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I.C. DI ARCEVIA CON SEZIONI ASSOCIATE DI MONTECAROTTO E SERRA DE’ CONTI PLESSO A. ANSELMI DI ARCEVIA - CLASSE VA - A.S. 2016 -2017 BACHI, FILANDE E SPERANZE AD ARCEVIA NELLA PRIMA META’ DEL XX SECOLO

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I.C. DI ARCEVIA CON SEZIONI ASSOCIATE DI

MONTECAROTTO E SERRA DE’ CONTI

PLESSO A. ANSELMI DI ARCEVIA

- CLASSE VA -

A.S. 2016 -2017

BACHI, FILANDE E SPERANZE AD ARCEVIA NELLA PRIMA

META’ DEL XX SECOLO

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INDICE

COME TUTTO E’ INIZIATO Pag. 9

Laboratorio scientifico: alleviamo i bachi in classe

LA FILIERA DELLA SETA pag. 21

La gelsicoltura pag. 23

La bachicoltura pag. 27

Le testimonianze sulla bachicoltura locale del passato:

Maria Coppa pag. 29

Elena Ferracci pag. 31

Brunella Brunetti pag. 32

Teresa Titti pag. 33

Attilia Neri pag. 35

Augusto Mastrucci pag. 37

Graziella Sopranzetti pag. 38

Emiliano Gobbetti pag. 39

Domenico Avaltroni pag. 40

Francesco Torretti pag. 41

Gina Aguzzi pag. 42

Savina Galtelli pag. 43

Gina Bellucci pag. 44

Il mercato dei bozzoli pag. 46

La lavorazione della seta pag. 49

Lavorare in filanda pag. 54

Le condizioni di lavoro in filanda pag. 56

I cascamifici pag. 59

La seta nel mondo oggi pag. 60

Cosa si produce con la seta pag. 61

LA STORIA DELLA SETA pag. 62

La scoperta della seta pag. 63

Il segreto svelato pag. 65

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La diffusione nel mondo occidentale pag. 67

La Via della seta pag. 70

Marco Polo pag. 71

La seta nel Medioevo pag. 72

La sericoltura nel Rinascimento pag. 74

La sericoltura dal ‘700 ad oggi pag. 78

Le filande nelle Marche pag. 79

La ricerca d’archivio pag. 83

LE FILANDE ARCEVIESI

pag. 111

La filanda Giovannetti-Vera Costetti pag.112

Carlo Costetti pag. 117

Le nostre interviste pag. 122

Paola Pittori pag.123

Tosca Camillucci pag.133

Mario Mancinelli pag.135

Maria Montalbini pag.142

Denise Avenali pag.145

Simonetta Minelli pag.149

La filanda Romani pag.152

La filanda Simoncelli pag.152

La filanda Moscatelli pag.167

Il passato ancora presente pag.169

ED ORA CREATIVA…MENTE pag.173

Una vita felice pag.174

Il ritorno dalla filanda pag.176

Un tragico incidente pag.179

L’uccisione dei partigiani pag.181

Il grande segreto pag.183

Leonardo Monna Lisa, Renzo e Lucia pag.185

I contadi’ di Sant’Appollinare pag.186

La bellissima stanza pag.190

Il fantasma della badessa pag.192

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PREFAZIONE

La produzione della seta è un tema tradizionale, ma sempre

affascinante che si affronta in un corso di scienze alla scuola

primaria. Le maestre Ombretta Bucci e M. Cristina Petronilli hanno

saputo farne un'occasione di studio a molte dimensioni che ha

interessato anche altre discipline in un percorso multidisciplinare.

In un'attività laboratoriale condotta in classe, della durata di

diverse settimane, gli alunni hanno potuto studiare l'evoluzione

della larva della farfalla Bombyx Mori, comunemente nota come

baco da seta, dalle uova alla costruzione del bozzolo di seta

grezza da parte del baco fino alla trasformazione prima in crisalide

e poi in falena.

Ma sono state affrontate anche le relative tematiche legate alla

dimensione storica e culturale del fenomeno, con particolare

attenzione alle ricadute economiche sull'economia agricola locale.

È stata condotta una ricerca storica sull'allevamento dei bachi da

seta da parte dei nonni e sulle filande presenti in Arcevia nei tempi

antichi, con foto, testimonianze e racconti.

Il tema è antico, ma le tecniche didattiche impiegate sono state

assolutamente moderne e all'avanguardia. Gli alunni si sono

ovviamente avvalsi di internet per la ricerca in rete delle

informazioni, ma hanno anche potuto lavorare in cooperazione

sfruttando la tecnologia cloud e la condivisione dei documenti, con

un uso sapiente di computer e tablet. Peraltro nel corso del

progetto non è stata trascurata la più tradizionale, ma sempre

importante, ricerca delle fonti in archivio; gli alunni hanno potuto

leggere documenti precedentemente selezionati sull'allevamento

dei bachi, sui gelsi, sulle filande.

Questa pubblicazione presenta il lavoro didattico svolto e

rappresenta una bella e concreta testimonianza di una scuola di

qualità.

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Le maestre ancora una volta hanno saputo interpretare al meglio

le Indicazioni nazionali riuscendo a mettere in relazione la

complessità di modi anche nuovi di apprendimento con un’opera

quotidiana di guida, attenta al metodo, ai nuovi media e alla

ricerca multidimensionale.

Un ringraziamento va alle maestre che hanno profuso impegno,

competenza e professionalità e un "bravi" è rivolto agli alunni che

si sono caratterizzati per motivazione, partecipazione e qualità

dell'apprendimento.

Il Dirigente Scolastico

Dennis Luigi Censi

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L'AVIS ha invitato gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado

presenti nel territorio ad essere parte attiva nelle celebrazioni per il

70° anniversario della sua fondazione e con immenso piacere ha

contribuito alla realizzazione di diversi progetti, tra i quali la

pubblicazione di questo meraviglioso libro, frutto del lavoro e

dell'impegno degli studenti della classe quinta della scuola

primaria A. Anselmi di Arcevia, coadiuvati dalle loro insegnanti.

Con il supporto delle fonti archivistiche, della documentazione

fotografica ma soprattutto delle testimonianze orali, le pagine di

questo libro ripercorrono la storia di una importantissima attività

che dalla fine del 1800 e fino al 1950/55 ha segnato

profondamente l'economia di Arcevia, sede di varie filande, che

occupavano molte persone, soprattutto donne.

All’inizio del secolo scorso nelle campagne molte famiglie

allevavano in casa i bachi da seta, in quantità che variava con il

numero di gelsi presenti sui loro campi, dato che di questi i bachi

si nutrivano.

Le donne in particolare erano coinvolte nelle varie fasi

dell’allevamento dei bachi che durava molti giorni.

È stato affascinante ed emozionante poter vedere realmente,

durante uno dei nostri incontri a scuola, il ciclo di vita del baco da

seta riproposto dai ragazzi con un'attenta e scrupolosa attività di

laboratorio e capire in modo chiaro come poi si arrivava a produrre

la preziosissima fibra della seta e, quindi, meravigliosi tessuti.

Da tale esperienza e dalla raccolta e rielaborazione delle notizie

storiche e delle testimonianze di nonne, nonni, zii o vicini di casa è

nato “Strade di seta”.

Il titolo stesso evoca tanti pensieri, anche contrastanti.

Fili di seta a volte forti e resistenti, come i ricordi che ognuno di noi

custodisce dentro di sé nonostante il trascorrere del tempo, altre

volte più deboli, come fili di seta più sottili e fragili che finiscono

per spezzarsi.

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Ricordi più o meno piacevoli, ma che fanno pur sempre parte della

vita. Il libro, come uno scrigno, contiene tante memorie che, grazie

alla parola scritta, non si cancelleranno e diventeranno ancora più

preziose negli anni.

Nel 1947, quando in Arcevia la filanda era in attività, seppur ormai

in crisi con l'avvento delle fibre artificiali prodotte industrialmente,

nasceva l'AVIS, un'associazione che, come la filanda, fa parte

della storia, del tessuto sociale e culturale della nostra città.

Sicuramente le signore che partecipavano ai tradizionali veglioni di

beneficenza organizzati dall'AVIS al teatro Misa prima del lungo

periodo di chiusura indossavano preziose ed eleganti calze di

seta.

L'AVIS, oggi come allora, senza perdere mai di vista il suo compito

primario di solidarietà a beneficio della vita umana, cerca di

sostenere iniziative a carattere sociale e culturale e ringrazia le

insegnanti, le alunne e gli alunni per aver partecipato al suo

settantesimo compleanno, augurandosi che questi piccoli cittadini

facciano parte del suo prossimo futuro.

Il Presidente AVIS Arcevia

Stefania Aguzzi

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INTRODUZIONE

Una scuola moderna e un’antica filanda possono scoprire di avere

molto in comune ma bisogna avere la curiosità, la pazienza e

l’oculatezza di un investigatore per scoprire cosa.

E così la classe VA del plesso A. Anselmi di Arcevia ha iniziato le

sue indagini alla scoperta di un passato che rischiava di finire

dimenticato.

Le memorie ritrovate, che si sono dipanate come strade di seta

ancora nitide e lucenti, hanno contribuito alla comprensione dei

processi di trasformazione del territorio, aiutando a formare un

forte senso di appartenenza alla propria comunità necessario per

la costruzione dell’identità personale e sociale.

Inizialmente l’investigazione è stata scientifica, avvalendosi del

metodo sperimentale attraverso l’osservazione del processo vitale

dei bachi da seta che sono stati allevati con cura e amorevole

attenzione dagli alunni.

La straordinaria metamorfosi a cui hanno assistito gli allievi ha

permesso loro di scoprire l’ineffabile meraviglia della natura e

l’inesorabilità delle sue leggi.

Poi è seguita la fase storica della ricerca con la raccolta di

testimonianze sulla bachicoltura e sulle antiche filande di Arcevia. I

racconti, forniti da nonni, da parenti degli alunni e dai vecchi

proprietari di filande e da alcuni abitanti di Arcevia, hanno fornito

uno spaccato economico e sociale sorprendente del nostro

territorio: dalla fine dell’800 fino alla metà del ‘900, Arcevia era

fulcro di varie realtà imprenditoriali legate all’industria serica,

diffusasi in maniera capillare nelle Marche ma anche in tutta Italia.

Le testimonianze sono state arricchite dalle fonti iconografiche

fornite dagli stessi testimoni, da fonti scritte e documenti trovati

nell’Archivio Storico comunale, dalle fonti bibliografiche e digitali.

“Strade di seta” è stato un progetto che ha integrato contenuti ed

obiettivi di varie discipline facilitando l’unitarietà del sapere e la

formazione di competenze trasversali.

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Infine non è stato tralasciato l’aspetto creativo e fantastico, tanto

che gli alunni si sono cimentati nell’invenzione di storie e nella

creazione di illustrazioni di cui sono stati protagonisti i bachi da

seta, i contadini allevatori dei bachi o le operaie delle filande e che

sono state ispirate dai racconti ascoltati o dai documenti analizzati.

Il percorso è stato documentato dagli alunni attraverso l’uso delle

risorse tecnologiche a disposizione della classe, quali la LIM, i

tablet e i computer che hanno permesso di reperire informazioni e

di condividere i prodotti digitali durante il processo di

organizzazione delle conoscenze e delle testimonianze raccolte

utilizzando Google Drive.

E’ stato un compito di realtà particolarmente motivante grazie alle

attività laboratoriali e al cooperative-learning che hanno contribuito

all’inclusione e alla partecipazione di tutti.

Un ringraziamento particolare va a tutti coloro che hanno

supportato questo percorso educativo e didattico riconoscendone

l’importanza formativa: i genitori e i nonni che sono stati sempre

disponibili e collaborativi, la signora Tosca Camillucci e Paola

Pittori che si sono recate a scuola per farsi intervistare dai

bambini, Carlo e Vera Costetti che tramite posta elettronica hanno

fornito le loro testimonianze e Mario Mancinelli per aver

pazientemente soddisfatto le nostre richieste. Un ringraziamento

particolare va a Stefania Aguzzi, Presidente dell’AVIS-Sezione

Arcevia, per aver sostenuto con grande entusiasmo e fiducia

questa iniziativa offrendo un importante contributo per la

pubblicazione del lavoro, in occasione del 70° Anniversario della

fondazione dell’Avis. Una collaborazione molto apprezzata,

simbolo di un’attenzione peculiare dell’associazione verso

l’educazione delle future generazioni, in linea con i valori su cui

essa fonda la propria esistenza e il proprio operare.

Le insegnanti

Bucci Ombretta

Petronilli Maria Cristina

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COME TUTTO E’ INIZIATO

LABORATORIO SCIENTIFICO: ALLEVIAMO I BACHI

IN CLASSE

Esistono varie modalità di facilitare l’apprendimento e in questo

progetto si è voluta privilegiare quella basata sull’esperienza per

una didattica empirica, pratica, che non si basasse esclusivamente

sulla trasmissione mnemonica del sapere. Tutto il percorso

formativo è partito, quindi, da un laboratorio didattico che

motivasse gli alunni attraverso un forte coinvolgimento emotivo e

che implicasse una didattica dell’osservare e dell’operare in

maniera diretta. Le deduzioni, le riflessioni, gli approfondimenti

sono stati il passo successivo a questo laboratorio scientifico che

è stato incentrato sull’allevamento di bachi da seta in classe. Il

tema del progetto è stato scelto per la possibilità che offriva alle

insegnanti di trovare agganci multidisciplinari senza dimenticare

l’aspetto dell’educazione alla cittadinanza. Gli alunni, fin da subito,

hanno mostrato forte interesse e curiosità e quando per la prima

volta hanno visto le uova dei bachi, sembrava loro impossibile che

da quei «puntini» potesse nascere nuova vita per poter poi

affrontare tante strade diverse, come quelle di seta nelle quali si

sono imbattuti e che hanno percorso alla scoperta di un mondo

allo stesso tempo nuovo e antico.

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I BAMBINI RACCONTANO IL LABORATORIO

Il giorno 10 Novembre 2016, le maestre ci hanno fatto una

splendida sorpresa: hanno ordinato da Padova un kit per

l’allevamento dei bachi da seta in classe. Quando il pacco è

arrivato noi eravamo così emozionati che abbiamo iniziato a

battere le mani sui banchi. Quando le maestre hanno aperto lo

scatolone arrivato dal CREA (Consiglio per la Ricerca in

agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria) all’interno abbiamo trovato:

un libro con le

istruzioni

3 scatole di plastica di diverse

dimensioni (una grande, una

media e una piccola) e vasetti

contenenti mangimi con adesivi

colorati per le diverse età dei

bachi

un riscaldatore per

tenere la temperatura

costante

e …le uova

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Quando sono arrivati i bachi,

abbiamo montato il kit mettendo

nel fondo della scatola grande

dell’acqua distillata e

posizionando la scatola piccola

all’interno di quella grande.

All’interno della vasca piccola,

abbiamo appoggiato la

scatolina contenente le uova

dei bachi da seta. Nella vasca

grande abbiamo inserito il

riscaldatore per riscaldare la

vasca fino a 28 °C e un

termostato per controllare la

temperatura.

Infine abbiamo usato una

pellicola trasparente per coprire

le 2 scatole e mantenere la

temperatura costante.

Da questo momento è iniziato il

periodo chiamato incubazione

ed è durato dal giorno di arrivo

fino al 18 novembre.

Et voilà…..tutto pronto

per iniziare l’avventura!

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Il 19 novembre sono nati i nostri bachi da seta e noi siamo venuti

a scuola il sabato per dargli il loro primo pasto costituito da un

mangime di di foglie di gelso triturate e arricchite di proteine.

Quando siamo arrivati alcuni di noi hanno svolto il seguente

procedimento: hanno aperto la scatola grande e la scatola media

e hanno tirato fuori i nostri bachi di colore grigio antracite e

lunghi 2,5 mm. Hanno asciugato le due vaschette e infine hanno

riposto la scatolina nella vasca media contenente i bachi e il

mangime.

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Il 20 novembre è iniziata la prima età che è durata fino al 23. Alla

fine della prima età le larve erano lunghe 5 mm. Dopodichè c’è

stata la prima muta in cui i bachi sono rimasti immobili per 24 ore

con il torace rivolto verso l’alto. Attraverso la muta i bachi si sono

liberati dalla vecchia cuticola che impediva loro la crescita.

Il giorno dopo la prima muta, i bachi hanno iniziato la seconda età

che è durata dal 25 al 27 novembre. Alla fine di questo periodo le larve sono diventate lunghe 17 mm.

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Il ciclo vitale dei bachi da seta si svolge in totale in 5 età e 4 mute.

Dopo la terza muta, da quanto erano grandi, un’ottantina di bachi

sono stati posizionati in un’altra scatola e alimentati con il gelso fresco reperito nelle nostre campagne.

Durante la quarta età erano lunghi 5 cm

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Terminate tutte le fasi di crescita, serviva un finto bosco per farli

iniziare a costruire il bozzolo e il nonno di un nostro compagno,

molto gentilmente, ne ha costruito uno.

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I giorni successivi altri bachi sono saliti al “bosco” e molto

lentamente si sono rinchiusi nei loro bozzoli.

Il 18 dicembre, un baco ha iniziato a salire sul finto bosco per

costruire il suo bozzolo.

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Alcuni bachi non volevano salire sui rami del bosco artificiale,

perciò le maestre hanno realizzato dei tubi di carta per far

costruire i bozzoli al loro interno.

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Mentre il baco era nel bozzolo è iniziata la trasformazione dei

bachi, prima in crisalidi poi….in falene!

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Le farfalle erano di colore bianco panna, lunghe circa 25 mm. Le

femmine erano tozze e corte, mentre i maschi più lunghi e più fini.

I maschi avevano delle antennine che gli permettevano di

localizzare la femmina. Le antenne delle farfalle sono nere e

assomigliano a delle piccole corna.

Le falene sono pelose e hanno 3 zampette da una parte e 3

dall’altra. Hanno dei piccoli occhi scuri e non hanno la bocca. Le

ali sono piccole e sono di colore bianco panna, ma sono un po’ più

chiare del corpo. Questi animaletti si accoppiano poco tempo dopo

la fuoriuscita dal bozzolo; la femmina può deporre le uova anche

senza l’intervento del maschio, ma queste non sono fecondate.

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Non avendo la bocca per nutrirsi, purtroppo le falene hanno una

vita breve e vivono solo alcuni giorni. Durante questi giorni il loro

scopo è garantire la sopravvivenza della specie facendo più uova

possibili. Noi bambini le abbiamo aiutate, prendendoci cura delle

loro uova conservandole in frigorifero perché ad una bassa

temperatura i bachi non nascono. Adesso che è arrivata la

primavera, continueremo il ciclo vitale, riscalderemo le uova e

nasceranno nuovi bachi!

Dalla foto scattata alle nostre

uova si può osservare che alcune

sono scure, altre giallastre. Dalle

uova più chiare non nasceranno

le larve perché non sono state

fecondate. Sotto ecco la nostra

linea del tempo in cui abbiamo

rappresentato le varie fasi della

vita dei bachi da seta che

abbiamo allevato.

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LA FILIERA DELLA SETA

Noi bambini, dopo aver osservato i bachi, abbiamo capito che il

loro bozzolo è costituito da un unico filo di seta, una fibra tessile

molto preziosa perché lucente e resistente. Abbiamo scoperto

anche che esistono varie specie di bachi che hanno un numero

diverso di mute e che costruiscono bozzoli di varia forma e di

vario colore, anche se i più diffusi sono quelli bianchi e quelli gialli.

Ma come si arriva a produrre un tessuto di seta?

Abbiamo approfondito la filiera della seta partendo dalla

gelsicoltura, per passare alla bachicoltura di cui abbiamo fatto

esperienza, per giungere alla sericoltura e alla produzione del

tessuto.

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La nostra ricerca si è basata sulle fonti bibliografiche e sulle fonti

digitali, abbiamo cercato informazioni in vari siti internet, visto dei

video su youtube e raccolto delle testimonianze sulla bachicoltura:

abbiamo scoperto che in famiglia quasi tutti noi abbiamo nonni o

zii che tanto tempo fa allevavano i bachi!

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LA GELSICOLTURA

La catena produttiva della seta inizia dalla coltivazione del gelso

perché le foglie di questa pianta costituiscono l’unico alimento dei

bachi. Vi sono numerosi tipi di gelsi, se ne contano una quindicina

in tutto, ma la coltivazione del gelso si è concentrata soprattutto

su due tipi: il gelso nero e il gelso bianco.

Il gelso nero è originario dell’Asia Minore, più precisamente delle

zone montuose della Mesopotamia, dove ancora oggi si possono

trovare esemplari selvatici.

Il gelso nero era conosciuto in Europa sia dai Greci che dai

Romani e veniva coltivato non solo per la sua frutta ma anche

come pianta officinale.

Lo scienziato romano Plinio raccomandava i suoi frutti che insieme

a miele, zafferano e mirra, formavano una mistura efficace per

combattere il mal di gola e i disturbi di stomaco.

