BACHI, FILANDE E SPERANZE AD ARCEVIA NELLA PRIMA di seta.… · LA STORIA DELLA SETA pag. 62 La...
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I.C. DI ARCEVIA CON SEZIONI ASSOCIATE DI
MONTECAROTTO E SERRA DE’ CONTI
PLESSO A. ANSELMI DI ARCEVIA
- CLASSE VA -
A.S. 2016 -2017
BACHI, FILANDE E SPERANZE AD ARCEVIA NELLA PRIMA
META’ DEL XX SECOLO
INDICE
COME TUTTO E’ INIZIATO Pag. 9
Laboratorio scientifico: alleviamo i bachi in classe
LA FILIERA DELLA SETA pag. 21
La gelsicoltura pag. 23
La bachicoltura pag. 27
Le testimonianze sulla bachicoltura locale del passato:
Maria Coppa pag. 29
Elena Ferracci pag. 31
Brunella Brunetti pag. 32
Teresa Titti pag. 33
Attilia Neri pag. 35
Augusto Mastrucci pag. 37
Graziella Sopranzetti pag. 38
Emiliano Gobbetti pag. 39
Domenico Avaltroni pag. 40
Francesco Torretti pag. 41
Gina Aguzzi pag. 42
Savina Galtelli pag. 43
Gina Bellucci pag. 44
Il mercato dei bozzoli pag. 46
La lavorazione della seta pag. 49
Lavorare in filanda pag. 54
Le condizioni di lavoro in filanda pag. 56
I cascamifici pag. 59
La seta nel mondo oggi pag. 60
Cosa si produce con la seta pag. 61
LA STORIA DELLA SETA pag. 62
La scoperta della seta pag. 63
Il segreto svelato pag. 65
La diffusione nel mondo occidentale pag. 67
La Via della seta pag. 70
Marco Polo pag. 71
La seta nel Medioevo pag. 72
La sericoltura nel Rinascimento pag. 74
La sericoltura dal ‘700 ad oggi pag. 78
Le filande nelle Marche pag. 79
La ricerca d’archivio pag. 83
LE FILANDE ARCEVIESI
pag. 111
La filanda Giovannetti-Vera Costetti pag.112
Carlo Costetti pag. 117
Le nostre interviste pag. 122
Paola Pittori pag.123
Tosca Camillucci pag.133
Mario Mancinelli pag.135
Maria Montalbini pag.142
Denise Avenali pag.145
Simonetta Minelli pag.149
La filanda Romani pag.152
La filanda Simoncelli pag.152
La filanda Moscatelli pag.167
Il passato ancora presente pag.169
ED ORA CREATIVA…MENTE pag.173
Una vita felice pag.174
Il ritorno dalla filanda pag.176
Un tragico incidente pag.179
L’uccisione dei partigiani pag.181
Il grande segreto pag.183
Leonardo Monna Lisa, Renzo e Lucia pag.185
I contadi’ di Sant’Appollinare pag.186
La bellissima stanza pag.190
Il fantasma della badessa pag.192
PREFAZIONE
La produzione della seta è un tema tradizionale, ma sempre
affascinante che si affronta in un corso di scienze alla scuola
primaria. Le maestre Ombretta Bucci e M. Cristina Petronilli hanno
saputo farne un'occasione di studio a molte dimensioni che ha
interessato anche altre discipline in un percorso multidisciplinare.
In un'attività laboratoriale condotta in classe, della durata di
diverse settimane, gli alunni hanno potuto studiare l'evoluzione
della larva della farfalla Bombyx Mori, comunemente nota come
baco da seta, dalle uova alla costruzione del bozzolo di seta
grezza da parte del baco fino alla trasformazione prima in crisalide
e poi in falena.
Ma sono state affrontate anche le relative tematiche legate alla
dimensione storica e culturale del fenomeno, con particolare
attenzione alle ricadute economiche sull'economia agricola locale.
È stata condotta una ricerca storica sull'allevamento dei bachi da
seta da parte dei nonni e sulle filande presenti in Arcevia nei tempi
antichi, con foto, testimonianze e racconti.
Il tema è antico, ma le tecniche didattiche impiegate sono state
assolutamente moderne e all'avanguardia. Gli alunni si sono
ovviamente avvalsi di internet per la ricerca in rete delle
informazioni, ma hanno anche potuto lavorare in cooperazione
sfruttando la tecnologia cloud e la condivisione dei documenti, con
un uso sapiente di computer e tablet. Peraltro nel corso del
progetto non è stata trascurata la più tradizionale, ma sempre
importante, ricerca delle fonti in archivio; gli alunni hanno potuto
leggere documenti precedentemente selezionati sull'allevamento
dei bachi, sui gelsi, sulle filande.
Questa pubblicazione presenta il lavoro didattico svolto e
rappresenta una bella e concreta testimonianza di una scuola di
qualità.
Le maestre ancora una volta hanno saputo interpretare al meglio
le Indicazioni nazionali riuscendo a mettere in relazione la
complessità di modi anche nuovi di apprendimento con un’opera
quotidiana di guida, attenta al metodo, ai nuovi media e alla
ricerca multidimensionale.
Un ringraziamento va alle maestre che hanno profuso impegno,
competenza e professionalità e un "bravi" è rivolto agli alunni che
si sono caratterizzati per motivazione, partecipazione e qualità
dell'apprendimento.
Il Dirigente Scolastico
Dennis Luigi Censi
L'AVIS ha invitato gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado
presenti nel territorio ad essere parte attiva nelle celebrazioni per il
70° anniversario della sua fondazione e con immenso piacere ha
contribuito alla realizzazione di diversi progetti, tra i quali la
pubblicazione di questo meraviglioso libro, frutto del lavoro e
dell'impegno degli studenti della classe quinta della scuola
primaria A. Anselmi di Arcevia, coadiuvati dalle loro insegnanti.
Con il supporto delle fonti archivistiche, della documentazione
fotografica ma soprattutto delle testimonianze orali, le pagine di
questo libro ripercorrono la storia di una importantissima attività
che dalla fine del 1800 e fino al 1950/55 ha segnato
profondamente l'economia di Arcevia, sede di varie filande, che
occupavano molte persone, soprattutto donne.
All’inizio del secolo scorso nelle campagne molte famiglie
allevavano in casa i bachi da seta, in quantità che variava con il
numero di gelsi presenti sui loro campi, dato che di questi i bachi
si nutrivano.
Le donne in particolare erano coinvolte nelle varie fasi
dell’allevamento dei bachi che durava molti giorni.
È stato affascinante ed emozionante poter vedere realmente,
durante uno dei nostri incontri a scuola, il ciclo di vita del baco da
seta riproposto dai ragazzi con un'attenta e scrupolosa attività di
laboratorio e capire in modo chiaro come poi si arrivava a produrre
la preziosissima fibra della seta e, quindi, meravigliosi tessuti.
Da tale esperienza e dalla raccolta e rielaborazione delle notizie
storiche e delle testimonianze di nonne, nonni, zii o vicini di casa è
nato “Strade di seta”.
Il titolo stesso evoca tanti pensieri, anche contrastanti.
Fili di seta a volte forti e resistenti, come i ricordi che ognuno di noi
custodisce dentro di sé nonostante il trascorrere del tempo, altre
volte più deboli, come fili di seta più sottili e fragili che finiscono
per spezzarsi.
Ricordi più o meno piacevoli, ma che fanno pur sempre parte della
vita. Il libro, come uno scrigno, contiene tante memorie che, grazie
alla parola scritta, non si cancelleranno e diventeranno ancora più
preziose negli anni.
Nel 1947, quando in Arcevia la filanda era in attività, seppur ormai
in crisi con l'avvento delle fibre artificiali prodotte industrialmente,
nasceva l'AVIS, un'associazione che, come la filanda, fa parte
della storia, del tessuto sociale e culturale della nostra città.
Sicuramente le signore che partecipavano ai tradizionali veglioni di
beneficenza organizzati dall'AVIS al teatro Misa prima del lungo
periodo di chiusura indossavano preziose ed eleganti calze di
seta.
L'AVIS, oggi come allora, senza perdere mai di vista il suo compito
primario di solidarietà a beneficio della vita umana, cerca di
sostenere iniziative a carattere sociale e culturale e ringrazia le
insegnanti, le alunne e gli alunni per aver partecipato al suo
settantesimo compleanno, augurandosi che questi piccoli cittadini
facciano parte del suo prossimo futuro.
Il Presidente AVIS Arcevia
Stefania Aguzzi
INTRODUZIONE
Una scuola moderna e un’antica filanda possono scoprire di avere
molto in comune ma bisogna avere la curiosità, la pazienza e
l’oculatezza di un investigatore per scoprire cosa.
E così la classe VA del plesso A. Anselmi di Arcevia ha iniziato le
sue indagini alla scoperta di un passato che rischiava di finire
dimenticato.
Le memorie ritrovate, che si sono dipanate come strade di seta
ancora nitide e lucenti, hanno contribuito alla comprensione dei
processi di trasformazione del territorio, aiutando a formare un
forte senso di appartenenza alla propria comunità necessario per
la costruzione dell’identità personale e sociale.
Inizialmente l’investigazione è stata scientifica, avvalendosi del
metodo sperimentale attraverso l’osservazione del processo vitale
dei bachi da seta che sono stati allevati con cura e amorevole
attenzione dagli alunni.
La straordinaria metamorfosi a cui hanno assistito gli allievi ha
permesso loro di scoprire l’ineffabile meraviglia della natura e
l’inesorabilità delle sue leggi.
Poi è seguita la fase storica della ricerca con la raccolta di
testimonianze sulla bachicoltura e sulle antiche filande di Arcevia. I
racconti, forniti da nonni, da parenti degli alunni e dai vecchi
proprietari di filande e da alcuni abitanti di Arcevia, hanno fornito
uno spaccato economico e sociale sorprendente del nostro
territorio: dalla fine dell’800 fino alla metà del ‘900, Arcevia era
fulcro di varie realtà imprenditoriali legate all’industria serica,
diffusasi in maniera capillare nelle Marche ma anche in tutta Italia.
Le testimonianze sono state arricchite dalle fonti iconografiche
fornite dagli stessi testimoni, da fonti scritte e documenti trovati
nell’Archivio Storico comunale, dalle fonti bibliografiche e digitali.
“Strade di seta” è stato un progetto che ha integrato contenuti ed
obiettivi di varie discipline facilitando l’unitarietà del sapere e la
formazione di competenze trasversali.
Infine non è stato tralasciato l’aspetto creativo e fantastico, tanto
che gli alunni si sono cimentati nell’invenzione di storie e nella
creazione di illustrazioni di cui sono stati protagonisti i bachi da
seta, i contadini allevatori dei bachi o le operaie delle filande e che
sono state ispirate dai racconti ascoltati o dai documenti analizzati.
Il percorso è stato documentato dagli alunni attraverso l’uso delle
risorse tecnologiche a disposizione della classe, quali la LIM, i
tablet e i computer che hanno permesso di reperire informazioni e
di condividere i prodotti digitali durante il processo di
organizzazione delle conoscenze e delle testimonianze raccolte
utilizzando Google Drive.
E’ stato un compito di realtà particolarmente motivante grazie alle
attività laboratoriali e al cooperative-learning che hanno contribuito
all’inclusione e alla partecipazione di tutti.
Un ringraziamento particolare va a tutti coloro che hanno
supportato questo percorso educativo e didattico riconoscendone
l’importanza formativa: i genitori e i nonni che sono stati sempre
disponibili e collaborativi, la signora Tosca Camillucci e Paola
Pittori che si sono recate a scuola per farsi intervistare dai
bambini, Carlo e Vera Costetti che tramite posta elettronica hanno
fornito le loro testimonianze e Mario Mancinelli per aver
pazientemente soddisfatto le nostre richieste. Un ringraziamento
particolare va a Stefania Aguzzi, Presidente dell’AVIS-Sezione
Arcevia, per aver sostenuto con grande entusiasmo e fiducia
questa iniziativa offrendo un importante contributo per la
pubblicazione del lavoro, in occasione del 70° Anniversario della
fondazione dell’Avis. Una collaborazione molto apprezzata,
simbolo di un’attenzione peculiare dell’associazione verso
l’educazione delle future generazioni, in linea con i valori su cui
essa fonda la propria esistenza e il proprio operare.
Le insegnanti
Bucci Ombretta
Petronilli Maria Cristina
COME TUTTO E’ INIZIATO
LABORATORIO SCIENTIFICO: ALLEVIAMO I BACHI
IN CLASSE
Esistono varie modalità di facilitare l’apprendimento e in questo
progetto si è voluta privilegiare quella basata sull’esperienza per
una didattica empirica, pratica, che non si basasse esclusivamente
sulla trasmissione mnemonica del sapere. Tutto il percorso
formativo è partito, quindi, da un laboratorio didattico che
motivasse gli alunni attraverso un forte coinvolgimento emotivo e
che implicasse una didattica dell’osservare e dell’operare in
maniera diretta. Le deduzioni, le riflessioni, gli approfondimenti
sono stati il passo successivo a questo laboratorio scientifico che
è stato incentrato sull’allevamento di bachi da seta in classe. Il
tema del progetto è stato scelto per la possibilità che offriva alle
insegnanti di trovare agganci multidisciplinari senza dimenticare
l’aspetto dell’educazione alla cittadinanza. Gli alunni, fin da subito,
hanno mostrato forte interesse e curiosità e quando per la prima
volta hanno visto le uova dei bachi, sembrava loro impossibile che
da quei «puntini» potesse nascere nuova vita per poter poi
affrontare tante strade diverse, come quelle di seta nelle quali si
sono imbattuti e che hanno percorso alla scoperta di un mondo
allo stesso tempo nuovo e antico.
I BAMBINI RACCONTANO IL LABORATORIO
Il giorno 10 Novembre 2016, le maestre ci hanno fatto una
splendida sorpresa: hanno ordinato da Padova un kit per
l’allevamento dei bachi da seta in classe. Quando il pacco è
arrivato noi eravamo così emozionati che abbiamo iniziato a
battere le mani sui banchi. Quando le maestre hanno aperto lo
scatolone arrivato dal CREA (Consiglio per la Ricerca in
agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria) all’interno abbiamo trovato:
un libro con le
istruzioni
3 scatole di plastica di diverse
dimensioni (una grande, una
media e una piccola) e vasetti
contenenti mangimi con adesivi
colorati per le diverse età dei
bachi
un riscaldatore per
tenere la temperatura
costante
e …le uova
Quando sono arrivati i bachi,
abbiamo montato il kit mettendo
nel fondo della scatola grande
dell’acqua distillata e
posizionando la scatola piccola
all’interno di quella grande.
All’interno della vasca piccola,
abbiamo appoggiato la
scatolina contenente le uova
dei bachi da seta. Nella vasca
grande abbiamo inserito il
riscaldatore per riscaldare la
vasca fino a 28 °C e un
termostato per controllare la
temperatura.
Infine abbiamo usato una
pellicola trasparente per coprire
le 2 scatole e mantenere la
temperatura costante.
Da questo momento è iniziato il
periodo chiamato incubazione
ed è durato dal giorno di arrivo
fino al 18 novembre.
Et voilà…..tutto pronto
per iniziare l’avventura!
Il 19 novembre sono nati i nostri bachi da seta e noi siamo venuti
a scuola il sabato per dargli il loro primo pasto costituito da un
mangime di di foglie di gelso triturate e arricchite di proteine.
Quando siamo arrivati alcuni di noi hanno svolto il seguente
procedimento: hanno aperto la scatola grande e la scatola media
e hanno tirato fuori i nostri bachi di colore grigio antracite e
lunghi 2,5 mm. Hanno asciugato le due vaschette e infine hanno
riposto la scatolina nella vasca media contenente i bachi e il
mangime.
Il 20 novembre è iniziata la prima età che è durata fino al 23. Alla
fine della prima età le larve erano lunghe 5 mm. Dopodichè c’è
stata la prima muta in cui i bachi sono rimasti immobili per 24 ore
con il torace rivolto verso l’alto. Attraverso la muta i bachi si sono
liberati dalla vecchia cuticola che impediva loro la crescita.
Il giorno dopo la prima muta, i bachi hanno iniziato la seconda età
che è durata dal 25 al 27 novembre. Alla fine di questo periodo le larve sono diventate lunghe 17 mm.
Il ciclo vitale dei bachi da seta si svolge in totale in 5 età e 4 mute.
Dopo la terza muta, da quanto erano grandi, un’ottantina di bachi
sono stati posizionati in un’altra scatola e alimentati con il gelso fresco reperito nelle nostre campagne.
Durante la quarta età erano lunghi 5 cm
Terminate tutte le fasi di crescita, serviva un finto bosco per farli
iniziare a costruire il bozzolo e il nonno di un nostro compagno,
molto gentilmente, ne ha costruito uno.
I giorni successivi altri bachi sono saliti al “bosco” e molto
lentamente si sono rinchiusi nei loro bozzoli.
Il 18 dicembre, un baco ha iniziato a salire sul finto bosco per
costruire il suo bozzolo.
Alcuni bachi non volevano salire sui rami del bosco artificiale,
perciò le maestre hanno realizzato dei tubi di carta per far
costruire i bozzoli al loro interno.
Mentre il baco era nel bozzolo è iniziata la trasformazione dei
bachi, prima in crisalidi poi….in falene!
Le farfalle erano di colore bianco panna, lunghe circa 25 mm. Le
femmine erano tozze e corte, mentre i maschi più lunghi e più fini.
I maschi avevano delle antennine che gli permettevano di
localizzare la femmina. Le antenne delle farfalle sono nere e
assomigliano a delle piccole corna.
Le falene sono pelose e hanno 3 zampette da una parte e 3
dall’altra. Hanno dei piccoli occhi scuri e non hanno la bocca. Le
ali sono piccole e sono di colore bianco panna, ma sono un po’ più
chiare del corpo. Questi animaletti si accoppiano poco tempo dopo
la fuoriuscita dal bozzolo; la femmina può deporre le uova anche
senza l’intervento del maschio, ma queste non sono fecondate.
Non avendo la bocca per nutrirsi, purtroppo le falene hanno una
vita breve e vivono solo alcuni giorni. Durante questi giorni il loro
scopo è garantire la sopravvivenza della specie facendo più uova
possibili. Noi bambini le abbiamo aiutate, prendendoci cura delle
loro uova conservandole in frigorifero perché ad una bassa
temperatura i bachi non nascono. Adesso che è arrivata la
primavera, continueremo il ciclo vitale, riscalderemo le uova e
nasceranno nuovi bachi!
Dalla foto scattata alle nostre
uova si può osservare che alcune
sono scure, altre giallastre. Dalle
uova più chiare non nasceranno
le larve perché non sono state
fecondate. Sotto ecco la nostra
linea del tempo in cui abbiamo
rappresentato le varie fasi della
vita dei bachi da seta che
abbiamo allevato.
LA FILIERA DELLA SETA
Noi bambini, dopo aver osservato i bachi, abbiamo capito che il
loro bozzolo è costituito da un unico filo di seta, una fibra tessile
molto preziosa perché lucente e resistente. Abbiamo scoperto
anche che esistono varie specie di bachi che hanno un numero
diverso di mute e che costruiscono bozzoli di varia forma e di
vario colore, anche se i più diffusi sono quelli bianchi e quelli gialli.
Ma come si arriva a produrre un tessuto di seta?
Abbiamo approfondito la filiera della seta partendo dalla
gelsicoltura, per passare alla bachicoltura di cui abbiamo fatto
esperienza, per giungere alla sericoltura e alla produzione del
tessuto.
La nostra ricerca si è basata sulle fonti bibliografiche e sulle fonti
digitali, abbiamo cercato informazioni in vari siti internet, visto dei
video su youtube e raccolto delle testimonianze sulla bachicoltura:
abbiamo scoperto che in famiglia quasi tutti noi abbiamo nonni o
zii che tanto tempo fa allevavano i bachi!
LA GELSICOLTURA
La catena produttiva della seta inizia dalla coltivazione del gelso
perché le foglie di questa pianta costituiscono l’unico alimento dei
bachi. Vi sono numerosi tipi di gelsi, se ne contano una quindicina
in tutto, ma la coltivazione del gelso si è concentrata soprattutto
su due tipi: il gelso nero e il gelso bianco.
Il gelso nero è originario dell’Asia Minore, più precisamente delle
zone montuose della Mesopotamia, dove ancora oggi si possono
trovare esemplari selvatici.
Il gelso nero era conosciuto in Europa sia dai Greci che dai
Romani e veniva coltivato non solo per la sua frutta ma anche
come pianta officinale.
Lo scienziato romano Plinio raccomandava i suoi frutti che insieme
a miele, zafferano e mirra, formavano una mistura efficace per
combattere il mal di gola e i disturbi di stomaco.
Il gelso bianco o moro bianco (morus alba) invece era originario
della Cina settentrionale e della Corea.
