernity in the Visual Culture of Fascist Italy, Ithaca-London, Cornell University Press, 2005, pp. 223-2408 Secondo una cronaca contemporanea, la frase completa fu: «Chiedo perdono a Vostra Maestà di presentarmi ancora in camicia nera, reduce dalla battaglia, fortunatamente incruenta che si è do-vuta impegnare. Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto riconsacrata dalla nuova vittoria, e sono il fedele servitore di Vostra Maestà». Si veda l’articolo non firmato Il Trionfo del Fascismo, in “Il Carroccio (The Italian Review)”, n. 11, Novembre 1922, pp. 487-501: 491.9 Luisa Passerini, Mussolini immaginario, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 85-101.

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poste in bocca al Presidente, quando si recò dal Sovrano immediatamente allo scendere dal treno [...] Simili teatralità di dubbio gusto non si confanno al suo sti-le severo. Urgevano i fatti»10. Secondo la vedova di Mussolini, Rachele Guidi: «Lui stesso l’ammetteva. È venuta fuori, gli era piaciuta e lasciava correre»11. Il Duce, in realtà, più che «lasciar correre», era stato di capace di sfruttare la frase al me-glio. A meno di un anno di distanza dalla Marcia, in una commemorazione della battaglia del Piave, disse che il suo governo era «il governo di Vittorio Veneto»12. Nel 1932, rivolgendosi al re all’inaugurazione del monumento a Anita Garibaldi sul Gianicolo, ritornò sulla questione e rese ancor più esplicita l’associazione dichiarando: «Gli italiani del XX secolo hanno ripreso tra il ’14 ed il ’18, sotto il comando Vostro, o sire, la marcia che Garibaldi nel 1866 interruppe a Bezzecca, col suo laconico e drammatico «Obbedisco» e l’hanno continuata sino al Bren-nero, sino a Trieste, a Fiume, a Zara, sul culmine del Nevoso; sull’altra sponda dell’Adriatico»13. Per questa ragione, la maggioranza degli italiani che visitavano la Mostra della Rivoluzione fascista quell’anno sarebbero probabilmente stati d’accordo con un altro dei primi biografi di Mussolini, Carlo Delcroix, sul fatto che la frase, «anche se mai pronunciata, rimane vera»14.

Nella mostra del 1932, le citazioni di Mussolini facevano parte dello stesso ambito concettuale dei fatti storici, come tutti gli altri documenti incorniciati sui muri ed esposti nelle vetrinette. In termini più espliciti, queste parole funziona-vano come una ricapitolazione coesa, che rende comprensibili le prove docu-mentarie esposte nella sala (oggetti, pagine di giornale, lettere, telegrammi). Ma l’uso di citazione per incapsulare una moltitudine di prove era sostanzialmente un espediente fittizio, nel quale la dimensione storica e quella storiografica ve-nivano a sovrapporsi15. Allo stesso tempo le parole di Mussolini, «laconiche e drammatiche» come il telegramma di Garibaldi, venivano percepite come piene di significato e “vere” non semplicemente per via dell’impressionante scenogra-fia che le inquadrava visivamente, ma soprattutto perchè esse erano già retori-camente sotrutturate in modo tale da partecipare al discorso sulla storia della

10 Margherita Sarfatti, Dux. Con 32 illustrazioni fuori testo e 5 autografi, Milano, Mondadori, 1926, p. 282. 11 Raffaello Uboldi, La Presa del Potere di Benito Mussolini, Milano, Mondadori, 2009, p. 271.12 Benito Mussolini, The Victory of the Piave was the deciding factor of the War (1923), in Barone Bernardo Quaranta di San Severino (a cura di), Mussolini as revealed in his political speeches (No-vember 1914-August 1923), Londra e Toronto, Dent & Sons, 1923, p. 333.13 Benito Mussolini, Epopea Garibaldina, in Edoardo and Duilio Susmel (a cura di), Opera Omnia di Benito Mussolini, vol. 25, Firenze, La Fenice, 1958, p. 109.14 Passerini, Mussolini immaginario, cit., p. 85-101.15 Si veda anche Fogu, The Historic Imaginary. Politics of History in Fascist Italy, University of Toron-to Press, Toronto, Buffalo, London, 2003.

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nazione che datava da prima del fascismo.Se ci rivolgiamo a quello che fu forse più di ogni altri il “maestro di retorica”

di Mussolini, Gustave Le Bon, leggiamo: «L’affermazione pura e semplice, priva di ogni ragionamento e non sostenuta da alcuna prova, è uno dei mezzi più sicuri per far penetrare un’idea nello spirito delle folle [...] Bisogna presentare le cose in blocco, e mai indicarne la genesi»16. Per Le Bon, idee, immagini e asserzioni retoriche formano una struttura logica compatta. I simboli complessi, capaci di offrire una pluralità di interpretazioni e di distrarre dal cuore del messaggio, devono essere evitati.

È interessante notare che lo stesso Mussolini fece tesoro di questa sostan-ziale avversione per i simboli complessi. Più di una volta intervenne per sosti-tuire immagini con segni stilizzati e, spesso, per sostituire sculture con scritte monumentali. In occasione della mostra del decennale, ad esempio, il progetto originario del sacrario dedicato ai caduti della rivoluzione fascista prevedeva un gruppo statuario imponente: una figura femminile nuda che sosteneva un fascio littorio, con un martire fascista ai suoi piedi. Mussolini in persona ordinò che fosse sostituito con una semplice “croce di guerra”, un unico, gigantesco oggetto che si staglia nell’austera stanza semi-circolare (ill. 2)17. Sono tuttavia le parole a vivificare questo spartano sacrario. La scritta «Per la Patria immortale!» sul braccio orizzontale della croce trova un eco in una sola parola ripetuta ritmica-mente innumerevoli volte sui muri: «Presente!». L’elegante impianto visivo della stanza si nutre del contrasto tra la croce al centro e le linee uniformi di lettere luminose, riunite in sei bande parallele sul muro. Le parole qui suggeriscono un vero scambio verbale. I punti esclamativi indicano che queste non sono parole pronunciate ma urlate, come parte di un rituale fascista, quello della chiamata dei caduti. Quando i nomi dei morti sono chiamati ad uno ad uno, i commilitoni ripondono all’unisono al loro posto, perpetuando la loro presenza nei ranghi del corpo d’arma e della nazione18.

La Mostra della Rivoluzione si impose come un colossale esperimento nella psicologia delle masse. Un esperimento basato su di una originale e sconcertan-te combinazione di illustrazione documentaria e retorica visualizzata. I critici dell’epoca sottolinearono il doppio effetto che questa esperienza di shock visivo intendeva suscitare negli spettatori: il rafforzarsi del loro senso di appartenen-

16 Gustave le Bon, Psychologie des foules (1895), Paris, Édition Félix Alcan, 9e édition, 1905, pp. 76, 44 [http://classiques.uqac.ca/classiques/le_bon_gustave/psychologie_des_foules_Alcan/Psy-cho_des_foules_alcan.pdf].17 Paolo Nicoloso, Mussolini architetto, Torino, Einaudi, 2008, p. 134; Emilio Gentile, Il culto del littorio, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 200. Desidero ringraziare Paolo Nicoloso per l’aiuto che ha offerto alla mia ricerca.18 Per questo rituale, si veda Gentile, Il culto del littorio, pp. 53-54.

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za non solo alla comunità fascista ma anche a una continuità temporale della nazione, una base identitatria che connette passato e presente. Parlando della mostra, il giovanissimo Jacopo Comin, che sarebbe poi diventato un famoso cri-tico cinematografico, scrisse: «Più che il passato in sé, è lo spirito del passato che risplende attraverso questi oggetti». Per Comin, le cose non sono più estranee al visitatore, appartenenti alla storia, ma sono sue, parte di lui, non distaccate e messe in vetrina, ma «vive nel suo spirito» e pienamente accette in questo. «Niente di ciò che vede parla del passato, ma di un continuo presente [...] Qual-cosa di indefinibile, incomprensibile, ma reale, quasi concreto si sente in queste cose: un senso di comunione con altri uomini, con innumerevoli altri uomini che ci hanno preceduto ma che senti sono ancora qui, ti accompagnano. Tale è la sensazione della loro realtà».19

Non c’è da stupirsi dunque se l’esperimento retorico di massa che fu la Mostra della Rivoluzione fascista diede vita a una innumerevole produzione di archi-tetture effimere che, negli anni Trenta, facevano uso di citazioni di Mussolini, o più semplicemente del monogramma della sua iniziale, “M”, condensando il suo impatto retorico sulle masse. Ma la parola scritta iniziò anche a contaminare architetture costruite per rimanere.

Architetti che proponevano stili diversi si appropriarono dei discorsi di Mus-solini, trasformandoli in una prova tangibile della corrispondenza tra le loro rea-lizzazioni architettoniche e l’identità del Regime. Già nel 1931, per esempio, nel mezzo della battaglia per l’architettura modernista in Italia, Mussolini, visitando la mostra di architettura razionale alla Galleria di Roma, si imbattè per prima cosa in una sua citazione, nitida sotto la luce di un proiettore: «Noi dobbiamo creare un nuovo patrimonio da porre accanto a quello antico, dobbiamo creare un’arte nuova, un’arte dei nostri tempi, un’arte fascista»20. E commentando al ri-guardo, il critico razionalista Giuseppe Pagano scrisse: «L’architettura diventa pa-rola comprensibile, arte sociale, documento di civiltà e di vita: chiara, rettilinea, aggressiva, contemporanea, e perciò fascista»21. Alcuni anni più tardi, Giuseppe Terragni riprese questa corrispondenza metaforica tra linguaggio fascista e archi-tettura. Nel saggio con cui presentò la Casa del Fascio che costruì a Como, scrisse: «“Il Fascismo è una casa di vetro”, dichiara il Duce; e il senso traslato della frase indica e traccia le doti di organicità, chiarezza e onestà della costruzione»22.

19 Jacopo Comin, Atmosfere, Milano, Consalvo Editore, 1936, pp. 82-85.20 Giuseppe Pagano, Mussolini e l’architettura (1931), in Giorgio Ciucci, Francesco Dal Co (a cura di), Architettura italiana del ‘900. Atlante, Milano, Electa, 1990, pp. 112.21 Ivi, pp. 112-113.22 Giuseppe Terragni, La costruzione della Casa del Fascio di Como (1936), in Architettura italiana del ‘900. Atlante, cit., p. 135.

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Se è vero che la retorica mussoliniana venne appropriata dagli architetti mo-derni in Italia, è altrettanto vero che questa appropriazione diede vita a singolari interrelazioni formali tra parola e architettura. Negli anni Trenta, diversi edifici pubblici svilupparano tipologie strutturali particolarmente adatte all’inserimen-to di frasi e citazioni. Si trattava a volte di una parete lasciata deliberatamente vuota da finestre e decorazioni, più spesso di una torre, detta “torre littoria”. Ri-proponendo l’iconologia tradizionale delle torri civiche, a volte munite di aren-gario, disseminate nei centri storici italiani, queste nuove strutture funzionava-no come elementi monumentali uniti al corpo di edifici concepiti per scopi più pragmatici. Ma la pressione simbolica e psicologica che esercitavano era simile a quella del macchinario scenografico della Mostra della Rivoluzione.

Nell’inaugurare la città rurale di Littoria nel 1932, Mussolini aveva esplici-tamente fatto riferimento a questa funzione quando aveva detto: «Io dico ai contadini e ai rurali, che sono particolarmente vicini al mio spirito, che essi [...] debbono guardare a questa torre che domina la pianura e che è simbolo della potenza fascista. Convergente verso di essa troveranno, quando occorra, aiuto e giustizia!»23. A Littoria, alcuni anni dopo, questa parte del testo di Mussolini venne aggiunto sotto forma di lapide commemorativa alla torre stessa24. Così facendo le parole del Duce divennero eternamente presenti e l’edificio assunse una funzione dialogica continua con gli abitanti della zona.

La creazione di iscrizioni monumentali, leggibili a distanza e armonizzate con la struttura architettonica, divenne uno degli elementi caratteristici dell’archi-tettura del periodo, trasformando le “torri littorie” in vere e proprie “torri par-lanti”. Nei progetti architettonici degli anni Trenta si notano spesso sequenze di lettere inserite dall’architetto come parte integrante dell’edificio da costruire. Solo più tardi un comitato nazionale o locale avrebbe scelto un testo preciso tratto dai discorsi del Duce, da inserire nella struttura architettonica. Questo pro-cesso in due parti chiarisce l’interrelazione tra forma e ideologia nell’architettu-ra fascista. Queste iscrizioni monumentali sono parte integrante della struttura architettonica. Le larghe lettere stilizzate non venivano scelte per armonizzarsi all’aspetto del loro supporto architettonico. Erano invece concepite come parte originale ed essenziale dell’armonia visiva dell’edificio.

La Romagna offre alcuni esempi importanti di queste “torri parlanti” e della

23 Benito Mussolini, La nascita di Littoria, in Opera Omnia di Benito Mussolini, vol. 25, cit, p. 185. Sul modello architettonico, si veda anche Flavio Mangione e Andrea Soffitta, L’architettura delle case del fascio nella regione Lazio, Firenze, Alinea, 2006.24 L’epigrafe venne rimossa dopo la guerra e reinstallata in anni recenti. Tuttavia secodo Clemente Ciammaruconi, il testo originale differiva in parte da quello di Mussolini, si veda Clemente Ciam-maruconi, L’ambigua defascistizzazione dei muri pontini tra usi politici ed esigenze identitarie, in Annali del Lazio Meridionale, n. 7, 1997, pp. 25-34 e Antonio Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 31-32.

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loro problematica sopravvivenza al fascismo. Nella città di Faenza, l’ex palaz-zo delle poste include una citazione di Alfredo Oriani (ill. 3). L’ultimo libro di questo autore faentino, La rivolta ideale (1908), ebbe un’influenza notevole su Mussolini25. Se analizziamo il primo progetto del palazzo, concepito dall’archi-tetto Cesare Bazzani nel 1933, ci accorgiamo che in origine il balcone della torre littoria doveva essere più largo, senza indicazione dell’iscrizione monumentale che vi si trova attualmente26. Alcuni documenti inediti tratti dalla corrisponden-za di Mussolini e conservati all’Archivio centrale dello Stato di Roma rivelano, sorprendentemente, che fu il Duce in persona a decidere di dedicare la torre dell’edificio allo scrittore27. Fino ad oggi, gli studiosi non erano a conoscenza del coinvolgimento di Mussolini nel progetto. Nel 1933, in un incontro con Bazzani, Mussolini designò la torre come “Torre Oriani”. Da quel momento in poi gli am-ministratori delegati alla sua costruzione iniziarono a utilizzare anche pubblica-mente l’epiteto. L’iscrizione monumentale, tratta da La rivolta ideale copre quasi la metà dell’altezza della torre, per un totale di 18 linee di testo, ed è facilmente leggibile da una certa distanza.

Si tratta di una citazione apposta su di un edificio costruito dal regime, ma non esplicitamente concepito come sede ufficiale di questo. Il palazzo doveva ospitare uffici governativi e, in particolare, le poste e le sezioni locali dei mini-steri della Giustizia e delle Finanze. Perché dunque, la decisione di dedicarlo a Oriani e di inserire sui suoi muri una citazione così magniloquente?

Il palazzo è situato nel cuore della città, all’angolo nordoccidentale della piazza, uno dei gioielli del Rinascimento in Italia. La vecchia torre municipale chiude la piazza sul lato opposto, all’angolo orientale. Il dialogo visivo tra le due torri, simili in colore e dimensioni, suggerisce una corrispondenza tra la storia della città e le sue glorie più recenti. Tra queste, sicuramente il nome di Oriani mantenne un valore centrale per Mussolini. Non è però la persona dello scritto-re, quanto soprattutto le sue parole ad essere oggetti di memorializzazione. Un altro episodio inedito emerso da ricerche d’archivio chiarisce che anche a Faen-za, come nel sacrario della Mostra della Rivoluzione, le parole erano valutate più delle opere d’arte. Nel 1938, verso la fine del completamento dell’edificio, la famiglia di Oriani chiese di sostituire una stele commemorativa inizialmente prevista con una statua dello scrittore. Il ministro dei lavori pubblici non appro-vò la sostituzione, sulla base del fatto che «una stela ha un carattere simbolico

25 Massimo Baioni, Il fascismo e Alfredo Oriani. Il mito del precursore, Ravenna, Longo, 1988.26 Archivio di Stato di Terni, Fondo Cesare Bazzani, unità archivistica 58, Palazzo Uffici, Faenza, vista prospettica, copia fotografica, documento n. 1832.27 Archivio centrale dello Stato (Acs), Segreteria particolare del Duce (Spd), Corrispondenza ordi-naria (Co), fasc. 170.503, lettera del Prefetto di Ravenna Guerresi al Ministro dell’Interno, Ravenna, 10 ottobre 1935.

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maggiore di una statua». Interpellato sulla questione, Mussolini stesso decise contro la sostituzione28.

È anche molto probabile che fu Mussolini, curatore dell’edizione nazionale dell’opera di Oriani, a scegliere la citazione da La rivolta ideale, ancor’oggi leg-gibile sulla torre. Se ciò è vero, il Duce scelse tre brevi passaggi in cui Oriani si rivolge direttamente ai suoi lettori:

...Salire a tutte le bellezze, credere a tutte le virtù, consentire tutti i sacrifici, offrendosi intero alla vita e accettando la morte come un premio: ecco la rivolta ideale......Accendete dunque tutte le fiaccole, perché la marcia è già cominciata nella notte, e non temete del fumo: l’alba è vicina......Il suo rossore somiglierà forse a quello del sangue, ma è sorriso di porpora, che bale-na dal manto del sole...

Lo stile retorico di Oriani coincide con i modelli retorico-pedagogici del fasci-smo. Nella citazione, tre verbi all’infinito (salire, credere, consentire), connessi direttamente a tre elementi di valore (bellezze, virtù, sacrifici) lasciano spazio a due forme imperative (accendete, non temete). L’iscrizione offre un eco del manierismo retorico di Mussolini. Chiama i lettori, esplicitamente identificati nel plurale, come parte di una massa, ad accettare sacrifici e prendere parte ad una transizione epocale verso una nuova alba morale.

Se gli storici locali non mancano di riconoscere il messianismo di Oriani e l’uso che ne fece il regime, i residenti più anziani sembrano invece estraniati dal linguaggio aulico dell’iscrizione. Alcuni lo leggono persino come un messaggio d’amore cifrato destinato da Mussolini a sua moglie. In ogni caso, il messaggio politico dell’iscrizione riflette sostanzialmente il patriottismo idealista di un in-tellettuale post-risorgimentale e quasi nessun problema fu sollevato quando nel 2002 l’iscrizione venne restaurata, insieme all’edificio che la contiene.

Meno discreto è il messaggio della “torre parlante” nella vicina Forlì. La tro-viamo all’interno del complesso architettonico disegnato negli anni Trenta da Cesare Valle per la Casa del Balilla (ill. 4). Quella forlivese è una delle strutture più rappresentative di questa tipologia architettonica concepita per servire da centro sportivo, politico e ricreativo dell’Onb. Situata all’entrata di un campo di atletica di 20.000 metri quadrati, la struttura ospitava un cinema da 800 posti, una sala congressi, una mensa, un ostello, una piscina, una biblioteca, una pa-lestra e uffici. La torre, alta 30 metri, conteneva una cappella votiva dedicata alla memoria del fratello di Mussolini. Su due delle facciate della torre, origina-

28 Acs, Spd, Co, 170.503, lettera del Ministro dei lavori pubblici a Osvaldo Sebastiani, segretario privato del Duce, 17 dicembre 1938 e lettera di Osvaldo Sebastiani al Gabinetto del Ministero dei Lavori pubblici, 22 dicembre 1938.

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riamente dipinte di rosso pompeiano, il cosiddetto “giuramento del balilla” era riprodotto con lettere in marmo o similmarmo bianco, ora mancanti. L’iscrizione riporta:

Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di seguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione Fascista.

È interessante notare che il progetto originale di Valle prevedeva una sola iscri-zione sul retro della torre, rivolta verso il campo di atletica. Doveva poter essere vista dai bambini e dagli adolescenti che avevano accesso alla casa del balilla. Sul lato opposto, che da’ sul viale che conduce alla stazione, l’architetto aveva ipotizzato l’inserzione di tre fasci littori. All’epoca del completamento dell’edifi-cio nel 1935, il giuramento risultò però inscritto su entrambi i lati. Anche se non siamo a conoscenza delle negoziazioni che portarono a questo cambiamento, la decisione rivela, ancora una volta, la preferenza per il potere della parola su quella dei simboli. Il testo si rivolgeva non solo ai giovani che usavano la struttu-ra, ma all’intera popolazione che vi passava di fronte. Ed è esattamente questa innegabile volontà di imporre il proprio messaggio alle masse che ha determina-to il destino problematico dell’iscrizione.

A differenza di quanto è accaduto a Faenza, la casa del balilla di Forlì è stata vittima di un prolungato periodo di esibita decadenza. Per sessant’anni non ci sono stati seri tentativi di conservare la struttura, in parte per via della incapaci-tà da parte dello Stato e degli enti locali di chiarire la proprietà dell’immobile. In realtà, le questioni burocratiche e finanziarie non hanno nascosto il chiaro desi-derio di leggere il decadere della struttura, e in particolar modo dell’iscrizione, in chiave di iconoclastia politica. Negli anni Novanta, ripetute proteste da parte di storici dell’architettura spinsero l’amministrazione locale ad approntare un progetto di restauro nel quale l’iscrizione veniva del tutto cancellata. Soltanto quando la notizia di questa decisione raggiunse la stampa i politici locali inizia-rono a prendere posizione pubblicamente al riguardo. Nel dicembre 2000, venne aggiunta al decreto di autorizzazione del restauro una clausola specifica, volta a garantire la preservazione delle scritte che appaiono sulla facciata nello stato in cui sono, come memoria storica29. Lo storico Roberto Balzani chiarì le ragioni del-la decisione sostenendo: «Dobbiamo mantenere la leggibilità senza un restauro completo, per far capire alla gente che la scritta era lì. Dobbiamo preservare la memoria nella maniera corretta, ricordando che è inserita in un’opera d’arte di alta qualità»30.

29 Comune di Forlì, Consiglio comunale, Deliberazione n. 209 del 4 Dicembre 2000, art. 2 e 8.30 Balzani citato in Un giuramento che divide. Balzani e Servadei sulle scritte dell’ex Gil, in “La

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In altri termini, se la continuità del giuramento nella struttura formale del palazzo non manca di venire riconosciuta, è l’identità storica del monumento a venire estesa fino a inglobare la sua decadenza materiale. Questa, idealmente segno di una distanza meramente temporale, viene qui appropriata ed esibita come testimonianza della distanza politica che separa l’iscrizione dalla coscien-za civica dei suoi concittadini.

Un ultimo elemento sembra essere sfuggito agli studiosi e amministratori che si sono occupati della torre forlivese. Per quanto venga in genere chiamato “giuramento del balilla”, il giuramento riportato sulle due facciate della torre non era specificamente riservato alla gioventù. Era anche il giuramento di ogni membro del Partito fascista (ill. 5). Nel corso della storia del regime, il giuramen-to mutò diverse volte, seguendo i cambiamenti dello statuto del partito stesso. Nel 1921, un fascista doveva giurare di «consacrarmi tutto e per sempre al bene dell’Italia»; nel 1929, giurava di seguire gli ordini del Duce «senza discutere» e servire, col proprio sangue se necessario, la Rivoluzione fascista31. Infine, nel 1932, al giuramento venne aggiunta la formula introduttiva «Nel nome di Dio e dell’Italia», già in uso nel giuramento della Milizia volontaria per la sicurezza na-zionale32, portandolo al testo ancora visibile a Forlì33. L’evoluzione filologica del giuramento ha suscitato ben poco interesse tra gli storici. Alcuni ne fanno cenno, inquadrando il riferimento a Dio come un gesto di distensione dei rapporti con il Vaticano a seguito dei Patti Lateranensi34.

Ma per comprendere veramente il significato di questo testo è necessario os-servare un’ultima iscrizione, che apparentemente non ha nulla a che fare con Mussolini o il Regime. È infatti in una epigrafe contemporanea che troviamo la prova definitiva di come l’uso spettacolare delle parole da parte del fascismo si è sempre sostenuto su di una calibratissima organizzazione di legami retorici con la storia del paese.

Nel 2011, l’Italia ha celebrato il suo centocinquantesimo anniversario come nazione. Per l’occasione sono stati creati diversi nuovi monumenti. A Pisa, la fac-

Voce”, 27 aprile 2005. Ringrazio il Geometra Marino Mambelli del Comune di Forlì per l’aiuto che ha offerto alla mia ricerca.31 Approvazione dello Statuto del Partito Nazionale Fascista, Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 297, 21 dicembre 1929 (parte prima), p. 5676, art. 13. 32 Regio decreto 14 gennaio 1923, n. 31, col quale è istituita una milizia volontaria per la sicurezza nazionale, in Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 16, 20 gennaio 1923, p. 383 In part art 2: «La milizia per la sicurezza nazionale è al servizio di Dio e della Patria italiana, ed è a gli ordini del Capo del Governo».33 Approvazione dello Statuto del Partito Nazionale Fascista, in Gazzetta Ufficiale del Regno d’Ita-lia, n. 268, 21 novembre 1932 (parte prima), p. 5221, art. 14. 34 Gentile, Il culto del littorio, cit., p. 126.

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ciata della Domus Mazziniana, il centro dedicato allo studio del patriota italia-no, è stata rinnovata con una decorazione epigrafica monumentale. Il palazzo in cui Mazzini ha passato i suoi ultimi anni è ora ricoperto di un elegante traliccio di parole, che riproduce il giuramento della Giovine Italia. Mazzini lo scrisse nel 1831 col fine di «consacrarmi tutto e per sempre» al fine di trasformare l’Italia in una nazione (ill. 6)35. Le parole del giuramento mazziniano sono molto più leggi-bili delle lettere della torre del balilla. In alto sulla facciata della Domus, si legge bene l’incipit del voto patriottico: «In nome di Dio e dell’Italia». Nel 1831, questa formula era rivoluzionaria per il fatto stesso che l’Italia, come entità politica, non esisteva ancora. È dunque per via della sua risonanza storica, e non come una forma di concessione verso il Vaticano, che il fascismo se ne appropriò un secolo dopo.

Mentre l’iscrizione gigantesca sulla torre del balilla sopravvive a stento, semi-cancellata dalle memorie autorizzate alla visibilità nella Repubblica italiana, il giuramento che le servì da modello viene riappropriato ed esibito in maniera spettacolare per cementare il dialogo tra lo Stato e il suo popolo. Ma ciò è pos-sibile esattamente per via di un elemento ancora poco studiato. Lungi dall’im-piegare soltanto una retorica vacua e vanamente autocelebrativa, Mussolini, e il regime fascista con lui, attuò una sistematica campagna di appropriazione del passato retorico della nazione. E le strategie di inscenamento e rivelazione del fascismo a se stesso e alle masse possono essere comprese solo se vengono lette alla luce della storia di quelle parole che avevano già contribuito a fare dell’Ita-lia una nazione.

35 Giuseppe Mazzini, Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia (1831), in Scritti politici editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, vol. 1, Imola, Cooperativa Tipografico-Editrice Paolo Galeati, 1907, p. 56.

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Mario Sironi, Stanza Q della Mostra della Rivoluzione fascista, 1933, (fotografia tratta da Dino Alfieri, Luigi Freddi, Mostra della rivoluzione fascista. Guida storica, Bergamo, Istituto italiano d’Arti grafiche, 1933).

Adalberto Libera, Antonio Valente, Stanza U della Mostra della Rivolu-zione fascista (Il Sacrario dei Marti-ri), 1933, (fotografia tratta da Alfieri, Freddi, Mostra della rivoluzione fa-scista. Guida storica, cit.).

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Sopra, Cesare Bazzani, Palazzo degli uffici governativi, 1939-40, Faenza (fotografia dell’autrice).

A sinistra, Cesare Valle, Tor-re della Casa del Balilla (det-taglio), 1935, Forlì (fotografia dell’autrice).

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Sopra, scheda di iscrizione al Pnf riportante il giuramento richiesto ai membri del par-tito, anni Trenta, collezione privata (fotografia dell’autri-ce).

A sinistra, Facciata della Do-mus Mazziniana (stato attua-le), Pisa (fotografia dell’autri-ce).

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 297-306

Il tema dei precursori del fascismo è strettamente connesso con quello delle origini del fascismo, o meglio delle origini dell’ideologia fascista e, più in ge-nerale, della sua cultura. Non è questa la sede per ripercorrere il lungo dibatti-to storiografico, carico anche di implicazioni politiche e ideologiche, intorno a un simile argomento. Ovvero se il fascismo possedesse o meno una sua cultura, una sua dignità culturale in grado di caratterizzarlo come interlocutore, sia pure alquanto sui generis, rispetto alla variegata, riconosciuta cultura antifascista. Non si può tuttavia non ricordare che ci volle il volume, davvero pionieristico, di Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista1, esplicito e dichiarativo fin nel titolo, perché anche in ambito accademico (altri e assai meno rilevanti, ai fini di questa riflessione, i percorsi della politica militante) si cominciasse a parlare con maggiore disinvoltura, per così dire senza eccessivi “problemi di coscienza”, di ideologia e di cultura del fascismo.

Certo, il fascismo delle origini era un vero e proprio coacervo di posizioni, le più disparate e contraddittorie, che andavano dal clericalismo venato di nostal-gie temporaliste di un Egilberto Martire, al repubblicanesimo ferocemente anti-clericale e antireligioso di Filippo Tommaso Marinetti, passando per il lealismo sabaudo di Cesare Maria De Vecchi, il sindacalismo integrale di Edmondo Ros-soni, lo stirnerismo “novatorista” di Massimo Rocca (alias Libero Tancredi), e via discorrendo. Insomma, un mosaico policromo, una tavolozza coloratissima, per un movimento che, al tempo stesso, si proponeva e si autorappresentava come

1  Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-19125), Bari, Laterza, 1975; più volte ristam-pato. Sul tema, è poi sicuramente da vedere un altro classico: Pier Giorgio Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze, valori, Bologna, il Mulino, 2013 (prima edizione 1985).

PrecursoriALESSANDRO LUPARINI

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l’antipartito, come il superamento di tutte le dottrine precedenti in una nuova sintesi ideale e spirituale che fosse raffigurazione della “nuova Italia” generata dal sacrificio e dal sangue dei combattenti della Grande Guerra2.

Un movimento che però, proprio per questo, ossia proprio a motivo della sua eterogeneità, aveva bisogno d’individuare, di darsi dei punti di riferimento, dei punti cardinali entro i quali orientarsi, per provare a dare sistematicità a quel ca-leidoscopico complesso di credenze e di simboli. C’erano, è vero, i miti unificanti della guerra rigeneratrice e redentrice, della trincea, di Vittorio Veneto, della vittoria “mutilata” da vendicare. C’erano l’antigiolittismo (autentica stella polare del magmatico fronte irrazionalista formatosi nella campagna per l’intervento3), l’antibolscevismo, il “produttivismo” interclassista contrapposto all’egoismo di classe del proletariato e del capitalismo “parassitario”. C’era, dunque, un insieme generale di riferimenti politici immediati a fare da collante fra le diverse anime del giovane movimento mussoliniano. Ma era al passato che occorreva guardare per costruire una compiuta mitologia del fascismo. C’era bisogno di una pro-fezia di cui il fascismo fosse l’avveramento. C’era bisogno di profeti: Giuseppe Mazzini4, Francesco Crispi, Enrico Corradini5, in qualche modo (almeno sul piano delle ritualità e delle “parole d’ordine”) Gabriele D’Annunzio; ma soprattutto lui, Alfredo Oriani. Il precursore per antonomasia, il precursore con la p maiuscola. A tale proposito il riferimento critico-storiografico imprescindibile è l’opera tut-tora insuperata di Massimo Baioni6, alla quale rinvio per gli approfondimenti del

2  Una lettura che, peraltro, sarebbe stata codificata tardivamente, nella prima parte della voce Fa-scismo, firmata Mussolini ma in realtà, come ben noto, opera di Giovanni Gentile, apparsa in origine nel 1932 sull’Enciclopedia Treccani. 3  Per una efficace ricostruzione del milieu politico-culturale nel quale prese forma e si sviluppò la violenta, e trasversale, campagna antigiolittiana del 1914-’15 si veda Luigi Compagna, Italia 1915. In guerra contro Giolitti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015.4  Sulla controversa “appropriazione” del pensiero di Mazzini da parte del fascismo, si veda Simon Levis Sullam, L’apostolo a brandelli. L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2010. Più in generale, sulle diverse declinazioni della memoria risorgimentale in epoca fa-scista, si vedano le pagine di Massimo Baioni, Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista, Roma, Carocci, 2006; nonché Quale Risorgimento? Interpretazioni a confronto tra fascismo, Resistenza e nascita della Repubblica, a cura di Carmelo Calabrò e Mauro Lenci, Pisa, Ets, 2013, in particolare i saggi di Giovanni Belardelli (Il fascismo e Mazzini, pp. 33-40), Paolo Bu-chignani (Il mito del «Risorgimento tradito» nella cultura post-unitaria e novecentesca, pp. 41-61) e Mauro Lenci (La disputa sul Risorgimento. Dall’avvento del fascismo alla nascita della Repubblica, pp. 93-115). 5  «Corradini – avrebbe confessato Mussolini a un suo biografo –, che mi fu amico dal 1915 fino alla morte, era l’ideologo, il critico, alle cui parole io maggiormente offrivo l’attenzione. […] Il fascino che questo scrittore solitario ha esercitato su di me è della medesima natura di quello con cui Al-fredo Oriani ha influito sulla mia preparazione all’oratoria politica». In Yvonne De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di Francesco Perfetti, Bologna, il Mulino, 1990, p. 244. 6  Massimo Baioni, Il fascismo e Alfredo Oriani. Il mito del precursore, Ravenna, Longo Editore, 1988.

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caso. Mi limito qui ad alcune brevissime considerazioni di massima. Più che l’Oriani de La lotta politica in Italia7, con la sua visione nazionalpo-

polare della storia d’Italia, e in particolare della storia del Risorgimento8; è l’O-riani “visionario” de La rivolta ideale9 a ispirare Mussolini e, per suo tramite, il fascismo. Si tratta del testamento spirituale di Oriani, l’ultima sua opera data-ta 1908, un anno prima della morte; anche se composta (come tutte le altre, nell’“eremo” del Cardello a Casola Valsenio) nell’arco di soli quattro mesi fra il 16 maggio e il 21 settembre 1906. Un’opera difficile, potente, percorsa di fremi-ti quasi nietzschiani, che affascinò anche spiriti lontanissimi dalle astrazioni e dall’elitarismo antidemocratico del nazionalismo, come Antonio Gramsci10 e Pie-ro Gobetti11, i quali d’altronde non nascosero mai il loro debito di riconoscenza verso il “solitario del Cardello”.

Non vorrei circoscrivere il discorso alla figura di Mussolini (Oriani esercitò

7  Prima edizione, La lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale (476-1887), Torino- Roma, La Roux, 1892. 8  Una visione che Giovanni Gentile, nella sua prefazione all’edizione del 1925 della Lotta politica (uscita all’interno dell’Opera Omnia di Oriani voluta e promossa dal fascismo), così mirabilmente riassumeva: «Mazzini, Garibaldi hanno i piedi sulla terra ma con la testa toccano il cielo, avvolti in una nube di religiosa misteriosità come tutti gli esseri provvidenziali che, anche attraverso l’errore e le umane debolezze, adempiono infallibilmente una divina missione. Ed essi, con lo spirito del popolo che è rivoluzione e negazione dell’arbitrio antico dell’impero e del papato, essi redimono e inverano e fan trionfare e mettono nella memoria e nel cuore degl’italiani l’opera pur grande ma angustamente piemontese e monarchica di Vittorio Emanuele e di Cavour». Giovanni Gentile, Prefazione, in Alfredo Oriani, La lotta politica in Italia, Bologna, Cappelli, 1925, p. XI (prendo dalla quinta edizione, luglio 1941).9  Prima edizione, Rivolta ideale, Napoli, Ricciardi, 1908.10  Famoso il giudizio che ne dette Gramsci nei Quaderni: «A. Oriani. Occorre studiarlo come il rap-presentante più onesto e appassionato per la grandezza nazionale-popolare italiana fra gli intel-lettuali italiani della vecchia generazione. […] La Lotta politica sembra il manifesto per un grande movimento democratico nazionale popolare». Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Volume se-condo, Quaderni 1-11 (1930-1933), Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerrata-na, Torino, Einaudi, 2007, p. 1040.11  Così Piero Gobetti nella celebre postilla al libro primo de La Rivoluzione liberale, L’eredità del Risorgimento: «Un tentativo di storia del Risorgimento […] è tra le mie speranze. Professato tutto il mio debito all’Oriani […] devo pure avvertire l’insoddisfazione che lascia questa storia schematica, psicologicamente troppo poco realistica, soprattutto dove si vorrebbe avere una descrizione più drammatica del contrasto degli uomini, e un’intuizione dei fattori economici. Le nostre obiezioni all’Oriani insomma sono del tutto diverse da quelle mosse per solito da letterati o eruditi e non possiamo dimenticarci che tra i nostri padri egli è stato il solo a insegnarci l’idea della storia dimo-strando quanto sia educativa, per chi voglia capire la vita contemporanea, una visione precisa del Risorgimento». In Piero Gobetti, La Rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino, Einaudi, 1974. Per l’influenza dell’opera di Oriani sulla cultura italiana a lui contemporanea e im-mediatamente successiva, un riferimento fondamentale è il volume collettaneo Alfredo Oriani e la cultura del suo tempo, a cura di Ennio Dirani, Ravenna, Longo, 1985; nello specifico, per quanto riguarda i due autori summenzionati, il saggio di Federico Cereja, La lettura di Oriani nella Torino di Gramsci e Gobetti, pp. 189-203.

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un’attrazione notevole su molti esponenti di primo piano del fascismo: Dino Grandi su tutti12, in parte lo stesso Giuseppe Bottai ecc.), ma certo è che l’eccentri-co scrittore romagnolo, fu, insieme con Georges Sorel, Vilfredo Pareto, Friedrich Nietzsche, l’autore che più influì nella formazione culturale del giovane Mus-solini (espressione, quest’ultima, divenuta quasi un topos storiografico), e per il quale egli avrebbe conservato, lungo tutto l’arco della sua vita, innegabilmente assai movimentata, un’autentica e immutata venerazione13.

Perché, dunque, La rivolta ideale? Perché in essa domina l’attesa, la prefi-gurazione di un’epoca futura, in cui l’Italia, mondata di tutte le sue bassezze, assumerà su di sé una missione redentrice, un ruolo egemone nel mondo, grazie a istituzioni forti al di sopra dei singoli individui, i quali finiranno per esserne trasfigurati in esseri del tutto nuovi, una novella aristocrazia dello spirito senza più distinzioni di classi sociali. Sentiamolo nella prosa inquieta e sognatrice di Oriani:

La superiorità della nostra razza su quelle di Francia e di Spagna, l’esaurimento turco, l’inutile risorgimento greco, il tardo e così lento processo dei nuovi regni al disotto del Danubio assegnano all’Italia mediterranea una funzione ed un primato; non mai fummo italiani come ora. Bisogna guardare alto e lontano. Nessuna nazione può con-tendere con noi negli ultimi quarant’anni. L’imperialismo non è sogno che nei deboli, e diventa vizio soltanto negli incapaci al comando: i nostri ultimi eroi erano tutti grandi avventurieri, i nostri recenti viaggiatori vedevano tutti nell’avventura un lineamento d’impero. […] Che cosa farebbe l’Italia futura nell’angustia dei propri confini? L’avvenire dell’Europa è negli altri continenti, là soltanto proverà l’eminenza della propria anima: la guerra è di razza14.

E ancora:

Lasciate che il nuovo strato operaio si assodi su la base della borghesia e giù negli ultimi strati del popolo si cicatrizzino le più vecchie piaghe della miseria, e dall’anima più tranquilla e più pura si alzerà un’altra visione ideale. Non si vive che nello spirito:

12  Scrive a questo riguardo Paolo Nello, Dino Grandi, Bologna, il Mulino, 2003, p. 13, che la «vera scuola» del giovane Grandi, liceale a Bologna, caracollante tra murrismo e suggestioni nazionaliste e sindacaliste rivoluzionarie, «furono senz’altro Alfredo Oriani e “La Voce”, con la tesi prezzoliniana della necessità di una “riforma morale” dell’Italia e degli italiani».13  Sono ormai moltissime, dentro la sterminata bibliografia mussoliniana, le pagine dedicate alla formazione politica e culturale del futuro duce. Segnalo in particolare, oltre al primo capitolo del citato lavoro di Emilio Gentile, L’ideologia di Mussolini dal socialismo all’interventismo, pp. 61-110; Ernst Nolte, Il giovane Mussolini. Marx e Nietzche in Mussolini socialista, a cura di Francesco Cop-pellotti, Milano, Sugarco, 1993; e il recente contributo di Paola S. Salvatori, Mussolini e la storia. Dal socialismo al fascismo (1900-1922), Roma, Viella, 2016.14  Alfredo Oriani, Rivolta ideale, Bologna, Cappelli, 1924 (cito dalla sesta edizione, novembre 1940), pp. 286-287.

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bisogna sognare la bellezza, la virtù, la verità per non soccombere al dolore e alla nausea della vita. […] Se l’antica virtù aristocratica contrastava alla viltà della plebe, la nuova dovrà essere più alta, giacché nel volgo saranno ricompresi tutti coloro, anche ricchi, anche dotti, che interpretando bassamente la vita ne umiliano la tragedia. Quin-di i grandi solamente vi saranno servi, il genio che pensa per tutti, l’eroe che si sacrifica per molti: non si crederà più possibile la grandezza che umilia, non si stimerà più una forza quella che non solleva. […] Oggi l’ombra delle vecchie classi divide ancora gli uomini, domani non vi sarà fra essi che una sola differenza: o aristocratico o plebeo: l’egoista chiuso in se stesso e che mente agli altri: o il forte che apre a tutti la propria anima come un ricovero e accende il proprio pensiero come una fiaccola nella notte15.

