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il fatto I detective della nuova tubercolosi MARIO CALABRESI e DARIA GALATERIA il reportage I segreti del Taj Mahal, pianto di pietra FEDERICO RAMPINI la storia Il Tour de France a pane e acqua GIANNI MURA e PAOLO RUMIZ cultura Goldblatt, poeta del bianco e nero ANDRÉ BRINK GABRIELE ROMAGNOLI Il viaggio era cominciato a tavolino. La meta da individuare era il luogo d’Italia che oltre un decennio di immigrazione aveva maggiormente rivoluzionato. E frammentato. Non una China- town o un qualunque altro aggregato omogeneo. Un pianeta ar- cobaleno, la somma di tutte le origini, l’avverato incubo (o so- gno, o destino, dipende dai punti di vista) multietnico, che pren- de il posto della realtà nazionale, spazza via la polvere dell’iden- tità e lascia sulla strada... che cosa? Questo era da verificare. Do- ve? A Brescia, secondo le indicazioni dell’Istat. Dai loro dati: l’88% della popolazione straniera risiede nel Centro-Nord, ben un quarto in Lombardia, con un’incidenza del 7% cento sul totale dei residenti. Nella provincia di Brescia questa quota sale al 9,4% e supera il 13% quando si considera il comune. L’insediamento più antico è stato di comunità dal Senegal, Fi- lippine, Ghana e Algeria. Ora i residenti stranieri nella Provincia sono oltre centomila in rappresentanza di 151 Paesi, dagli oltre quindicimila marocchini al cambogiano triste e solitario, ma non «finàl», giacché essi si riproducono e un nato su tre non è ita- liano. Con queste premesse sono entrato a Brescia in una matti- na d’estate in cui «se mùr, se crepa» alla ricerca del microcosmo, del simbolo, del marchio di Babele. (segue nelle pagine successive) con i dati di un’inedita elaborazione ISTAT DOMENICA 24 GIUGNO 2007 D omenica La di Repubblica BRESCIA P arafrasando la Bibbia (Genesi 11, 1-9): «Tutta la città aveva una sola lingua e le stesse parole. Dissero: co- struiamoci una torre e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra. Ma il Signore disse: ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà possibile. Confondiamo dunque la loro lingua, perché non si comprendano più l’uno con l’altro. Emigrando dall’o- riente uomini capitarono nella città, che si chiamò Babele». O Brescia. Dalle targhette sui campanelli delle abitazioni di un edificio in Via delle Battaglie: Palaganas, Ajubaladi, Saharom, Rare Jewei (Bangladesh), Abdal Mohammed, Agal Ibrahim, Shafiquul, To- paktas. A quel punto, fermo in mezzo alla strada, guardando il porto- ne, ascoltando le voci di due egiziani fermi all’incrocio («Es- saiek?» «Amdulilleh»), di un cingalese al telefono di una residua cabina, di Radio Padania Libera (97mhz) che combatteva con la colonna sonora di un musical di Bollywood in dvd, il sibilo di una cinese alla collega barista, la preghiera in pijin english di un ca- meriere nigeriano yoruba e l’esclamazione di un’anziana au- toctona entrando dall’ultima parrucchiera, afflitta dal caldo: «Se mùr! Se crepa!», ho capito di essere davvero arrivato a Babele. la lettura Gli amabili spettri di Conrad e Benet JAVIER MARÍAS spettacoli America, il paese trita-auto SIEGMUND GINZBERG Babele La città Benvenuti a Brescia, la nuova capitale dell’Italia futura, dove un bambino su tre nasce da genitori immigrati FOTO EDEN Repubblica Nazionale

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il fatto

I detective della nuova tubercolosiMARIO CALABRESI e DARIA GALATERIA

il reportage

I segreti del Taj Mahal, pianto di pietraFEDERICO RAMPINI

la storia

Il Tour de France a pane e acquaGIANNI MURA e PAOLO RUMIZ

cultura

Goldblatt, poeta del bianco e neroANDRÉ BRINK

GABRIELE ROMAGNOLI

Il viaggio era cominciato a tavolino. La meta da individuare erail luogo d’Italia che oltre un decennio di immigrazione avevamaggiormente rivoluzionato. E frammentato. Non una China-town o un qualunque altro aggregato omogeneo. Un pianeta ar-cobaleno, la somma di tutte le origini, l’avverato incubo (o so-gno, o destino, dipende dai punti di vista) multietnico, che pren-de il posto della realtà nazionale, spazza via la polvere dell’iden-tità e lascia sulla strada... che cosa? Questo era da verificare. Do-ve? A Brescia, secondo le indicazioni dell’Istat.