Venne introdotto in Europa verso il XI secolo, principalmente per
l'uso delle sue foglie in bachicoltura come alimento dei bachi da
seta. Questa pianta arborea, grazie alla sua capacità di
adattamento, ha raggiunto una diffusione molto ampia.
Le foglie di gelso hanno una forma lobata, a margine seghettato
o liscio. il gelso è una pianta arborea, grazie alla sua capacità dell’adattamento, ha raggiunto una diffusione molto ampia, le foglie di gelso sono di vario tipo: - intere,o lobate, a margine dentro seghettate e lisce. foglie seghettatte foglie lisce
Queste illustrazioni, risalenti al 1770, mostrano le varie fasi della
gelsicoltura dalla semina, al trapianto in buche più grosse, fino
alla potatura.
Disegni realizzati nel XVIII secolo dal figurista bolognese
Pietro Fancelli,
Queste immagini sono conservate nella Civica Raccolta Bertarelli
di Milano e fanno comprendere quanto fosse importante per i
contadini conoscere il metodi di coltivazione del gelso per poter
allevare poi i bachi.
Ancora oggi nelle nostre campagne
è possibile vedere i gelsi detti
anche mori. Dopo gli anni ‘50, con
il processo di urbanizzazione e
industrializzazione, i contadini
hanno smesso di dedicarsi alla
gelsicoltura, quindi le piante ancora
visibili sono la testimonianza di un
mondo agricolo precedente alla II
Guerra mondiale. Spesso queste
piante si trovano vicino alle case
coloniche, lungo le strade o sulle
scarpate vicino ai fossi. Ecco
alcune fotografie del nostro
territorio arceviese in cui è
possibile vedere ancora i mori,
antichi testimoni di un tempo ormai
passato.
Gelso in frazione di Piticchio
e filare di gelsi in frazione Costa
LA BACHICOLTURA
I bachi venivano allevati dentro le case coloniche o dentro le
bigattiere dei contadini, solo più tardi vennero costruite stabilimenti
bacologici a livello industriale. I bachi appena nati venivano
sistemati sugli «sturini», realizzati con tavole di legno o canne
legate insieme o graticci di ferro, su cui venivano appoggiati fogli
di carta paglia forata. Sopra i fogli si distribuivano le foglie di gelso
e i bachi, per poterle mangiare, passavano attraverso i fori
liberando il foglio che stava sotto. A mano a mano che i bachi
crescevano si utilizzavano fogli con fori più grandi. Era un modo
rapido ed intelligente per tenere puliti i bachi ed evitare la
diffusione di malattie. Ad un certo punto bisognava preparare il
«bosco», dei rami su cui far arrampicare i bachi che avrebbero
iniziato a costruire il bozzolo. Dopo la «salita al bosco» i bozzoli
dovevano essere raccolti, attività che spesso impegnava tutta la
famiglia.
Nelle bigattiere industriali si allevavano i bachi non solo per
vendere i bozzoli alle filande, ma si facevano nascere le falene
per farle accoppiare dopo averle selezionate e far loro produrre le
uova che sarebbero state vendute ai bachicoltori o ai consorzi
agricoli.
Sopra una foto dello Stabilimento Bacologico Ascenzi a Colli del
Tronto in una foto del 1925 ( Archivio Celsio Ascenzi).
LE TESTIMONIANZE SULLA BACHICOLTURA
LOCALE DEL PASSATO
MARIA COPPA (JENNY PAPI)
Sono Maria Coppa e abito a Montale. Sono nata il 21-12-1940 a
Magnadorsa di Arcevia. La mia famiglia era composta da 21
persone: i miei nonni con i loro cinque figli, mio padre sposato con
sei figli, il fratello di mio nonno con moglie e cinque figli. Io, la
maggiore dei miei fratelli e tutti i componenti della famiglia
facevamo i contadini a mezzadria. Mia madre si occupava
principalmente dei figli e della casa, cucinava aiutata a volte dalla
nonna e dalla zia. Le altre donne si occupavano degli animali e dei
lavori nei campi insieme agli uomini. Si allevavano i bachi sempre
a mezzadria per avere un guadagno in più e quasi tutti i contadini,
lo facevano in accordo con il padrone. I bachi venivano portati a
noi già nati, dal padrone della casa colonica e noi contadini
dovevamo occuparcene per l’allevamento. I bachi si mettevano di
solito in una stanza grande che era il magazzino e serviva anche
per conservare il grano, semi e frutta. Da piccoli i bachi si
tenevano in uno scatolone. In una parete del magazzino si
mettevano gli sturini a distanza l’uno dall’altro e servivano per
mettere i bachi che crescevano. Gli sturini erano assi lunghe con
la rete in mezzo dove mettevano dei cartoni e sopra i bruchi con le
foglie di gelso. Finchè i bruchi erano piccoli le foglie venivano
spezzettate finemente. Il mangiare di solito veniva dato due volte
al giorno, ma se c’era bisogno anche di notte.
Era molto importante dar loro da mangiare in abbondanza. I
cartoni venivano messi nuovi e spostati per la pulizia dei bruchi
molto spesso. Era soprattutto mia madre Caterina, che era
diventata esperta, ad occuparsi dei bachi, aiutata dalle altre donne
di casa. Gli uomini pensavano a procurare le foglie raccogliendole
dai mori (i gelsi). Il periodo migliore per allevare i bachi era in
primavera perchè servivano le foglie di gelso che crescevano in
abbondanza. Quando i buchi erano cresciuti si mettevano delle
«frattelle» tra uno sturino e l’altro, che erano dei mazzi di rami di
ginestre o altri rametti dove i bruchi salivano per fare i bozzoli.
Alcuni ricadevano giù perchè la loro crescita non era completa,
morivano ed erano da buttare via.
Il tempo che occorreva per completare l’allevamento era circa di
due mesi e mezzo. I bozzoli si raccoglievano uno ad uno e si
mettevano nei sacchi e portati alla filanda di Arcevia. Io ricordo che
il lavoro dei bachi era impegnativo perchè doveva essere seguito
molto.
ELENA FERRACCI (LUNA LUCARINI)
Io mi chiamo Ferracci Elena e abito a
Colle Aprico di Arcevia. Sono nata il
7/05/1941 a Castelplanio. La mia famiglia
era composta da 8 persone: io, padre,
madre, 4 sorelle e 2 fratelli. Mio padre
era un contadino e anche mia madre,
lavoravano la terra, le viti, il grano, l’ulivo
e i bachi. Mi ricordo quando si allevavano
in casa i bachi da seta perché ci si
poteva fare la seta e venderla per poi
guadagnarci un po’ di soldi. I miei genitori
lavoravano come me i bachi.
L’allevamento dei bachi era previsto dal
contratto di mezzadria, si ordinavano le once di bachi cioè gruppi
di uova che dopo alcuni giorni arrivavano dalla filanda di Arcevia. Il
procedimento per lavorare i bachi era questo: si applicavano dei
montanti a più di un piano, sui montanti si mettevano degli sturini e
ci si appoggiava la carta dove si mettevano i bachi per farli
mangiare, ogni tanto si cambiava la carta per rendere il loro spazio
pulito, dopo finite tutte le età e le mute cioè il cambio della pelle,
iniziava il periodo della metamorfosi.
Negli sturini si mettevano le
frattelle che erano dei rametti per
fargli fare il bozzolo che si portava
nella filanda per trasformarlo in
seta. Nella mia famiglia lavoravano
i bachi sia le donne che gli uomini.
Per raccogliere il gelso si usava la
crinella: un cesto di vimini.
Lavorare i bachi mi piaceva perché
quando erano cresciuti si
prendevano in mano ed erano
molto morbidi e poi era una grande
soddisfazione.
Io sono Brunetti Brunella ed abito ad
Arcevia, sono nata il 26/09/1928 ad Ostra
Vetere. In famiglia eravamo 17 persone:
io, i miei genitori, i fratelli ecc… Mio
padre era un agricoltore, mia madre era
una casalinga. Mi ricordo di quando si
allevavano i bachi da seta perché
venivano nutriti 3 volte al giorno con le
foglie di gelso che venivano raccolte
quando non erano bagnate.
L’allevamento dei bachi da seta era
previsto dal contratto di mezzadria.
BRUNELLA BRUNETTI (LEONARDO CASTIGLIONI)
Le uova si prendevano dal padrone, si allevavano all’interno del
granaio, e di loro si occupavano sia gli uomini che le donne.
I bachi si allevavano nel mese di maggio perchè era il periodo in
cui il gelso era verde, questi venivano messi sopra gli sturini che
sono tavole di legno con sopra il cartone.
Mi ricordo che all’inizio della loro vita i bachi mangiavano poco, poi
via via sempre di più.
Infine si trasformavano in bozzoli che venivano portati alla filanda
di Arcevia dove dal bozzolo si ricavava la seta.
Secondo me l’allevamento dei bachi era un lavoro rilassante
perché non bisognava fare tanta fatica.
TERESA TITTI (MARIA STELLA UGOLINI)
Io sono Teresa Titti e abito a Montale. Sono nata ad Arcevia il
20/11/1939. La mia famiglia era composta da 18 persone: i miei
genitori con 6 bambini (di cui 2 erano del precedente matrimonio di
mio padre, poi rimasto vedovo), i miei nonni e i miei figli. Mio padre
era un agricoltore e mia madre lavorava in casa e nei campi. I miei
genitori allevavano i bachi da seta perché era una fonte aggiuntiva
per guadagnare dei soldi per mantenere la famiglia. Non so se era
previsto nel contratto di mezzadria, ma il guadagno veniva diviso a
metà con il proprietario terriero. Le uova dei bachi si acquistavano
da dei commercianti a Pongelli. Si allevavano nel magazzino di
casa nel periodo di maggio e giugno (prima della battitura) e si
occupavano di loro tutti i membri della famiglia, anche i bambini. Il
periodo era questo perché i magazzini erano vuoti e per la grande
quantità di fogliame disponibile. Per l’allevamento servivano gli
sturini, grossi telai in legno con della rete o traverse in legno, ci si
appoggiavano sopra dei cartoni acquistati appositamente per
allevare i bachi da seta. Le piccolissime larve si acquistavano ad
once (unità di misura del peso), poi venivano disposte sopra gli
sturini e infine venivano ricoperte dalle foglie di gelso. All’ inizio era
importantissimo tenerli al caldo, quindi venivano portati nei
magazzini con i carboni ardenti. Qualcuno teneva le larve in fondo
al letto per riscaldarle con il calore dei piedi. Il tempo di
allevamento era di circa 40 giorni, due periodi di 8 giorni circa
venivano chiamati «la magnarella» perché i bachi mangiavano
tantissimo. Tutta la famiglia era impegnata a «fare la foglia». Il
problema era quando pioveva perché i bachi non potevano
mangiare le foglie bagnate allora si dovevano tagliare i rami del
gelso e metterli ad asciugare all’ interno delle capanne. Alla fine
dei 40 giorni si andavano a tagliare sul monte dei rami sottili che
venivano posizionati sopra gli sturini dove i bachi si arrampicavano
per fare il bozzolo. I bachi che non andavano in seta venivano
chiamate “vacche”. Prima della consegna del baco alla filanda di
Arcevia i bozzoli venivano puliti. A riscuotere andavano o il
padrone o il fattore.
Io mi ricordo che rimanevo tanti minuti a guardare i bachi mentre
mangiavano le foglie. Alcuni bambini a volte si arrampicavano
sulle scale per guardare gli sturini piú in alto, infatti ne venivano
fatte 4 file. Il lavoro dei bachi era ritenuto piacevole tranne nelle stagioni piovose.
ATTILIA NERI (MARCO SERI)
Mi chiamo Neri Attilia e abito in Arcevia. Sono nata il 3/4/1932 in
Arcevia. La mia famiglia era composta da due sorelle, due fratelli,
mio padre e mia madre. Mio padre era un contadino a mezzadria,
mia madre uguale. Mi ricordo quando si allevavano in casa i bachi
da seta perché io e i miei genitori lo facevamo. L'allevamento dei
bachi era un lavoro in più per guadagnare qualcosa. Le uova si
prendevano in un consorzio in Arcevia e si tenevano in casa in
una stanza chiamata bigattiera e si mettevano sugli sturini. Nella
stanza c’era un camino dove bruciavamo legna per fare le braci
che mettevamo in contenitori di ferro o di coccio che poi
mettevamo vicino agli sturini. I bachi venivano allevati da noi
donne, di solito, in primavera o in estate, perchè era più caldo e
c’erano le foglie di gelso. Come strumenti usavamo gli sturini e la
carta paglia. Ogni giorno bisognava allargare il luogo dove
stavano perché crescevano a dismisura.
Siccome crescevano molto, serviva tanto gelso quindi lo
chiedevamo anche ai vicini che non li allevavano. I bozzoli
venivano portati in un sacco alla filanda di Arcevia dove veniva
estratta la seta. L'allevamento dei bachi era molto piacevole
perché per me era molto divertente. A me raccogliere le foglie di
gelso non piaceva tanto, anche perché ho un brutto ricordo, sono
caduta dal moro mentre stavo raccogliendo le foglie per i bachi. Mi
sono ferita tanto alle gambe e sono stata a letto per diversi mesi.
L’incidente era successo a casa di altri contadini, mi ricordo che
mi caricarono su un carretto per portarmi all’ospedale perché
avevo un taglio molto lungo perché cadendo ero caduta sopra una
pietra.
Io però non volevo andare all’ospedale perché ero ragazzina,
avevo 16-17 anni e avevo paura a restare lì da sola. Così mi
portarono a casa e mio padre chiamò il dottor Moriconi che ogni
tanto veniva a pulire e a disinfettare la ferita con l’alcool che
bruciava tanto.
Dopo diversi mesi, però, ancora non riuscivo ad alzarmi così mio
padre chiamò una donna che sapeva aggiustare le ossa perché
avevo dolore anche al ginocchio.
La donna mi curò con l’olio di semi di lino e altre erbe e piano
piano sono guarita. Impiegai circa 6 mesi per ritornare a
camminare. I bachi si vendevano alle filanda da dove le filandaie
uscivano insieme come adesso escono dalle fabbriche.
Allevare i bachi era faticoso perché ogni mattina bisognava
custodirli e andare a fare la foglia.
AUGUSTO MASTRUCCI (CRISTIANO CURZI)
Io sono Mastrucci Augusto e abito a Piticchio. Sono nato in
Arcevia il 29 marzo 1931. La mia famiglia era composta da mio
padre, mia madre, 5 fratelli e 2 sorelle. I miei genitori erano
mezzadri e anche nella nostra famiglia si allevavano i bachi da
seta come previsto dal contratto di mezzadria e quindi il guadagno
veniva diviso con il padrone. Le uova si compravano in once da un
allevamento in Arcevia. I bachi si allevavano in una stanza della
casa chiamata magazzino. Il luogo veniva riscaldato con un
piccolo camino realizzato a mattoni. Il lavoro veniva svolto anche
da noi ragazzi, ma soprattutto dai nostri genitori. I bachi venivano
allevati a maggio perchè in quel periodo le foglie del gelso, unica
fonte di nutrimento dei bachi, cominciavano a germogliare. Gli
strumenti principali erano dei ripiani chiamati sturini dove i bachi
trascorrevano la prima parte della loro vita. Noi ragazzi
procuravamo ogni giorno grandi quantità di foglie perché i bachi
erano molto voraci soprattutto durante il periodo di mangiarella. Il
lavoro più brutto però era quello di pulire i cartoni dagli escrementi
dei bachi. Passati 40 giorni ci procuravamo delle frasche sulle
quali i bachi sarebbero saliti a fare il loro bozzolo. Appena
terminata questa fase il nostro padrone veniva a prendere i bozzoli
che noi avevamo raccolto e li portava alla filanda di Arcevia per
venderli. Il lavoro dei bachi per me era piacevole perché era
soprattutto una fonte di guadagno.
GRAZIELLA SOPRANZETTI (VERDINI LORENZO)
Io sono Sopranzetti Graziella e abito in Arcevia.
Sono nata il 18/01/1938 a Maiolati Spontini. La
mia famiglia era composta da 7 persone: mio
padre, mia madre e 5 fratelli. Mio padre era un
mezzadro e mia madre era casalinga. Mi
ricordo quando in casa si allevavano i bachi da
seta perché anche i miei genitori li allevavano.
L’ allevamento dei bachi era un’attività prevista
dal contratto di mezzadria. Le uova dei bachi ci
venivano portate dal padrone. I bachi si allevano nel magazzino e
di solito erano le donne ad occuparsi di loro. I bachi si allevavano
nel mese di Maggio perchè era il periodo in cui c’erano le foglie di
gelso. Il gelso veniva raccolto con delle ceste di vimini e dovevano
essere asciutte. Per allevare i bachi servivano gli sturini: grandi
telai di legno con della rete. Sopra alla rete ci si mettevano dei
cartoni e poi sopra i bachi. Il cartone veniva cambiato spesso per
rendere il loro spazio pulito. Nel magazzino veniva messa una
stufa a legna per riscaldare l’ambiente perchè i bachi dovevano
stare al caldo. Appena nati i bachi erano piccolissimi poi
crescevano velocemente. Il tempo di allevamento durava poco piú
di un mese. Alla fine i bachi andavano verso i bordi esterni degli
sturini e si arrampicavano su dei rami. Qui facevano il bozzolo.
Una volta raccolti tutti i bozzoli si portavano alla filanda di Arcevia.
L’allevamento dei bachi era un lavoro piacevole perchè era
semplice e poco faticoso.
EMILIANO GOBBETTI (SIMONE GOBBETTI)
Io sono Gobbetti Emiliano e abito a Colle Aprico, sono nato ad
Arcevia il 27/2/1936. La mia famiglia era composta da: mamma,
babbo e nonna. Noi allevavamo i bachi in casa, in una stanza
chiamata “il magazzino”. Questo magazzino veniva attrezzato con
delle impalcature a castello dove venivano messi lunghi bancali di
nome sturini, fuori di legno e dentro di ferro, sotto veniva
appoggiato un cartone di carta paglia dove venivano messi i bachi.
Noi eravamo tutti contadini. Mi ricordo quando si allevavano i
bachi in casa perché bisognava fare molta attenzione altrimenti
morivano. I bachi si allevavano verso il mese di giugno perchè le
foglie di gelso erano verdi e il clima era migliore, in quanto i bachi
dovevano avere una giusta temperatura. La raccolta del gelso era
fatta a mano, le foglie si mettevano in grandi ceste trasportate in
spalla fino a casa. La fase di crescita dei bachi dalla nascita al
bozzolo era di circa 40 giorni, poi, quando i bachi diventavano
grandi, bisognava preparare dei rametti dove i bachi facevano il
bozzolo. Prima che i bozzoli schiudessero bisognava portarli alla
filanda di Arcevia, per ricavare la seta. Ľ allevamento dei bachi era
piacevole perchè era bello vederli mangiare tantissimo, crescere e
alla fine vederli salire sui rami per fare il bozzolo. Una volta, con
grande dispiacere, i bachi morirono e fummo costretti a buttarli via
tutti, ma il motivo per cui sono morti non lo abbiamo mai saputo.
DOMENICO AVALTRONI (CRISTIAN AMBROSINI)
Io sono Avaltroni Domenico, sono nato in Arcevia il 20/5/1945, la
mia famiglia era composta da 10 persone: 4 fratelli, 2 cugini e
rispettivi genitori. Mio padre era contadino mezzadro, mia madre si
occupava dei lavori di casa. Io ero piccolo, mi ricordo poco peró
anche in casa mia si allevano i bachi, perché era previsto dal
contratto di mezzadria. Le uova venivano fornite dal padrone
tramite il fattore. I bachi si allevavano in una stanza della casa
detta magazzino adibito a bigattiera dove venivano messi dei telai
di legno e rete detti sturini, coperti di fogli di carta paglia dove
sopra venivano messe le uova. La stanza veniva riscaldata da una
stufa a legna, che doveva mantenere una temperatura costante.
Dopo la schiusa delle uova questi bachi venivano nutriti con foglie
di moro e tutta la famiglia contribuiva alla loro raccolta compresi
noi bambini. Il periodo di allevamento era maggio, quando si
trovavano le foglie di gelso. Dopo circa un mese o 40 giorni i bachi
facevano i bozzoli che venivano raccolti e riconsegnati al fattore
che a sua volta li portava alla filanda per la lavorazione.
L’allevamento dei bachi per la mia famiglia non era un lavoro
piacevole perché richiedeva moltissima cura e visto che i bachi
non erano di sua proprietà le responsabilità erano maggiori.