In questo senso, al di là degli anacronismi e delle forzature (Oriani, non lo si dimentichi, morì il 18 ottobre 1909, quando il fascismo era lontanissimo dall’es-sere anche soltanto immaginato), che però, ben lo sappiamo, non appartengono alla sfera simbolica, non è difficile comprendere perché in quell’ultima opera di Oriani, più che altrove, Mussolini, che in fondo mai era stato davvero socialista16, credette di riconoscere se stesso e il fascismo. Vale la pena rileggere le parole da lui premesse all’edizione della Rivolta ideale uscita nell’Opera Omnia del-lo scrittore casolano. Che poi altro non erano se non la fedele trascrizione del discorso col quale il duce aveva concluso la “marcia al Cardello” del 27 aprile 1924.

Siamo venuti noi che apparteniamo alla generazione di Alfredo Oriani a rendergli il nostro reverente omaggio. […] I soliti pedanti che sono incapaci della sintesi e si per-dono troppo spesso nelle analisi, hanno domandato se noi fascisti avessimo le carte in regola per commemorare il grandissimo Oriani. Il fatto che il figlio di Alfredo Oriani indossi la camicia nera17 è la risposta più eloquente che si possa dare ai nostri avversari di tutti i colori. Nei tempi in cui la politica del «piede di casa» sembrava il capolavoro della saggezza umana Alfredo Oriani sognò l’impero; in tempi in cui si credeva alla pace universale perpetua, Alfredo Oriani avvertì che grandi bufere erano imminenti le quali avrebbero sconvolto i popoli di tutto il mondo; in tempi in cui i nostri dirigenti esibivano la loro debolezza più o meno congenita, Alfredo Oriani fu un esaltatore di

15  Ivi, pp. 385-386.16  «Se si pone come idea essenziale del socialismo la democrazia, come autocoscienza dei lavora-tori in quanto classe, e se non si attribuisce eccessiva importanza al linguaggio tipico di un militante socialista, per quanto eretico, si può affermare che Mussolini non fu mai socialista perché non fu mai democratico e non accettò mai il principio dell’autocoscienza del proletariato come classe. Quanto poi all’altro tema fondamenatle del socialismo, l’internazionalismo, Mussolini socialista fu contro la patria borghese, derise il nazionalismo, ma la sua mentalità era condizionata da un italianismo di tipo romantico-carducciano, rinnovato dall’incontro con il gruppo de “La Voce”, e da una ancor vaga ma sentita credenza in una missione dell’Italia nel mondo contemporaneo, che egli derivava principalmente da Oriani». Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., pp. 94-95.17  Si tratta di Ugo Oriani, che sul “culto” del padre (di cui seppe essere abile e spregiudicato inter-prete) avrebbe costruito la propria fortuna di ras del fascismo locale.

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tutte le energie della razza. […] Noi che, dal punto di vista della cronologia, non siamo più fra i giovani che si affacciano ora alla vita, ma, dal punto di vista del coraggio e della solidità fisica, ci sentiamo sempre giovanissimi, noi ci siamo nutriti delle pagine di Alfredo Oriani. […] Ci siamo nutriti di quelle pagine e consideriamo Alfredo Oriani come un Poeta della Patria, come un anticipatore del Fascismo, come un esaltatore delle energie italiane. Oso affermare che, se Alfredo Oriani fosse ancora fra i vivi, egli avrebbe preso il suo posto all’ombra dei gloriosi gagliardetti del littorio18.

Così, con l’avvento del fascismo al potere, cominciò la edificazione istituzionale, la codificazione per così dire, del “mito del precursore”. Attraverso una serie di iniziative che è più che lecito dubitare sarebbero piaciute a un carattere schivo come Alfredo Oriani, pur vissuto nella frustrazione di non aver mai visto adegua-tamente riconosciuto il proprio genio, ma che senza dubbio raggiunsero il loro scopo, legandone strettamente il nome a quello del fascismo e del suo fondatore e capo (da cui la damnatio memoriae che graverà a lungo nel dopoguerra sull’in-colpevole e inconsapevole precursore).

Atto d’inizio di questa regia della memoria fu appunto la cerimonia dell’a-prile del ’24 (ripetuta da allora ogni anno, in forme leggermente diverse, fino al 1943), conclusasi con il citato discorso di Mussolini dall’alto del mausoleo fatto erigere appositamente per accogliere le spoglie mortali di Oriani, ivi traslate dal piccolo, raccolto cimitero attiguo all’abbazia benedettina di Valsenio. Lungi dall’esaurirsi in una espressione di regionalismo folclorico la “marcia al Cardel-lo” fu forse, per il messaggio che veicolava (l’esaltazione delle energie giovanili contrapposte all’“italietta” asfittica e imbelle di prima della “rivoluzione fasci-sta”), ma anche per gli studiati effetti scenografici19, la prima manifestazione del costituendo regime mirante a identificare in modo esplicito il fascismo con la nazione20.

Venne quindi la pubblicazione dell’Opera Omnia di Oriani, per i tipi bolognesi di Licinio Cappelli, con la curatela dello stesso Mussolini, intrapresa in verità sin dal 1923. E ancora la completa trasformazione architettonica del complesso del Cardello (affidata all’architetto piacentino Giulio Ulisse Arata, già artefice del mausoleo sepolcrale), per farne un vero e proprio luogo di culto, una meta di pellegrinaggio della “nuova Italia” mussoliniana, al pari della casa natale del duce a Predappio21.

18  Benito Mussolini, Prefazione, in Alfredo Oriani, Rivolta ideale, Bologna, Cappelli, 1924 (cito dalla sesta edizione, novembre 1940), pp. 385-386.19  Se ne possono vedere alcune immagini in Il fondo fotografico della famiglia Oriani, a cura di Dante Bolognesi e Ennio Dirani, in “I Quaderni del Cardello”, 2007, n. 16, pp. 77-83.20  Sulla “marcia al Cardello”, cfr. Baioni, Il fascismo e Alfredo Oriani, cit. pp. 29 ss.21  Per la quale, Roberto Balzani, La casa natale di Benito Mussolini. Storia di un luogo e di un sim-

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Il 14 aprile 1927, per regio decreto, venne poi istituito l’Ente Casa di Oriani, avente lo scopo di preservare e amministrare l’eredità materiale e spirituale di Oriani. Con esso nasceva altresì la Biblioteca di storia contemporanea, divenuta di lì a poco tempo la Biblioteca “Mussolini”22, alter ego fascista della Biblioteca “Lenin” di Mosca, con il compito di testimoniare in Italia e nel mondo intero la grandezza universale dell’idea germinata dalla mente del duce. Il 16 settembre del 1936 la nuova sede della “Mussolini” (fino ad allora ospitata presso un’ala della Biblioteca Classense a Ravenna), alla cui costruzione – così almeno vuole la leggenda – il duce aveva sovrinteso personalmente, fu tenuta a battesimo nell’ambito della solenne inaugurazione della nuova zona dantesca, progettata sin dal 1923. La collocazione della “Mussolini” a fianco del sepolcro di Dante non era ovviamente casuale ma rispondeva a un preciso disegno politico-simbolico. Non va dimenticato che proprio intorno al settecentesco sepolcro disegnato da Camillo Morigia, già consacrato alla “religione della patria” dalla precedente tradizione irredentista e nazionalista23, si era conclusa un’altra marcia, quella su Ravenna dell’11-13 settembre 1921, allorché gli squadristi guidati da Dino Grandi e Italo Balbo si erano lì raccolti, alla presenza dei genitori di Francesco Baracca, giurando di arrivare quanto prima a Roma24. Era stata quella, avrebbe ricordato Balbo a distanza di un decennio, «la prima volta in cui il fascismo met-teva al suo attivo una impresa di così grande portata»25. Attorno a quei luoghi, sacri alle memorie della nazione e del fascismo (il che, nella narrazione fascista, equivaleva a dire la stessa cosa), il regime erigeva dunque, materialmente e me-taforicamente, la propria mitopoiesi, a significare la continuità ideale fra i tre “grandi spiriti”, Dante, Oriani e Mussolini, che di Dante e Oriani aveva finalmente inverato il vaticinio imperiale riportando l’impero sui “colli fatali di Roma”.

In conclusione, si può dire che il “culto” dei precursori, anche quando declina-to al singolare, come nel caso emblematico di Alfredo Oriani, non fu affatto un

bolo, in “Contemporanea”, 1998, n. 1, pp. 69-90. 22  Per una storia dell’Ente Casa di Oriani e della Biblioteca “Mussolini” si vedano innanzitutto i testi di Ennio Dirani in “I Quaderni del Cardello”, 1990, n. 1, pp. 9-125. 23  Nel settembre del 1908 il sepolcro del sommo poeta era stato meta di pellegrinaggi degli ir-redenti triestini, fiumani e giuliano-dalmati. A tale proposito, cfr. Paolo Cavassini, L’Ampolla e la Ghirlanda. Le feste dantesche del 1908 e il mito della «Mecca dell’Irredentismo», ivi, 2008, n. 17, pp. 299-330.24  Si vedano, fra gli altri, Luciano Casali, Fascisti, repubblicani e socialisti in Romagna nel 1922. La “conquista” di Ravenna, in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, 1968, n. 93, pp. 12-36; Saturno Carnoli, Paolo Cavassini, Nero Ravenna. La vera storia dell’attentato a Muty, Ravenna, Edizioni del Girasole, 2002, segnatamente pp. 13-16; di cui sono straordinario complemento le fotografie di Ul-derico David in Ravenna fascista. Cronistoria fotografica dal 1921 a tutto il 1925, in “I Quaderni del Cardello”, 2004, n. 13, pp. 162-164.25  Italo Balbo, Diario 1922, Milano, Mondadori, 1932, p. 11.

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fattore accessorio e marginale dell’ideologia fascista. Esso fu invece del tutto es-senziale alla definizione dell’identità culturale del fascismo o, se preferiamo, alla sua autorappresentazione; elemento, quest’ultimo, non meno importante per la comprensione del fenomeno fascista dei suoi programmi e delle sue azioni.

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Il momento culminante della “marcia al Cardello” del 27 aprile 1924: Mussolini si appresta al suo discorso dalla sommità del mausoleo di Oriani. Foto di Ulderico David (Fondazione Casa di Oriani, Fondo fotografico Famiglia Oriani).

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Inaugurazione del monumento ad Alfredo Oriani sul colle Oppio a Roma, 18 ottobre 1935. Istituto Luce (Fondazione Casa di Oriani, Fondo fotografico Famiglia Oriani).

Visita del principe Umberto di Savoia al Cardello per il XXIX anniversario della morte di Oria-ni, 18 ottobre 1938. Alla sua sinistra il federale di Ravenna Luciano Rambelli. Foto di Alvaro Casadio (Fondazione Casa di Oriani, Fondo fotografico Famiglia Oriani).

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 307-316

La storia della psichiatria in Italia durante il ventennio fascista è contrassegnata da fenomeni molto diversi fra loro e, in un certo senso, dissonanti. Da una parte, la vita negli ospedali psichiatrici ha continuato a seguire le sue regole e la sua logica da “istituzione totale”. Dall’altra parte, la stessa classe degli psichiatri, pur rimanendo fedele a principi della loro ancor giovane scienza, ha cercato in più occasioni di cambiare qualcosa in quel mondo fatto di segregazione, camicie di forza e assenza di cure. Gli psicofarmaci, infatti, non esistevano ancora: i medici non disponevano di terapie realmente efficaci. Era ancora, proprio come nell’Ot-tocento, la stessa custodia in manicomio, l’isolamento dei “folli” considerati pe-ricolosi e scandalosi a essere l’unica “cura” possibile.

E poi, ovviamente, c’era il regime fascista, con le sue liturgie, le sue parole d’ordine, le sue politiche: cosa significò tutto questo per la psichiatria italiana?

Occorre anzitutto evitare un errore per così dire prospettico: solitamente, la storia della psichiatria italiana di tutto il Novecento, è stata rappresentata come un lungo periodo di letargo: non sarebbe accaduto nulla di importante, se si ec-cettua la (terribile) invenzione dell’elettroshock, opera di Ugo Cerletti nel 1938. Ripercorrendo le vicende del secolo, non vi si potrebbero ritrovare che alcuni, deboli segni premonitori della grande stagione del movimento anti-istituzionale che avrebbe portato alla rivoluzione basagliana e all’approvazione della legge 180 del 19781. Gli psichiatri, in particolare, sarebbero stati dei semplici “piantoni”,

1 Su questo tema, rimangono fondamentali le considerazioni di Ferruccio Giacanelli, Note per una ricerca sulla psichiatria italiana fra le due guerre, in Filippo Maria Ferro (a cura di), Passioni della mente e della storia, Roma, Vita e Pensiero, 1989, pp. 567-575. Cfr. anche Massimo Moraglio, Prima e dopo la Grande guerra. Per un’introduzione al dibattito psichiatrico nell’Italia del ‘900, in Andrea Scartabellati (a cura di), Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichia-

PsichiatriaFRANCESCO PAOLELLA

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condannati dalla stessa legge sui manicomi (emanata nel 1904, dopo decenni di attesa) a rivestire il ruolo ingrato di carcerieri per folli, anormali e degenerati. In pratica, i manicomi non sarebbero stati altro che delle “pattumiere sociali”, luo-ghi dove nascondere vari tipi di marginali, di solito poveri. Non vogliamo certo affermare che lo scandalo degli internamenti manicomiali non fosse reale, anzi. Ma non è neppure opportuno relegare la storia novecentesca della psichiatria a una pura continuità del nulla. Le cose, va da sé, sono molto più complesse.

Sicuramente, il secolo d’oro della psichiatria, l’Ottocento, con tutta la sua ere-dità di positivismo, antropologia criminale e atavismo, pesò molto, specie sulla prima parte del secolo passato. D’altra parte, anche se gli ospedali psichiatrici erano spazi realmente chiusi e sostanzialmente impermeabili al mondo esterno, non possiamo considerarli come isole rimaste fuori dalla storia e in primo luogo dalle tragedie della dittatura e poi della guerra. Cercheremo qui di affrontare i rapporti, quanto mai controversi, fra psichiatria e fascismo, tenendo assieme gli aspetti più propriamente medico-scientifici della questione e quelli ideologico-politici, dovendone sottolineare gli inevitabili, profondi intrecci.

L’avvento al potere del fascismo e il successivo consolidarsi del regime non sconvolsero il mondo della psichiatria. Anzi, pur con significative ma tutto som-mato rare eccezioni, furono davvero molti gli alienisti italiani che decisero di aderire al partito fascista. Ci fu ben presto, fra le parole d’ordine del regime e quello che gli psichiatri affermavano nei loro congressi e sulle loro riviste, una intonazione molto simile e si realizzò, in ultima analisi, una vera e propria com-mistione. Così, tanti medici-direttori (che governavano da veri padroni dentro le mura degli asili) divennero tanti «gerarchi di manicomio»2. Anche da questo punto di vista, il nuovo contesto politico esaltò aspetti apertamente autoritari già presenti nella gestione degli ospedali psichiatrici.

Il sostanziale allineamento della corporazione psichiatrica non fu un caso na-turalmente e non può essere spiegato soltanto con le giustificazioni più comuni (l’ambizione dei singoli oppure una adesione puramente “formale” e burocratica al regime). Si tratta di qualcosa di più significativo, di più radicale. Nel fascismo tanti psichiatri (e di alto livello) videro la possibilità di avere finalmente ricono-sciuto il proprio ruolo nella società, allo stesso tempo scientifico e politico. La psi-chiatria, come le altre brache della medicina sociale, avrebbe potuto felicemente recuperare, nel clima ideologico nuovo portato da Mussolini, una posizione da protagonista, di “avanguardia” nella lotta contro la malattia mentale e contro le malattie sociali che infestavano la società italiana uscita dalla Grande guerra.

tri nella Grande guerra, Marco Valerio, Torino, 2008, pp. 65-90.2 Ferruccio Giacanelli, Gli psichiatri e il regime. Ipotesi per una ricerca, in “Rivista sperimentale di freniatria”, 2009, n. 1, vol. CXXXIII, pp. 73-85: 82.

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Più che scoraggiarli, l’arrivo al potere del fascismo diede agli scienziati nuove speranze per un concreto e radicale impegno statale per fronteggiare le morbosità sociali. Essi denunciarono le insufficienze della politiche sociali dei governi liberali e chiamarono il “nuovo Governo della nuova Italia” a varare un programma per ridurre “l’entità dei mali che diminuiscono le energie della nostra Stirpe” e per avviare una radicale azione di risanamento sociale. Solo affrontando il problema delle sofferenze e delle malattie del corpo sociale era possibile realizzare l’opera di ricostruzione economica e di paci-ficazione sociale che il paese chiedeva a gran voce3.

La psichiatria si voleva portatrice di una missione che andava ben al di là della semplice custodia di folli e anormali. Il suo obiettivo era quello di diventare una vera e propria “funzione di Stato”, agendo capillarmente nel corpo sociale per selezionare, isolare e, se possibile, curare tutte le anomalie e i comportamenti antisociali, dall’alcoolismo alla criminalità alle malattie veneree. In questo sen-so, gli psichiatri proponevano già da molto tempo per sé un ruolo di primo piano nel più ampio campo d’azione di una vera e propria “medicina politica”4.

Per altro verso, gli psichiatri non poterono che assecondare l’intensificazione delle pratiche repressive e di controllo sociale messe in atto dal regime. I ma-nicomi furono uno dei luoghi in cui venivano scaricati uomini “pericolosi”, pro-blematici, o comunque difficilmente gestibili. Ancora di recente sono state pub-blicate diverse ricerche sul ruolo che gli internamenti manicomiali hanno avuto nella gestione fascista dell’ordine pubblico, nel controllo delle diverse devianze e, non da ultimo, nella lotta alla dissidenza politica. Si tratta di una realtà molto sfaccettata, su cui ancora molto occorre indagare. In generale, ci pare assoluta-mente condivisibile quanto scritto qualche anno fa da Paolo Francesco Peloso:

Il ruolo del ricovero psichiatrico e della psichiatria in un regime si presenta frequente-mente problematico e ambiguo, per le possibili implicazioni politiche della valutazio-ne della sintomatologia e della diagnosi psichiatrica (in un regime totalitario, l’oppo-sitore ha ottime ragioni per essere depresso e sentirsi perseguitato) e per il rapporto, spesso difficile da sciogliere, tra oppressione politica, vissuti psicologici di oppressione, malattia mentale e istituzioni della psichiatria5.

Alienisti come Giulio Cesare Ferrari e Arturo Donaggio – per lunghi anni presi-dente della Società italiana di psichiatria (Sip), e il cui nome sarebbe rimasto

3 Dario Padoan, Biopolitica, razzismo e trattamento degli “anormali” durante il fascismo, in France-sco Cassata, Massimo Moraglio (a cura di), Manicomio, società e politica. Storia, memoria e cultura della devianza mentale dal Piemonte all’Italia, Pisa, Bfs, 2005, pp. 59-82: 63.4 Su questo aspetto, mi permetto di rinviare a Francesco Paolella, Archivio fascista di medicina politica, in “Rivista sperimentale di freniatria”, 2009, n. 1, vol. CXXXIII, pp. 37-59.5 Paolo Francesco Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945), Verona, Ombre Corte, 2008, p. 49.

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legato alla sua firma in calce al Manifesto della razza del 1938 – ebbero un certo ruolo anche nel dibattito politico, al di fuori di quello strettamente disciplinare: furono avanzate diverse proposte di riforma, che non portarono però a interventi legislativi diretti in campo psichiatrico. Una innovazione di qualche importanza ci fu con l’entrata in vigore, nel 1931, del Codice penale (il c. d. “Codice Rocco”), col quale fu stabilito infatti l’obbligo di iscrizione degli internati in manicomio nel casellario giudiziario. In secondo luogo, poi, e sempre in coerenza con una visione “carceraria” dell’assistenza psichiatrica, lo stesso Codice penale intro-dusse lo strumento della “misura di sicurezza” per le persone alienate che aves-sero commesso un fatto riconosciuto come reato. In altre parole, chi compiva un reato, ma era ritenuto incapace di intendere e di volere, non doveva finire in carcere, ma in uno dei manicomi giudiziari, che già da qualche decennio erano stati aperti in Italia6.

Dunque, fra la psichiatria e il regime fascista esistevano indubbi, forti aspetti di omogeneità ideologica. Come accennavamo più sopra, già dall’Ottocento, gli alienisti di tutta Europa avevano pensato a loro stessi come dei difensori della salute fisica e morale delle proprie nazioni (e della propria razza). I manicomi, come i tribunali e le caserme di polizia, hanno avuto da sempre un ruolo di tutela dell’ordine costituito, di difesa sociale contro gli asociali, gli indisciplinati, i “pe-ricolosi”. Anche nei suoi aspetti di maggiore “scientificità”, la psichiatria non ha mai potuto rinunciare a un potente contenuto ideologico, che la voleva in prima linea nella lotta alle anomalie. La questione è che l’“utopia psichiatrica”, l’idea di poter curare i mali della società curandone i “folli”, era andata ben presto in crisi. Essere psichiatri, ancora per tutta la prima metà del Novecento, significava non avere terapie a disposizione o quasi, significava lavorare in cronicari solitamente sovraffollati e agire in un contesto ormai del tutto svalutato dal punto di vista scientifico. La psichiatria rincorreva affannosamente e disperatamente una cura realmente medica per la follia in tutte le sue manifestazioni; così come cercava ancora – credendo ancora più fermamente di averlo trovato – un fondamento somatico, organico per la malattia mentale stessa. Queste due spinte erano gli assilli di una professione che si voleva sempre più “scientifica”. Ancora pretta-mente ottocentesca era la vera “ossessione” della psichiatria italiana per il corpo (e per il cervello in particolare) come sede e causa della follia. Dominava un esa-sperato organicismo che sarebbe durato ben oltre la seconda guerra mondiale e che avrebbe comportato una rigida chiusura verso ogni diversa possibile teoria della malattia mentale, e in primo luogo verso la psicoanalisi.

Anche se può sembrare paradossale, fra gli alienisti italiani era raro che si

6 Cfr. Gaddomaria Grassi, Chiara Bombardieri, Il policlinico della delinquenza. Storia degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani, Milano, Franco Angeli, 2016.

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desse un peso determinante alle emozioni nella genesi delle malattie nervose e mentali: ciò che contava veramente era piuttosto l’ereditarietà dei fatti morbosi, con le conseguenze dei comportamenti viziosi (alcool, sifilide ecc.) tenuti dai propri genitori e dai propri avi. La follia era vista come un male in cui si cadeva perché si era sostanzialmente predisposti a cadervi. Il compito dello psichiatra era quello di riconoscere i segni (fisici, anamnestici) di quelle tare e porvi rime-dio. Questa visione della malattia mentale regnava incontrastata sui manuali e nelle aule universitarie. Ad avere valore erano gli studi di neurologia, endocrino-logia e neocostituzionalismo. In questo senso, la riforma fascista dell’università, non fece che sancire la vittoria di questa prospettiva: furono unificati gli insegna-menti di neurologia e di psichiatria nell’unica Clinica delle malattie nervose e mentali e, soprattutto, la psicologia fu espulsa dalle facoltà di medicina, venen-do “relegata” a lettere.

La grande maggioranza degli psichiatri italiani condivideva, anche per ovvie ragioni di opportunità per la propria carriera, il primato della psichiatria biolo-gica. Ed è importante notare che, se da una parte questa “ossessione somatica” preservò in qualche modo la psichiatria (i convegni, le pubblicazioni scientifiche ecc.) dagli aspetti più grevi e grotteschi della retorica di regime, dall’altra parte ciò la espose a essere un sostegno naturale, soprattutto a partire dagli anni Tren-ta, alle varie teorie razziste, sempre più diffuse anche in Italia7.

Ed è sempre in questa stessa prospettiva che si imposero le sperimentazioni, sempre più ardite è proprio il caso di dire, delle terapie di shock e della psicochi-rurgia. La ricerca di nuove cure contrassegnò la psichiatria dell’epoca di cui qui ci stiamo occupando:

È l’introduzione delle terapie somatiche, e in particolare delle terapie di shock, a carat-terizzare quegli anni, nonché a segnare il profilo della psichiatria istituzionale nell’età fascista. Di fatto viene anche a corrispondere a più opportunità: la necessità di far fron-te medicalmente alla cura delle malattie mentali, il bisogno di rimedi risolutivi, il man-tenimento di un rapporto terapeutico nei tempi e nei ritmi della medicina ospedaliera, e non dell’incontro psicoterapico. Ma nella letteratura scientifica, si percepisce anche una Weltanschauung che va uniformando in quegli anni i linguaggi della politica e quelli della medicina psichiatrica. Stupisce, e insieme non stupisce affatto, il linguaggio spudoratamente interventista che si ritrova nelle pagine degli psichiatri quando par-lano delle terapie tentate. Tutto è impresa, battaglia: vincere è osare, anche in campo terapeutico8.

7 Cfr. Ferruccio Giacanelli, Tracce e percorsi del razzismo nella psichiatria della prima metà del Novecento, in Alberto Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 389-406.8 Valeria Paola Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatria in Italia: una storia del Novecento, Bolo-gna, Il Mulino, 2009, p. 95.

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Fino ad allora, le armi degli alienisti erano effettivamente spuntate, legate a vec-chie tradizioni a cui ancora ci si doveva affidare. C’erano il bromuro di potassio e qualche altro sedativo (veronal, luminal, scopolamina); c’erano i bagni prolunga-ti, caldi e freddi; c’era la clinoterapia (riposo coatto a letto); c’erano ovviamente la camicia di forza, gli altri strumenti di contenzione e l’alimentazione forzata. Per il resto, non rimavano che qualche attività lavorativa (la cosiddetta ergote-rapia) e il tempo – il restare cioè lunghi anni rinchiusi. Un quadro senza dubbio frustrante.

Con gli anni Venti iniziarono a diffondersi nuove tecniche di cura, assoluta-mente sperimentali, come la piretoterapia (ossia l’utilizzo di forti febbri, inocu-lando la malaria soprattutto). In questo, come negli altri casi, non si agiva sulle cause della malattia mentale, ma sul suo andamento: si pensava che, in un certo qual modo, una malattia potesse scacciarne un’altra. Sperimentare per raggiun-gere finalmente una “scientificità” acclarata: questo indirizzo divenne ancora più chiaro negli anni Trenta, con l’introduzione delle terapie di shock, da quello insulinico a quello cardiazolico e a quello “elettrico” di Cerletti. Ben presto non poterono che emergere gli inevitabili pericoli, le controindicazioni e tutti i limiti di trattamenti così violenti. Ma, nonostante ciò, una specie di febbre (di gene-re diverso) sembrò prendere gli psichiatri italiani: finalmente si sarebbe potuto guarire una folla di malati, riconsegnandoli alla società e, magari, estirpare la malattia mentale. Qui in Italia fu in particolare l’elettroshock a essere conside-rato come grande successo nazionale (e autarchico): e l’invenzione di Cerletti funzionava anche perché era molto economica (cosa di non poca importanza).

Come dicevamo più sopra, anche nel corso dell’epoca fascista, la psichiatria italiana cercò di proporre alcuni tentativi di riforma9. Ai congressi e sulle riviste si chiedeva anzitutto che fosse modificata la legge del 1904, e soprattutto nella parte che regolava le modalità di internamento. I manicomi non avrebbero do-vuto più essere i terminali dove far finire folli e anormali di varia specie; i mani-comi dovevano trasformarsi in veri ospedali, ed avere al centro la cura – pur così problematica come abbiamo visto – e non la semplice custodia. Pur tenendo fer-mo il ruolo chiave dell’ospedale, la psichiatria voleva raggiungere la società e i luoghi dove la malattia mentale si nascondeva, assumendo un ruolo più spiccato di profilassi sociale. Per far questo, occorreva separare i curabili dagli incurabili, destinando questi ultimi ai cronicari e, semmai, alle colonie di lavoro.

Era questo uno degli obiettivi principali della Lega italiana di igiene e profi-lassi mentale (Lipim), fondata a Bologna da Giulio Cesare Ferrari, Eugenio Me-dea ed Ettore Levi nell’ottobre del 1924. La Lega, a cui si iscrissero i nomi più

9 Cfr. Massimo Moraglio, Dentro e fuori il manicomio. Note sull’assistenza psichiatrica nell’Italia tra le due guerre, in “Contemporanea”, 2006, n. 9, pp. 15-34.

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importanti dell’alienismo italiano, auspicava che l’“igiene mentale” diventasse un criterio utile, anzi essenziale per forme sempre più efficaci di prevenzione. La Lega (e, in seguito, anche la Società freniatrica italiana, come si chiamava la Sip prima del 1931) propose e realizzò in diverse province una rete di dispensa-ri e ambulatori fuori dai manicomi. Le “infermiere visitatrici” avrebbero dovuto intercettare i possibili casi al loro nascere e indirizzarli ai medici. Le scuole, le caserme, le fabbriche avrebbero dovuto essere i luoghi centrali di questa azione profilattica di massa10.

La spinta riformatrice si esaurì progressivamente nel corso degli anni Trenta e i progetti di “svuotamento” degli ospedali psichiatrici non riuscirono a impedire quello che si delineò anzi come un vero e proprio, nuovo “grande internamento”. I dati statistici a disposizione mostrano una crescita costante nel numero dei ricoveri in manicomio, con una continuità sostanziale fra l’epoca fascista e la precedente età liberale, a partire già dalla fine dell’Ottocento. Nel caso italiano, la massa delle persone internate crebbe progressivamente nel periodo fra le due guerre mondiali, segnando ogni anno un nuovo record. L’apice venne rag-giunto alla fine degli anni Trenta. Nel 1925 la Società freniatrica italiana fondò nella sede del manicomio di Ancona, con i contributi della Direzione generale di Sanità, del Ministero dell’Interno e delle amministrazioni provinciali, l’Ufficio statistico delle malattie mentali, proposto e poi guidato da Gustavo Modena. Quell’Ufficio fu attivo fino ai primi anni della seconda guerra mondiale e fu vo-luto sempre per fornire all’autorità politica informazioni utili per cogliere la re-ale entità della piaga sociale rappresentata dalle malattie mentali e dalle altre forme di devianza. Tra il 1926 e il 1941, il numero degli internati in Italia passò dal 1,5 al 2,12 per mille abitanti. Anche in termini assoluti, l’aumento è impressio-nante: da 60.000 a circa 96.000 degenti presenti nei manicomi.

In particolare, l’Ufficio diretto da Modena presentò una relazione dedicata al triennio 1926-192811. Allora erano attivi 144 ospedali psichiatrici, fra cui 61 mani-comi pubblici, 5 manicomi giudiziari, 36 cronicari, 6 strutture per “deficienti” e 36 case di salute per persone facoltose. Non è immediato comprendere le ragioni di una crescita così imponente dei ricoverati. Sicuramente, la crisi economica ini-ziata nel ‘29 ha avuto un peso, ad esempio aggravando la situazione di famiglie povere costrette a dover gestire persone malate. D’altra parte, le forze di polizia contribuirono senza dubbio a “rifornire” di nuovi degenti gli ospedali psichiatrici – basti pensare soltanto a un fenomeno di massa come l’alcoolismo. La maggio-

10 Cfr. Francesco Cassata, Il lavoro degli “inutili”: fascismo e igiene mentale, in Cassata, Moraglio (a cura di), Manicomio, società e politica, cit., pp. 23-36.11 Cfr. Gustavo Modena, La morbosità delle malattie mentali in Italia nel triennio 1926-27-28, Roma, Tipografia Failli, 1933.

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ranza degli internati era formata da maschi; si trattava in maniera prevalente di persone di età compresa fra i 20 e i 40 anni. Erano più frequenti i ricoveri di celibi e nubili; e, come è intuitivo, gli internati appartenevano soprattutto ai ceti sociali popolari (casalinghe, operai, contadini ecc.). La durata dei ricoveri variava molto da caso a caso, dipendendo ovviamente da molti fattori: in generale, le psicosi acute (come le psicosi tossiche e le psicosi affettive) potevano risolversi più facil-mente in una degenza breve, ma per la maggioranza dei malati la permanenza in ospedale poteva durare anche più di due anni – e non mancavano casi di de-genze di 20 o 30 anni, praticamente ricoveri a vita.

Questo aumento nel numero dei ricoverati durante l’epoca fascista fu ac-compagnata da «una brusca accelerazione nella costruzione di nuovi ospedali psichiatrici»12. Questo aspetto era la logica conseguenza del rinnovato utilizzo dei manicomi come veri e propri “depositi” di malati e devianti. L’edilizia ma-nicomiale riguardò in particolare l’Italia meridionale: sorsero nuove strutture a Palermo, Agrigento, Siracusa, Trapani, Reggio Calabria, Napoli13. Altro dato inte-ressante, nel 1932 i letti in ospedale psichiatrico erano ormai il 32% di tutti i letti ospedalieri disponibili in Italia.

Prendiamo in considerazione un solo caso, quello dell’importante ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, il “San Lazzaro”. L’aumento progressivo delle pre-senze (si passò dai 1.525 ricoverati presenti al 1° gennaio 1923 ai 2.123 presenti al 1° gennaio 1938) costrinse i vertici dell’istituzione a costruire ben 5 nuovi pa-diglioni, fra i quali anche strutture per degenti paganti, e ad ampliarne altri14. Non dimentichiamo che gli ospedali psichiatrici erano anche delle vere e proprie imprese economiche, che davano lavoro a centinaia di addetti e che erano alla continua ricerca di nuove entrate, cercando di ospitare il maggior numero di malati.

L’aumento dei ricoverati non poté che influire negativamente sulle condizioni di vita, già di per sé difficili, all’interno degli ospedali psichiatrici italiani. Questo fu senza dubbio uno dei cambiamenti più significativi avvenuti negli anni fra le due guerre, ma altrettanto visibile fu la rapida “fascistizzazione” di quegli istituti. Ecco, ad esempio, cosa accadde nel manicomio “San Girolamo” di Volterra – ma il discorso si potrebbe estendere anche alle altre realtà:

Il manicomio, naturalmente, fu immediatamente inserito nel circuito di diffusione della stampa di regime: abbonamenti a giornali e riviste come pure gli acquisti di libri per

12 Peloso, La guerra dentro, cit., p. 34.13 Cfr. Cesare Ajroldi (a cura di), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, Milano, Electa, 2013.14 Cfr. Valeria Pezzi, Il San Lazzaro negli anni del regime (1920-1945), in “Contributi”, 1986, a. 10, n. 19-20, pp. 385-596.

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la biblioteca furono fortemente suggeriti dal partito. […] Le logiche totalitarie ebbero comunque ben più ampie implicazioni: fu introdotta la presenza di una rappresentan-te fascista del pubblico impiego all’interno di ogni commissione di concorso bandito dall’amministrazione dell’ospedale, così come l’obbligo, accuratamente rispettato, dell’iscrizione al partito per i dipendenti15.

Come le altre istituzioni pubbliche, anche i manicomi furono bene presto occu-pati dai fascisti. Ricorrenze, commemorazioni, sottoscrizioni in chiave fascista divennero l’inevitabile scenario della gestione quotidiana degli istituti. Cambia-rono via via i regolamenti interni, nella direzione di una maggiore disciplina ed esaltando lo spirito gerarchico16.

Questa situazione fu gravemente deteriorata durante la seconda guerra mon-diale. Anzi, potremmo dire che, più ancora del fascismo, fu la guerra a penetrare nei manicomi e a sconvolgerne la vita. Anche se la psichiatria italiana non fu coinvolta in programmi espliciti di eliminazione eugenetica dei malati di mente, come invece avvenne nella Germania nazista17, è indubbio che la guerra portò con sé un notevole incremento della mortalità nei manicomi. La fame, il freddo, le malattie (la tbc su tutte), oltre ai frequenti bombardamenti (furono colpiti 30 istituti su 69), causarono un numero di morti compreso fra 24.000 e 30.00018, tan-to da far paragonare il caso italiano a quello francese19. L’indice di mortalità in ospedale psichiatrico durante la guerra fu pari a 60 volte quello registrato fra la popolazione generale. Quei malati furono vittime non di progetti espliciti di eutanasia, ma indubbiamente di abbandono e indifferenza.

15 Vinzia Fiorino, Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (1888-1978), Pisa, Ets, 2011, pp. 185-186.16 Per una descrizione efficace della vita di un manicomio in epoca fascista, cfr. ad esempio i rac-conti di Mario Tobino, Per le antiche scale: una storia, Milano, Arnoldo Mondadori, 1972 e il saggio di Massimo Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra fascismo e liberazione, Boves, Araba Fenice, 2007.17 Su questo tema, cfr. Henry Friedlander, Le origini del genocidio nazista. Dall’eutanasia alla so-luzione finale, Roma, Editori Riuniti, 1997; Alice Ricciardi Von Platen, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, Firenze, Le Lettere, 1993; Michael Tregenza, Purificare e distruggere. Il programma “eutanasia” e lo sterminio di disabili (1939-1941), Vol. I, Verona, Ombre Corte, 2006. Mi permetto anche di rinviare a Francesco Paolella, Psichiatria, nazismo e fascismo, in Silvia Casilio, Annalisa Cegna e Loredana Guerrieri, Paradigma Lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, Bologna, Clueb, 2010, pp. 151-165.18 Cfr. Emilio Padovani, Luigi Bonfiglioli, Le vicende storiche e statistiche dell’assistenza psichiatrica in Italia durante la seconda guerra mondiale, in “Rivista sperimentale di freniatria”, 1948, 72, pp. 375-396.19 Cfr. Max Lafont, L’Extermination douce. La cause des fous, 40.000 malades mentaux morts de faim dans les hôpitaux sous Vichy, Bordeaux, Le Bord de l’Eau, 2000.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 317-344

Ogni approccio di carattere storico sulla Romagna ha come punto di riferimento il libro di Roberto Balzani intitolato, appunto, Romagna1. A questa lettura viene quindi indirizzato ogni approfondimento sulle vicende che hanno caratterizza-to l’identità di un territorio la cui conformazione, mutuando i confini codificati dall’ingegner Emilio Rosetti nel 18942, risulta delimitata a nord dalle aree vallive del Ravennate, a est dalla riviera adriatica, a sud dai crinali dell’Appennino e a ovest dal corso del fiume Sillaro. Nella presente ricerca, invece, l’attenzione ver-rà concentrata su come il fascismo plasmò l’immagine pubblica della Romagna creando un brand, per dirla con un termine mutuato dal linguaggio pubblicitario dei nostri giorni, confacente alla politica del regime e alla costruzione del mito mussoliniano.

1. Il territorio e la sua rappresentazione

Per fissare sinteticamente i caratteri della storia millenaria che interessa questo spazio geografico, val la pena ricordare che le fondamenta poggiano nel perio-do compreso fra la costruzione della via Emilia (189-187 a. C.) e la creazione di una base navale romana sull’Adriatico, il Porto di Augusto, nei pressi di Ravenna,

1 Roberto Balzani, Romagna, Bologna, Il Mulino, 2012 2.2 Emilio Rosetti, La Romagna: geografia e storia, Milano, Hoepli, 1894.

RomagnaMARIO PROLI

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distante dalla via consolare ma ad essa connessa grazie ai collegamenti con le città vicine. Il topos si è consolidato attraverso i rivolgimenti connessi con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente che ebbe quale ultima capitale Raven-na; poi in virtù del ruolo della stessa città quale fulcro della presenza Bizantina nella penisola e dell’Esarcato d’Italia; quindi mediante la persistente egemonia che l’Arcivescovado di Ravenna esercitò sul territorio circostante, raccogliendo quella eredità.

Nel corso del tempo prese corpo il nome di Romània, cioè terra dei Romani, che era il modo in cui da Costantinopoli cominciarono a chiamare l’enclave che faceva capo all’antica capitale sull’Adriatico. La denominazione cominciò a cir-colare e registrò modifiche in Romanìola, Romandiola e Romagna. Alla seconda denominazione venne assegnato il compito di indicare un territorio a geometria variabile che, passando per le relazioni e le dispute fra Comuni e Signorie, trovò stabilità amministrativa in età moderna sotto il dominio del Papato iniziato agli albori del XVI secolo. A modificare nuovamente l’assetto irruppero le idee della Rivoluzione francese e le truppe guidate da Napoleone Bonaparte; quindi la re-staurazione tornò ad assegnare lo scettro del potere al Papa-re. Entro i confini delle Legazioni pontificie e sotto la coltre della repressione imposta con durez-za dai Cardinali legati cominciò a ribollire un sentimento patriottico alimenta-to dalle relazioni fra luoghi vicini e in collegamento con altre esperienze nella penisola (Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Torino, Milano, Venezia), con il timone orientato verso l’utopia dell’Italia unita. Questo sentimento da aristocratico si fece sempre più popolare, passando dalle società segrete all’associazionismo, dai moti degli anni Trenta e Quaranta all’adesione di volontari alla Prima guerra d’indipendenza del 1848. Dirompente fu l’esperienza della Repubblica romana del 1849 che suscitò forte entusiasmo democratico e patriottico in Romagna e culminò con la trafila romagnola che portò in salvo Giuseppe Garibaldi, proteg-gendolo e aiutandolo durante la fuga clandestina dalla Repubblica di San Mari-no a Cesenatico, Ravenna, Forlì e Modigliana.

Queste vicende modellarono una identità sociale e di cultura politica, sentita come propria da molti romagnoli3.