Il gelso bianco o moro bianco (morus alba) invece era originario

della Cina settentrionale e della Corea.

Venne introdotto in Europa verso il XI secolo, principalmente per

l'uso delle sue foglie in bachicoltura come alimento dei bachi da

seta. Questa pianta arborea, grazie alla sua capacità di

adattamento, ha raggiunto una diffusione molto ampia.

Le foglie di gelso hanno una forma lobata, a margine seghettato

o liscio. il gelso è una pianta arborea, grazie alla sua capacità dell’adattamento, ha raggiunto una diffusione molto ampia, le foglie di gelso sono di vario tipo: - intere,o lobate, a margine dentro seghettate e lisce. foglie seghettatte foglie lisce

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Queste illustrazioni, risalenti al 1770, mostrano le varie fasi della

gelsicoltura dalla semina, al trapianto in buche più grosse, fino

alla potatura.

Disegni realizzati nel XVIII secolo dal figurista bolognese

Pietro Fancelli,

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Queste immagini sono conservate nella Civica Raccolta Bertarelli

di Milano e fanno comprendere quanto fosse importante per i

contadini conoscere il metodi di coltivazione del gelso per poter

allevare poi i bachi.

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Ancora oggi nelle nostre campagne

è possibile vedere i gelsi detti

anche mori. Dopo gli anni ‘50, con

il processo di urbanizzazione e

industrializzazione, i contadini

hanno smesso di dedicarsi alla

gelsicoltura, quindi le piante ancora

visibili sono la testimonianza di un

mondo agricolo precedente alla II

Guerra mondiale. Spesso queste

piante si trovano vicino alle case

coloniche, lungo le strade o sulle

scarpate vicino ai fossi. Ecco

alcune fotografie del nostro

territorio arceviese in cui è

possibile vedere ancora i mori,

antichi testimoni di un tempo ormai

passato.

Gelso in frazione di Piticchio

e filare di gelsi in frazione Costa

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LA BACHICOLTURA

I bachi venivano allevati dentro le case coloniche o dentro le

bigattiere dei contadini, solo più tardi vennero costruite stabilimenti

bacologici a livello industriale. I bachi appena nati venivano

sistemati sugli «sturini», realizzati con tavole di legno o canne

legate insieme o graticci di ferro, su cui venivano appoggiati fogli

di carta paglia forata. Sopra i fogli si distribuivano le foglie di gelso

e i bachi, per poterle mangiare, passavano attraverso i fori

liberando il foglio che stava sotto. A mano a mano che i bachi

crescevano si utilizzavano fogli con fori più grandi. Era un modo

rapido ed intelligente per tenere puliti i bachi ed evitare la

diffusione di malattie. Ad un certo punto bisognava preparare il

«bosco», dei rami su cui far arrampicare i bachi che avrebbero

iniziato a costruire il bozzolo. Dopo la «salita al bosco» i bozzoli

dovevano essere raccolti, attività che spesso impegnava tutta la

famiglia.

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Nelle bigattiere industriali si allevavano i bachi non solo per

vendere i bozzoli alle filande, ma si facevano nascere le falene

per farle accoppiare dopo averle selezionate e far loro produrre le

uova che sarebbero state vendute ai bachicoltori o ai consorzi

agricoli.

Sopra una foto dello Stabilimento Bacologico Ascenzi a Colli del

Tronto in una foto del 1925 ( Archivio Celsio Ascenzi).

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LE TESTIMONIANZE SULLA BACHICOLTURA

LOCALE DEL PASSATO

MARIA COPPA (JENNY PAPI)

Sono Maria Coppa e abito a Montale. Sono nata il 21-12-1940 a

Magnadorsa di Arcevia. La mia famiglia era composta da 21

persone: i miei nonni con i loro cinque figli, mio padre sposato con

sei figli, il fratello di mio nonno con moglie e cinque figli. Io, la

maggiore dei miei fratelli e tutti i componenti della famiglia

facevamo i contadini a mezzadria. Mia madre si occupava

principalmente dei figli e della casa, cucinava aiutata a volte dalla

nonna e dalla zia. Le altre donne si occupavano degli animali e dei

lavori nei campi insieme agli uomini. Si allevavano i bachi sempre

a mezzadria per avere un guadagno in più e quasi tutti i contadini,

lo facevano in accordo con il padrone. I bachi venivano portati a

noi già nati, dal padrone della casa colonica e noi contadini

dovevamo occuparcene per l’allevamento. I bachi si mettevano di

solito in una stanza grande che era il magazzino e serviva anche

per conservare il grano, semi e frutta. Da piccoli i bachi si

tenevano in uno scatolone. In una parete del magazzino si

mettevano gli sturini a distanza l’uno dall’altro e servivano per

mettere i bachi che crescevano. Gli sturini erano assi lunghe con

la rete in mezzo dove mettevano dei cartoni e sopra i bruchi con le

foglie di gelso. Finchè i bruchi erano piccoli le foglie venivano

spezzettate finemente. Il mangiare di solito veniva dato due volte

al giorno, ma se c’era bisogno anche di notte.

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Era molto importante dar loro da mangiare in abbondanza. I

cartoni venivano messi nuovi e spostati per la pulizia dei bruchi

molto spesso. Era soprattutto mia madre Caterina, che era

diventata esperta, ad occuparsi dei bachi, aiutata dalle altre donne

di casa. Gli uomini pensavano a procurare le foglie raccogliendole

dai mori (i gelsi). Il periodo migliore per allevare i bachi era in

primavera perchè servivano le foglie di gelso che crescevano in

abbondanza. Quando i buchi erano cresciuti si mettevano delle

«frattelle» tra uno sturino e l’altro, che erano dei mazzi di rami di

ginestre o altri rametti dove i bruchi salivano per fare i bozzoli.

Alcuni ricadevano giù perchè la loro crescita non era completa,

morivano ed erano da buttare via.

Il tempo che occorreva per completare l’allevamento era circa di

due mesi e mezzo. I bozzoli si raccoglievano uno ad uno e si

mettevano nei sacchi e portati alla filanda di Arcevia. Io ricordo che

il lavoro dei bachi era impegnativo perchè doveva essere seguito

molto.

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ELENA FERRACCI (LUNA LUCARINI)

Io mi chiamo Ferracci Elena e abito a

Colle Aprico di Arcevia. Sono nata il

7/05/1941 a Castelplanio. La mia famiglia

era composta da 8 persone: io, padre,

madre, 4 sorelle e 2 fratelli. Mio padre

era un contadino e anche mia madre,

lavoravano la terra, le viti, il grano, l’ulivo

e i bachi. Mi ricordo quando si allevavano

in casa i bachi da seta perché ci si

poteva fare la seta e venderla per poi

guadagnarci un po’ di soldi. I miei genitori

lavoravano come me i bachi.

L’allevamento dei bachi era previsto dal

contratto di mezzadria, si ordinavano le once di bachi cioè gruppi

di uova che dopo alcuni giorni arrivavano dalla filanda di Arcevia. Il

procedimento per lavorare i bachi era questo: si applicavano dei

montanti a più di un piano, sui montanti si mettevano degli sturini e

ci si appoggiava la carta dove si mettevano i bachi per farli

mangiare, ogni tanto si cambiava la carta per rendere il loro spazio

pulito, dopo finite tutte le età e le mute cioè il cambio della pelle,

iniziava il periodo della metamorfosi.

Negli sturini si mettevano le

frattelle che erano dei rametti per

fargli fare il bozzolo che si portava

nella filanda per trasformarlo in

seta. Nella mia famiglia lavoravano

i bachi sia le donne che gli uomini.

Per raccogliere il gelso si usava la

crinella: un cesto di vimini.

Lavorare i bachi mi piaceva perché

quando erano cresciuti si

prendevano in mano ed erano

molto morbidi e poi era una grande

soddisfazione.

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Io sono Brunetti Brunella ed abito ad

Arcevia, sono nata il 26/09/1928 ad Ostra

Vetere. In famiglia eravamo 17 persone:

io, i miei genitori, i fratelli ecc… Mio

padre era un agricoltore, mia madre era

una casalinga. Mi ricordo di quando si

allevavano i bachi da seta perché

venivano nutriti 3 volte al giorno con le

foglie di gelso che venivano raccolte

quando non erano bagnate.

L’allevamento dei bachi da seta era

previsto dal contratto di mezzadria.

BRUNELLA BRUNETTI (LEONARDO CASTIGLIONI)

Le uova si prendevano dal padrone, si allevavano all’interno del

granaio, e di loro si occupavano sia gli uomini che le donne.

I bachi si allevavano nel mese di maggio perchè era il periodo in

cui il gelso era verde, questi venivano messi sopra gli sturini che

sono tavole di legno con sopra il cartone.

Mi ricordo che all’inizio della loro vita i bachi mangiavano poco, poi

via via sempre di più.

Infine si trasformavano in bozzoli che venivano portati alla filanda

di Arcevia dove dal bozzolo si ricavava la seta.

Secondo me l’allevamento dei bachi era un lavoro rilassante

perché non bisognava fare tanta fatica.

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TERESA TITTI (MARIA STELLA UGOLINI)

Io sono Teresa Titti e abito a Montale. Sono nata ad Arcevia il

20/11/1939. La mia famiglia era composta da 18 persone: i miei

genitori con 6 bambini (di cui 2 erano del precedente matrimonio di

mio padre, poi rimasto vedovo), i miei nonni e i miei figli. Mio padre

era un agricoltore e mia madre lavorava in casa e nei campi. I miei

genitori allevavano i bachi da seta perché era una fonte aggiuntiva

per guadagnare dei soldi per mantenere la famiglia. Non so se era

previsto nel contratto di mezzadria, ma il guadagno veniva diviso a

metà con il proprietario terriero. Le uova dei bachi si acquistavano

da dei commercianti a Pongelli. Si allevavano nel magazzino di

casa nel periodo di maggio e giugno (prima della battitura) e si

occupavano di loro tutti i membri della famiglia, anche i bambini. Il

periodo era questo perché i magazzini erano vuoti e per la grande

quantità di fogliame disponibile. Per l’allevamento servivano gli

sturini, grossi telai in legno con della rete o traverse in legno, ci si

appoggiavano sopra dei cartoni acquistati appositamente per

allevare i bachi da seta. Le piccolissime larve si acquistavano ad

once (unità di misura del peso), poi venivano disposte sopra gli

sturini e infine venivano ricoperte dalle foglie di gelso. All’ inizio era

importantissimo tenerli al caldo, quindi venivano portati nei

magazzini con i carboni ardenti. Qualcuno teneva le larve in fondo

al letto per riscaldarle con il calore dei piedi. Il tempo di

allevamento era di circa 40 giorni, due periodi di 8 giorni circa

venivano chiamati «la magnarella» perché i bachi mangiavano

tantissimo. Tutta la famiglia era impegnata a «fare la foglia». Il

problema era quando pioveva perché i bachi non potevano

mangiare le foglie bagnate allora si dovevano tagliare i rami del

gelso e metterli ad asciugare all’ interno delle capanne. Alla fine

dei 40 giorni si andavano a tagliare sul monte dei rami sottili che

venivano posizionati sopra gli sturini dove i bachi si arrampicavano

per fare il bozzolo. I bachi che non andavano in seta venivano

chiamate “vacche”. Prima della consegna del baco alla filanda di

Arcevia i bozzoli venivano puliti. A riscuotere andavano o il

padrone o il fattore.

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Io mi ricordo che rimanevo tanti minuti a guardare i bachi mentre

mangiavano le foglie. Alcuni bambini a volte si arrampicavano

sulle scale per guardare gli sturini piú in alto, infatti ne venivano

fatte 4 file. Il lavoro dei bachi era ritenuto piacevole tranne nelle stagioni piovose.

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ATTILIA NERI (MARCO SERI)

Mi chiamo Neri Attilia e abito in Arcevia. Sono nata il 3/4/1932 in

Arcevia. La mia famiglia era composta da due sorelle, due fratelli,

mio padre e mia madre. Mio padre era un contadino a mezzadria,

mia madre uguale. Mi ricordo quando si allevavano in casa i bachi

da seta perché io e i miei genitori lo facevamo. L'allevamento dei

bachi era un lavoro in più per guadagnare qualcosa. Le uova si

prendevano in un consorzio in Arcevia e si tenevano in casa in

una stanza chiamata bigattiera e si mettevano sugli sturini. Nella

stanza c’era un camino dove bruciavamo legna per fare le braci

che mettevamo in contenitori di ferro o di coccio che poi

mettevamo vicino agli sturini. I bachi venivano allevati da noi

donne, di solito, in primavera o in estate, perchè era più caldo e

c’erano le foglie di gelso. Come strumenti usavamo gli sturini e la

carta paglia. Ogni giorno bisognava allargare il luogo dove

stavano perché crescevano a dismisura.

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Siccome crescevano molto, serviva tanto gelso quindi lo

chiedevamo anche ai vicini che non li allevavano. I bozzoli

venivano portati in un sacco alla filanda di Arcevia dove veniva

estratta la seta. L'allevamento dei bachi era molto piacevole

perché per me era molto divertente. A me raccogliere le foglie di

gelso non piaceva tanto, anche perché ho un brutto ricordo, sono

caduta dal moro mentre stavo raccogliendo le foglie per i bachi. Mi

sono ferita tanto alle gambe e sono stata a letto per diversi mesi.

L’incidente era successo a casa di altri contadini, mi ricordo che

mi caricarono su un carretto per portarmi all’ospedale perché

avevo un taglio molto lungo perché cadendo ero caduta sopra una

pietra.

Io però non volevo andare all’ospedale perché ero ragazzina,

avevo 16-17 anni e avevo paura a restare lì da sola. Così mi

portarono a casa e mio padre chiamò il dottor Moriconi che ogni

tanto veniva a pulire e a disinfettare la ferita con l’alcool che

bruciava tanto.

Dopo diversi mesi, però, ancora non riuscivo ad alzarmi così mio

padre chiamò una donna che sapeva aggiustare le ossa perché

avevo dolore anche al ginocchio.

La donna mi curò con l’olio di semi di lino e altre erbe e piano

piano sono guarita. Impiegai circa 6 mesi per ritornare a

camminare. I bachi si vendevano alle filanda da dove le filandaie

uscivano insieme come adesso escono dalle fabbriche.

Allevare i bachi era faticoso perché ogni mattina bisognava

custodirli e andare a fare la foglia.

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AUGUSTO MASTRUCCI (CRISTIANO CURZI)

Io sono Mastrucci Augusto e abito a Piticchio. Sono nato in

Arcevia il 29 marzo 1931. La mia famiglia era composta da mio

padre, mia madre, 5 fratelli e 2 sorelle. I miei genitori erano

mezzadri e anche nella nostra famiglia si allevavano i bachi da

seta come previsto dal contratto di mezzadria e quindi il guadagno

veniva diviso con il padrone. Le uova si compravano in once da un

allevamento in Arcevia. I bachi si allevavano in una stanza della

casa chiamata magazzino. Il luogo veniva riscaldato con un

piccolo camino realizzato a mattoni. Il lavoro veniva svolto anche

da noi ragazzi, ma soprattutto dai nostri genitori. I bachi venivano

allevati a maggio perchè in quel periodo le foglie del gelso, unica

fonte di nutrimento dei bachi, cominciavano a germogliare. Gli

strumenti principali erano dei ripiani chiamati sturini dove i bachi

trascorrevano la prima parte della loro vita. Noi ragazzi

procuravamo ogni giorno grandi quantità di foglie perché i bachi

erano molto voraci soprattutto durante il periodo di mangiarella. Il

lavoro più brutto però era quello di pulire i cartoni dagli escrementi

dei bachi. Passati 40 giorni ci procuravamo delle frasche sulle

quali i bachi sarebbero saliti a fare il loro bozzolo. Appena

terminata questa fase il nostro padrone veniva a prendere i bozzoli

che noi avevamo raccolto e li portava alla filanda di Arcevia per

venderli. Il lavoro dei bachi per me era piacevole perché era

soprattutto una fonte di guadagno.

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GRAZIELLA SOPRANZETTI (VERDINI LORENZO)

Io sono Sopranzetti Graziella e abito in Arcevia.

Sono nata il 18/01/1938 a Maiolati Spontini. La

mia famiglia era composta da 7 persone: mio

padre, mia madre e 5 fratelli. Mio padre era un

mezzadro e mia madre era casalinga. Mi

ricordo quando in casa si allevavano i bachi da

seta perché anche i miei genitori li allevavano.

L’ allevamento dei bachi era un’attività prevista

dal contratto di mezzadria. Le uova dei bachi ci

venivano portate dal padrone. I bachi si allevano nel magazzino e

di solito erano le donne ad occuparsi di loro. I bachi si allevavano

nel mese di Maggio perchè era il periodo in cui c’erano le foglie di

gelso. Il gelso veniva raccolto con delle ceste di vimini e dovevano

essere asciutte. Per allevare i bachi servivano gli sturini: grandi

telai di legno con della rete. Sopra alla rete ci si mettevano dei

cartoni e poi sopra i bachi. Il cartone veniva cambiato spesso per

rendere il loro spazio pulito. Nel magazzino veniva messa una

stufa a legna per riscaldare l’ambiente perchè i bachi dovevano

stare al caldo. Appena nati i bachi erano piccolissimi poi

crescevano velocemente. Il tempo di allevamento durava poco piú

di un mese. Alla fine i bachi andavano verso i bordi esterni degli

sturini e si arrampicavano su dei rami. Qui facevano il bozzolo.

Una volta raccolti tutti i bozzoli si portavano alla filanda di Arcevia.

L’allevamento dei bachi era un lavoro piacevole perchè era

semplice e poco faticoso.

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EMILIANO GOBBETTI (SIMONE GOBBETTI)

Io sono Gobbetti Emiliano e abito a Colle Aprico, sono nato ad

Arcevia il 27/2/1936. La mia famiglia era composta da: mamma,

babbo e nonna. Noi allevavamo i bachi in casa, in una stanza

chiamata “il magazzino”. Questo magazzino veniva attrezzato con

delle impalcature a castello dove venivano messi lunghi bancali di

nome sturini, fuori di legno e dentro di ferro, sotto veniva

appoggiato un cartone di carta paglia dove venivano messi i bachi.

Noi eravamo tutti contadini. Mi ricordo quando si allevavano i

bachi in casa perché bisognava fare molta attenzione altrimenti

morivano. I bachi si allevavano verso il mese di giugno perchè le

foglie di gelso erano verdi e il clima era migliore, in quanto i bachi

dovevano avere una giusta temperatura. La raccolta del gelso era

fatta a mano, le foglie si mettevano in grandi ceste trasportate in

spalla fino a casa. La fase di crescita dei bachi dalla nascita al

bozzolo era di circa 40 giorni, poi, quando i bachi diventavano

grandi, bisognava preparare dei rametti dove i bachi facevano il

bozzolo. Prima che i bozzoli schiudessero bisognava portarli alla

filanda di Arcevia, per ricavare la seta. Ľ allevamento dei bachi era

piacevole perchè era bello vederli mangiare tantissimo, crescere e

alla fine vederli salire sui rami per fare il bozzolo. Una volta, con

grande dispiacere, i bachi morirono e fummo costretti a buttarli via

tutti, ma il motivo per cui sono morti non lo abbiamo mai saputo.

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DOMENICO AVALTRONI (CRISTIAN AMBROSINI)

Io sono Avaltroni Domenico, sono nato in Arcevia il 20/5/1945, la

mia famiglia era composta da 10 persone: 4 fratelli, 2 cugini e

rispettivi genitori. Mio padre era contadino mezzadro, mia madre si

occupava dei lavori di casa. Io ero piccolo, mi ricordo poco peró

anche in casa mia si allevano i bachi, perché era previsto dal

contratto di mezzadria. Le uova venivano fornite dal padrone

tramite il fattore. I bachi si allevavano in una stanza della casa

detta magazzino adibito a bigattiera dove venivano messi dei telai

di legno e rete detti sturini, coperti di fogli di carta paglia dove

sopra venivano messe le uova. La stanza veniva riscaldata da una

stufa a legna, che doveva mantenere una temperatura costante.

Dopo la schiusa delle uova questi bachi venivano nutriti con foglie

di moro e tutta la famiglia contribuiva alla loro raccolta compresi

noi bambini. Il periodo di allevamento era maggio, quando si

trovavano le foglie di gelso. Dopo circa un mese o 40 giorni i bachi

facevano i bozzoli che venivano raccolti e riconsegnati al fattore

che a sua volta li portava alla filanda per la lavorazione.

L’allevamento dei bachi per la mia famiglia non era un lavoro

piacevole perché richiedeva moltissima cura e visto che i bachi

non erano di sua proprietà le responsabilità erano maggiori.