FRANCESCO TORRETTI (ALESSANDRO TORRETTI)
Mio nonno si chiama Torretti Francesco ed è nato ad Arcevia il 5
aprile 1924. La sua famiglia era composta dai suoi genitori e tre
fratelli sposati. Suo padre era un agricoltore, la mamma era
casalinga. Nonno ricorda che anche la sua famiglia allevava i
bachi da seta, per guadagnare un poco in più. Mentre gli uomini
lavoravano la terra e accudivano il bestiame, le donne si
occupavano dei bachi. Le uova dei bachi venivano fornite da chi
ritirava i bozzoli. L’allevamento dei bachi era fatto in una stanza
grande (chiamata magazzino) dove c’erano tante intelaiature di
legno, disposte come letti a castello a quattro piani. In ogni piano
dei telai c’erano dei fili di ferro che formavano tutti quadrati, sopra
questi fili si sistemavano le uova dei bachi. Il periodo di
allevamento era primavera inoltrata perchè proprio in quel periodo
le foglie del gelso erano a maturazione giusta. Le donne dovevano
salire sulle piante dei gelsi per raccogliere le foglie e le
sistemavano in contenitori di vimini che erano stati intrecciati dagli
uomini durante l’inverno. Una volta raccolte le foglie e portate a
casa le distribuivano sopra le uova dei bachi. Il lavoro non era
tanto gradito, però si sopportava pensando al ricavo finale. Per
passare dall’uovo al bruco fino alla costruzione del bozzolo,
occorreva circa 40 giorni. Una volta pronti, i bozzoli venivano
sistemati in sacchi di tela e caricati sul carro, trainato da cavalli o
mucche, e consegnati alla filanda di Arcevia. Siccome in quegli
anni qualche volta si verificavano nevicate o gelate anche in
primavera quando era il momento di dar da mangiare ai bachi, non
avendo le foglie dei gelsi a giusta maturazione, veniva raccolta
un’erba, la senape selvatica, che i bachi riuscivano a mangiare.
GINA AGUZZI (JENNIFER AGUZZI)
Io mi ricordo che le uova dei bachi si prendevano dentro la filanda
di Arcevia, dove oggi c’è l’attuale scuola media. I bachi si
allevavano in un magazzino, cioè una stanza dove c’erano i bachi,
i sacchi di grano ecc…; lì dentro la temperatura era costante e si
preferiva una temperatura calda per far sì che i bachi stessero al
caldo. Nella mia famiglia era mia madre che si occupava dei
bruchi, non lo faceva mio padre perchè era troppo impegnato nel
suo lavoro. I bachi si allevavano in primavera o in estate perchè
erano le stagioni dove il gelso non era secco o giallo. Per allevarli
serviva: lo sturino che era una “lettiera” che poteva essere lunga
anche 3 m, costituita da tavole di legno e una rete, e che si puliva
con una pezza umida. Le fasi della crescita del baco erano: dall’
uovo alla larva, dalla larva al baco, dal baco al bozzolo. La
raccolta del gelso si svolgeva così: con una scala si raccoglievano
le foglie che si mettevano in una sacca di iuta e poi si davano in
pasto ai bachi. Io mi ricordo che c’erano degli anni in cui il gelso
non c’era e quindi bisognava andarlo a cercare anche in posti
molto lontani da casa.
Io sono Gina Aguzzi e abito a Santa
Croce, una frazione di Arcevia. Sono
nata ad Arcevia il 25/02/1932. La mia
famiglia era composta da mio padre
Romeo, mia madre Rosa e dai miei 4
fratelli. Mio padre era un operaio e mia
madre invece era casalinga. Mi ricordo
quando si allevavano in casa i bachi da
seta perchè mia madre li allevava. Io e
la mia famiglia non eravamo mezzadri,
però svolgevamo comunque
l’allevamento.
SAVINA GALTELLI (ROMINA MENCARELLI)
Io sono Galtelli Savina e abito a Serra San Quirico. Sono nata il 3
settembre 1947 a Mergo.
La mia famiglia era composta da 5 persone, mio padre ltaliano,
mia madre Gina, le mie sorelle Maria, Elisa e io. Mio padre faceva
il contadino e mia madre la casalinga.L’allevamento dei bachi era
un’attività in più che i miei svolgevano per guadagnare dei soldi. I
miei genitori prendevano le uova a Castelplanio, queste si
mettevano dentro dei cesti fatti con i salici in una stanza della
casa, una volta nati, via via che crescevano venivano posizionati
sopra degli sturini. Ad occuparsi dei bachi erano le donne. Le uova
si prendevano nel mese di aprile perchè incominciava a venire il
caldo. Una volta nati si dovevano raccogliere le foglie del moro
(gelso) e tagliarle fine fine (il pisto) per dar loro da mangiare.
Una volta cresciuti i bachi, si doveva andare a raccogliere i
bastoncini dei protani, che poi venivano montati e formavano un
finto bosco che veniva chiamato «frattelle» dove i bachi si
arrampicavano per fare i bozzoli «per andare in seta». l bachi si
dovevano pulire un volta al giorno. Una volta andati in seta si
vendevano. L’allevamento dei bachi era un lavoro sgradevole
perché a me i bachi facevano schifo.
GINA BELLUCCI (FRANCESCO CAVALLETTI)
Io sono Gina Bellucci, sono nata il 29/12/1929 e abito a
Montecarotto. La mia famiglia era composta da me, mio marito e i
miei tre figli. Mi ricordo quando si allevavano i bachi da seta a
casa. Noi li allevavamo perchè essendo mezzadri lo prevedeva il
contratto. Il nostro padrone era un grande proprietario terriero e
sotto di lui aveva molti contadini. Da noi arrivava un signore del
consorzio agrario a portarci le uova per tutti i contadini. Li pesava
con un bilancino e ad ognuno assegnava la parte di uova che gli
spettava e si misurava in once, chi ne prendeva una, chi mezza a
seconda di quanto spazio si aveva disposizione a casa per farli
crescere.
Noi avevamo un’incubatrice grande, era di legno con vari ripiani
per sistemare gli sturini su cui disponevamo le uova stando attenti
a non mischiarle, perchè poi ognuno sarebbe venuto a prendere le
proprie larve.
Gli sturini erano fatti come dei cassettini con i bordi di legno e il
fondo di carta paglia. Su questi fogli mettevamo le uova e sopra un
altro foglio con dei buchini, così appena nascevano le larve
passavano attraverso i buchi e potevamo prenderli. Per far questo
mettevamo delle foglie di gelso sopra la carta, così loro ci si
arrampicavano, prendevamo le foglie e le mettevamo dentro altri
sturini dove poi sarebbero rimaste fino a quando non facevano il
bozzolo.
L’incubatrice doveva mantenere una temperatura costante e per
far questo c’era un lumino ad olio sotto che riscaldava dei tubi di
rame, dove all’interno c’era l’acqua, che passava tutto intorno
all’incubatrice. All’inizio ai bachi davamo da mangiare foglie di
gelso triturate finemente, poi man mano che crescevano
tagliavamo le foglie sempre più grossolanamente.
Quando vedevamo che iniziavano a mangiare tantissimo (periodo
della magnarella) voleva dire che di lì a poco avrebbero fatto il
bozzolo. A quel punto si preparava una frattella con dei rametti di
vite, per farli salire a fare il bozzolo. Quando questi erano belli
asciutti li staccavamo e li ripulivamo.
Non tutti i bozzoli erano buoni, c’erano quelli di prima e quelli di
seconda scelta, anche in base al colore. Quelli di prima scelta
erano pagati di più. Poi arrivava un signore sempre del consorzio
che li prendeva per portarli alla filanda. Tutti eravamo impegnati
con i bachi e questo non era molto positivo perchè in quei mesi
(marzo, aprile e maggio) nei campi c’era molto da fare e la loro
cura portava via molto tempo. A me non piaceva allevare i bachi
perchè il guadagno era poco e metà era per il padrone.
IL MERCATO DEI BOZZOLI
I contadini che avevano allevato i bachi e avevano i bozzoli
potevano scegliere tra due alternative: venderli direttamente alle
filande o venderli al mercato dei bozzoli che erano istituiti in varie
città. A questi mercati i contadini si recavano con i loro birocci o
carretti trainati dai muli o dai cavalli. Sui carri erano stati caricati i
cesti pieni di bozzoli. I cesti venivano pesati con la bilancia del
mercato. I bozzoli venivano valutati però anche in base alla
qualità. Queste fotografie fanno riferimento al mercato dei bozzoli
di Jesi.
A questo punto il contadino veniva pagato e quando sarebbe
tornato a casa avrebbe dovuto dividere il suo guadagno con il
padrone. Al mercato i bozzoli venivano «stufati» tramite degli
essiccatoi, che erano dei forni che servivano per uccidere le
crisalidi e impedire che il filo venisse ridotto in tanti pezzi e quindi
reso inutilizzabile. I bozzoli essiccati venivano ammassati
all’interno di capannoni ed acquistati a mano a mano dalle filande
dove iniziava il processo di trattura della seta. Anche all’interno
delle filande più importanti esistevano essiccatoi e magazzini in cui
venivano conservati i bozzoli.
LA LAVORAZIONE DELLA SETA
La sericoltura è la produzione della seta e prevede varie fasi che
vengono svolte in filande e setifici. Nella filande si produce la seta
greggia che deve essere ulteriormente lavorata nei setifici. Le fsi
sono:
a) Cernita: selezione dei bozzoli per ottenere filati omogenei.
b) Spelaiatura: il bozzolo è ricoperto da una lanugine, detta
spelaia, che va tolta per poter dipanare il filo.
c) Macerazione: immersione in acqua a temperatura di circa 80
gradi centigradi.
d) Scopinatura: strofinatura con scopine di saggina per trovare il
capofilo e dipanare il filo.
c) Trattura: legato il capofilo ad un aspo, si fa ruotare
quest’ultimo fino a quando il filo viene avvolto in matassa.
Dalla seconda metà dell’Ottocento in molte filande questo
processo viene eseguito da una sola macchina detta
bacinella per trattura. Le bacinelle possono essere alimentate
a fuoco o, nelle filande più evolute tecnologicamente, a
vapore o energia elettrica.
d) Torcitura: il filo così ottenuto è però troppo sottile, così viene
trasferito su dei rocchetti grazie ai quali si può effettuare la
torcitura di più fili per creare un filo più resistente.
Normalmente la macchina, di grandi dimensioni, è disposta
verticalmente in edifici alti e stretti (il torcitoio o filatoio può
essere alto dai 3 ai 5 piani).
e) Sgommatura. Il filo di seta grezza è costituto da due elementi: la
fibroina e la sericina che rende la seta ruvida, poco lucente e
difficile da tingere. Pertanto il filo di seta grezza è sottoposto alla
sgommatura: viene immerso in una soluzione di acqua e sapone
neutro, che è in grado di rimuovere la sericina ad una temperatura
di circa 90° C, e infine viene risciacquato. In seguito al trattamento
la seta risulta morbidissima e molto lucente.
f) Carica: reintegrazione dei principi persi durante le fasi di
lavorazione.
g) Tintura.
h) Tessitura.
Il signor Michele Servadio ci ha raccontato che la famiglia della
sua trisnonna svolgeva l’intero processo di lavorazione della seta
interamente a casa:
«Mia zia Angela Memè, anche se non si ricorda bene, mi ha dato
queste informazioni. La mia trisnonna Agata Monnati e le sue
sorelle avevano una piccola coltura di bachi da seta per uso
proprio e per qualche famiglia vicina.
Tutto si faceva in casa, dall’allevamento del baco alla tessitura.
Quando allevavano più bozzoli del necessario, li portavano alla
filanda di Arcevia.
La seta la tessevano in casa, con un telaio più piccolo fatto a
posta. Si ricavavano piccoli rettangoli di tessuto che venivano
cuciti insieme per farne biancheria intima come le sottovesti.
Naturalmente non erano capi di abbigliamento molto preziosi, ma i
contadini, che non potevano permettersi di meglio, li
consideravano tali».
LAVORARE IN FILANDA
La filanda era l’edificio dove si svolgeva la trattura della seta. Di
solito era un edificio già esistente riadattato a tale scopo. Chi vi
lavorava aveva delle mansioni specifiche.
Le bollitrici, o sottiere o
scopinatrici, avevano il ruolo di
immergere il bozzolo nell’acqua
bollente per sciogliere la colla
che teneva unito il filo e con
uno scopino (un pettine)
doveva trovare il capo del filo
del bozzolo.
Il fuochista o macchinista era
l’unico uomo che lavorava in
filanda e doveva accendere il
fuoco, in modo tale che le
bacinelle fossero belle calde e
pronte per metterci dentro il
bozzolo.
La cernitrice era un’operaia che
veniva assunta per periodi
limitati. Doveva separare i
bozzoli buoni e pregiati da quelli
irregolari, filati male, malati e
doppi ( i bozzoli filati da due
bachi insieme).
La giratora aveva una mansione
semplice ma di responsabilità:
doveva andare in giro a
controllare che le filandaie
facessero il proprio lavoro senza
parlare e senza distrarsi, in caso
di necessità doveva rimproverare
e segnalare al dirigente il
comportamento in modo che
venissero presi provvedimenti
come il pagamento di penalità e
detrazioni dallo stipendio.
La giuntina veniva chiamata dalle maestre per annodare i fili
spezzati dei bozzoli oppure per unire i fili dei bozzoli che erano
terminati.
La maestra prendeva i capi dei fili dei
bozzoli passati dalla bollitrice, li univa
e li infilava nell’aspo dove venivano
filati e torti per realizzare un filo più
grande. Di solito si utilizzavano da
un minimo di 8 fili ad un massimo di
24. Grazie alla sensibilità delle sue
mani doveva rendersi conto della
regolarità dello spessore del filo.
Le operaie che lavoravano al controllo
qualità dovevano controllare che le
matasse prodotte dalle maestre fossero
perfette, se ci fosse stato un calo
eccessivo (uno spreco) o un nodo fatto
male la maestra o la giuntina sarebbero
state penalizzate. Per sapere chi aveva
lavorato bene o male scrivevano su ogni
matassa il nome della filandaia o un
numero a lei corrispondente.
LE CONDIZIONI DI LAVORO IN FILANDA Ogni filanda aveva un regolamento che doveva essere
scupolosamente rispettato dalle operaie.
Per esempio la filanda Girolimini di Jesi aveva un regolamento
chiaro e semplice. L’ orario di lavoro era di 10 ore: dalle ore 6:00
alle ore 9:00, dalle 9:30 alle 13:00, dalle 14:30 alle 18:30, ma
anche dalle 15:00 alle 18:00 con due intervalli per la colazione e
per il pranzo.
Non erano ammessi i ritardi nè all’entrata del lavoro e nè all’ inizio
della giornata e nè in ciascuno dei rientri.
Se un’operaia arrivava in ritardo la punizione era che il giorno
dopo non poteva recarsi a lavoro perdendo così una giornata di
stipendio.
Se una filandaia voleva spostarsi dal posto di lavoro era
necessaria l’autorizzazione della giratora, la responsabile
dell’andamento del lavoro,dell’ordine e della disciplina.
1906 1915 1923 1925 1926 1928 TOTALE
CASALINGHE 3 5 6 3 15 11 43
CONTADINI 2 8 3 6 9 12 40
STUDENTI 3 4 0 2 4 6 19
SETAIOLE 11 8 15 9 14 29 86
La vita delle filandaie era veramente dura, quasi insopportabile e
priva di comodità. Per le donne di campagna diventare filandaie
era un lusso, sia socialmente che economicamente. Invece per le
donne di città era una necessità economica, l’unica alternativa era
andare a lavorare per qualche signore. Oltre agli orari massacranti
si aggiungevano le pessime condizioni di lavoro: ambienti non
salutari, vapore maleodorante, mani immerse per ore nell’acqua
bollente. Le mani erano quasi sempre pieni di scottature che
venivano curate con urina, succo di limone, petrolio, acquaforte e
zolfo. L’ambiente, con condizioni igieniche pessime, era
caldissimo e umido: le setaiole spesso si ammalavano di pleurite
(infiammazione ai polmoni) o di tubercolosi, indebolite dalla
stanchezza e dalla fame, con le mani deformate dall’artrite.
Dalla tabella si può dedurre quante persone di Jesi si siano
ammalate di tubercolosi in alcuni anni. La categoria più colpita era
proprio quella delle setaiole perché in filanda c’era molta umidità.
Fino al 1950 circa molte donne eseguivano il lavoro di trattura
della seta nelle loro abitazioni, pertanto esse subivano le
conseguenze di un ambiente di lavoro molto disagiato che
corrispondeva all’ambiente domestico in cui vivevano.
L’unica cosa che permetteva di tollerare il lavoro era il canto:
quando sonno, fame e stanchezza prendevano il sopravvento, le
setaiole intonavano canzoni corali permesse dal regolamento
perchè a differenza del chiacchierare o del mangiare non
rallentavano il lavoro. In alcuni regolamenti anche la preghiera e il
rosario erano ammesse all’interno della filanda non disturbando la
concentrazione necessaria. Anche le bambine venivano mandate
a lavorare in filanda per aiutare le proprie famiglie pur essendo
proibito dalla legge. In caso di gravidanza le donne rimanevano in
filanda fino al giorno del parto e se dovevano allattare potevano
farlo solo durante le pause concesse.
I CASCAMIFICI
I cascamifici erano industrie che lavoravano il cascame, i residui
dei bozzoli perché a quel tempo nelle filande non si sprecava
niente.
I cascami, arrivati ai cascamifici, venivano pettinati e trattati per
realizzare prodotti come le imbottiture dei materassi.
Nemmeno le crisalidi venivano buttate, ma venivano vendute ad
altre industrie per farne saponi o altri prodotti.
A Jesi c’era un cascamificio molto importante sorto nel 1874.
Dopo aver subito numerose modifiche e ristrutturazioni industriali,
chiuse nel 2001.
Produceva non solo filati in seta pura, ma anche artificiali (viscosa)
e sintetici (poliestere).
Altri cascamicifi si trovavano a Fossombrone e a Fano.
Cascamificio di Jesi
PAESI PRODUTTORI
(Producono il bozzolo e il filo di seta greggia)
CINA - INDIA - BRASILE - UZBEKISTAN -
THAILANDIA - GIAPPONE – VIETNAM
PAESI TRASFORMATORI
(Trasformano la seta greggia in tessuto di pregio)
EUROPA - GIAPPONE - COREA DEL SUD - CINA –
INDIA
PAESI CONSUMATORI
(Acquistano i tessuti di pregio)
USA-CANADA-EUROPA- GIAPPONE
LA SETA NEL MONDO OGGI
COSA SI PRODUCE CON LA SETA
Nell’antichità, come del resto anche oggi, con la seta si
producevano vari tessuti pregiati caratteristici per la loro
lucentezza, leggerezza e trasparenza con cui si realizzavano abiti,
camicie, calze, veli e cappelli.
Le nobildonne esibivano anche preziosi ombrellini di seta per
ripararsi dal sole o ventagli finemente ricamati.
Durante la II Guerra mondiale con la seta si realizzarono anche
paracaduti leggeri e resistenti.
Negli ultimi tempi la ricerca italiana si è occupata delle nuove
applicazioni della seta in campo biomedico, cosmetico e
farmaceutico.
Questo settore, in continua espansione, vede la seta utilizzata
come biomateriale ad alta biocompatibilità per l'uomo e sta
producendo ricerca per la costituzione di lenti a contatto a base di
seta, tendini artificiali, legamenti e protesi vascolari.
LA STORIA DELLA SETA
Lo studio delle epoche preistoriche ha dimostrato che l’uomo, già
nel neolitico, conosceva diverse specie di bachi selvatici e ne
utilizzava i bozzoli.
Il filo che ne ricavava poteva essere usato per ottenere corde e
tessuti.
Testimonianze sono state trovate in Asia (India e Cina), in Europa
(isola greca di Cos) e anche in altri continenti.
Gli uomini primitivi, però, non sapevano allevare i bachi.
LA SCOPERTA DELLA SETA
Varie sono le leggende che spiegano come fu scoperta la seta.
Secondo la leggenda più nota, la scoperta di questa fibra tessile
viene attribuita all’imperatrice cinese Lei-Tsu, moglie del-
l’imperatore giallo, il cui regno durò dal 2697 al 2597a.C.
Lei-Tsu stava prendendo il tè in giardino quando un bozzolo di un
baco cadde nella sua tazza.
Lei-Tsu, infastidita, afferró il bozzolo per toglierlo dal té e osservó
il filo che da esso si dipanava.
Notò che all’interno del bozzolo si nascondeva un baco e capì che
questo si nutriva di foglie di gelso.
Affascinata dalla bellezza del
filo, l’imperatrice chiese al
marito di coltivare il gelso e
allevare i bachi da seta per
trarne quel filo così prezioso.
Così Lei-Tsu divenne la
scopritrice della seta e
l’inventrice del primo telaio per
tesserla. Per questi motivi
l’imperatrice venne divinizzata
con il nome di “Madre del baco
da seta”.
Nacque una tradizione che per
migliaia di anni avrebbe
rappresentato un monopolio
per la Cina, infatti la
bachicoltura e la sericoltura
erano considerati segreti di
stato ed era prevista la pena
di morte per chi li avessero
svelati.
Fino a quando un’altra
principessa non decise di
portarla con sè fuori dal
paese.