Parallelamente a questo sentimento di identità cominciarono ad essere de-finiti stereotipi che, nel XIX secolo, sintetizzarono il carattere romagnolo come indomito e rivoluzionario. A marcare il dato della pericolosità contribuirono le vedute di parte monarchica e conservatrice, come quella delineata dalla pub-blicazione Degli ultimi casi di Romagna di Massimo D’Azeglio o come gli studi psichiatrici della scuola lombrosiana approdati nell’affermazione del professor Guglielmo Ferrero del 1893: La Romagna è in Europa uno degli ultimi esemplari

3 Si veda il volume Romagna della rivista di storia, cultura, istituzioni “Padania”, n. 9, 1991.

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di società a tipo di violenza4. Lo stereotipo puntò a confondere la passione e il coraggio dei tanti patrioti che parteciparono alle imprese risorgimentali, se-guendo gli ideali di Giuseppe Mazzini e l’azione di Giuseppe Garibaldi, con i fatti di cronaca nera del tempo fra i quali spiccarono le azioni criminali messe in atto dalla banda di briganti guidata da Stefano Pelloni, detto “il Passatore”. Ancor più clamore internazionale suscitò il gesto del romagnolo Felice Orsini che attentò alla vita dell’Imperatore Napoleone III.

Altri punti di vista trovarono voce letteraria e giornalistica nella seconda metà dell’Ottocento, orientando lo sguardo sulla idealità e sulla generosità di questa tempra ribelle. Così fece Edmondo De Amicis in Cuore, pietra miliare let-teraria dell’Italia unita, dove il protagonista del capitolo “Sangue romagnolo”, il giovane Ferruccio, venne descritto come intemperante e violento ma guidato da senso di giustizia e coraggio che sublima in difesa dei più deboli, sacrificando la propria vita per proteggere la nonna assalita nella propria casa dai banditi. Si trattò di un timbro ispirato dalla condivisione di valori che avevano affondato le radici nella Romagna popolare dal Risorgimento in poi e che stavano alla base dell’affermazione dei partiti di massa, repubblicano e socialista. Col medesimo sguardo, avvinato nella dimensione poetica intessuta di sensibilità per l’infanzia e la terra dell’infanzia, è da inquadrare la poesia di Giovanni Pascoli che contri-buì a consolidare alcuni simboli, fra i quali la piada5.

Al medesimo periodo risale la realizzazione da parte dell’Ingegner Emilio Ro-setti, originario di Forlimpopoli ma con una carriera professionale vissuta oltre i confini locali con esperienza perfino in Sudamerica, di un’opera monumentale nella quale vennero definiti su carta geografica i confini della Romagna e codi-ficati profili enciclopedici di città, paesi, borghi, fiumi, monti, attività, statistiche, con glosse dei significati dialettali.

Al passaggio del secolo l’immagine della Romagna aveva assunto una identi-tà definita che risentiva pure, sul versante della cultura gastronomica, del contri-buto offerto dai racconti e dalla selezione di ricette proposti da Pellegrino Artusi (romagnolo di Forlimpopoli benché fiorentino d’adozione) nell’opera La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene6.

Tuttavia fu all’inizio del secondo decennio, nel 1911, che con la pubblicazio-ne della rivista “Il Trebbo” data alle stampe su iniziativa del medico, letterato e militante politico di fede mazziniana Aldo Spallicci, prese avvio un altro per-

4 Lorella Cedroni, Nuovi studi su Guglielmo Ferrero, Roma, Aracne, 1998; Dino Mengozzi, Per un’e-dizione critica della Romagna violenta e fraudolenta di Guglielmo Ferrero, in “Studi romagnoli”, XLIII (1992). 5 Giovanni Pascoli, La piada, in Id., Nuovi poemetti, Bologna, Zanichelli, 1909. 6 Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Firenze, Tip. Di Salvadore Landi, 1891.

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corso, fondamentale per comprendere l’idea di Romagna del Novecento, la cui definizione si sarebbe completata con la fine della Prima guerra mondiale.

Questa idea di Romagna, rurale, patriottica, di ispirazione regionale, fondata sulla lingua dei padri, il dialetto, passò da embrione ideale condiviso da una ri-stretta cerchia di accoliti (questo era il mondo che gravitava attorno al progetto de “Il Plaustro”) a sentimento popolare capace di intercettare passioni, affetti, nostalgie e frustrazioni dei tanti soldati romagnoli dell’11° Reggimento Fante-ria (“Gialli del Calvario”) e del 12° Reggimento della Brigata “Casale”, di stanza rispettivamente a Forlì e Cesena, e del 27° Reggimento e del 28° Reggimento (“Verdi di Gorizia”) della Brigata “Pavia”, di stanza a Rimini e Ravenna.

Fu nelle trincee del nord-est e durante i sacrifici patiti nelle Battaglie dell’I-sonzo che Spallicci riconobbe nei romagnoli la condivisione di un patrimonio comune fatto di tradizioni, abitudini, afflato ideale, di linguaggio, espressioni fonetiche, sensazioni. E gli diede forma e voce. Di questa condizione elesse a testimone la piadina e divulgò il significato simbolico nella canta dialettale “La Piê”. La storia struggente racconta di una mamma che spedisce al figlio in guerra un pacco contenente piadina. Nell’apertura dell’involucro il profumo del cibo evoca al soldato “udor da cà” (odore di casa), così come il sapore del cibo porta una ventata di “êria ’d Rumagna” (aria di Romagna). Attorno al rapporto fra ro-magnolità e dovere patriottico, nella canta, la piadina crea inoltre un’atmosfera di sacralità perché deve essere assaporata con devozione e condivisa con al-tri, mutuando una sorta di visione evangelica da “ultima cena”. Nelle intenzioni dell’ispiratore si trattava, è fondamentale precisarlo, di una fede assolutamente laica, distante e distinta da qualsiasi credo religioso.

Aldo Spallicci si fece interprete di questi sentimenti e costruì una immagine di Romagna strutturata su simboli, a cominciare proprio dalla piadina, la Piê, che fu scelta anche come nome della nuova rivista fondata nel 1919 e data alle stampe dal 1920. Mentre la rivista divenne veicolo di informazioni e punto di riferimento per una élite intellettuale, il compito di divulgazione fu affidato alla codificazio-ne di altri simboli quali la Caveja (cioè il cavicchio dotato di alcuni anelli nella sommità che veniva utilizzato per aggiogare i bovini da traino all’asta del carro o dell’aratro) e le stampe a ruggine contadine che caratterizzavano le ruvide coperte utilizzate per coprire il bovini durante feste religiose e fiere. Insieme ai simboli il progetto vide l’adozione di medium capaci di intercettare le masse di analfabeti o alfabeti: cante e poesie dialettali, arte grafica, incontri culturali de-nominati “Trebbi”, orazioni. Tale combinazione raggiunse l’obiettivo di sfondare nell’immaginario popolare trovando ampio consenso soprattutto nelle famiglie contadine e fra gli ex combattenti. Una riflessione specifica merita proprio l’as-sociazionismo combattentistico del primo dopoguerra di cui Spallicci divenne leader indiscusso per molti anni. Fu lui a inventare la bandiera dei Combattenti di Romagna, che venne inaugurata il 19 marzo 1922 al Capanno di Garibaldi

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vicino a Ravenna. Il vessillo univa i colori rosso e azzurro («Abbiamo tolto dalle vostre camicie garibaldine il rosso della fede infiammata di Romagna, e l’abbia-mo unito a un lembo d’azzurro dei nostri cieli») e includeva un drappo di tela da buoi. Per sorreggere la bandiera inoltre fu forgiata un’asta al cui culmine stava una Caveja.

La Romagna di Spallicci, quella della Piê (nella doppia versione di rivista e di alimento), della Caveja, delle stampe a ruggine, delle cante dialettali musicate da Martuzzi e da Balilla Pratella, dei quadri e delle xilografie, riuscì in breve tempo a essere riconosciuta come patrimonio comune, portando con sé orgoglio rurale, orgoglio patriottico, orgoglio del lavoro. Nel 1921 la realizzazione a Forlì delle Esposizioni riunite romagnole fece da magnete e da vetrina. In quel conte-sto venne allestita la Mostra etnografica romagnola, che costituì la base di par-tenza del Museo etnografico romagnolo di Forlì, aperto nel 1922 e poi intitolato alla memoria di Benedetto Pergoli. Questi fatti contribuirono a definire le carat-teristiche identitarie di un regionalismo proprio mentre l’agone politico vedeva divampare una lotta sempre più violenta fra i militanti dei partiti repubblicano, socialista, popolare, fascista e comunista7. Senza Aldo Spallicci, come ricorda Ro-berto Balzani, si sarebbero avuti come in altri territori «brandelli di patrimonio, lacerti di storie remote, frammenti di poesia e di musica. Spallicci ha ridato voce e ricordo a un popolo che li stava perdendo. Un popolo che, al pari di tutte le comunità contadine d’Italia, dopo la prima guerra mondiale era soggetto ai rapi-di processi di omologazione e di standardizzazione culturale della modernità»8.

L’idea di Romagna forgiata nel primo dopoguerra rappresenta la base per valutare i cambiamenti apportati dal fascismo.

2. Un progetto politico

Il rapporto fra il territorio d’origine, la Romagna, e l’immaginario collettivo co-struito attorno alla figura di Benito Mussolini rappresenta un argomento com-plesso sul quale si è concentrata, per decenni, l’attenzione di numerosi studiosi e che ancora non risulta esaurito né nell’indagine, né nel livello delle interpre-

7 Sull’argomento si rinvia al libro di Elio Santarelli, Cronache del fascismo nella città del Duce, Forlì, Tip. Valbonesi, 2016.8 Roberto Balzani, discorso per la Inaugurazione della bandiera dell’Unione dei Comuni della Ro-magna forlivese, in occasione del XL anniversario della morte di Aldo Spallicci, Premilcuore, 14 marzo 2013, pubblicato in “Il Melozzo”, rivista quadrimestrale, Forlì, n.1, 2013.

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tazioni9. Capostipiti dell’opera furono i primi biografi, in particolare Antonio Bel-tramelli con L’uomo nuovo (Mondadori, Milano 1923).

Romagnolo di Forlì, giornalista, firma del “Corriere della Sera”, scrittore affer-mato, intellettuale dalla visione politica nazionalista ed elitaria, collaboratore de “La Piê”, Beltramelli assegnò alle pagine de L’uomo nuovo questa riflessione: «Fra un’anima di elezione e la terra sua di origine si stabilisce un rapporto mi-sterioso come da madre a figlio: un rapporto che perdurerà nel subcosciente anche quando la vita avrà trascinato questo eletto per vie remotissime e lo avrà costretto a costumi e a lingue diverse e fra uomini dissimili»10.

L’opera di ridefinizione dell’idea di Romagna attuata dal fascismo partì esat-tamente da questo rapporto “misterioso” e “perdurante” per sfociare nella co-struzione di uno stereotipo che appoggiandosi alla ormai acquisita “tradizione” di inizio Novecento, benché codificata solo da pochi anni, la addomesticò in modo confacente alle esigenze del momento, modellando uno stereotipo di ro-magnolità caratterizzato proprio dall’attaccamento ai valori della tradizione e al lavoro, con una sensibilità per il nuovo corso imboccato dal fascismo.

Se questa romagnolità di Mussolini assunse gradualmente un valore stra-tegico nel processo di costituzione del mito mussoliniano, la trasformazione dell’ambiente d’origine in “Terra del Duce” divenne il patrimonio geografico di riferimento per garantirne il culto. Fu un percorso complesso, ricco di contrad-dizioni, incoerenze e improvvisazioni, ma caratterizzato da una volontà piena-mente consapevole.

Come prima tappa ci fu proprio un fatto geografico, cioè l’ampliamento della Provincia di Forlì attuato a pochi mesi di distanza dalla nomina di Benito Mus-solini a capo del governo con l’intento di rendere ancor più significativa sotto l’aspetto simbolico, oltreché dal punto di vista demografico, quella che la pro-paganda aveva ribattezzato subito come la “Provincia del Duce”. Con regio de-creto del 4 marzo 1923, infatti, gran parte della cosiddetta “Romagna Toscana” all’epoca in provincia di Firenze (parte della vecchia zona transappenninica del Granducato di Toscana allungata oltre il crinale in territorio Pontificio) venne accorpata all’ente romagnolo. La fascia aggiuntiva si snodava fra colli e monti

9 Fra i libri per un approccio specifico: Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einau-di, 1965; Luisa Passerini, Mussolini immaginario, Roma-Bari, Laterza 1991; Aurelio Lepre, Mussolini l’italiano, Milano, Mondadori, 1995; Emilio Gentile, Il culto del littorio, Roma-Bari, Laterza, 1998; Sergio Luzzatto, Il corpo del Duce, Torino, Einaudi, 1998; Patrizia Dogliani, L’Italia fascista, Sansoni, Milano, 1999; Sergio Luzzatto, Victoria de Grazia (a cura di), Dizionario del fascismo, Torino, Einaudi, 2002 (I volume A-K), 2003 (II volume L-Z); Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani, Torino, Utet, 2008; Paul Corner, Valeria Galimi (a cura di), Il fascismo in provincia. Articolazioni e gestione del po-tere tra centro e periferia, Roma, Viella, 2014; Paola S. Salvatori, Mussolini e la storia. Dal socialismo al fascismo (1900-1922), Roma, Viella, 2016.10 Antonio Beltramelli, L’uomo nuovo, Milano-Roma, Mondatori, 1923, p. 84.

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da Tredozio fino a Verghereto, nell’alta valle del Savio, punto di valico con la Valtiberina e “patria” delle sorgenti del Tevere, fiume sacro di Roma11.

A una manciata di settimane di distanza, il 15 aprile 1923, il duce decise di “tornare a casa” in visita ufficiale. «Per un’ora lo rivedremo Romagnolo fra i ro-magnoli e ne saremo orgogliosi» commentava “Il Popolo di Romagna”, organo della locale Federazione fascista. «Romagnolo fra i romagnoli» fu la parola d’or-dine lanciata per cercare di conquistare consenso in una zona nella quale l’ade-sione al fascismo non appariva di certo esaltante. La difficoltà incontrata dalle camicie nere nel prendere il controllo in gran parte della provincia Romagna – più precisamente nelle aree urbane, nella pianura e nella prima collina forlivese, cesenate e ravennate dove forte era la presenza del partito repubblicano – è un dato sul quale concordano gli storici che hanno preso in esame queste realtà12. Non furono sufficienti la violenza squadristica, le intimidazioni e le nuove leggi a sollecitare una passione popolare che non sbocciò.

Significativo è un commento di parte fascista del 1927: «Un esame obbietti-vo sull’azione politica del fascismo nella Provincia porta a questa affermazione di una esattezza indiscutibile: che cioè le difficoltà di penetrazione, di afferma-zione e di consolidamento del partito furono, agli inizi, molteplici, complesse e caratteristiche. Il fascismo ha potuto far breccia in pieno e rapidamente laddove aveva di fronte a sé resistenze rosse a fondo bolscevico [...] Nella provincia di Forlì il partito trovò a un dipresso tale situazione soltanto nella parte alta e nel-la zona riminese: non altrettanto nel cesenate e nel forlivese dove, per contro, dominava il partito repubblicano. […] Molti passarono al Fascismo: ma i pastori, i capoccia resistettero e quasi ovunque le masse repubblicane restarono avulse ed irrigidite di fronte alla nuova realtà che si andava impadronendo irresistibil-mente dell’anima nazionale»13.

Il 15 aprile 1923 era domenica. Mussolini giunse in treno alla stazione ferro-viaria di Forlì, all’epoca ancora nei pressi di porta Mazzini e da qui andò subito

11 La sorgente del Tevere è sul Monte Fumaiolo in Comune di Verghereto.12 Sull’argomento: Pier Paolo D’Attorre e Maurizio Ridolfi (a cura di), Ravenna e la Padania dalla Resistenza alla Repubblica, Ravenna, Longo, 1996; Biagio Dradi Maraldi, Angelo Varni (a cura di), Storia di Cesena. IV. Tomo 3, Rimini, Bruno Ghigi, 1994; Walter Zanotti, Romagna Rossa, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1996; Massimo Lodovici (a cura), Fascismi in Emilia-Romagna, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1998; Roberto Balzani, Mario Proli, La Romagna del “duce” in cartolina, Forlì, Edit Sapim, 2003; Mario Proli, La storiografia e gli anni centrali del fascismo, nel libro a cura di Patrizia Dogliani, Romagna tra fascismo e antifascismo 1919-1945, Bologna, Clueb, 2006; Mario Proli, Consenso e dissenso nella “terra del duce”. La provincia di Forlì 1922-1940, in Fascismo e antifascismo nella Valle Padana, Bologna, Clueb, 2007; Andrea Guiso, La “città del duce”. Stato, poteri locali ed élite a Forlì durante il fascismo, Lungro di Cosenza, Costantino Marco Editore, 2010; Franco D’Emilio, Paolo Poponessi, La terra del Duce: l’era fascista nella Romagna forlivese 1922-1940, Rimini, Il Cerchio, 2014; Santarelli, Cronache del fascismo nella città del Duce, cit.13 Costruire, a cura della Federazione fascista forlivese, Forlì 1927, p. 3.

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al Cimitero monumentale per rendere omaggio alla tomba del padre Alessandro qui sepolto (in seguito i resti vennero traslati nel nuovo Cimitero monumentale di Predappio e ricongiunti all’interno del famedio con quelli della moglie Rosa Maltoni) e ai caduti della Grande guerra. Successivamente raggiunse in automo-bile piazza Saffi per una visita in Prefettura e in Comune, che all’epoca erano entrambi presso la sede municipale14. Dopo aver posto la prima pietra del futuro campo sportivo, imboccò la valle del fiume Rabbi per raggiungere Predappio. Qui si recò al cimitero di San Cassiano in Pennino dove era sepolta la madre, salì al Municipio nel capoluogo (oggi Predappio Alta) e ridiscese a Dovia, borgata rurale del piccolo Comune, per una visita alla sua casa natale in località Varano di Costa. In questo torno di tempo avvennero due fatti rilevanti. Il primo fu il dono al duce della casa in cui egli era nato il 29 luglio 1883, a Dovia, che da quel momento divenne la Casa natale del Duce.15

L’altro fu la sottoscrizione con raccolta di fondi lanciata dal fascismo forli-vese e finalizzata all’acquisto di un rudere di castello, in località Rocca delle Caminate, nella collina che divide le vallate fra Predappio e Meldola, per farne dono sempre al capo del governo che decise, una volta ristrutturata, di eleggerla a proprio domicilio privato in Romagna.

Malgrado le speranze della vigilia, la visita non riuscì a sbloccare la situazio-ne di precarietà che travagliava il fascismo forlivese. Tutt’altro. Sul piano politi-co la situazione peggiorò, tanto da sfociare a settembre nel commissariamento straordinario della federazione. Ci vollero diversi anni e ripetuti commissaria-menti politici per trovare un assetto stabile che giunse solo negli anni Trenta con il federale cesenate Conte Pio Teodorani Fabbri. Malgrado la situazione reale non fosse propizia e tantomeno coerente con i contenuti del brand, il processo di costruzione della “Terra del Duce” continuò ricevendo significativi impulsi. Fra questi un primo attestato di attenzione da Casa Savoia. L’occasione fu offerta dall’inaugurazione, avvenuta nel maggio 1925, del nuovo campo sportivo intito-lato a Tullo Morgagni, celebre giornalista sportivo forlivese morto in un incidente aereo nel 1919. Redattore della “Gazzetta dello Sport” e fra i fondatori del “Giro d’Italia” ciclistico, Tullo era fratello di Manlio Morgagni, vale a dire uno dei più stretti collaboratori di Benito Mussolini fin dagli anni dell’interventismo nonché direttore dell’Agenzia di stampa Stefani. Preceduta da una campagna naziona-lista culminata con la celebrazione del Natale di Roma del 21 aprile (che venne annunciata utilizzando come simbolo romagnolo l’Arco d’Augusto di Rimini), la visita del principe ereditario Umberto in Romagna acquistò un significato spe-

14 La visita in Municipio a Forlì avvenne nel pomeriggio prima di partire per Bologna.15 Società di Studi romagnoli, LXIII Convegno di Studi romagnoli, Predappio ottobre 2012, Cesena, Stilgraf, 2013.

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ciale perché si svolse nei mesi in cui, superata la crisi seguita all’omicidio Mat-teotti, il fascismo stava consolidando le basi del regime. E a distanza di poche settimane giunse la cerimonia di fondazione di Predappio Nuova. Il 30 agosto 1925 fu il segretario nazionale del Pnf Roberto Farinacci, accompagnato da Italo Balbo e da Arnaldo Mussolini, a tenere a battesimo la nascita di un paese inven-tato per favorire il culto del duce. Fino a quel periodo, infatti, il territorio della media valle del Rabbi presentava una organizzazione amministrativa diversa, con due centri che per secoli avevano svolto le funzioni di guida: Predappio (il borgo divenuto successivamente Predappio Alta) e Fiumana. Territori diversi con frazioni, parrocchie e borgate rurali fra le quali Dovìa, nulla di più di un’osteria, un mulino sul fiume e poche abitazioni, senza neanche una chiesetta nonostante secoli di domino pontificio.

Momento culminante della cerimonia di fondazione di Predappio Nuova fu-rono l’inaugurazione di una targa celebrativa che venne affissa nella facciata della Casa natale e la posa delle prime pietre della futura chiesa Santa Rosa da Lima (la scelta agiografica avvenne in funzione del nome di Rosa Maltoni) e delle case popolari.

L’assenza di Mussolini alla cerimonia di inaugurazione non passò inosservata, tanto da diventare oggetto di commento da parte degli stessi fascisti. «Fino a che Forlì seguiterà a essere fascisticamente la 74a provincia d’Italia non venite tra noi, Presidente» commentava l’editoriale pubblicato su “Il Popolo di Romagna”16.

La calata del segretario nazionale del Pnf in Romagna lasciò in eredità una solo parziale normalizzazione dell’indisciplinato romagnolo, dove a una situa-zione più compatta nel Ravennate (assestata attorno alle vigorose relazioni fra capi del calibro di Ettore Muti, Renzo Morigi e Luciano Rambelli) corrispondeva nel forlivese un “beghismo” molto accentuato da rivalità, litigi e gelosie. E se nel maggio 1926 si esultava per la «ricostituzione dei fasci di Portico, Salude-cio e Predappio» motivo per cui «tutte le 86 Sezioni della provincia funzionano normalmente»17, ancora nell’aprile del 1937 dovevano constatarsi rese dei conti violente all’interno della stessa sede del Pnf, Palazzo Albertini, e in piazza Saffi18.

Qualche giorno dopo arrivò la visita del duce, sia per saggiare l’umore politi-co che per controllare come stavano procedendo le opere pubbliche. Al cospet-to dei cantieri ebbe luogo un vero e proprio vertice con il prefetto Crispino, il “federale” provinciale Ivo Oliveti, l’ingegnere progettista dei lavori Florestano Di Fausto ed esponenti del fascismo locale. Risultò chiaro che non si trattava di una visita ma di un sopralluogo, nel corso del quale non vennero risparmiate critiche.

16 “Il Popolo di Romagna”, 30 agosto 1925.17 “Il Popolo di Romagna”, 30 maggio 1926.18 Proli, Consenso e dissenso nella “terra del duce”, cit.

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Come nel caso della lapide inaugurata appena un anno prima da Farinacci. L’im-patto con l’epigrafe in bronzo fu pessimo, e ne ordinò la rimozione.

Di fronte alle perplessità delle autorità locali, Mussolini ribadì il suo comando «Toglietela. Tutt’al più potrete metterne un’altra con questa legenda: Qui esiste-va una lapide che fu tolta per volontà del lapidato»19. La lapide fu presto smon-tata. È facile intuire come dietro la decisione ci fosse l’intenzione di mantenere nella più anonima semplicità la Casa natale, per farne una testimonianza delle origini popolari. Seguendo questa strategia venne realizzato anche l’allestimen-to dell’interno con la rievocazione di ambienti della vita domestica come l’offi-cina del fabbro e le camere da letto degli sposi e dei bambini Benito e Arnaldo. Tutto ciò dimostra che l’influenza di Mussolini fu diretta e costante. Un’altra con-ferma venne qualche anno dopo.

Ai piedi della collinetta sulla quale sorgeva la Casa natale venne edificato fra il 1928 e il 1931, sempre su progetto di Florestano Di Fausto, il mercato viveri. Si trattava di un anfiteatro con porticato ad archi che nel punto di confluenza dei due emicicli inquadrava esattamente la facciata dell’edificio che si trovava a una trentina di metri di distanza, in cima ad una piccola scarpata. Per raggiungerlo venne realizzata una scala in marmo mentre le due ali dell’anfiteatro furono congiunte da un imponente tiburio che coronava l’inizio della scalinata facendo-ne da ingresso monumentale. Una presenza nobile e trionfale che poco aveva a che fare con l’ambiente rustico del luogo. La soluzione architettonica non passò inosservata al duce che ne ordinò la rimozione del tiburio e la sostituzione della scalinata. Al posto dei gradini venne piantato un bosco all’interno del quale si snodavano due sentieri che salivano al piccolo museo. Terminato il giro dei can-tieri, prima di raggiungere Forlì per un altro sopralluogo, il gruppo guidato da Mussolini salì alla Rocca delle Caminate, l’antico rudere che era stato donato al duce e dove erano in corso i lavori per approntare quella che sarebbe diventata la sua residenza privata. Ai nuovi simboli che stavano costellando l’ambiente romagnolo, il fascismo cercò di dare collegamento nazionale sfruttando l’im-magine di realtà locali, come avvenne nel caso dell’Arco di Augusto a Rimini, della Tomba di Dante a Ravenna, del Rubicone, il cui corso era rimasto per secoli indefinito e che nel 1933 Mussolini individuò nel corso denominato Fiumicino e che da allora divenne lo storico fiume attraversato nel 49 a.C. da Giulio Cesare durante la sua “marcia su Roma”.20

In tale ambito maturò l’idea di realizzare un punto di riferimento di massima visibilità. Quello stesso giorno Mussolini ordinò, nel cantiere, la realizzazione di un faro tricolore. «In cima alla torre deve risplendere il Faro della Vittoria: un

19 “Il Popolo di Romagna”, 30 maggio 1926, Il Duce ha visitato i lavori di Predappio Nuova.20 Balzani, Romagna, cit.

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faro elettrico a tre colori, girevole, come quello del Gianicolo, che si veda a tren-ta miglia, a più di cinquanta chilometri»21.

L’idea era quella di un fascio di luce italica che doveva stendersi su tutta la Romagna, dal mare al confine emiliano. Anche la scelta del padrino avvenne in questa direzione. Ad inaugurare il faro, infatti, venne chiamato Luigi Federzoni, leader dei nazionalisti italiani, uomo di fiducia del re ed esponente di punta della classe governativa.

Il 28 ottobre 1927, ovviamente in corrispondenza con l’anniversario della Marcia su Roma, Federzoni sbarcò in Romagna con il doppio mandato di accen-dere il faro delle Caminate e inaugurare la nuova stazione ferroviaria di Forlì, prima tappa significativa della trasformazione urbana che il fascismo stava im-primendo alla città. Lo scalo, eccessivamente dimensionata rispetto al traffico ferroviario della città ma costruita in modo da permetterne un futuro sviluppo quale snodo della penisola in appoggio a Bologna, rappresentava il centro pro-duttivo attorno al quale sorse un complesso di grandi industrie con oltre quat-tromila dipendenti.

La stazione divenne la nuova porta di accesso alla città per i visitatori ai luo-ghi mussoliniani. Un’importanza sancita dalla realizzazione del viale Benito Mussolini (poi ribattezzato viale XXVIII ottobre), attorno al quale si snodavano dopo la prima cintura di industrie, anche scuole e istituti pubblici. Il viale sfocia-va nella nuova grande piazza al centro della quale fu costruito un primo segno commemorativo dei caduti sostituito poi dall’imponente complesso con obeli-sco alto 22 metri. Anche in Romagna furono questi gli anni in cui il “piccone risa-natore” si abbatté sulle città con espansioni oltre le mura e la trasformazione di parte dei centri storici, seguendo in questo caso più che altrove il doppio binario impostato dalla propaganda: tradizione e nuove opere22.

L’Italia era ormai sotto regime, con partito unico, informazione controllata e irreggimentato nel nascente sistema corporativo. Negli anni che andarono dal 1928 al 1931, il Partito nazionale fascista intensificò anche l’azione di controllo del territorio attraverso tutte le strutture, dall’Opera nazionale Balilla al Dopo-lavoro, mentre il controllo poliziesco colpì pesantemente i nuclei di antifascismo sopravvissuti in Romagna. In questo periodo si registrò una maggiore presen-

21 “Il Popolo di Romagna”, 30 maggio 1926, Il Duce ha visitato i lavori di Predappio Nuova. Notizie dell’inaugurazione del faro sono riportate anche in Predappio e dintorni, Forlì, Stabilimento tipo-grafico Valbonesi, 1937, p. 115.22 Sull’evoluzione urbanistica di Forlì durante il periodo fascista si segnalano: Roberto Fregna, Forlì città del duce: dal primo dopoguerra alla crisi del ‘29, in Urbanistica fascista, a cura di A. Mioni, Milano, Franco Angeli, 1980; Marcello Balzani, L’immagine della città e la trasformazione urbana negli ultimi cento anni, in Storia di Forlì, vol. IV, Forlì, Cassa dei Risparmi, 1992, pp. 333-356, Ulisse Tramonti, Luciana Prati, La città progettata: Forlì, Predappio, Castrocaro. Urbanistica e architettura tra le due guerre, Forlì 1999.

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za di Mussolini in zona, con frequenti sopralluoghi ai paesi e alle città, dalla costa all’entroterra. Parallelamente iniziarono i primi pellegrinaggi di gruppo con ospiti autorevoli come avvenne il 24 luglio 1927, quando una comitiva di gerarchi e personaggi della cultura guidata da Segretario nazionale del Partito fascista Augusto Turati partì dal Teatro “Dante Alighieri” di Ravenna, dove era stato organizzato il Raduno degli artisti fascisti al quale avevano partecipato personaggi del calibro di Mascagni, Moretti, Panzini, Balilla Pratella, Marinetti, Beltramelli, alla volta di Forlì e a Predappio Nuova23.

Mentre questo modello stava prendendo forma, il mondo di Spallicci venne via via destrutturato e con la scomparsa del suo amico Arnaldo Mussolini av-venuta a Milano il 21 dicembre 1931 anche l’ultimo baluardo di rispetto per il medico-poeta venne a meno. L’irrigidimento dei rapporti nasceva dal fatto che Spallicci era passato da una vicinanza al fascismo delle origini (dovuta al comu-ne “spirito della trincea” e all’impegno a lui personalmente dichiarato da Mus-solini di puntare alla Repubblica) ad una distanza sempre maggiore alla quale aveva condotto parte del mondo degli ex combattenti, fino alla conclamata av-versione al regime.24

Oltre all’inimicizia con Spallicci, ad incidere sul contrasto fra le due idee di Romagna furono le politiche di statalizzazione e la nazionalizzazione della lin-gua cui seguì la lotta ai dialetti. 25

L’uniformità linguistica puntava a rafforzare i valori centralisti e la comunica-zione di massa con i suoi mezzi (radio, cinema, stampa e fotografia) risultò effi-cace per tentare la diffusione di un italiano uniforme. Altrettanto fece l’adozione del testo unico nelle scuole. Tutto venne orientato e controllato dagli Uffici della Presidenza del Consiglio incaricati di seguire la stampa e la propaganda e, dal 1937, dal Ministero per la Cultura popolare. L’obiettivo dichiarato da Mussolini, in un discorso del 1931, era quello di puntare alla «purezza dell’idioma patrio». L’avversione ai dialetti fu dettata pure dal timore che alimentassero spinte regio-nalistiche e localistiche, quindi potenziali turbolenze politiche. Con la soppres-sione della “Piê” avvenuta nel 1933 ogni rapporto fra i due mondi venne troncato definitivamente.

23 “Il Popolo di Romagna”, 24 luglio 1927. 24 Sull’associazionismo combattentistico e d’arma si vedano anche: Lorenzo Bedeschi, Dino Men-gozzi, Spallicci e l’Associazione combattenti in Romagna (1919-1926), Bologna, Fotocromo Emilia-na, 1992; Fabrizio Monti, Ex combattenti e mutilati, in Primo Novecento e Grande Guerra, a cura di Giovanni Tassani, Forlì, Grafikamente, 2014.25 Bedeschi, Mengozzi, Spallicci e l’Associazione combattenti in Romagna, cit.

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3. La “Terra del Duce”

Il 1932 fu l’anno di presentazione della “Terra del Duce”. Ciò avvenne secondo un programma ben calibrato. Dietro alla svolta va riconosciuta l’opera di Achille Starace (principale artefice del culto della personalità del duce) che era divenu-to segretario del Partito nazionale fascista nel dicembre dell’anno precedente. Fu con lui che l’ambiente geografico legato alle origini di Mussolini accentuò la vocazione a sede per una liturgia politica destinata a organizzazioni di partito e giovanili, gruppi di dopolavoro aziendale, formazioni militari, scuole, squadre sportive, comitive di persone, ospiti stranieri. A partire da questo periodo prese il via, in modo organizzato e continuativo, la stagione dei pellegrinaggi ai luoghi mussoliniani che continuò fino al crollo del regime.

A distanza di pochi mesi dall’insediamento nella cabina di regia del Partito fascista, Starace organizzò la prima visita in Romagna in corrispondenza del 21 aprile giorno in cui si festeggiava il “Natale di Roma”. Come primo atto ci fu la visita a Predappio Nuova poi l’arrivo a Forlì dove, nel pomeriggio, prese parte alla cerimonia della leva fascista provinciale. Madrina della manifestazione fu donna Rachele che presenziò al rito militaresco delle organizzazioni giovanili. La notizia suscitò vasta eco tanto da conquistare la prima pagina del “Corriere della Sera” che ricordava come fosse «meditato pensiero quello del segretario del Partito di conoscere il volto e il cuore della terra del Duce»26.

Il giudizio che ne ricavò fu positivo grazie anche alla massiccia partecipazio-ne popolare alle adunate di Forlì, Savignano sul Rubicone e Rimini. Nella stes-sa giornata venne organizzata la prima edizione della “Coppa del Duce”, una gara di regolarità motociclistica che toccava le principali località della provincia romagnola, da Cesenatico a Forlì attraverso Rimini, Santarcangelo, Savignano, Cesena, Forlimpopoli, Meldola, Rocca della Caminate e, ovviamente, Predappio Nuova. Nei mesi seguenti avvenne la traslazione dei resti mortali di Alessandro accanto a quelli di Rosa Maltoni nel nuovo cimitero monumentale di Predappio (che era stato edificato in funzione della cappella della famiglia Mussolini) af-finché i genitori del duce potessero ricevere l’omaggio riverente degli italiani.

A settembre da Forlì venne proclamata la «vittoria della battaglia del grano» e a Polenta di Bertinoro si svolsero le celebrazioni nazionali in memoria di Gio-suè Carducci. In questo contesto maturò la scelta di tenere a Forlì la cerimonia nazionale dell’inizio del secondo Decennale della cosiddetta “Era Fascista”. Do-menica, 30 ottobre 1932. Questa la cronaca riportata dal “Corriere della Sera”

26 “Corriere della Sera”, 22 aprile 1932, articolo in prima pagina intitolato L’On. Starace accolto entusiasticamente in Romagna.

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nell’articolo di apertura: «Il Duce stesso, il figlio di questa Romagna alla quale egli torna come alla culla della propria famiglia, al luogo sacro delle sue più care memorie, al nido dell’infanzia e della prima battagliera giovinezza, ha volu-to venire a Forlì e iniziare il secondo Decennale tra la sua gente, in vista di quelle campagne alle quali egli torna ogni volta che le opere della terra richiedano, anche fra i più umili, la sua presenza esemplare, a tu per tu con i conterranei, con le schiere dei figli di questa razza animosa, generosa e gentile, nata coi fermenti della passione nel sangue, cresciuta alla scuola di una virilità che fa dello spirito di sacrificio e dell’ardire le sue virtù migliori. S’inizia l’anno undicesimo»27.

La giornata del “trionfo romagnolo”, veniva ricordato da Orio Vergani, il gior-nalista del quotidiano milanese propone va un programma incentrato sull’inau-gurazione di grandi opere pubbliche, quali l’imponente Monumento ai Caduti di piazzale della Vittoria, la scuola intitolata alla memoria di Rosa Maltoni (ora “Edmondo De Amicis”) e il Palazzo delle Poste e Telegrafi in piazza Saffi.

La Romagna venne definitivamente consacrata ad essere la cornice reale e immaginaria per il culto politico di Mussolini. Da questo momento cominciarono ad apparire anche guide turistiche che allargarono sempre più il raggio passan-do dalla pionieristica Predappio Nuova a Predappio e dintorni fino alla patinata e completa La Terra del Duce28.

Il progetto politico calato dall’alto venne recepito dalla base come spiegava il sindaco-podestà di Predappio Nuova Pietro Baccanelli: «Dall’esame dell’atti-vità svolta dall’Amministrazione nelle varie branche, si ha l’esatta visione delle variazioni sostanziali avvenute in questo Comune, assurto, per virtù dell’illustre Uomo che vi è nato, a terra santa di ogni italiano»29.

I numeri cominciarono a schizzare verso cifre sempre più alte con momenti clamorosi come la visita di 6 mila dopolavoristi bolognesi il 15 aprile 1934 e l’a-dunata di 15 mila camicie nere pesaresi nella primavera del 193730. I pellegrini

27 “Corriere della Sera”, 31 ottobre 1932, articolo in prima pagina dal titolo Un forte discorso di Mussolini a Forlì. Una rassegna stampa che documenta la vasta eco che l’evento suscitò a livello nazionale è conservata alla Biblioteca comunale di Forlì “A. Saffi”, Collezione Mussolini, cartella III. Relativamente alla meticolosa organizzazione della cerimonia del 30 ottobre, così come anche della manifestazione carducciana di Polenta, si veda in Archivio di Stato di Forlì, Fondo Gabinetto riservato di Prefettura, b. 304. 28 Predappio Nuova, Forlì, Predappio Nuova, La Poligrafica romagnola, s.d. (dalle notizie contenute è databile ai primi anni Trenta e comunque precede cronologicamente le altre due pubblicazioni); Predappio e dintorni, Forlì, Stabilimento tipografico Valbonesi, 1937; La Terra del Duce, Roma, Ca-priotti, 1941.29 Tratta da Relazione sull’attività svolta dalla amministrazione comunale fascista di Predappio Nuova dal 9 settembre 1923 al 22 marzo 1927, Predappio 1927.30 “Il Popolo di Romagna”, 5 giugno 1937, L’omaggio del fascismo di Pesaro alla tomba dei genitori del Duce. Sull’argomento, si veda Sofia Serenelli, Predappio e il culto del Duce: mito, memoria e identità collettiva (1925-2010), in “Studi romagnoli”, Atti del LXIII Convegno, ottobre 2012.

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giungevano sia in gruppo, sia individualmente con mezzi pubblici, in automobile, in bicicletta e talvolta anche a piedi (in certi casi come fossero marce votive di carattere religioso) da Torino31, Udine32, Firenze33 oppure addirittura post-mortem come nel caso di Loreto Starace, parente del segretario del Pnf Achille, che per disposizione dalle sue volontà venne portato nei luoghi mussoliniani all’interno della bara34.

Con la costruzione di una grande macchina organizzativa dei pellegrinag-gi, messa a punto con l’avvento di Achille Starace e quindi strutturata secondo le linee d’azione del Minculpop, l’arrivo di migliaia di visitatori ai luoghi d’ori-gine trasformò il medium (la gita) in efficacissima comunicazione politica, con il partito fascista, le organizzazione a esso collegate e le istituzioni impegnate addirittura nel sostenere le spese di trasporto e in molti casi la stessa ospitalità conviviale, con l’offerta di panini e acqua alle comitive. L’annuncio nazionale, declamato per anni da Forlì, della vittoria della battaglia del grano, le fiere zoo-tecniche nazionali e le sagre di prodotti rurali completarono questa azione, con tanto di “caveje” a sbalzo dagli edifici razionalisti (ad esempio dal Palazzo delle Poste nella piazza centrale di Forlì) e di massaie rurali in costume tipico pronte alla posa, in foto e nei cinegiornali dell’Istituto Luce, accanto alla moglie di Mus-solini, “l’arzdora” Donna Rachele. Un alto fortissimo impatto della romagnolità del duce fu determinato dalla luce tricolore emanata dal faro di Rocca delle Caminate che durante l’estate veniva vista dalle migliaia di bambini e ragazzi ospitati sulla riviera adriatica nelle colonie marine ed evocava, con effetto sce-nico dirompente, la presenza stessa del duce nella sua terra.

In modo analogo crebbe la dimensione internazionale che beneficiò, oltre alla narrazione di giornalisti e scrittori stranieri35, anche dell’arrivo di capi di Stato, ministri, ambasciatori, consoli e ufficiali. Sulla passerella degli ospiti illu-stri salì nel gennaio 1933, l’alto diplomatico giapponese Yosuke Matsouka che proprio in quell’anno balzò alla ribalta mondiale per aver guidato l’uscita della delegazione nipponica dalla riunione della Società delle Nazioni in seguito alle critiche ricevute per le operazioni militari in Manciuria. Sempre al 1933 risalgo-

31 “Il Popolo di Romagna”, 15 luglio 1933, Da Torino a Predappio a piedi per un omaggio ai luoghi Mussoliniani. 32 “Il Popolo di Romagna”, 3 febbraio 1934, Omaggio ai Luoghi mussoliniani di due giovani Camicie Nere.33 “Il Popolo di Romagna”, 29 aprile 1933, Predappio Nuova. Omaggi ai luoghi Mussoliniani.34 “Il Popolo di Romagna”, 21 aprile 1933, Le spoglie di Loreto Starace, cugino del Segretario del Partito, sostano a Predappio Nuova. 35 A tale proposito si rinvia alla pubblicazione dell’intervento di Stefano Piastra, Il paese del Duce con occhi stranieri, proposto nel LXVII Convegno della Società di Studi romagnoli, Forlì, 30 ottobre 2016.