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FRANCESCO TORRETTI (ALESSANDRO TORRETTI)

Mio nonno si chiama Torretti Francesco ed è nato ad Arcevia il 5

aprile 1924. La sua famiglia era composta dai suoi genitori e tre

fratelli sposati. Suo padre era un agricoltore, la mamma era

casalinga. Nonno ricorda che anche la sua famiglia allevava i

bachi da seta, per guadagnare un poco in più. Mentre gli uomini

lavoravano la terra e accudivano il bestiame, le donne si

occupavano dei bachi. Le uova dei bachi venivano fornite da chi

ritirava i bozzoli. L’allevamento dei bachi era fatto in una stanza

grande (chiamata magazzino) dove c’erano tante intelaiature di

legno, disposte come letti a castello a quattro piani. In ogni piano

dei telai c’erano dei fili di ferro che formavano tutti quadrati, sopra

questi fili si sistemavano le uova dei bachi. Il periodo di

allevamento era primavera inoltrata perchè proprio in quel periodo

le foglie del gelso erano a maturazione giusta. Le donne dovevano

salire sulle piante dei gelsi per raccogliere le foglie e le

sistemavano in contenitori di vimini che erano stati intrecciati dagli

uomini durante l’inverno. Una volta raccolte le foglie e portate a

casa le distribuivano sopra le uova dei bachi. Il lavoro non era

tanto gradito, però si sopportava pensando al ricavo finale. Per

passare dall’uovo al bruco fino alla costruzione del bozzolo,

occorreva circa 40 giorni. Una volta pronti, i bozzoli venivano

sistemati in sacchi di tela e caricati sul carro, trainato da cavalli o

mucche, e consegnati alla filanda di Arcevia. Siccome in quegli

anni qualche volta si verificavano nevicate o gelate anche in

primavera quando era il momento di dar da mangiare ai bachi, non

avendo le foglie dei gelsi a giusta maturazione, veniva raccolta

un’erba, la senape selvatica, che i bachi riuscivano a mangiare.

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GINA AGUZZI (JENNIFER AGUZZI)

Io mi ricordo che le uova dei bachi si prendevano dentro la filanda

di Arcevia, dove oggi c’è l’attuale scuola media. I bachi si

allevavano in un magazzino, cioè una stanza dove c’erano i bachi,

i sacchi di grano ecc…; lì dentro la temperatura era costante e si

preferiva una temperatura calda per far sì che i bachi stessero al

caldo. Nella mia famiglia era mia madre che si occupava dei

bruchi, non lo faceva mio padre perchè era troppo impegnato nel

suo lavoro. I bachi si allevavano in primavera o in estate perchè

erano le stagioni dove il gelso non era secco o giallo. Per allevarli

serviva: lo sturino che era una “lettiera” che poteva essere lunga

anche 3 m, costituita da tavole di legno e una rete, e che si puliva

con una pezza umida. Le fasi della crescita del baco erano: dall’

uovo alla larva, dalla larva al baco, dal baco al bozzolo. La

raccolta del gelso si svolgeva così: con una scala si raccoglievano

le foglie che si mettevano in una sacca di iuta e poi si davano in

pasto ai bachi. Io mi ricordo che c’erano degli anni in cui il gelso

non c’era e quindi bisognava andarlo a cercare anche in posti

molto lontani da casa.

Io sono Gina Aguzzi e abito a Santa

Croce, una frazione di Arcevia. Sono

nata ad Arcevia il 25/02/1932. La mia

famiglia era composta da mio padre

Romeo, mia madre Rosa e dai miei 4

fratelli. Mio padre era un operaio e mia

madre invece era casalinga. Mi ricordo

quando si allevavano in casa i bachi da

seta perchè mia madre li allevava. Io e

la mia famiglia non eravamo mezzadri,

però svolgevamo comunque

l’allevamento.

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SAVINA GALTELLI (ROMINA MENCARELLI)

Io sono Galtelli Savina e abito a Serra San Quirico. Sono nata il 3

settembre 1947 a Mergo.

La mia famiglia era composta da 5 persone, mio padre ltaliano,

mia madre Gina, le mie sorelle Maria, Elisa e io. Mio padre faceva

il contadino e mia madre la casalinga.L’allevamento dei bachi era

un’attività in più che i miei svolgevano per guadagnare dei soldi. I

miei genitori prendevano le uova a Castelplanio, queste si

mettevano dentro dei cesti fatti con i salici in una stanza della

casa, una volta nati, via via che crescevano venivano posizionati

sopra degli sturini. Ad occuparsi dei bachi erano le donne. Le uova

si prendevano nel mese di aprile perchè incominciava a venire il

caldo. Una volta nati si dovevano raccogliere le foglie del moro

(gelso) e tagliarle fine fine (il pisto) per dar loro da mangiare.

Una volta cresciuti i bachi, si doveva andare a raccogliere i

bastoncini dei protani, che poi venivano montati e formavano un

finto bosco che veniva chiamato «frattelle» dove i bachi si

arrampicavano per fare i bozzoli «per andare in seta». l bachi si

dovevano pulire un volta al giorno. Una volta andati in seta si

vendevano. L’allevamento dei bachi era un lavoro sgradevole

perché a me i bachi facevano schifo.

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GINA BELLUCCI (FRANCESCO CAVALLETTI)

Io sono Gina Bellucci, sono nata il 29/12/1929 e abito a

Montecarotto. La mia famiglia era composta da me, mio marito e i

miei tre figli. Mi ricordo quando si allevavano i bachi da seta a

casa. Noi li allevavamo perchè essendo mezzadri lo prevedeva il

contratto. Il nostro padrone era un grande proprietario terriero e

sotto di lui aveva molti contadini. Da noi arrivava un signore del

consorzio agrario a portarci le uova per tutti i contadini. Li pesava

con un bilancino e ad ognuno assegnava la parte di uova che gli

spettava e si misurava in once, chi ne prendeva una, chi mezza a

seconda di quanto spazio si aveva disposizione a casa per farli

crescere.

Noi avevamo un’incubatrice grande, era di legno con vari ripiani

per sistemare gli sturini su cui disponevamo le uova stando attenti

a non mischiarle, perchè poi ognuno sarebbe venuto a prendere le

proprie larve.

Gli sturini erano fatti come dei cassettini con i bordi di legno e il

fondo di carta paglia. Su questi fogli mettevamo le uova e sopra un

altro foglio con dei buchini, così appena nascevano le larve

passavano attraverso i buchi e potevamo prenderli. Per far questo

mettevamo delle foglie di gelso sopra la carta, così loro ci si

arrampicavano, prendevamo le foglie e le mettevamo dentro altri

sturini dove poi sarebbero rimaste fino a quando non facevano il

bozzolo.

L’incubatrice doveva mantenere una temperatura costante e per

far questo c’era un lumino ad olio sotto che riscaldava dei tubi di

rame, dove all’interno c’era l’acqua, che passava tutto intorno

all’incubatrice. All’inizio ai bachi davamo da mangiare foglie di

gelso triturate finemente, poi man mano che crescevano

tagliavamo le foglie sempre più grossolanamente.

Quando vedevamo che iniziavano a mangiare tantissimo (periodo

della magnarella) voleva dire che di lì a poco avrebbero fatto il

bozzolo. A quel punto si preparava una frattella con dei rametti di

vite, per farli salire a fare il bozzolo. Quando questi erano belli

asciutti li staccavamo e li ripulivamo.

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Non tutti i bozzoli erano buoni, c’erano quelli di prima e quelli di

seconda scelta, anche in base al colore. Quelli di prima scelta

erano pagati di più. Poi arrivava un signore sempre del consorzio

che li prendeva per portarli alla filanda. Tutti eravamo impegnati

con i bachi e questo non era molto positivo perchè in quei mesi

(marzo, aprile e maggio) nei campi c’era molto da fare e la loro

cura portava via molto tempo. A me non piaceva allevare i bachi

perchè il guadagno era poco e metà era per il padrone.

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IL MERCATO DEI BOZZOLI

I contadini che avevano allevato i bachi e avevano i bozzoli

potevano scegliere tra due alternative: venderli direttamente alle

filande o venderli al mercato dei bozzoli che erano istituiti in varie

città. A questi mercati i contadini si recavano con i loro birocci o

carretti trainati dai muli o dai cavalli. Sui carri erano stati caricati i

cesti pieni di bozzoli. I cesti venivano pesati con la bilancia del

mercato. I bozzoli venivano valutati però anche in base alla

qualità. Queste fotografie fanno riferimento al mercato dei bozzoli

di Jesi.

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A questo punto il contadino veniva pagato e quando sarebbe

tornato a casa avrebbe dovuto dividere il suo guadagno con il

padrone. Al mercato i bozzoli venivano «stufati» tramite degli

essiccatoi, che erano dei forni che servivano per uccidere le

crisalidi e impedire che il filo venisse ridotto in tanti pezzi e quindi

reso inutilizzabile. I bozzoli essiccati venivano ammassati

all’interno di capannoni ed acquistati a mano a mano dalle filande

dove iniziava il processo di trattura della seta. Anche all’interno

delle filande più importanti esistevano essiccatoi e magazzini in cui

venivano conservati i bozzoli.

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LA LAVORAZIONE DELLA SETA

La sericoltura è la produzione della seta e prevede varie fasi che

vengono svolte in filande e setifici. Nella filande si produce la seta

greggia che deve essere ulteriormente lavorata nei setifici. Le fsi

sono:

a) Cernita: selezione dei bozzoli per ottenere filati omogenei.

b) Spelaiatura: il bozzolo è ricoperto da una lanugine, detta

spelaia, che va tolta per poter dipanare il filo.

c) Macerazione: immersione in acqua a temperatura di circa 80

gradi centigradi.

d) Scopinatura: strofinatura con scopine di saggina per trovare il

capofilo e dipanare il filo.

c) Trattura: legato il capofilo ad un aspo, si fa ruotare

quest’ultimo fino a quando il filo viene avvolto in matassa.

Dalla seconda metà dell’Ottocento in molte filande questo

processo viene eseguito da una sola macchina detta

bacinella per trattura. Le bacinelle possono essere alimentate

a fuoco o, nelle filande più evolute tecnologicamente, a

vapore o energia elettrica.

d) Torcitura: il filo così ottenuto è però troppo sottile, così viene

trasferito su dei rocchetti grazie ai quali si può effettuare la

torcitura di più fili per creare un filo più resistente.

Normalmente la macchina, di grandi dimensioni, è disposta

verticalmente in edifici alti e stretti (il torcitoio o filatoio può

essere alto dai 3 ai 5 piani).

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e) Sgommatura. Il filo di seta grezza è costituto da due elementi: la

fibroina e la sericina che rende la seta ruvida, poco lucente e

difficile da tingere. Pertanto il filo di seta grezza è sottoposto alla

sgommatura: viene immerso in una soluzione di acqua e sapone

neutro, che è in grado di rimuovere la sericina ad una temperatura

di circa 90° C, e infine viene risciacquato. In seguito al trattamento

la seta risulta morbidissima e molto lucente.

f) Carica: reintegrazione dei principi persi durante le fasi di

lavorazione.

g) Tintura.

h) Tessitura.

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Il signor Michele Servadio ci ha raccontato che la famiglia della

sua trisnonna svolgeva l’intero processo di lavorazione della seta

interamente a casa:

«Mia zia Angela Memè, anche se non si ricorda bene, mi ha dato

queste informazioni. La mia trisnonna Agata Monnati e le sue

sorelle avevano una piccola coltura di bachi da seta per uso

proprio e per qualche famiglia vicina.

Tutto si faceva in casa, dall’allevamento del baco alla tessitura.

Quando allevavano più bozzoli del necessario, li portavano alla

filanda di Arcevia.

La seta la tessevano in casa, con un telaio più piccolo fatto a

posta. Si ricavavano piccoli rettangoli di tessuto che venivano

cuciti insieme per farne biancheria intima come le sottovesti.

Naturalmente non erano capi di abbigliamento molto preziosi, ma i

contadini, che non potevano permettersi di meglio, li

consideravano tali».

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LAVORARE IN FILANDA

La filanda era l’edificio dove si svolgeva la trattura della seta. Di

solito era un edificio già esistente riadattato a tale scopo. Chi vi

lavorava aveva delle mansioni specifiche.

Le bollitrici, o sottiere o

scopinatrici, avevano il ruolo di

immergere il bozzolo nell’acqua

bollente per sciogliere la colla

che teneva unito il filo e con

uno scopino (un pettine)

doveva trovare il capo del filo

del bozzolo.

Il fuochista o macchinista era

l’unico uomo che lavorava in

filanda e doveva accendere il

fuoco, in modo tale che le

bacinelle fossero belle calde e

pronte per metterci dentro il

bozzolo.

La cernitrice era un’operaia che

veniva assunta per periodi

limitati. Doveva separare i

bozzoli buoni e pregiati da quelli

irregolari, filati male, malati e

doppi ( i bozzoli filati da due

bachi insieme).

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La giratora aveva una mansione

semplice ma di responsabilità:

doveva andare in giro a

controllare che le filandaie

facessero il proprio lavoro senza

parlare e senza distrarsi, in caso

di necessità doveva rimproverare

e segnalare al dirigente il

comportamento in modo che

venissero presi provvedimenti

come il pagamento di penalità e

detrazioni dallo stipendio.

La giuntina veniva chiamata dalle maestre per annodare i fili

spezzati dei bozzoli oppure per unire i fili dei bozzoli che erano

terminati.

La maestra prendeva i capi dei fili dei

bozzoli passati dalla bollitrice, li univa

e li infilava nell’aspo dove venivano

filati e torti per realizzare un filo più

grande. Di solito si utilizzavano da

un minimo di 8 fili ad un massimo di

24. Grazie alla sensibilità delle sue

mani doveva rendersi conto della

regolarità dello spessore del filo.

Le operaie che lavoravano al controllo

qualità dovevano controllare che le

matasse prodotte dalle maestre fossero

perfette, se ci fosse stato un calo

eccessivo (uno spreco) o un nodo fatto

male la maestra o la giuntina sarebbero

state penalizzate. Per sapere chi aveva

lavorato bene o male scrivevano su ogni

matassa il nome della filandaia o un

numero a lei corrispondente.

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LE CONDIZIONI DI LAVORO IN FILANDA Ogni filanda aveva un regolamento che doveva essere

scupolosamente rispettato dalle operaie.

Per esempio la filanda Girolimini di Jesi aveva un regolamento

chiaro e semplice. L’ orario di lavoro era di 10 ore: dalle ore 6:00

alle ore 9:00, dalle 9:30 alle 13:00, dalle 14:30 alle 18:30, ma

anche dalle 15:00 alle 18:00 con due intervalli per la colazione e

per il pranzo.

Non erano ammessi i ritardi nè all’entrata del lavoro e nè all’ inizio

della giornata e nè in ciascuno dei rientri.

Se un’operaia arrivava in ritardo la punizione era che il giorno

dopo non poteva recarsi a lavoro perdendo così una giornata di

stipendio.

Se una filandaia voleva spostarsi dal posto di lavoro era

necessaria l’autorizzazione della giratora, la responsabile

dell’andamento del lavoro,dell’ordine e della disciplina.

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1906 1915 1923 1925 1926 1928 TOTALE

CASALINGHE 3 5 6 3 15 11 43

CONTADINI 2 8 3 6 9 12 40

STUDENTI 3 4 0 2 4 6 19

SETAIOLE 11 8 15 9 14 29 86

La vita delle filandaie era veramente dura, quasi insopportabile e

priva di comodità. Per le donne di campagna diventare filandaie

era un lusso, sia socialmente che economicamente. Invece per le

donne di città era una necessità economica, l’unica alternativa era

andare a lavorare per qualche signore. Oltre agli orari massacranti

si aggiungevano le pessime condizioni di lavoro: ambienti non

salutari, vapore maleodorante, mani immerse per ore nell’acqua

bollente. Le mani erano quasi sempre pieni di scottature che

venivano curate con urina, succo di limone, petrolio, acquaforte e

zolfo. L’ambiente, con condizioni igieniche pessime, era

caldissimo e umido: le setaiole spesso si ammalavano di pleurite

(infiammazione ai polmoni) o di tubercolosi, indebolite dalla

stanchezza e dalla fame, con le mani deformate dall’artrite.

Dalla tabella si può dedurre quante persone di Jesi si siano

ammalate di tubercolosi in alcuni anni. La categoria più colpita era

proprio quella delle setaiole perché in filanda c’era molta umidità.

Fino al 1950 circa molte donne eseguivano il lavoro di trattura

della seta nelle loro abitazioni, pertanto esse subivano le

conseguenze di un ambiente di lavoro molto disagiato che

corrispondeva all’ambiente domestico in cui vivevano.

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L’unica cosa che permetteva di tollerare il lavoro era il canto:

quando sonno, fame e stanchezza prendevano il sopravvento, le

setaiole intonavano canzoni corali permesse dal regolamento

perchè a differenza del chiacchierare o del mangiare non

rallentavano il lavoro. In alcuni regolamenti anche la preghiera e il

rosario erano ammesse all’interno della filanda non disturbando la

concentrazione necessaria. Anche le bambine venivano mandate

a lavorare in filanda per aiutare le proprie famiglie pur essendo

proibito dalla legge. In caso di gravidanza le donne rimanevano in

filanda fino al giorno del parto e se dovevano allattare potevano

farlo solo durante le pause concesse.

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I CASCAMIFICI

I cascamifici erano industrie che lavoravano il cascame, i residui

dei bozzoli perché a quel tempo nelle filande non si sprecava

niente.

I cascami, arrivati ai cascamifici, venivano pettinati e trattati per

realizzare prodotti come le imbottiture dei materassi.

Nemmeno le crisalidi venivano buttate, ma venivano vendute ad

altre industrie per farne saponi o altri prodotti.

A Jesi c’era un cascamificio molto importante sorto nel 1874.

Dopo aver subito numerose modifiche e ristrutturazioni industriali,

chiuse nel 2001.

Produceva non solo filati in seta pura, ma anche artificiali (viscosa)

e sintetici (poliestere).

Altri cascamicifi si trovavano a Fossombrone e a Fano.

Cascamificio di Jesi

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PAESI PRODUTTORI

(Producono il bozzolo e il filo di seta greggia)

CINA - INDIA - BRASILE - UZBEKISTAN -

THAILANDIA - GIAPPONE – VIETNAM

PAESI TRASFORMATORI

(Trasformano la seta greggia in tessuto di pregio)

EUROPA - GIAPPONE - COREA DEL SUD - CINA –

INDIA

PAESI CONSUMATORI

(Acquistano i tessuti di pregio)

USA-CANADA-EUROPA- GIAPPONE

LA SETA NEL MONDO OGGI

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COSA SI PRODUCE CON LA SETA

Nell’antichità, come del resto anche oggi, con la seta si

producevano vari tessuti pregiati caratteristici per la loro

lucentezza, leggerezza e trasparenza con cui si realizzavano abiti,

camicie, calze, veli e cappelli.

Le nobildonne esibivano anche preziosi ombrellini di seta per

ripararsi dal sole o ventagli finemente ricamati.

Durante la II Guerra mondiale con la seta si realizzarono anche

paracaduti leggeri e resistenti.

Negli ultimi tempi la ricerca italiana si è occupata delle nuove

applicazioni della seta in campo biomedico, cosmetico e

farmaceutico.

Questo settore, in continua espansione, vede la seta utilizzata

come biomateriale ad alta biocompatibilità per l'uomo e sta

producendo ricerca per la costituzione di lenti a contatto a base di

seta, tendini artificiali, legamenti e protesi vascolari.

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LA STORIA DELLA SETA

Lo studio delle epoche preistoriche ha dimostrato che l’uomo, già

nel neolitico, conosceva diverse specie di bachi selvatici e ne

utilizzava i bozzoli.

Il filo che ne ricavava poteva essere usato per ottenere corde e

tessuti.

Testimonianze sono state trovate in Asia (India e Cina), in Europa

(isola greca di Cos) e anche in altri continenti.

Gli uomini primitivi, però, non sapevano allevare i bachi.

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LA SCOPERTA DELLA SETA

Varie sono le leggende che spiegano come fu scoperta la seta.

Secondo la leggenda più nota, la scoperta di questa fibra tessile

viene attribuita all’imperatrice cinese Lei-Tsu, moglie del-

l’imperatore giallo, il cui regno durò dal 2697 al 2597a.C.

Lei-Tsu stava prendendo il tè in giardino quando un bozzolo di un

baco cadde nella sua tazza.

Lei-Tsu, infastidita, afferró il bozzolo per toglierlo dal té e osservó

il filo che da esso si dipanava.

Notò che all’interno del bozzolo si nascondeva un baco e capì che

questo si nutriva di foglie di gelso.

Affascinata dalla bellezza del

filo, l’imperatrice chiese al

marito di coltivare il gelso e

allevare i bachi da seta per

trarne quel filo così prezioso.

Così Lei-Tsu divenne la

scopritrice della seta e

l’inventrice del primo telaio per

tesserla. Per questi motivi

l’imperatrice venne divinizzata

con il nome di “Madre del baco

da seta”.

Nacque una tradizione che per

migliaia di anni avrebbe

rappresentato un monopolio

per la Cina, infatti la

bachicoltura e la sericoltura

erano considerati segreti di

stato ed era prevista la pena

di morte per chi li avessero

svelati.