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IL SEGRETO SVELATO
Secondo un’altra leggenda fu una principessa cinese, che per
ragioni di stato avrebbe dovuto sposare il re del Kothan (oggi
Turkestan cinese), ad esportare i segreti della produzione della
seta perché non voleva rinunciare ai suoi meravigliosi abiti. La
leggenda racconta che quando il principe la informò dell’assoluta
impossibilità di produrre il prezioso filo, lei decise di passare
all’azione. La principessa, infatti, rubò dai giardini imperiali delle
uova di baco e dei semi di gelso nascondendoli nella sua
elaborata acconciatura nuziale che le guardie non avrebbero
potuto perquisire. Anche nel nuovo regno di cui la principessa
divenne regina si adottò la strategia delle pene severissime per
evitare la diffusione degli allevamenti nelle regioni confinanti e, in
effetti, per secoli la produzione serica rimase custodita fra pochi
regni. Successivamente si diffuse anche in Giappone, Corea e
India.
LA DIFFUSIONE NEL MONDO OCCIDENTALE
Solo dopo le conquiste di Alessandro Magno, i Greci conobbero
questa fibra tessile e iniziarono i commerci lungo una rotta
commerciale che diventerà la famosa “Via della seta”. I Greci
acquistavano la seta non direttamente dai Cinesi, ma dai Persiani
che facevano pagare i dazi sulle merci che circolavano sul loro
territorio. Dalla Grecia la seta si diffuse nel bacino del
Mediterraneo fino a giungere a Roma. Era un tessuto così raro e
prezioso che solo gli imperatori e i nobili più ricchi potevano
permetterselo. Era così costosa che l’imperatore Aureliano nel
275 d.C si rifiutò di acquistare un mantello di seta tinto di porpora
per la moglie. Mentre nel 301 d.C., Diocleziano con un editto
imperiale stabilisce il prezzo della “sfinata materia prima, ancora
oggi desiderata da ogni persona al mondo”.
Gli antichi Romani, anche se indossavano sontuose vesti di seta,
non sapevano come produrre questa fibra.
L’imperatore Giustiniano, secondo la leggenda, inviò in Cina dei
monaci per scoprire il segreto della seta.
Essi nascosero le uova dei bachi dentro le canne di bambù che
usavano come bastoni. Giunti a Costantinopoli nel 550 d.C.,
consegnarono all’imperatore la preziosa merce e svelarono
all’imperatore che la seta proveniva dai bozzoli di alcuni bachi. Le
uova che essi portarono vennero fatte schiudere nel letame.
Da Bisanzio il segreto arrivò in Grecia e da lì si diffuse in Italia.
Questa fonte iconografica fa parte di una raccolta di venti incisioni
intitolata Nova Reperta commissionata a Giovanni Stradano (Jan
Van Der Straet) da Luigi Alamanni, nobile fiorentino, tra il 1587 e il
1589. Le incisioni presentano le "nuove scoperte" dell'epoca
moderna. Tra queste figura proprio la produzione della seta.
Nel VII secolo furono gli Arabi ad importare la bachicoltura in Africa
Settentrionale e nell’VIII secolo anche in Spagna e nell’Adriatico.
Intorno all’anno 1000 il re Ruggero II diffuse l’industria della seta a
Palermo, Messina e Napoli.
Poco dopo, nel 1300, la Repubblica marinara di Venezia riuscì a
carpire il segreto della seta ai bizantini e l’industria serica si diffuse
a Genova, in Lombardia e a Firenze, dove nel 1423 fu ordinata
addirittura la piantagione di gelsi con editti pubblici.
Durante il papato avignonese il Papa Clemente V fece diffondere
la sericoltura in tutta la Francia e ben presto la seta francese fece
concorrenza a quella italiana. Quando i Protestanti vennero
cacciati dalla Francia, l’industria delle stoffe di seta si diffuse in
Inghilterra, in Germania, in Svizzera, in Olanda, per poi
raggiungere l’America e le ultime province della Russia come
l’Ucraina.
LA VIA DELLA SETA
La Via della seta era un percorso lungo circa 8.000 km ben noto
ai commercianti che la percorrevano per acquistare e vendere
merci. Le vie carovaniere attraversavano l'Asia centrale e il Medio
Oriente, collegando Chang'an (oggi Xi'an), in Cina, all'Asia Minore
e al Mediterraneo attraverso il Medio Oriente e il Vicino Oriente. Le
diramazioni si estendevano poi a est alla Corea e al Giappone e, a
Sud, all'India. La Via della Seta fu iniziata nel 114 a.C. e
sopravvisse fino al XV secolo, quando si aprirono le vie marittime.
Non era solo una via commerciale ma anche un potente mezzo di
scambio di informazioni, persone, idee tra il mondo orientale e
quello occidentale. Prendeva il nome dal prodotto che
maggiormente si commerciava, la seta, ma non meno importanti
erano altre merci come le spezie, i cavalli e i metalli preziosi.
MARCO POLO
Nato a Venezia nel 1254
da una famiglia di
viaggiatori, Marco Polo
intraprese il famoso
viaggio verso l’estremo
oriente nel 1271, a soli
17 anni insieme allo zio
Matteo e al padre
Niccolò. Marco Polo
scrisse un libro intitolato
«Il Milione» in cui
racconterà il suo viaggio
e il suo soggiorno presso
la corte dell’imperatore
cinese.
Ecco come Marco Polo descrive la Via della seta: “I mercanti sono costretti ad attraversare vaste zone desertiche,
sabbiose e aride, dove non c’ è nulla che possa servire da cibo
agli animali; i pozzi sono lontanissimi ľ uno dalľ altro tanto che
bizogna fare un lungo cammino per arrivarvi e i cavalli cadono
sfiniti.”
LA SETA NEL MEDIOEVO
Fu nel XII secolo che l’Italia divenne la maggiore produttrice
europea di seta. L’allevamento dei bachi fu un importante reddito
di supporto all’economia agricola e la produzione e commercio di
tessuti divenne un’industria molto redditizia che diede ricchezza e
potere alle corporazioni che praticavano l’Arte della seta, in
particolare nella città di Firenze.
Le corporazioni erano associazioni di tutti coloro che in una data
di città esercitavano lo stesso commercio o lo stesso mestiere.Ne
facevano parte solo i maestri, cioè i proprietari di aziende o
botteghe.
Le corporazioni avevano un forte potere economico e
successivamente anche politico.
Essere iscritti ad una delle Arti riconosciute era indispensabile per
potere ricoprire cariche pubbliche, oltre che per poter esercitare
quel dato mestiere.
I diversi Statuti delle Arti avevano valore di legge. Al fine di evitare
qualsiasi forma di concorrenza, per mezzo di tali Statuti le Arti
esercitavano un controllo totale sull'attività produttiva stabilendo
delle regole, per esempio chi voleva svolgere un certo mestiere
doveva superare dei periodi di prova e di apprendistato e chi
voleva aprire bottega doveva pagare gravose tasse. Queste
associazioni vietavano che un loro appartenente potesse svolgere
attività nell'ambito di un mestiere diverso, prescrivevano fin nei
minimi dettagli le modalità di fabbricazione e di vendita dei prodotti
impedendo qualsiasi innovazione, avevano il diritto non solo di
impedire la concorrenza estera, ma anche di vietare ad altri la
fabbricazione e il commercio degli stessi prodotti in altre zone
della stessa città.
Ogni città aveva un numero diverso di Arti Maggiori e Minori, però
l’Arte della seta era sempre annoverata tra le Arti Maggiori. A
Firenze, per esempio, esistevano 21 arti, di cui sette Arti Maggiori e quattordici Arti Minori. Le arti maggiori, come dice la parola stessa, erano quelle di
maggiore importanza ed erano le seguenti: Arte dei Giudici e dei
Notai, dei Mercatanti, del Cambio, della Lana, della Seta, dei
Medici e Speziali, dei Vasai e Pellicciai.
Le Arti Minori erano quattordici:
Arte dei Beccai, dei Calzolai, dei Fabbri, dei Maestri di Pietra e di
Legname, dei Linaioli e Rigattieri, dei Vinattieri, degli Albergatori,
degli Oliandoli e Pizzicagnoli, dei Cuoiai e Galigai, dei Corazzai e
Spadai, dei Correggiai, dei Legnaioli, dei Chiavaioli e dei Fornai.
LA SERICOLTURA NEL RINASCIMENTO
Anche nel Rinascimento la produzione della seta continua ad essere praticata. Il noto pittore Giuseppe Arcimboldo, nato a Milano il 5 aprile 1526 e morto l’ 11 luglio 1593, illustrò un trattato sulla sericoltura raffigurando le varie fasi della produzione della seta.
«Qui si coglie la foglia del moro biancho per i vermi detti bigatti»
Nella prima illustrazione alcune donne stanno selezionando le foglie di
gelso, nella seconda invece due ragazze si prendono cura dei bachi che
venivano chiamati anche «bigatti».
Curiosa la notizia scritta nella didascalia e confermata anche da
testimoni di Arcevia, cioè che le donne erano solite tenere tra i seni le
uova di baco per farle schiudere con il calore del proprio corpo.
Ill. n. 2:«Questo capitolo dimostra la semenza del bigatto va verso la
primavera quando il tempo è caldo le femmine pigliano il seme e se lo
mettono nel seno e con quel calore la si comenza a movere tenendola a
loghi più caldi e temperati che a loghi fredi il semo è di questa grossezza
e quando quel bigatto o vermino è nato e che poi fa la galla è di questa
grossezza et facione. La galla è di tal grossezza come qui si vede»
In tutte le Marche, sotto lo Stato Pontificio, s’incominciò ad
assegnare premi per incoraggiare i contadini marchigiani ad
estendere le piantagioni di gelso e ad ampliare le bacherie o
bigattiere, appositi ambienti attrezzati per l’allevamento del baco
da seta. A lungo però i bachi vennero allevati nelle bigattiere delle
case coloniche, solo alla fine del 1800 nacquero le prime bigattiere
a livello industriale situate nelle città dove c’era manodopera
abbondante.
Due ragazze stanno distribuendo
il gelso ai bachi appena nati sugli
sturini.
Una ragazza immerge le mani
nell’acqua bollente riscaldata da
un piccolo forno a legna e sta
prendendo i bozzoli.
Una donna sta torcendo la
matassa di seta per
confezionarla.
Due uomini stanno
imballando le matasse di
seta.
Il filo delle matasse veniva
incannato e portato al filatoio.
Nel filatoio idraulico,
funzionante grazie ad
ingranaggi mossi dall’energia
dell’acqua, venivano inserite
le canne con i fili di seta. Nel
filatoio più fili di seta venivano
torti tra loro per farne uno più
spesso e resistente che veniva
avvolto in nuove matasse che
infine venivano tinte e tessute.
LA SERICOLTURA DAL 1700 AD OGGI
Verso il Settecento le Corporazioni delle arti e dei mestieri
entrarono in crisi a causa delle imposte eccessive e della
mancanza di tecniche evolute. Al contrario il settore della
sericoltura venne favorita da vari elementi, tra cui la diffusione di
trattati e studi scientifici pubblicati allo scopo di modernizzare le
tecniche di gelsicoltura, bachicoltura e trattura della seta.
Nell’Enciclopedia delle Scienze, delle Arti e dei mestieri di Diderot
un capitolo è dedicato proprio a questi argomenti.
Anche in Italia si diffusero enciclopedie simili a quella francese,
anche se non così vaste. Un esempio è «Il Dizionario delle Arti e
de’ mestieri» di Francesco Griselini (Venezia 1768) che ha
interessanti incisioni riguardanti la bachicoltura.
Quando si diffusero anche in Italia le idee illuministiche e un
nuovo interesse per le scienze, anche i proprietari terrieri
cercarono di adottare nuove tecniche di coltura del baco che
migliorò la resa dei bozzoli. Bisognerà però aspettare la seconda
metà del XIX secolo, grazie al processo di industrializzazione e
all’invenzione delle macchine a vapore, per assistere alla nascita
di grandi filande in varie città, anche nelle Marche.
Inoltre in questo secolo nacquero delle Accademia agrarie che
permisero di perfezionare la gelsicoltura, adottando trattamenti
chimici delle foglie di gelso, e la bachicoltura per ridurre l’alta
mortalità dei bachi dovuta a malattie e alle cattive condizioni
igieniche delle bigattiere che necessitavano di metodi di
disinfezione.
Tav. 2 - Educazione de'
Bachi da Seta.
LE FILANDE NELLE MARCHE
Fossombrone, Osimo e Jesi furono le città che maggiormente si
dedicarono alla sericoltura. Jesi era soprannominata «piccola
Milano» perché agli inizi del ‘900 aveva varie industrie: 12 grandi
filande che occupavano 1055 operaie, un cascamificio che
impiegava 360 persone, una fabbrica di fiammiferi, un lanificio,
una cartiera, due fornaci e tante altre piccole fabbriche. La prima
filanda di tipo «industriale» venne realizzata da Pasquale Mancini
nel 1837, la seconda nel 1844 dalla famiglia Balleani. Nel 1876
erano attive 9 filande di medie e grandi dimensioni e almeno altre
7 di minore importanza.
Ad incentivare il settore industriale della seta era stata l’istituzione
del mercato dei bozzoli nel 1834 che in breve diventò il più
importante della zona.
Nella Marche, in provincia di Ancona, c’erano due filande anche a
Corinaldo, tre a Cupramontana, una delle quali appartenente a
Sesto Giovannetti che ne possedeva un’altra ad Arcevia insieme a
Vici, una a Monte Roberto, una a Polverigi, un’altra a Majolati
Spontini, una a Falconara Marittima, una a Ostra e un’altra a
Senigallia.
Su tutto il territorio regionale fiorivano filande di diverse
dimensioni, alcune avevano un’organizzazione industriale, altre
erano a conduzione familiare.
Tutte subirono un grave declino dopo la II guerra mondiale per
diversi motivi:
- abbandono delle campagne e della gelsicoltura a seguito del
processo di urbanizzazione e industrializzazione;
- mancanza di manodopera femminile dovuta anche al fenomeno
migratorio;
- diffusione di fibre tessili sintetiche come il nylon che era meno
costoso e di più facile produzione.
A Senigallia la filanda occupava il palazzo che tuttora si affaccia in
piazza Garibaldi, appena rinnovata.
Questa antica fotografia mostra la filanda Ponzelli di Jesi con la
ciminiera fumante che con i suoi vapori inquinava il cielo
sovrastante la città.
In basso delle filandaie stanno tornando a casa dopo il lavoro. Nel
1907 le setaiole, per rivendicare migliori condizioni di lavoro,
organizzarono uno sciopero durato 45 giorni dopo essersi unite in
leghe- Esse furono sempre in prima linea per chiedere aumenti del
salario e una riduzione dell’orario di lavoro che nel 1911 era ancora
di 10 ore (prima era di 14 ore).
Lungo la strada Arceviese
che collega Arcevia a
Senigallia, c’è la località di
Pongelli, in frazione di
Ostra Vetere. La località
prende il nome dal conte
Pongelli e l’edificio rosso
che si osserva ancora
oggi al semaforo era
un’antica filanda fondata
dal nobile nel 1835.
Questa filanda venne ammirata da molti perché funzionava con
modernissime 16 caldaie a vapore, quando ancora a Jesi solo 3
filande di Jesi delle 7 si avvalevano della stessa forza motrice,
mentre 3 andavano con dei rotori e una a forza d’uomo. Le caldaie
erano utilizzate da 25 maestre di Fossombrone, 25 donne di
Corinaldo e 8 di Montenovo. Il rendimento della filanda però fu
molto incostante nel corso della sua storia ed ebbe fine dopo la II
guerra mondiale. Le sue vicissitudini
sono raccontate nel diario intitolato
«Miscellanea veritas» manoscritto da
Francesco Procaccini, cinquantenne
signorotto di campagna che da Monte
San Vito si trasferì ad Ostra Vetere
per seguire gli affari di famiglia.
Anche lui faceva allevare i bachi da
seta e, stimando il conte Pongelli, ne
registrava anche la vita e gli affari,
diventando così una preziosa fonte
sulla bachicoltura e sericoltura della
zona dal 1815 al 1840.
Vicolo della filanda ad Ostra
LA RICERCA D’ARCHIVIO
Noi alunni della classe VA ci siamo recati all’Archivio Storico
comunale di Arcevia per cercare dei documenti sulle antiche filande
di Arcevia. L’Archivio è una stanza contenente documenti antichi e
importanti.
Appena siamo entrati abbiamo visto degli enormi scaffali divisi in
anni e categorie. Ogni documento era chiuso in una cartella,
ognuna con un argomento diverso. Siamo stati divisi in due gruppi
per essere meglio seguiti durante l’attività di laboratorio. I due
gruppi, su indicazioni della maestra che precedentemente aveva
effettuato una visita all’archivio per selezionare il materiale,
dovevano cercare e leggere attentamente dei documenti su alcune
antiche filande esistenti in Arcevia nei secoli scorsi. Noi eravamo
molto curiosi e durante questa attività ci siamo stupiti di aver
trovato tante fonti storiche sull’argomento.
Noi alunni abbiamo potuto portare alla luce richieste di affitto di
gelsi di proprietà del comune, manifesti del mercato dei bozzoli,
richieste dei filandieri, ecc…
Successivamente abbiamo analizzato e inserito i documenti in
una tabella registrando l’anno e l'argomento. Più tardi, dopo aver
terminato il lavoro, siamo tornati a scuola dove abbiamo
continuato l’attività nelle lezioni successive scrivendo brevi
didascalie sulle fonti trovate che avevamo fotografato e
fotocopiato.
È stata un’esperienza fantastica perché abbiamo approfondito
meglio l’argomento delle filande del nostro paese.
Nelle pagine successive troverete il lavoro che abbiamo svolto.
Quando siamo andati all’Archivio di Arcevia abbiamo trovato
diversi documenti nel Fondo Severini che riguardano la
gelsicoltura e la bachicoltura
Il Fondo Severini è una raccolta privata di documenti appartenenti
alla famiglia Severini, una famiglia proprietaria terriera della
frazione di Santo Stefano, che aveva molte terre date in affitto a
vari coloni.
Tra questi documenti si trovano i Registri contabili del fattore,
l’uomo che gestiva gli affari del signor Severini.
Nel primo foglio del registro ci sono scritte le spese per dei bozzoli
che erano costati 83,50 lire, nel secondo foglio quelle per 95 Kg di
foglie di gelso che erano costate 0,12 lire al Kg. I bozzoli erano
stati acquistati da Mancini. Inoltre vengono registrate anche le
spese per l’acquisto di n.7 mori-gelsi.
Ci ha interessato molto il costo delle foglie di gelso per i bachi
sulla quinta riga del terzo foglio, dove c’è scritto che il 26 maggio
1938 il colono Gentilini aveva venduto 158 Kg di foglie di gelso a
23 lire al quintale. Abbiamo capito che esisteva un vero e proprio
commercio della «foglia» di gelso, necessaria a far crescere i
bachi.
Gambarini Giuseppe-1721-Pinacoteca di Bologna
Molti documenti riguardano l’affitto di gelsi che erano situati su
terreni di proprietà comunale. L’amministrazione prima effettuava
una perizia del numero delle piante disponibili nelle varie frazioni,
poi emanava un bando pubblico in cui invitava i contadini
interessati a proporsi per trattative private.
Un documento che risale al 20 febbraio 1894, firmato dal sindaco
di Arcevia, è una perizia tecnica da cui possiamo ricavare
informazioni su quanti lotti di terra e gelsi di proprietà comunale
erano disponibili nelle frazioni:
• A Piticchio 2 lotti di terra e 6 gelsi;
• Ad Arcevia 1 lotto di terra e 73 gelsi;
• A Loretello 3 lotti di terra e 10 gelsi;
• A Montale 4 lotti di terra e 9 gelsi;
• A Palazzo 9 lotti di terra e 10 gelsi;
• A Castiglioni 6 lotti di terra e 5 gelsi.
L’elenco delle piante disponibili ha anche la somma per le spese e
la somma con cui si apre l’incanto, cioè l’asta pubblica.
Questa perizia è seguita, sei giorni dopo, da un avviso alla
cittadinanza per invitare i bachicoltori a recarsi al Comune per
contrattare l’affitto per la sfrondatura dei gelsi di proprietà
comunale.
Il 9 marzo 1894, dopo circa un mese, il signor Massi Pietro
propone l’affitto della sfrondatura dei gelsi presenti a Castiglioni
per il triennio 1894-95-96 al costo di lire 14 l’anno. Fa sottoscrivere
il documento ad un testimone: Malpini Diego.
Risale al 1898 una richiesta di riduzione della quarta parte della
quota d’affitto dei gelsi comunali della frazione di Loretello.
Francesco Politi di Nidastore, avendo avuto una diminuzione del
prodotto a causa «di un infortunio terribile», però, non otterrà una
risposta positiva.