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no gli arrivi di una delegazione proveniente da Alessandria d’Egitto e la visita da parte di ufficiali della Marina britannica. Altre presenze autorevoli, da quella del Cancelliere austriaco Schuschnigg (1936) all’inviato del governo giapponese Okura (1937), onorarono i luoghi nella seconda metà del decennio. Non solo sim-bolica fu poi la presenza dei Giovani hitleriani, che nell’agosto 1937 marciarono a piedi provenendo da Rimini. Respiro di portata sovrannazionale ebbe la visi-ta di una rappresentanza di fascisti della Dalmazia mentre nell’estate del 1939 l’arrivo di una delegazione albanese, con esponenti del neo insediato governo filo-fascista, famiglie di sposi e una missione della Chiesa ortodossa, assunse il sapore di un inchino al capo colonizzatore36.

Il rapporto di identificazione tra Mussolini e la “Romagna-Terra del Duce” era ormai acquisito a livello internazionale, come dimostra l’accoglienza in Germa-nia riservata da Hitler a Mussolini nell’ottobre 1937, facendo sistemare una ve-duta della valle del Rabbi nella camera da letto37.

La consacrazione del progetto giunse con il riconoscimento della famiglia reale. In un clima di particolare intensità organizzativa, l’8 giugno 1938 il Re Imperatore Vittorio Emanuele III arrivò in visita ufficiale a Forlì e Predappio38. La manifestazione, accompagnata da straordinarie misure organizzative e di sicu-rezza, con fermi preventivi, ispezioni e avvertimenti, ebbe inizio con l’arrivo in treno alla stazione ferroviaria del capoluogo e proseguì con la parata per le vie della città, una tappa alla mostra artistica dedicata al pittore rinascimentale Me-lozzo degli Ambrogi allestita a Palazzo del Merenda e il bagno di folla in piaz-za Saffi con una folla stimata in oltre cinquantamila persone in rappresentanza dell’intera provincia. Il saluto avvenne dal balcone del Municipio di Forlì. Quindi un corteo di auto risalì la valle del Rabbi raggiungendo Predappio. Al seguito del Re figuravano Giuseppe Bottai, Achille Starace, Costanzo Ciano, il diretto-re d’orchestra Pietro Mascagni e l’architetto Cesare Bazzani. In quell’occasione Mussolini attese il sovrano nella residenza privata di Rocca delle Caminate, pre-occupandosi però a tal punto della manifestazione da disporre finanziamenti straordinari per procurare vestiti alle persone indigenti, concedendo al podestà

36 Riferimenti ad articoli pubblicati su “Il Popolo di Romagna”: 14 gennaio 1933, Un ministro del Giappone ai luoghi mussoliniani; 10 giugno 1933, Omaggio alle tombe dei Genitori del Duce; 27 luglio 1933, Ufficiali della Marina Britannica ai luoghi mussoliniani; 20 agosto 1936, I giovani fascisti della Dalmazia a Predappio; 14 agosto 1937, Giovani hitleriani; 26 agosto 1939, Gli sposi Albanesi in pellegrinaggio; 2 settembre 1939, Una missione ortodossa Albanese rende omaggio a Predappio.37 “Il Resto del Carlino”, 28 ottobre 1937, Da Predappio a Berlino. 38 Archivio di Stato di Forlì, Gabinetto di Prefettura, B. 336. 23, anno 1938 “Disposizioni di ordine pubblico per visita Re Imperatore”, 24 maggio 1938; B. 339, lettera della Questura in data 31 mag-gio 1938 con oggetto “Servizi preventivi in occasione della visita di S.M. il Re Imperatore a Forlì e Predappio”.

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un finanziamento di lire 50.000 «per vestire i predappiesi in modo decente»39.L’auto imperiale riprese infine la via di Forlì dove attendeva il convoglio ferro-

viario con la carrozza reale. Il clamore fu enorme e venne amplificato, oltre che da radio e giornali dalla confezione, ad uso delle sale cinematografiche, di ben due cinegiornali Luce. Un bagno di folla caratterizzò la visita del Principe di Pie-monte, nell’ottobre del 1938 che fu accompagnato nel “pellegrinaggio” da circa settemila cooperatori40. Fra l’estate e l’autunno del 1938, la sintonia fra fascismo e monarchia riverberò nell’attività di governo con la condivisione dei provvedi-menti contro gli ebrei e la promulgazione delle leggi razziali.

Proprio a questo periodo risale la stampa dell’opuscolo La terra del Duce che compendiava l’intero percorso e lo presentava con queste parole: «la terra del DUCE, la bella, generosa, ospitale e feconda Romagna, è la meta ideale di ogni italiano»41. Gli elementi erano rappresentati al completo: la casa natale, il cimitero di San Cassiano con la tomba di famiglia, Predappio Nuova, il castello di Rocca delle Caminate, il faro tricolore, l’atmosfera carducciana della chiesa di Polenta, la colonna degli anelli di Bertinoro, le tombe di Arnaldo e Sandro Mussolini a Paderno, piazza Saffi di Forlì rappresentata dall’unione fra antico e moderno fra l’abbazia romanica di San Mercuriale e il nuovo Palazzo delle Po-ste. Una rappresentazione ancora più significativa dell’immagine della Romagna rimodellata dal fascismo è offerta dalla composizione in formelle, in bicromia, realizzata nella seconda metà degli anni Trenta da Domenico Rambelli e degli allievi dell’Istituto statale d’arte di Faenza in ceramica. In questo caso le icone del rapporto fra “Terra del Duce” e nazionalismo italico ci sono tutte, dalla via Emilia fino al fiume Rubicone e all’Arco di Augusto di Rimini per tessere il lega-me con la romanità antica, le città del territorio, la tomba di Dante a Ravenna, il sarcofago del “precursore” del fascismo Alfredo Oriani a Casola Valsenio, l’a-la dell’eroe della Grande guerra Francesco Baracca a Lugo e la Casa natale di Benito Mussolini a Predappio (poi sostituita, nel secondo dopoguerra, con una cornucopia). Le parole di Dante e Pascoli fregiavano il quadro con la purezza della lingua italiana42.

Lo scoppio della Seconda guerra mondiale e l’ingresso dell’Italia nel conflitto

39 Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, C.o., B. 479. F. 184867, “Predappio. Visita di S.E. il Re Imperatore”. Sulla visita del Re Vittorio Emanuele III a Forlì e Predappio Nuova si veda anche il Cinegiornale “Forlì - La visita di Vittorio Emanuele III “, 15 giugno 1938, Istituto Luce, Archivio Storico, B. 1322.40 “Il Popolo di Romagna”, 22 ottobre 1938, Visita di Umberto II. Si veda, anche, Istituto Luce, Ar-chivio Storico, B. 1398, “Forlì. La visita del Principe di Piemonte a Forlì” cinegiornale del 26 ottobre 1938.41 La Terra del Duce, Roma, Capriotti, 1941, p. 1.42 Roberto Balzani, La Romagna, Bologna, Il Mulino, 2012.

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modificarono radicalmente il clima nel paese e determinarono un brusco rallen-tamento dei pellegrinaggi, culminato con la cessazione vera e proprio. Rimane-vano i luoghi e i simboli. Proprio dalla Romagna, nel settembre 1943, Mussolini tentò, una volta rientrato dalla Germania dopo la liberazione dalla prigionia sul Gran Sasso, la costruzione di un regime fascista in chiave repubblicana alleato della Germania di Hitler. Le prime riunioni di quello che sarebbe diventato il Governo della Repubblica sociale italiana si svolsero nel Castello di Rocca delle Caminate, ovviamente a faro spento per ragioni di carattere bellico, e in Roma-gna il duce cercò di ritagliarsi uno spazio di indipendenza che né i nazisti, né le formazioni della Resistenza gli concessero. Dopo alcuni mesi trasferì il quartier generale sul lago di Garda e la Romagna divenne, con l’occupazione tedesca, la costruzione della Linea Gotica e il passaggio del fronte una delle principali zone di guerra nello scacchiere europeo. Gli ultimi tasselli a crollare della “Terra del Duce” furono proprio i simboli, a cominciare dall’enfasi della propaganda allea-ta alla conquista delle città: Rimini, Cesena, Forlì, Ravenna, Faenza. Il colpo più grosso lo riservò ovviamente a Predappio, definita “La Mecca del fascismo” dagli ufficiali del Secondo Corpo d’Armata Polacco che la liberarono insieme ai parti-giani dell’Ottava Brigata Garibaldi. Era il 26 ottobre quando entrarono in paese ma aspettarono due giorni per annunciare la liberazione, anche perché l’evento avrebbe coinciso, segno del destino, con l’anniversario della Marcia su Roma. Il fascismo aveva rimodellato l’immagine della Romagna secondo un indirizzo nazional-mussoliniano funzionale a un progetto di comunicazione politica che nell’arco di un paio di anni, con la disfatta del regime, i drammi della guerra e la nascita della Repubblica, quella idea si sarebbe trasformata in imbarazzante eredità politica. E su gran parte di questo territorio calò quello che Giorgio Bocca avrebbe definito «il complesso del dittatore»43.

Da dove ripartì la Romagna travolta dalla guerra nel fare i conti con la pro-pria identità? Riprendiamo il percorso dall’idea di Romagna pre-fascista che si era interrotto con la chiusura del “La Piê” nel 1933. E ripartiamo dal suo regista, Aldo Spallicci la cui avversione al fascismo, maturata nel modo che si è detto, aveva determinato il trasferimento a Milano, l’applicazione a suo carico di mi-sure di controllo e restrizione della libertà, infine anche confino e reclusione. Furono proprio il suo ruolo assunto nella Resistenza e l’elezione all’Assemblea costituente del 2 giugno 1946, nelle fila del Partito repubblicano, che contribu-irono, nel secondo dopoguerra, alla ripresa di quella identità di Romagna, coi suoi simboli, benché in ambito di dibattito per la Costituzione la sua realtà regio-nalistica non ottenne formale riconoscimento. Sotto le macerie era sopravvissu-ta l’identità romagnola nata dal “sentire” dei soldati nelle trincee della Grande

43 Giorgio Bocca, Miracolo all’italiana, Milano, Avanti, 1962.

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guerra. La Caveja ritornò ad essere considerato un simbolo condiviso, nonostan-te la “grande trasformazione” degli anni Cinquanta, con l’avvento del trattore al posto del traino animale, ne stava decretando la fine come strumento di lavoro. Altrettanto avvenne con “La Piê” alla quale fu rinnovato un ruolo di alta rappre-sentanza. Sia in qualità di rivista, che riprese la pubblicazione, sia come piatto. Tanto che il 16 giugno 1952, quando il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi giunse in visita ufficiale a Forlì, all’ingresso della manifestazione fieristica de-nominata “Primavera Romagnola” venne accolto con un caloroso abbraccio di popolo e un benvenuto a base, appunto, di piadina romagnola44.

Intanto un profondo cambiamento si stava preparando anche per la Roma-gna con il tramonto definitivo di quel mondo rurale che se nel censimento del 1951 vedeva la maggior parte della popolazione attiva impegnata in agricoltura, già dieci anni dopo cominciava a prendere atto del proprio ridimensionamento strutturale. La Romagna della Caveja e della “La Piê”, pur mantenendo i suoi simboli, avrebbe assistito a una nuova rimodulazione che al di là dei circuiti cul-turali e politici si diffuse grazie a due medium di forte impatto popolare: ancora la musica ma questa volta con la nascita di una nuova tradizione folcloristica rappresentata, in prima linea, dal maestro Secondo Casadei e dalla canzone “Ro-magna Mia”, lanciata nel 1954; la nascita nella riviera romagnola, dai lidi Raven-nati a Cattolica, di un distretto della villeggiatura estiva e del divertimento con le vacanze di massa. L’idea di Romagna nella giovane Repubblica italiana venne declinata nella nuova versione di “Terra dell’ospitalità”45 che oltre ad esorcizzare il pesante apparato simbolico del fascismo, molto bene si prestò alle dinamiche di carattere economico e imprenditoriale della nascente società dei consumi.

44 Mario Proli, Luigi Einaudi a Forlì: il primo Presidente in visita alla città, in “Il Melozzo”, n. 2, 2012.45 «Si chiama Bertinoro e sorge nella grassa e generosa terra di Romagna, il paese dell’Ospitalità»: iniziava con queste parole il filmato della Settimana Incom del 4 settembre 1959, Archivio Istituto Luce, La Settimana Incom, 01812, 04/09/1959, Cronaca con l’obiettivo.

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Benito Mussolini a Forlì in visita ufficiale da presidente del Consiglio dei Ministri, apri-le 1923 (Biblioteca comunale di Forlì, Raccolte Piancastelli, A. 23).

Trittico della Romagna, 1924. L’artista riminese Gino Ravaioli realizzò questa grande opera a tempera su tela per il Museo etnografico. I simboli della Romagna contadina, dalla Caveja che sormonta la scena in alto a sinistra fino alle tele stampate sui bianchi bovini di razza romagno-la, sono rappresentati insieme ai prodotti delle campagne, ai monumenti delle città e al fiume Rubicone che sgorga nell’allegoria in basso a destra. Ora l’opera è esposta ai Musei di Palazzo Romagnoli di Forlì nella sezione “La grande Romagna”.

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La nuova e monumentale stazione ferroviaria di Forlì inaugurata nel 1927.

30 agosto 1925, cerimonia di fondazione di Predappio Nuova.

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La campagna romagnola fece da quinta naturale alle fotografie del duce impegnato nei lavori rurali e in posa insieme ai suoi familiari.

Mussolini visita una industria romagnola.

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La vita di Arnaldo (Mussoli-ni) in versione racconto per l’infanzia.

Rudere del castello di Rocca delle Caminate pri-ma della ri-strutturazione avvenuta ne-gli anni Venti.

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Ingresso del castello di Rocca delle Caminate con in alto, sulla torre, il faro tricolore.

La Romagna “Terra del Duce” identifi-cata con i simboli delle città e del territorio nell’o-pera realizzata da Domenico Ram-belli e dagli allievi dell’Istituto statale d’arte di Faenza. Immagine tratta dal libro di Roberto Balzani, Romagna, Bologna, Il Mulino, 2012. Foto Liverani.

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Raffigurazione artistica della Provincia di Forlì presente nella Sala d’onore della Prefettura di Forlì. L’opera è datata 1940, anno in cui veniva completata la nuova sede prefettizia prima ospitata nel Palazzo comunale, e venne realizzata da Gianna Nardi Spada. Nella rappresenta-zione dei luoghi, oltre ai monumenti storici di città e paesi, sono presenti alcuni simboli tipici della iconografia propagandistica (Arco di Augusto di Rimini, sorgenti del Tevere a Verghe-reto, Collegio Aeronautico a Forlì, i luoghi predappiesi e il castello di Rocca delle Caminate) oltre a testimonianze dell’epoca (ombrelloni e mosconi sulla piaggia, colonie marine, automo-bili, treni). Nel territorio ravennate, muto, si riconoscono ugualmente le saline di Cervia e un tratto di Pineta. Foto Fabio Blaco.

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Copertina della guida La Terra del Duce, Roma, Capriotti, 1941.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 345-360

Introduzione

È noto che nel progetto ideologico fascista di irreggimentazione della società italiana la scuola fu chiamata a svolgere una funzione essenziale.

I due interventi più noti del governo fascista in materia scolastica furono senz’altro la serie di regi decreti che vanno sotto il nome di Riforma Gentile, del 1923, e la Carta della Scuola di Bottai, del 1939. Ma che l’attenzione dedicata dal fascismo all’istruzione sia stata enorme, risulta meglio da una, per quanto som-maria, analisi quantitativa. Innanzitutto c’è una vistosa mole di pubblicazioni dell’epoca su questo tema; ma soprattutto è confermata dal grande numero dei provvedimenti di varia natura che le sono stati dedicati: durante i circa vent’anni di vita del regime i suoi nove ministri della Pubblica Istruzione (poi Educazione nazionale) vararono oltre 3.500 leggi e decreti sulla scuola, di cui quasi 2.500 nei soli otto anni che vanno dal novembre 1922 al dicembre 1930. A questa impo-nente opera legislativa sono da aggiungere i decreti del Ministero dell’Economia nazionale, competente per le scuole professionali fino al 1928, nonché i numero-si regolamenti e le circolari di entrambi i dicasteri, tanto che nessun altro campo della politica statale è stato così intensamente coltivato.

La fascistizzazione della scuola avvenne sostanzialmente su tre piani: il con-trollo e il disciplinamento degli insegnanti, l’integrazione di alunni e studenti nelle organizzazioni giovanili del partito e l’ideologizzazione dei programmi di insegnamento anche attraverso il controllo dell’editoria e dei libri di testo.

D’altronde non era forse «Libro e moschetto fascista perfetto» uno degli slo-gan più popolari del fascismo? Anche se oggi a noi il binomio suona ossimorico,

ScuolaALBERTO GAGLIARDO

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esso tuttavia rende ben chiara la funzione che la cultura (leggi “scuola”) ebbe nel progetto di pedagogia della nazione: la creazione di un nuovo tipo di italiano ag-gressivo e bellicista, docile strumento utile alla mitopoiesi velleitaria del regime.

Ma cosa accadde veramente “dentro” le scuole italiane, nella vita delle sin-gole istituzioni scolastiche? come avvenne, e tramite quali “mediazioni”, se vi fu, la loro fascistizzazione? come fu riconvertita la presenza del mondo scolastico nella società locale? fu vera o solo presunta l’impermeabilità della scuola – so-prattutto quella di tradizione classica, umanistica e liberale – rispetto alla ideo-logizzazione e all’irreggimentazione perseguite dal fascismo?

Per molti anni, infatti, negli studi è prevalsa la vulgata storiografica secondo la quale la scuola italiana sia rimasta sostanzialmente impermeabile alla pe-netrazione dell’ideologia fascista, sintetizzata nell’abusata formula defeliciana di una fascistizzazione semplicemente «di parata»1, secondo la quale la scuola conservò la sua matrice critica e umanistica che la immunizzò dalle pose grot-tesche e volgari del regime. Ma questa lettura, che denuncia un evidente debito col paradigma interpretativo crociano del fascismo come parentesi, rischia di condurre all’assoluzione di ogni comportamento compromissorio della scuola italiana, coerentemente con la tendenza in atto alla «defascistizzazione retroat-tiva» di cui ha parlato Emilio Gentile.

Tale tesi, invece, non ha retto all’urto delle ricerche più recenti, che hanno mostrato come tale vulgata consolatoria sia stata frutto di un’autoassoluzione collettiva della scuola italiana, la quale invece ha aderito, se non con intima convinzione, certo in maniera supina e acritica.

E a determinare tale inversione di rotta nel giudizio sul coinvolgimento della scuola italiana con l’ideologia fascista sono stati quegli studi che hanno scavato negli archivi delle singole scuole o hanno fatto ricorso a materiali prima negletti (quaderni, registri, tabelloni, cancelleria, riviste, programmi radiofonici, ecc.) che spesso hanno dato voce a chi non l’aveva avuta (studenti e insegnanti), al di fuori delle parole ufficiali, rituali o celebrative.

Su questo solco è stata svolta una ricerca nell’archivio del ginnasio-liceo “Vin-cenzo Monti” di Cesena, con la quale si provano qui a rileggere alcuni aspetti centrali di questa “grande storia” attraverso un esemplare “caso di studio”2.

1 Renzo De Felice, Mussolini il fascista, II, L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Torino, Einaudi, 1968, pp. 345-47. L’interpretazione è stata riproposta anche in altri studi più recenti: cfr. Mi-chel Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1981; Marcello Dei, Colletto bianco, grembiule nero, Bologna, Il Mulino, 1994; Giovanni Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1998.2 Per un approfondimento dei temi qui affrontati, l’autore rimanda ad alcune sue precedenti pub-blicazioni:La scuola in camicia nera. La fascistizzazione della scuola italiana nella storia del Liceo Classico di Cesena, prefazione di M. Ridolfi, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2005; Arredi e decorazioni scolastiche;

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E dall’indagine emerge quali potessero essere i meccanismi di persuasione, dai più tradizionali a quelli moderni, utilizzati da uno Stato che ambiva a cre-are un sistema totalitario, e attraverso quali condizionamenti – amministrativi, professionali, culturali, psicologici – sia potuta scaturire, dal personale operan-te all’interno della scuola, una condizione di generale conformismo illiberale e intimidatorio, con una ininterrotta sequenza di figure ascrivibili alla categoria degli “intellettuali funzionari”, ligi alle direttive di regime, per di più, alla testa di un’istituzione, come quella liceale, così influente nella costruzione delle reti sociali cittadine e del senso di identità comunitario: si tenga infatti sempre bene a mente in questo excursus, che il liceo classico è stato nella storia d’Italia fino ad anni recenti il luogo dove si formava la classe dirigente del paese.

Nell’impossibilità di svolgere qui, in così breve spazio, un discorso compiu-tamente organico, si presenterà solo qualche esempio per rendere più chiari il discorso e l’approccio tenuti.

1. Cerimoniali e rituali celebrativi

A voler seguire un ordine rigorosamente cronologico, si potrebbe cominciare col dire che la presa del potere politico del fascismo coincise con la presa del potere scolastico da parte di esso. Non si allude qui alla estrema vicinanza della data del 28 ottobre 1922 con quella del varo della Riforma Gentile (6 maggio 1923), quanto piuttosto al sincronismo con cui la scuola cesenate già dall’ottobre 1925 fu chiamata a celebrare l’anniversario della marcia su Roma.

In quello stesso anno, infatti, presero a strutturasi le cerimonie commemora-tive del 4 novembre, che, sebbene non fossero state create dal fascismo, tuttavia da esso furono subito sapientemente fagocitate: la creazione dei “Parchi della Rimembranza”, i cortei marziali in divisa e con tanto di gagliardetti scolastici, le guardie d’onore ai monumenti ai caduti e il saluto alla bandiera divennero oc-casioni di autocelebrazione del regime che, nel suo progetto totalitario, tendeva ad identificarsi con la nazione tout court.

Si legga a questo proposito la circolare n. 13 del 13 febbraio 1923, firmata dal sottosegretario di Stato per l’istruzione Dario Lupi:

Cultura militare; Festa degli alberi; Grande guerra, in Gianluca Gabrielli, Davide Montino (a cura di), La scuola fascista. Istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario, Verona, Ombre corte, 2009; Gli anni della dittatura fascista (1920-1945), in Marino Mengozzi (a cura di), Il Liceo “Monti” (1861-2011), Cesena, Fondazione Cassa di Risparmio, Editrice Stilgraf, 2011, pp. 155-293.

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Poiché l’aspra e amara e sanguinosa battaglia combattuta contro il bolscevismo deve, sotto l’aspetto storico e nazionale, considerarsi come la continuazione della guerra lunga ed eroica conchiusa e suggellata epicamente con la vittoria di Vittorio Veneto; e poiché la fede che condusse al sacrificio i martiri del fascismo è la stessa fede che circonfuse di gloria l’olocausto santo dei caduti in guerra, dispongo che alla memoria delle vittime fasciste siano decretati alberi votivi dove si è già costrutto o si sta per costruire il Parco o il Viale della Rimembranza.

Ma è con la circolare n. 90 del 26 ottobre 1923, intitolata Saluto alla Bandiera e firmata dal solito Lupi, che si fa un significativo passo in avanti sulla strada della militarizzazione dell’educazione scolastica, avviata all’insegna del culto della patria e dei caduti, ma che trasformerà la scuola in uno dei luoghi privilegiati per l’insegnamento dei dogmi e la pratica dei riti del culto del littorio: «Ad eliminare ogni possibile dubbio, chiarisco oggi che il saluto prescritto non può essere altro che quello nel quale rivive la nobile bellezza e la serena potenza della nostra tradizione, quello che meglio dice la cortesia, la dignità, il virile rispetto alla au-torità della legge: e cioè il saluto romano».

Inutile sottolineare che le circolari del preside del “Monti” e le cronache gior-nalistiche cittadine confermano la zelante attuazione delle disposizioni ministe-riali.

L’etica della guerra e quella della violenza, quindi, dagli anni Venti divenne-ro nell’Italia fascista (a differenza degli altri Stati europei, dove la memoria del conflitto era stata coltivata senza essere piegata ad un uso politico nel presente), con la trasformazione in regime, due degli elementi fondanti la pedagogia poli-tica e sociale del nuovo Stato.

Altro aspetto su cui vale la pena porre attenzione è il ricorso alla massiccia diffusione dell’icona del capo, secondo un progetto di personalizzazione della politica e di spregiudicato uso dei linguaggi del corpo, che facevano allora le prime prove in una società che scopriva la sua dimensione di massa. Mussolini aveva compreso infatti, a differenza degli esponenti della classe dirigente libe-rale, l’importanza della fisicità nei codici della comunicazione, intuendo come nella politica moderna l’essenza del messaggio risiede meno nel suo contenuto che nel modo in cui viene trasmesso.

A tal proposito sarà interessante vedere come, il 27 maggio 1926, il preside del liceo cesenate si rivolse al commissario regio del municipio pregandolo «di avere la cortesia di concedere anche a questo istituto scolastico almeno due ritratti di S. E. Benito Mussolini, uno per l’ufficio di presidenza e l’altro per la sala degli Insegnanti. Sarebbe desiderabile collocarne uno per ogni aula scolastica; ma, per ora, non oso domandarlo, trattandosi di una spesa non indifferente»3.

3 Archivio di Stato sez. di Cesena, Archivio storico del Comune di Cesena (d’ora in avanti Asc), Titolo

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Attraverso il topos retorico della preterizione il preside si metteva in buona luce presso le istituzioni fasciste cittadine mostrandosi ossequiente ammiratore del capo del governo (tanto da andare ben oltre le richieste di due soli ritratti), e contemporaneamente attento alle esigenze finanziarie dell’amministrazione.

Ma quello che qui più preme sottolineare è come siamo agli inizi di quel per-corso di moltiplicazione (o metastasi) dell’immagine del capo che sarà uno dei tratti distintivi delle dittature novecentesche. Il fascismo italiano, che si situa alle origini di questa dinamica (o, se si preferisce, patologia), serve dunque allo sto-rico da laboratorio per studiare i nessi fra immagine del corpo e sviluppo del totalitarismo.

Potrà servire a confermare questa intuizione sul ruolo che ebbe il corpo del capo nella costruzione anche di una liturgia del fascismo, in una sorta di sci-volamento verso territori propri del sacro che trasformavano il corpo in vera e propria reliquia laica, il comportamento pubblico che fece seguito agli attentati subiti da Mussolini. Il 6 novembre 1925 alle ore 16 si svolse una manifestazione cittadina, cui partecipò tutta la scuola, per festeggiare lo scampato pericolo del duce. Sabato 10 aprile 1926 il preside ricordava che l’indomani «alle ore 18 vi sarà in Duomo un Te Deum di ringraziamento per lo scampato pericolo di S.E. il primo Ministro, l’On. B. Mussolini. Dovrà intervenire alla cerimonia una larga rappresentanza di questa scuola»4. Il Regio Provveditorato agli studi dell’Emilia l’11 settembre 1926 scrive ai capi d’istituto: «Ancora una volta la provvidenza, salvando la vita di Benito Mussolini, ha protetto l’Italia. La scuola italiana si strin-ge ancora più saldamente con fedeltà immutabile intorno a colui che delle for-tune della Patria è vindice e promotore. Ministero dispone che in tutti gli istituti e scuole dipendenti sia esposta la bandiera nazionale»5.

La confusione dei piani del sacro e del profano, del laico e del religioso era evidente anche nel calendario scolastico dell’epoca, che celebrava, accanto a molte date che solennizziamo ancor oggi, il 28 ottobre la marcia su Roma, il 4 novembre la vittoria, l’11 il genetliaco del re, il 20 quello della regina madre, l’8 gennaio quello della regina, il 21 aprile la fondazione di Roma, il 13 maggio l’a-scensione, il 3 giugno il corpus domini. D’altronde le pareti delle aule scolastiche d’Italia non erano forse obbligatoriamente arredate con le tre immagini della croce, del re e del duce?

Infine, sempre a questo proposito, varrà la pena ricordare che la religione cat-tolica divenne dapprima insegnamento facoltativo aggiuntivo (in forza dell’art.

IX, cat. 299, fasc. 1925-1929, 27 maggio 1926, prot. N. 523 D 1.4 Archivio del Liceo “Monti” di Cesena (d’ora in avanti Alm), Corrispondenza ufficiale a.s. 1925/1926 D-E, cat. E, cl. 6 – Circolari, avvisi, comunicazioni diverse.5 Alm, Corrispondenza ufficiale a.s. 1925/1926 D-E, cat. E, cl. 5 – Varie.

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62 del r.d. 30 aprile 1924 n. 965) e poi obbligatorio, con la legge n. 824 del 5 giugno 1930, che prescrisse l’insegnamento della religione cattolica in tutti gli istituti medi d’istruzione classica, scientifica, magistrale, tecnica e artistica, in esecuzione dell’art. 36 del Concordato di recente stipula.

Ma l’insegnamento della religione tese ben presto a travalicare dal suo esclu-sivo ambito disciplinare e tracimare negli altri, tanto che la clericalizzazione del processo educativo, cui si assistette in quegli anni, fu funzionale all’idea stessa che della scuola ebbe il regime – quando addirittura non vi fu una chiara «in-fluenza esercitata dalla Chiesa sull’applicazione della riforma». Non a caso i ri-tocchi apportati ai programmi dal ministro Fedele nel 1925 prevedevano anche una clausola secondo la quale era «necessario che gli esaminatori (e i professori nello svolgimento dei programmi) a[vessero] cura di evitare argomenti, passi di opere, discussioni, ecc., che po[tessero] ragionevolmente turbare o mettere in disagio la coscienza religiosa e morale degli alunni»6.

Da parte del clero cesenate non mancarono i segni del generoso apprezza-mento di tali politiche governative nei confronti della Chiesa e della religione cattolica: lo ricaviamo da una lettera pastorale del 1928 del vescovo Alfonso Archi (che il commissario di pubblica sicurezza inviò al prefetto della provincia), nella quale, accennando all’opera di rivalutazione religiosa da parte del gover-no nazionale, l’alto prelato esprime il

debito di riconoscenza verso un Governo, come il nostro, che non è più indifferente e non si vergogna di segnalare e riconoscere apertamente la necessità della Religione per tutti, la favorisce quindi e la viene liberando dai tanti ceppi e catene con cui era tenuta legata in passato. Vediamo infatti un cambiamento di cose in proposito che era vano sogno sperare in addietro: il dovuto posto fatto al catechismo, al Crocifisso, al Sa-cerdote, alla Religione insomma. Vediamo favorite le cerimonie religiose e domanda-te, come cerimonie civili volutamente consacrate con altrettante cerimonie religiose. Godiamo di nuove leggi e sanzioni che proteggono particolarmente la pubblica mo-ralità e tentano di strapparla a un paganesimo che rivive. Non più quindi la vergogna in questo di tempi passati; non più la noncuranza, non più il disinteressamento del Governo di ciò che è la manifestazione religiosa; non più la persecuzione e l’insipienza dell’ostracismo a Dio; non più la divisione, non più in mezzo a noi proscritto il solo fat-tore della vera fratellanza nel mondo7.

Ogni ambito della vita scolastica conobbe dunque una profonda invasione di retorica e di ideologia fasciste, ma soprattutto all’interno degli stessi insegna-

6 Monica Galfré, Una riforma alla prova. La scuola media di Gentile e il fascismo, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 247-248.7 Alfonso Archi, Lettera pastorale, Faenza, Stabilimento grafico F. Lega, 1928, pp. 18-19, in Archivio di Stato di Forlì (Asfo), Prefettura, Archivio di Gabinetto, b. 280, a. 1928, f. 40.

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menti disciplinari si attuò un’insidiosa penetrazione ideologica, la quale risul-tava senz’altro più invadente nell’ambito di alcune materie. Ad esempio il 16 settembre 1927 la commissione riunita per la scelta dei temi di dettato per l’am-missione in prima ginnasio selezionò le seguenti tracce: 1) Il sole; 2) La nostra guerra. Mussolini ferito; 3) Il contadino8. Il sorteggio decise per la terza e ci impe-disce di conoscere quale contenuto si celasse dietro la seconda, ma il solo titolo ci basta per riflettere sul fatto che Mussolini, consapevole artefice e attore della propria immagine, abilmente manipolando il mito della Grande guerra «aveva trasformato le proprie ferite di combattente volontario in altrettante stigmate dell’eroe pronto a sacrificarsi per la patria»9.

Ma persino nello svolgimento delle prove apparentemente più estranee alle logiche pervasive del regime si perseguiva lo stesso fine, anzi i documenti ci riservano significative sorprese provenienti da discipline apparentemente più “neutre”: ad esempio il 23 settembre 1926, alla prova di disegno degli esami di ammissione alla prima ginnasio, il professore «disegna sulla lavagna e gli alunni riproducono sul foglio un fascio littorio».

Neppure i problemi di matematica furono esenti dall’invasione ideologica del regime, come prova il testo del terzo problema previsto per quella medesima seduta d’esame, che recitava così: «Per fare la divisa ad un gruppo di balilla e pic-cole italiane occorrono m. 117,60 di panno nero che costa £ 25 il metro. Un terzo del panno serve per le divise delle piccole italiane ed il rimanente per quelle dei balilla. I balilla sono 70, le piccole italiane 40. Quale sarà la spesa per ogni ba-lilla? Quale sarà la spesa per ogni piccola italiana?»10. Dalla scuola scompaiono bambine e bambini, che si trasformano tutti in figli della lupa, balilla, piccole e giovani italiani, avanguardisti e simili, coerentemente con quanto avveniva nella società, dove le organizzazioni giovanili (Onb e poi Gil) provvedevano all’irreg-gimentazione della gioventù italiana, affiancando (o addirittura sostituendo) la scuola stessa nella formazione dell’uomo nuovo fascista.

8 Alm, Verbali esami di ammissione I ginnasiale, cit., verbale n° 9, settembre 1927.9 Sergio Luzzatto, L’immagine del duce. Mussolini nelle fotografie dell’Istituto Luce, Roma, Editori Riuniti, 2001, p. 11.10 Alm, Verbali esami di ammissione I ginnasiale, cit., verbale n° 10, settembre 1927. Sull’argomento si veda Gianluca Gabrielli, Maria Guerrini (a cura di), I “problemi” del fascismo. Può la matematica essere veicolo di ideologie? Immagini e documenti sull’aritmetica nelle scuole elementari fasciste, catalogo della mostra curata dall’Ibc Emilia-Romagna (s.i.d.).

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2. Oppositori

Ma se questi li possiamo considerare interventi “dolci” nella scuola, non per questo mancano gli episodi di intervento “duri”, in alcuni casi di vera e propria violenza squadrista, ad opera degli attivisti fascisti nei riguardi di quanti non si piegavano alle richieste, sia che fossero giovani studenti liceali, sia che fossero insegnanti.

Per il primo tipo ricordiamo quello che riguardò Sigfrido Sozzi, fratello mino-re del martire antifascista Gastone, che davanti al portone del Liceo-Ginnasio, da qualche attivista in camicia nera fu apostrofato in malo modo, poi strattonato infine privato dei gemelli che portava ai polsini della camicia, perché riprodu-cevano qualche simbolo “sovversivo”. Successivamente (2 maggio 1930) Sigfrido Sozzi, fu arrestato con l’accusa di aver diffuso volantini inneggianti alla festa del Primo Maggio e inviato al confino a Ponza.

Per il secondo, quello di don Giovanni Ravaglia, insegnante di religione.Il prefetto di Forlì, scrivendo al ministro dell’interno, Leandro Arpinati, nel

1932, denunciò don Ravaglia, parroco della Cattedrale, «noto per i suoi senti-menti antifascisti e per l’irrequieto spirito di fazione». Il fascio locale fece pres-sioni sul provveditorato, il quale, senza nemmeno richiedere il consenso del pre-side, espresse parere sfavorevole alla riconferma di Ravaglia, che fu sostituito da altro sacerdote11.

In effetti i rapporti del canonico col fascismo erano stati improntati a recipro-ca diffidenza, se non a vera e propria avversione, sin dagli esordi12 e per diver-se ragioni: per la sua militanza nell’ala modernista del cattolicesimo “sociale” (quella murrina, entusiasta della svolta che Leone XIII impose con la Rerum no-varum); per la sua adesione al Partito popolare durante gli anni dello scontro col

11 Giovanni Maroni, La Chiesa disciplinata di fronte al regime, in Marino Mengozzi (a cura di), Storia della Chiesa di Cesena, Cesena, Stilgraf, 1998, vol. I, tomo 2, pp. 505-506. Sulla figura di Giovanni Ravaglia si veda ancora G. Maroni (a cura di), La fede e l’intelligenza. Scritti di don Giovanni Rava-glia, Bologna, Federazione delle casse rurali e artigiane dell’Emilia-Romagna, 1987; Id., Ravaglia, Giovanni, in Francesco Traniello, Giorgio Campanini (a cura di), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, Casale Monferrato, Marietti, 1984, pp. 680-681.12 Si veda quanto scritto sul “Popolo di Romagna” del 23 novembre 1924: «Un monsignore cesenate […] va manifestando sintomi preoccupanti di una eccessiva fobia fascista. In questo stato d’anima non sa e non vuole riconoscere alcun merito al fascismo, che per lui è la quint’essenza della delin-quenza. Tutto quanto è stato fatto per la valorizzazione del principio religioso non ha che il merito di una ipocrisia e la lotta contro la massoneria è un gioco combinato tra le parti in lotta. In un pub-blico esercizio recentemente affermava che un galantuomo non può non essere tra gli oppositori del fascismo. […] È tenace nel suo odio, non vi sarebbe che un mezzo per disarmarlo. Ma il fascismo non può vantare alcun diritto per la nomina dei Vescovi. Ci onori quindi ora e sempre del suo odio, il vescovo mancato, sappia che noi del giudizio di certa gente facciamo un conto relativo, e facciamo il gesto di chi se ne frega: sputiamo» (cit. in Orio Teodorani, Comunisti a Cesena. Storie, personaggi ed eventi del Partito comunista cesenate. 1920-1975, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2002, pp. 62-63).

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nascente movimento dei fasci; per il suo impegno nell’educazione e coi giovani, culminato nella fondazione del primo reparto degli esploratori cattolici a Cese-na (da cui il conseguente scontro col fascismo allorquando questo pretese di far dissolvere l’associazionismo cattolico e scoutistico nelle formazioni giovanili di regime all’indomani della creazione dell’Onb). Persino dopo la stipula dei Pat-ti lateranensi il parroco della cattedrale cittadina mantenne un atteggiamento critico nei confronti del regime, anche in contrasto con le posizioni ufficiali delle gerarchie ecclesiastiche nazionali e locali.

Il 17 febbraio 1930 la divisione dei Carabinieri di Forlì, in risposta ad un tele-gramma «riservatissimo» del ministero dell’interno del 10 febbraio, redasse un «Elenco dei dirigenti delle associazioni cattoliche che per i loro precedenti ed atteggiamenti attuali possono considerarsi ostili al Regime ed alle organizza-zioni giovanili fasciste». «Ravaglia Don Giovanni, fu Sebastiano e fu Campanini Celeste, nato a Cesena il 25 marzo 1864» vi è descritto, tra l’altro, come «ostinato denigratore [del partito fascista] e dei suoi esponenti»13.

Accusa grave, giacché agli insegnanti di religione cattolica era richiesto dal ministero dell’Educazione nazionale di «adeguare la propria cultura al grande movimento di rinascita spirituale che il nostro paese attraversa»14. Invece parole di chiara autonomia del cattolicesimo dal fascismo erano contenute persino nel manuale scritto da Ravaglia, Armonie divine15, che egli aveva adottato dal secon-do anno16 in cui insegnò nel liceo.

Per tutti questi motivi i vertici del fascismo cesenate chiesero al vescovo citta-dino la testa del prete recalcitrante, non esitando a forzare i regolamenti dell’e-poca che, prescrivendo «semplicemente che la nomina [venisse] fatta dietro ac-cordo fra il vescovo e il capo d’istituto», non avrebbero richiesto l’intervento del provveditorato. Ma in questo modo si metteva ben in evidenza l’accelerazione impressa dal regime sul processo di controllo imposto alla cultura e alla scuola del Paese nel corso di questo decennio.

13 Asfo, Gab. Pref., b. 289, a. 1930, f. 16.14 Circolare n. 54 del 28 marzo 1929, Insegnamento religioso nelle scuole elementari.15 Giovanni Ravaglia, Armonie divine: corso completo d’istruzione religiosa, Torino, Sei, 1920. Ne esistevano diverse versioni e numerose ristampe: Armonie divine: corso d’istruzione religiosa per il ginnasio, Torino, Sei, 1932; Armonie divine: corso d’istruzione religiosa per i licei classici, scientifici, artistici e per gli istituti superiori magistrali e tecnici, Torino, Sei, 1935.16 Alm, Verbali delle adunanze consigliari [1928-1946], seduta del 7 ottobre 1931, p. 71: «si prende atto della disposizione ministeriale che rinvia alla prima decade di novembre la scelta dei libri di testo per l’insegnamento religioso.» Il 12 novembre 1931 (ivi, p. 73) monsignor Ravaglia adottò i libri di Giovanni De Luca editi dalla Sei di Torino per il liceo, e quelli di Giulio Bonatto editi dalla Marietti di Torino per il ginnasio. Nel verbale del 14 gennaio 1932 (p. 80) si dice che nel ginnasio viene sostituito il testo del Bonatto, «adottato l’anno scorso in mancanza di libri da scegliere» con i volumetti di monsignor Ravaglia.

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Ma quello dell’alunno Sozzi e dell’insegnante Ravaglia furono gli unici due esempi di esplicita “opposizione scolastica” al fascismo di cui si è trovata traccia in un ventennio.