Fino a quando un’altra

principessa non decise di

portarla con sè fuori dal

paese.

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IL SEGRETO SVELATO

Secondo un’altra leggenda fu una principessa cinese, che per

ragioni di stato avrebbe dovuto sposare il re del Kothan (oggi

Turkestan cinese), ad esportare i segreti della produzione della

seta perché non voleva rinunciare ai suoi meravigliosi abiti. La

leggenda racconta che quando il principe la informò dell’assoluta

impossibilità di produrre il prezioso filo, lei decise di passare

all’azione. La principessa, infatti, rubò dai giardini imperiali delle

uova di baco e dei semi di gelso nascondendoli nella sua

elaborata acconciatura nuziale che le guardie non avrebbero

potuto perquisire. Anche nel nuovo regno di cui la principessa

divenne regina si adottò la strategia delle pene severissime per

evitare la diffusione degli allevamenti nelle regioni confinanti e, in

effetti, per secoli la produzione serica rimase custodita fra pochi

regni. Successivamente si diffuse anche in Giappone, Corea e

India.

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LA DIFFUSIONE NEL MONDO OCCIDENTALE

Solo dopo le conquiste di Alessandro Magno, i Greci conobbero

questa fibra tessile e iniziarono i commerci lungo una rotta

commerciale che diventerà la famosa “Via della seta”. I Greci

acquistavano la seta non direttamente dai Cinesi, ma dai Persiani

che facevano pagare i dazi sulle merci che circolavano sul loro

territorio. Dalla Grecia la seta si diffuse nel bacino del

Mediterraneo fino a giungere a Roma. Era un tessuto così raro e

prezioso che solo gli imperatori e i nobili più ricchi potevano

permetterselo. Era così costosa che l’imperatore Aureliano nel

275 d.C si rifiutò di acquistare un mantello di seta tinto di porpora

per la moglie. Mentre nel 301 d.C., Diocleziano con un editto

imperiale stabilisce il prezzo della “sfinata materia prima, ancora

oggi desiderata da ogni persona al mondo”.

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Gli antichi Romani, anche se indossavano sontuose vesti di seta,

non sapevano come produrre questa fibra.

L’imperatore Giustiniano, secondo la leggenda, inviò in Cina dei

monaci per scoprire il segreto della seta.

Essi nascosero le uova dei bachi dentro le canne di bambù che

usavano come bastoni. Giunti a Costantinopoli nel 550 d.C.,

consegnarono all’imperatore la preziosa merce e svelarono

all’imperatore che la seta proveniva dai bozzoli di alcuni bachi. Le

uova che essi portarono vennero fatte schiudere nel letame.

Da Bisanzio il segreto arrivò in Grecia e da lì si diffuse in Italia.

Questa fonte iconografica fa parte di una raccolta di venti incisioni

intitolata Nova Reperta commissionata a Giovanni Stradano (Jan

Van Der Straet) da Luigi Alamanni, nobile fiorentino, tra il 1587 e il

1589. Le incisioni presentano le "nuove scoperte" dell'epoca

moderna. Tra queste figura proprio la produzione della seta.

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Nel VII secolo furono gli Arabi ad importare la bachicoltura in Africa

Settentrionale e nell’VIII secolo anche in Spagna e nell’Adriatico.

Intorno all’anno 1000 il re Ruggero II diffuse l’industria della seta a

Palermo, Messina e Napoli.

Poco dopo, nel 1300, la Repubblica marinara di Venezia riuscì a

carpire il segreto della seta ai bizantini e l’industria serica si diffuse

a Genova, in Lombardia e a Firenze, dove nel 1423 fu ordinata

addirittura la piantagione di gelsi con editti pubblici.

Durante il papato avignonese il Papa Clemente V fece diffondere

la sericoltura in tutta la Francia e ben presto la seta francese fece

concorrenza a quella italiana. Quando i Protestanti vennero

cacciati dalla Francia, l’industria delle stoffe di seta si diffuse in

Inghilterra, in Germania, in Svizzera, in Olanda, per poi

raggiungere l’America e le ultime province della Russia come

l’Ucraina.

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LA VIA DELLA SETA

La Via della seta era un percorso lungo circa 8.000 km ben noto

ai commercianti che la percorrevano per acquistare e vendere

merci. Le vie carovaniere attraversavano l'Asia centrale e il Medio

Oriente, collegando Chang'an (oggi Xi'an), in Cina, all'Asia Minore

e al Mediterraneo attraverso il Medio Oriente e il Vicino Oriente. Le

diramazioni si estendevano poi a est alla Corea e al Giappone e, a

Sud, all'India. La Via della Seta fu iniziata nel 114 a.C. e

sopravvisse fino al XV secolo, quando si aprirono le vie marittime.

Non era solo una via commerciale ma anche un potente mezzo di

scambio di informazioni, persone, idee tra il mondo orientale e

quello occidentale. Prendeva il nome dal prodotto che

maggiormente si commerciava, la seta, ma non meno importanti

erano altre merci come le spezie, i cavalli e i metalli preziosi.

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MARCO POLO

Nato a Venezia nel 1254

da una famiglia di

viaggiatori, Marco Polo

intraprese il famoso

viaggio verso l’estremo

oriente nel 1271, a soli

17 anni insieme allo zio

Matteo e al padre

Niccolò. Marco Polo

scrisse un libro intitolato

«Il Milione» in cui

racconterà il suo viaggio

e il suo soggiorno presso

la corte dell’imperatore

cinese.

Ecco come Marco Polo descrive la Via della seta: “I mercanti sono costretti ad attraversare vaste zone desertiche,

sabbiose e aride, dove non c’ è nulla che possa servire da cibo

agli animali; i pozzi sono lontanissimi ľ uno dalľ altro tanto che

bizogna fare un lungo cammino per arrivarvi e i cavalli cadono

sfiniti.”

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LA SETA NEL MEDIOEVO

Fu nel XII secolo che l’Italia divenne la maggiore produttrice

europea di seta. L’allevamento dei bachi fu un importante reddito

di supporto all’economia agricola e la produzione e commercio di

tessuti divenne un’industria molto redditizia che diede ricchezza e

potere alle corporazioni che praticavano l’Arte della seta, in

particolare nella città di Firenze.

Le corporazioni erano associazioni di tutti coloro che in una data

di città esercitavano lo stesso commercio o lo stesso mestiere.Ne

facevano parte solo i maestri, cioè i proprietari di aziende o

botteghe.

Le corporazioni avevano un forte potere economico e

successivamente anche politico.

Essere iscritti ad una delle Arti riconosciute era indispensabile per

potere ricoprire cariche pubbliche, oltre che per poter esercitare

quel dato mestiere.

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I diversi Statuti delle Arti avevano valore di legge. Al fine di evitare

qualsiasi forma di concorrenza, per mezzo di tali Statuti le Arti

esercitavano un controllo totale sull'attività produttiva stabilendo

delle regole, per esempio chi voleva svolgere un certo mestiere

doveva superare dei periodi di prova e di apprendistato e chi

voleva aprire bottega doveva pagare gravose tasse. Queste

associazioni vietavano che un loro appartenente potesse svolgere

attività nell'ambito di un mestiere diverso, prescrivevano fin nei

minimi dettagli le modalità di fabbricazione e di vendita dei prodotti

impedendo qualsiasi innovazione, avevano il diritto non solo di

impedire la concorrenza estera, ma anche di vietare ad altri la

fabbricazione e il commercio degli stessi prodotti in altre zone

della stessa città.

Ogni città aveva un numero diverso di Arti Maggiori e Minori, però

l’Arte della seta era sempre annoverata tra le Arti Maggiori. A

Firenze, per esempio, esistevano 21 arti, di cui sette Arti Maggiori e quattordici Arti Minori. Le arti maggiori, come dice la parola stessa, erano quelle di

maggiore importanza ed erano le seguenti: Arte dei Giudici e dei

Notai, dei Mercatanti, del Cambio, della Lana, della Seta, dei

Medici e Speziali, dei Vasai e Pellicciai.

Le Arti Minori erano quattordici:

Arte dei Beccai, dei Calzolai, dei Fabbri, dei Maestri di Pietra e di

Legname, dei Linaioli e Rigattieri, dei Vinattieri, degli Albergatori,

degli Oliandoli e Pizzicagnoli, dei Cuoiai e Galigai, dei Corazzai e

Spadai, dei Correggiai, dei Legnaioli, dei Chiavaioli e dei Fornai.

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LA SERICOLTURA NEL RINASCIMENTO

Anche nel Rinascimento la produzione della seta continua ad essere praticata. Il noto pittore Giuseppe Arcimboldo, nato a Milano il 5 aprile 1526 e morto l’ 11 luglio 1593, illustrò un trattato sulla sericoltura raffigurando le varie fasi della produzione della seta.

«Qui si coglie la foglia del moro biancho per i vermi detti bigatti»

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Nella prima illustrazione alcune donne stanno selezionando le foglie di

gelso, nella seconda invece due ragazze si prendono cura dei bachi che

venivano chiamati anche «bigatti».

Curiosa la notizia scritta nella didascalia e confermata anche da

testimoni di Arcevia, cioè che le donne erano solite tenere tra i seni le

uova di baco per farle schiudere con il calore del proprio corpo.

Ill. n. 2:«Questo capitolo dimostra la semenza del bigatto va verso la

primavera quando il tempo è caldo le femmine pigliano il seme e se lo

mettono nel seno e con quel calore la si comenza a movere tenendola a

loghi più caldi e temperati che a loghi fredi il semo è di questa grossezza

e quando quel bigatto o vermino è nato e che poi fa la galla è di questa

grossezza et facione. La galla è di tal grossezza come qui si vede»

In tutte le Marche, sotto lo Stato Pontificio, s’incominciò ad

assegnare premi per incoraggiare i contadini marchigiani ad

estendere le piantagioni di gelso e ad ampliare le bacherie o

bigattiere, appositi ambienti attrezzati per l’allevamento del baco

da seta. A lungo però i bachi vennero allevati nelle bigattiere delle

case coloniche, solo alla fine del 1800 nacquero le prime bigattiere

a livello industriale situate nelle città dove c’era manodopera

abbondante.

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Due ragazze stanno distribuendo

il gelso ai bachi appena nati sugli

sturini.

Una ragazza immerge le mani

nell’acqua bollente riscaldata da

un piccolo forno a legna e sta

prendendo i bozzoli.

Una donna sta torcendo la

matassa di seta per

confezionarla.

Due uomini stanno

imballando le matasse di

seta.

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Il filo delle matasse veniva

incannato e portato al filatoio.

Nel filatoio idraulico,

funzionante grazie ad

ingranaggi mossi dall’energia

dell’acqua, venivano inserite

le canne con i fili di seta. Nel

filatoio più fili di seta venivano

torti tra loro per farne uno più

spesso e resistente che veniva

avvolto in nuove matasse che

infine venivano tinte e tessute.

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LA SERICOLTURA DAL 1700 AD OGGI

Verso il Settecento le Corporazioni delle arti e dei mestieri

entrarono in crisi a causa delle imposte eccessive e della

mancanza di tecniche evolute. Al contrario il settore della

sericoltura venne favorita da vari elementi, tra cui la diffusione di

trattati e studi scientifici pubblicati allo scopo di modernizzare le

tecniche di gelsicoltura, bachicoltura e trattura della seta.

Nell’Enciclopedia delle Scienze, delle Arti e dei mestieri di Diderot

un capitolo è dedicato proprio a questi argomenti.

Anche in Italia si diffusero enciclopedie simili a quella francese,

anche se non così vaste. Un esempio è «Il Dizionario delle Arti e

de’ mestieri» di Francesco Griselini (Venezia 1768) che ha

interessanti incisioni riguardanti la bachicoltura.

Quando si diffusero anche in Italia le idee illuministiche e un

nuovo interesse per le scienze, anche i proprietari terrieri

cercarono di adottare nuove tecniche di coltura del baco che

migliorò la resa dei bozzoli. Bisognerà però aspettare la seconda

metà del XIX secolo, grazie al processo di industrializzazione e

all’invenzione delle macchine a vapore, per assistere alla nascita

di grandi filande in varie città, anche nelle Marche.

Inoltre in questo secolo nacquero delle Accademia agrarie che

permisero di perfezionare la gelsicoltura, adottando trattamenti

chimici delle foglie di gelso, e la bachicoltura per ridurre l’alta

mortalità dei bachi dovuta a malattie e alle cattive condizioni

igieniche delle bigattiere che necessitavano di metodi di

disinfezione.

Tav. 2 - Educazione de'

Bachi da Seta.

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LE FILANDE NELLE MARCHE

Fossombrone, Osimo e Jesi furono le città che maggiormente si

dedicarono alla sericoltura. Jesi era soprannominata «piccola

Milano» perché agli inizi del ‘900 aveva varie industrie: 12 grandi

filande che occupavano 1055 operaie, un cascamificio che

impiegava 360 persone, una fabbrica di fiammiferi, un lanificio,

una cartiera, due fornaci e tante altre piccole fabbriche. La prima

filanda di tipo «industriale» venne realizzata da Pasquale Mancini

nel 1837, la seconda nel 1844 dalla famiglia Balleani. Nel 1876

erano attive 9 filande di medie e grandi dimensioni e almeno altre

7 di minore importanza.

Ad incentivare il settore industriale della seta era stata l’istituzione

del mercato dei bozzoli nel 1834 che in breve diventò il più

importante della zona.

Nella Marche, in provincia di Ancona, c’erano due filande anche a

Corinaldo, tre a Cupramontana, una delle quali appartenente a

Sesto Giovannetti che ne possedeva un’altra ad Arcevia insieme a

Vici, una a Monte Roberto, una a Polverigi, un’altra a Majolati

Spontini, una a Falconara Marittima, una a Ostra e un’altra a

Senigallia.

Su tutto il territorio regionale fiorivano filande di diverse

dimensioni, alcune avevano un’organizzazione industriale, altre

erano a conduzione familiare.

Tutte subirono un grave declino dopo la II guerra mondiale per

diversi motivi:

- abbandono delle campagne e della gelsicoltura a seguito del

processo di urbanizzazione e industrializzazione;

- mancanza di manodopera femminile dovuta anche al fenomeno

migratorio;

- diffusione di fibre tessili sintetiche come il nylon che era meno

costoso e di più facile produzione.

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A Senigallia la filanda occupava il palazzo che tuttora si affaccia in

piazza Garibaldi, appena rinnovata.

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Questa antica fotografia mostra la filanda Ponzelli di Jesi con la

ciminiera fumante che con i suoi vapori inquinava il cielo

sovrastante la città.

In basso delle filandaie stanno tornando a casa dopo il lavoro. Nel

1907 le setaiole, per rivendicare migliori condizioni di lavoro,

organizzarono uno sciopero durato 45 giorni dopo essersi unite in

leghe- Esse furono sempre in prima linea per chiedere aumenti del

salario e una riduzione dell’orario di lavoro che nel 1911 era ancora

di 10 ore (prima era di 14 ore).

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Lungo la strada Arceviese

che collega Arcevia a

Senigallia, c’è la località di

Pongelli, in frazione di

Ostra Vetere. La località

prende il nome dal conte

Pongelli e l’edificio rosso

che si osserva ancora

oggi al semaforo era

un’antica filanda fondata

dal nobile nel 1835.

Questa filanda venne ammirata da molti perché funzionava con

modernissime 16 caldaie a vapore, quando ancora a Jesi solo 3

filande di Jesi delle 7 si avvalevano della stessa forza motrice,

mentre 3 andavano con dei rotori e una a forza d’uomo. Le caldaie

erano utilizzate da 25 maestre di Fossombrone, 25 donne di

Corinaldo e 8 di Montenovo. Il rendimento della filanda però fu

molto incostante nel corso della sua storia ed ebbe fine dopo la II

guerra mondiale. Le sue vicissitudini

sono raccontate nel diario intitolato

«Miscellanea veritas» manoscritto da

Francesco Procaccini, cinquantenne

signorotto di campagna che da Monte

San Vito si trasferì ad Ostra Vetere

per seguire gli affari di famiglia.

Anche lui faceva allevare i bachi da

seta e, stimando il conte Pongelli, ne

registrava anche la vita e gli affari,

diventando così una preziosa fonte

sulla bachicoltura e sericoltura della

zona dal 1815 al 1840.

Vicolo della filanda ad Ostra

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LA RICERCA D’ARCHIVIO

Noi alunni della classe VA ci siamo recati all’Archivio Storico

comunale di Arcevia per cercare dei documenti sulle antiche filande

di Arcevia. L’Archivio è una stanza contenente documenti antichi e

importanti.

Appena siamo entrati abbiamo visto degli enormi scaffali divisi in

anni e categorie. Ogni documento era chiuso in una cartella,

ognuna con un argomento diverso. Siamo stati divisi in due gruppi

per essere meglio seguiti durante l’attività di laboratorio. I due

gruppi, su indicazioni della maestra che precedentemente aveva

effettuato una visita all’archivio per selezionare il materiale,

dovevano cercare e leggere attentamente dei documenti su alcune

antiche filande esistenti in Arcevia nei secoli scorsi. Noi eravamo

molto curiosi e durante questa attività ci siamo stupiti di aver

trovato tante fonti storiche sull’argomento.

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Noi alunni abbiamo potuto portare alla luce richieste di affitto di

gelsi di proprietà del comune, manifesti del mercato dei bozzoli,

richieste dei filandieri, ecc…

Successivamente abbiamo analizzato e inserito i documenti in

una tabella registrando l’anno e l'argomento. Più tardi, dopo aver

terminato il lavoro, siamo tornati a scuola dove abbiamo

continuato l’attività nelle lezioni successive scrivendo brevi

didascalie sulle fonti trovate che avevamo fotografato e

fotocopiato.

È stata un’esperienza fantastica perché abbiamo approfondito

meglio l’argomento delle filande del nostro paese.

Nelle pagine successive troverete il lavoro che abbiamo svolto.

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Quando siamo andati all’Archivio di Arcevia abbiamo trovato

diversi documenti nel Fondo Severini che riguardano la

gelsicoltura e la bachicoltura

Il Fondo Severini è una raccolta privata di documenti appartenenti

alla famiglia Severini, una famiglia proprietaria terriera della

frazione di Santo Stefano, che aveva molte terre date in affitto a

vari coloni.

Tra questi documenti si trovano i Registri contabili del fattore,

l’uomo che gestiva gli affari del signor Severini.

Nel primo foglio del registro ci sono scritte le spese per dei bozzoli

che erano costati 83,50 lire, nel secondo foglio quelle per 95 Kg di

foglie di gelso che erano costate 0,12 lire al Kg. I bozzoli erano

stati acquistati da Mancini. Inoltre vengono registrate anche le

spese per l’acquisto di n.7 mori-gelsi.

Ci ha interessato molto il costo delle foglie di gelso per i bachi

sulla quinta riga del terzo foglio, dove c’è scritto che il 26 maggio

1938 il colono Gentilini aveva venduto 158 Kg di foglie di gelso a

23 lire al quintale. Abbiamo capito che esisteva un vero e proprio

commercio della «foglia» di gelso, necessaria a far crescere i

bachi.

Gambarini Giuseppe-1721-Pinacoteca di Bologna

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Molti documenti riguardano l’affitto di gelsi che erano situati su

terreni di proprietà comunale. L’amministrazione prima effettuava

una perizia del numero delle piante disponibili nelle varie frazioni,

poi emanava un bando pubblico in cui invitava i contadini

interessati a proporsi per trattative private.

Un documento che risale al 20 febbraio 1894, firmato dal sindaco

di Arcevia, è una perizia tecnica da cui possiamo ricavare

informazioni su quanti lotti di terra e gelsi di proprietà comunale

erano disponibili nelle frazioni:

• A Piticchio 2 lotti di terra e 6 gelsi;

• Ad Arcevia 1 lotto di terra e 73 gelsi;

• A Loretello 3 lotti di terra e 10 gelsi;

• A Montale 4 lotti di terra e 9 gelsi;

• A Palazzo 9 lotti di terra e 10 gelsi;

• A Castiglioni 6 lotti di terra e 5 gelsi.

L’elenco delle piante disponibili ha anche la somma per le spese e

la somma con cui si apre l’incanto, cioè l’asta pubblica.

Questa perizia è seguita, sei giorni dopo, da un avviso alla

cittadinanza per invitare i bachicoltori a recarsi al Comune per

contrattare l’affitto per la sfrondatura dei gelsi di proprietà

comunale.

Il 9 marzo 1894, dopo circa un mese, il signor Massi Pietro

propone l’affitto della sfrondatura dei gelsi presenti a Castiglioni

per il triennio 1894-95-96 al costo di lire 14 l’anno. Fa sottoscrivere

il documento ad un testimone: Malpini Diego.

Risale al 1898 una richiesta di riduzione della quarta parte della

quota d’affitto dei gelsi comunali della frazione di Loretello.

Francesco Politi di Nidastore, avendo avuto una diminuzione del

prodotto a causa «di un infortunio terribile», però, non otterrà una

risposta positiva.