In un altro documento risalente al 1950 scritto da Belardinelli Luigi
si chiede ancora al Comune la concessione delle foglie di gelso
delle piante di proprietà comunale della frazione di Loretello.
Nella risposta, prima scritta a mano e poi a macchina, si concede
l’autorizzazione al costo di lire 100 annue a condizione che non
vengano danneggiate le piante o tagliati i rami.
MUNICIPIO DI ARCEVIA - AVVISO - Con la primavera dell’ anno
corrente essendo disponibili i gelsi di proprietà comunale siti nel
capoluogo e tutte le frazioni, questo Municipio è in caso di cederne il
diritto di annunciare sfrondatura a condizioni da convenirsi mediante
trattativa privata.
A tale uopo si rende noto che la perizia relativa trovarsi depositata
presso il segretario comunale presso il quale si presenteranno pure i
relativi progetti per essere sottoposti alla Giunta per la loro
accettazione.
Il tempo utile per tale edizione scade il 10 marzo P.V.
Arcevia 26 febbraio 1894- IL SINDACO
ONOREVOLE SIGNOR SINDACO
Arcevia 9 marzo 1894
Il sottoscritto Massi Pietro dichiara di essere interessato ad assumere
l’acquisto della sfrondatura dei gelsi nella frazione di Castiglioni per il
triennio 1894-95-96 al pagamento di lire 14 annue come al relativo
capitolato. Presenta per l’adempimento dei patti per la sicurtà Diego
Nalpini che unitamente si sottoscrive. Pietro Massi Nalpini Diego
Senigallia 19 luglio 1938. Preg. sign. Carlo Severini Arcevia.Scuserà
tanto dell’incomodo che le reco. Siccome il colono Conti Pietro dovrei
dargli disdetta per non poter più rafrontare i suoi vizzi ora mi sta
piantando delle grane «mi dice che la bigattiera dei bachi è tutta sua»,
dove invece lei ci diceva che era per metà, veramente prima diceva che
era per metà oggi alla stima dice che è sua. Lei rammenta bene che è a
metà come pure l’impianto d’acqua nella stalla insomma me ne ha fatte
vedere di tutti i colori. Ora da lei solo due righe e dire la verità come mi
aveva dichiarato. Anticipo ringraziamenti. Olivetti Giovanni
Questo documento risale al 19 Luglio 1938 ed è una richiesta di
testimonianza scritta dal signor Olivetti Giovanni e inviata al signor
Carlo Severini. Olivetti Giovanni si lamentava del suo colono
Conti Pietro perché «gli stava piantando delle grane», e voleva
sbarazzarsi di lui, ma al momento della stima della bigattiera Conti
Pietro si ostinava ad affermare che la bigattiera era tutta sua e
prima di andarsene voleva il denaro corrispondente all’intero
valore della bigattiera, mentre Olivetti era disposto a dargliene la
metà.
Il 10 aprile 1935 il Podestà fa affiggere un manifesto in cui sollecita
l’attività della bachicoltura al fine di ottenere anche un ammasso di
bozzoli locale che permetterebbe agli allevatori di risparmiare sulle
spese di trasporto sostenute per raggiungere i mercati dei bozzoli
che non erano facili da raggiungere. Inoltre informa che il Governo
Nazionale aveva ripristinato il premio di lire 1 per ogni kg di bozzoli
prodotti.
Inoltre viene definito «delittuoso» il taglio dei gelsi.
Con un documento successivo, il Podestà, anche su richiesta
dell’Istituto Centrale di Statistica, chiede a tutti coloro che
allevavano i bachi di fare denuncia recandosi al municipio e
dichiarare nome e cognome, luogo dell’allevamento, numero di
once di seme allevato e il quantitativo di bozzoli ottenuto.Se il
l’allevatore aveva un contratto di mezzadria la denuncia sarebbe
spettata al proprietario.
Tutto questo doveva essere svolto entro il 10 luglio.
Il documento successivo rappresenta la risposta all’Ente nazionale
serico da parte del podestà.
Le informazioni sono interessanti: gli allevatori nel comune di
Arcevia erano 161, i bozzoli prodotti erano 8.891.900 kg e il
rendimento medio per ogni oncia di seme era di 73,86 kg.
A questo scopo, sempre nel 1935, il Podestà fece stilare anche un
registro, di cui abbiamo riportato solo due pagine, dove vi sono
scritti dei dati molto importanti sulla bachicoltura arceviese, cioè: il
nome e cognome e la residenza del proprietario del fondo, nome e
cognome e residenza dei 161 bachicoltori, once di seme
acquistato, kg di bozzoli prodotti. Gli allevatori si trovavano in tutte
le piccole frazioni del comune di Arcevia.
Non tutti i coloni allevavano la stessa quantità di bachi e coloro
che acquistavano le stesse once di seme potevano ricavare
quantità diverse di bozzoli, per esempio Salvioni Enrico e Lazzari
Giuseppe avevano comprato 8 once di semi, ma il primo ne aveva
ricavato 73 kg e 600 g di bozzoli, mentre il secondo solo 61 kg e
900 g.
Questo dipendeva molto probabilmente dal tipo di seme e
dall’alimentazione del baco.
I documenti successivi testimoniano la presenza di molti mercati
dei bozzoli nei dintorni di Arcevia: a Jesi, Osimo, Fano, Macerata,
Pergola, Fossombrone e Senigallia. Sono dei manifesti che
venivano appesi per tutto il paese e risalgono tutti al 1914 ed
informavano che il mercato dei bozzoli si sarebbe svolto nei mesi
di giugno e luglio.
Un documento del 1883 conferma che anche ad Arcevia vi era un
mercato dei bozzoli.
Osservando i documenti ricaviamo l’informazione che il mercato
che era più conveniente per i bachicoltori era quello di Pergola
perchè offriva prezzi migliori.
Bollettino finale
risalente al 1883 che
documenta
l’esistenza di un
mercato dei bozzoli
anche in Arcevia.
fonti documentarie
Questo documento risale al 1935, cioè al periodo fascista. Il
sindaco di Arcevia chiede al Presidente del Consorzio provinciale
agrario di costituire un ammasso di bozzoli per favorire
l’allevamento di bachi perché i contadini, oltre a pagare il prezzo
iniziale del seme dei bozzoli, avrebbero dovuto pagare anche il
trasporto per la vendita dei bozzoli in ammassi lontani. L’obiettivo
era diminuire le spese dei bachicoltori.
Questo documento risale al 22 marzo dell’anno 1950.
Il Prefetto decise di organizzare un raduno per le propaganda per
riprendere l’allevamento del baco da seta. Questo significa che la
bachicoltura era già un’attività che non era più così diffusa come lo
era precedentemente.
LE FILANDE ARCEVIESI
In archivio abbiamo scoperto che in Arcevia esistevano numerose
filande che permettevano a tante donne di guadagnare qualche
soldo e contribuire al reddito familiare.
Le informazioni che abbiamo trovato non sono complete ma
dimostrano l’esistenza di una realtà industriale particolarmente
vivace.
Qualche volta abbiamo trovato solo accenni o piccoli riferimenti,
ma anche questi sono stati importanti. Ecco l’elenco delle filande:
.
• filanda Simoncelli
• filanda Fioravanti
• filanda Moscatelli
• filanda Romani
• filanda Vici-Giovannetti
Esse non furono tutte contemporanee e con la nostra piccola
ricerca non siamo riusciti a risalire all’anno di apertura e all’anno di
chiusura di ciascuna di esse, però abbiamo scoperto ugualmente
tante cose curiose e interessanti.
La filanda di cui ancora si ha maggiormente memoria storica è
quella di Giovannetti-Vici di cui siamo riusciti a trovare fonti orali,
scritte e iconografiche, grazie alle fotografie, ai documenti e a
diverse testimonianze.
Quest’ultime ci sono state fornite gentilmente da alcuni eredi della
famiglia Giovannetti, altre sono state ricavate da interviste che ci
hanno rilasciato a scuola la signora Paola Pittori e la signora
Tosca Camillucci, l’unica filandaia ancora capace di ricordare
lucidamente la sua esperienza lavorativa.
Molto interessante anche la testimonianza di Mario Mancinelli,
figlio di una filandaia, che grazie alle sue memorie ci ha permesso
di comprendere meglio la vita di chi tanto tempo fa lavorava alla
filanda.
LA FILANDA VICI-GIOVANNETTI
VERA COSTETTI
Io sono Vera Costetti e mia madre era la figlia di Sesto Giovannetti
che fondò insieme al suo socio Vico Vici, che faceva parte di una
delle famiglie più in vista della zona, la società Vici - Giovannetti.
Insieme aprirono tre filande: una in Arcevia, una a Cupramontana
e una Serra San Quirico.
Mia mamma Dora si sposò con Sergio Costetti, anche lui
impiegato come direttore della filanda di Cupramontana.
Non ricordo bene l’anno preciso in cui fu fondata la filanda Vici -
Giovannetti, mi sembra intorno alla fine degli anni ’20. A quei tempi
c’era una forte richiesta di seta sul mercato perché ancora non
esistevano in commercio le fibre sintetiche, quindi prodotti eleganti
come tessuti per vestiti, calze da donna e camicie venivano
realizzati con questa fibra naturale.
La filanda era situata all’interno di un vecchio convento di suore di
clausura, dove oggi ci sono i locali delle scuole medie ed
elementari, ma i cambiamenti architettonici sono stati così grandi
nel corso del tempo che oggi non saprei più orientarmi. Nello
stesso edificio era situata anche l’abitazione dei miei nonni.
Ricordo che all’interno della filanda c’erano diversi locali. Quando
si entrava c’era una scrivania con una segretaria, era simile ad
una reception. In basso c’era il magazzino dove si allevavano i
bachi. C’erano dei grandi tavoli di legno dove i bachi crescevano
alimentandosi con le foglie di gelso. Mi ricordo il suono che
producevano tutti insieme mentre mangiavano avidamente le
foglie. I bachi non dovevano sfarfallare altrimenti avrebbero
spezzato il filo uscendo dal bozzolo, quindi i bozzoli venivano
raccolti e portati in un’altra stanza dove c’era l’essiccatoio. I
bozzoli prodotti dalla stessa filanda erano pochi, quindi venivano
acquistati anche dai contadini che li producevano nelle loro case
coloniche. Mi ricordo che mio papà si recava ad acquistare i
bozzoli anche in Veneto dove c’era “l’ammasso”, perché in quella
regione se ne producevano in enormi quantità.
Fila
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pra
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na
Prima di essere portati nell’essiccatoio si faceva la cernita dei
bozzoli, cioè alcune donne selezionavano i bozzoli migliori.
L’essiccazione consisteva nel mettere i bozzoli dentro dei forni.
Era un procedimento che durava 12 ore, attraverso un getto di aria
calda ad una temperatura di circa 80° e serviva ad uccidere le
crisalidi per impedire che sfarfallassero.
Per questo motivo, anche se i bachi si allevavano solo nel periodo
primaverile, il lavoro in filanda non era stagionale perché i bozzoli
c’erano tutto l’anno. I forni venivano alimentati da una caldaia a
carbone e la sua manutenzione era cura di un fuochista, l’uomo
che si occupava anche del suo funzionamento e di eventuali
riparazioni. A quei tempi il fuochista era Alfonso Giovagnoli. La
caldaia serviva anche a riscaldare l’acqua delle bacinelle che si
trovavano al piano superiore. Qui c’era un grande stanzone con
un impianto dove c’erano diverse bacinelle piene di acqua quasi
bollente dove venivano immersi i bozzoli.
L’acqua calda scioglieva la colla che il bacco aveva prodotto per
rendere compatto il bozzolo costituito da un unico filo. Di fronte ad
ogni bacinella c’era una filandaia che aveva il compito di trovare il
capo del filo. Era il lavoro più faticoso e ricordo che spesso
chiedevo a mio nonno come facessero le filandaie a sopportare il
dolore provocato dall’acqua che scottava. Mio nonno mi
rispondeva che la pelle delle donne alla fine si abituava e
diventava callosa. Del resto era un lavoro che si poteva fare solo
in quel modo, senza indossare dei guanti che avrebbero impedito
alle donne di avere la sensibilità necessaria per trovare il capo del
bozzolo. In questa stanza l’attività richiedeva precisione e
massima velocità, le donne non potevano permettersi distrazioni o
perdersi in chiacchiere. Era permesso loro solo intonare dei canti
che nelle giornate estive, quando le finestre venivano aperte, si
sentivano in varie parti del paese. Più fili venivano attorcigliati
insieme e avvolti nei rocchetti. Poi i rocchetti venivano passati ad
un altro reparto. Qui altre donne si occupavano di trasformare i fili
in matasse. Era un lavoro meno faticoso, le filandaie potevano
scambiare qualche parola, addirittura potevano fare una pausa per
la merenda. Inoltre erano meglio retribuite, quindi si può
immaginare un po’ di rivalità tra loro e le donne del primo reparto.
Le matasse infine venivano imballate ed erano pronte per essere
vendute.
Nella filanda di Arcevia lavoravano circa trenta donne e una si
occupava della contabilità.
Mi ricordo che dentro la filanda c’era anche una stanza per
allattare. I proprietari inoltre, siccome durante il periodo fascista
non si lavorava di sabato, talvolta organizzavano delle gite per le
filandaie, per esempio al mare di Senigallia.
Le donne lavoravano tutte in regola e per quanto io ne sappia non
c’erano forme di sfruttamento, anche se il lavoro era duro. Con il
loro stipendio le donne contribuivano al reddito familiare pertanto
era un’opportunità che nessuna donna si sarebbe lasciata
scappare.
Durante la II Guerra mondiale la filanda non interruppe mai la sua
attività, ma fu anche protagonista di un evento spiacevole. I
tedeschi fucilarono, proprio sotto le mura della filanda dei
partigiani. Una delle filandaie, che dalla finestra aveva assistito alla
scena, gridò: -Assassini!- I tedeschi infuriati entrarono nella filanda
per punire chi aveva osato insultarli, ma nessuno fece la spia,
inoltre i miei genitori cercarono di dissuaderli offrendo loro vino e
caffè, così i tedeschi se ne andarono senza vendicarsi, ma fu un
momento di vero terrore. Prima della ritirata, i tedeschi cercarono
di distruggere le strutture interne della filanda, ma mio nonno riuscì
a rimetterla in piedi ricevendo anche un risarcimento dallo stato per
i danni subiti. La filanda venne chiusa intorno alla metà degli anni
’50, perché la richiesta di seta era fortemente diminuita con la
diffusione sul mercato delle fibre sintetiche che avevano un costo
di produzione nettamente inferiore. Mio nonno insieme a mio papà
però avevano un forte spirito imprenditoriale e decisero di aprire
negli stessi locali uno scatolificio. Questa attività non durò molto a
causa della posizione geografica di Arcevia che non era
particolarmente raggiungibile e di certo non facilitava le vendite.
Infine mio nonno si trasferì a Roma dove, insieme a dei soci,
ritornò all’edilizia in pieno boom economico. Purtroppo fu un
fallimento anche a causa della prematura morte che avvenne a
Roma nel 1961. Le sue spoglie vennero tumulate nel cimitero di
Arcevia, così come lui aveva desiderato.
CARLO COSTETTI
Raccontare eventi che hanno avuto
luogo più di 70 anni non è facile. Io li ho
appresi dai racconti emozionati
e nostalgici di papà che a quell'epoca
era poco più che un bambino. Arcevia
durante la Guerra era un centro di
assoluta importanza......come spesso lo
è stato nella sua storia che si perde
nella notte dei tempi.
La sua posizione di passaggio verso
l'entroterra Fabriano e Roma ne faceva
un punto strategico importante anche
nelle cartine topografiche di Guerra.
Più volte la città di Arcevia fu in predicato di essere fatta brillare
per bloccare il passaggio o offrire esempio contro le azioni dei
partigiani
Le camionette delle SS erano spesso ospiti, non sempre
desiderate, delle strade della Città.
Capitava che alcuni soldati tedeschi venissero a bussare in filanda
o a casa per avere qualche cosa da mangiare.......
La fame spesso fa esprimere il peggio all' umanità soprattutto in
tempi di guerra.
Papà raccontava che, quando venivano a fare visita, per
ingraziarseli, veniva offerto loro pane un po' di salame e lardo di
cui erano ghiotti; questo calmava gli animi più violenti fornendo gli
apporti calorici che segnano in alcuni casi la differenza tra la
lucidità di pensiero e la cieca cattiveria fine a se stessa.
La prima società delle Filande venne costituita da Sesto
Giovannetti con Avv. Segoni. L'esperienza fece nascere presto
dissapori molti forti e si addivenne a soluzione finale con la
creazione di una nuova società costituita dal Giovannetti con Vico
Vici. Questa volta la comunanza di intenti e visione imprenditoriale
si cementò in un matrimonio di fiducia e rispetto reciproco
che portò a grande successo di crescita economica negli anni a
venire.
Le Filande di Sesto Giovannetti erano due, la principale in Arcevia
(la più importante e longeva attiva dal 1923 al 1958) nel luogo in
cui ora è edificato lo stabile che ospita la scuola media e l'altra a
Cupramontana.
Del vecchio edificio in Arcevia è sopravvissuto soltanto il
campanile in mattoni rossi che ancora oggi richiama un passato
dalle differenti origini; lì infatti sorgeva un importante monastero di
Clarisse.
Papà spesso narrava della maledizione della vecchia Badessa. Il
Monastero era stato infatti ovviamente sconsacrato e consegnato
ad uso civile.
Lo stabile era stato sventrato per poter installare tutte le macchine
e le vasche utili per il ciclo di lavorazione dal bozzolo fino al
prodotto finale della seta.
Si diceva che lo spirito della vecchia Badessa, offeso da tale
situazione di oltraggio, vagasse senza avere pace nei locali della
Filanda. Certo questa era sicuramente una leggenda ma una cosa
effettivamente strana si verificava puntualmente. Allo scoccare
della mezzanotte, come in tutte le vicende di spiriti che si
rispettino, ecco che strani rumori di sfregamento di stoviglie si
sentivano provenire dai locali sotterranei che anticamente
ospitavano le cucine del convento.
Nonno Sergio Costetti, curioso e pragmatico per natura, aveva più
volte provato a capire cosa o chi provocasse quei rumori; più
volte decise improvvise incursioni per scoprire l'origine di tali
rumori. Purtroppo nel momento in cui scendeva le scale a
chiocciola che conducevano nel locale delle cucine ecco che
immediatamente calava l'assoluto silenzio. Bastava che
superasse l'ultimo gradino prima di poter avere la piena vista sul
locale ed ecco che degli sfregamenti di pentole non vi era più
alcuna traccia; appena risaliva le scale l'attività in “cucina”
riprendeva a farsi sentire.......
Dagli inizi del ‘900 fino agli anni ‘50 Arcevia visse, anche grazie
alle Filande e alla numerosa manodopera femminile occupata, un
periodo di relativa floridezza economica.
Giovannetti Sesto a Milano per ritirare un premio per l’ottima qualità della seta.
Sesto Giovannetti aveva dato all’ attività imprenditoriale un taglio
di visione socialista in linea con le visioni economiche introdotte
dal Fascismo.
Venne infatti sperimentata la presenza dell'asilo per l'assistenza
dei bambini delle filandaie impegnate durante i turni di lavoro.
L'attività nelle filande a quei tempi era particolarmente usurante.
Quasi tutta la manovalanza era costituita da donne.
Per molte ore al giorno stavano con le braccia immerse in vasche
con acqua fredda e calda per ripulire i bozzoli e permetterne
l'avvio nella lavorazione del filo di seta.
Ricordo di aver più volte conosciuto alcune delle vecchie filandaie
quando, negli anni ‘80 e ‘90, venivamo con la famiglia a
trascorrere qualche giorno di vacanza estiva in Arcevia.
Alcune di loro manifestavano ancora un affetto ed un gratitudine
nei confronti della mia famiglia al limite del commovente.
Più volte sottolineavano quanto Sesto Giovannetti e la famiglia
Costetti avessero fatto per il paese durante la Guerra.
Grazie alle cantine della filanda, dove erano stati stipate nel tempo
discrete riserve alimentari, vennero più volte aiutate le famiglie più
bisognose nei momenti più difficili del conflitto.
La filanda durante il periodo di Guerra aveva spesso assunto il
ruolo di punto di riferimento del paese e tale ruolo lo confermò
anche durante il periodo post-bellico affermandosi come volano
economico di grande importanza su territorio.
Tale situazione si protrasse fino a inizio anni ‘50 per poi avviarsi ad
un progressivo e rapido declino che nel giro di pochi anni portò alla
chiusura degli stabilimenti.
L'arrivo delle fibre sintetiche iniziò a ridurre la domanda di seta, i
bachi da seta vennero progressivamente comprati dall'Asia
spegnendo così anche la cultura del gelso.