3. Libri e programmi scolastici… in divisa

La fascistizzazione passò, ovviamente, anche per la strada dei libri di testo, che costituisce uno degli aspetti più delicati del rapporto tra dittatura e scuola, dal momento che vi si scorge bene l’invadenza del regime sin dentro le competenze più specifiche dell’istituzione scolastica.

Al “Monti” di Cesena, nella seduta del 5 giugno 1930, alle operazioni di ado-zione per l’a.s. 1930/31 si constata «che tutti i professori hanno corredata la nota delle proposte con la dichiarazione che tutti i testi sono pienamente aderenti allo spirito e all’azione del Regime» e «che preliminarmente il Collegio si è ac-certato e pronunziato positivamente circa la reale sussistenza di questa aderen-za al Regime»17. Il 7 ottobre 1931 il verbale registrò che «tutti gli elenchi dei libri presentati per l’approvazione sono forniti della dichiarazione che qui si ripete: “Dichiaro che tutti i testi da me proposti sono in perfetta armonia con l’indirizzo didattico della scuola Fascista e con lo spirito del Regime” (con la firma del prof. proponente)»18.

Il disciplinamento dei libri di testo corre parallelo alla strada dell’asservi-mento dei Nuovi programmi scolastici del 5 novembre 1930 n. 27, coi quali non si era di fronte a una delle tante rimodulazioni dei programmi ministeriali, ma anzi essi divennero ancora una volta per il regime l’occasione di interferire nella vita delle scuole: per quel che riguarda i nuovi programmi di storia, ad esempio, apprendiamo che «sostanzialmente la materia è la stessa: due o tre tesi sono state incorporate in una; è variata la dicitura di qualche altra; di nuovo non c’è che l’ultima: L’Italia da Vittorio Veneto alla Marcia su Roma ecc., Il Fascismo ecc., L’ordine corporativo»19. Come a dire che tutto il senso della storia italiana veniva

17 Alm, Verbali delle adunanze consigliari [1928-1946], p. 48.18 Ivi, pp. 70-71.19 Ibid. Anche in Economia politica fu aggiunta una “tesi” (oggi diremmo argomento o modulo o unità didattica – a seconda degli umori della fervida inventiva dei pedagogisti ministeriali), che riguardava l’ordinamento e il diritto corporativo: infatti fin dal 1928 erano stati introdotti (nelle classi inferiori) i principi dell’ordinamento corporativo, una sorta di educazione civica che partiva dalla Carta del lavoro e avrebbe dovuto educare gli italiani alla concordia di classe; ma solo nel

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escatologicamente iscritto nel segno del fascismo, nel quale essa necessaria-mente si completava e si inverava.

Ma nella torsione dei programmi scolastici finalizzata a irreggimentare la scuola italiana durante il ventennio fascista, un ruolo specifico riveste la milita-rizzazione dell’intera istituzione, che percorse strade a volte più nascoste altre volte più esplicite.

A esserne investita per prima fu la scuola elementare, giacché sin dall’autun-no del 1928, quando fu istituita la commissione per elaborare le direttive per la compilazione del libro di testo unico, Galeazzo Ciano e Italo Balbo ebbero l’incarico di occuparsi degli indispensabili contenuti militari del libro. Ma ben presto argomenti e temi militari cominciarono a penetrare anche negli altri or-dini dell’istruzione: nel 1934 (quando già si prospettava l’invasione dell’Etiopia) venne creata la carica di ispettore capo per la preparazione premilitare e post-militare della nazione (r.d.l. 20.09.1934 n. 1862), e quello stesso anno vide i primi accordi tra Gruppi universitari fascisti e Milizia, che andavano gettando le basi di un addestramento militare nell’istruzione media e secondaria.

In quell’anno furono anche approvati i nuovi programmi della scuola elemen-tare che da un lato si presentavano con una cornice di continuità con quelli del 1923, ma che in realtà ne modificavano lo spirito e la sostanza, in coerenza con ciò che nel frattempo era diventata la scuola, cioè uno strumento del regime per formare i futuri fascisti. Già in Premessa una frase di Mussolini decretava che «la Scuola italiana in tutti i suoi gradi e i suoi insegnamenti si ispiri alle idealità del Fascismo»; ma ancor più significativamente la voce conclusiva e culminante del programma di storia era dedicata a «le forze armate», evidente allusione ad un destino bellico che si apriva in continuità con gli sviluppi della recente storia della nazione20.

La svolta bellicista fu ancor più esplicita nelle scuole secondarie, per le quali fu introdotta la nuova materia Cultura militare riservata ai maschi. Così ne an-nuncia l’istituzione il ministro dell’istruzione Francesco Ercole nella circolare del 29 ottobre 1934, intitolata Preparazione militare della Nazione:

La scuola, la base più salda e la collaboratrice più efficace del regime, è chiamata dal Duce ad assolvere un nuovo, importantissimo e delicatissimo compito. In conformità delle nuove concezioni Mussoliniane della Nazione militare, basate sul principio che le funzioni di cittadino e di soldato sono inscindibili nello Stato fascista, ed in base alle nuove disposizioni sull’istruzione premilitare, resa obbligatoria per i cittadini dagli

1930 la dottrina del regime fu introdotta in tutta la fascia delle superiori, aggregata, nelle scuole umanistiche, alla filosofia.20 Enzo Catarsi, Storia dei programmi della scuola elementare (1860-1985), Firenze, La Nuova Italia, 1990.

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otto ai ventuno anni d’età, e sull’insegnamento della cultura militare introdotto nelle Scuole medie e superiori, la formula fascista, profondamente significativa, “LIBRO E MOSCHETTO” trova nella Scuola italiana, dalla elementare alla universitaria, la sua piena e pratica applicazione.

La legge istitutiva, però, è la n. 2150 del 27 dicembre 1934 (Norme sull’istruzione pre-militare), cui fece seguito, il 31 dicembre 1934, il decreto dell’Educazione nazionale n. 2152 Istituzione di corsi di cultura militare nelle Scuole medie su-periori del Regno, che faceva dell’istruzione premilitare, praticata già in seno alle organizzazioni giovanili, uno dei compiti centrali del sistema dell’istruzione pubblica. Esso dichiarava l’istruzione militare, impartita sia nell’esercito che al di fuori di esso, elemento integrante dell’educazione nazionale, fissando gli ob-blighi militari dai 18 ai 55 anni. La legge prevedeva tre livelli di formazione, che comprendevano in totale un periodo di cinque anni con 20 ore di insegnamento annuali. Il primo grado, che iniziava nella terza classe della scuola media infe-riore e durava un anno, doveva trasmettere agli alunni conoscenze sulla costitu-zione e le funzioni delle forze armate, sulla valutazione del terreno dal punto di vista militare e sulla cartografia, familiarizzandoli con gli eventi più importanti della prima guerra mondiale. La seconda fase durava due anni e iniziava per il liceo classico e per il corso superiore del conservatorio in prima classe; per tutte le altre scuole secondarie di secondo grado in seconda. Nel corso del primo anno le conoscenze teoriche venivano approfondite e ampliate con un esame compa-rativo delle Forze armate dei principali Stati moderni; mentre nel secondo anno si dovevano fornire nozioni elementari sulle armi e sul tiro, esporre i caratteri geografici e militari dei confini terrestri e marittimi dell’Italia, illustrare a grandi linee la funzione decisiva dell’Italia nel conflitto mondiale 1914-1918. Nel terzo ciclo, anch’esso biennale, gli studenti universitari dovevano trattare il problema della preparazione militare di uno Stato moderno, come si inizia, si svolge, e si risolve la guerra di oggi. Soltanto gli studenti medi e universitari in possesso di un attestato di partecipazione ai corsi, tenuti da ufficiali in servizio attivo o della riserva, potevano essere promossi o, rispettivamente, ammessi agli esami di di-ploma o di laurea.

Per le ragazze, che erano pour cause escluse dall’ambito di interesse della nuova disciplina, c’erano delle alternative rispondenti alla concezione che il re-gime aveva del ruolo della donna nella società, quali ad esempio Lavori familiari o Puericultura.

L’anno scolastico 1934-35 fu quello che vide l’introduzione nel curricolo della nuova disciplina, per la quale si dovettero approntare in tutta fretta anche i libri di testo, e solo all’inizio del 1935, cioè ad anno scolastico già avviato da mesi, vi furono le solenni inaugurazioni dei Corsi di Cultura militare nelle Scuole medie, alla presenza delle autorità civili, politiche e militari, dei capi d’istituto e delle

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scolaresche. In aule magne o in palestre adorne di tricolori, sotto lo sguardo dei due grandi ritratti del re e del duce, i presidi officiarono la liturgia presentando alla platea scolastica il nuovo insegnante della nuova disciplina, il quale prove-niva dai ranghi dell’esercito ed era stato prescelto dalle superiori autorità mili-tari e scolastiche per tali corsi.

La nuova disciplina, elevata a regolare materia d’insegnamento e di esame, equiparava gli ufficiali responsabili dell’istruzione ai membri del corpo inse-gnante: ciò significava che all’interno della scuola entravano ormai stabilmente militari in funzione di insegnanti a pieno diritto. Il cambiamento era significativo poiché ciò rendeva sfumati i confini prima ben distinti tra la scuola e la caserma, le due istituzioni cardine che avevano sostenuto il processo di nazionalizzazione delle masse. Inoltre i docenti di cultura militare divenivano i naturali referenti per numerose pratiche extra-didattiche a carattere propagandistico da tenersi nelle scuole.

La pompa magna con la quale questo nuovo capitolo della scuola fascista veniva aperto è esemplare di quanto stava avvenendo nella scuola e nella socie-tà italiane: l’annullamento della separazione tra vita civile e vita militare, oltre a denunciare l’aria di caserma che sempre più si andava respirando all’interno dell’istituzione scolastica, preannunciava quell’impegno militare crescente nella vita nazionale, che lutti immensi avrebbe portato al paese e al mondo.

Negli anni successivi, dal 21 gennaio 1935 al 15 novembre 1936, quando la Minerva fu retta dal rude quadrunviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, si accentuò tale processo di svolta autoritaria: il nuovo ministro, imprimendo alla gestione della scuola il suo piglio caporalesco, diede il suo personale contributo alla militarizzazione crescente attraverso l’istituzione del “sabato fascista” (20 giugno 1935), che, liberando tutti dagli impegni lavorativi pomeridiani, destina-va quel giorno alla preparazione politica e militare della nazione. Sono gli anni dell’avventura imperialista in Africa orientale, per cui si insiste che l’insegna-mento delle varie discipline, e in particolare quello della Storia, sia ispirato al nuovo clima imperiale e fascista; ma sono anche gli anni in cui i temi del razzi-smo cominciano a diffondersi, già prima dell’entrata in vigore di una compiuta legislazione. In tale contesto matura la pubblicazione del libro di Stato per la cultura militare.

Particolarmente efficaci per tratteggiare il nuovo clima, sembrano le parole di questo verbale di un collegio docenti d’epoca:

Oggi, 22 novembre 1938 XVII, si riuniscono i professori di questo liceo [classico “Mon-ti”]. Il Signor Preside […] indica gli scopi di questa adunanza determinata dal fine di provocare una intesa nel campo pratico e didattico ed una sempre più grande colla-borazione fra i vari insegnamenti particolarmente per ciò che concerne i punti di in-terferenza delle diverse discipline: tutto per raggiungere quell’intima unità ed armonia delle varie parti del sapere che – come secondo il più profondo spirito informatore

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delle disposizioni vigenti – è condizione imprescindibile da cui dipende la formazione spirituale dei giovani per la realizzazione di quell’ideale totalitario della vita e della cultura che è insieme l’ideale politico del Fascismo.

Tra le “interferenze” più significative sono individuate quelle tra cultura militare e storia, cultura militare e fisica, cultura militare e scienze naturali. E per questa strada tutta la nostra scuola si avviava a passo di marcia verso il decennio suc-cessivo, quello della guerra e della nuova carneficina mondiale.

Ma, come in molte manifestazioni del regime, anche nella militarizzazione degli insegnamenti non mancava una buona dose di velleitarismo se già nel set-tembre 1935 De Vecchi, constatato che la nuova disciplina non aveva dato i ri-sultati che se ne attendevano, presentò al Consiglio dei ministri una proposta di emendamento alla legge per l’insegnamento della cultura militare entrata in vi-gore solo nel gennaio precedente. Il conseguente d.l. n. 1990 del 17 ottobre suc-cessivo elevava la cultura militare al rango di regolare materia d’insegnamento e di esame, equiparando gli ufficiali responsabili dell’istruzione ai membri del corpo insegnante. Le lezioni, ora accresciute a 30 ore annuali, potevano essere impartite in linea di principio in tutte le classi della scuola secondaria. Il ministro aveva la facoltà di fissare con un’ordinanza, per ogni singolo istituto, in quale classe dovessero essere insegnati sia il primo che il secondo ciclo. I programmi inserivano l’insegnamento della cultura militare nell’ultima classe delle scuole secondarie inferiori e nelle due ultime delle superiori, mentre il terzo ciclo anda-va svolto nei primi due anni di università (r.d. 23.09.1937, n. 1711, Programmi per l’insegnamento della cultura militare nelle scuole medie e superiori). Un’intro-duzione sottolineava che tale disciplina aveva lo scopo di contribuire alla forma-zione del cittadino-soldato e di alimentare, rafforzare e rendere consapevole nei giovani lo spirito militare. Non si mirava quindi tanto a trasmettere conoscenze teoriche o capacità tecnico-pratiche, ma piuttosto alla formazione del carattere, e creare una disposizione spirituale e morale alla vita militare.

Conclusioni

Allora da questo excursus parziale e dai ridotti esempi che qui sono stati riportati si possono ricavare alcune considerazioni non sprovviste di una qualche valenza generale: ne emerge, ad esempio, che se non è possibile parlare di una intima adesione della scuola (cesenate ma non solo) alla ideologia e alla propaganda del regime, certo è evidente il suo sostanziale conformismo (se non vero e pro-

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prio asservimento), che si manifestò nella pressoché totale assenza di critica, e in tal senso fu specchio di un’epoca e di una nazione; anche per quel che riguarda l’aspetto della transizione dalla dittatura alla democrazia, le vicende scolastiche a Cesena e in Italia non si discostano troppo da quelle di altre istituzioni, per le quali il tema della continuità delle classi dirigenti repubblicane con quelle fasciste è stato ampiamente studiato. Ma, ancor più che per le altre istituzioni, colpisce che proprio la scuola abbia abdicato al suo ruolo di luogo di riflessione critica, lasciandoci in eredità l’amara constatazione che non sono l’alta cultura né la frequentazione dei classici dell’arte e del pensiero a immunizzare una so-cietà dai veleni della demagogia, della violenza, del razzismo e dell’illiberalità.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 361-372

La trattazione storiografica del sindacalismo fascista risente ancora oggi di un grave ritardo. Solo nella metà degli anni Settanta si ebbe il primo lavoro com-plessivo sull’origine dei sindacati fascisti1, e proprio in quegli stessi anni si aprì una nuova stagione di studi contrassegnata anche dall’abbandono di una lettura del sindacalismo fascista quale elemento statico all’interno degli ingranaggi del-la macchina del consenso di regime. Si comprese così che una maggiore atten-zione a questo tema di ricerca avrebbe potuto gettare nuova luce non solo sulla natura del regime ma, soprattutto, su quella dei rapporti tra questo e la società italiana nel suo complesso.

Anche grazie agli stimoli della storiografia estera, si arrivò quindi ad affron-tare il problema delle basi di massa del sindacalismo fascista andando oltre una lettura del fenomeno poggiata sul ruolo della violenza impiegata dai ras locali2 indagando, invece, i caratteri di quel consenso cosi minuziosamente costruito dal regime e riponendo anche maggiore attenzione allo studio della vita operaia nei luoghi di lavoro.

All’interno di questi, infatti, nonostante l’irrigidimento della disciplina azien-dale – introdotto dal taylorismo, perfezionato dal fordismo e quindi inquadrato nella politica economica del regime – e l’assenza di una reale rappresentanza delle istanze dei lavoratori, continuavano a prodursi e manifestarsi contrasti e tensioni tra prestatori di manodopera e datori di lavoro.

Si potrebbe dire che fu proprio questa irriducibile vitalità della classe lavora-

1 Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Bari, Laterza, 1974.2 Penso soprattutto a Paul Corner, Le basi di massa del fascismo: il caso di Ferrara, in “Italia contem-poranea”, 1974, n. 114, pp. 5-31.

SindacalismoMARCO MASULLI

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trice a rendere necessaria l’esistenza di un sindacalismo fascista relativamente “autonomo”, laddove si intenda il fascismo come un sistema policratico. Questo almeno fino alla seconda metà degli anni Venti, fino a quando cioè il ruolo del-la Confederazione guidata da Edmondo Rossoni non sarebbe stato progressiva-mente marginalizzato sotto i colpi del nuovo ordinamento statale pianificato da Alfredo Rocco.

Gli studi sul sindacalismo fascista condotti in Italia da Giulio Sapelli dimo-stravano, infatti, da un lato l’evidente subordinazione del sindacato rossoniano rispetto alle volontà padronali ma anche, da parte del Pnf, ai piani di costruzione di un modello di Stato autoritario.

Ma quegli stessi studi mettevano contemporaneamente in evidenza la “ne-cessità”, per il mantenimento dell’equilibrio del regime, di un sindacato fasci-sta che fungesse da «potente macchina di contenimento delle tensioni sociali»3. Tensioni che, evidentemente, continuavano ad essere presenti nell’Italia in corso di fascistizzazione e che, però, venivano incanalate, veicolate e a volte risolte dal sindacato ricorrendo alla retorica demagogica incentrata sul mito della col-laborazione tra le classi e, soprattutto, sottraendo spazi alle vertenze collettive a vantaggio di quelle individuali sfruttando quella tollerata e gestita “autono-mia” di cui godeva.

Accanto a questa evoluzione prospettica, in Italia, anche il dibattito storiografi-co sulle origini e la natura del sindacalismo fascista è stato per un lungo periodo, per ovvie ragioni, particolarmente condizionato da un approccio storico militante.

Nella produzione scientifica, almeno fino agli anni Ottanta, si potevano chia-ramente scorgere i tratti di quella che sarebbe diventata una classica – e mai del tutto risolta – contrapposizione tra “paradigma antifascista” e “revisionismo” de-feliciano4. Ma, accanto a quei tratti, emergevano anche quelli di un appassionato conflitto tra storici impegnati in un’opera di critica alle strutture partitiche della Sinistra e quelli, invece, decisamente inclini ad impedire una delegittimazione del ruolo della politica a vantaggio, tra l’altro, del ruolo del sindacato in Italia5.

3 Giulio Sapelli, Per la storia del sindacalismo fascista: tra controllo sociale e conflitto di classe, in “Studi storici”, 1978, n. 3, p. 655.4 Cfr. Alberto De Bernardi, Il sindacalismo fascista: un problema storiografico aperto, in Maurizio Antonioli, Luigi Ganapini (a cura di), I sindacati occidentali dall’800 ad oggi in una prospettiva stori-ca comparata, Pisa, Bfs, 1995, pp. 117-124.5 Per dare un’idea generale del punto cui arrivò questo “scontro” basterà citare Alessandro Roveri che, nella sua lunga polemica con Alceo Riosa, spiegò in questi termini la situazione: «in questi ultimi anni è accaduto in sede storiografica che una certa ostilità pregiudiziale verso il partito co-munista italiano […] abbia giocato un tiro mancino a svariati studiosi del movimento operaio o del fascismo che si sono occupati del sindacalismo rivoluzionario italiano. I loro accenni a quest’ultimo hanno infatti risentito della loro sostanziale accettazione del “preambolo” anticomunista […] e del corollario che ne è derivato: la funzione succedanea del sindacato quale portatore di istanze politi-che di rinnovamento, in luogo del partito» (Alessandro Roveri, Il problema storico del sindacalismo

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Fu, del resto, proprio a partire da contrasti interni agli ambienti della Sinistra e, in particolare, dalla crisi del radicalismo politico marxista – già in corso dagli anni Sessanta – che si iniziò a prestare attenzione alle correnti minoritarie del socialismo e del movimento operaio. Esse davano la possibilità di spostare anche sul piano storiografico questioni che animavano il dibattito politico quotidiano.

In questo contesto, uno dei temi di ricerca che maggiormente trasse beneficio dal nuovo clima fu, per l’appunto, il sindacalismo rivoluzionario. Non fu affatto un caso, come notava Massimo Bertozzi, se le carenze e i pregiudizi che avevano fino ad allora condizionato l’approccio storiografico ad esso fossero «andate di-radandosi proprio nel corso degli anni Sessanta, nel momento in cui, superando la sconfitta degli anni Cinquanta, la classe operaia italiana tornava prepotente-mente ad occupare la scena politica»6. Non fu un caso, soprattutto se si connetto-no i caratteri della svolta che interessò il movimento operaio italiano nel biennio 1968-69 a quelli che si estrassero dallo studio del movimento sindacalista rivolu-zionario, generalmente individuati nel «senso di autonomia e nel protagonismo delle masse»7. Tutto questo, naturalmente, benché il sindacalismo rivoluzionario fosse – dicendolo con Alceo Riosa – «un fenomeno storico esaurito in se stesso».

Da un lato, quindi, l’interesse per il sindacalismo fascista e dall’altro una “rivo-luzione storiografica” riguardante lo studio del socialismo e del movimento ope-raio. Questi due tronconi di ricerca si sarebbero presto incrociati in un dibattito volto a tentare di risolvere gli interrogativi sul rapporto tra sindacalismo fascista e quello rivoluzionario.

A pesare erano le evidenti affinità tra sindacalismo e primo fascismo già a par-tire dall’utilizzo di un linguaggio politico molto simile. Rilevante, in questo sen-so, quel fraintendimento gravitante intorno al costante richiamo dei sindacalisti dell’azione diretta al ruolo delle minoranze attive. Formula che, effettivamente ripresa dal fascismo, spesso bastò, come nota la studiosa Andreina De Clementi

a renderla, agli occhi degli storici, una sorta di rivelatore dell’aristocratismo sindaca-lista e di un disprezzo per le masse disorganizzate – ma che invece – era in realtà una variante giacobina della teoria delle élites […] la minoranza attiva era intesa come agente propulsore di un risveglio morale e di un’autocoscienza collettiva che l’avreb-bero reso progressivamente superflua8.

fascista, in Maurizio degl’Innocenti, Paolo Pombeni, Alessandro Roveri (a cura di), Il Pnf in Emilia Romagna. Personale politico, quadri sindacali, cooperazione, Milano, FrancoAngeli, 1988, p. 131.6 Massimo Bertozzi, Introduzione, in Id. (a cura di), Il sindacalismo rivoluzionario. Quale approccio storiografico? Atti della tavola rotonda, Carrara, 24 marzo 1978, Pisa, Pacini, 1980, p. 4.7 Ivi, p. 73.8 Andreina De Clementi, Politica e società nel sindacalismo rivoluzionario 1900-1915, Roma, Bul-zoni, 1983, pp. 19-20.

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A rinsaldare quel rapporto, però, si aggiungevano i fin troppo noti e numerosi episodi di adesione di sindacalisti rivoluzionari – provenienti tanto dalla base militante quanto dai vertici del movimento – al fascismo. E furono proprio queste evidenze a dimostrare la necessità di porre attenzione a questo tema, tendendo in un primo momento ad escludere o marginalizzare il ruolo ed il peso dell’anar-cosindacalismo.

Arrivare oggi, anche in assenza di studi complessivi su tale tema, ad una spie-gazione del fenomeno appare notevolmente difficoltoso ed ovviamente non è l’obiettivo che si prefigge questo breve intervento. Ma questa consapevolezza non cambia il giudizio sull’insoddisfacente ricorso a interpretazioni del sindaca-lismo rivoluzionario quale mero precursore di quello fascista o, peggio, all’utiliz-zo delle categorie dell’“opportunismo”, del “tradimento” o, ancora, della “adesio-ne personale” per spiegare i casi di transfughismo.

Non occorre soffermarsi oltremodo sul fatto che tra gli storici che più insi-stentemente hanno messo in evidenza i legami tra esperienza sindacalista e fa-scismo, ci fossero quelli che più convintamente negavano contemporaneamente la possibile “contaminazione” sindacalista anche in campo comunista9. Ammet-terla, infatti, avrebbe di fatto causato lo sgretolamento di quegli automatismi interpretativi.

Interpretazioni che paiono elusive di un problema storico più profondo, che affonda le proprie radici nelle radicali trasformazioni che investirono la società e la politica europea fin dal primo dopoguerra.

Innegabili, quindi, le collusioni tra il sindacalismo rivoluzionario e quello fa-scista. Anzi, più si indaga sul fenomeno e più si potranno portare evidenze stori-che a loro dimostrazione. Evidenze non volte a stabilire una diretta emanazione del sindacalismo fascista – se non addirittura del fascismo stesso – da quello rivoluzionario ma che aiutano, piuttosto, a dimostrare la necessità di studiare il fenomeno del transfughismo nella sua peculiarità, evidenziandone insieme gli elementi di profonda rottura e i caratteri di continuità con tradizioni ed espe-rienze politiche precedenti.

Non convince ormai da tempo la visione di un fascismo quale elemento di radicale rottura con il passato, lettura questa che giustificherebbe un approccio al problema del sindacalismo fascista improntato sulle personalità di spicco10 e alla loro capacità di imporre dall’alto scelte radicali anche nei confronti di sog-getti non estranei all’agone politico e sindacale dell’epoca e, soprattutto, forma-tisi in ambienti socialisti.

9 Alceo Riosa, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia e la lotta politica nel Partito socialista dell’età giolittiana, Bari, De Donato, 1976, p. 9.10 Michael Arthur Ledeen, L’internazionale fascista, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 2.

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Ammettere, invece, che tali scelte furono il frutto di una scelta influenzata sì da spinte individuali ma – dato il numero elevato di casi – determinato insieme da influenze precedenti e da un clima generale profondamente mutato a partire dal primo dopoguerra, deve significare includere nella trattazione biografie mi-nori, traiettorie umane e politiche controverse da inserire nel rimescolamento di carte che investì il campo dell’economia, dei modelli produttivi e, quindi, della rappresentanza sindacale.

Come già accennato, inoltre, il dibattito ha di fatto escluso da questo tema l’area anarcosindacalista che dal periodo della segreteria Usi affidata a Borghi sarà considerata estranea, o toccata in misura minore, dalla diaspora politica di militanti verso il fascismo.

È ancora Alessandro Roveri, studioso del sindacalismo rivoluzionario italia-no, ad escludere categoricamente che quelle «preesistenti tendenze comuni che spinsero – già dal 1914-15 – i sindacalisti rivoluzionari e Mussolini nelle braccia gli uni dell’altro» potessero in qualche modo riguardare anche gli anarco-sinda-calisti11. Per lo storico, infatti, l’interventismo servì da netto spartiacque tra sin-dacalismo rivoluzionario e anarco-sindacalismo. E tra di essi il primo presentava già in nuce dei caratteri che preconizzavano il suo assorbimento nel fascismo, stabilendo quindi un legame di quasi inevitabile continuità tra i due. Continuità che, per alcuni storici, andrebbe estesa fino ad includere in questo discorso l’ade-sione di molti intellettuali sindacalisti all’impresa coloniale in Libia12.

Tuttavia, se non si può né si vuole negare l’importanza cruciale che l’interven-tismo rappresentò per le sorti del sindacalismo rivoluzionario13, dall’altra parte non si può affermare che la scelta antimilitarista impedì di per sé ad esponenti dell’anarcosindacalismo italiano di cadere poi, per così dire, “tra le braccia” del fascismo.

In questa occasione, ci si limita a citare a titolo di esempio il percorso biogra-fico di Loris Brasey, nato a Cesena l’8 luglio 1899, di professione falegname14. Al

11 Roveri, op. cit., p. 126.12 Alceo Riosa, Momenti e figure del sindacalismo prefascista, Milano, Unicopli, 1996, p. 63.13 Tullio Masotti descriverà così, nella sua celebre biografia di Filippo Corridoni, questo rappor-to con l’interventismo: «Il sindacalismo rivoluzionario, portando il suo contributo decisivo alla de-terminazione dell’Italia nell’intervento nella guerra, salvò l’onore dei lavoratori italiani e gettò le premesse in virtù delle quali l’organizzazione del lavoro è oggi […] elemento fondamentale dello Stato corporativo – e aggiunge – In questo senso soltanto può essere affermata la derivazione del movimento sindacale fascista dal vecchio sindacalismo rivoluzionario» Tullio Masotti, Corridoni, Milano, Carnaro, 1932, p. 76.14 Su Loris Brasey cfr. Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi Asbo), fondo Questura, cat. A8, b. 8 fasc. “Loris Brasey”; in Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi Acs), Casellario politico centrale (Cpc) b. 824, fasc. “Loris Brasey”; Dizionario biografico degli anarchici italiani, diretto da Maurizio Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele e Pasquale Iuso, 2 voll., Pisa, Bfs, 2003-2004, ad vocem.

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cenno biografico della Prefettura di Bologna dell’agosto 1917, Brasey risulta es-sere un attivo militante anarchico appartenente all’Unione Anarchica Emiliano Romagnola e al Fascio libertario anarchico bolognese, animato da «sentimenti antibellici e antimilitaristi; intollerante di qualsiasi principio di autorità, convinto della necessità di un’azione popolare violenta per abbattere le istituzioni»15. Nel 1918 Brasey è chiamato alle armi ma la sua indole emergerà chiaramente quan-do nel novembre dello stesso anno viene condannato, con sentenza del Tribu-nale di Guerra della Maddalena, a «5 anni di reclusione militare […] per insubor-dinazione con vie di fatto verso un superiore caporal-maggiore». Lo ritroviamo poi a Bologna16 quando, dispensato dal servizio militare per malattia, gli viene assegnata direttamente da Armando Borghi la segreteria amministrativa della CdL di Verona dalla quale, però, già nel 1921 si distaccherà in seguito a contrasti sorti con il segretario politico Nicola Vecchi, noto a sua volta anche per le posi-zioni di minoranza espresse in favore dell’adesione dell’Usi alla III Internaziona-le e all’Isr17. Nel 1922, dai rapporti di polizia, emerge quindi il suo allontanamen-to dall’attività politica, pur continuando a «professare principi anarchici»18. Da questo momento una apparentemente improvvisa svolta: Brasey, dopo essersi iscritto al Pnf, inizia una scalata che lo poterà a ricoprire incarichi di primo piano nelle organizzazioni sindacali fasciste di tutta Italia.

Trattandosi di una vera e propria diaspora, i percorsi di questi transfughi sono però diversificati, a volte del tutto imprevedibili, e sembrano interessare spe-cialmente la generazione di sindacalisti nati intorno agli anni Novanta: alcuni di loro rimasero fedeli al regime, un esempio oltre a Brasey è quello dell’imolese Giovanni Baldazzi19 (1883), altri tornarono sui propri passi sposando la causa an-tifascista, come nel caso del “transfughismo interrotto” di Gino Coletti20 (1893).

Ci sarebbero, quindi, gli elementi per riaprire il dibattito partendo da orienta-menti di ricerca che coinvolgano l’aspetto generazionale e, quindi, le biografie di militanti (anche “minori”). Fare questo con la consapevolezza dell’inutilità di una

15 Cenno biografico al giorno 20 agosto 1927, in Archivio di Stato di Bologna, fondo Questura, b. 8 fasc. “Loris Brasey”.16 Sulla presenza anarchica nel sindacalismo bolognese di quegli anni si veda anche: Antonio Senta, L’altra rivoluzione. Tre percorsi di storia dell’anarchismo, Bologna, Bradypus, 2016, in particolare pp. 179-196.17 Cfr. Fabrizio Giulietti, Gli anarchici italiani dalla Grande Guerra al fascismo, Milano, FrancoAngeli, 2015, pp. 65-66.18 Cenno biografico al 23 gennaio 1922, in Asbo, fondo Questura, b. 8 fasc. “Loris Brasey”.19 Su Giovanni Baldazzi cfr. Asbo, fondo Questura, cat. A8, b. 2 fasc. “Giovanni Baldazzi”; Acs, Cpc, b. 268, fasc. “Giovanni Baldazzi”; Dizionario biografico degli anarchici italiani, cit., ad vocem.20 Su Gino Coletti cfr. Acs, Cpc, b. 1403, fasc. “Gino Coletti”; Dizionario biografico degli anarchici italiani, cit., ad vocem.

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riduzione della ricerca ad una semplice somma di casi individuali. È, piuttosto, necessario legare queste evidenze biografiche ad altre considerazioni di natura più generale, ad oggi storiograficamente affrontate tendendo a privilegiare un elemento a svantaggio di un altro e che, invece, solo se tenuti insieme possono aiutare a fornire una spiegazione del fenomeno.

Andrebbe, ad esempio, indagato il peso rivestito in questa “diaspora” dalla cri-si dell’internazionalismo socialista e operaio e, di contro, il faticoso e contrastato costituirsi di un progetto internazionalista di tipo fascista animato, non a caso, specialmente dalle correnti rivoluzionarie e da giovani aderenti al fascismo21.

Emblematiche, in questo senso, sono le parole che Alceste De Ambris – figura di spicco del sindacalismo parmense che, andando oltre il percorso personale del suo leader, non a caso fornì uno dei maggiori contributi in termini di resisten-za all’ascesa del fascismo – rivolge a Giuseppe Emanuele Modigliani nel 1927 quando, ormai intrapresa la scelta antifascista e diventato apolide, richiede l’i-scrizione al Partito socialista unitario dei lavoratori italiani.

In questa lettera di De Ambris a Modigliani – e riportata nell’importante lavo-ro di Serventi Longhi dedicato alla figura di De Ambris – il sindacalista fornisce un elemento di utilità nell’analisi del fenomeno del transfughismo. Modigliani, infatti, rifiuta di fatto la richiesta d’iscrizione al Psuli di De Ambris a causa del suo ingombrante passato, dal quale si sarebbe largamente riscattato ma – a detta di Modigliani – non rispettando la “disciplina” socialista. De Ambris risponderà rifiutando di fare abiura del suo passato e – precisa – non per orgoglio ma perché quel «passato pieno di errori e delle colpe di tutti, che hanno reso possibile il trionfo del fascismo» egli lo aveva ucciso in se stesso22. E quindi è lecito doman-darsi – andando oltre le possibili interpretazioni sul singolo caso – se quel suo riferimento a “tutti” non debba far riflettere sulla gravità dell’impatto traumatico delle esperienze con cui si confrontò una generazione maturata nelle trincee e che, per la prima volta, si confrontava con lo spirito della nazione e quindi, poi, con il nazionalismo. E quindi, sulla base di questa considerazione (che non “as-solve” nè “giustifica”, ma che è volta alla comprensione del fenomeno), è lecito domandarsi quali progetti, quali modelli alternativi a quello autoritario, forniva-no le forze socialiste nazionali davanti ai capovolgimenti del periodo pre e post bellico.

Limitando la riflessione all’ambito sindacale, si assisteva, infatti, da un lato al mutamento e alla momentanea disfatta dell’idea e ai progetti di internazionali-

21 Ledeen, L’internazionale fascista, cit.22 Lettera di Alceste De Ambris a Giuseppe Emanuele Modigliani, Tolosa, 19 marzo 1927, in Fondo Guastoni-De Ambris, b. 6, fasc. 12, citata in Enrico Serventi Longhi, Alceste De Ambris. L’utopia con-creta di un rivoluzionario sindacalista, Milano, Franco Angeli, 2011.

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smo operaio e socialista e dall’altro all’emersione di un nuovo modello di svilup-po economico e produttivo, e quindi di relazioni industriali, che si erano espresse nel corso della Grande Guerra e che non conquistarono solo alcune componenti del sindacalismo rivoluzionario.

In questo senso, ad esempio, si punta raramente l’attenzione sulla parteci-pazione al clima di sperimentazione corporativa – già diffusa in Europa ancor prima dell’ascesa del fascismo italiano – di una parte del gruppo dirigente della Cgl e del socialismo riformista, che sposava quel progetto di regolazione au-toritaria delle relazioni industriali sperimentato nel corso della guerra, e che accoglieva parzialmente l’idea di una preminenza dell’“interesse nazionale” su quello di classe23.

E questo, come è noto, non fu un caso isolato al contesto italiano. Anche per affrontare questo tema, quindi, andrebbe adottata un’ottica di ricerca transna-zionale in riferimento tanto all’impatto dei mutamenti generali introdotti nella società, la politica e l’economia nel periodo tra le due guerre quanto al ruolo di essi negli sviluppi interni al sindacalismo rivoluzionario.

I legami con esperienze in corso in altri paesi sono evidenti e determinanti. Mi riferisco, ad esempio, all’apporto delle teorie politiche formulate dagli am-bienti intellettuali del sindacalismo francese e concentrate specialmente sulla critica allo Stato burocratico, all’opera di revisione del marxismo in corso già dall’inizio del secolo e all’idea stessa che il sindacato (successivamente, l’unione dei produttori) dovesse rappresentare il modello di riferimento per la riorganiz-zazione dell’intera società. Questi sono tutti elementi da includere nel tentativo di spiegare più compiutamente la natura del sindacalismo fascista nei suoi punti di connessione con il sindacalismo rivoluzionario.

Un esempio italiano abbastanza eloquente è, in questo senso, il percorso biografico e politico di un altro anarcosindacalista, benché fortemente legato alla corrente individualista, come Massimo Rocca alias Libero Tancredi24. Egli fu, come è noto, uno dei principali animatori dei cosiddetti “gruppi di competenza”, creati nel 1921 all’interno della struttura del Pnf.

Tali gruppi miravano ad includere tra le fila del partito professionisti e giova-ni “creativi” e, nei piani di Rocca, avrebbero dovuto costituire in futuro un organi-smo parallelo a quello parlamentare, fondato sulle competenze tecniche. Un’oc-casione, quindi, per tentare di sostituire nel tempo il vecchio e odiato sistema di rappresentanza politica con uno basato sulla gestione della società affidata a chi la manteneva vitale attraverso il lavoro, ai produttori, ai “tecnici”.

23 Matteo Pasetti, L’Europa corporativa. Una storia transnazionale tra le due guerre mondiali, Bolo-gna, Bononia University Press, 2016, p. 93.24 Cfr. Dizionario biografico degli anarchici italiani, cit., ad vocem.

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La natura stessa di questo progetto consentiva, inoltre, di non aderire diretta-mente al partito. Quel progetto appariva cioè a Rocca come una valida alterna-tiva all’iscrizione al fascismo «senza alcuna ragione superiore»25 per atto, cioè, di servilismo verso il vincitore. Massimo Rocca non avrebbe trovato ulteriore posto nel Pnf, dal quale venne presto espulso per le sue posizioni revisioniste determi-nando il suo passaggio in campo antifascista.

Quel che ci interessa sottolineare in questo caso, però, è il fatto che, evidente-mente, alcuni esponenti del sindacalismo ritenessero possibile incidere concre-tamente sulle future rotte politiche economiche e sociali del fascismo della pri-ma ora. Quest’ultimo si presentava in posizione di continuità con alcuni elementi teorici e programmatici tipici del sindacalismo rivoluzionario – con il quale man-teneva, dunque, un legame ideale di tipo propagandistico – ma, contemporane-amente, riusciva a configurarsi come un elemento di rottura, di discontinuità con il passato, il che avrebbe fornito ad alcuni l’illusione di incidere sulla realtà di un paese in piena trasformazione.

A ciò si accompagnava, quindi, l’opera di revisionismo della dottrina marxista operata dal sindacalismo e incentrata sulla sostituzione dei meccanismi deter-ministici di Marx con un ruolo assoluto affidato al sindacato, alla rivoluzione economica in luogo di quella politica, creando dunque i presupposti per l’identi-ficazione nel “produttore” e non più – o non solo – nel “proletario” del protagoni-sta dell’auspicato capovolgimento radicale.

Se a questo passaggio teorico si unisce la progressiva sostituzione del model-lo di sindacato di mestiere a quello d’industria, con la conseguente immissione di una nuova figura di lavoratore nel sindacato, con un modello organizzativo in cui insita era la tendenza al centralismo, appaiono più chiari gli elementi sui quali si sarebbe poi innestato il sindacalismo fascista.

Esso pare trarre legittimazione dalla sostituzione della lotta di classe con un modello corporativo prefascista incentrato sulla necessità, insieme teorica e pra-tica, di superare le divisioni tra lavoratori riconoscendosi nella figura del produt-tore, che poteva adesso essere estesa fino ad includere addirittura i datori. Tesi, peraltro, che era riuscita a prevalere già in occasione del convegno sindacale fa-scista di Bologna del gennaio 1922 quando Michele Bianchi, in opposizione alla linea di Rossoni, sostenne l’identificazione della figura del lavoratore con quella di chiunque svolgesse «un’attività produttiva – sia datori che salariati – e subor-dinava gli interessi delle singole categorie al superiore interesse nazionale»26.

Se però – lo nota Sternhell – quello della necessità del mantenimento di un

25 Alberto Aquarone, Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in “Nord e Sud”, 1964, n. 52, pp. 109-128.26 Riosa, Momenti e figure del sindacalismo prefascista, cit., pp. 89-90.

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livello il più alto possibile di produzione è un punto su cui i sindacalisti rivolu-zionari non avevano mai mutato idea27, a porre, piuttosto, le premesse per un depotenziamento del progetto di rivoluzione economica fu il venir meno del presupposto antiborghese. E questo elemento viene espresso chiaramente da uomini come Cesare Rossi, sindacalista rivoluzionario e poi fascista, che così spiega quel crollo:

prima del maggio 1915 – e quando dico noi parlo dei sindacalisti rivoluzionari – cre-devamo che il proletariato fosse migliore della borghesia e fosse degna della sua suc-cessione. Era, invece, un’illusione, frutto di una dottrina non maturata dai fatti […] dopo pochi mesi di guerra […] ci siamo accorti che la nostra fede classista vacillava e che il proletariato poteva essere sì una parte della collettività, ma che per ora non aveva nessun requisito morale superiore alla borghesia […] queste riflessioni producevano la prima falla nel vascello del nostro credo […] ad affondarlo completamente è sopravve-nuta la rivoluzione russa»28.