In un altro documento risalente al 1950 scritto da Belardinelli Luigi

si chiede ancora al Comune la concessione delle foglie di gelso

delle piante di proprietà comunale della frazione di Loretello.

Nella risposta, prima scritta a mano e poi a macchina, si concede

l’autorizzazione al costo di lire 100 annue a condizione che non

vengano danneggiate le piante o tagliati i rami.

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MUNICIPIO DI ARCEVIA - AVVISO - Con la primavera dell’ anno

corrente essendo disponibili i gelsi di proprietà comunale siti nel

capoluogo e tutte le frazioni, questo Municipio è in caso di cederne il

diritto di annunciare sfrondatura a condizioni da convenirsi mediante

trattativa privata.

A tale uopo si rende noto che la perizia relativa trovarsi depositata

presso il segretario comunale presso il quale si presenteranno pure i

relativi progetti per essere sottoposti alla Giunta per la loro

accettazione.

Il tempo utile per tale edizione scade il 10 marzo P.V.

Arcevia 26 febbraio 1894- IL SINDACO

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ONOREVOLE SIGNOR SINDACO

Arcevia 9 marzo 1894

Il sottoscritto Massi Pietro dichiara di essere interessato ad assumere

l’acquisto della sfrondatura dei gelsi nella frazione di Castiglioni per il

triennio 1894-95-96 al pagamento di lire 14 annue come al relativo

capitolato. Presenta per l’adempimento dei patti per la sicurtà Diego

Nalpini che unitamente si sottoscrive. Pietro Massi Nalpini Diego

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Senigallia 19 luglio 1938. Preg. sign. Carlo Severini Arcevia.Scuserà

tanto dell’incomodo che le reco. Siccome il colono Conti Pietro dovrei

dargli disdetta per non poter più rafrontare i suoi vizzi ora mi sta

piantando delle grane «mi dice che la bigattiera dei bachi è tutta sua»,

dove invece lei ci diceva che era per metà, veramente prima diceva che

era per metà oggi alla stima dice che è sua. Lei rammenta bene che è a

metà come pure l’impianto d’acqua nella stalla insomma me ne ha fatte

vedere di tutti i colori. Ora da lei solo due righe e dire la verità come mi

aveva dichiarato. Anticipo ringraziamenti. Olivetti Giovanni

Questo documento risale al 19 Luglio 1938 ed è una richiesta di

testimonianza scritta dal signor Olivetti Giovanni e inviata al signor

Carlo Severini. Olivetti Giovanni si lamentava del suo colono

Conti Pietro perché «gli stava piantando delle grane», e voleva

sbarazzarsi di lui, ma al momento della stima della bigattiera Conti

Pietro si ostinava ad affermare che la bigattiera era tutta sua e

prima di andarsene voleva il denaro corrispondente all’intero

valore della bigattiera, mentre Olivetti era disposto a dargliene la

metà.

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Il 10 aprile 1935 il Podestà fa affiggere un manifesto in cui sollecita

l’attività della bachicoltura al fine di ottenere anche un ammasso di

bozzoli locale che permetterebbe agli allevatori di risparmiare sulle

spese di trasporto sostenute per raggiungere i mercati dei bozzoli

che non erano facili da raggiungere. Inoltre informa che il Governo

Nazionale aveva ripristinato il premio di lire 1 per ogni kg di bozzoli

prodotti.

Inoltre viene definito «delittuoso» il taglio dei gelsi.

Con un documento successivo, il Podestà, anche su richiesta

dell’Istituto Centrale di Statistica, chiede a tutti coloro che

allevavano i bachi di fare denuncia recandosi al municipio e

dichiarare nome e cognome, luogo dell’allevamento, numero di

once di seme allevato e il quantitativo di bozzoli ottenuto.Se il

l’allevatore aveva un contratto di mezzadria la denuncia sarebbe

spettata al proprietario.

Tutto questo doveva essere svolto entro il 10 luglio.

Il documento successivo rappresenta la risposta all’Ente nazionale

serico da parte del podestà.

Le informazioni sono interessanti: gli allevatori nel comune di

Arcevia erano 161, i bozzoli prodotti erano 8.891.900 kg e il

rendimento medio per ogni oncia di seme era di 73,86 kg.

A questo scopo, sempre nel 1935, il Podestà fece stilare anche un

registro, di cui abbiamo riportato solo due pagine, dove vi sono

scritti dei dati molto importanti sulla bachicoltura arceviese, cioè: il

nome e cognome e la residenza del proprietario del fondo, nome e

cognome e residenza dei 161 bachicoltori, once di seme

acquistato, kg di bozzoli prodotti. Gli allevatori si trovavano in tutte

le piccole frazioni del comune di Arcevia.

Non tutti i coloni allevavano la stessa quantità di bachi e coloro

che acquistavano le stesse once di seme potevano ricavare

quantità diverse di bozzoli, per esempio Salvioni Enrico e Lazzari

Giuseppe avevano comprato 8 once di semi, ma il primo ne aveva

ricavato 73 kg e 600 g di bozzoli, mentre il secondo solo 61 kg e

900 g.

Questo dipendeva molto probabilmente dal tipo di seme e

dall’alimentazione del baco.

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I documenti successivi testimoniano la presenza di molti mercati

dei bozzoli nei dintorni di Arcevia: a Jesi, Osimo, Fano, Macerata,

Pergola, Fossombrone e Senigallia. Sono dei manifesti che

venivano appesi per tutto il paese e risalgono tutti al 1914 ed

informavano che il mercato dei bozzoli si sarebbe svolto nei mesi

di giugno e luglio.

Un documento del 1883 conferma che anche ad Arcevia vi era un

mercato dei bozzoli.

Osservando i documenti ricaviamo l’informazione che il mercato

che era più conveniente per i bachicoltori era quello di Pergola

perchè offriva prezzi migliori.

Bollettino finale

risalente al 1883 che

documenta

l’esistenza di un

mercato dei bozzoli

anche in Arcevia.

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fonti documentarie

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Questo documento risale al 1935, cioè al periodo fascista. Il

sindaco di Arcevia chiede al Presidente del Consorzio provinciale

agrario di costituire un ammasso di bozzoli per favorire

l’allevamento di bachi perché i contadini, oltre a pagare il prezzo

iniziale del seme dei bozzoli, avrebbero dovuto pagare anche il

trasporto per la vendita dei bozzoli in ammassi lontani. L’obiettivo

era diminuire le spese dei bachicoltori.

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Questo documento risale al 22 marzo dell’anno 1950.

Il Prefetto decise di organizzare un raduno per le propaganda per

riprendere l’allevamento del baco da seta. Questo significa che la

bachicoltura era già un’attività che non era più così diffusa come lo

era precedentemente.

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LE FILANDE ARCEVIESI

In archivio abbiamo scoperto che in Arcevia esistevano numerose

filande che permettevano a tante donne di guadagnare qualche

soldo e contribuire al reddito familiare.

Le informazioni che abbiamo trovato non sono complete ma

dimostrano l’esistenza di una realtà industriale particolarmente

vivace.

Qualche volta abbiamo trovato solo accenni o piccoli riferimenti,

ma anche questi sono stati importanti. Ecco l’elenco delle filande:

.

• filanda Simoncelli

• filanda Fioravanti

• filanda Moscatelli

• filanda Romani

• filanda Vici-Giovannetti

Esse non furono tutte contemporanee e con la nostra piccola

ricerca non siamo riusciti a risalire all’anno di apertura e all’anno di

chiusura di ciascuna di esse, però abbiamo scoperto ugualmente

tante cose curiose e interessanti.

La filanda di cui ancora si ha maggiormente memoria storica è

quella di Giovannetti-Vici di cui siamo riusciti a trovare fonti orali,

scritte e iconografiche, grazie alle fotografie, ai documenti e a

diverse testimonianze.

Quest’ultime ci sono state fornite gentilmente da alcuni eredi della

famiglia Giovannetti, altre sono state ricavate da interviste che ci

hanno rilasciato a scuola la signora Paola Pittori e la signora

Tosca Camillucci, l’unica filandaia ancora capace di ricordare

lucidamente la sua esperienza lavorativa.

Molto interessante anche la testimonianza di Mario Mancinelli,

figlio di una filandaia, che grazie alle sue memorie ci ha permesso

di comprendere meglio la vita di chi tanto tempo fa lavorava alla

filanda.

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LA FILANDA VICI-GIOVANNETTI

VERA COSTETTI

Io sono Vera Costetti e mia madre era la figlia di Sesto Giovannetti

che fondò insieme al suo socio Vico Vici, che faceva parte di una

delle famiglie più in vista della zona, la società Vici - Giovannetti.

Insieme aprirono tre filande: una in Arcevia, una a Cupramontana

e una Serra San Quirico.

Mia mamma Dora si sposò con Sergio Costetti, anche lui

impiegato come direttore della filanda di Cupramontana.

Non ricordo bene l’anno preciso in cui fu fondata la filanda Vici -

Giovannetti, mi sembra intorno alla fine degli anni ’20. A quei tempi

c’era una forte richiesta di seta sul mercato perché ancora non

esistevano in commercio le fibre sintetiche, quindi prodotti eleganti

come tessuti per vestiti, calze da donna e camicie venivano

realizzati con questa fibra naturale.

La filanda era situata all’interno di un vecchio convento di suore di

clausura, dove oggi ci sono i locali delle scuole medie ed

elementari, ma i cambiamenti architettonici sono stati così grandi

nel corso del tempo che oggi non saprei più orientarmi. Nello

stesso edificio era situata anche l’abitazione dei miei nonni.

Ricordo che all’interno della filanda c’erano diversi locali. Quando

si entrava c’era una scrivania con una segretaria, era simile ad

una reception. In basso c’era il magazzino dove si allevavano i

bachi. C’erano dei grandi tavoli di legno dove i bachi crescevano

alimentandosi con le foglie di gelso. Mi ricordo il suono che

producevano tutti insieme mentre mangiavano avidamente le

foglie. I bachi non dovevano sfarfallare altrimenti avrebbero

spezzato il filo uscendo dal bozzolo, quindi i bozzoli venivano

raccolti e portati in un’altra stanza dove c’era l’essiccatoio. I

bozzoli prodotti dalla stessa filanda erano pochi, quindi venivano

acquistati anche dai contadini che li producevano nelle loro case

coloniche. Mi ricordo che mio papà si recava ad acquistare i

bozzoli anche in Veneto dove c’era “l’ammasso”, perché in quella

regione se ne producevano in enormi quantità.

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Prima di essere portati nell’essiccatoio si faceva la cernita dei

bozzoli, cioè alcune donne selezionavano i bozzoli migliori.

L’essiccazione consisteva nel mettere i bozzoli dentro dei forni.

Era un procedimento che durava 12 ore, attraverso un getto di aria

calda ad una temperatura di circa 80° e serviva ad uccidere le

crisalidi per impedire che sfarfallassero.

Per questo motivo, anche se i bachi si allevavano solo nel periodo

primaverile, il lavoro in filanda non era stagionale perché i bozzoli

c’erano tutto l’anno. I forni venivano alimentati da una caldaia a

carbone e la sua manutenzione era cura di un fuochista, l’uomo

che si occupava anche del suo funzionamento e di eventuali

riparazioni. A quei tempi il fuochista era Alfonso Giovagnoli. La

caldaia serviva anche a riscaldare l’acqua delle bacinelle che si

trovavano al piano superiore. Qui c’era un grande stanzone con

un impianto dove c’erano diverse bacinelle piene di acqua quasi

bollente dove venivano immersi i bozzoli.

L’acqua calda scioglieva la colla che il bacco aveva prodotto per

rendere compatto il bozzolo costituito da un unico filo. Di fronte ad

ogni bacinella c’era una filandaia che aveva il compito di trovare il

capo del filo. Era il lavoro più faticoso e ricordo che spesso

chiedevo a mio nonno come facessero le filandaie a sopportare il

dolore provocato dall’acqua che scottava. Mio nonno mi

rispondeva che la pelle delle donne alla fine si abituava e

diventava callosa. Del resto era un lavoro che si poteva fare solo

in quel modo, senza indossare dei guanti che avrebbero impedito

alle donne di avere la sensibilità necessaria per trovare il capo del

bozzolo. In questa stanza l’attività richiedeva precisione e

massima velocità, le donne non potevano permettersi distrazioni o

perdersi in chiacchiere. Era permesso loro solo intonare dei canti

che nelle giornate estive, quando le finestre venivano aperte, si

sentivano in varie parti del paese. Più fili venivano attorcigliati

insieme e avvolti nei rocchetti. Poi i rocchetti venivano passati ad

un altro reparto. Qui altre donne si occupavano di trasformare i fili

in matasse. Era un lavoro meno faticoso, le filandaie potevano

scambiare qualche parola, addirittura potevano fare una pausa per

la merenda. Inoltre erano meglio retribuite, quindi si può

immaginare un po’ di rivalità tra loro e le donne del primo reparto.

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Le matasse infine venivano imballate ed erano pronte per essere

vendute.

Nella filanda di Arcevia lavoravano circa trenta donne e una si

occupava della contabilità.

Mi ricordo che dentro la filanda c’era anche una stanza per

allattare. I proprietari inoltre, siccome durante il periodo fascista

non si lavorava di sabato, talvolta organizzavano delle gite per le

filandaie, per esempio al mare di Senigallia.

Le donne lavoravano tutte in regola e per quanto io ne sappia non

c’erano forme di sfruttamento, anche se il lavoro era duro. Con il

loro stipendio le donne contribuivano al reddito familiare pertanto

era un’opportunità che nessuna donna si sarebbe lasciata

scappare.

Durante la II Guerra mondiale la filanda non interruppe mai la sua

attività, ma fu anche protagonista di un evento spiacevole. I

tedeschi fucilarono, proprio sotto le mura della filanda dei

partigiani. Una delle filandaie, che dalla finestra aveva assistito alla

scena, gridò: -Assassini!- I tedeschi infuriati entrarono nella filanda

per punire chi aveva osato insultarli, ma nessuno fece la spia,

inoltre i miei genitori cercarono di dissuaderli offrendo loro vino e

caffè, così i tedeschi se ne andarono senza vendicarsi, ma fu un

momento di vero terrore. Prima della ritirata, i tedeschi cercarono

di distruggere le strutture interne della filanda, ma mio nonno riuscì

a rimetterla in piedi ricevendo anche un risarcimento dallo stato per

i danni subiti. La filanda venne chiusa intorno alla metà degli anni

’50, perché la richiesta di seta era fortemente diminuita con la

diffusione sul mercato delle fibre sintetiche che avevano un costo

di produzione nettamente inferiore. Mio nonno insieme a mio papà

però avevano un forte spirito imprenditoriale e decisero di aprire

negli stessi locali uno scatolificio. Questa attività non durò molto a

causa della posizione geografica di Arcevia che non era

particolarmente raggiungibile e di certo non facilitava le vendite.

Infine mio nonno si trasferì a Roma dove, insieme a dei soci,

ritornò all’edilizia in pieno boom economico. Purtroppo fu un

fallimento anche a causa della prematura morte che avvenne a

Roma nel 1961. Le sue spoglie vennero tumulate nel cimitero di

Arcevia, così come lui aveva desiderato.

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CARLO COSTETTI

Raccontare eventi che hanno avuto

luogo più di 70 anni non è facile. Io li ho

appresi dai racconti emozionati

e nostalgici di papà che a quell'epoca

era poco più che un bambino. Arcevia

durante la Guerra era un centro di

assoluta importanza......come spesso lo

è stato nella sua storia che si perde

nella notte dei tempi.

La sua posizione di passaggio verso

l'entroterra Fabriano e Roma ne faceva

un punto strategico importante anche

nelle cartine topografiche di Guerra.

Più volte la città di Arcevia fu in predicato di essere fatta brillare

per bloccare il passaggio o offrire esempio contro le azioni dei

partigiani

Le camionette delle SS erano spesso ospiti, non sempre

desiderate, delle strade della Città.

Capitava che alcuni soldati tedeschi venissero a bussare in filanda

o a casa per avere qualche cosa da mangiare.......

La fame spesso fa esprimere il peggio all' umanità soprattutto in

tempi di guerra.

Papà raccontava che, quando venivano a fare visita, per

ingraziarseli, veniva offerto loro pane un po' di salame e lardo di

cui erano ghiotti; questo calmava gli animi più violenti fornendo gli

apporti calorici che segnano in alcuni casi la differenza tra la

lucidità di pensiero e la cieca cattiveria fine a se stessa.

La prima società delle Filande venne costituita da Sesto

Giovannetti con Avv. Segoni. L'esperienza fece nascere presto

dissapori molti forti e si addivenne a soluzione finale con la

creazione di una nuova società costituita dal Giovannetti con Vico

Vici. Questa volta la comunanza di intenti e visione imprenditoriale

si cementò in un matrimonio di fiducia e rispetto reciproco

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che portò a grande successo di crescita economica negli anni a

venire.

Le Filande di Sesto Giovannetti erano due, la principale in Arcevia

(la più importante e longeva attiva dal 1923 al 1958) nel luogo in

cui ora è edificato lo stabile che ospita la scuola media e l'altra a

Cupramontana.

Del vecchio edificio in Arcevia è sopravvissuto soltanto il

campanile in mattoni rossi che ancora oggi richiama un passato

dalle differenti origini; lì infatti sorgeva un importante monastero di

Clarisse.

Papà spesso narrava della maledizione della vecchia Badessa. Il

Monastero era stato infatti ovviamente sconsacrato e consegnato

ad uso civile.

Lo stabile era stato sventrato per poter installare tutte le macchine

e le vasche utili per il ciclo di lavorazione dal bozzolo fino al

prodotto finale della seta.

Si diceva che lo spirito della vecchia Badessa, offeso da tale

situazione di oltraggio, vagasse senza avere pace nei locali della

Filanda. Certo questa era sicuramente una leggenda ma una cosa

effettivamente strana si verificava puntualmente. Allo scoccare

della mezzanotte, come in tutte le vicende di spiriti che si

rispettino, ecco che strani rumori di sfregamento di stoviglie si

sentivano provenire dai locali sotterranei che anticamente

ospitavano le cucine del convento.

Nonno Sergio Costetti, curioso e pragmatico per natura, aveva più

volte provato a capire cosa o chi provocasse quei rumori; più

volte decise improvvise incursioni per scoprire l'origine di tali

rumori. Purtroppo nel momento in cui scendeva le scale a

chiocciola che conducevano nel locale delle cucine ecco che

immediatamente calava l'assoluto silenzio. Bastava che

superasse l'ultimo gradino prima di poter avere la piena vista sul

locale ed ecco che degli sfregamenti di pentole non vi era più

alcuna traccia; appena risaliva le scale l'attività in “cucina”

riprendeva a farsi sentire.......

Dagli inizi del ‘900 fino agli anni ‘50 Arcevia visse, anche grazie

alle Filande e alla numerosa manodopera femminile occupata, un

periodo di relativa floridezza economica.

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Giovannetti Sesto a Milano per ritirare un premio per l’ottima qualità della seta.

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Sesto Giovannetti aveva dato all’ attività imprenditoriale un taglio

di visione socialista in linea con le visioni economiche introdotte

dal Fascismo.

Venne infatti sperimentata la presenza dell'asilo per l'assistenza

dei bambini delle filandaie impegnate durante i turni di lavoro.

L'attività nelle filande a quei tempi era particolarmente usurante.

Quasi tutta la manovalanza era costituita da donne.

Per molte ore al giorno stavano con le braccia immerse in vasche

con acqua fredda e calda per ripulire i bozzoli e permetterne

l'avvio nella lavorazione del filo di seta.

Ricordo di aver più volte conosciuto alcune delle vecchie filandaie

quando, negli anni ‘80 e ‘90, venivamo con la famiglia a

trascorrere qualche giorno di vacanza estiva in Arcevia.

Alcune di loro manifestavano ancora un affetto ed un gratitudine

nei confronti della mia famiglia al limite del commovente.

Più volte sottolineavano quanto Sesto Giovannetti e la famiglia

Costetti avessero fatto per il paese durante la Guerra.

Grazie alle cantine della filanda, dove erano stati stipate nel tempo

discrete riserve alimentari, vennero più volte aiutate le famiglie più

bisognose nei momenti più difficili del conflitto.

La filanda durante il periodo di Guerra aveva spesso assunto il

ruolo di punto di riferimento del paese e tale ruolo lo confermò

anche durante il periodo post-bellico affermandosi come volano

economico di grande importanza su territorio.

Tale situazione si protrasse fino a inizio anni ‘50 per poi avviarsi ad

un progressivo e rapido declino che nel giro di pochi anni portò alla

chiusura degli stabilimenti.

L'arrivo delle fibre sintetiche iniziò a ridurre la domanda di seta, i

bachi da seta vennero progressivamente comprati dall'Asia

spegnendo così anche la cultura del gelso.

Di quel periodo di grande spinta imprenditoriale rimane anche un

importantissimo premio di qualità raggiunto nella Fiera di Parigi del

1932 con la seta di Arcevia classificata come il miglior prodotto

presente sulla scena mondiale.