Di quel periodo di grande spinta imprenditoriale rimane anche un
importantissimo premio di qualità raggiunto nella Fiera di Parigi del
1932 con la seta di Arcevia classificata come il miglior prodotto
presente sulla scena mondiale.
LE NOSTRE INTERVISTE
Durante l’anno scolastico abbiamo invitato a scuola per
un’intervista la signora Tosca Camillucci e la signora Paola Pittori
che ci hanno fornito la loro testimonianza, anche se erano state
precedentemente intervistate da alcuni di noi privatamente. La
signora Tosca è un’ex filandaia, quindi ci ha fornito una
testimonianza diretta del lavoro in filanda, mentre la signora Paola
Pittori, essendo più giovane, è una testimone indiretta. Quando
era una bambina la mamma le raccontava come si lavorava nella
filanda, perchè lei lavorava lì come segretaria. Abbiamo scoperto
tante cose interessanti. Le filandaie venivano a chiedere in
anticipo lo stipendio perchè erano povere e avevano bisogno di
soldi e quando arrivava il giorno di paga non avevano più soldi da
prendere. Nelle filande lavoravano le boliltrici, le maestre, le
giuntine e le altre operaie che, per lavorare, dovevano stare in
piedi più o meno 10 ore.
Nell’edificio della filanda c’era una
ciminiera che buttava fuori il
vapore e dopo un po’ usciva un
suono forte e lungo che sembrava
una sistema d’allarme e
serviva per avvisare le filandaie
quando iniziava e terminava il
lavoro.
Infine la signora ci ha fatto vedere
un quadro che aveva dipinto la
sorella che rappresenta il
campanile e il tetto della chiesa di
S. Lucia dove era situata la
filanda. La signora Paola ci ha
mostrato anche delle foto del
campanile della chiesa dove era
la filanda. La maestra ha voluto
fare una foto insieme a Paola e
noi le dedichiamo questo disegno.
PAOLA PITTORI
(DENNIS SERVADIO, SOFIA LEGIEN BRUNI,
ENDRITA AJDARI)
Sono Paola Pittori e sono nata il 2 agosto 1952 a Senigallia.
Posso raccontare della filanda perché ho dei ricordi di quando ero
bambina e mia madre Giannina Costetti mi narrava di quando ci
lavorava come impiegata temporanea. La famiglia di mia madre
era composta dalla mamma, casalinga, dal babbo che era il
direttore dell’Ufficio tecnico del comune di Arcevia, da due sorelle
e un fratello. Mia madre iniziò a lavorare alla filanda quando aveva
19-20 anni, dal 1945 al 1947. Era stata assunta perché parente
dei proprietari e con il diploma della scuola di Avviamento
professionale di Arcevia, sapeva fare le buste-paga. Smise di
lavorare in filanda perché cominciò a insegnare come maestra
elementare, però ho tanti ricordi di lei che raccontava come erano
le condizioni di lavoro delle filandaie, alcune delle quali erano sue
coetanee e amiche. Inoltre ho abitato nell’appartamento di un
palazzo che aveva una delle finestre che si affacciavano
sull’attuale Piazza Crocioni dove oggi c’è la scuola secondaria di
primo grado, ma dove a quei tempi sorgeva la filanda. Mi ricordo
che avevo circa 4-5 anni quando mi affacciavo dal davanzale
della finestra ,che mi arrivava all’altezza del naso e vedevo davanti
un edificio che era l’antica chiesa, riprodotta nell’acquarello che vi
ho portato.
.
Ora di quest’edificio non è
rimasto che il campanile perché
la chiesa, che era molto più alta
della scuola successivamente
costruita al suo posto e tuttora
esistente, venne abbattuta. Sul
tetto piatto, accanto al
campanile della chiesa c’erano
delle enormi cisterne d’acqua,
acqua che era fondamentale nel
processo di trattura della seta. Le
cisterne venivano riempite con
l’acqua proveniente dalla falde
acquifere sotterranee, che una
volta rifornivano i pozzi dell’antico
convento, e veniva spinta fin
lassù con delle pompe elettriche
e poi attraverso dei tubi
scendeva nella filanda dove
serviva acqua in gran quantità.
L’acqua di Arcevia era
particolarmente pura e priva
di calcare e quindi rendeva
la seta ancora più lucente.
Ad Arcevia l’acqua non è
mai mancata, tanto che
anche nel periodo
medievale, quando veniva
assediata, non fu mai
sconfitta grazie ai numerosi
pozzi esistenti e ai fiorenti
orti presenti all’interno delle
mura cittadine. Anche nei
cortili dell’attuale scuola
primaria c’erano dei pozzi
perché erano dei chiostri
dove le monache andavano
a passeggiare e pregare.
L’edificio delle attuali scuole secondarie di primo grado faceva
parte del complesso conventuale e quindi anticamente vi era un
pozzo. Quando hanno demolito la chiesa, intorno agli anni ‘70,
hanno trovato un antico pozzo con tracce di carbone puro che nel
passato veniva utilizzato per purificare l’acqua. Vicino al campanile
si trovava anche un’altissima ciminiera da cui usciva il vapore
prodotto della filanda. L’uscita del vapore provocava un suono
lungo che segnalava l’inizio e la fine dei turni di lavoro. Le
ciminiere erano tipiche degli edifici industriali del tempo, una infatti
si trovava anche nella miniera di Cabernardi. Dalla finestra potevo
sentire il canto delle filandaie, che cantavano per incoraggiarsi a
continuare il loro lavoro. Il loro canto era talmente forte che si
udiva anche a chilometri di distanza, fino alle Conce. Le filandaie
intonavano canzoni dell’epoca, come “Dove vai, bellezza in
bicicletta” oppure stornelli o canzoni popolari. Ho addirittura
ritrovato un articolo del giornale locale “Il Massaccio” che riporta
uno di questi stornelli inventati negli anni Venti dalle filandaie
dell’opificio di Cupramontana. Ogni mattina, in estate, arrivavano i
contadini con i loro birocci trainati dai buoi. Questi carri erano pieni
di cesti colmi di bozzoli di bachi da seta allevati nelle case
coloniche. Ancora oggi si può vedere lungo la strada che unisce
Pongelli a Jesi una vecchia casa colonica con la caratteristica
bigattiera (in dialetto i bachi venivano anche chiamati bigatti). La
bigattiera era un locale adibito all’allevamento dei bachi e doveva
essere un ambiente particolarmente caldo. Mi ricordo di averne
viste parecchie perché spesso accompagnavo mio padre, nelle
case dei contadini. Non tutte le case coloniche possedevano una
bigattiera, così i contadini allevavano i bachi nelle loro camere da
letto sopra le stalle delle vacche, che con il loro respiro
riscaldavano l’ambiente. Le stalle e le camere da letto erano
collegate da un buco nel pavimento, ottenuto togliendo un
mattone, che aveva il compito di far salire il calore e allo stesso
tempo di permettere al contadino di controllare le bestie e a volte
era proprio una botola con una scala appoggiata.. Nelle camere
non era raro trovare un unico letto in cui dormivano tutti i
componenti della famiglia per riscaldarsi e vicino al letto si
stendeva una stuoia con i bachi e il loro cibo.
I bachi, mangiando le foglie di gelso, producevano un gran rumore
dovuto allo scricchiolio delle foglie non più fresche, ma i contadini
erano disposti a sopportare questo fastidio perché si guadagnava
qualcosa in più.
Il contadino doveva capire quando il bozzolo era pronto per
essere portato in filanda prima che il baco si trasformasse in
farfalla.
Appena i bozzoli arrivavano in filanda la bollitora aveva il compito
di immergerli nell’acqua bollente per sciogliere la colla che teneva
unito il filo del bozzolo e uccidere la crisalide.
Le mani delle bollitrici diventavano rosse e gonfie a forza di stare
immerse nell’acqua a temperature elevate per circa 14-15 ore al
giorno.
L’orario di lavoro infatti era più lungo delle 8 ore previste oggi,
soprattutto nei periodi dell’anno in cui i bozzoli venivano raccolti
ovvero a luglio o ad agosto.
Una volta sciolta la colla, la giratora doveva trovare il capo del
bozzolo usando una specie di pettine.
La persona più qualificata era la filatora o maestra che aveva il
compito di prendere i capi del filo dai bozzoli e di farlo arrotolare
intorno all’arcolaio per ottenere una matassa.
La maestra doveva stare particolarmente attenta a non spezzare il
filo altrimenti la matassa avrebbe perso valore e lei avrebbe
dovuto pagare delle penali, che potevano consistere in riduzioni
dello stipendio o altro che non ricordo.
Aveva il compito delicatissimo di filare il filo nella sua interezza
perché, più il filo era lungo, più era prezioso. Se nella matassa
erano presenti nodi, la filatora veniva ritenuta responsabile.
Lo stipendio quindi variava in base alla mansione svolta, ma
anche in base alla bravura delle operaie.
Solitamente le filandaie venivano pagate una volta al mese, ma
mia madre mi raccontava che spesso le donne erano in condizioni
così disperate che chiedevano degli anticipi che raramente
venivano loro rifiutati, però quando arrivava il giorno di paga non
rimaneva quasi più niente da riscuotere.
Inoltre, a causa del calore e dell’umidità, le filandaie si
ammalavano facilmente.
La seta prodotta in Arcevia era considerata molto buona e veniva
venduta al setificio di Jesi dove veniva ulteriormente lavorata, tinta
e tessuta.
Durante la II Guerra Mondiale la filanda non smise mai di produrre
perché la seta era utilizzata per realizzare i paracaduti per
l’esercito. Uno dei prodotti principali per cui era necessaria la seta
erano anche le eleganti e trasparenti calze per donna,
caratterizzate da una riga dietro che costituiva la cucitura perché
ancora non erano state inventate le macchine che tessevano a
cilindro.
Mia madre raccontava che quando sul mercato iniziarono a
trovarsi le calze di nylon, lei e le altre ragazze con una matita si
disegnavano la riga dietro la gamba per far credere a chi le
guardava che fossero le preziose calze di seta.
Molto sentita era la festa di Santa Barbara, il 4 dicembre e si
festeggiava spesso a Cabernardi con i minatori.
La filanda chiuse intorno al 1957 a causa dell’invenzione delle
fibre tessili artificiali, come il nylon, che erano meno costose.
A causa dell’abbandono delle campagne, i contadini smisero di
coltivare i gelsi di cui oggi sono rimasti parecchi esemplari che
fanno ancora parte del nostro paesaggio, attratti dal lavoro in
fabbrica in un’Italia che si stava industrializzando e
modernizzando.
Paola Pittori ci ha portato anche un libro pubblicato da Padre
Giuseppe Gianfranceschi intitolato «Arcevia-Cenni storici sopra i
suoi monumenti sacri e cenni biografici sopra i suoi cittadini più
illustri» in cui vengono date preziose informazioni su alcuni
personaggi illustri arceviesi. Tra questi ci ha letto le pagine che
facevano riferimento a Marco Ottaviani e Olimpio Vici.
Marco Ottaviani, nato ad Arcevia il 5 giugno 1821 e morto il 9
febbraio 1893, viene ricordato «in grazie del primo opificio serico
che impiantò in Arcevia, e che se a lui fu proficuo, dette floridezza
alla città, a molte famiglie pane e lavoro, ad altre ricchezza.
L’impresa era nuova ed ardita a quei tempi, e avrebbe dato
pensiero a chiunque, non a lui perché aveva lo sguardo troppo
sicuro, per prevedere, misurare le contingenze.»
Olimpio Vici (1858-1933), pur avendo umili origini, grazie alla sua
intelligenza, riuscì a diventare una persona importante e rispettata
tanto da ricoprire importanti incarichi anche nella pubblica
amministrazione, ma soprattutto «fu benefico e dette lavoro a
Fano, a Pesaro e ad Arcevia con le filande seriche create e gestite
nei tre paesi…»
Paola Pittori ci ha portato questo canto che era stato pubblicato
anni fa in un giornale di Cupramontana.
Uno stornello cantato dalle filandaie arceviesi invece ci è stato
tramandato da un altro testimone abitante in Arcevia.
STORNELLO DELLE FILANDAIE
Lavoro alla filanda
prendo tre franchi al giorno
alla sera quando torno
non c’ho manco da mangià
lo dico a mio marito
che lui pensasse un poco
ma pensa solo al gioco
dii lavorare no.
TOSCA CAMILLUCCI (LUIS DA SILVA)
Mi chiamo Tosca Camillucci, sono
nata il 26/01/1924 a Barbara (An)
e abito in Arcevia. Ricordo bene la
filanda che c’era in paese perché
ci lavorai per diversi anni. Allora
abitavo in vicolo Uccellini in quello
che ancora oggi comunemente
viene chiamato “Montirozzo”. La
mia famiglia era composta da
cinque persone: mio padre che
faceva l’operaio, mia madre che
era casalinga e i miei due fratelli
più piccoli, Augusto e Primo.
Quando iniziai a lavorare alla
filanda avevo 14 anni e smisi solo
nel 1955, quando la fabbrica
chiuse.
Feci domanda di assunzione e mi presero; non avevo parenti che
già ci lavoravano né conoscenze particolari.
La filanda di Arcevia era un’azienda dove si estraeva il filo di seta
dai bozzoli e si trovava dove ora sorge la scuola elementare.
Non ricordo da quanto tempo fosse già aperta e perché scelsero
proprio Arcevia come sede per questa struttura, ricordo però che i
bozzoli venivano portati da vari allevatori della zona.
Ricordo anche che eravamo circa una trentina di dipendenti,
soprattutto donne e ragazze.
Gli unici uomini che lavoravano con noi erano il macchinista e gli
impiegati della contabilità negli uffici.
In base al lavoro che svolgevamo, eravamo chiamate in diverso
modo.
Le maestre avevano la funzione più importante perché facevano le
matasse ed avevano uno stipendio più alto del nostro.
Talvolta nelle mani venivano degli eritemi ma la nostra salute non
veniva mai messa a rischio. La giornata lavorativa durava circa 8
ore, durante la quali era prevista la pausa per la colazione e per il
pranzo. Spesso cantavamo per farci compagnia. Se qualcuna di
noi rimaneva incinta c’era un’aspettativa di circa un mese e dei
permessi per poter allattare i nostri figli che spesso ci venivano
portati direttamente in azienda. I padroni della filanda si
chiamavano Giovannetti e Vici. Non davano dei premi né facevano
regali ma, il giorno di S. Lucia organizzavano sempre una festa
per noi. Chi lavorava alla filanda si riteneva molto fortunato
soprattutto perché, in periodo di guerra, avere un impiego era già
un lusso. La seta da noi prodotta era considerata molto buona
anche se non so chi poi l’acquistasse o l’utilizzo che poi ne
facessero. Noi operaie non potevamo comprare la seta. Durante la
II guerra mondiale la filanda non venne chiusa e lavorammo anche
per i tedeschi. Ci fu anche un episodio grave in cui rischiammo la
vita perché una filandaia aveva gridato «Assassini!» ai tedeschi
che avevano ucciso alcuni partigiani sotto le mura vicino alla porta
di Santa Lucia. La chiusura dell’azienda fu una brutta cosa per noi
perché ci offriva una possibilità di lavoro e delle risorse che
altrimenti non avremmo potuto avere.
MARIO MANCINELLI
(NICOLA PIETRINI, ALICE GIULIA MARIOTTI)
Mi chiamo Mario Mancinelli,
sono nato il 26 agosto
1927 ad Arcevia e abito in
Via Ramazzani. Ricordo
che in Arcevia c’era una
filanda perché ci
lavoravano mia madre
Maria Ilma e mia sorella
Alba. Mia madre era nata
nel 1884 mentre mia
sorella era nata nel
1910. Loro abitavano in
via Battistelli.
La mia famiglia era composta da babbo, mamma e dai miei fratelli
e sorelle Righetta, Milena, Alba, Aldo, Alda. Mio padre era un
calzolaio e mia madre era una filandaia. Quando mia madre iniziò
a lavorare nella filanda aveva 7 anni e smise nel 1945, mentre mia
sorella iniziò a lavorare a 14 anni e smise nel 1950 perché la
filanda chiuse. Mia madre era stata assunta perché aveva bisogno
di lavoro, invece mia sorella era stata assunta perché già ci
lavorava mia mamma.
La filanda fu aperta nel 1800 perché i contadini allevavano i bachi
da seta. In filanda lavoravano alcuni uomini che svolgevano le
attività di meccanica, manutenzione e fuochista, e le donne,
ragazze e bambine. La mattina suonavano 3 campane a distanza
di 5 minuti per avvisare le filandaie che sarebbe iniziato il loro
orario di lavoro, dopo l’ultimo richiamo non si poteva più entrare e
le filandaie arrivate in ritardo avrebbero perso la giornata di lavoro.
L’azienda aveva circa 100 dipendenti di cui 3 uomini. In base al
lavoro che svolgevano le donne venivano chiamate in maniera
diversa: le maestre svolgevano la seta dal bozzolo, aiutate dalle
sottiere; la giratora era il capo dello stabilimento che vigilava
sull’andamento del lavoro e sull’osservanza delle regole.
Le donne venivano trattate male. Il lavoro iniziava alle 3 della
mattina, non potevano parlare tra di loro e se non rispettavano le
regole venivano multate e la stagione successiva rischiavano di
non essere richiamate. Se la matassa non aveva il giusto peso
venivano sgridate e riprese perché avevano rovinato la matassa.
Le donne si ammalavano di bronchite, asma e artriti perché
stavano troppo a contatto con il calore e l’acqua. Le donne
potevano cantare ma non parlare tra di loro. Alle 11.30 le donne
incinte potevano mangiare alla Maternità Infanzia (dove ora c’è la
Farmacia Pagliarini), mentre le altre tornavano a casa. Alle 13.30
dovevano tornare tutte al lavoro e chi non finiva di mangiare a
casa finiva di mangiare lungo la strada. Le donne ricevevano la
busta paga 1 volta al mese e guadagnavano 2,10 lire, era una
paga scarsissima che bastava a malapena per il pane e il salario
variava a seconda della mansione. Una donna incinta lavorava
fino a pochi giorni prima del parto e durante l’allattamento
potevano andare a mangiare all’Opera dell’Infanzia fino ai 3 anni
del bambino. I padroni della filanda di Arcevia sono stati Vico Vici e
Sesto Giovannetti. Ogni anno il proprietario della filanda faceva un
regalo alle filandaie che consisteva nel fare una gita nei dintorni.
Negli ultimi anni un professore della Scuola di Arti e Mestieri si era
accorto che il capofabbrica suonava la sirena del pranzo in ritardo
e anticipava la sirena del rientro per farle lavorare di più.
In questa foto e nella successiva alcune filandaie danno da
mangiare ai loro bimbi presso l’Opera Nazionale Maternità e
Infanzia di Arcevia che passava il pranzo gratuito solo ai figli.
Le filandare si ritenevano fortunate perché avevano un lavoro e le
donne che non lavoravano alla filanda consideravano le filandare
sfortunate perché era un lavoro molto duro e faticoso. Gli uomini
erano contenti del contributo delle loro mogli, anche se lo stipendio
era poco. La seta della filanda era pregiata per via della purezza
dell’acqua e veniva venduta nei mercati delle città e agli impianti di
tessitura per fare vestiti, ma anche paracaduti per uso militare. Le
operaie non potevano permettersi la seta perché era troppo cara.
La filanda chiuse nel 1950 perché in campagna non si piantavano
più i gelsi, perciò le donne disoccupate emigrarono in Belgio,
Svizzera e a Roma. Durante la seconda guerra mondiale,
nell’estate del 1944, i tedeschi fucilarono dei civili sotto le mura di
San Rocco. La madre di Sciutti, vedendo la scena dalle finestre
della filanda, gridò loro che erano degli assassini. I tedeschi,
inferociti, minacciarono di distruggere la filanda; entrarono
all’interno dell’edificio perché volevano sapere chi era stato a
gridare, però furono fermati dal loro comandante perché la seta
veniva esportata in Germania per farne paracaduti. I soldati
ubbidirono ma, prima di scappare, distrussero i macchinari che
furono poi ricostruiti da me e da Ottone Canavesi.
Le filandaie fotografate durante una delle gite domenicali
organizzate ed offerte dai proprietari della filanda.
Ancora le filandaie durate un’uscita organizzata dalla filanda, l’uomo
sulla destra è il proprietario Sesto Giovannetti.
MARIA MONTALBINI (IVAN LAMETTI)
Io sono Montalbini Maria, abito a
Piticchio di Arcevia e sono nata il
9/12/1935 in Arcevia. La mia
famiglia era composta dai miei
genitori, 4 fratelli e 4 sorelle. Mio
padre era un mezzadro e mia
madre faceva i lavori in casa.
Anche a casa mia si allevavano i
bachi e le uova le prendevamo
nei consorzi, poi li allevavamo in
una stanza che doveva essere
ben pulita e veniva disinfettata
con la calce. La stanza doveva
essere abbastanza calda e non
potevamo entrarci spesso perché
i bachi erano molto delicati.