Ma il sindacalismo rivoluzionario aveva già perso la sua essenza originaria quan-do, nella trasformazione in sindacalismo nazionale, esso “dimenticò”, il suo pre-supposto fondamentale: l’autonomia dalla politica. Invero, i presupposti di una tale “dimenticanza” erano insiti nel carattere del sindacalismo rivoluzionario italiano della cosiddetta “prima fase”29, le cui origini vanno cercate nella lotta interna al Psi d’inizio secolo. La prima fase, infatti, si caratterizza, tra l’altro, per l’assenza – in alcuni dei suoi esponenti principali, Labriola in primis – di una ne-gazione del ruolo del partito per l’emancipazione proletaria30. Nonostante ciò, però, il vero salto si compie solo quando alcuni sindacalisti entrano in contatto con l’altra anima del corporativismo, quella nazionalista.

La diretta filiazione del modello corporativo dal sindacalismo rivoluzionario è, quindi, per certi aspetti una forzatura sebbene evidente e rilevante sia l’impor-tanza che la confluenza di alcuni suoi militanti rivestì nel favorire il radicamento territoriale del fascismo come anche nell’assolvere a funzioni propagandistiche utili al regime.

Il sindacato fascista, ritornando a quanto affermato all’inizio di questo bre-ve intervento, mantiene un ruolo relativamente autonomo ma solo perché stru-

27 Zeev Sternhell, Nascita dell’ideologia fascista, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008.28 Cesare Rossi, La critica alla critica del fascismo, “Gerarchia”, 25 aprile 1922, in Mauro Canali, Ce-sare Rossi da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 120.29 Si distinguono almeno due fasi del sindacalismo rivoluzionario italiano, la seconda delle quali – iniziata intorno al 1907 – si caratterizza per il prevalere delle istanze anarcosindacaliste. Si veda Dora Marucco, Studi recenti e nuove prospettive di ricerca in tema di sindacalismo rivoluzionario, in “Movimento operaio e socialista”, 1977, n. 4, pp. 522-533.30 Riosa, Momenti e figure del sindacalismo prefascista, cit.

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mentale al mantenimento del consenso in alcuni settori del partito e del paese, nonché alla pacificazione delle tensioni sociali.

La battaglia dei sindacalisti era perduta: il sindacato ora svolgeva la sua at-tività in posizione strumentale e nettamente subordinata rispetto al partito e, quindi, allo Stato. Quello Stato che aveva a sua volta, all’interno della teorizza-zione del sindacalismo nazionale, progressivamente perso il ruolo di mero am-ministratore che il sindacalismo delle origini gli assegnava. Quello stesso Stato vedeva ora, anzi, notevolmente estese le sue prerogative, legittimate dagli stessi sindacalisti.

Il sindacalismo rivoluzionario accentuando i suoi presupposti produttivistici, perdendo progressivamente ogni connotazione di classe e, di contro, rinsaldan-do il sodalizio con l’idea di Nazione aveva contribuito a facilitare l’alleanza tra fascismo e borghesia e a rendere i propri transfughi niente più che dei “servi sciocchi” del regime.

In questo senso, Marco Revelli scorge, nel salto produttivo realizzato dal ca-pitalismo negli anni che precedono e accompagnano l’ascesa del fascismo, la privazione dell’idea di “scissione totale” della società in due eserciti contrappo-sti che pure aveva animato il sindacalismo rivoluzionario. Ed è sempre Revelli a leggere nella revisione del marxismo, che creò le premesse teoriche per l’im-probabile approdo di alcuni sindacalisti rivoluzionari al fascismo, più «un ten-tativo di una parte di quello che era divenuto un vero e proprio ceto culturale e politico di non rinunciare alla prospettiva immediata all’accesso al potere (di “salvarsi” dalla sconfitta, attraverso un brusco attraversamento dell’abisso)» che un’evoluzione logica delle sue premesse31. Un tentativo rischioso che, infatti, fallì e produsse confusione, fraintendimenti e la damnatio memoriae dell’intero mo-vimento.

31 Marco Revelli, Prefazione, in Sternhell, op. cit., p. xx.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 373-386

1. Lo sport in epoca fascista fra propaganda e realtà

Per quanto riguarda il ruolo dello sport durante la dittatura fascista è già stato scritto molto, e gli storici si trovano oggi sostanzialmente d’accordo nel delinear-ne gli aspetti principali1. L’obiettivo di questo saggio è, pertanto, quello di arric-chire la ricerca in questo campo con alcune riflessioni specifiche relative a Forlì, la “città del Duce”2. Si tratta di un’analisi storica locale atta a valutare l’impatto della nuova organizzazione sportiva fascista in una città di provincia dell’Italia del nord, che non può, tuttavia, non tener conto del ruolo strategico che il capo-luogo della “provincia di Mussolini” ricoprì durante la dittatura.

Nel 1927 Gino Sansoni3, in un articolo pubblicato su “Il Popolo di Romagna” (organo della Federazione fascista provinciale forlivese), bene illustra ai forlivesi le intenzioni organizzative e ideologiche dello sport secondo il regime fascista. In esso, ritroviamo delineati tutti gli elementi che caratterizzeranno il discorso

1 Su sport e fascismo cfr. Felice Fabrizio, Sport e fascismo. La politica sportiva del regime 1924-1936, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1976; Maria Canella, Sergio Giuntini (a cura di), Sport e fascismo, Milano, Franco Angeli, 2009; Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Torino, Utet, 2008 e relativa bibliografia.2 Chi scrive ha già in parte trattato questo argomento nell’ambito del progetto europeo Atrium: http://atrium.comune.forli.fc.it/category/giovani-e-indottrinamento/sport/.3 Nel secondo dopoguerra Gino Sansoni (Rocca San Casciano 1907 - Milano 1980) diviene un ori-ginale e noto editore. Era sposato ad Angela Giussani, ideatrice assieme alla sorella Luciana del famoso personaggio dei fumetti Diabolik. Il nome del personaggio dell’Ispettore Ginko (nemico di Diabolik) deriva dal nome dell’editore.

SportFABRIZIO MONTI

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sullo sport e la sua realtà pratica durante la dittatura:a) Il postulato che lo sport moderno in Italia nasca con il fascismo e che prima

ci fosse il vuoto organizzativo

Fino ad oggi in Italia nessun governo si era seriamente interessato dello sport come mezzo educativo, morale, biologico ed androtecnico; nessun Governo aveva obbiettivamente stu-diato i vari problemi inerenti alla coscienza ed educazione sportiva delle masse; tra “sport” e “politica” vi era incompatibilità, ed in tempi non remoti sportivo era antonomasia di snob e di eccentrico […] lo sport era miseramente ed intensamente abbandonato a se stesso4.

b) L’elemento totalitario e verticistico della riorganizzazione sportiva fascista

D’ora in poi in ogni provincia le Federazioni fasciste eserciteranno un controllo politico sui dirigenti le società sportive locali e, qualora lo credano opportuno, proporranno al Coni la fusione delle miriadi di società che, in una borgatuccia qualunque, si contendono venti atleti. Il Coni sarà il fulcro di concentramento di tutte le diverse Federazioni spor-tive comprese le nuove istituzioni che curano lo sport fra gli operai, fra le giovanissime camicie nere e fra gli studenti universitari, cioè Ond, l’Onb e i Gruppi sportivi universitari5.

c) Il dichiarato elemento bellico e imperialistico

Il fascismo coordinerà tutte queste falangi di sportivi pronti a cambiare il giavellotto col moschetto se l’Italia chiama a raccolta i suoi figli. E le legioni che ieri seppero difendere degnamente il tricolore d’Italia negli stadi fino all’esaurimento delle forze, impegnando le più riposte energie, sapranno domani valorosamente difenderlo, se occorre, sui campi di battaglia e di morte dando in olocausto tutto il loro generoso sangue, fino all’ultima stilla6.

d) La ricerca del consenso e la valenza propagandistica dello sport

Il Governo fascista ha compreso il grande significato di una vittoria sportiva all’estero che può essere utile quanto una vittoria diplomatica e militare; ed i nostri atleti, forgia-ti e plasmati dal fascismo vivificatore, andranno alle prossime Olimpiadi di Amsterdam allenati e preparati fisicamente e moralmente e, quando sul pennone olimpico garrirà il tricolore, non sarà più la vittoria individuale dell’atleta, ma sarà la vittoria dell’Italia che vuol dimostrare al mondo una superiorità di stirpe, una potenza di razza ancora piena dell’antico spirito romano […] E così il nome del Duce magnifico, primo sportivo d’Italia, i nostri atleti, fregiati del Littorio invincibile, sapranno fare rifulgere con la gloria di Roma imperiale, maestra alle genti, capitale del mondo7.

4 Gino Sansoni, Il popolo sportivo. Sport e fascismo, in “Il Popolo di Romagna”, 13 febbraio 1927.5 Ibid.6 Ibid.7 Ibid.

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Tuttavia, al di là delle intenzioni e della propaganda, anche per Forlì valgono le considerazioni generali fatte dalla storiografia8, e c’è da aggiungere che nella “provincia del Duce” il fascismo non solo ha fallito nella sua volontà di forgia-re una gioventù di sportivi praticanti, ma, come vedremo più avanti, determinò – paradossalmente – un reale arretramento organizzativo e partecipativo del movimento sportivo dilettantistico ed agonistico.

2. Lo sport a Forlì prima del fascismo

Anche se con qualche ritardo rispetto ad altre aree del nord del paese, Forlì ai tempi della marcia su Roma godeva di una situazione sportiva sana e prometten-te. Nel panorama cittadino vi erano tutti gli elementi della modernità sportiva. L’attività agonistica orbitava principalmente attorno alla Società sportiva Forti e Liberi nata nel 18989, l’aristocrazia e l’alta borghesia seguivano le corse al trot-to organizzate dalla Società per le corse al trotto di Forlì in Piazza d’Armi o nei giardini pubblici; seguitissimo e popolare era il Gioco della palla al bracciale10, il ciclismo forlivese raccolto attorno al Veloce Club dal 1894 si distingueva per l’or-ganizzazione e i risultati brillanti dei suoi atleti. Come la maggior parte delle città italiane, anche Forlì aveva la sua Società del tiro a segno: costituita nel marzo del

8 Ancora efficace risulta la sintesi di Stefano Jacomuzzi: prima del fascismo «lo sport in Italia ave-va ormai anche sul piano organizzativo le sue strutture abbastanza solide e poteva far conto su una rete già efficiente, anche se distribuita irregolarmente […] Anche sul piano internazionale dello sport agonistico l’Italia godeva di una buona reputazione e di altro prestigio per alcuni sport, come il ciclismo, la scherma, il canottaggio […] Tuttavia va riconosciuto che il governo fascista avviò sin dall’inizio, un’opera di potenziamento, facendo fronte, del resto, a una domanda sociale che si an-dava dilatando […] È indubbio, comunque, che lo sport agonistico ricevette notevole impulso, anche se ai risultati di vertice rispose solo in minima parte un’effettiva e capillare diffusione della pratica sportiva». Cfr. Stefano Jacomuzzi, Lo sport fascista, in Storia d’Italia. I documenti, Torino, Einaudi, 1973, pp. 927-928.9 Erede della Società ginnastica Mercuriali, costituita nel 1879. Dal 1884 la ginnastica forlivese ha una sua moderna palestra costruita in via Campostrino per volontà dell’amministrazione comunale. Sulla storia delle origini dello sport a Forlì fino all’avvento del fascismo, cfr. Ettore Casadei, Mono-grafia industriale di Forlì, edita a cura del Municipio, Forlì 1926; Elio Caruso, Forlì. Città e cittadini tra Ottocento e Novecento, vol. II, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1991.10 Simile al gioco del tennis, le due squadre contendenti si lanciavano una palla colpendola con un bracciale di legno. Le cronache ci dicono che Forlì fosse munita di uno dei campi da gioco – chiama-ti sferisteri – più belli d’Italia, costruito nel 1824 e colpevolmente demolito negli anni Cinquanta del XX secolo. Prima che fosse soppiantato dal calcio, la popolarità e la diffusione di questo sport nella nostra provincia è testimoniato ancora oggi dalla statua dell’Atleta col bracciale che simboleggia la provincia di Forlì allo Stadio dei Marmi a Roma.

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1884, con lo «scopo di istruire all’uso delle armi i giovani che hanno già prestato servizio militare e quelli che debbono ancora prestarlo, nel 1926 contava circa 800 soci, fra ordinari e premilitari»11. Il calcio fece la sua comparsa a Forlì con una certa lentezza, ma nel primo dopoguerra il Forlì Foot-Ball Club aveva acquisito tutte le caratteristiche dello sport moderno12. Nel 1926 – allora il comune di Forlì contava circa 50.000 abitanti – la sola società “Forti e Liberi” aveva circa 1.000 soci distri-buiti nelle sue varie sezioni affiliate alle relative federazioni nazionali sportive13.

3. Lo stadio Tullo Morgagni

La vivacità sportiva del capoluogo forlivese alla vigilia del fascismo è testimo-niata anche dalla volontà dell’amministrazione locale di dotare la città di un moderno impianto polisportivo. Si trattava di un impianto che avrebbe risposto alle nuove esigenze del movimento sportivo forlivese: costituito da un campo riservato al calcio, da una pista podistica a sei corsie, una pista ciclistica in terra battuta con curve sopraelevate, una pedana per i lanci e i salti e di una tribuna in cemento armato capace di mille posti14.

La costruzione del nuovo campo sportivo fa sì che Forlì si trovi già dotata di un moderno impianto nel momento in cui il fascismo, nel 1927, avvia la campa-gna per la costruzione di un «campo sportivo in ogni comune d’Italia», privando il regime di un forte elemento propagandistico in città. Inoltre, l’inaugurazione del campo avvenuta il 16 maggio 1925, consentì di intitolarlo alla memoria di un personaggio non coinvolto con il fascismo, Tullo Morgagni, di sentimenti repub-blicani15. Il regime proverà a riguadagnare il terreno perso a Forlì attraverso la co-

11 Caruso, Forlì. Città e cittadini, cit., pp. 101-103.12 Ivi, pp. 163-165; Pietro Canepa, Calcio Forlì. 65 anni di vita biancorossa (1919-1984), Forlì, Edizio-ne Calcio Forlì, 198413 La Sezione di ginnastica e atletica partecipava regolarmente alle competizioni nazionali ripor-tando buoni risultati, così come la popolare e numerosa sezione ciclistica e quella del calcio. La sezione motociclistica esprimeva già campioni di fama nazionale, come Luigi Arcangeli e Terzo Bandini.14 Una epigrafe a Tullo Morgagni 15 giugno 2002, Forlì, Grafiche Zoli, [2002], p. 13; Casadei, Mono-grafia industriale di Forlì, cit., p. 34515 Tullo Morgagni (Forlì 1881 - Verona 1919) fu giornalista e pubblicista. A 18 anni si trasferisce con la famiglia a Milano, dove avvia una intensa attività giornalistica. Dapprima entra nella redazione del foglio repubblicano “L’Italia del popolo”, poi, nel 1905, la sua passione sportiva lo porta alla “Gazzetta dello Sport”. L’ingresso di Morgagni nell’allora bisettimanale sportivo segna l’inizio di

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struzione della nuova Casa stadio Balilla. Iniziata nel 1933 e inaugurata nel 1935, opera dell’architetto Cesare Valle, essa ben si adattava a rispondere alle esigenze del regime: la ricerca del consenso e il controllo del tempo libero dei giovani16.

L’intestazione del nuovo campo sportivo a Morgagni costituisce l’ultima espressione di autonomia dello sport forlivese dall’ingerenza fascista. Infatti, al pari del resto d’Italia, i provvedimenti atti a fascistizzare lo sport non tardarono ad arrivare. Il nuovo assetto dello sport a Forlì fu formalizzato il 5 maggio 1927 con la costituzione dell’Ente sportivo della Federazione fascista di Forlì, con il compito di disciplinare tutte le società sportive esistenti in provincia17. Da allo-ra in poi, tutte le manifestazioni sportive che avevano luogo in provincia dove-vano essere approvate e monitorate dall’Ente sportivo provinciale. Inoltre, tutti i consigli direttivi delle società sportive furono messi sotto il diretto controllo dell’Ente, e durante la sua prima adunanza si stabilì la fusione delle società spor-tive forlivesi in un unico sodalizio denominato Associazione sportiva forlivese. La denominazione “Forti e Liberi” sarà ripresa solo nel 194518.

4. Per un bilancio dello sport a Forlì in epoca fascista

Dal 1927 in poi, quindi, ogni aspetto organizzativo, economico e propagandistico dello sport a Forlì è sotto il diretto controllo del Partito fascista (Pnf). Qualche

un’era nuova del giornalismo non solo sportivo. Promotore di numerosi eventi sportivi, si deve a Morgagni la nascita nel 1909 del Giro d’Italia. Nel 1913 Morgagni fonda la rivista “Lo sport illustra-to”, nel 1917 “Il Secolo illustrato” e “Nel Cielo”, quest’ultima testimonianza della sua assoluta fiducia nel futuro del volo anche per l’impiego civile, di cui sarà promotore in prima persona. Il 2 agosto 1919 Morgagni trova la morte proprio in un tragico incidente nel cielo di Verona durante un volo dimostrativo di un aereo di linea.16 Caratterizzata da una torre di 30 metri, simbolo di potenza virile e prototipo per tutte le torri del-le future Case del Fascio, venne concepita tenendo separati i due principali reparti che la costituiva-no, con ingressi distinti: quello sportivo e quello culturale. La prima zona è costituita da una palestra di 500 mq., una piscina coperta e un’area all’aperto di 20.000 mq. attrezzata per lo svolgimento di qualsiasi tipo di sport. Il reparto culturale invece comprende un cinema teatro da 800 posti, una sala convegni, una biblioteca con sala lettura e gli uffici. Cfr. Luciana Prati e Ulisse Tramonti (a cura di), La città progettata. Forlì, Predappio, Castrocaro. Urbanistica e architettura fra le due guerre, Forlì, Comune di Forlì, 1999, p. 174.17 Secondo il Foglio d’Ordine del 2 marzo 1927 «tutte le associazioni sportive dovranno essere con-trollate da un ente sportivo appositamente nominato dalla locale Federazione fascista». Il nuovo ente doveva essere composto da tre membri: il Presidente (nella persona del segretario federale della sezione locale del fascio ), un rappresentante del Coni e uno del Dopolavoro.18 http://home.fortieliberiginnastica.it/paginechisiamo/storia-della-ginnastica-a-forli

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anno dopo è lo stesso partito, tramite il suo più autorevole organo provinciale, “Il Popolo di Romagna”, a tracciare i risultati della nuova politica sportiva nel de-cennale della marcia su Roma. Il 30 ottobre 1932, un lungo articolo non firmato, e stranamente molto critico, passa in rassegna tutte le attività sportive in città. È interessante rilevare come proprio l’atletica, «che a Forlì aveva raggiunto risultati discreti nelle competizioni nazionali in epoca pre-fascista»19, nel 1932 registra un graduale arretramento, mentre gli atleti forlivesi del tiro a segno raggiungevano ancora dei buoni risultati, ma «il sano e importante sport delle armi»20 rimaneva poco praticato dai giovani. Per quanto riguarda il tennis, invece, non mancavano i giocatori, ma i campi da gioco erano insufficienti. Il pugilato a Forlì era prati-camente assente, organizzato male e poco finanziato. Anche per il nuoto, oltre a portare i bambini alle colonie marine, si era fatto poco21. Il ciclismo riscuoteva maggiore popolarità, dato che Forlì ospitava molte manifestazioni ciclistiche, ma il successo delle due ruote era dovuto più che altro alla tradizionale passione dei giovani forlivesi per la bicicletta più che per lo sforzo delle società sportive fasci-ste. Il motociclismo, dopo un impetuoso sviluppo e numerosi successi, viveva un «periodo di stasi»22. Per quanto riguarda l’escursionismo – l’articolista continuava rammaricandosi – anche in questo caso, dopo una promettente partenza – anche grazie alla nascita del Club Alpino23 – l’escursionismo in città stava vivendo un arretramento organizzativo, appena bilanciato dalla pratica spontanea di pochi e, per i ragazzi, dai campeggi organizzati dall’Opera balilla. La scherma, dopo alcuni tentativi di aprire una palestra, rimaneva uno sport poco praticato e male organiz-zato. La ginnastica viveva la stessa situazione dell’atletica: «Forlì dieci anni prima aveva una fortissima squadra di ginnasti, vincitrice di più di un concorso. Ma ritira-tisi gli anziani dalla vita attiva, per vari anni si era fatto poco o niente»24. In ultimo, il gioco del tamburello, che tanto seguito aveva anche a Forlì, in quel periodo non veniva più praticato per mancanza di un campo da gioco adatto. Solo il calcio, a cui è dedicata gran parte dell’articolo, sembrava godere di ottima salute25.

Difficile non leggere in questa descrizione una situazione impietosa, tanto più se pensiamo che viene stampata nelle colonne dell’organo ufficiale del fascismo

19 Dieci anni di sport nella provincia del duce, in “Il Popolo di Romagna”, 30 ottobre 1932.20 Ibid.21 Solo nel 1935, con l’inaugurazione della Casa stadio Balilla, la città di Forlì avrà una sua piscina.22 Dieci anni di sport nella provincia del duce, cit.23 Sulla storia del Cai di Forlì si veda: Tera rama seda. L’amore per la montagna in cinquant’anni di vita della sezione di Forlì del Club alpino italiano 1927-1977, Forlì, Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, 1977.24 Dieci anni di sport nella provincia del duce, cit.25 Ibid.

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forlivese, notoriamente non incline all’autocritica. Possiamo immaginare che l’ar-ticolista sia stato tentato di calcare un poco la mano per richiamare l’attenzione su un problema reale, oppure che sia stato spinto da ragioni di parte nell’ambito delle faide che ancora animavano il litigioso partito fascista forlivese, fatto che in sé potrebbe spiegare in parte la stessa disastrosa situazione sportiva appena descritta26. Che sia per debolezza politica o economica, il quadro non cambia, e ci mostra una fotografia dello sport forlivese in caduta libera già nel 1932.

Si tratta, quindi, di una realtà diametralmente opposta all’immagine che il fa-scismo è stato in grado di costruire attraverso le vittorie sportive internazionali degli atleti italiani tra il 1928 e il 1935, magistralmente propagandate all’estero e in Italia. Forlì, al di là dei risultati sportivi locali, è coinvolta in questa operazione propagandistica attraverso eventi sportivi calati dall’alto, i quali saranno in grado di distorcere la realtà ben oltre la caduta del fascismo. Forlì è il capoluogo della “terra del Duce”, diviene vetrina del fascismo in cui esporre le conquiste del regi-me, in cui mostrare un’Italia sportiva moderna e vincente27. I cinegiornali Luce e la cronaca giornalistica lo testimoniano in un susseguirsi di eventi sportivi a carattere regionale e nazionale che vengono ospitati a Forlì e che culmineranno nell’incon-tro di Mussolini con agli atleti azzurri in partenza per le Olimpiadi di Los Angeles.

Siamo al 1932, resta da analizzare il decennio successivo, indagare se vi sia stata una positiva inversione di marcia e che ruolo abbia avuto il nuovo com-plesso sportivo dell’Onb inaugurato nel 1935. Se, a livello nazionale, gli storici fanno coincidere il 1935 con l’inizio della parabola discendente dello sport in epoca fascista, a Forlì nel 1938 lo sport viveva ancora pesanti carenze tecniche ed organizzative, sicuramente per quanto riguarda lo stato manutentivo degli impianti sportivi. Dai documenti conservati in Archivio di Stato emerge che il campo sportivo Morgagni è mal custodito, soggetto a furti, con gli impianti spor-tivi e le latrine pressoché inutilizzabili28.

26 La difficoltà del fascismo nell’organizzarsi e nello stabilizzarsi a Forlì, almeno nel primo decennio della nuova era, è nota. Riteniamo utile, comunque, riportare la testimonianza di un protagonista interno alla macchina burocratica fascista forlivese. Nel 1932 così scrive Fidia Gambetta, all’epoca impiegato alla segreteria della Federazione fascista: «Secondo il giudizio delle provincie limitrofe, il fascismo forlivese, nato più tardi e perennemente combattuto da insanabili ricorrenti discordie intestine, è sempre stato e continua più che mai ad essere un fascismo tiepido, burocratico, senza scatto e senza mordente. Rimasto senza alcun potere effettivo soprattutto nel campo economico e finanziario, dove sarebbe stato regolarmente tagliato fuori di tutte le leve di comando (quello rea-le), per la sua congenita incapacità di darsi un capo. Con una battuta si dice che neppure Mussolini durerebbe più di un anno come segretario federale di Forlì; ma non è soltanto una battuta». Fidia Gabetta, Gli anni che scottano, Milano, Mursia, 1967, pp. 155-156.27 Cfr. Roberto Balzani, La Romagna, Bologna, Il Mulino, 2001; Mario Proli, “Meta ideale di ogni italiano”. La costruzione della “terra del duce” vista attraverso cronache e immagini, in Massimo Lodovici (a cura di), Fascismi in Emilia Romagna, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1998, pp. 103-128.28 Archivio di Stato di Forlì, Fondo Archivio Comunale di Forlì, b. 364, fasc. “Campo sportivo Morga-

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Il massiccio intervento propagandistico che utilizzò Forlì, la “città del Duce”, come luogo scenografico privilegiato per inscenare la rappresentazione del mito sportivo del fascismo, dietro le quinte celava una realtà ben diversa, che vedeva un sostanziale arretramento dello sport locale, e forse una generale debolezza del re-gime. Dal canto suo, il fascismo tendeva a compensare questa diffusa freddezza o aperta ostilità nei suoi confronti con un massiccio bombardamento mediatico con-cretizzatosi a Forlì nell’importazione di grandi eventi – non solo sportivi – e inter-venti urbanistici che ancora oggi testimoniano l’intento di dare alla “città del Duce” un ruolo nella costruzione del consenso che probabilmente non gli apparteneva29.

5. Conclusioni e percorsi di ricerca

Si potrebbe concludere che il caso forlivese ben si allinea all’analisi relativa allo sport e fascismo già ampiamente condivisa a livello nazionale dalla storiografia più recente. Tuttavia, forse non è sufficiente per completare l’analisi del feno-meno dello sport durante il fascismo, in particolare nei confronti delle masse. Tanto è ancora forte il luogo comune che individua il fascismo come elemento di modernizzazione e di diffusione dello sport in Italia, che ciò ci deve spingere a indagare meglio e in modo più analitico l’impatto dello sport in epoca fascista su una moltitudine di giovani per cui, fino ad allora, era stato impensabile pra-ticare sport. È quindi necessario allargare lo sguardo alle zone extraurbane, ai centri minori d’Italia che furono toccati per la prima volta dallo sport, alle classi subalterne, al coinvolgimento delle donne30. Lando Ferretti, presidente del Coni dal 1925 al 1928, auspicava che in «tutti i Comuni, in nessuno dei quali manca una sezione del Fascio, possono e debbono provvedere agli impianti sportivi»31. Il fatto poi che nella stragrande maggioranza dei casi fossero più simili a un

gni 1937-38”.29 Scrive Edoardo Detti: «il fascismo usava edifici per esprimere la forza del regime tramite la pro-duzione di lavori monumentali dominanti, i quali intendevano compensare la perdita di poteri loca-li» (Edoardo Detti, Firenze scomparsa, Firenze, Vallecchi, [1970], p. 101).30 «Lo sport era divenuto per le élite di ragazze che lo praticavano nelle organizzazioni giovanili uno strumento di emancipazione e di libertà nei costumi. Nel partecipare ad attività ginniche e sportive le ragazze potevano uscire, viaggiare, esercitare e mostrare liberamente il proprio corpo», in Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani, cit., p. 211. Cfr. M. Rossi Caponeri, L. Motti (a cura di), Accademiste a Orvieto: donne ed educazione fisica nell’Italia fascista 1932-1943, Perugia, Quattro-emme, 1996; Rosella Isidori Frasca, ...E il duce le volle sportive, Bologna, Patron, 1983.31 Lando Ferretti, Il libro dello sport, Roma-Milano, Libreria del Littorio, 1928, p. 152.

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prato «sul quale ventidue atleti si contendono ogni domenica il possesso di una palla di cuoio»32, non toglie che vi si organizzassero delle attività sportive e che da ogni comune della provincia giovani atleti avessero la possibilità di parte-cipare a periodiche riunioni o incontri sportivi nel capoluogo o nei principali centri della provincia33. Non si può non tener conto del fatto che, in una società cristallizzata, in cui alle classi popolari era negata la possibilità di accedere a una progressione sociale, lo sport diventasse l’unica occasione di fare emergere un proprio talento capace di migliorare il proprio status economico e pubblico.

Dall’altra parte non è sufficiente rilevare il fallimento della politica sportiva fascista a Forlì. È infatti necessario capirne le cause, analizzarne le differenze da altre realtà geografiche. Viene infatti da chiedersi la ragione per cui la città di Rimini vivesse una realtà sostanzialmente differente da Forlì. Rimini, duran-te il fascismo, sviluppò un movimento sportivo agonistico capace di produrre eccellenze olimpioniche: Romeo Neri (ginnastica artistica, Amsterdam nel ’28 e Los Angeles nel ’32) Eugenio Pagnini (pentathlon moderno, Amsterdam nel ‘28 e Los Angeles nel ‘32), Edelweiss Rodriguez (pugilato, Los Angeles nel ’32), Walter Bonisegni (tiro con la pistola Los Angeles nel ’32 e Berlino nel ’36)34. In parte si può rispondere ricordando la già citata difficoltà propria del fascismo forlivese di insediarsi in città, con tutte le difficoltà organizzative che ne conseguono. Spo-stando l’asse del ragionamento alle origini democratiche e repubblicane delle società sportive forlivesi prefasciste, si può forse intuire un disagio dei giovani ad avvicinarsi alle organizzazioni sportive del regime35.

La spiegazione di una diffusa insofferenza e perfino diserzione verso le attivi-tà fisiche e sportive imposte dalle organizzazioni di regime può essere spiegata non solo con la debolezza propria del fascismo nel coinvolgere i forlivesi nelle proprie attività sportive, ma anche dall’analisi di come quel tempo libero sottrat-to al regime fu utilizzato dai giovani, e in che modo dedicato all’attività sportiva.

È noto che, all’interno delle parrocchie, i giovani trovassero sfogo al loro desi-

32 Fabrizio, Sport e fascismo, op. cit., p. 23.33 «Nella nostra provincia da un anno a questa parte lo sport batte un ritmo accelerato in tutti i suoi campi: anche in piccole borgate sono sorte società sportive che hanno dato vita a riuscitissime manifestazioni, grandi riunioni provinciali hanno raccolto in cavalleresche competizioni folti nuclei di atleti» (Gino Sansoni, Dopolavoro sportivo, in “Il Popolo di Romagna”, Forlì, 15 settembre 1928).34 Gianni Bezzi (a cura di), La mia Rimini. 100 anni di sport. 1900-2000 da Romeo Neri a Carlton Myers, un secolo di campioni riminesi, Rimini, [s.n.], 1999.35 Con il d.l. 20 giugno 1935 n. 1010 (legge 30 dicembre 1935, n. 2261) fu istituito il Sabato fascista per poter svolgere le attività di carattere addestrativo prevalentemente premilitare e postmilitare e altre di carattere politico, professionale, culturale, sportivo del popolo. «Va da sé che l’iniziativa cadde nel vuoto, in quella atmosfera di indifferenza, alimentata dalla consapevolezza dell’abisso che andava separando teoria e prassi» (Fabrizio, op. cit., p. 48).

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derio di fare sport36, e, probabilmente dietro l’influenza delle tradizioni democrati-che familiari, non mancarono espressioni autonome e spontanee di distanza dalle organizzazioni del tempo libero fascista. Così, ad esempio, ricorda Ovidio Gardini37:

Erano gli anni 1932-1935. Noi avevamo 12 anni, Silvio ne aveva 15 e noi lo guardavamo non come un capoclasse ma come un capo cospiratore […] noi ci sentivamo, nel seguir-lo, a scuola e fuori, come tanti novelli carbonari, perché discutevamo, anche sui libri e opuscoli da lui e da altri procuratici, di cose proibite dal fascismo, sovversive, come allora si sentiva mormorare. Disertavamo sovente le adunate e le esercitazioni indette dall’Opera nazionale balilla, andavamo a casa sua […] e qui facevamo le nostre eserci-tazioni da “esploratori” […] Alla nostra nidiata di compagni di scuola si aggregarono poi altri giovani, lavoratori e studenti, che come noi, fecero, negli anni 1933-1939, fronda e cospirazione antifascista38.

Molti giovanissimi che al brivido del proibito univano il gioco, gradualmente si avvicineranno all’antifascismo e poi alla Resistenza. Il tentativo di ricostruire un gruppo clandestino di giovani esploratori a Forlì fu un’esperienza rimasta viva nei ricordi di chi vi partecipò, che riconobbe come la spontaneità di un gioco esprimeva insofferenza e disobbedienza alle impostazioni del regime39. Questi esploratori clandestini gravitavano attorno al giovanissimo Silvio Zavatti40.

Che fosse nelle parrocchie, o nei giochi “clandestini” di adolescenti, la so-cietà esprimeva l’esigenza di praticare una libera attività sportiva. Il fascismo tentò, anche se con scarsi risultati, di assecondare questa esigenza piegandola a proprio vantaggio, inserendo lo sport nella politica totalitaria di regime. Tutta-via, anche all’interno di quello che sembrava ormai un campo – quello sportivo “ufficiale” – totalmente fascistizzato e immune da nostalgie democratiche e da espressioni di autonomia, a ben vedere si può scorgere il proseguimento di una tradizione prefascista e forse antifascista. Tornando alla rassegna che nel 1932

36 Stefano Pivato, Sia lodato Bartali. Ideologia, cultura e miti dello sport cattolico (1936-1948), Roma, Edizioni Lavoro, [1996], per Forlì cfr. Franco Zaghini (a cura di), La Chiesa forlivese nel ven-tesimo secolo. Storia e cronaca, Forlì, Centro studi storia religiosa forlivese, 2000; Giovanni Tassani (a cura di), Un dì lontano. Cinquant’anni di vita salesiana a Forlì, 1942-1992, Forlì, Ed. Filograf, 1992; Salvatore Gioiello, Lieto Zambelli, Alida Grifoni, Né pochi, né timidi. Fatti e protagonisti di una storia che viene da lontano, Forlì, Cassa rurale e artigiana, 1988.37 O. Gardini, originario di Faenza, da bambino si trasferisce a Forlì; ferroviere, è decorato di Meda-glia d’argento al valor militare per il suo ruolo nella Resistenza in Jugoslavia.38 Fabrizio Monti (a cura di), Silvio Zavatti. Giornalista e amministratore della ricostruzione a Forlì 1944-1945, Montegranaro (AP), Tipografia Silver, 2008, pp. 17-18.39 Il 9 aprile 1928 i «Giovani esploratori venivano sciolti con divieto di ricostruzione, ma continua-rono la loro attività clandestinamente, apportando il loro effettivo contributo alla Resistenza» (Fa-brizio, Sport e fascismo, cit., p. 35).40 Geografo ed esploratore polare (Forlì 1917 - Ancona 1985). Repubblicano, partecipa alla Resi-stenza e all’indomani della Liberazione di Forlì è nominato dal Cln vicesindaco della città.

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“Il Popolo di Romagna” faceva dello sport a Forlì, emerge distintamente che l’unico sport a godere di un buono stato di salute fosse il ciclismo: «riscuoteva maggiore popolarità, dato che Forlì ospitava molte manifestazioni ciclistiche, ma il successo delle due ruote era dovuto più che altro alla tradizionale pas-sione dei giovani forlivesi per la bicicletta che non per lo sforzo delle società sportive fasciste»41. Sicuramente si trattava di una tradizionale passione, ma può non essere una coincidenza il fatto che il ciclismo fu lo sport meno amato dal fascismo42. Il “primo sportivo d’Italia”, Mussolini raramente è fotografato in sella a una bicicletta: è la presa di distanza da uno sport forse troppo popolare e ricor-do delle sue origini socialiste. In Romagna la bicicletta diventa presto strumento di lotta, di organizzazione della protesta e del proselitismo politico. Nel 1905 si formano i primi gruppi di Ciclisti rossi43, mentre durante la Settimana rossa il fe-nomeno emerge in modo chiaro44. Anche i repubblicani avranno le loro squadre di ciclisti in grado di muovere velocemente gli uomini e le idee45.

Con il fascismo la passione dei romagnoli per la bicicletta deve abbandona-re la valenza di lotta politica, che sarà poi però ripresa durante la Resistenza. L’osteggiato ciclismo fu, paradossalmente, uno dei pochi sport a dare qualche soddisfazione allo sport agonistico forlivese nel Ventennio46.

41 Dieci anni di sport nella provincia del duce, in “Il Popolo di Romagna”, cit.42 «Il ciclismo corrisponde poco alla metafora sempre ricorrente dello sport come lotta, battaglia, guerra, al ritornello del forte atleta=buon soldato, al motivo dell’agonismo come preparazione a combattimenti ben più concreti e cruenti. Mal si adatta ad un regime che volentieri definisce la guerra «sublime sport eroico», che fa della formazione militare della gioventù uno dei suoi obiettivi principali e che considera l›atleta la variante civile del soldato. Il ciclismo è sì resistenza, forza, tenacia e tutto quanto ancora serve per primeggiare, ma in competizioni che escludono pur sempre lo scontro con l›avversario. Il pugilato, per fare l›esempio più facile, corrisponde molto meglio a queste ragioni dell›ideologia fascista e, non a caso, è ben più presente nel sistema mediatico di que-gli anni. Infine, il ciclismo risulta poco interessante perché si svolge per lo più sulla strada, dunque in uno spazio poco addomesticabile, sfuggente alle finalità dei responsabili della cultura popolare fascista. Il pubblico che si accalca lungo le vie di una corsa in bicicletta non può essere manovrato, organizzato, disciplinato nei rituali che invece dentro gli stadi, questa nuova fondamentale emer-genza architettonica introdotta nei paesaggi urbani contemporanei dai totalitarismi del XX secolo, trovano lo scenario più congeniale». Daniele Marchesini, Fascismo a due ruote, in Canella, Giuntini (a cura di), Sport e fascismo, cit., pp. 85-97.43 Sui ciclisti socialisti, cfr. Stefano Pivato, La bicicletta e il Sol dell’avvenire. Sport e tempo libero nel socialismo della Belle epoque, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992.44 Cfr. E. Baroncini, “Pedalanti eserciti”. La bicicletta nella “settimana rossa” romagnola, in “L’alma-nacco. Rassegna di studi storici e di ricerche sulla società contemporanea”, 2012, n. 59, pp. 105-117.45 Sui ciclisti repubblicani, cfr. Stefano Pivato, Associazionismo sportivo e associazionismo politico nella Romagna d’inizio Novecento, in “Bollettino del Museo del Risorgimento di Bologna”, 1987-88, pp. 176-181.46 Fra i campioni del ciclismo forlivese: Glauco Servadei cfr. http://docplayer.it/18449082-Glauco-serva-dei-delvelodromocomunale-di-forli-intitolazione-parule-c-o-n-i-f-c-i-comunedi-forli.html, in generale cfr. Pieri Dino, La Romagna del pedale. Profili di campioni (1920-1970), Cesena, Il Ponte Vecchio, 2008.

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Esercitazioni ginniche al campo sportivo di Forlì. Collocazione: Biblioteca comunale Forlì,Archivio fotografico, Busta “Forlì. Vita cittadina. Periodo fascista. Sport”, A.g. V - 1. Si ringrazia per l’aiuto nella ricerca e per la disponibilità la Dott.ssa Antonella Imolesi, Responsabile Fondi Antichi, Manoscritti e Raccolte Piancastelli della Biblioteca comunale “Aurelio Saffi” di Forlì.

Esercitazioni ginniche al campo sportivo di Forlì. Collocazione: Biblioteca comunale Forlì, Ar-chivio fotografico, Busta “Forlì. Vita cittadina. Periodo fascista. Sport”, A.g. V - 2.

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Biblioteca comunale Forlì, Archivio fotografico, Busta “Forlì. Vita cittadina. Periodo fascista. Sport”, A.g. IV - 1.

Campo sportivo di Forlì, Squadra di calcio. Collocazione: Biblioteca comunale Forlì, Archivio fotografico, Busta “Forlì. Vita cittadina. Periodo fascista. Sport”, A.g. VI - 1.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 387-398

1. Fascismo e università: la via culturale al totalitarismo

Le università italiane sono state a lungo considerate il rifugio dell’antifascismo culturale, un luogo nel quale gli intellettuali poterono costruire e mantenere una nicchia di autonomia rispetto alle imposizioni del totalitarismo fascista. In esse si diceva fosse stato possibile per i docenti simulare la propria adesione al fascismo poiché il regime dal canto suo non tentò mai un reale e concreto con-trollo degli Atenei italiani1.

Gli studi più recenti, soprattutto quelli su singole sedi universitarie2, hanno invece dimostrato come il regime mise in atto una fascistizzazione progressiva anche delle istituzioni di alta cultura trovando in esse spazi di manovra garantiti da una folta schiera di sostenitori. Un mondo complesso e articolato quello uni-versitario del quale sono protagonisti docenti e studenti, amministratori locali e poteri nazionali, rettori e ministri partecipi di una radicale trasformazione della società italiana. Non va poi dimenticato che il mutamento imposto dal regime coinvolse modelli e strutture preesistenti trasformandoli in senso fascista. Come cercheremo di illustrare, le diverse fasi di questo processo si legarono a precisi passaggi nella costruzione e nell’affermazione dello Stato totalitario, attraverso

1 Il riferimento è a Norberto Bobbio, La cultura e il fascismo, in Guido Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana, Torino, Einaudi, 1973. 2 Mi permetto di citare il mio libro sull’Università di Bologna nel quale si fa riferimento anche ai la-vori più recenti sulla storia delle università in epoca fascista: Simona Salustri, Un Ateneo in camicia nera. L’Università di Bologna nel periodo fascista, Roma, Carocci, 2010.