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LE NOSTRE INTERVISTE

Durante l’anno scolastico abbiamo invitato a scuola per

un’intervista la signora Tosca Camillucci e la signora Paola Pittori

che ci hanno fornito la loro testimonianza, anche se erano state

precedentemente intervistate da alcuni di noi privatamente. La

signora Tosca è un’ex filandaia, quindi ci ha fornito una

testimonianza diretta del lavoro in filanda, mentre la signora Paola

Pittori, essendo più giovane, è una testimone indiretta. Quando

era una bambina la mamma le raccontava come si lavorava nella

filanda, perchè lei lavorava lì come segretaria. Abbiamo scoperto

tante cose interessanti. Le filandaie venivano a chiedere in

anticipo lo stipendio perchè erano povere e avevano bisogno di

soldi e quando arrivava il giorno di paga non avevano più soldi da

prendere. Nelle filande lavoravano le boliltrici, le maestre, le

giuntine e le altre operaie che, per lavorare, dovevano stare in

piedi più o meno 10 ore.

Nell’edificio della filanda c’era una

ciminiera che buttava fuori il

vapore e dopo un po’ usciva un

suono forte e lungo che sembrava

una sistema d’allarme e

serviva per avvisare le filandaie

quando iniziava e terminava il

lavoro.

Infine la signora ci ha fatto vedere

un quadro che aveva dipinto la

sorella che rappresenta il

campanile e il tetto della chiesa di

S. Lucia dove era situata la

filanda. La signora Paola ci ha

mostrato anche delle foto del

campanile della chiesa dove era

la filanda. La maestra ha voluto

fare una foto insieme a Paola e

noi le dedichiamo questo disegno.

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PAOLA PITTORI

(DENNIS SERVADIO, SOFIA LEGIEN BRUNI,

ENDRITA AJDARI)

Sono Paola Pittori e sono nata il 2 agosto 1952 a Senigallia.

Posso raccontare della filanda perché ho dei ricordi di quando ero

bambina e mia madre Giannina Costetti mi narrava di quando ci

lavorava come impiegata temporanea. La famiglia di mia madre

era composta dalla mamma, casalinga, dal babbo che era il

direttore dell’Ufficio tecnico del comune di Arcevia, da due sorelle

e un fratello. Mia madre iniziò a lavorare alla filanda quando aveva

19-20 anni, dal 1945 al 1947. Era stata assunta perché parente

dei proprietari e con il diploma della scuola di Avviamento

professionale di Arcevia, sapeva fare le buste-paga. Smise di

lavorare in filanda perché cominciò a insegnare come maestra

elementare, però ho tanti ricordi di lei che raccontava come erano

le condizioni di lavoro delle filandaie, alcune delle quali erano sue

coetanee e amiche. Inoltre ho abitato nell’appartamento di un

palazzo che aveva una delle finestre che si affacciavano

sull’attuale Piazza Crocioni dove oggi c’è la scuola secondaria di

primo grado, ma dove a quei tempi sorgeva la filanda. Mi ricordo

che avevo circa 4-5 anni quando mi affacciavo dal davanzale

della finestra ,che mi arrivava all’altezza del naso e vedevo davanti

un edificio che era l’antica chiesa, riprodotta nell’acquarello che vi

ho portato.

.

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Ora di quest’edificio non è

rimasto che il campanile perché

la chiesa, che era molto più alta

della scuola successivamente

costruita al suo posto e tuttora

esistente, venne abbattuta. Sul

tetto piatto, accanto al

campanile della chiesa c’erano

delle enormi cisterne d’acqua,

acqua che era fondamentale nel

processo di trattura della seta. Le

cisterne venivano riempite con

l’acqua proveniente dalla falde

acquifere sotterranee, che una

volta rifornivano i pozzi dell’antico

convento, e veniva spinta fin

lassù con delle pompe elettriche

e poi attraverso dei tubi

scendeva nella filanda dove

serviva acqua in gran quantità.

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L’acqua di Arcevia era

particolarmente pura e priva

di calcare e quindi rendeva

la seta ancora più lucente.

Ad Arcevia l’acqua non è

mai mancata, tanto che

anche nel periodo

medievale, quando veniva

assediata, non fu mai

sconfitta grazie ai numerosi

pozzi esistenti e ai fiorenti

orti presenti all’interno delle

mura cittadine. Anche nei

cortili dell’attuale scuola

primaria c’erano dei pozzi

perché erano dei chiostri

dove le monache andavano

a passeggiare e pregare.

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L’edificio delle attuali scuole secondarie di primo grado faceva

parte del complesso conventuale e quindi anticamente vi era un

pozzo. Quando hanno demolito la chiesa, intorno agli anni ‘70,

hanno trovato un antico pozzo con tracce di carbone puro che nel

passato veniva utilizzato per purificare l’acqua. Vicino al campanile

si trovava anche un’altissima ciminiera da cui usciva il vapore

prodotto della filanda. L’uscita del vapore provocava un suono

lungo che segnalava l’inizio e la fine dei turni di lavoro. Le

ciminiere erano tipiche degli edifici industriali del tempo, una infatti

si trovava anche nella miniera di Cabernardi. Dalla finestra potevo

sentire il canto delle filandaie, che cantavano per incoraggiarsi a

continuare il loro lavoro. Il loro canto era talmente forte che si

udiva anche a chilometri di distanza, fino alle Conce. Le filandaie

intonavano canzoni dell’epoca, come “Dove vai, bellezza in

bicicletta” oppure stornelli o canzoni popolari. Ho addirittura

ritrovato un articolo del giornale locale “Il Massaccio” che riporta

uno di questi stornelli inventati negli anni Venti dalle filandaie

dell’opificio di Cupramontana. Ogni mattina, in estate, arrivavano i

contadini con i loro birocci trainati dai buoi. Questi carri erano pieni

di cesti colmi di bozzoli di bachi da seta allevati nelle case

coloniche. Ancora oggi si può vedere lungo la strada che unisce

Pongelli a Jesi una vecchia casa colonica con la caratteristica

bigattiera (in dialetto i bachi venivano anche chiamati bigatti). La

bigattiera era un locale adibito all’allevamento dei bachi e doveva

essere un ambiente particolarmente caldo. Mi ricordo di averne

viste parecchie perché spesso accompagnavo mio padre, nelle

case dei contadini. Non tutte le case coloniche possedevano una

bigattiera, così i contadini allevavano i bachi nelle loro camere da

letto sopra le stalle delle vacche, che con il loro respiro

riscaldavano l’ambiente. Le stalle e le camere da letto erano

collegate da un buco nel pavimento, ottenuto togliendo un

mattone, che aveva il compito di far salire il calore e allo stesso

tempo di permettere al contadino di controllare le bestie e a volte

era proprio una botola con una scala appoggiata.. Nelle camere

non era raro trovare un unico letto in cui dormivano tutti i

componenti della famiglia per riscaldarsi e vicino al letto si

stendeva una stuoia con i bachi e il loro cibo.

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I bachi, mangiando le foglie di gelso, producevano un gran rumore

dovuto allo scricchiolio delle foglie non più fresche, ma i contadini

erano disposti a sopportare questo fastidio perché si guadagnava

qualcosa in più.

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Il contadino doveva capire quando il bozzolo era pronto per

essere portato in filanda prima che il baco si trasformasse in

farfalla.

Appena i bozzoli arrivavano in filanda la bollitora aveva il compito

di immergerli nell’acqua bollente per sciogliere la colla che teneva

unito il filo del bozzolo e uccidere la crisalide.

Le mani delle bollitrici diventavano rosse e gonfie a forza di stare

immerse nell’acqua a temperature elevate per circa 14-15 ore al

giorno.

L’orario di lavoro infatti era più lungo delle 8 ore previste oggi,

soprattutto nei periodi dell’anno in cui i bozzoli venivano raccolti

ovvero a luglio o ad agosto.

Una volta sciolta la colla, la giratora doveva trovare il capo del

bozzolo usando una specie di pettine.

La persona più qualificata era la filatora o maestra che aveva il

compito di prendere i capi del filo dai bozzoli e di farlo arrotolare

intorno all’arcolaio per ottenere una matassa.

La maestra doveva stare particolarmente attenta a non spezzare il

filo altrimenti la matassa avrebbe perso valore e lei avrebbe

dovuto pagare delle penali, che potevano consistere in riduzioni

dello stipendio o altro che non ricordo.

Aveva il compito delicatissimo di filare il filo nella sua interezza

perché, più il filo era lungo, più era prezioso. Se nella matassa

erano presenti nodi, la filatora veniva ritenuta responsabile.

Lo stipendio quindi variava in base alla mansione svolta, ma

anche in base alla bravura delle operaie.

Solitamente le filandaie venivano pagate una volta al mese, ma

mia madre mi raccontava che spesso le donne erano in condizioni

così disperate che chiedevano degli anticipi che raramente

venivano loro rifiutati, però quando arrivava il giorno di paga non

rimaneva quasi più niente da riscuotere.

Inoltre, a causa del calore e dell’umidità, le filandaie si

ammalavano facilmente.

La seta prodotta in Arcevia era considerata molto buona e veniva

venduta al setificio di Jesi dove veniva ulteriormente lavorata, tinta

e tessuta.

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Durante la II Guerra Mondiale la filanda non smise mai di produrre

perché la seta era utilizzata per realizzare i paracaduti per

l’esercito. Uno dei prodotti principali per cui era necessaria la seta

erano anche le eleganti e trasparenti calze per donna,

caratterizzate da una riga dietro che costituiva la cucitura perché

ancora non erano state inventate le macchine che tessevano a

cilindro.

Mia madre raccontava che quando sul mercato iniziarono a

trovarsi le calze di nylon, lei e le altre ragazze con una matita si

disegnavano la riga dietro la gamba per far credere a chi le

guardava che fossero le preziose calze di seta.

Molto sentita era la festa di Santa Barbara, il 4 dicembre e si

festeggiava spesso a Cabernardi con i minatori.

La filanda chiuse intorno al 1957 a causa dell’invenzione delle

fibre tessili artificiali, come il nylon, che erano meno costose.

A causa dell’abbandono delle campagne, i contadini smisero di

coltivare i gelsi di cui oggi sono rimasti parecchi esemplari che

fanno ancora parte del nostro paesaggio, attratti dal lavoro in

fabbrica in un’Italia che si stava industrializzando e

modernizzando.

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Paola Pittori ci ha portato anche un libro pubblicato da Padre

Giuseppe Gianfranceschi intitolato «Arcevia-Cenni storici sopra i

suoi monumenti sacri e cenni biografici sopra i suoi cittadini più

illustri» in cui vengono date preziose informazioni su alcuni

personaggi illustri arceviesi. Tra questi ci ha letto le pagine che

facevano riferimento a Marco Ottaviani e Olimpio Vici.

Marco Ottaviani, nato ad Arcevia il 5 giugno 1821 e morto il 9

febbraio 1893, viene ricordato «in grazie del primo opificio serico

che impiantò in Arcevia, e che se a lui fu proficuo, dette floridezza

alla città, a molte famiglie pane e lavoro, ad altre ricchezza.

L’impresa era nuova ed ardita a quei tempi, e avrebbe dato

pensiero a chiunque, non a lui perché aveva lo sguardo troppo

sicuro, per prevedere, misurare le contingenze.»

Olimpio Vici (1858-1933), pur avendo umili origini, grazie alla sua

intelligenza, riuscì a diventare una persona importante e rispettata

tanto da ricoprire importanti incarichi anche nella pubblica

amministrazione, ma soprattutto «fu benefico e dette lavoro a

Fano, a Pesaro e ad Arcevia con le filande seriche create e gestite

nei tre paesi…»

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Paola Pittori ci ha portato questo canto che era stato pubblicato

anni fa in un giornale di Cupramontana.

Uno stornello cantato dalle filandaie arceviesi invece ci è stato

tramandato da un altro testimone abitante in Arcevia.

STORNELLO DELLE FILANDAIE

Lavoro alla filanda

prendo tre franchi al giorno

alla sera quando torno

non c’ho manco da mangià

lo dico a mio marito

che lui pensasse un poco

ma pensa solo al gioco

dii lavorare no.

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TOSCA CAMILLUCCI (LUIS DA SILVA)

Mi chiamo Tosca Camillucci, sono

nata il 26/01/1924 a Barbara (An)

e abito in Arcevia. Ricordo bene la

filanda che c’era in paese perché

ci lavorai per diversi anni. Allora

abitavo in vicolo Uccellini in quello

che ancora oggi comunemente

viene chiamato “Montirozzo”. La

mia famiglia era composta da

cinque persone: mio padre che

faceva l’operaio, mia madre che

era casalinga e i miei due fratelli

più piccoli, Augusto e Primo.

Quando iniziai a lavorare alla

filanda avevo 14 anni e smisi solo

nel 1955, quando la fabbrica

chiuse.

Feci domanda di assunzione e mi presero; non avevo parenti che

già ci lavoravano né conoscenze particolari.

La filanda di Arcevia era un’azienda dove si estraeva il filo di seta

dai bozzoli e si trovava dove ora sorge la scuola elementare.

Non ricordo da quanto tempo fosse già aperta e perché scelsero

proprio Arcevia come sede per questa struttura, ricordo però che i

bozzoli venivano portati da vari allevatori della zona.

Ricordo anche che eravamo circa una trentina di dipendenti,

soprattutto donne e ragazze.

Gli unici uomini che lavoravano con noi erano il macchinista e gli

impiegati della contabilità negli uffici.

In base al lavoro che svolgevamo, eravamo chiamate in diverso

modo.

Le maestre avevano la funzione più importante perché facevano le

matasse ed avevano uno stipendio più alto del nostro.

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Talvolta nelle mani venivano degli eritemi ma la nostra salute non

veniva mai messa a rischio. La giornata lavorativa durava circa 8

ore, durante la quali era prevista la pausa per la colazione e per il

pranzo. Spesso cantavamo per farci compagnia. Se qualcuna di

noi rimaneva incinta c’era un’aspettativa di circa un mese e dei

permessi per poter allattare i nostri figli che spesso ci venivano

portati direttamente in azienda. I padroni della filanda si

chiamavano Giovannetti e Vici. Non davano dei premi né facevano

regali ma, il giorno di S. Lucia organizzavano sempre una festa

per noi. Chi lavorava alla filanda si riteneva molto fortunato

soprattutto perché, in periodo di guerra, avere un impiego era già

un lusso. La seta da noi prodotta era considerata molto buona

anche se non so chi poi l’acquistasse o l’utilizzo che poi ne

facessero. Noi operaie non potevamo comprare la seta. Durante la

II guerra mondiale la filanda non venne chiusa e lavorammo anche

per i tedeschi. Ci fu anche un episodio grave in cui rischiammo la

vita perché una filandaia aveva gridato «Assassini!» ai tedeschi

che avevano ucciso alcuni partigiani sotto le mura vicino alla porta

di Santa Lucia. La chiusura dell’azienda fu una brutta cosa per noi

perché ci offriva una possibilità di lavoro e delle risorse che

altrimenti non avremmo potuto avere.

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MARIO MANCINELLI

(NICOLA PIETRINI, ALICE GIULIA MARIOTTI)

Mi chiamo Mario Mancinelli,

sono nato il 26 agosto

1927 ad Arcevia e abito in

Via Ramazzani. Ricordo

che in Arcevia c’era una

filanda perché ci

lavoravano mia madre

Maria Ilma e mia sorella

Alba. Mia madre era nata

nel 1884 mentre mia

sorella era nata nel

1910. Loro abitavano in

via Battistelli.

La mia famiglia era composta da babbo, mamma e dai miei fratelli

e sorelle Righetta, Milena, Alba, Aldo, Alda. Mio padre era un

calzolaio e mia madre era una filandaia. Quando mia madre iniziò

a lavorare nella filanda aveva 7 anni e smise nel 1945, mentre mia

sorella iniziò a lavorare a 14 anni e smise nel 1950 perché la

filanda chiuse. Mia madre era stata assunta perché aveva bisogno

di lavoro, invece mia sorella era stata assunta perché già ci

lavorava mia mamma.

La filanda fu aperta nel 1800 perché i contadini allevavano i bachi

da seta. In filanda lavoravano alcuni uomini che svolgevano le

attività di meccanica, manutenzione e fuochista, e le donne,

ragazze e bambine. La mattina suonavano 3 campane a distanza

di 5 minuti per avvisare le filandaie che sarebbe iniziato il loro

orario di lavoro, dopo l’ultimo richiamo non si poteva più entrare e

le filandaie arrivate in ritardo avrebbero perso la giornata di lavoro.

L’azienda aveva circa 100 dipendenti di cui 3 uomini. In base al

lavoro che svolgevano le donne venivano chiamate in maniera

diversa: le maestre svolgevano la seta dal bozzolo, aiutate dalle

sottiere; la giratora era il capo dello stabilimento che vigilava

sull’andamento del lavoro e sull’osservanza delle regole.

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Le donne venivano trattate male. Il lavoro iniziava alle 3 della

mattina, non potevano parlare tra di loro e se non rispettavano le

regole venivano multate e la stagione successiva rischiavano di

non essere richiamate. Se la matassa non aveva il giusto peso

venivano sgridate e riprese perché avevano rovinato la matassa.

Le donne si ammalavano di bronchite, asma e artriti perché

stavano troppo a contatto con il calore e l’acqua. Le donne

potevano cantare ma non parlare tra di loro. Alle 11.30 le donne

incinte potevano mangiare alla Maternità Infanzia (dove ora c’è la

Farmacia Pagliarini), mentre le altre tornavano a casa. Alle 13.30

dovevano tornare tutte al lavoro e chi non finiva di mangiare a

casa finiva di mangiare lungo la strada. Le donne ricevevano la

busta paga 1 volta al mese e guadagnavano 2,10 lire, era una

paga scarsissima che bastava a malapena per il pane e il salario

variava a seconda della mansione. Una donna incinta lavorava

fino a pochi giorni prima del parto e durante l’allattamento

potevano andare a mangiare all’Opera dell’Infanzia fino ai 3 anni

del bambino. I padroni della filanda di Arcevia sono stati Vico Vici e

Sesto Giovannetti. Ogni anno il proprietario della filanda faceva un

regalo alle filandaie che consisteva nel fare una gita nei dintorni.

Negli ultimi anni un professore della Scuola di Arti e Mestieri si era

accorto che il capofabbrica suonava la sirena del pranzo in ritardo

e anticipava la sirena del rientro per farle lavorare di più.

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In questa foto e nella successiva alcune filandaie danno da

mangiare ai loro bimbi presso l’Opera Nazionale Maternità e

Infanzia di Arcevia che passava il pranzo gratuito solo ai figli.

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Le filandare si ritenevano fortunate perché avevano un lavoro e le

donne che non lavoravano alla filanda consideravano le filandare

sfortunate perché era un lavoro molto duro e faticoso. Gli uomini

erano contenti del contributo delle loro mogli, anche se lo stipendio

era poco. La seta della filanda era pregiata per via della purezza

dell’acqua e veniva venduta nei mercati delle città e agli impianti di

tessitura per fare vestiti, ma anche paracaduti per uso militare. Le

operaie non potevano permettersi la seta perché era troppo cara.

La filanda chiuse nel 1950 perché in campagna non si piantavano

più i gelsi, perciò le donne disoccupate emigrarono in Belgio,

Svizzera e a Roma. Durante la seconda guerra mondiale,

nell’estate del 1944, i tedeschi fucilarono dei civili sotto le mura di

San Rocco. La madre di Sciutti, vedendo la scena dalle finestre

della filanda, gridò loro che erano degli assassini. I tedeschi,

inferociti, minacciarono di distruggere la filanda; entrarono

all’interno dell’edificio perché volevano sapere chi era stato a

gridare, però furono fermati dal loro comandante perché la seta

veniva esportata in Germania per farne paracaduti. I soldati

ubbidirono ma, prima di scappare, distrussero i macchinari che

furono poi ricostruiti da me e da Ottone Canavesi.

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Le filandaie fotografate durante una delle gite domenicali

organizzate ed offerte dai proprietari della filanda.

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Ancora le filandaie durate un’uscita organizzata dalla filanda, l’uomo

sulla destra è il proprietario Sesto Giovannetti.

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MARIA MONTALBINI (IVAN LAMETTI)

Io sono Montalbini Maria, abito a

Piticchio di Arcevia e sono nata il

9/12/1935 in Arcevia. La mia

famiglia era composta dai miei

genitori, 4 fratelli e 4 sorelle. Mio

padre era un mezzadro e mia

madre faceva i lavori in casa.

Anche a casa mia si allevavano i

bachi e le uova le prendevamo

nei consorzi, poi li allevavamo in

una stanza che doveva essere

ben pulita e veniva disinfettata

con la calce. La stanza doveva

essere abbastanza calda e non

potevamo entrarci spesso perché

i bachi erano molto delicati.

Questi venivano appoggiati sopra

agli storini, che erano dei telai di

1mt x 2mt circa, appoggiati su

dei cavalletti.