Questi venivano appoggiati sopra
agli storini, che erano dei telai di
1mt x 2mt circa, appoggiati su
dei cavalletti.
Sopra la rete dei telai veniva posta la carta paglia poi si mettevano
i bachi che venivano ricoperti con le foglie dei gelsi. I bachi
mangiavano continuamente le foglie che venivano portate sempre
fresche e non dovevano essere bagnate.
Questi crescevano molto velocemente, una fase veniva chiamata
la «magnarella» perché mangiavano tanto e velocemente fino a
raggiungere dimensioni di 4/5 cm, poi smettevano di mangiare e
iniziavano ad allontanarsi l’uno dall’altro verso i bordi esterni dei
telai dove erano stati posti dei rami sui quali si arrampicavano e si
fermavano.
A quel punto dalla bocca del baco usciva un filo molto lungo con il
quale l’animale si avvolgeva tutto attorno fino a rinchiudersi
completamente. Il bozzolo era di colore giallo e il filo era lungo
1000 mt. In quel momento mio padre li raccoglieva e li metteva dentro dei sacchi per portarli alla filanda.
In Arcevia c’erano diverse filande ma la più grande era situata
dove ora c’è la scuola media, l’altra era dove si trova il vecchio
consorzio sopra Bramucci e un’altra in via Ramazzani.
Le Marche erano una delle principali regioni produttrici di seta.
La filanda più grande fu aperta nel 1800 ed era di proprietà di
Alfonso Giovagnoli che era anche il foghista, qui ci lavoravano 100
donne e 2 o 3 uomini che si occupavano della manutenzione e
facevano anche i foghisti.
La filanda aveva vari reparti: appena arrivati con i bachi andavamo
al reparto «scottolatura», dove c’erano delle tavole su cui si
adagiavano i bachi e venivano scottati con il vapore bollente.
Al 2° piano c’erano le filandaie che lavoravano, erano sedute una
davanti all’altra, la prima era la maestra che aveva davanti a sé
una caldaia con dentro massimo 8 bozzoli alla volta, questa
prendeva dentro l’acqua bollente il capo del filo di seta del bozzolo
e aiutata dalla sottiera che aveva di fronte lo appendeva sugli aspi,
posti in alto che giravano e avvolgevano il filo in una matassa. La
sottiera era anche quella che collegava i fili tra di loro tra un
bozzolo e l’altro.
La maestra aveva le dita delle mani scottate. Le crisalidi private
del filo venivano essiccate, sfarinate e vendute come mangime per
animali. Le matasse di seta venivano trasportate in un altro reparto
dove si facevano le trecce che venivano vendute per fare tessuti. Il
maggior acquirente era Carotti di Jesi.
Alle donne non era permesso parlare tra di loro ed erano
controllate dalla giratora. Se le filandaie venivano trovate a parlare
dovevano pagare una multa di 1 o 2 lire che venivano sottratte alla
paga. In genere le donne venivano trattate molto male e spesso si
ammalavano di asma e artrosi perché stavano in un ambiente
umido.
Le sirene scandivano la giornata lavorativa, suonavano circa alle
6.30 del mattino fino alle 11.30 poi dalle 13.30 fino alle 18.30. A
volte dovevano iniziare il lavoro alle 3 di notte.
Le donne potevano cantare in coro, tra le tante canzoni ricordo
«Rosamunda». Alle operaie non venivano pagati i contributi e gli
straordinari. Venivano pagate 2 volte al mese e prendevano 7
centesimi al giorno, la paga era molto scarsa.
Ognuna veniva pagata in maniera diversa in base al ruolo che
svolgeva. Quando erano incinte lavoravano fino al momento del
parto e appena possibile riprendevano il lavoro. Per allattare i
piccoli prendevano un permesso di un’ora.
A volte i padroni portavano le dipendenti a fare delle gite, ricordo
che una volta sono andate alla Madonna del Cerro a piedi e
un’altra volta al Furlo con l’autobus.
Le filandaie non potevano prendere la seta ma solo gli scarti. La
filanda fu danneggiata dai tedeschi alla fine della II guerra
mondiale, poi fu ripristinata per alcuni anni e chiuse
definitivamente nel 1951.
DENISE AVENALI
Sono Avenali Denise e sono nata in Francia il 17 agosto 1927
perché mio padre era responsabile di un’acciaieria francese.
Quando nel 1939 scoppiò la guerra, tornammo in Italia che rispetto
alla Francia era arretrata e povera. Quando sono stata assunta
alla filanda Vici - Giovannetti avevo appena 15 anni ed ero una
delle filatrici più giovani. Vi lavorai per qualche anno. Ad
insegnarmi ad usare la filatrice fu la madre di Ciocci. Io stavo
seduta davanti ad una bacinella di acqua bollente insieme ad
un’altra operaia. Facevo la maestra ed ero molto abile ad unire più
fili dei bozzoli per farne uno unico. Potevamo fare anche 8
matasse contemporaneamente. La filanda era aperta solo alcuni
mesi l’anno, quando c’erano i bozzoli. Quando la filanda era
chiusa andavo dalla sarta per imparare a cucire perché mia madre
in Francia era una sarta molto brava che cuciva abiti per ricche
signore. Alcune filandaie arrivavano a piedi da San Martino. C’era
una maestra che si chiamava Serafina che cantava tutto il giorno.
Il suo canto era perfetto ed aiutava a lavorare, lei aveva
l’autorizzazione per cantare. La sua voce era la più alta di tutte ed
era un incanto.
Si cominciava a lavorare in filanda alle 8.00 del mattino e poi si
faceva la pausa pranzo. Qualche donna mangiava anche in
filanda. Quando mi sposai cambiai lavoro.
SIMONETTA MINELLI (DILETTA MARCHEGIANI)
Io sono Simonetta Minelli,
sono nata in Arcevia il
25/10/1955 ed abito a Roma.
Dai racconti delle mie nonne
Ida e Clelia ricordo che in
filanda lavorava una zia di mio
fratello.
Si chiamava Norma Felicetti e
faceva la giratora.
Lei abitava in via Brunamonti,
la sua famiglia era composta
da suo marito Pietro e due figli
maschi: Italo e Gino.
Quando iniziò a lavorare aveva
19 anni e quando la filanda
chiuse, Norma aprí un forno
sempre in via Brunamonti.
La prima filanda aprì in Arcevia
nel 1878, ma nel 1886 le
filande erano diventate tre: una
delle filande si trovava in via
Brunamonti, un’altra era situata
in Via Porta Romana, detta filanda Fioravanti, e l’ultima filanda,
che era di Francesco Romani, si trovava presso il vicolo Sant’
Agata.
Nel 1926 i signori Vici e Giovannetti iniziarono la produzione della
seta, in alcuni locali dell’ex convento di Santa Lucia.
Questo stabilimento nel tempo si è molto ingrandito di dimensioni
e rimase l’ unica filanda attiva di Arcevia.
Nel 1946, con la meccanizzazione e il supporto di nuovi
macchinari, si amplió ancora di piú e restó attiva fino al 1954.
Le operaie venivano pagate a seconda della loro bravura.
La giratora veniva pagata di piú perchè svolgeva un lavoro piú impegnativo.
Norma Felicetti
Questa fattura risalente al 1927 documenta alcune spese di
cancelleria: acquisto di 1000 buste paga, di 1000 cartellini per la
spedizione, di n. 2 piastrine di gomma per il timbro della filanda, di
1 scatola di penne assortite. Le fatture successive risalgono al
1932 e documentano la vendita delle crisalidi che alla filanda non
servivano ma diventavano una fonte di guadagno. Nella prima
fattura si registra la la vendita di 349 Kg di crisalidi a £. 60/Kg al
signor Agonioni Agostino di Senigallia, la seconda la vendita di 529
Kg di crisalidi a £ 70/Kg al signor Caciari Ettore di Faenza. Dalla
quantità di crisalidi vendute si può intuire l’enorme quantità di
bozzoli lavorata.
(Per gentile
concessione di
Marcello Francolini,
nipote della Signora
Teti, moglie di Vico
Vici)
Docuemnti cristina
LA FILANDA ROMANI
Sono stati trovati molti documenti inerenti la filanda di Francesco
Romani risalenti all’anno 1918, anche se nel 1913 era già attiva.
Ancora in piena I Guerra Mondiale, il filandiere viene chiamato alle
armi e, disperato per non poter più seguire i suoi affari lasciando
sul lastrico circa una quarantina di operaie, e quindi una
quarantina di famiglie, sollecita il sindaco ad aiutarlo a chiedere
l’esonero dal servizio militare per la seconda volta.
A Romani però, il 6 febbraio 1918, viene risposto dalla
Commissione Esoneri che aveva già usufruito di un primo esonero
e che quindi non gli verrà concessa un’altra possibilità.
Il Sindaco, spaventato per le violente reazioni delle filandaie,
invierà diverse richieste, il 15 febbraio all’influente signor Olimpio
Vici, originario di Arcevia ma trasferito a Roma, e il 18 febbraio al
Ministro dell’Agricoltura Miliani per impedire la chiusura della
filanda.
L’ultimo documento dimostra che tali richieste erano risultate
inutili. Un telespresso inviatogli dal Sindaco chiede a Romani,
arruolato nella sezione di Fano, di rispondere alla proposta di
affitto della filanda fatta da Minelli Arnaldo, in attesa della fine della
guerra, ma Romani risponderà che per una questione così
importante è necessaria la sua presenza. Non sappiamo il finale
della storia.
Tra le righe di queste lettere traspare l’immagine di un paese che
vive il periodo bellico in precarie condizioni economiche, dove le
donne intendono difendere il proprio lavoro con le unghie e con i
denti per affrontare dignitosamente la guerra, la miseria e la fame.
Un altro documento trovato in archivio, risalente a dopo la I Guerra
mondiale, era una richiesta al Sindaco da parte di Romani per
ottenere l’acqua necessaria per la trattura della seta.
Li 9 febbraio 1918 - Risposta a nota N. 8297 del 6 corrente-
Oggetto: Filandiere Romani Antonio - esonero dal servizio militare-
A I. E. il Ministro Miliani Roma - Nell’esprimere i sentimenti di sua
riconoscenza di questa amministrazione comunale per l’assiduo e
benevolo interessamento dell’E.V.(eminenza vostra) sempre
spiegato per tutto quanto possa ridonare a beneficio del comune e
dei miei amministrati, mi permetto ancora una volta fare presente
che la filanda Romani il cui direttore-proprietario Antonio Romani si
è già presentato alle armi, è attualmente chiusa, tanto che ieri si
recarono nella residenza municipale tutte le operaie dell’opificio,
per protestare e chiedere urgenti provvedimenti sulla loro
disoccupazione e conseguente mancanza di mezzi per vivere. Nel
confermare l’esistenza di tutti i motivi precedentemente esposti
che mi hanno indotto ad insistere tanto sulla richiesta dell’invocato
esonero conto fermamente sul suo validissimo appoggio anche
per scongiurare spiacevoli incidenti che potrebbero aver luogo
qualora le operaie predette non venissero sistemate. E nell’ attesa
di un cortese come fortunato riscontro le esterno sensi della mia
devozione e riconoscimento. Il Sindaco
Telespresso Li 18-2-1918 - A I. E. il Ministro di Aricoltura
Comm.Miliani
Roma - Operaie filanda Romani Antonio, di cui precedente di
corrispondenza, mi fanno insistenti minacciose pressioni per definizione
pratica esonero come al ricorso del Romani stesso; qui la stagione è
pessima con abbondanti nevicate, per cui disagio disoccupazione si fa
maggiormente sentire. Faccio nuovamente appello interessamento
Vostra Eccellenza, pregandola scusarmi, forzata mia discrezione.
Attendendo cortese assicurazione ringrazio e riverisco. Il Sindaco
Questo documento risale all’anno 1918, scritto dal sindaco di
Arcevia ed è una richiesta perchè il ministro esoneri Romani,
perchè le operaie sono disperate per il motivo che la stagione è
pessima e ci sono grosse nevicate, per cui il disagio di
disoccupazione è sempre più grande.
Telegramma - Li 18-6-1928 Destinatario Romani Antonio - Pregasi
rispondere Minelli Arnaldo, proposta fattavi affitto vostra filanda corrente
anno messa opera ventiquattro bacinelle, aumento mercede lire
duecentocinquanta operaie rappresenta benessere operaie paesane
con beneficio produttori. Sindaco Speranzini
(Per gentile concessione di Marcello Francolini, nipote della Signora
Teti, moglie di Vico Vici)
LA FILANDA SIMONCELLI
Questi elenchi del 1891 e del 1892 testimoniano la presenza in
Arcevia, in Via Brunamonti, della filanda Simoncelli in cui
lavoravano circa 40 persone.
In questo documento, purtroppo poco leggibile, che è un elenco delle
persone che dovevano pagare una tassa, compaiono i nomi dei fratelli
Moscatelli Pietro e Antonio con accanto l’attività che svolgevano, cioè
filandieri (quinta riga a partire dal basso). Un testimone ha riferito che
forse la loro filanda si trovava accanto al consorzio, situato appena fuori
dalla Porta del forno, dove da bambino si recava per saltare sopra i
mucchi di grano portati a vendere dai contadini.
LA FILANDA MOSCATELLI
FILANDA FIORAVANTI
Questo documento, risalente al 1914, faceva parte di un progetto
per la costruzione di un ospedale. Si legge che l’edificio doveva
essere costruito sull’area della «già filanda Fioravanti».
IL PASSATO ANCORA PRESENTE
Il giorno 4 Maggio 2017, dopo pranzo, siamo usciti per incontrare
la signora Ivana Coacci, figlia della signora Tosca Camillucci, che
ricorda dove erano situate alcune antiche filande arceviesi. Alle
14.00 siamo andati in piazza e abbiamo iniziato il nostro giro per
Arcevia alla scoperta delle vecchie filande arceviesi. Il primo posto
in cui ci ha portato Ivana è in vicolo Sant’Agata dove c’era una
filanda della ditta Romani. Poi siamo andati alla farmacia di
Arcevia e abbiamo scoperto che lì c’era una mensa per i bambini
figli delle filandaie e per le filandaie incinte. Questo servizio lo creò
Mussolini perché, in un momento di grande povertà come quello
dopo la I Guerra mondiale, si rese conto che le famiglie dovevano
essere aiutate e voleva che i bambini crescessero sani. L’ Opera
Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI) offriva un pranzo gratuito ai
bambini piccoli e alle donne incinte.
In Via Ramazzani, nel vicolo Sant’Agata, la signora Ivana ci ha
mostrato l’antica filanda Romani.
La signora Miriam Conti ha raccontato che dopo anni di
abbandono, l’edificio fu acquistato verso la fine degli anni ‘60 dal
padre Fulvio Conti per realizzare uno stringhificio che dopo è stato
trasferito alle Conce e ancora è funzionante.
Nel 1995 venne rifatto il tetto di legno uguale a quello che era
stato abbattuto.
Nell’edificio c’erano due piani, si lavorava in quello superiore dove
c’era anche un grande lucernaio, mentre nel piano inferiore era
situata una grande cisterna d’acqua che era piena di detriti. Il
dottor Mario Romani, nipote di Francesco Romani, vecchio
proprietario della filanda, quando seppe dei lavori chiese a Conti di
cercare tra i detriti della cisterna un antico anello a cui era
particolarmente affezionato, ma l’anello non fu ritrovato.
La cisterna venne ripulita e chiusa. L’esterno dell’edificio non subì
modifiche, il portone è ancora rimasto lo stesso, mentre le vecchie
finestre di ferro vennero sostituite con delle nuove.
La Piazza Gianfranceschi tanto tempo fa era solo una strada con
una scarpata. Sotto la scarpata ancora esistente, c’era la filanda
Fioravanti e un abitante del luogo ce l’ha mostrata su una foto
antica.
Ritornando a scuola ci siamo fermati in Piazza G. Crocioni ad
osservare l’attuale scuola secondaria di primo grado che era
l’antica filanda Vici-Giovannetti. Lì abbiamo incontrato per caso la
signora Paola Pittori che ci ha dato ulteriori informazioni. Quando
c’era la filanda la piazza era molto diversa: da questa prospettiva,
a destra, in mezzo alla piazza c’erano delle case attaccate a
quelle esistenti sopra l’arco, a sinistra c’era un muro alto con un
altro grosso arco. Accanto alla filanda c’era la Scuola di Arti e
Mestieri e dove adesso c’è la scuola primaria allora c’era
l’ospedale. Sullo sfondo si può notare il campanile ancora
esistente, inglobato nell’edificio scolastico, dell’antica chiesa di
Santa Lucia.
La signora Ivana
ci ha accom-
pagnati in via
Cadice dove
esisteva un’altra
filanda.
ED ORA CREATIVA…MENTE Con le conoscenze apprese inventiamo racconti di
finzione illustrandoli anche attraverso i fumetti
UNA VITA FELICE
Ciao a tutti, io sono un baco da seta e ora vi racconterò la mia
storia. All’inizio, quando sono arrivato ad Arcevia il 10 novembre,
ero dentro un uovo ma non ero da solo, con me c’erano anche i
miei fratelli.
Stavamo nelle uova all’interno di una scatola che ci conteneva
tutti. Grazie al calore e all’umidità, abbiamo cominciato a
trasformarci in bachi. Io sono stato il primo a nascere e subito mi
sono trovato davanti dei giganti a quattro piedi e con tanti capelli,
ma la cosa peggiore era che nelle zampe avevano cinque dita.
Un’altra cosa terribile era che avevano pure dei vestiti, insomma:
erano orribili! Però erano anche molto gentili e osservavano cosa
facevamo. Questi mostri chiamati anche persone, ci hanno messo
dentro uno scatolone più grande per farci mangiare le foglie di
gelso...mmm! Quanto sono buone!
I miei antenati mi hanno raccontato che una volta vivevamo sugli
alberi per mangiare queste gustosissime foglie in pace fin quando
un’imperatrice cinese che stava bevendo il suo tè sotto una pianta
di gelso, vide un bozzolo caduto nella sua tazzina. Grazie a quella
canaglia di imperatrice, da allora gli umani ci usano per fare la
seta e per noi è finita la pacchia! Addio pancia mia fatti capanna!
Per fortuna però gli uomini sono buoni con noi e non ci fanno
mancare il cibo!
Io e i miei fratelli abbiamo mangiato talmente tanto che il 19
novembre del 2016 eravamo diventati molto lunghi perché
arrivavamo a misurare fino a 25mm: è una lunghezza enorme
vero? Fino al 23 abbiamo vissuto la prima età e siamo cresciuti
fino a 5mm.
Il 24 abbiamo fatto la prima muta, cioè siamo stati a testa in su per
24 ore e ci siamo tolti la vecchia cuticola che ci impediva la
crescita. Dentro la nostra vecchia pelle stavamo stretti da morire!
Dal 25 al 27 abbiamo fatto la seconda muta e siamo diventati
lunghi 17mm, altro che 2,5mm!
Gelso, gelso, gelso e ancora gelso: quella bontà di cibo squisito!
Grazie a quelle foglie buone e gustose il 28 novembre ho fatto la
terza muta e sono arrivato alla terza età. Il 4 dicembre ho iniziato
la quarta muta per diventare lungo 50mm. Ormai stavo diventando
enorme, anzi un vero e proprio gigante, forse il più grande dei
bachi! Dopo ho fatto la quinta muta e sono arrivato a misurare
addirittura 75mm. Gli umani, ad un certo punto, ci hanno portato
un boschetto di rami secchi e io di corsa mi sono arrampicato su
per trovare un posticino tranquillo. Dal 18 Dicembre al 9 Gennaio
mi sono chiuso dentro il bozzolo. Prima sono diventato una
crisalide o pupa e poi ho cambiato aspetto: ali, occhi, niente
bocca, zampe più sottili, corpo tozzo e antenne. Da quel momento
in poi stavo così stretto nel bozzolo che decisi di uscire e vidi altre
farfalle come me. Tra loro c’era la falena più bella del mondo:
abbiamo deciso di accoppiarci e abbiamo fatto tante uova. E’ stato
bello raccontarvi la mia storia, ma ora vi devo salutare perché tra
pochi giorni morirò visto che noi falene non abbiamo la bocca e
non posso più nutrirmi. Sono molto triste per la mia fine, ma sono
anche contento perché sono stato molto felice e per questo devo
ringraziare anche gli umani.
Addio amici miei!
IL RITORNO DALLA FILANDA Era una bella serata di primavera del 1915, il sole stava
tramontando e le filandaie stanchissime tornavano a casa.
Parlavano tra di loro e quella sera la prima a parlare fu Maria che
disse: “Tu Bianca sei molto fortunata perchè fai la giratora, invece
io svolgo la mansione più brutta di tutte perchè sono una bollitora.