UniversitàSIMONA SALUSTRI

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tappe non sempre lineari segnate da fruttuose accelerazioni – si vedranno ad esempio il giuramento del 1931 o le leggi razziali del 19383 – e da disastrosi fal-limenti quali l’incapacità di controllare l’aumento del numero degli iscritti e la correlata disoccupazione intellettuale.

2. Dalla più fascista delle riforme alla normalizzazione di regime4

All’indomani del varo dei provvedimenti sulla scuola voluti dal ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile, Mussolini definì la riforma scolastica come la più fascista delle riforme. Un preciso segnale che nel 1923 il Duce rivolgeva da un lato a quella parte del paese che si opponeva al governo, e dall’altro a quelle frange interne allo stesso partito fascista che non apprezzavano il filosofo siciliano e il suo approccio idealista alla cultura5. La riforma non rispondeva ai dettami del fascismo, ma quest’ultimo, impegnato in una difficile fase di norma-lizzazione del movimento che da squadrista si stava piano piano trasformando in un partito di governo, aveva bisogno di investire nell’ambito culturale per an-dare ad incidere su un settore chiave della società italiana. Attraverso la riforma il fascismo avrebbe inoltre governato il dissenso e acquistato credibilità proget-tuale in funzione di una progressiva fascistizzazione della cultura che sarebbe però arrivata solo con il successivo e progressivo smantellamento del modello gentiliano6.

L’università sulla quale Gentile andò ad incidere era il portato dell’età libe-rale e dell’accesa discussione che sin dall’Unità era rimasta aperta sul modello universitario da adottare nel paese. La selezione della classe dirigente avrebbe infatti richiesto un’alta formazione in grado di far competere il paese con i mu-tamenti delle società europee e le loro esigenze. Si finì invece per privilegiare un

3 Un tema quello delle leggi razziste negli Atenei che ancora oggi non sempre è presente nelle ricostruzioni storiche: cfr. ad esempio Giunio Luzzatto, Università, in Victoria de Grazia, Sergio Luz-zatto (a cura di), Dizionario del fascismo, vol. II (L-Z), Torino, Einaudi, 2003, pp. 760-763.4 Quanto qui si scrive sulla riforma Gentile e selle politiche successive è tratto da Jürgen Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime 1922-1943, Firenze, La Nuova Italia, 1996 (ed. or. 1980).5 Sulla figura di Gentile e i suoi rapporti ideologico-culturali con il fascismo si veda per tutti Gabrie-le Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, Giunti, 1995.6 Giuseppe Ricuperati, Per una storia dell’Università italiana. Da Gentile a Bottai: appunti e discus-sioni, in Ilaria Porciani (a cura di), L’Università tra Otto e Novecento: i modelli europei e il caso italiano, Napoli, Jovene, 1994.

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modello elitario nel quale il settore umanistico rimase favorito rispetto a quello scientifico-tecnologico, incidendo quindi anche sull’articolazione delle discipli-ne e sullo sviluppo delle diverse sedi.

Per la riforma gentiliana le sedi universitarie a carico dello Stato dovevano rimanere poche, solo 10 con le 4 Facoltà canoniche (Giurisprudenza, Lettere e Fi-losofia, Medicina e Chirurgia e Scienze fisiche, matematiche e naturali), affianca-te da Atenei a finanziamento misto in numero di 14 e dalle libere università. Un modello che non razionalizzò il sistema, al contrario finì per favorire la nascita di nuove sedi, non solo funzionali allo sviluppo del regime – si pensi all’Università di Milano o a quella di Bari –, e la crescita di Atenei sospinti da interessi locali e da logiche clientelari e partitiche, molto lontane dagli interessi culturali del paese. Oltretutto l’equiparazione giuridica di tutti i docenti, sia quelli delle uni-versità statali, che quelli delle università miste o libere, eliminò di fatto le diffe-renze tra gli Atenei ancor prima che a metà degli anni Trenta fosse formalmente superata la distinzione e fossero riassunti tutti gli oneri di spesa da parte dello Stato. La supremazia delle finalità culturali dei percorsi universitari rispetto alle scienze sperimentali ritardò anche lo sviluppo organico di alcuni settori disci-plinari, almeno fino a quando le Scuole e gli Istituti superiori rimasero affidati ai ministeri dei singoli settori. A Scuole e Istituti potevano rivolgersi i diplomati degli istituti tecnici e professionali a cui era precluso l’accesso alle Facoltà riser-vate esclusivamente ai liceali. Un modello elitario, aggravato dall’introduzione dell’esame di stato che prolungava i tempi di ingresso nel mondo del lavoro dei giovani laureati, il quale non riuscì certo a contenere il numero degli iscritti.

All’anacronismo di alcune scelte di indirizzo si accompagnò la volontà di limi-tare quasi integralmente l’autonomia delle singole sedi. Quest’ultima, che sulla carta poteva sembrare garantita dal potere riservato agli organismi interni agli Atenei di provvedere alla stesura dei propri Statuti e all’elaborazione dei curri-cula disciplinari, era completamente negata dalla sottomissione del rettore, non più di nomina senatoriale, dei presidi di Facoltà e dei direttori degli Istituti al vo-lere del ministero della Pubblica istruzione, che doveva anche approvare lo Sta-tuto, e dai regolamenti generali che uniformarono i piani della didattica. Infine la vigilanza dello Stato sugli Atenei era garantita, oltre che dalla composizione dei singoli consigli di amministrazione, dal ben più importante riassetto del Con-siglio superiore della Pubblica istruzione a cui spettavano decisioni fondamen-tali per la sopravvivenza degli Atenei, oltre che per il reclutamento accademico.

Nella totale riscrittura dell’ingranaggio universitario non poteva infatti man-care una ridefinizione del modello di assunzione dei docenti. Partendo dai gradi inferiori, dove si collocavano aiuti e assistenti scelti tramite concorso pubblico, nominati anno per anno dalle varie sedi e declassati a ruolo di personale tecnico subalterno, si passava attraverso la libera docenza di durata quinquennale sog-getta al volere della Facoltà per la conferma definiva, fino ad arrivare ai profes-

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sori di ruolo, pagati dallo Stato e unici a poter far parte degli organi universitari, e agli incaricati scelti e retribuiti dai singoli Atenei7.

Proprio la revisione delle procedure di selezione introdotte da Gentile aprì la stagione dei ritocchi e poi dello smantellamento della riforma attuato dai diversi ministri che si susseguirono alla guida del ministero della Pubblica istruzione, trasformato in ministero dell’Educazione nazionale. Per il fascismo l’università avrebbe infatti dovuto entrare a pieno titolo nel progetto di irreggimentazione del paese, non rimanendo quindi un luogo di formazione elitario, ma aprendosi alla piccola e media borghesia, base del consenso del regime, e controllando al contempo la comunità accademica attraverso lacci sempre più stretti imposti dal centro. La libertà accademica dei docenti, garantita anche da uno status so-ciale che si era andato consolidando nel tempo e che era favorito dalla frequen-te coincidenza dei ruoli di professore e politico, venne gradualmente intaccata dal fascismo a partire dalla metà degli anni Venti. Un processo lento poiché il regime comprese l’importanza di agire con cautela all’interno di un mondo che non poteva essere stravolto come altri, per non correre il rischio di perdere inge-gni utili alla crescita del paese.

Nel 1925, a margine del convegno tenutosi a Bologna per le istituzioni fasci-ste di cultura, Gentile chiamò a raccolta gli intellettuali italiani per chiedere la loro pubblica presa di posizione a favore del regime. Nel mese successivo la po-sizione venne ratificata dalla pubblicazione del Manifesto degli intellettuali del fascismo al quale il 1° maggio rispose Benedetto Croce con un contromanifesto firmato da oltre 40 docenti. Nei due testi la contrapposizione evidente tra due idealità: da un lato l’integralismo idealista gentiliano proteso alla sovrapposizio-ne tra fascismo e cultura, e dall’altro il liberalismo crociano e la netta distinzione tra sfera politica e sfera culturale8. Se da un punto di vista culturale i due mani-festi non aprirono un dibattito nel paese, contribuirono senza dubbio alla spar-tizione tra “buoni e cattivi”, all’individuazione da parte del fascismo di tutti gli oppositori e alla loro progressiva schedatura. Il 1925 fu anche l’anno dell’intro-duzione della richiesta di dichiarazione da parte dei dipendenti pubblici di non appartenenza a società segrete, e della disposizione che permetteva di mettere fuori ruolo coloro i quali per manifestazioni pubbliche si erano resi incompatibili con le direttive del governo. Sono poche le tracce di veri e propri provvedimenti disciplinari a carico di docenti, per molti allontanamenti furono infatti celate le motivazioni politiche (è noto il caso di Gaetano Salvemini), quello che è certo

7 Sui mutamenti relativi al reclutamento accademico cfr. Antonio Santoni Rugiu, Chiarissimi e ma-gnifici. Il professore nell’università italiana (dal 1700 al 2000), Firenze, La Nuova Italia, 1991.8 Emilio R. Papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana, con un saggio di Federico Flora, Milano, Feltrinelli, 1958.

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è che l’equiparazione dei docenti agli impiegati statali e il loro inquadramento dapprima nell’Associazione fascista della scuola e poi nel partito, la cui tesse-ra divenne obbligatoria a partire dal 1932 per accedere ai concorsi universitari e all’abilitazione alla libera docenza, favorirono il controllo sempre più stretto delle università da parte del regime.

Atto finale e senza ritorno dell’inquadramento del mondo universitario fu il giuramento di fedeltà al fascismo imposto ai docenti nel 1931. Esso segnò la cacciata definitiva degli irriducibili e la messa a tacere delle ultime resistenze costringendo i docenti ad una conversione tutt’altro che formale, con il risultato di uno schiacciamento degli spazi entro i quali si erano fino a quel momento rifu-giati gli intellettuali. Solo 12 furono gli ordinari che rifiutarono il giuramento; ad essi andrebbero aggiunti quelli che tra i ruoli minori fecero la stessa scelta, ma dei quali la storiografia non si è mai occupata. Sicuramente alcuni cedettero al ricatto fascista per mero opportunismo, altri seguirono l’indicazione di variegate frange dell’antifascismo di rimanere per combattere il nemico dall’interno9.

Da un punto di vista formale, la raccolta delle numerose leggi fasciste sull’i-struzione superiore e la loro pubblicazione nell’agosto 1933 nel Testo unico se-gnarono la fine di un decennio contraddistinto dai ritocchi impressi dal regime alla riforma Gentile. Così quando a Balbino Giuliano succedettero in ordine Fran-cesco Ercole e Cesare Maria De Vecchi le finalità del fascismo rispetto al mondo dell’alta cultura erano mutate. I cambiamenti successivi furono elaborati all’in-segna della totale centralizzazione del sistema universitario a partire dalla già citata abolizione delle distinzioni tra Atenei, l’equiparazione delle Scuole e degli Istituti alle Facoltà e la loro sottomissione al controllo del governo centrale, la definizione dall’alto dei corsi universitari e dei relativi curricula. In essi furono inserite materie fondamentali e complementari ben definite per ogni indirizzo di studi, oltre all’obbligatorietà di frequentare per tutti i maschi i corsi di cultura militare. Contemporaneamente l’introduzione di materie quali dottrina del fa-scismo o economia corporativa rispondeva ad esigenze specifiche di formazione della futura classe dirigente mussoliniana, che nella sua componente ammini-strativa poteva già contare sulle Facoltà di Scienze politiche10.

Infine il riassetto degli anni Trenta mutò le norme per il reclutamento ac-cademico ponendole completamente sotto controllo del ministero attraverso la gestione delle commissioni giudicatrici. De Vecchi fu quindi il ministro che completando l’opera di trasformazione degli assetti didattico-accademici aprì

9 Sul giuramento si vedano Helmut Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, Firenze, La Nuova Italia, 2000 (ed. or. 1993) e Giorgio Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Torino, Einaudi, 2001.10 Maria Cristina Giuntella, Autonomia e nazionalizzazione dell’università. Il fascismo e l’inquadra-mento degli atenei, Roma, Studium, 1992.

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la strada all’ultima fase del progetto totalitario fascista, quella segnata dalle guerre, dapprima l’impresa coloniale e poi il conflitto mondiale per espandere il fascismo su scala planetaria, che entrarono a pieno titolo nella vita universitaria.

3. I gruppi universitari fascisti: oggetto e soggetto di irreggimen-

tazione

Sin dai suoi albori il fascismo investì molte energie sui giovani nella convinzio-ne che per fascistizzare gli Atenei italiani fosse indispensabile controllare gli universitari al fine di gettare le basi della futura classe dirigente fascista e al contempo utilizzare le energie di questa élite per creare consenso, dapprima nel mondo dell’alte cultura e poi nell’intero paese. Un processo lungo e complesso, non privo di contraddizioni e non certo lineare che accompagnò tutto il venten-nio di regime11.

A partire dal 1919 alcune associazioni patriottiche studentesche si ispiraro-no ai Fasci di Combattimento per raccogliere i giovani universitari reduci della prima guerra mondiale. In esse si ritrovarono molti di quei giovani scontenti del trattamento loro riservato dal paese dopo la fine del conflitto, nell’idea che i sa-crifici fatti per la patria dovessero essere riconosciuti permettendo loro di irrom-pere da protagonisti sulla scena culturale, politica e sociale italiana. La voglia di affermazione, contrastata da un generale mancato riconoscimento pubblico, spinse numerosi studenti tra le fila dei Fasci di singole città dove i giovani costi-tuirono il fondamento dell’Avanguardia studentesca dei Fasci di combattimento e dei primi Gruppi universitari fascisti (Guf), nati in sede locale nel 1921 e subito riuniti nella Federazione nazionale universitaria fascista. Un primo forte segnale di inquadramento dell’associazionismo universitario fascista sotto le insegne del partito al quale i giovani erano obbligati ad iscriversi per poter partecipare alle attività locali.

Il fascismo utilizzò quindi i Guf per impadronirsi degli Atenei contrastando con l’uso della violenza tipica del modello squadrista tutte le organizzazioni

11 Il testo fondamentale al quale si deve il definitivo superamento delle vecchie interpretazioni che consideravano fallimentare il progetto fascista di conquista degli Atenei attraverso la componente studentesca è Luca La Rovere, Storia dei Guf. Organizzazione, politica e miti della gioventù univer-sitaria fascista. 1919-1943, prefazione di Bruno Bongiovanni, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Per un caso specifico, che in larga parte conferma l’interpretazione di La Rovere, rimando al mio Simona Salustri, La nuova guardia. Gli universitari bolognesi tra le due guerre (1919-1943), Bologna, Clueb, 2009.

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studentesche preesistenti che controllavano le attività universitarie, prima fra tutte la goliardia tradizionale, e quelle che si opponevano alla supremazia dei gufini, sia quindi le associazioni di matrice antifascista, tra cui la Federazione universitaria cattolica italiana, con la quale inizialmente i gufini cercarono di collaborare, sia quelle massoniche come la Corda Fratres. La penetrazione del fascismo tra le fila studentesche non fu però cosa semplice, soprattutto quando i giovani fascisti furono chiamati a difendere la riforma Gentile, una riforma che, come abbiamo visto, per il suo carattere elitario finì per ampliare il divario tra formazione universitaria e mondo del lavoro. Questo fu comunque l’ultimo osta-colo al completo controllo da parte del fascismo sui giovani universitari e sulle loro attività; tra il 1928 e il 1931 la ristrutturazione interna al regime stabilì infat-ti il definitivo inquadramento organizzativo, amministrativo e finanziario dei Guf nella segreteria del Partito nazionale fascista (Pnf), una “sottomissione” ricam-biata da un aumento esponenziale dei finanziamenti provenienti dal centro per le attività dei singoli Gruppi. Al contempo, sotto la gestione Turati, il partito creò la Milizia universitaria, in seguito sottoposta alle dipendenze di quella ordinaria, e si stabilì che un rappresentante del Guf divenisse membro in soprannumero del direttorio di ogni Federazione provinciale. Anche l’opera del segretario del Guf Carlo Scorza non fu da meno: il suo impegnò fu totale nella creazione del mito fascista nel quale far riconoscere tutti i giovani, combattendo l’abbando-no dell’associazionismo nel passaggio dalla scuola secondaria all’università, in modo da stabilire una continuità nella formazione della gioventù fascista e tra l’associazionismo e il partito.

Quando Achille Starace prese le redini dei Pnf la macchina era ormai ben oliata. La maggiore articolazione strutturale dei Gruppi e l’equiparazione tra ca-riche di partito e Guf fece sì non solo che gli universitari fascisti fossero funziona-li al controllo degli Atenei – nei discorsi di apertura dei diversi anni accademici dopo il rettore aveva diritto di parola solo il segretario del Gruppo locale –, ma anche che attraverso le organizzazioni universitarie avvenisse parte della sele-zione per la futura classe dirigente fascista.

In questo modo il partito si occupava della formazione dei giovani in maniera integrale, investiva cioè nel controllo di tutti gli aspetti della vita dello studente, sia quelli pratici che quelli morali, per formare il fascista del futuro. Anche i Lit-toriali, introdotti da Alessandro Pavolini nel 1934, furono parte dell’ingranaggio di controllo e al contempo momento di selezione della classe dirigente fascista; non è un caso se il titolo di littore divenne ben presto un elemento distintivo per la carriera nel partito. I Littoriali quindi come mezzo di riaffermazione collettiva giovanile negli ideali e nella dottrina di regime, e non certo quella “palestra di antifascismo” che per lungo tempo la storiografia ha voluto descrivere per mo-

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tivare il passaggio dei più giovani dal fascismo alla democrazia post-bellica12. Per tornare al ruolo dei gufini, supportati dai rettori fascisti e dalle istituzio-

ni accademiche, possiamo sintetizzare dicendo che a loro spettava la gestione dell’ambito assistenziale e di quello culturale, dei settori ludico e sportivo. A loro quindi il compito di impedire lo svolgimento di queste attività al di fuori del Guf, controllando così direttamente studenti e docenti, questi ultimi anche tramite la gestione delle dispense. Contribuivano alla fitta rete gestionale le sezioni fem-minili, gli uffici stampa e i corsi di preparazione politica che avevano lo scopo di favorire la crescita degli universitari nei valori dell’ortodossia fascista e di spin-gerli verso la carriera politica o quella giornalistica.

Un accenno lo meritano infine le sezioni stranieri che esistevano in ogni Guf ed erano impegnate a curare l’accoglienza di tutti gli studenti provenienti dall’estero, dagli iscritti ai semplici convegnisti. Gli accordi bilaterali, rivolti in modo particolare a paesi che rientravano nelle mire espansionistiche del regi-me, contribuirono alla crescita dei flussi migratori favoriti da una serie di norme introdotte sin dalla metà degli anni Venti, si pensi ad esempio al dimezzamento delle tasse di iscrizione. L’afflusso di universitari stranieri raggiunse il suo apice nell’anno accademico 1933-34 (il 5% dell’intera popolazione studentesca), men-tre il numero massimo di lauree e diplomi venne toccato nel 1937-38. Due date ovviamente non casuali. L’Italia, oltre ad essere meta di un’immigrazione intel-lettuale di ritorno grazie ai figli degli italiani all’estero che rientravano a studiare nel paese d’origine delle loro famiglie, e ad attirare studiosi attratti dalle anti-chità e dalle bellezze classiche del paese, divenne il rifugio di un folto numero di universitari di origine ebraica. La progressiva radicalizzazione antisemita di paesi quali la Polonia, la Romania, l’Ungheria e poi la Germania spinsero verso la Penisola un numero crescente di ebrei, interessati a frequentare gli Atenei più noti del Centro-nord e a terminare gli studi soprattutto nelle materie scien-tifiche, in primis Medicina e chirurgia. L’accoglienza per questi universitari durò ben poco. Il controllo diretto del ministero degli Esteri sul riconoscimento dei titoli di studio degli stranieri fu il primo segnale della progressiva chiusura delle frontiere italiane. In quest’ottica va letta anche l’uscita dei Guf dalla Confédera-tion internationale des étudiants, ormai ritenuta un’associazione nelle mani dei paesi oppositori del fascismo e contrari alle guerre d’espansione del regime per le quali i giovani universitari si arruolarono volontariamente.

Furono le leggi razziali del 1938-39 a segnare la quasi totale chiusura delle università italiane agli stranieri13.

12 Il riferimento è all’emblematico lavoro di Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio. Contributo alla storia di una generazione attraverso il fascismo, Torino, Einaudi, 1947.13 Cfr. Elisa Signori, Una peregrinatio academica in età contemporanea. Gli studenti ebrei stranieri

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4. Il ministero Bottai e i nemici della nazione fascista

Giuseppe Bottai fu il ministro dell’Educazione nazionale che più a lungo ricoprì questo incarico. Per sei anni, dal novembre 1936 al febbraio 1943, Mussolini in-vestì su uno dei più accreditati esponenti del totalitarismo. Bottai, infatti, più di altri, sarebbe stato in grado di portare a compimento il lungo processo di fasci-stizzazione della scuola italiana, introducendo in essa i metodi che erano propri del corporativismo e che avrebbero dovuto legare indissolubilmente studio e mondo del lavoro alla militarizzazione nella creazione dell’uomo nuovo fascista.

Personaggio discusso dalla storiografia che lo ha a lungo inserito nell’alveo dei fascisti “critici” 14, Bottai lasciò una traccia indelebile nel sistema universitario italiano interpretando pienamente quelli che furono i desiderata del regime in ambito universitario a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. Da un lato l’introduzione dell’antisemitismo di Stato e dall’altro l’integrale assorbimento delle velleità imperiali, in proiezione di un imminente impegno bellico, furono le due facce della stessa medaglia della politica bottaiana. In entrambi i casi elementi di continuità si unirono ad una accelerazione nel controllo della so-cietà che fu proprio del regime nel momento in cui Mussolini, agevolato dalla congiuntura internazionale, scelse dapprima la via del nemico interno per occul-tare la mancata risposta ai problemi del paese e in seguito intraprese la strada della guerra. Sia lo sforzo demografico che l’imperialismo, basi ideologiche nella costruzione dell’antisemitismo nostrano, erano già state introiettate nella vita degli Atenei attraverso i corsi di argomento coloniale ai quali, a partire dal 1938, si affiancarono le nuove discipline razziali.

La legislazione razzista rapidamente intaccò, sconvolgendoli, gli assetti acca-demici dell’intera Penisola.

Il censimento fu il primo passaggio verso l’esclusione: si iniziò a rilevare con metodicità la presenza degli ebrei nella società italiana, in modo particolare nella scuola, nelle università, e nel mondo delle professioni, per poi poter ap-plicare celermente la normativa razzista. La sistematica schedatura, intrapresa negli Atenei nel febbraio 1938 su diretta richiesta di Bottai, godette della soler-zia del personale amministrativo che, al pari dei docenti, non fece mancare il proprio appoggio all’antisemitismo. Quando nell’estate del 1938 vennero pub-blicati in rapida successione il Manifesto degli scienziati e la Dichiarazione sulla

nelle università italiane tra le due guerre, in “Annali di storia delle università italiane”, 4 (2000), pp. 139-154. 14 Si vedano per tutti Nicola Zapponi, Il partito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del fasci-smo 1926-1943, in “Storia contemporanea”, 4-5 (1982), pp. 569-633 e Monica Galfré, Giuseppe Bottai. Un intellettuale fascista, Firenze, Giunti, 2000.

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razza tutto era pronto per accogliere i Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista che, di fatto, esclusero con effetto immediato da ogni ordine scolastico personale e alunni di “razza ebraica”. Un attacco da parte del fasci-smo inusuale, non tanto perché l’antiebraismo non fosse un sentimento presente nella società italiana, quanto perché la forza dirompente delle leggi razziste e la celerità dei provvedimenti emanati fecero del razzismo nostrano un exemplum.

Rapidamente venne cancellato il contributo secolare dato dall’ebraismo ita-liano alla crescita culturale del paese e si volle isolare gli ebrei privandoli di ogni elemento di socializzazione al fine di escluderli definitivamente dalla vita nazionale. Basti pensare alla sorte dei professori emeriti e di quelli onorari per i quali non fu necessario un decreto ufficiale di esclusione, l’università si limitò a rimuovere i loro nominativi dalle pagine degli annuari accademici per non con-siderarli più parte dell’organico, così come furono cancellati i loro nomi dalle intestazioni di Istituti e di premi di laurea.

Poco più di tre mesi per cacciare docenti e studenti ebrei dagli Atenei italiani15, per sostituirli con colleghi pronti allo “sforzo” della successione, per incidere irri-mediabilmente sugli assetti didattico-culturali delle università per le quali ancora oggi fatichiamo a ricostruire un quadro completo, almeno a livello quantitativo, di quella che fu l’esclusione. Va ricordato che in essa non furono coinvolti solo ordinari, ma anche tutto quel frastagliato e maggioritario universo di ruoli minori: liberi docenti, aiuti e assistenti che portano a oltre 400 il numero degli espulsi16.

La scelta da parte del regime di colpire inizialmente la scuola, e più in genera-le il mondo della cultura, incluse università e accademie, rientrava nella politica di controllo integrale della società italiana all’interno della quale dovevano esse-re cresciuti ed indottrinati i giovani fascisti, volano delle idee totalitarie dentro e fuori i confini nazionali. L’investimento fatto su di essi dal regime portò i suoi frutti sin dalla prima metà degli anni Trenta, quando l’antigiudaismo iniziò a coincidere con l’antifascismo e gli ebrei divennero di conseguenza nemici della nazione fa-scista. Dalla propaganda all’azione il passo fu breve e i giovani universitari si tra-sformarono nei maggiori propugnatori dell’antisemitismo fascista dentro e fuori le aule universitarie. Per gli studenti le leggi razziste del 1938 furono un impor-tante contributo alla vittoria del modello totalitario e all’affermazione di una so-cietà integralmente fascista entro la quale non c’erano margini di opposizione17.

15 Gli studenti in corso ebbero la deroga per concludere gli studi venendo esclusi dalle borse di studio e da ogni altra forma di sovvenzione, oltre che dalla possibilità di andare fuori corso.16 Nell’ultimo ventennio, numerosi sono stati i contributi che hanno arricchito il complesso quadro delle esclusioni, per una prima sintesi si rimanda ai saggi raccolti in Valeria Galimi, Giovanna Pro-cacci (a cura di), “Per la difesa della razza”. L’applicazione delle leggi antiebraiche nelle università italiane, Milano, Unicopli, 2009.17 Cfr. Simona Salustri, L’antisemitismo dei Guf nelle Università italiane: un’«opera di risanamento

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Agli occhi dei giovani la possibilità migliore per combattere in nome del fa-scismo e per l’affermazione assoluta del modello mussoliniano fuori dai confini italiani si ebbe con l’ingresso dell’Italia in guerra. Fu così che molti universitari presero parte alla mobilitazione integrale del paese impegnandosi nell’organiz-zazione del fronte interno e direttamente nel conflitto come volontari. La guerra fu inoltre per i gufini il segnale di un ritorno all’ortodossia rivoluzionaria delle origini del movimento fascista, indispensabile passaggio per stabilire la definiti-va supremazia del partito sullo Stato e sulla società.

Dal canto loro le istituzioni universitarie furono pienamente coinvolte nel conflitto sia negli aspetti pubblici quali le cerimonie ufficiali, sia nell’organizza-zione interna protesa ad incrementare e incentivare i corsi funzionali alla guer-ra. Le pubbliche adunate, così come i discorsi dei rettori e dei professori, parte di riti collettivi propri del mondo accademico, avevano subito una significativa trasformazione nel corso degli anni Trenta con la progressiva affermazione di tematiche e forme guerresche sempre più corrispondenti allo stile militare. Fu quindi naturale da parte degli Atenei continuare ad agire su una strada già trac-ciata e impegnarsi nella propaganda per la guerra fascista18.

Anche gli studiosi, a cui fu richiesta un’attiva mobilitazione, diedero il loro contributo al conflitto per la patria e alla nazione in armi. Non è possibile in questa sede affrontare il tema specifico dei mutamenti disciplinari, quello che traspare con chiarezza dallo studio degli Atenei nel periodo bellico è comunque il grado di fascistizzazione raggiunto nell’università italiana.

Essa fu un soggetto attivo nel controllo fascista della società, si lasciò con-quistare e si mise al servizio dell’irreggimentazione escludendo gli oppositori e chiudendo progressivamente le zone grigie.

fascista», in Silvia Casilio, Annalisa Cegna, Loredana Guerrieri (a cura di), Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, Bologna, Clueb, 2010.18 Elisa Signori, Tra Minerva e Marte: università e guerra in epoca fascista, in Piero Del Negro (a cura di), Le Università e le guerre dal Medioevo alla Seconda guerra mondiale, Bologna, Clueb, 2011, pp. 153-167.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 399-402

Mattia Brighi (Cesena, 1985), membro del Comitato scientifico dell’Istituto stori-co di Forlì-Cesena, ricercatore di storia locale.

Fabio Casini (Castelfranco Emilia, 1962), esperto di storia dei trasporti, collabora col quindicinale “L’Indicatore mirandolese” di Mirandola (Mo).

Carlo De Maria (Bologna, 1974), direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena, presidente di Clionet.

Francesco Di Bartolo (Gela, 1972) ha svolto attività di ricerca in Storia contempo-ranea presso l’Università di Palermo; attualmente insegna Filosofia e Storia nelle scuole secondarie superiori. È socio di Clionet.

Alberto Ferraboschi (Reggio Emilia, 1966), responsabile Archivi contemporanei e storia locale presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia.

Alberto Gagliardo (Lanciano, 1962) è insegnate di lettere del Liceo scientifico di Cesena, distaccato presso gli Istituti storici della Resistenza di Forlì-Cesena e di Rimini.

Luca Gorgolini (Macerata Feltria, 1975) svolge attività di ricerca presso il Dipar-timento di storia, cultura e storia sammarinesi dell’Università di San Marino ed è docente a contratto di Storia contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia.

Gli autori

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Fascismo e società italiana400

Domenico Guzzo (Losanna, 1982) è condirettore dell’Istituto storico di Forlì-Ce-sena e consulente scientifico della Fondazione Roberto Ruffilli.

Fiorella Imprenti (Milano, 1977) è ricercatrice e segretaria generale presso la Fondazione Aldo Aniasi di Milano.

Gabriele Licciardi (Palermo, 1979),  ricercatore presso il Centro studi Luccini di Padova e cultore di Storia contemporanea all’Università di Verona.

Alessandro Luparini (Firenze, 1967), direttore Fondazione Casa di Oriani, Raven-na.

Marco Masulli (Messina, 1988), dottorando di ricerca in Storia contemporanea presso l’Università di Genova.

Tito Menzani (Bologna, 1978) è docente a contratto di Storia economica e Storia dell’impresa all’Università di Bologna.

Roberta Mira (Savona, 1973) è dottore di ricerca in Studi storici per l’età moderna e contemporanea e assegnista di ricerca al Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna.

Fabio Montella (Mirandola, 1969), ricercatore presso l’Istituto storico di Modena e responsabile dell’Ufficio comunicazione del Comune di Mirandola (Mo).

Fabrizio Monti (Forlì, 1972), archivista libero-professionista, collabora con l’I-stituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena ed è membro del comitato scientifico dell’Istituto.

Francesco Paolella (Reggio Emilia, 1978) fa parte del comitato scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È redattore della “Rivista spe-rimentale di freniatria” e della rivista “Tysm”.

Mario Proli (Forlì, 1969), giornalista professionista, lavora come responsabile dell’Ufficio stampa del Comune di Forlì e dell’Unità Eventi istituzionali. È vicedi-rettore della rivista di cultura politica “Il Pensiero Mazziniano”.

Simona Salustri (Chiaravalle, Ancona 1974) è professore a contratto presso la Scuola di Lingue e letterature straniere dell’Università di Bologna dove insegna Storia contemporanea e History of Mass Communication.

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Gli autori 401

Matteo Troilo (San Benedetto del Tronto, 1976), dottore di ricerca in Storia eco-nomica, è archivista presso il Polo archivistico regionale dell’Emilia-Romagna (Parer).

Maria Elena Versari (Forlì, 1974) ha studiato alla Scuola Normale di Pisa ed è Visiting Professor di Storia dell’arte alla Carnegie Mellon University (Pittsburgh, USA).

Gilda Zazzara (Milano, 1977) è docente a contratto di Storia del lavoro e del mo-vimento operaio presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

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Fascismo e società italiana.Temi e parole-chiave

a cura di Carlo De MariaBologna (BraDypUS) 2016

ISBN 978-88-98392-48-3pp. 403-416

Adams, Mark B., 195nAdorno, Salvo, 101nAgnini, Ferdinando, 280Ajroldi, Cesare, 314nAlbanese, Giulia, 250n, 251nAlberti, Manfredi, 248nAlcott, Louisa, vedi May Alcott, LouisaAlfieri, Dino, 134 e n, 135 e n, 136, 137,

154, 156 e n, 283n, 293nAlfieri, Laura Margherita, 185nAlfieri, Vittorio, 188nAlighieri, Dante, 303, 326, 328, 333Alvaro, Corrado, 92n, 95, 186Amadori, Saverio, 122nAmaldi, Ugo, 242Amatori, Franco, 235nAmbrosini, Lando, 44 e nAmendola, Giovanni, 99Andersen, Hans Christian, 36Anselmi, Tina, 81Antonioli, Maurizio, 247n, 362n, 365nAnzi, Felice, 110nAquarone, Alberto, 40n, 231n, 369nArata, Giulio Ulisse, 302Arbizzani, Luigi, 157nArcangeli, Luigi, 376nArchi, Alfonso, 350 e nArendt, Hannah, 67Argentieri, Mino, 121n, 126nArmuzzi, Giuseppe Ornello, 214, 215n

Indice dei nomi

Arpinati, Leandro, 107 e n, 108, 352Artali, Federica, 273nArtusi, Pellegrino, 319 e nAscarelli, Fernanda, 76-77Aschieri, Ugo, 77Azimonti, Carlo, 110n

Babini, Valeria Paola, 311nBaccanelli, Pietro, 330Baccarini, famiglia, 164Badoglio, Pietro, 165, 167, 173, 175Baffico, Mario, 138nBaioni, Massimo, 288n, 298 e n, 302nBalàzs, Béla, 121nBalbo, Italo, 303 e n, 325, 355Baldacci, Massimo, 244nBaldazzi, Giovanni, 366 e nBaldi, Alfredo, 132nBaldoli, Claudia, 143nBalducci, Valter, 143n, 144n, 147n, 148nBalilla Pratella, Francesco, 321, 328Balzani, Marcello, 327nBalzani, Roberto, 290 e n, 302n, 317 e n, 321

e n, 323n, 326n, 333n, 341n, 379nBambi, Anna Maria, 164nBandini, Terzo, 376nBanfi, Antonio, 182n, 190, 192 e nBaracca, Francesco, 303, 333Barbagli, Marzio, 233nBaritono, Raffaella, 112n

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Fascismo e società italiana404

Barbano, Umberto, 139Barbi, Michele, 188nBarbiani, Elia, 251nBarellai, Giuseppe, 144Barilli, Bruno, 186Baris, Tommaso, 8nBarisione, Silvia, 148nBarizza, Sergio, 251n, 253nBaroncini, Enrico, 383nBarone, Giuseppe, 89nBartoli, Paolo, 40nBattilani, Patrizia, 149nBazzani, Cesare, 13, 288 e n, 294n, 332Bazzi, Carlo, 152-154Becchi, Egle, 41, 42n, 43 e n, 47Bedeschi, Lorenzo, 328nBelardelli, Giovanni, 298nBellan, Gino, 261Bellingeri, Luca, 61nBellini, Vico, 54nBelluzzo, Giuseppe, 230, 234-235Beltramelli, Antonio, 322 e n, 328Ben-Ghiat, Ruth, 84n, 127nBergamini, Wanda, 229nBernardini, Aldo, 123nBerneri, Camillo, 65 e nBerstein, Serge, 9nBertellini, Giorgio, 124nBerti, Giampietro, 365nBertieri, Claudio, 43nBertozzi, Massimo, 363 e nBertucelli, Lorenzo, 154nBetri, Maria Luisa, 7nBetti, Carmen, 15n, 40n, 188nBettinotti, Mario, 106, 110 e nBevilacqua, Piero, 83n, 87nBezzi, Gianni, 381nBianchetti, Giovanni Battista, 256, 260-261Bianchi, Bruna, 256nBianchi, Leonardo, 200-201Bianchi, Michele, 369Biagetti, Maria Teresa, 58nBigazzi, Duccio, 260nBion, Walter Hermann, 144Bisoni, Claudio, 122nBissi, Giovanni, 258 e nBizzarri, Libero, 122nBlasetti, Alessandro, 129n, 139-140

Blok, Anton, 94nBoatti, Giorgio, 391nBobbio, Norberto, 7 e n, 387nBocca, Giorgio, 334 e nBoccolari, Giorgio, 158nBoero, Pino, 43 e nBolaffio, Leone, 160Bolognesi, Dante, 302nBolzoni, Francesco, 131nBombardieri, Chiara, 310nBompiani, Valentino, 183, 192 e nBonaparte, Carlo Luigi Napoleone

(Napoleone III), 319Bonaparte, Napoleone, 318Bonatto, Giulio, 353nBonaventura, Arnaldo, 79Bonfiglioli, Luigi, 315nBongiovanni, Bruno, 392nBonifazi, Corrado, 263n, 264n, 266n,

268n, 270nBonisegni, Walter, 381Bono, Francesco, 128n, 131nBontempelli, Massimo, 184, 186Borghi, Armando, 365-366Borghi, Lamberto, 232nBosi, Vittorio, 14nBosworth, Richard, 253nBottai, Giuseppe, 62-63, 71 e n, 72,

139n, 244, 300, 332, 345, 395Botteri, Francesco, 18Brancati, Vitaliano, 186Braschi, Gianluca, 164nBrasey, Loris, 365 e n, 366 e nBraun, Giacomo, 243Brazzarotti, Luigi, 261Bresci, Annalisa, 40 e nBriganti, Walter, 160nBrunè, Pietro, 239nBrunetta, Ernesto, 252nBrunetta, Gian Piero, 121n, 122n,

126n, 129n, 130n, 131n, 134, 135n, 138n, 139n

Buchignani, Paolo, 298nBurgio, Alberto, 196n, 311nBurzio, Giovanni, 43n

Cabrini, Angiolo, 110nCabrini, Emilia, 78

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Indice dei nomi 405

Cafagna, Luciano, 260nCafaro, Pietro, 151nCaffaro Rore, Mario, 225Cairoli, Roberta, 273n, 275nCalabrò, Carmelo, 298nCalamandrei, Piero, 276nCalanca, Daniela, 124n, 134nCalbi, Primo, 217 e nCaldara, Emilio, 99, 101nCaldiron, Orio, 128n, 129n, 132n,

137n, 139nCallari Galli, Matilde, 146nCambi, Franco, 244nCambiasi Negretti Odescalchi, Liana,

185Camerini, Mario, 138nCampana, Mario, 18nCampanini, Celeste, 353Campanini, Giorgio, 352nCamurri, Renato, 253nCanali, Mauro, 370nCandeloro, Giorgio, 276n, 279nCanella, Maria, 373n, 383nCanepa, Giuseppe, 104, 110nCanepa, Pietro, 376nCanestri, Giorgio, 233n, 234n, 245nCannistraro, Philip V., 37n, 68n, 98n,

99 e n, 121nCapasso, Pietro, 198Cappelli, Licinio, 304Capristo, Annalisa, 63 e nCaprotti, Federico, 126nCaputo, Ferruccio, 280nCaputo, Franca, 279nCaputo, Giorgio, 279nCarabba, Claudio, 43nCaracciolo, Alberto, 230nCardillo, Massimo, 134nCarducci, Giosuè, 329Carlyle, Thomas, 277Carnoli, Saturno, 303nCarocci, Giampiero, 125nCarpi, Michela, 186n, 191nCarroll, Lewis, 39Caruso, Elio, 375n, 376nCasadei, Ettore, 14n, 375n, 376nCasadei , Secondo, 335Casadio, Alvaro, 306n

Casadio, Gianfranco, 131nCasagrande, Pierantonio, 175nCasali, Luciano, 303nCasarin, Michele, 251nCasati, Alessandro, 191Casilio, Silvia, 315n, 397nCasini, Gherardo, 37Cassata, Francesco, 66n, 100n, 196n, 200n,

202n, 203n, 309n, 313nCassese, Sabino, 59n, 60n, 61 e nCastelvetro, Maurizio, 147n, 148nCastronovo, Valerio, 151nCasulich, Callisto, 132nCatarsi, Enzo, 355nCatozzi, Marco, 164nCavaglion, Alberto, 65n, 67 e n, 68 e nCavarocchi, Francesca, 69n, 70nCavassini, Paolo, 303nCavazza, Stefano, 18nCecchin, Armando, 261Cedroni, Lorella, 319nCegna, Annalisa, 315n, 397nCelli, Silvio, 137nCereja, Federico, 232n, 234n, 299nCerletti, Ugo, 307, 312Chamberlain, A.N., 65Charnitzky, Jürgen, 40n, 388nChemello, Adriana, 185nCherchi, Usai Paolo, 123nChiang Kai-Shek, 170, 172Chiara, Piero, 191nChiariglione, Giancarlo, 137nChiarini, Luigi, 132n, 139 e nChinello, Cesco, 249n, 250n, 260nChiodo, Maria Gabriela, 158nCiammaruconi, Clemente, 287nCiano, Costanzo, 332, 17Ciano, Galeazzo, 67, 99, 130n, 355Ciccotti, Eusebio, 137nCiceri, Massimo, 196nCifelli, Alberto, 261nCini, Vittorio, 252Ciuffoletti, Zeffiro, 154nCoen Pirani, Emma, 76-77Colarizi, Simona, 272n, 273n, 274n, 278nColetti, Gino, 366nColi, Daniela, 192nCollotti, Enzo, 8n, 64 e n, 65n, 66n, 69 e n, 276n