Sopra la rete dei telai veniva posta la carta paglia poi si mettevano

i bachi che venivano ricoperti con le foglie dei gelsi. I bachi

mangiavano continuamente le foglie che venivano portate sempre

fresche e non dovevano essere bagnate.

Questi crescevano molto velocemente, una fase veniva chiamata

la «magnarella» perché mangiavano tanto e velocemente fino a

raggiungere dimensioni di 4/5 cm, poi smettevano di mangiare e

iniziavano ad allontanarsi l’uno dall’altro verso i bordi esterni dei

telai dove erano stati posti dei rami sui quali si arrampicavano e si

fermavano.

A quel punto dalla bocca del baco usciva un filo molto lungo con il

quale l’animale si avvolgeva tutto attorno fino a rinchiudersi

completamente. Il bozzolo era di colore giallo e il filo era lungo

1000 mt. In quel momento mio padre li raccoglieva e li metteva dentro dei sacchi per portarli alla filanda.

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In Arcevia c’erano diverse filande ma la più grande era situata

dove ora c’è la scuola media, l’altra era dove si trova il vecchio

consorzio sopra Bramucci e un’altra in via Ramazzani.

Le Marche erano una delle principali regioni produttrici di seta.

La filanda più grande fu aperta nel 1800 ed era di proprietà di

Alfonso Giovagnoli che era anche il foghista, qui ci lavoravano 100

donne e 2 o 3 uomini che si occupavano della manutenzione e

facevano anche i foghisti.

La filanda aveva vari reparti: appena arrivati con i bachi andavamo

al reparto «scottolatura», dove c’erano delle tavole su cui si

adagiavano i bachi e venivano scottati con il vapore bollente.

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Al 2° piano c’erano le filandaie che lavoravano, erano sedute una

davanti all’altra, la prima era la maestra che aveva davanti a sé

una caldaia con dentro massimo 8 bozzoli alla volta, questa

prendeva dentro l’acqua bollente il capo del filo di seta del bozzolo

e aiutata dalla sottiera che aveva di fronte lo appendeva sugli aspi,

posti in alto che giravano e avvolgevano il filo in una matassa. La

sottiera era anche quella che collegava i fili tra di loro tra un

bozzolo e l’altro.

La maestra aveva le dita delle mani scottate. Le crisalidi private

del filo venivano essiccate, sfarinate e vendute come mangime per

animali. Le matasse di seta venivano trasportate in un altro reparto

dove si facevano le trecce che venivano vendute per fare tessuti. Il

maggior acquirente era Carotti di Jesi.

Alle donne non era permesso parlare tra di loro ed erano

controllate dalla giratora. Se le filandaie venivano trovate a parlare

dovevano pagare una multa di 1 o 2 lire che venivano sottratte alla

paga. In genere le donne venivano trattate molto male e spesso si

ammalavano di asma e artrosi perché stavano in un ambiente

umido.

Le sirene scandivano la giornata lavorativa, suonavano circa alle

6.30 del mattino fino alle 11.30 poi dalle 13.30 fino alle 18.30. A

volte dovevano iniziare il lavoro alle 3 di notte.

Le donne potevano cantare in coro, tra le tante canzoni ricordo

«Rosamunda». Alle operaie non venivano pagati i contributi e gli

straordinari. Venivano pagate 2 volte al mese e prendevano 7

centesimi al giorno, la paga era molto scarsa.

Ognuna veniva pagata in maniera diversa in base al ruolo che

svolgeva. Quando erano incinte lavoravano fino al momento del

parto e appena possibile riprendevano il lavoro. Per allattare i

piccoli prendevano un permesso di un’ora.

A volte i padroni portavano le dipendenti a fare delle gite, ricordo

che una volta sono andate alla Madonna del Cerro a piedi e

un’altra volta al Furlo con l’autobus.

Le filandaie non potevano prendere la seta ma solo gli scarti. La

filanda fu danneggiata dai tedeschi alla fine della II guerra

mondiale, poi fu ripristinata per alcuni anni e chiuse

definitivamente nel 1951.

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DENISE AVENALI

Sono Avenali Denise e sono nata in Francia il 17 agosto 1927

perché mio padre era responsabile di un’acciaieria francese.

Quando nel 1939 scoppiò la guerra, tornammo in Italia che rispetto

alla Francia era arretrata e povera. Quando sono stata assunta

alla filanda Vici - Giovannetti avevo appena 15 anni ed ero una

delle filatrici più giovani. Vi lavorai per qualche anno. Ad

insegnarmi ad usare la filatrice fu la madre di Ciocci. Io stavo

seduta davanti ad una bacinella di acqua bollente insieme ad

un’altra operaia. Facevo la maestra ed ero molto abile ad unire più

fili dei bozzoli per farne uno unico. Potevamo fare anche 8

matasse contemporaneamente. La filanda era aperta solo alcuni

mesi l’anno, quando c’erano i bozzoli. Quando la filanda era

chiusa andavo dalla sarta per imparare a cucire perché mia madre

in Francia era una sarta molto brava che cuciva abiti per ricche

signore. Alcune filandaie arrivavano a piedi da San Martino. C’era

una maestra che si chiamava Serafina che cantava tutto il giorno.

Il suo canto era perfetto ed aiutava a lavorare, lei aveva

l’autorizzazione per cantare. La sua voce era la più alta di tutte ed

era un incanto.

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Si cominciava a lavorare in filanda alle 8.00 del mattino e poi si

faceva la pausa pranzo. Qualche donna mangiava anche in

filanda. Quando mi sposai cambiai lavoro.

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SIMONETTA MINELLI (DILETTA MARCHEGIANI)

Io sono Simonetta Minelli,

sono nata in Arcevia il

25/10/1955 ed abito a Roma.

Dai racconti delle mie nonne

Ida e Clelia ricordo che in

filanda lavorava una zia di mio

fratello.

Si chiamava Norma Felicetti e

faceva la giratora.

Lei abitava in via Brunamonti,

la sua famiglia era composta

da suo marito Pietro e due figli

maschi: Italo e Gino.

Quando iniziò a lavorare aveva

19 anni e quando la filanda

chiuse, Norma aprí un forno

sempre in via Brunamonti.

La prima filanda aprì in Arcevia

nel 1878, ma nel 1886 le

filande erano diventate tre: una

delle filande si trovava in via

Brunamonti, un’altra era situata

in Via Porta Romana, detta filanda Fioravanti, e l’ultima filanda,

che era di Francesco Romani, si trovava presso il vicolo Sant’

Agata.

Nel 1926 i signori Vici e Giovannetti iniziarono la produzione della

seta, in alcuni locali dell’ex convento di Santa Lucia.

Questo stabilimento nel tempo si è molto ingrandito di dimensioni

e rimase l’ unica filanda attiva di Arcevia.

Nel 1946, con la meccanizzazione e il supporto di nuovi

macchinari, si amplió ancora di piú e restó attiva fino al 1954.

Le operaie venivano pagate a seconda della loro bravura.

La giratora veniva pagata di piú perchè svolgeva un lavoro piú impegnativo.

Norma Felicetti

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Questa fattura risalente al 1927 documenta alcune spese di

cancelleria: acquisto di 1000 buste paga, di 1000 cartellini per la

spedizione, di n. 2 piastrine di gomma per il timbro della filanda, di

1 scatola di penne assortite. Le fatture successive risalgono al

1932 e documentano la vendita delle crisalidi che alla filanda non

servivano ma diventavano una fonte di guadagno. Nella prima

fattura si registra la la vendita di 349 Kg di crisalidi a £. 60/Kg al

signor Agonioni Agostino di Senigallia, la seconda la vendita di 529

Kg di crisalidi a £ 70/Kg al signor Caciari Ettore di Faenza. Dalla

quantità di crisalidi vendute si può intuire l’enorme quantità di

bozzoli lavorata.

(Per gentile

concessione di

Marcello Francolini,

nipote della Signora

Teti, moglie di Vico

Vici)

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Docuemnti cristina

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LA FILANDA ROMANI

Sono stati trovati molti documenti inerenti la filanda di Francesco

Romani risalenti all’anno 1918, anche se nel 1913 era già attiva.

Ancora in piena I Guerra Mondiale, il filandiere viene chiamato alle

armi e, disperato per non poter più seguire i suoi affari lasciando

sul lastrico circa una quarantina di operaie, e quindi una

quarantina di famiglie, sollecita il sindaco ad aiutarlo a chiedere

l’esonero dal servizio militare per la seconda volta.

A Romani però, il 6 febbraio 1918, viene risposto dalla

Commissione Esoneri che aveva già usufruito di un primo esonero

e che quindi non gli verrà concessa un’altra possibilità.

Il Sindaco, spaventato per le violente reazioni delle filandaie,

invierà diverse richieste, il 15 febbraio all’influente signor Olimpio

Vici, originario di Arcevia ma trasferito a Roma, e il 18 febbraio al

Ministro dell’Agricoltura Miliani per impedire la chiusura della

filanda.

L’ultimo documento dimostra che tali richieste erano risultate

inutili. Un telespresso inviatogli dal Sindaco chiede a Romani,

arruolato nella sezione di Fano, di rispondere alla proposta di

affitto della filanda fatta da Minelli Arnaldo, in attesa della fine della

guerra, ma Romani risponderà che per una questione così

importante è necessaria la sua presenza. Non sappiamo il finale

della storia.

Tra le righe di queste lettere traspare l’immagine di un paese che

vive il periodo bellico in precarie condizioni economiche, dove le

donne intendono difendere il proprio lavoro con le unghie e con i

denti per affrontare dignitosamente la guerra, la miseria e la fame.

Un altro documento trovato in archivio, risalente a dopo la I Guerra

mondiale, era una richiesta al Sindaco da parte di Romani per

ottenere l’acqua necessaria per la trattura della seta.

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Li 9 febbraio 1918 - Risposta a nota N. 8297 del 6 corrente-

Oggetto: Filandiere Romani Antonio - esonero dal servizio militare-

A I. E. il Ministro Miliani Roma - Nell’esprimere i sentimenti di sua

riconoscenza di questa amministrazione comunale per l’assiduo e

benevolo interessamento dell’E.V.(eminenza vostra) sempre

spiegato per tutto quanto possa ridonare a beneficio del comune e

dei miei amministrati, mi permetto ancora una volta fare presente

che la filanda Romani il cui direttore-proprietario Antonio Romani si

è già presentato alle armi, è attualmente chiusa, tanto che ieri si

recarono nella residenza municipale tutte le operaie dell’opificio,

per protestare e chiedere urgenti provvedimenti sulla loro

disoccupazione e conseguente mancanza di mezzi per vivere. Nel

confermare l’esistenza di tutti i motivi precedentemente esposti

che mi hanno indotto ad insistere tanto sulla richiesta dell’invocato

esonero conto fermamente sul suo validissimo appoggio anche

per scongiurare spiacevoli incidenti che potrebbero aver luogo

qualora le operaie predette non venissero sistemate. E nell’ attesa

di un cortese come fortunato riscontro le esterno sensi della mia

devozione e riconoscimento. Il Sindaco

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Telespresso Li 18-2-1918 - A I. E. il Ministro di Aricoltura

Comm.Miliani

Roma - Operaie filanda Romani Antonio, di cui precedente di

corrispondenza, mi fanno insistenti minacciose pressioni per definizione

pratica esonero come al ricorso del Romani stesso; qui la stagione è

pessima con abbondanti nevicate, per cui disagio disoccupazione si fa

maggiormente sentire. Faccio nuovamente appello interessamento

Vostra Eccellenza, pregandola scusarmi, forzata mia discrezione.

Attendendo cortese assicurazione ringrazio e riverisco. Il Sindaco

Questo documento risale all’anno 1918, scritto dal sindaco di

Arcevia ed è una richiesta perchè il ministro esoneri Romani,

perchè le operaie sono disperate per il motivo che la stagione è

pessima e ci sono grosse nevicate, per cui il disagio di

disoccupazione è sempre più grande.

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Telegramma - Li 18-6-1928 Destinatario Romani Antonio - Pregasi

rispondere Minelli Arnaldo, proposta fattavi affitto vostra filanda corrente

anno messa opera ventiquattro bacinelle, aumento mercede lire

duecentocinquanta operaie rappresenta benessere operaie paesane

con beneficio produttori. Sindaco Speranzini

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(Per gentile concessione di Marcello Francolini, nipote della Signora

Teti, moglie di Vico Vici)

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LA FILANDA SIMONCELLI

Questi elenchi del 1891 e del 1892 testimoniano la presenza in

Arcevia, in Via Brunamonti, della filanda Simoncelli in cui

lavoravano circa 40 persone.

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In questo documento, purtroppo poco leggibile, che è un elenco delle

persone che dovevano pagare una tassa, compaiono i nomi dei fratelli

Moscatelli Pietro e Antonio con accanto l’attività che svolgevano, cioè

filandieri (quinta riga a partire dal basso). Un testimone ha riferito che

forse la loro filanda si trovava accanto al consorzio, situato appena fuori

dalla Porta del forno, dove da bambino si recava per saltare sopra i

mucchi di grano portati a vendere dai contadini.

LA FILANDA MOSCATELLI

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FILANDA FIORAVANTI

Questo documento, risalente al 1914, faceva parte di un progetto

per la costruzione di un ospedale. Si legge che l’edificio doveva

essere costruito sull’area della «già filanda Fioravanti».

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IL PASSATO ANCORA PRESENTE

Il giorno 4 Maggio 2017, dopo pranzo, siamo usciti per incontrare

la signora Ivana Coacci, figlia della signora Tosca Camillucci, che

ricorda dove erano situate alcune antiche filande arceviesi. Alle

14.00 siamo andati in piazza e abbiamo iniziato il nostro giro per

Arcevia alla scoperta delle vecchie filande arceviesi. Il primo posto

in cui ci ha portato Ivana è in vicolo Sant’Agata dove c’era una

filanda della ditta Romani. Poi siamo andati alla farmacia di

Arcevia e abbiamo scoperto che lì c’era una mensa per i bambini

figli delle filandaie e per le filandaie incinte. Questo servizio lo creò

Mussolini perché, in un momento di grande povertà come quello

dopo la I Guerra mondiale, si rese conto che le famiglie dovevano

essere aiutate e voleva che i bambini crescessero sani. L’ Opera

Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI) offriva un pranzo gratuito ai

bambini piccoli e alle donne incinte.

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In Via Ramazzani, nel vicolo Sant’Agata, la signora Ivana ci ha

mostrato l’antica filanda Romani.

La signora Miriam Conti ha raccontato che dopo anni di

abbandono, l’edificio fu acquistato verso la fine degli anni ‘60 dal

padre Fulvio Conti per realizzare uno stringhificio che dopo è stato

trasferito alle Conce e ancora è funzionante.

Nel 1995 venne rifatto il tetto di legno uguale a quello che era

stato abbattuto.

Nell’edificio c’erano due piani, si lavorava in quello superiore dove

c’era anche un grande lucernaio, mentre nel piano inferiore era

situata una grande cisterna d’acqua che era piena di detriti. Il

dottor Mario Romani, nipote di Francesco Romani, vecchio

proprietario della filanda, quando seppe dei lavori chiese a Conti di

cercare tra i detriti della cisterna un antico anello a cui era

particolarmente affezionato, ma l’anello non fu ritrovato.

La cisterna venne ripulita e chiusa. L’esterno dell’edificio non subì

modifiche, il portone è ancora rimasto lo stesso, mentre le vecchie

finestre di ferro vennero sostituite con delle nuove.

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La Piazza Gianfranceschi tanto tempo fa era solo una strada con

una scarpata. Sotto la scarpata ancora esistente, c’era la filanda

Fioravanti e un abitante del luogo ce l’ha mostrata su una foto

antica.

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Ritornando a scuola ci siamo fermati in Piazza G. Crocioni ad

osservare l’attuale scuola secondaria di primo grado che era

l’antica filanda Vici-Giovannetti. Lì abbiamo incontrato per caso la

signora Paola Pittori che ci ha dato ulteriori informazioni. Quando

c’era la filanda la piazza era molto diversa: da questa prospettiva,

a destra, in mezzo alla piazza c’erano delle case attaccate a

quelle esistenti sopra l’arco, a sinistra c’era un muro alto con un

altro grosso arco. Accanto alla filanda c’era la Scuola di Arti e

Mestieri e dove adesso c’è la scuola primaria allora c’era

l’ospedale. Sullo sfondo si può notare il campanile ancora

esistente, inglobato nell’edificio scolastico, dell’antica chiesa di

Santa Lucia.

La signora Ivana

ci ha accom-

pagnati in via

Cadice dove

esisteva un’altra

filanda.

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ED ORA CREATIVA…MENTE Con le conoscenze apprese inventiamo racconti di

finzione illustrandoli anche attraverso i fumetti

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UNA VITA FELICE

Ciao a tutti, io sono un baco da seta e ora vi racconterò la mia

storia. All’inizio, quando sono arrivato ad Arcevia il 10 novembre,

ero dentro un uovo ma non ero da solo, con me c’erano anche i

miei fratelli.

Stavamo nelle uova all’interno di una scatola che ci conteneva

tutti. Grazie al calore e all’umidità, abbiamo cominciato a

trasformarci in bachi. Io sono stato il primo a nascere e subito mi

sono trovato davanti dei giganti a quattro piedi e con tanti capelli,

ma la cosa peggiore era che nelle zampe avevano cinque dita.

Un’altra cosa terribile era che avevano pure dei vestiti, insomma:

erano orribili! Però erano anche molto gentili e osservavano cosa

facevamo. Questi mostri chiamati anche persone, ci hanno messo

dentro uno scatolone più grande per farci mangiare le foglie di

gelso...mmm! Quanto sono buone!

I miei antenati mi hanno raccontato che una volta vivevamo sugli

alberi per mangiare queste gustosissime foglie in pace fin quando

un’imperatrice cinese che stava bevendo il suo tè sotto una pianta

di gelso, vide un bozzolo caduto nella sua tazzina. Grazie a quella

canaglia di imperatrice, da allora gli umani ci usano per fare la

seta e per noi è finita la pacchia! Addio pancia mia fatti capanna!

Per fortuna però gli uomini sono buoni con noi e non ci fanno

mancare il cibo!

Io e i miei fratelli abbiamo mangiato talmente tanto che il 19

novembre del 2016 eravamo diventati molto lunghi perché

arrivavamo a misurare fino a 25mm: è una lunghezza enorme

vero? Fino al 23 abbiamo vissuto la prima età e siamo cresciuti

fino a 5mm.

Il 24 abbiamo fatto la prima muta, cioè siamo stati a testa in su per

24 ore e ci siamo tolti la vecchia cuticola che ci impediva la

crescita. Dentro la nostra vecchia pelle stavamo stretti da morire!

Dal 25 al 27 abbiamo fatto la seconda muta e siamo diventati

lunghi 17mm, altro che 2,5mm!

Gelso, gelso, gelso e ancora gelso: quella bontà di cibo squisito!

Grazie a quelle foglie buone e gustose il 28 novembre ho fatto la

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terza muta e sono arrivato alla terza età. Il 4 dicembre ho iniziato

la quarta muta per diventare lungo 50mm. Ormai stavo diventando

enorme, anzi un vero e proprio gigante, forse il più grande dei

bachi! Dopo ho fatto la quinta muta e sono arrivato a misurare

addirittura 75mm. Gli umani, ad un certo punto, ci hanno portato

un boschetto di rami secchi e io di corsa mi sono arrampicato su

per trovare un posticino tranquillo. Dal 18 Dicembre al 9 Gennaio

mi sono chiuso dentro il bozzolo. Prima sono diventato una

crisalide o pupa e poi ho cambiato aspetto: ali, occhi, niente

bocca, zampe più sottili, corpo tozzo e antenne. Da quel momento

in poi stavo così stretto nel bozzolo che decisi di uscire e vidi altre

farfalle come me. Tra loro c’era la falena più bella del mondo:

abbiamo deciso di accoppiarci e abbiamo fatto tante uova. E’ stato

bello raccontarvi la mia storia, ma ora vi devo salutare perché tra

pochi giorni morirò visto che noi falene non abbiamo la bocca e

non posso più nutrirmi. Sono molto triste per la mia fine, ma sono

anche contento perché sono stato molto felice e per questo devo

ringraziare anche gli umani.

Addio amici miei!

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IL RITORNO DALLA FILANDA Era una bella serata di primavera del 1915, il sole stava

tramontando e le filandaie stanchissime tornavano a casa.

Parlavano tra di loro e quella sera la prima a parlare fu Maria che

disse: “Tu Bianca sei molto fortunata perchè fai la giratora, invece

io svolgo la mansione più brutta di tutte perchè sono una bollitora.

Immergo le mani tutto il giorno nell’acqua bollente e non solo,

lavoro in un luogo umido ricco di vapore che può causare la

tubercolosi e quando torno a casa ho le mani tutte «scottolate»,

sono sudata e non posso neanche lavarmi perché ho una fonte

troppo lontana da casa e non posso andarci perchè devo

occuparmi delle faccende domestiche!” Bianca rispose: «Lo so

che svolgo la mansione meno faticosa di tutte, però quando torno

a casa dal lavoro non trovo la tavola imbandita, ma la cena da

preparare e come se non bastasse mio marito mi sgrida sempre

perchè arrivo troppo tardi e mi tratta come una serva!»