Immergo le mani tutto il giorno nell’acqua bollente e non solo,
lavoro in un luogo umido ricco di vapore che può causare la
tubercolosi e quando torno a casa ho le mani tutte «scottolate»,
sono sudata e non posso neanche lavarmi perché ho una fonte
troppo lontana da casa e non posso andarci perchè devo
occuparmi delle faccende domestiche!” Bianca rispose: «Lo so
che svolgo la mansione meno faticosa di tutte, però quando torno
a casa dal lavoro non trovo la tavola imbandita, ma la cena da
preparare e come se non bastasse mio marito mi sgrida sempre
perchè arrivo troppo tardi e mi tratta come una serva!»
Mentre Bianca e Maria continuavano a parlare, le altre donne
pensavano: «Se le sentissero il padrone e i loro mariti, il padrone
toglierebbe loro subito il lavoro e i mariti non le farebbero più
uscire di casa, quindi è meglio che stiano zitte, se non vogliono
cacciarsi nei gua!»
Eugenio Spreafico-Dal lavoro. Dal ritorno dalla filanda-1895
Una filandaia che stava sempre zitta e appartata era Carolina, che
era la preferita del padrone perché lavorava sempre senza mai
lamentarsi. Nonostante facesse la bollitora, svolgeva il suo lavoro
perfettamente senza fare neanche un errore.
Quando in filanda passava il padrone a controllare come le
filandaie svolgevano il lavoro, ripeteva sempre che tutte le
lavoratrici dovevano seguire l’esempio di Carolina.
Il marito di Carolina non era contento che il padrone diceva
sempre che la moglie era la sua operaia preferita e quindi decise
di farla uscire solo per lavorare obbligandola a starsene sempre a
casa a fare le faccende domestiche.
Carolina naturalmente non era contenta quindi cominciò a
chiacchierare anche lei mentre lavorava e a lamentarsi sempre
come facevano le altre. Facendo questo Carolina non fu più la
preferita del padrone e quindi il marito decise di farla uscire di
casa senza tante storie.
UN TRAGICO INCIDENTE Buongiorno a tutti, io mi chiamo Attilia Neri.
Sono la bambina più bella, più brava e più buona di Arcevia, sono
molto agile infatti so anche arrampicarmi sugli alberi.
Un giorno la mia mamma mi ha chiesto di andare dal vicino Ivano
Servini per “fare la fronda”, cioè per raccogliere le foglie di gelso
per i bachi perché i nostri bachi crescevano a dismisura e per loro
era arrivato il momento della “magnarella” in cui mangiavano molto
e le nostre foglie non bastavano per saziarli, così andavamo dagli
altri contadini a prendere alcune foglie.
Dovete sapere che la mia famiglia è composta da mio padre e da
mia madre, che sono contadini mezzadri, e da 4 fratelli, 2 maschi e
2 femmine.
Noi alleviamo i bachi non per divertimento ma per guadagnare più
soldi per mantenere la famiglia.
Prendiamo le uova dei bachi al consorzio di Arcevia e alleviamo i
bachi in casa, in particolare nella camera da letto perchè è la
stanza più calda di tutta la casa.
Sapete perché?
Perché sotto la nostra camera c’è una stalla e sul pavimento c’è un
buco, così quando le bestie respirano emanano calore che sale
riscaldando la stanza, e in più possiamo sentire che cosa fanno le
mucche là sotto.
Noi non abbiamo spazio per una bigattiera, quindi sopra un tappeto
vengono messi degli sturini con sopra le uova.
Gli sturini sono degli scaffali in legno in cui vengono appoggiate le
uova e quando i bachi nascono, ci appoggiamo le foglie di gelso.
Di solito i bachi sono allevati da noi donne in estate perché è più
caldo e ci sono più foglie di gelso.
Ero molto felice di andare da Servini perché io ero innamorata di
Carlo, suo figlio, e avrei potuto incontrarlo.
Così accettai la richiesta e appena arrivata incontrai Carlo.
Come era bello quella mattina d’estate, con i suoi occhi azzurri, i
suoi capelli biondi e il suo sorriso splendente…...ora capite perché
ero innamorata di lui?
Ma ora torniamo al mio racconto…..io, tutta rossa in faccia
dall’emozione, gli chiesi un cesto per raccogliere le foglie. Lui me
lo diede e iniziai a salire sull’albero.
Ero così presa dal fare bella figura che non mi accorsi che stavo
per appoggiare il piede su un ramo che stava per spezzarsi, così
caddi facendomi una ferita gigantesca.
Subito Carlo andò a chiamare i soccorsi e appena arrivarono mi
vollero portare all’ospedale, ma io non volevo perchè a quei tempi
ero un po’ paurosa e pensavo che vedendo la ferita mi avrebbero
tagliato la gamba. Così mi portarono a casa e mi medicarono.
Dopo la caduta dovetti stare a letto per lunghi mesi e da quel
giorno non salii mai più sugli alberi.
L’UCCISIONE DEI PARTIGIANI Sono Giovanna, una filandaia di Arcevia. L’altro giorno alla filanda
è successa una cosa incredibile e adesso ve la racconterò: ero
seduta nella mia sedia ed ero pronta a ricevere il capo del filo del
bozzolo dalla bollitrice. Il rumore delle macchine era assordante, il
vapore aveva ormai invaso tutta la stanza. Ad un tratto fuori si
sentirono dei botti enormi: “Boom! Baam!” Subito tutte noi filandaie
ci affacciammo alla finestra, vedemmo dei tedeschi con un fucile in
mano e sentimmo delle urla. Senza dubbio stavano uccidendo dei
partigiani. Subito una mia amica di nome Peppa, che conosceva le
intenzioni dei due uomini gridò: “Assassini!!” I tedeschi che
l’avevano sentita, finita l’uccisione, si fiondarono nella filanda. Io,
mentro loro entravano, continuai a guardare fuori dalla finestra e
vidi gli alberi macchiati di sangue e i partigiani stesi a terra con il
terreno completamente sporco di sangue. Appena i tedeschi
entrarono ci chiesero chi era stato a pronunciare quella parola, ma
nessuna di noi rispose perché volevamo difendere Peppa.
Siccome nessuno rispose i tedeschi con i loro fucili cominciarono a
distruggere tutte le cose presenti nella stanza. Ad un certo punto entrò il proprietario della filanda che trovò il
coraggio di affrontarli dicendo loro che lì si producevano
paracaduti militari per i tedeschi e offrì loro una tazza di tè, li
convinse a lasciare quel posto e a non distruggere niente. Fu un
momento terribile!
IL GRANDE SEGRETO Mi chiamo Fra’ Agostino e sono uno dei monaci missionari inviati
in Cina. Io e il mio amico stiamo andando in Cina per due motivi:
sia per convertire i cinesi alla nostra religione, sia per scoprire il
segreto della seta.
Ora io e il mio amico, dopo aver attraversato con un lungo viaggio
il deserto lungo la Via della seta, siamo finalmente arrivati. Stiamo
facendo una passeggiata e vediamo una donna che sta
raccogliendo da un albero che non conosciamo delle foglie belle e
grosse.
Andiamo da lei e le chiediamo cosa ci deve fare con quelle foglie e
lei ci risponde che non può dircelo altrimenti il suo capo le taglia la
testa. Nonostante questo, alla fine decide di dirci: “Questo è gelso
e si deve dare agli animali.”
“Quali animali?” le chiedo.
“Li devo dare ai bachi da seta.”
Io continuo a farle domande e lei continua a rispondere anche se
sa che è rischioso, così scopriamo il segreto della seta. Alla fine lei
ci raccomanda di non dire a nessuno che ci ha dato quelle
informazioni, noi la rassicuriamo e le diciamo anche che, se ci
procurerà qualche uova di baco, noi in cambio le potremo dare
tanti anelli d’oro.
Essendo lei povera, accetta la nostra richiesta. Io e il mio amico
ripartiamo contenti per Bisanzio nascondendo le uova dentro una
canna di bamboo che usiamo come bastone da viaggio per non
essere scoperti. Arrivati a casa, sveliamo al nostro imperatore
Giustiniano quello che abbiamo scoperto così sarà possibile anche
in occidente realizzare vestiti di seta.
LEONARDO, MONNA LISA E LUCIA
Questo racconto di finzione unisce le nostre scoperte sull’arte e sulla
letteratura, infatti sappiamo che la famosa Gioconda, ritratta da
Leonardo da Vinci, era la moglie di un mercante di seta e che il
Manzoni, autore del romanzo «I promessi sposi» immagina che Lucia
sia una filandaia e che Renzo sia il proprietario di un filatoio.
In un piccolo paesino di nome Vinci c’era la bottega di Leonardo.
Lì dentro era molto umido e freddo. Al centro della stanza c’era
uno sgabello vicino ad un cavalletto. Il pittore stava facendo un
ritratto alla Monna Lisa. La donna era molto giovane, ma non
molto bella. In testa portava un bellissimo velo di seta regalato dal
marito che era proprietario di una grande azienda serica ed era
anche molto ricco. Ad un tratto il pittore disse: “Buongiorno Monna
Lisa, cosa mi racconta quest’oggi?” “Salve Ser Leo, oggi sono
molto stanca perché abbiamo dovuto portare una filandaia dal
medico perché si era ammalata di tubercolosi. Intanto che poso
per lei, però, le voglio raccontare la storia di Lucia che lavora
nella mia filanda. Lucia è una bellissima ragazza innamorata
follemente del suo ragazzo Renzo e hanno deciso di sposarsi.
Qualche giorno fa però, il prete Don Abbondio, che deve sposare
Renzo e Lucia, mentre tornava a casa lungo un sentiero, ha
incontrato i Bravi, degli scagnozzi di un signorotto di nome Don
Rodrigo che si è innamorato di Lucia. I due gli hanno detto che il
matrimonio non si deve fare, così il prete, senza esitare, se ne è
andato. Quando Renzo ha scoperto la notizia si è arrabbiato, ma
infine è scappato a Milano e Lucia è fuggita a Monza perché
rischiava di essere rapita da Don Rodrigo. Quando Lucia ha
saputo che Renzo stava a Milano è andata a cercarlo. Lo ha
trovato e i due si sono sposati. Ora lei si è trasferita qua a Vinci e
lavora come maestra nella filanda, invece Renzo è diventato
proprietario di un piccolo filatoio.” “Che bella storia Monna Lisa, mi
è piaciuta molto! La prossima volta che incontri Lucia mandamela
qua così le farò un bellissimo ritratto!” “Va bene Ser Leo, ora
posso vedere il mio ritratto?” “Certamente Monna Lisa, eccolo
qua!” “Oh che bello! Quanto devo pagare?” “Glielo regalo!”
“Grazie!” “Di nulla!”
I CONTADI’ DE SANT’APPOLLINARE A Sant’Appollinare, in frazione di Arcevia, vivevano due fratelli.
Samuele era un ragazzo di 17 anni, aveva dei capelli ricci e neri,
degli occhi verdi, il naso a punta, una bocca con delle labbra poco
carnose, una corporatura robusta e un carattere buono. Nella vita
di tutti i giorni era un ragazzo semplice, simpatico e tutti gli
volevano bene. Luca invece aveva 18 anni aveva dei capelli lisci,
al contrario di suo fratello, degli occhi marroni, naso a punta come
suo fratello, la bocca con delle labbra sottili.
I due fratelli erano figli di Giorgia e Peppino, una filandaia e un
contadino mezzadro.
A Peppino non piaceva allevare i bachi da seta perché gli faceva
brutto vederli, preferiva fare altre cose come dare da mangiare
agli animali, coltivare il grano e mieterlo.
Inoltre quell'anno Peppino si era preso una grave malattia e
dovette lasciare l'allevamento dei bachi ai suoi figli.
Per allevare i bachi da seta si doveva svolgere un lungo
procedimento. I due fratelli prima si recarono a comprare 2 once di
uova di bachi, poi le misero vicino al fuoco finchè non si schiusero,
successivamente le misero negli sturini con sotto la carta paglia
con dei fori piccoli.
Mano a mano che i bachi crescevano si utilizzavano fogli di carta
con fori piú grandi.
Ad un certo punto si dovevano raccogliere dei rametti per fare una
specie di bosco dove i bachi si arrampicavano per fare il bozzolo.
Samuele e Luca avevano capito che era giunto il momento di
staccare ii bozzoli dai rami per portarli a vendere al mercato.
Durante il lavoro gridò al fratello: ”Daglie Samuè, movede sennò ‘l
mercado ce chiude!”
“Gimo a carca’ ‘sti cesti de’ bozzoli, che almeno gliel’ famo vede’
noià a quell’altri contadi’!” rispose Samuele “’Nte proccupa’, c’è
sempre gido be’ ‘l mercado!”, Samuele allore decise:”Partimo col
bue e la carretta su pe’ la collinetta de’ S. Appollinare.”
“Su cima la collina al bue glie pia n’infarto a arrià a piedi fino a sul mercado!”
I due fratelli partirono per recarsi al mercato dei bozzoli di Jesi
perchè avevano letto i manifesti appesi nella piazza di Arcevia e
avevano visto che questo mercato aveva i prezzi più vantaggiosi.
L’anno precedente i loro vicini di casa erano andati a vendere i
bozzoli a Senigallia perché lì il mercato offriva di più.
Appena arrivati al mercato c’erano molti carretti e molti contadini
che vendevano i bozzoli.
Prima si recarono alla bilancia per far pesare i bozzoli. Poi arrivò il
compratore che valutò la qualitá dei bozzoli. Per fortuna era molto
buona e ai fratelli venne offerto il prezzo massimo. Erano
entusiasti!
Il mercato era andato bene, così Luca, una volta tornato a casa
disse:"‘l mercado è gido be’, qué famo pe’ festeggia’?”
“Chiamamo a tutti e ce mettemo a be’ finché la bottiglia de vi’ n’ s’è
scolata!”
Luca, convinto da Samuele, si mise a chiamare tutti i vicini e gli
amici, e il padre tutto contento, fece loro i complimenti per il buon
affare.
LA BELLISSIMA STANZA Un giorno, mentre stavo giocando con i miei amici a nascondino,
vidi una vecchia casa colonica. Quando entrai per nascondermi fui
fermata da una voce allegra che mi diceva se potevo aiutarla per
staccare i bozzoli, ogni bozzolo è un filo di seta arrotolato su se
stesso.
Quella strana stanza aveva al suo interno degli sturini con sopra
appoggiati centinaia di bachi da seta, un girello con una piccola
bambina che giocava, un camino e un gatto addormentato.
Dopo averli staccati dai rami secchi, i bozzoli selezionati li
abbiamo portati al mercato dei bozzoli di Jesi, ci hanno pagati e
poi siamo tornati alla casa colonica.
Siccome le donne che erano in quella stanza erano colone, dopo
poco tempo è arrivato il proprietario terriero che fu contento del
denaro guadagnato. La sera sono potuta ritornata a giocare con i
miei amici, molto felice di aver trascorso una bellissima giornata
piena di avventure.
Giovanni Segantini-La raccolta dei bozzoli-1881
IL FANTASMA DELLA BADESSA
La Badessa era la suora superiora delle Clarisse, ma ormai morta
divenne un fantasma. Passava il suo tempo nel convento delle
Clarisse che si trovava accanto alla chiesa di Santa Lucia, ma un
giorno accadde qualcosa di strano: vide delle persone nel
convento che stavano combinando una gran confusione,
trasportavano casse di cose simili a dei confetti chiamati bozzoli,
piccole palline come minuscoli semi chiamate uova di baco, sacchi
di piante verdi e rosicchiate che dicevano si chiamassero foglie di
gelso. C’erano piccoli bruchi grigiastri che mentre mangiavano
producevano un rumore insopportabile... insomma, stava
cambiando tutto.
“Ma...ma… che succede? Il mio povero convento sta diventando
un pollaio! Sono… sono così...così infuriata che gliela farò pagare
a quelli! Vorrei tanto intervenire, ma non posso, sono un
fantasma… . Comunque troverò un modo per cacciarli!”, diceva la
Badessa disperata. Allo scoccare della mezzanotte, la Badessa
andò nella cucina della nuova filanda, prese le stoviglie e si mise a
fare rumore per spaventare quegli uomini che avevano invaso il
suo convento e mandarli via.
“Papà, ho paura, cos’è questo rumore?”, diceva Carlo, il figlio del
filandiere, spaventato da quei rumori. “Non ti preoccupare, piccolo
Carletto. Vado a controllare.” rispondeva il papà. Scese le scale a
chiocciola per arrivare in cucina, ma appena aprì la porta, il
rumore sparì. Tornò su e il rumore ricominciò. “Che potrebbe mai
essere? È un mistero.” sussurrava il padre di Carlo, perplesso.
Qualche settimana dopo, Carlo aveva già compiuto 6 anni.
Già prima che fosse nato, la Badessa faceva rumore dopo la
mezzanotte. Ma dopo tutti quei 6 anni, Carlo era incuriosito da
quei rumori misteriosi. Così una sera a mezzanotte si recò in
cucina da solo, scendendo le scale così silenziosamente che la
Badessa non lo sentì arrivare. Il fantasma batteva le stoviglie in un
angolo, ma il bambino non la vedeva, perché era un fantasma.
Però dopo un po’ fu lei ad accorgersi della presenza del bambino,
di nascosto gli andò dietro e all’’improvviso lo mise in un sacco.
Lo portò nella soffitta e appena lasciò il sacco, lui uscì. Lei si fece
visibile e Carlo era terrorizzato: “Chi sei tu? Lasciami stare!!! ...
… Io non ho fatto niente.”
Vedendo che non lo aveva picchiato né ucciso, il piccolo si calmò.
La Badessa gli spiegò perché tutte le notti faceva rumore. Il
bambino promise di mantenere il segreto, fecero amicizia finché…
“Cosa succede?” urlò Carlo. C’erano grandissimi botti. Stavano
abbattendo la filanda per costruire le scuole medie. “Dobbiamo
andare via!” si spaventò la Badessa.
“Ora che abbatteranno tutto, dove vivrai?” chiese Carlo.
“Penso nella nuova soffitta della scuola”.
“Ma non farai più rumore, vero?”
“No, ormai ho capito, non ce n’è bisogno.”
“Ma da quanti anni cerchi di spaventare le persone?”
“Ohh… più di cento… sapessi.”
“Ma ora quanti anni hai?”
“Ormai più di duecento… Non ricordo bene quanti.”
“Quando sarò grande e andrò alle scuole medie ti verrò a trovare,
ora andiamo.”
Scapparono e uscirono; era già mattina.
“Ma dov’eri finito?” chiese il padre quando il suo piccolo tornò.
“Stavo inseguendo un gatto… . Hai visto che stanno costruendo la
nuova scuola media?” disse Carlo felice dopo la grande avventura.
Anni e anni dopo il bambino, anzi, il ragazzo, aveva ormai 11 anni e
aveva iniziato a frequentare le scuole medie.
Durante l’intervallo, Carlo andò senza farsi vedere nella soffitta e
cercò la Badessa. “Carlo! Quanti anni son passati. Speravo mi
venissi a trovare prima. Sei diventato grande dall’ultima volta che ti
ho visto.” lo salutò il fantasma, fattosi visibile in un angolo.
Luca, sorpreso, la salutò: “Ciao! Non speravo molto di trovarti
ancora qui, ma è successo. Sono felice di rivederti, però ora devo
andare. Verrò a trovarti un’altra volta. Ciao Badessa”.
“Ciao, ti aspetterò” rispose lei e scomparve in un batter d’occhio.
BIBLIOGRAFIA
A.A. V.V. – Nelle Marche centrali – Territorio, economia, società tra
Medioevo e Novecento: l’area esino – misena - Tomo II- a cura di
Sergio Anselmi, Cassa di Risparmio di Jesi, 1979.
Tonino Zedde -La seta-Album del lavoro- Città di Jesi, 1988.
A.A. V.V.- Colli,il piccolo cuore di seta della valle del Tronto – a
cura di Gabriele Cavezzi, Banca Picena Truentina, 2007.
Maria Francesca Chiodi – Le filande marchigiane fra ottocento e
novecento- Regione Marche-Servizio tecnico alla cultura, 2003.
Alberto Fiorani – La filanda del Conte Pongelli- Centro Cultura
popolare- Ostra Vetere, 2009.
I PICCOLI STORICI DELLA CLASSE VA
AGUZZI JENNIFER AJDARI ENDRITA
AMBROSINI CRISTIAN BIANCINI GIACOMO BRUNI LEGIEN SOFIA
CASTIGLIONI LEONARDO CAVALLETTI FRANCESCO
CURZI CRISTIANO DA SILVA LUIS
GOBBETTI SIMONE LAMETTI IVAN
LUCARINI LUNA MARCHEGIANI DILETTA MARIOTTI ALICE GIULIA MENCARELLI ROMINA
PAPI JENNY PIETRINI NICOLA
SERI MARCO SERVADIO DENNIS
TORRETTI ALESSANDRO UGOLINI MARIA STELLA
VERDINI LORENZO
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PETRONILLI MARIA CRISTINA BUCCI OMBRETTA
I RICORDI REGALANO IL GIOCO DEL TEMPO…