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Fascismo e società italiana406

Comin, Jacopo, 286 e nCompagna, Luigi, 298nConsiglio, Alberto, 130nConti, Guido, 186nCoogan, Jackie, vedi Coogan, John LeslieCoogan, John Leslie, 45Coppellotti, Francesco, 300nCorbin, H., 116nCordova, Ferdinando, 247n, 250n, 361nCorner, Paul, 8n, 124n, 249n, 322n, 361nCorno, David G., 84nCornolò, Giovanni, 224nCorradini, Enrico, 298nCorridoni, Filippo, 365nCorti, Paola, 263n, 269n, 270nCova, Alberto, 14nCremonesi, Filippo, 124-125Crispi, Francesco, 298Crispino, Giovanni, 325Cristaldi, A., 71nCroce, Benedetto, 7, 99, 102 e n, 103 e n, 104

e n, 105 e n, 106 e n, 109, 112 e n, 113 e n, 115n, 116n, 117 e n, 118, 192 e n, 390

Croce, Elena, 117nCrum, Roger J., 283nCurti, Roberto, 236nCurwood, James Oliver, 39

Dalla Pria, Federica, 134ndall’Oglio, Enrico, 98Dandolo, Milly, 185Dandolo, Vincenzo, 49n, 50n, 51nD’Annunzio, Gabriele, 191 e n, 251, 298Dante, Umberto, 140nDarwin, Charles, 195D’Arzo, Silvio, 182n, 185 e nD’Attorre, Pier Paolo, 8n, 323nD’Autilia, Gabriele, 122nDavid, Ulderico, 303n, 305nD’Azeglio, Massimo, 318Dazzetti, Stefania, 68nDe Ambris, Alceste, 367 e nDe Amicis, Edmondo, 319, 330Déat, Marcel, 118 e nDe Begnac, Yvonne, 298nDe Bernardi, Alberto, 8n, 248n, 362nDe Berti, Raffaele, 137n, 184n, 186nDe Clementi, Andreina, 363 e n

Decleva, Enrico, 183n, 187n, 190n, 191n

De Cristoforis, Malachia, 144De Felice, Renzo, 6 e n, 7, 64 e n, 65n,

68n, 70 e n, 78 e n, 80, 98n, 123n, 129n, 163, 260n, 322n, 346n

De Feo, Luciano, 123 e n, 124n, 125-126, 127 e n, 128n, 137n

De Fort, Ester, 233nDegl’Innocenti, Maurizio, 10n, 107n,

152n, 154n, 158n, 244n, 363nde Grazia, Victoria, 7n, 8n, 15n, 143n,

182n, 185n, 322n, 388nDei, Marcello, 346nDel Boca, Angelo, 6n, 7n, 148n, 247nDelcroix, Carlo, 284Delfini, Bianca, 77Dell’Amico, Franco, 223nDella Peruta, Franco, 98nDell’Era, Tommaso, 80nDelle Vacche, famiglia, 164Dell’Oro, Giuseppe, 260nDelly, vedi Petitjean de la Rosière,

Jeanne-Marie e FrédéricDel Negro, Piero, 397nDe Longis, Rosanna, 185nDe Luca, Carmine, 43 e nDe Luca, Giovanni, 353nDe Luna, Giovanni, 273n, 274 e n, 275

e n, 278nDe Man, Henri, 102 e n, 103 e n, 106,

110 e n, 111 e n, 112 e n, 115 e n, 116n

De Marco, Maurizio, 251n, 253nDe Maria, Carlo, 58n, 60n, 62n, 100n,

101n, 107n, 230n, 243nDe Martino, Stefano, 143nDe Michelis, Giuseppe, 124 e nD’Emilio, Franco, 323nDe Nicolò, Gastone, 280nD’Erme, Vittorio, 91nDe Robbio, Antonella, 61nD’Errico, Corrado, 128nDerrida, Jacques, 166, 167 e nDe Sanctis, Sante, 198 e nDe Stefani, Alberto, 59Detti, Edoardo, 380nDe Vecchi, Cesare Maria, 240 e n, 297,

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Indice dei nomi 407

357-358, 391Di Bartolo, Francesco, 86nDi Crollalanza, Araldo, 19Di Fausto, Florestano, 325-326Di Michele, Andrea, 85nDi Monte, Maria Giuseppina, 164nDirani, Ennio, 299n, 302n, 303nDi Veroli, Michele, 280nDogliani, Patrizia, 8n, 9 e n, 40 e n,

46n, 47, 65n, 143n, 188n, 211n, 239n, 269n, 322n, 323n, 373n, 380n

Donaggio, Arturo, 309Donati, Antonio, 212, 214Dorigo, Wladimiro, 250n, 261nD’Orsi, Angelo, 193nDubreuil, Hyacinthe, 112 e n, 114 e nDuggan, Chtistopher, 95n

Efrati, Maria Luisa, 76-77Einaudi, Giulio, 193Einaudi, Luigi, 100n, 335Einaudi, Roberto, 193Enriques, Federico, 242Epicuro, 161Erbaggio, Pierluigi, 124nErcole, Francesco, 355, 391Errante, Vincenzo, 184nEsposito, Roberto, 166, 167 e n, 172

Fabbri, Claudio, 146n, 148nFabbri, Fabio, 152n, 153n, 156n, 157nFabre, Giorgio, 97n, 98nFabrizio, Felice, 373n, 381n, 382nFacca, Gianni, 254nFalasca Zamponi, Simonetta, 123n,

127nFalcone, Ugo, 60nFanchi, Mariagrazia, 128nFarinacci, Roberto, 325-326Farné, Roberto, 48 e n, 123nFauri, Francesca, 264n, 266n, 267n,

268n, 269n, 270nFava, Domenico, 77Fedele, Pietro, 350Fedele, Santi, 365nFederici, Girolamo, 252nFederzoni, Luigi, 327Fera, Francesco Saverio, 147n

Ferraboschi, Umberto, 255nFerrara, Giuseppe, 130nFerrari, Giulio Cesare, 200, 309, 312Ferraris, Galileo, 224Ferrata, Giansiro, 184Ferrero, Guglielmo, 318Ferretti, Gian Carlo, 182n, 184n, 186nFerretti, Lando, 132n, 380 e nFerretti, Vladimiro, 158nFerri, Edgarda, 280nFerro, Filippo Maria, 307nFilippetti, Angelo, 99Finzi, Riccardo, 79Finzi, Roberto, 245nFiori, Cesira, 279Fiorino, Vinzia, 315nFlora, Federico, 390nFlores, Marcello, 80nFoà, Salvatore, 79Fochesato, Walter, 43 e n, 47nFogu, Claudio, 282 e n, 284nFontana, Giovanni Luigi, 254nForgacs, David, 182nFormiggini, Angelo Fortunato, 193 e nFornasari, Massimo, 149nForzano, Giovacchino, 128Foscari, Piero, 249, 250nFossati, Roberta, 274nFrabboni, Franco, 144n, 145n, 146nFrabotta, Maria Adelaide, 98Franceschelli, Mario, 153nFranchetti, Leopoldo, 94nFranchini, Francesca, 143n, 146n, 147nFranzina, Emilio, 90n, 252nFratelloni, Cristina, 124nFreddi, Luigi, 130, 131 e n, 132, 134 e n, 135n,

136 e n, 137, 140, 283n, 293nFregna, Roberto, 327nFriedlander, Henry, 315nFusinato, Giuseppe, 257nFuzzi, Arnaldo, 14

Gabbi, Umberto, 196 e nGabetta, Fidia, 379nGabrielli, Gianluca, 209n, 213n, 214n, 235n,

347n, 351nGabrielli, Patrizia, 274nGadducci, Fabio, 43n

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Fascismo e società italiana408

Gagliani, Dianella, 142nGagliardi, Alessio, 248nGagliardo, Alberto, 213nGalassi, Nazario, 156nGalasso, Giuseppe, 151nGalfré, Monica, 184n, 235n, 350n, 395nGalimi, Valeria, 8n, 63n, 81n, 249n, 322n,

396nGallerano, Nicola, 8n, 80nGallo, Stefano, 255n, 267nGalton, Francis, 195, 202Ganapini, Luigi, 362nGaraffoni, Oddino, 214Gardini, Ovidio, 382nGargani, David, 134nGaribaldi, Anita, 284Garibaldi, Giuseppe, 165, 172, 283-284, 299n,

318n, 319-320, 334Garin, Eugenio, 102n, 182n, 192nGarofalo, Piero, 122nGarzarelli, Benedetta, 128nGaspari, Oscar, 91n, 92nGemelli, Agostino, 194Gencarelli, Elvira, 169nGenovesi, Giovanni, 232n, 346nGentile, Emilio, 7n, 112n, 130n, 141n, 142n,

147n, 171n, 285n, 291n, 297 e n, 300n, 301n, 322n, 346

Gentile, Giovanni, 102, 189 e n, 190, 192 e n, 197, 231-232, 233 e n, 236-237, 244, 298n, 299n, 345, 347, 388 e n, 390-391, 393

Gentili, Alberto, 79Gerratana, Valentino, 299nGiacanelli, Ferruccio, 307n, 308n, 311nGiani Gallino, Tilde, 35 e n, 37, 39 e nGiannini, Alberto, 125nGiannini, Giorgio, 280nGibelli, Antonio, 15n, 40 e n, 41, 42 e n, 47,

141 e n, 143nGigli Marchetti, Ada, 98Gili, Jean-Antoine, 121n, 131n, 137n, 140nGimmi, Annalisa, 183nGini, Corrado, 100n, 199, 202 e nGinzburg, Leone, 102, 183, 193Gioiello, Salvatore, 382nGiovanazzi, Giuseppe, 38nGiuffredi, Massimo, 193nGiuliano, Balbino, 391

Giulietti, Fabrizio, 366nGiuntella, Maria Cristina, 391nGiuntini, Andrea, 151nGiuntini, Sergio, 373n, 383nGiuriati, Giovanni, 251Giussani, Angela, 373nGiussani, Luciana, 373nGlynn, Eleonora, 36Gobbi, Ulisse, 160Gobetti, Piero, 98-99, 193, 276, 299 e nGobineau, J.A. de, 65nGoebbels, Joseph P., 131Goetz, Helmut, 391nGolmstock, Igor, 130nGonnella, Guido, 279Gori, Gianfranco Miro, 129n, 131nGori, Leonardo, 43nGorian, Rudj, 81nGramsci, Antonio, 276-277, 299nGranata, Ivano, 191n, 247nGrandi, Dino, 300 e n, 303Grassi, Gaddomaria, 310nGray, Ezio Maria, 127n, 133Grespi, Barbara, 132nGrifoni, Alida, 382nGrimm, fratelli (Jacob Ludwig Karl e

Wilhelm Karl), 36Gromo, Mario, 128nGualandini, Ugo, 193Guareschi, Giovanni, 184Guarracino, Scipione, 8nGuerri, Giordano Bruno, 190nGuerrieri, Loredana, 315n, 397nGuerrini, Maria, 351nGuidi Mussolini, Rachele Anna, 165,

212, 284Guidoni, Unico, 280nGuiso, Andrea, 323nGulinello, Francesco, 148nGundle, Stephen, 182n

Hay, James, 121nHazon, Filippo, 238nHendel, Lorenzo, 44nHitler, Adolf, 166, 174, 192, 332, 334Hugo, Victor, 36Huntington Wright, Willard, 36

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Indice dei nomi 409

Ianes, Alberto, 149nIbsen, Henrik, 36Imolesi, Antonella, 385nInaudi, Silvia, 40, 41nIpsen, Carl, 198nIsidori, Frasca Rosella, 380nIsnenghi, Mario, 7n, 102 e n, 182n,

250n, 251n, 253nIsola, Gianni, 44nIsrael, Giorgio, 196nIuso, Pasquale, 365n

Jacomuzzi, Stefano, 375n

Kipling, Rudyard, 39Kojevnikov, A., 116nKoon, Tracy H., 143n, 145n

Labadessa, Rosario, 152-154, 155n, 156n, 160

La Banca, Domenica, 40, 41n, 42Labriola, Arturo, 370Lacaita, Carlo G., 7n, 230n, 231n, 233nLafont, Max, 315nLama, Ernesto, 160 e nLama, Sergio, 43nLanaro, Silvio, 254n, 260nLandi, Patrizia, 185nLandra, Guido, 202 e nLandy, Marcia, 131nLaporta, Raffaele, 146nLa Rovere, Luca, 139n, 392nLaski, Harold J., 112 e n, 113 e n, 114 e

n, 115, 116n, 117 e n, 118nLaterza, Franco, 118nLaterza, Giovanni, 99, 102, 103 e n,

104 e n, 105 e n, 106 e n, 107n, 108 e n, 109 e n, 110, 111 e n, 112 e n, 113 e n, 114 e n, 115 e n, 116 e n, 117 e n, 118 e n, 119n, 192n

Laura, Ernesto G., 124n, 125n, 132n, 134n, 136n

Lazzaro, Claudia, 283nLe Bon, Gustave, 281n, 285 e nLe Chatelier, H., 112nLedeen, Michael Arthur, 364n, 367nLegnani, Massimo, 6n, 7n, 148n, 247nLelli, Bianca, 209

Lenci, Mauro, 298nLenin, Vladimir Iliç Uljanov, 303Lenzi, Anna Luce, 185nLeonardi, Andrea, 151nLeone XIII, papa, 352Leoni, Giorgio, 77Leporati, Mario, 53nLepre, Aurelio, 322nLevi, Ettore, 200, 312Levi, Fabio, 74nLevis Sullam, Simon, 298nLévi-Strauss, Claude, 166, 167nLiuzzi, Fernando, 79Liverani, Giorgio, 341nLodolini, Elio, 60nLodovici, Massimo, 8n, 206n, 323n, 379nLo Monaco Aprile, Attilio, 199nLondon, Jack, 39Longanesi, Leo, 191 e nLorenzoni, Giovanni, 87nLoreto, Fabrizio, 255nLoriga, Sabina, 272nLudwig, Emil, 281 e nLupi, Dario, 347-348Lupo, Salvatore, 8n, 70n, 85n, 93n, 94n, 95n,

252nLussana, Fiamma, 123n, 274nLuzzatto, Giunio, 388nLuzzatto, Sergio, 8n, 15n, 143n, 182n, 322n,

351n, 388nLuzzatto Coen, Laura, 76-77Lyndon Travers, Pamela, 36

Machiavelli, Niccolò, 65Madariaga, Salvador de, 114 e n, 115 e nMagagnoli, Stefano, 154nMaggi, Stefano, 222n, 226n, 227n, 228nMaglione, Giovan Battista, 106n, 110 e nMalaguzzi Valeri, Daria, 182n, 185 e nMalinverno, Angelo, 231n, 244nMaltoni, Rosa, 16, 18, 324-325, 329-330Malusardi, Edoardo, 259nMambelli, Marino, 291nMammuccari, Renato, 91nMancini, Giuseppe, 206nMancini, Maria Elena, 98n, 181n, 192nManetti, Daniela, 121nMangione, Flavio, 287n

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Fascismo e società italiana410

Mangoni, Luisa, 7n, 98n, 192n, 193nMannucci, Carlo, 171 e nMantelli, Brunello, 9nMantovani, Claudia, 196n, 198 e n, 199n,

201nManzoni, Alessandro, 188nMarcellini, Romolo, 138nMarchesini, Daniele, 383nMariani, Riccardo, 90n, 91nMariano, Emilio, 251nMarinelli, Giovanni, 136nMarinetti, Filippo Tommaso, 37, 170, 297,

328Maroni, Giovanni, 352nMarsich, Piero, 251-252Martinelli, Roberta, 90n, 91nMartinelli, Vittorio, 123nMartini, Andrea, 139nMartire, Egilberto, 297Martuzzi, Cesare, 321Marucco, Dora, 370nMarx, Karl, 369Mascagni, Pietro, 328, 332Mason, Tim, 148nMasotti, Tullio, 365nMassaretti, Pier Giorgio, 148nMatard-Bonucci, Marie-Anne, 63, 64n, 65 e n,

66 e n, 67, 68n, 69 e n, 70 e n, 71n, 243nMatsouka, Yosuke, 331Matteotti, Giacomo, 276, 277, 325Mauss, Marcel, 166 e n, 167nMay Alcott, Louisa, 36, 39Mazza, Attilio, 261Mazzacane, Aldo, 59n, 63n, 68nMazzini, Giuseppe, 292 e n, 298n, 299n, 319n,

323nMazzocchi Alemanni, Nello, 86nMazzoli, Enea, 149nMedea, Eugenio, 200, 312Melis, Guido, 59n, 80nMelloni, Ugo, 161nMelozzo degli Ambrogi, 332Menasci, Roberto, 78Mengozzi, Dino, 100n, 107n, 319n, 328nMengozzi, Marino, 347n, 352nMenzani, Tito, 150n, 158n, 159nMercurio, Franco, 93nMestre, Ezechia, 79

Miccoli, Giovanni, 63nMichaëlis, Karin, 36, 39Micheli, Giuseppe A., 41nMiglioli, Guido, 109Mila, Massimo, 183Milza, Pierre, 9nMinesso, Michela, 40 e nMingozzi, Dolores, 35nMinzoni, Giovanni, 276Missori, Mario, 107nModena, Gustavo, 313 e nModigliani, Giuseppe Emanuele, 367

e nMolin, Francesco, 259Molinari, Alessandro, 100nMondadori, Alberto, 184n, 186nMondadori, Arnoldo, 183, 184n, 186n,

190 e n, 191 e nMondello, Elisabetta, 185nMondolfo, Anita, 75-77Montale, Eugenio, 184Montecchi, Giorgio, 193nMontecchi, Luca, 40nMontella, Fabio, 49n, 50n, 51n, 52nMonti, Fabrizio, 43 e n, 328n, 382nMonti, Vincenzo, 346, 347n, 348, 349n,

354, 357Montino, Davide, 209n, 213n, 214n,

235 e n, 237n, 347nMoraglio, Massimo, 200n, 307n, 309n,

312n, 313nMorelli, Anna, 197nMoretti, Marino, 328Morgagni, Manlio, 324Morgagni, Tullo, 324, 376 e n, 377 e

n, 379Morganti, Mario, 135n, 136nMori, Cesari, 95Morigi, Renzo, 325Morigia, Camillo, 303Morpurgo Petronio, Fortunata, 185Morselli, Enrico, 201Mosconi, Elena, 185nMosse, George L., 112n, 142nMotti, Lucia, 380nMozzarelli, Cesare, 59nMucelli, Elena, 143n, 146 e n, 147n,

148n

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Indice dei nomi 411

Mulazzani, Giovanna, 147nMusso, Domenico, 126nMusso, Stefano, 248n, 255n Mussolini, Alessandro, 14Mussolini, Arnaldo, 213, 325, 328, 333,

340nMussolini, Benito, 12-13, 16-21, 35, 37,

48, 59, 63-67, 84n, 85n, 88, 97 e n, 98-99, 100n, 104, 107 e n, 108, 116, 123n, 124, 126, 129n, 133-134, 135, 136n, 137, 147, 152, 155, 157, 160-161, 164-175, 177n, 178n, 179n, 190n, 191 e n, 196, 197n, 198-199, 201, 203, 217-218, 232, 252-253, 266-269, 276, 281, 282 e n, 283, 284 e n, 285-286, 287 e n, 288-289, 291-292, 298n, 299-300, 301 e n, 302 e n, 303 e n, 305n, 308, 321-334, 337n, 339n, 348-349, 351, 355, 365, 373, 379 e n, 383, 388, 395

Mussolini, famiglia, 127nMussolini, Rachele, vedi Guidi Musso-

lini, Rachele AnnaMussolini, Romano, 169Mussolini, Sandro, 148, 333Mussolini, Vittorio, 140Musu, Marisa, 279Muti (Muty), Ettore, 325

Nacci, Michela, 187nNalli, Paolo, 77Nanni, Torquato, 107 e n, 108 e n,

119nNannini, Sergio, 257n, 261nNardi Spada, Gianna, 342nNascimbene, Angelo, 224n, 225nNastasi, Pietro, 196nNello, Paolo, 300nNeri, Romeo, 381Nespor, Stefano, 59nNicoloso, Paolo, 285nNietzsche, Friedrich, 300Nitti, Francesco Saverio, 231Nolte, Ernst, 300nNovello, Elisabetta, 83nNulli, Attilio, 279Nuti, Lucia, 90n

Okura, barone di, 332Oliveti, Ivo, 325Onger, Sergio, 42 e nOnofri, Nazario Sauro, 157nOrano, Paolo, 66Oriani, Alfredo, 288-289, 298 e n, 299 e n, 300

e n, 301 e n, 302 e n, 303 e n, 305n, 306n, 333

Oriani, Ugo, 301nOrioli, Valentina, 148nOrlandi, Orlando, 279-280Orsini, Felice, 319Ortalli, Gherardo, 250nOsta Cottini, Amelia, 185Ostenc, Michel, 40n, 346nOstuni, Maria Rosaria, 124nOttaviani, Giancarlo, 35nOttaviano, Armando, 280nOttolenghi, Emilio, 79n

Padellaro, Nazareno, 38, 39 e n, 46Padoan, Dario, 309nPadovani, Emilio, 315nPagano, Giuseppe, 286 e nPagano, Michele, 277nPagliarulo, Antonella, 134nPagnini, Eugenio, 381Paladini, Filippo Maria, 251nPaladini, Giannantonio, 256n, 261nPalazzi, Fernando, 184nPalazzolo, Maria Iolanda, 187nPalla, Marco, 8nPancrazi, Pietro, 117 e nPanzini, Alfredo, 328Paolella, Domenico, 44 e n, 45Paolella, Francesco, 309n, 315nPapa, Emilio R., 390nPappalardo, Alfio, 240 e nPareto, Vilfredo, 300Parri, Ferruccio, 276Pascoli, Giovanni, 319 e n, 333Pasetti, Matteo, 368nPasquini Romizi, Caterina, 40nPassarelli, Luigi, 138nPasserini, Luisa, 35n, 47n, 248n, 274n, 283n,

284n, 322nPassigli, Giuseppe Guglielmo, 75-77Patuzzi, Claudia, 192n

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Fascismo e società italiana412

Paulucci di Calboli Barone, Giacomo, 122n, 124 e n, 126-127, 128n, 132n, 133 e n, 134-135, 136n, 137

Pavan, Evaristo, 255nPavan, Ilaria, 81nPavese, Cesare, 102, 183Pavolini, Alessandro, 393Pavone, Claudio, 80nPazienti, Giuseppe, 43nPecoraro, Aldo, 186nPedrazzi, Vasco, 51nPedrazzini, Claudio, 223n, 225nPedrotti, Federico, 187Pedullà, Gabriele, 188n, 189n, 191nPelloni, Stefano, 319Peloso, Paolo Francesco, 309 e n, 314nPende, Nicola, 199, 201 e nPennacchi, Antonio, 91n, 97, 287nPensuti, Renzo, 280 e nPepe, Adolfo, 247nPeretti, Isabella, 260nPerfetti, Francesco, 298nPergoli, Benedetto, 321Perilli, Ivo, 129nPertini, Sandro, 277Pes, Luca, 251n, 252nPetitjean de la Rosière, Jeanne-Marie e

Frédéric, 36Petitti, Ambrogio, 172Petracci, Mat, 200nPetri, Rolf, 14n, 253nPetrucciani, Alberto, 61 e n, 76n, 81 e nPezzi, Valeria, 314nPiastra, Stefano, 331nPiazzoni, Irene, 189nPiccone Stella, Simonetta, 41 e nPickering-Iazzi, Robin, 185nPierazzi, Rina Maria, 185Pieri, Dino, 383nPieri, Giuliana, 164nPiovano, Emanuela, 131nPiretti, Maria Serena, 8nPittavino, Arnaldo, 193nPiva, Francesco, 251n, 252n, 254n, 255 e nPivato, Stefano, 229n, 235n, 382n, 383nPizzo, Marco, 122nPogliano, Claudio, 196nPoletti, Giovanni, 148n

Pollini, Leo, 47Pombeni, Paolo, 8n, 112n, 158n, 363nPompei, Fabrizio, 140nPompei, Manlio, 92nPompei, Mario, 35nPompilio, Antonella, 103n, 192nPoponessi, Paolo, 323nPorciani, Ilaria, 388nPostiglione, Gaetano, 152-154Prampolini, Camillo, 104-105, 109Prati, Luciana, 327n, 377nPrestianni, Nicola, 93nProcacci, Giovanna, 396nProli, Mario, 323n, 325n, 335n, 379nProsperi, Carola, 185Prospero Gobetti, Ada, 98Puccini Pucci, Maria, 166, 172, 174,

178nPudovkin, Vsevolod, 121n

Quaranta di San Severino, Bernardo, 284n

Quazza, Guido, 5 e n, 6, 7n, 387n

Ragone, Giovanni, 182nRaicich, M., 235nRambelli, Domenico, 333, 341nRambelli, Luciano, 306n, 325Rapone, Leonardo, 9nRavà, Marcella, 78Ravaglia, Giovanni, 352 e n, 353 e n,

354Ravaglia, Sebastiano, 353Ravaglioli, Armando, 139nRavanne, Fabio, 253n, 256n, 259nRavera, Camilla, 278Rebagliati, Franco, 223nRebecchi, Felice, 52nReberschak, Maurizio, 250n, 256n,

261nReich, Jaqueline, 122nReichembach, Giulio, 78Resini, Daniele, 253nRevelli, Marco, 371 e nRicci, Renato, 142Ricci, Steven, 131nRicci Garotti, Giuliana, 157nRicciardi Von Platen, Alice, 315n

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Indice dei nomi 413

Ricuperati, Giuseppe, 230n, 232n, 233n, 234n, 236, 237n, 245n, 388n

Ridolfi, Maurizio, 193n, 323n, 346nRighelli, Gennaro, 129nRigola, Rinaldo, 101n, 104 e n, 105,

106 e n, 107 e n, 108 e n, 109 e n, 110 e n

Riguzzi, Biagio, 104n, 106Rinaldi, Andrea, 151nRiosa, Alceo, 362n, 363, 364n, 365n,

369n, 370nRiva, Claudio, 205nRiva, Pino, 89nRizzo, Francesca, 190nRobotti, Diego, 233nRocca, Massimo, 297, 368-369Rocco, Alfredo, 248, 310, 362Rodella, Bruno, 280nRodolfi, Massimo, 154nRodriguez, Edelweiss, 381Roghi, Bruno, 47 e nRomagnani, Gian Paolo, 67 e n, 68 e nRomanelli, Ernesta, 78Romani, Bruno, 168 e n, 173Romano, Sergio, 250nRomizi, Riccardo, 40nRosetti, Emilio, 317 e n, 319Rosina, Alessandro, 41nRossanda, Rossana, 36 e n, 41Rosselli, Carlo, 276-278Rosselli, Nello, 276-277Rossi, Alessandro, 254Rossi, Cesare, 370 e nRossi, Ernesto, 276Rossi, Mario, 76-77Rossi, Mario G., 6n, 7n, 148n, 247nRossi Caponeri, Marilena, 380nRossi Doria, Manlio, 83nRossoni, Edmondo, 133n, 248, 297,

362, 369Roveri, Alessandro, 8n, 158n, 362n,

363n, 365 e nRusso, Saverio, 93n

Sabatucci, Alessandro, 78Sabbatucci, Giovanni, 6nSacerdote, Gustavo, 118Salemme, Felice, 280n

Salfi, Anna, 143nSalustri, Simona, 142n, 143n, 387n, 392n,

396nSalvagnini, Francesco A., 59nSalvati, Mariuccia, 9n, 60n, 70n, 80n, 101n,

182nSalvatici, Silvia, 185nSalvatorelli, Luigi, 124nSalvatori, Paola S., 300n, 322nSalvemini, Gaetano, 276, 390Sampieri, Giuseppe V., 129nSanfilippo, Matteo, 263n, 269n, 270nSangalli Del Vecchio, Mafalda, 76-77Sani, Roberto, 193nSansoni, Gino, 373n, 374n, 381nSansoni, Guglielmo, 169, 170 e nSantarelli, Elio, 321n, 323nSanta Rosa da Lima, 325Santoni Rugiu, Antonio, 390nSapelli, Giulio, 153n, 154n, 362 e nSardi, Alessandro, 126n, 127n, 133Sarfatti, Margherita, 191, 283, 284nSarfatti, Michele, 63n, 65n, 68n, 69 e n, 73n,

74n, 75, 80nSarti, Roland, 250nSarto, Giorgio, 251nSassoon, Donald, 46 e nSavio, Francesco, 138nSavoia, casa regnante, 283, 324Savoia, Principe Umberto, 306n, 324Savoia, Re Vittorio Emanuele II, 283, 299nSavoia, Re Vittorio Emanuele III, 332 e nSbordone, Giovanni, 252nScardamaglia, Edoardo, 59 e nScarpellini, Emanuela, 184nScartabellati, Andrea, 307nScheggi, Roberto, 156nSchiavi, Alessandro, 99-119Schiavi, Sigfrid, 118nSchifani, Carmelo, 94nSchnapp, Jeffrey T., 134n, 283 e nSchuschnigg, Kurt Alois, 332Schwarz, Guri, 79n, 81nScorza, Carlo, 393Scotto di Luzio, Adolfo, 182n, 184nSebastiani, Osvaldo, 289nSenta, Antonio, 366nSerenelli, Sofia, 330n

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Fascismo e società italiana414

Serpieri, Arrigo, 85n, 89nServadei, Glauco, 383nServenti Longhi, Enrico, 367 e nSgarbi, Ezio, 54n, 55nShiel, Mark, 140nSignori, Elisa, 394n, 397nSimonini, Augusto, 282nSironi, Mario, 283, 293nSoave, Sergio, 66nSoffitta, Andrea, 287nSolaroli, Libero, 122nSoldani, Simonetta, 229n, 233nSoldati, Mario, 186Somma, Paola, 250nSonnino, Sidney, 94nSorcinelli, Paolo, 40nSorel, Georges, 300Sori, Ercole, 264n, 265n, 266n, 267nSouto Kustrìn, Sandra, 42 e nSozzi, Gastone, 352Sozzi, Sigfrido, 205n, 352, 354Spallicci, Aldo, 319-320, 321 e n, 328, 334Sperduto, Simone, 126nSpini, Giorgio, 168 e n, 169, 173Spini, Valdo, 168nStampacchia, Mauro, 93nStarace, Achille, 135, 329, 331-332, 393Starace, Loreto, 331Sternhell, Zeev, 369, 370n, 371nStorchi, Massimo, 158nStorchi, Simona, 164nStrada, Urbano, 206nStraziota, Maria, 78Sturzo, Luigi, 109Suppiej, Giorgio, 253, 255 e n, 258 e n, 259n

Taillibert, Christel, 127nTamagnini, Luciano, 187nTancredi, Libero, vedi Rocca, MassimoTarozzi, Fiorenza, 143nTasca, Angelo, 66nTassani, Giovanni, 122n, 127n, 134n, 140n,

328n, 382nTassinari, Giuseppe, 86nTato, vedi Sansoni, GuglielmoTatò, Sesa, 260nTattara, Giuseppe, 254n, 255nTemple, Shirley, 45

Teodorani, Orio, 352nTeodorani Fabbri, Pio, 324Terragni, Giuseppe, 286 e nTinazzi, Giorgio, 130nTino, Pietro, 84nTobia, Bruno, 12nTobino, Mario, 315nTognato, Lorenzo, 256nTomasi, Tina, 142nTomassini, Luigi, 247nTommaseo, Niccolò, 188nTonelli, Aldo, 232nToniolo, Gianni, 230n, 260nTornabene, Massimo, 315nTosatti, Giovanna, 63nToscano, Mario, 80nTramonti, Ulisse, 327n, 377nTranfaglia, Nicola, 8n, 9n, 59n, 97 e n,

98n, 148n, 182n, 185n, 189n, 190n, 191n, 192n, 193n, 194n

Traniello, Francesco, 193n, 194n, 352nTraniello, Paolo, 57n, 58nTrastulli, Paolo Emilio, 91nTravers, Pamela, vedi Lyndon Travers,

PamelaTreccani, Giovanni, 189Tregenza, Michael, 315nTrentin, Silvio, 276Treves, Anna, 90nTreves, Piero, 67nTringali, Sebastiano, 154nTroilo, Matteo, 230nTromboni, Delfina, 157nTurati, Augusto, 328, 393Turati, Filippo, 109, 118nTuri, Gabriele, 7n, 63n, 182n, 184n,

189n, 197n, 388n

Ubertis Gray, Corinna Teresa, 185Uboldi, Raffaello, 284n

Vaccaro, Giuseppe, 148Valle, Cesare, 21n, 22n, 23n, 24n, 25n,

26n, 27n, 31n, 32n, 33n, 289-290, 294n, 377

Vallecchi, Enrico, 184, 185nVan Dine, S.S., vedi Huntington

Wright, Willard

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Indice dei nomi 415

Vantadori, Alfredo, 212Varaldo, Alessandro, 186nVarni, Angelo, 40n, 323nVasta, Michelangelo, 235nVecchi, Nicola, 366Venturini, Alfonso, 122n, 188nVergani, Orio, 330Viccaro, Ulrike, 84nVichi Santovito, Nella, 77, 79Visconti, Luchino, 140Vital, Adolfo, 79Vitiello, G., 114nVittoria, Albertina, 97n, 182n, 185n,

189n, 190n, 191n, 192n, 193n, 194nVittorini, Elio, 183-184, 186, 192nVolpe, Mario, 129nVolpi, Giuseppe, 249, 250 e n, 252-253Volpi, Maria, 185Volta, Alessandro, 188n

Wall, Alex, 143nWallace, Edgar, 36Woltmann, L., 65Wanrooij, Bruno, 142nWoolf, Stuart, 250n, 251n, 253n

Zagarrio, Vito, 122n, 129n, 139nZaghini, Franco, 382nZamagna, Aldo, 209Zamagna, Melchiorra, 209 e nZamagni, Stefano, 149nZamagni, Vera, 14n, 149n, 230n, 245nZambelli, Lieto, 382nZanella, Emilio, 106, 110 e nZanelli, famiglia, 214nZanetti, Adele, 35nZanetti, Maria, 35nZangheri, Renato, 151nZangrandi, Ruggero, 39n, 139n, 394nZanotti, Walter, 323nZapponi, Nicola, 395nZavattini, Cesare, 182n, 184, 186 e n, 187Zibordi, Giovanni, 104 e n, 105-106, 109Zucconi, Guido, 250nZunino, Pier Giorgio, 248n, 297n

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Direttore: Carlo De Maria

Comitato di direzione: Fabio Casini, Francesco Di Bartolo, Luca Gorgolini, Tito Menzani, Fabio Montella, Francesco Paolella, Matteo Troilo

Comitato scientifico: Enrico Acciai, Luigi Balsamini, Eloisa Betti, Mirco Carrattieri, Sante Cruciani, Alberto Ferraboschi, Fiorella Imprenti, Alessandro Luparini, Bar-bara Montesi, Fabrizio Monti, Elena Paoletti, Antonio Senta, Gilda Zazzara

Coordinamento editoriale: Julian Bogdani

Orientata, fin dal titolo, verso riflessioni sulla contemporaneità, la collana è aperta anche a contributi di più lungo periodo capaci di attraversare i confini tra età medievale, moderna e contemporanea, intrecciando la storia politica e sociale, con quella delle istituzioni, delle dottrine e dell’economia. Si articola nelle seguenti sottocollane:

“Storie dal territorio”. Le autonomie territoriali e sociali, le forme e i caratteri del-la politica, dell’economia e della società locale, la storia e le culture d’impresa.“Percorsi e networks”. L’attenzione per le biografie e le scansioni generazionali, per le reti di corrispondenze e gli studi di genere.“Tra guerra e pace”. La guerra combattuta e la guerra vissuta, i fronti e le retro-vie, le origini e le eredità dei conflitti.“Italia-Europa-Mondo”. Temi e sintesi di storia italiana e internazionale.“Strumenti”. Le fonti e gli inventari, i cataloghi e le guide.

OttocentoDuemilaCOLLANA DI STUDI STORICI E SUL TEMPO PRESENTEDELL’ASSOCIAZIONE CLIONETPRESSO BRADYPUS EDITORE

www.clionet.itbooks.bradypus.net

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Finito di stampare nel dicembre 2016.

OttocentoDuemila, collana di studi storici e sul tempo presentedell’Associazione Clionet, diretta da Carlo De Maria

BraDypUS.netCOMMUNICATING

CULTURAL HERITAGE

Volumi usciti:

Eloisa Betti, Carlo De Maria (a cura di), Dalle radici a una nuova identità. Vergato tra sviluppo economico e cambiamento sociale, Bologna, BraDypUS, 2014 (Storie dal territorio, 1).

Carlo De Maria (a cura di), Il “modello emiliano” nella storia d’Italia. Tra culture politiche e pratiche di governo locale, Bologna, BraDypUS, 2014 (Storie dal territorio, 2).

Learco Andalò, Tito Menzani (a cura di), Antonio Graziadei economista e politico (1873-1953),Bologna, BraDypUS, 2014 (Percorsi e networks, 1).

Learco Andalò, Davide Bigalli, Paolo Nerozzi (a cura di), Il Psiup: la costituzione e la parabola di un partito (1964-1972), BraDypUS, 2015 (Italia-Europa-Mondo, 1).

Carlo De Maria (a cura di), Sulla storia del socialismo, oggi, in Italia. Ricerche in corso e rifles-sioni storiografiche, Bologna, BraDypUS, 2015 (Percorsi e networks, 2).

Carlo De Maria, Tito Menzani (a cura di), Un territorio che cresce. Castenaso dalla Liberazione a oggi, Bologna, BraDypUS, 2015 (Storie dal territorio, 3).

Fabio Montella, Bassa Pianura, Grande Guerra. San Felice sul Panaro e il Circondario di Miran-dola tra la fine dell’Ottocento e il 1918, Bologna, BraDypUS, 2016 (Tra guerra e pace, 1).

Antonio Senta, L’altra rivoluzione. Tre percorsi di Storia dell’anarchismo, Bologna, BraDypUS, 2016 (Percorsi e networks, 3).

Carlo De Maria, Tito Menzani, Castel Maggiore dalla Liberazione a oggi. Istituzioni locali, eco-nomia e società, Bologna, BraDypUS, 2016 (Storie dal territorio, 4).

Luigi Balsamini, Fonti scritte e orali per la storia dell’Organizzazione anarchica marchigiana (1972-1979), Bologna, BraDypUS, 2016 (Strumenti, 1)

Fabio Montella (a cura di), “Utili e benèfici all’indigente umanità”. L’Associazionismo popolare in Italia e il caso della San Vincenzo de’ Paoli a Mirandola e Bologna, Bologna, BraDypUS, 2016 (Storie dal territorio, 5).

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Italia-Europa-Mondo, 2

OttocentoDuemila

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€ 30,00

Fascismo e società italiana è il titolo di un classico volume einaudiano del 1973, nel quale Guido Quazza individuava la necessità di andare oltre le interpretazioni generali del regime per immergersi «nel concreto dell’analisi dei problemi specifici» e ricostruire, in maniera dinamica, la realtà storica del Ventennio. Sono gli stessi anni nei quali uno studioso del calibro di Renzo De Felice poneva l’obiettivo di scrivere una storia del fascismo che desse ragione del fenomeno prescind-endo da condanne e negazioni aprioristiche. Riprendendo le sollecitazioni fondamentali che vengono ancora da quella stagione di studi, e che sono state sviluppate nei decenni successivi da una produzione storiografica sempre più ricca e metodologicamente accorta capace di approfondire diversi temi (il rapporto tra fascismo e cultura, il ruolo dei ceti medi, l’insediamento territoriale del regime, i processi di moderniz-zazione degli anni Venti e Trenta), nuove generazioni di storici proseguono il lavoro di scavo e di indagine nella consapevolezza della complessità dell’esperienza fascista e della necessità di analizzare in modo più puntuale, approfon-dendo nel merito, le singole questioni. Per questa ragione il seminario svoltosi a Forlì il 20 maggio 2016 venne organizza-to per parole-chiave, ognuna delle quali affidata a un relatore: dall’Architettura allo Sport, dalla Scuola all’Universi-tà, dalla Cinematografia alle Biblioteche, dal Lavoro alle Migrazioni, dai Bambini alle Colonie di vacanza, facendo il punto sullo stato dell’arte e proponendo nuove piste di ricerca a partire da interessanti “casi di studio”.

Carlo De Maria (Bologna 1974) è direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena e presidente dell’Associazione Clionet. I suoi ultimi lavori sono le monografie Le biblioteche nell’Italia fascista (Biblion, 2016) e Lavoro di comunità e ricostruzione civile in Italia (Viella, 2015), il manuale per i Licei Una storia globale, 3 voll., Mondadori Education-Le Monnier Scuola, 2015 (scritto con V. Zamagni, G. Albertani e T. Menzani) e le curatele dei volumi L’anarchismo italiano. Storia e storiografia (con G. Berti, Biblion, 2016); Sulla storia del socialismo, oggi, in Italia. Ricerche in corso e riflessioni storiografiche (Bradypus, 2015).

Testi di: Mattia Brighi, Fabio Casini, Carlo De Maria, Francesco Di Bartolo, Alberto Ferraboschi, Alberto Gagliardo, Luca Gorgolini, Domenico Guzzo, Fiorella Imprenti, Gabriele Licciardi, Alessandro Luparini, Marco Masulli, Tito Menzani, Roberta Mira, Fabio Montella, Fabrizio Monti, Francesco Paolella, Mario Proli, Simona Salustri, Matteo Troilo, Maria Elena Versari, Gilda Zazzara.

Comune di Forlì