Mentre Bianca e Maria continuavano a parlare, le altre donne

pensavano: «Se le sentissero il padrone e i loro mariti, il padrone

toglierebbe loro subito il lavoro e i mariti non le farebbero più

uscire di casa, quindi è meglio che stiano zitte, se non vogliono

cacciarsi nei gua!»

Eugenio Spreafico-Dal lavoro. Dal ritorno dalla filanda-1895

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Una filandaia che stava sempre zitta e appartata era Carolina, che

era la preferita del padrone perché lavorava sempre senza mai

lamentarsi. Nonostante facesse la bollitora, svolgeva il suo lavoro

perfettamente senza fare neanche un errore.

Quando in filanda passava il padrone a controllare come le

filandaie svolgevano il lavoro, ripeteva sempre che tutte le

lavoratrici dovevano seguire l’esempio di Carolina.

Il marito di Carolina non era contento che il padrone diceva

sempre che la moglie era la sua operaia preferita e quindi decise

di farla uscire solo per lavorare obbligandola a starsene sempre a

casa a fare le faccende domestiche.

Carolina naturalmente non era contenta quindi cominciò a

chiacchierare anche lei mentre lavorava e a lamentarsi sempre

come facevano le altre. Facendo questo Carolina non fu più la

preferita del padrone e quindi il marito decise di farla uscire di

casa senza tante storie.

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UN TRAGICO INCIDENTE Buongiorno a tutti, io mi chiamo Attilia Neri.

Sono la bambina più bella, più brava e più buona di Arcevia, sono

molto agile infatti so anche arrampicarmi sugli alberi.

Un giorno la mia mamma mi ha chiesto di andare dal vicino Ivano

Servini per “fare la fronda”, cioè per raccogliere le foglie di gelso

per i bachi perché i nostri bachi crescevano a dismisura e per loro

era arrivato il momento della “magnarella” in cui mangiavano molto

e le nostre foglie non bastavano per saziarli, così andavamo dagli

altri contadini a prendere alcune foglie.

Dovete sapere che la mia famiglia è composta da mio padre e da

mia madre, che sono contadini mezzadri, e da 4 fratelli, 2 maschi e

2 femmine.

Noi alleviamo i bachi non per divertimento ma per guadagnare più

soldi per mantenere la famiglia.

Prendiamo le uova dei bachi al consorzio di Arcevia e alleviamo i

bachi in casa, in particolare nella camera da letto perchè è la

stanza più calda di tutta la casa.

Sapete perché?

Perché sotto la nostra camera c’è una stalla e sul pavimento c’è un

buco, così quando le bestie respirano emanano calore che sale

riscaldando la stanza, e in più possiamo sentire che cosa fanno le

mucche là sotto.

Noi non abbiamo spazio per una bigattiera, quindi sopra un tappeto

vengono messi degli sturini con sopra le uova.

Gli sturini sono degli scaffali in legno in cui vengono appoggiate le

uova e quando i bachi nascono, ci appoggiamo le foglie di gelso.

Di solito i bachi sono allevati da noi donne in estate perché è più

caldo e ci sono più foglie di gelso.

Ero molto felice di andare da Servini perché io ero innamorata di

Carlo, suo figlio, e avrei potuto incontrarlo.

Così accettai la richiesta e appena arrivata incontrai Carlo.

Come era bello quella mattina d’estate, con i suoi occhi azzurri, i

suoi capelli biondi e il suo sorriso splendente…...ora capite perché

ero innamorata di lui?

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Ma ora torniamo al mio racconto…..io, tutta rossa in faccia

dall’emozione, gli chiesi un cesto per raccogliere le foglie. Lui me

lo diede e iniziai a salire sull’albero.

Ero così presa dal fare bella figura che non mi accorsi che stavo

per appoggiare il piede su un ramo che stava per spezzarsi, così

caddi facendomi una ferita gigantesca.

Subito Carlo andò a chiamare i soccorsi e appena arrivarono mi

vollero portare all’ospedale, ma io non volevo perchè a quei tempi

ero un po’ paurosa e pensavo che vedendo la ferita mi avrebbero

tagliato la gamba. Così mi portarono a casa e mi medicarono.

Dopo la caduta dovetti stare a letto per lunghi mesi e da quel

giorno non salii mai più sugli alberi.

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L’UCCISIONE DEI PARTIGIANI Sono Giovanna, una filandaia di Arcevia. L’altro giorno alla filanda

è successa una cosa incredibile e adesso ve la racconterò: ero

seduta nella mia sedia ed ero pronta a ricevere il capo del filo del

bozzolo dalla bollitrice. Il rumore delle macchine era assordante, il

vapore aveva ormai invaso tutta la stanza. Ad un tratto fuori si

sentirono dei botti enormi: “Boom! Baam!” Subito tutte noi filandaie

ci affacciammo alla finestra, vedemmo dei tedeschi con un fucile in

mano e sentimmo delle urla. Senza dubbio stavano uccidendo dei

partigiani. Subito una mia amica di nome Peppa, che conosceva le

intenzioni dei due uomini gridò: “Assassini!!” I tedeschi che

l’avevano sentita, finita l’uccisione, si fiondarono nella filanda. Io,

mentro loro entravano, continuai a guardare fuori dalla finestra e

vidi gli alberi macchiati di sangue e i partigiani stesi a terra con il

terreno completamente sporco di sangue. Appena i tedeschi

entrarono ci chiesero chi era stato a pronunciare quella parola, ma

nessuna di noi rispose perché volevamo difendere Peppa.

Siccome nessuno rispose i tedeschi con i loro fucili cominciarono a

distruggere tutte le cose presenti nella stanza. Ad un certo punto entrò il proprietario della filanda che trovò il

coraggio di affrontarli dicendo loro che lì si producevano

paracaduti militari per i tedeschi e offrì loro una tazza di tè, li

convinse a lasciare quel posto e a non distruggere niente. Fu un

momento terribile!

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IL GRANDE SEGRETO Mi chiamo Fra’ Agostino e sono uno dei monaci missionari inviati

in Cina. Io e il mio amico stiamo andando in Cina per due motivi:

sia per convertire i cinesi alla nostra religione, sia per scoprire il

segreto della seta.

Ora io e il mio amico, dopo aver attraversato con un lungo viaggio

il deserto lungo la Via della seta, siamo finalmente arrivati. Stiamo

facendo una passeggiata e vediamo una donna che sta

raccogliendo da un albero che non conosciamo delle foglie belle e

grosse.

Andiamo da lei e le chiediamo cosa ci deve fare con quelle foglie e

lei ci risponde che non può dircelo altrimenti il suo capo le taglia la

testa. Nonostante questo, alla fine decide di dirci: “Questo è gelso

e si deve dare agli animali.”

“Quali animali?” le chiedo.

“Li devo dare ai bachi da seta.”

Io continuo a farle domande e lei continua a rispondere anche se

sa che è rischioso, così scopriamo il segreto della seta. Alla fine lei

ci raccomanda di non dire a nessuno che ci ha dato quelle

informazioni, noi la rassicuriamo e le diciamo anche che, se ci

procurerà qualche uova di baco, noi in cambio le potremo dare

tanti anelli d’oro.

Essendo lei povera, accetta la nostra richiesta. Io e il mio amico

ripartiamo contenti per Bisanzio nascondendo le uova dentro una

canna di bamboo che usiamo come bastone da viaggio per non

essere scoperti. Arrivati a casa, sveliamo al nostro imperatore

Giustiniano quello che abbiamo scoperto così sarà possibile anche

in occidente realizzare vestiti di seta.

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LEONARDO, MONNA LISA E LUCIA

Questo racconto di finzione unisce le nostre scoperte sull’arte e sulla

letteratura, infatti sappiamo che la famosa Gioconda, ritratta da

Leonardo da Vinci, era la moglie di un mercante di seta e che il

Manzoni, autore del romanzo «I promessi sposi» immagina che Lucia

sia una filandaia e che Renzo sia il proprietario di un filatoio.

In un piccolo paesino di nome Vinci c’era la bottega di Leonardo.

Lì dentro era molto umido e freddo. Al centro della stanza c’era

uno sgabello vicino ad un cavalletto. Il pittore stava facendo un

ritratto alla Monna Lisa. La donna era molto giovane, ma non

molto bella. In testa portava un bellissimo velo di seta regalato dal

marito che era proprietario di una grande azienda serica ed era

anche molto ricco. Ad un tratto il pittore disse: “Buongiorno Monna

Lisa, cosa mi racconta quest’oggi?” “Salve Ser Leo, oggi sono

molto stanca perché abbiamo dovuto portare una filandaia dal

medico perché si era ammalata di tubercolosi. Intanto che poso

per lei, però, le voglio raccontare la storia di Lucia che lavora

nella mia filanda. Lucia è una bellissima ragazza innamorata

follemente del suo ragazzo Renzo e hanno deciso di sposarsi.

Qualche giorno fa però, il prete Don Abbondio, che deve sposare

Renzo e Lucia, mentre tornava a casa lungo un sentiero, ha

incontrato i Bravi, degli scagnozzi di un signorotto di nome Don

Rodrigo che si è innamorato di Lucia. I due gli hanno detto che il

matrimonio non si deve fare, così il prete, senza esitare, se ne è

andato. Quando Renzo ha scoperto la notizia si è arrabbiato, ma

infine è scappato a Milano e Lucia è fuggita a Monza perché

rischiava di essere rapita da Don Rodrigo. Quando Lucia ha

saputo che Renzo stava a Milano è andata a cercarlo. Lo ha

trovato e i due si sono sposati. Ora lei si è trasferita qua a Vinci e

lavora come maestra nella filanda, invece Renzo è diventato

proprietario di un piccolo filatoio.” “Che bella storia Monna Lisa, mi

è piaciuta molto! La prossima volta che incontri Lucia mandamela

qua così le farò un bellissimo ritratto!” “Va bene Ser Leo, ora

posso vedere il mio ritratto?” “Certamente Monna Lisa, eccolo

qua!” “Oh che bello! Quanto devo pagare?” “Glielo regalo!”

“Grazie!” “Di nulla!”

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I CONTADI’ DE SANT’APPOLLINARE A Sant’Appollinare, in frazione di Arcevia, vivevano due fratelli.

Samuele era un ragazzo di 17 anni, aveva dei capelli ricci e neri,

degli occhi verdi, il naso a punta, una bocca con delle labbra poco

carnose, una corporatura robusta e un carattere buono. Nella vita

di tutti i giorni era un ragazzo semplice, simpatico e tutti gli

volevano bene. Luca invece aveva 18 anni aveva dei capelli lisci,

al contrario di suo fratello, degli occhi marroni, naso a punta come

suo fratello, la bocca con delle labbra sottili.

I due fratelli erano figli di Giorgia e Peppino, una filandaia e un

contadino mezzadro.

A Peppino non piaceva allevare i bachi da seta perché gli faceva

brutto vederli, preferiva fare altre cose come dare da mangiare

agli animali, coltivare il grano e mieterlo.

Inoltre quell'anno Peppino si era preso una grave malattia e

dovette lasciare l'allevamento dei bachi ai suoi figli.

Per allevare i bachi da seta si doveva svolgere un lungo

procedimento. I due fratelli prima si recarono a comprare 2 once di

uova di bachi, poi le misero vicino al fuoco finchè non si schiusero,

successivamente le misero negli sturini con sotto la carta paglia

con dei fori piccoli.

Mano a mano che i bachi crescevano si utilizzavano fogli di carta

con fori piú grandi.

Ad un certo punto si dovevano raccogliere dei rametti per fare una

specie di bosco dove i bachi si arrampicavano per fare il bozzolo.

Samuele e Luca avevano capito che era giunto il momento di

staccare ii bozzoli dai rami per portarli a vendere al mercato.

Durante il lavoro gridò al fratello: ”Daglie Samuè, movede sennò ‘l

mercado ce chiude!”

“Gimo a carca’ ‘sti cesti de’ bozzoli, che almeno gliel’ famo vede’

noià a quell’altri contadi’!” rispose Samuele “’Nte proccupa’, c’è

sempre gido be’ ‘l mercado!”, Samuele allore decise:”Partimo col

bue e la carretta su pe’ la collinetta de’ S. Appollinare.”

“Su cima la collina al bue glie pia n’infarto a arrià a piedi fino a sul mercado!”

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I due fratelli partirono per recarsi al mercato dei bozzoli di Jesi

perchè avevano letto i manifesti appesi nella piazza di Arcevia e

avevano visto che questo mercato aveva i prezzi più vantaggiosi.

L’anno precedente i loro vicini di casa erano andati a vendere i

bozzoli a Senigallia perché lì il mercato offriva di più.

Appena arrivati al mercato c’erano molti carretti e molti contadini

che vendevano i bozzoli.

Prima si recarono alla bilancia per far pesare i bozzoli. Poi arrivò il

compratore che valutò la qualitá dei bozzoli. Per fortuna era molto

buona e ai fratelli venne offerto il prezzo massimo. Erano

entusiasti!

Il mercato era andato bene, così Luca, una volta tornato a casa

disse:"‘l mercado è gido be’, qué famo pe’ festeggia’?”

“Chiamamo a tutti e ce mettemo a be’ finché la bottiglia de vi’ n’ s’è

scolata!”

Luca, convinto da Samuele, si mise a chiamare tutti i vicini e gli

amici, e il padre tutto contento, fece loro i complimenti per il buon

affare.

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LA BELLISSIMA STANZA Un giorno, mentre stavo giocando con i miei amici a nascondino,

vidi una vecchia casa colonica. Quando entrai per nascondermi fui

fermata da una voce allegra che mi diceva se potevo aiutarla per

staccare i bozzoli, ogni bozzolo è un filo di seta arrotolato su se

stesso.

Quella strana stanza aveva al suo interno degli sturini con sopra

appoggiati centinaia di bachi da seta, un girello con una piccola

bambina che giocava, un camino e un gatto addormentato.

Dopo averli staccati dai rami secchi, i bozzoli selezionati li

abbiamo portati al mercato dei bozzoli di Jesi, ci hanno pagati e

poi siamo tornati alla casa colonica.

Siccome le donne che erano in quella stanza erano colone, dopo

poco tempo è arrivato il proprietario terriero che fu contento del

denaro guadagnato. La sera sono potuta ritornata a giocare con i

miei amici, molto felice di aver trascorso una bellissima giornata

piena di avventure.

Giovanni Segantini-La raccolta dei bozzoli-1881

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IL FANTASMA DELLA BADESSA

La Badessa era la suora superiora delle Clarisse, ma ormai morta

divenne un fantasma. Passava il suo tempo nel convento delle

Clarisse che si trovava accanto alla chiesa di Santa Lucia, ma un

giorno accadde qualcosa di strano: vide delle persone nel

convento che stavano combinando una gran confusione,

trasportavano casse di cose simili a dei confetti chiamati bozzoli,

piccole palline come minuscoli semi chiamate uova di baco, sacchi

di piante verdi e rosicchiate che dicevano si chiamassero foglie di

gelso. C’erano piccoli bruchi grigiastri che mentre mangiavano

producevano un rumore insopportabile... insomma, stava

cambiando tutto.

“Ma...ma… che succede? Il mio povero convento sta diventando

un pollaio! Sono… sono così...così infuriata che gliela farò pagare

a quelli! Vorrei tanto intervenire, ma non posso, sono un

fantasma… . Comunque troverò un modo per cacciarli!”, diceva la

Badessa disperata. Allo scoccare della mezzanotte, la Badessa

andò nella cucina della nuova filanda, prese le stoviglie e si mise a

fare rumore per spaventare quegli uomini che avevano invaso il

suo convento e mandarli via.

“Papà, ho paura, cos’è questo rumore?”, diceva Carlo, il figlio del

filandiere, spaventato da quei rumori. “Non ti preoccupare, piccolo

Carletto. Vado a controllare.” rispondeva il papà. Scese le scale a

chiocciola per arrivare in cucina, ma appena aprì la porta, il

rumore sparì. Tornò su e il rumore ricominciò. “Che potrebbe mai

essere? È un mistero.” sussurrava il padre di Carlo, perplesso.

Qualche settimana dopo, Carlo aveva già compiuto 6 anni.

Già prima che fosse nato, la Badessa faceva rumore dopo la

mezzanotte. Ma dopo tutti quei 6 anni, Carlo era incuriosito da

quei rumori misteriosi. Così una sera a mezzanotte si recò in

cucina da solo, scendendo le scale così silenziosamente che la

Badessa non lo sentì arrivare. Il fantasma batteva le stoviglie in un

angolo, ma il bambino non la vedeva, perché era un fantasma.

Però dopo un po’ fu lei ad accorgersi della presenza del bambino,

di nascosto gli andò dietro e all’’improvviso lo mise in un sacco.

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Lo portò nella soffitta e appena lasciò il sacco, lui uscì. Lei si fece

visibile e Carlo era terrorizzato: “Chi sei tu? Lasciami stare!!! ...

… Io non ho fatto niente.”

Vedendo che non lo aveva picchiato né ucciso, il piccolo si calmò.

La Badessa gli spiegò perché tutte le notti faceva rumore. Il

bambino promise di mantenere il segreto, fecero amicizia finché…

“Cosa succede?” urlò Carlo. C’erano grandissimi botti. Stavano

abbattendo la filanda per costruire le scuole medie. “Dobbiamo

andare via!” si spaventò la Badessa.

“Ora che abbatteranno tutto, dove vivrai?” chiese Carlo.

“Penso nella nuova soffitta della scuola”.

“Ma non farai più rumore, vero?”

“No, ormai ho capito, non ce n’è bisogno.”

“Ma da quanti anni cerchi di spaventare le persone?”

“Ohh… più di cento… sapessi.”

“Ma ora quanti anni hai?”

“Ormai più di duecento… Non ricordo bene quanti.”

“Quando sarò grande e andrò alle scuole medie ti verrò a trovare,

ora andiamo.”

Scapparono e uscirono; era già mattina.

“Ma dov’eri finito?” chiese il padre quando il suo piccolo tornò.

“Stavo inseguendo un gatto… . Hai visto che stanno costruendo la

nuova scuola media?” disse Carlo felice dopo la grande avventura.

Anni e anni dopo il bambino, anzi, il ragazzo, aveva ormai 11 anni e

aveva iniziato a frequentare le scuole medie.

Durante l’intervallo, Carlo andò senza farsi vedere nella soffitta e

cercò la Badessa. “Carlo! Quanti anni son passati. Speravo mi

venissi a trovare prima. Sei diventato grande dall’ultima volta che ti

ho visto.” lo salutò il fantasma, fattosi visibile in un angolo.

Luca, sorpreso, la salutò: “Ciao! Non speravo molto di trovarti

ancora qui, ma è successo. Sono felice di rivederti, però ora devo

andare. Verrò a trovarti un’altra volta. Ciao Badessa”.

“Ciao, ti aspetterò” rispose lei e scomparve in un batter d’occhio.

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BIBLIOGRAFIA

A.A. V.V. – Nelle Marche centrali – Territorio, economia, società tra

Medioevo e Novecento: l’area esino – misena - Tomo II- a cura di

Sergio Anselmi, Cassa di Risparmio di Jesi, 1979.

Tonino Zedde -La seta-Album del lavoro- Città di Jesi, 1988.

A.A. V.V.- Colli,il piccolo cuore di seta della valle del Tronto – a

cura di Gabriele Cavezzi, Banca Picena Truentina, 2007.

Maria Francesca Chiodi – Le filande marchigiane fra ottocento e

novecento- Regione Marche-Servizio tecnico alla cultura, 2003.

Alberto Fiorani – La filanda del Conte Pongelli- Centro Cultura

popolare- Ostra Vetere, 2009.

Page 197: BACHI, FILANDE E SPERANZE AD ARCEVIA NELLA PRIMA di seta.… · LA STORIA DELLA SETA pag. 62 La scoperta della seta pag. 63 Il segreto svelato pag. 65 . La diffusione nel mondo occidentale

I PICCOLI STORICI DELLA CLASSE VA

AGUZZI JENNIFER AJDARI ENDRITA

AMBROSINI CRISTIAN BIANCINI GIACOMO BRUNI LEGIEN SOFIA

CASTIGLIONI LEONARDO CAVALLETTI FRANCESCO

CURZI CRISTIANO DA SILVA LUIS

GOBBETTI SIMONE LAMETTI IVAN

LUCARINI LUNA MARCHEGIANI DILETTA MARIOTTI ALICE GIULIA MENCARELLI ROMINA

PAPI JENNY PIETRINI NICOLA

SERI MARCO SERVADIO DENNIS

TORRETTI ALESSANDRO UGOLINI MARIA STELLA

VERDINI LORENZO

LE INSEGNANTI

PETRONILLI MARIA CRISTINA BUCCI OMBRETTA

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I RICORDI REGALANO IL GIOCO DEL TEMPO…