Dai loro dati: l’88% della popolazione straniera risiede nelCentro-Nord, ben un quarto in Lombardia, con un’incidenzadel 7% cento sul totale dei residenti. Nella provincia di Bresciaquesta quota sale al 9,4% e supera il 13% quando si considera ilcomune.

L’insediamento più antico è stato di comunità dal Senegal, Fi-lippine, Ghana e Algeria. Ora i residenti stranieri nella Provinciasono oltre centomila in rappresentanza di 151 Paesi, dagli oltrequindicimila marocchini al cambogiano triste e solitario, manon «finàl», giacché essi si riproducono e un nato su tre non è ita-liano. Con queste premesse sono entrato a Brescia in una matti-na d’estate in cui «se mùr, se crepa» alla ricerca del microcosmo,del simbolo, del marchio di Babele.

(segue nelle pagine successive)con i dati di un’inedita elaborazione ISTAT

DOMENICA 24 GIUGNO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

BRESCIA

Parafrasando la Bibbia (Genesi 11, 1-9): «Tutta la cittàaveva una sola lingua e le stesse parole. Dissero: co-struiamoci una torre e facciamoci un nome, per nondisperderci su tutta la terra. Ma il Signore disse: ecco,

essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo èl’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di farenon sarà possibile. Confondiamo dunque la loro lingua, perchénon si comprendano più l’uno con l’altro. Emigrando dall’o-riente uomini capitarono nella città, che si chiamò Babele». OBrescia.

Dalle targhette sui campanelli delle abitazioni di un edificio inVia delle Battaglie: Palaganas, Ajubaladi, Saharom, Rare Jewei(Bangladesh), Abdal Mohammed, Agal Ibrahim, Shafiquul, To-paktas.

A quel punto, fermo in mezzo alla strada, guardando il porto-ne, ascoltando le voci di due egiziani fermi all’incrocio («Es-saiek?» «Amdulilleh»), di un cingalese al telefono di una residuacabina, di Radio Padania Libera (97mhz) che combatteva con lacolonna sonora di un musical di Bollywood in dvd, il sibilo di unacinese alla collega barista, la preghiera in pijin english di un ca-meriere nigeriano yoruba e l’esclamazione di un’anziana au-toctona entrando dall’ultima parrucchiera, afflitta dal caldo: «Semùr! Se crepa!», ho capito di essere davvero arrivato a Babele.

la lettura

Gli amabili spettri di Conrad e BenetJAVIER MARÍAS

spettacoli

America, il paese trita-autoSIEGMUND GINZBERG

BabeleLa città

Benvenuti a Brescia,la nuova capitaledell’Italia futura,dove un bambino

su tre nasceda genitori immigrati

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Repubblica Nazionale

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2007

Tutte le lingue di Little Brescia

In questi vicoli - come certifica l’Istat - convivono 151 etnie,più di un abitante su otto è straniero, un neonato su treviene da famiglie di immigrati. La città-babele,il melting pot dell’Italia futura sta proprio qui,all’ombra della storica, duecentesca Torre della Pallata

(segue dalla copertina)

Ho attraversato periferiein tutto simili, anche perpopolazione, al restod’Italia, quartieri di unfuturo mai avverato(Brescia Due) e sono ar-

rivato al centro, dove mi è apparsa latraccia del traguardo. Se cerchi Babele,devi trovare la Torre. Ecco la Torre del-la Pallata, altezza trentuno metri, eret-ta nel Tredicesimo secolo. Ai suoi pie-di una fontana del 1596 con due boc-che a rappresentare altrettanti fiumi.

Di lato: un phone center di prossimaapertura, colonne romane e MoneyGram, antiche pietre e vaglia per laMoldova.

Sono ai confini della Contrada del

Carmine, cuore del centro storico diBrescia, strade che portano i nomi diGaribaldi e dei Mille, o quelli più anti-chi di Rua Sovera e Rua Confettera, ne-gozi che parlano un’altra lingua.

Dalle insegne di alcuni esercizi com-merciali nelle vie del quartiere: Halalmeat, World travels (we speak italian,english, urdu, punjabi, esperanto),Bangla Shop, Emporio Hua Li, MadinaTrading, Desent Hair Studio, Nuovi ar-rivi (in tricolore) Negozio Italiano,Vendesi attività, Vendesi attività, Ven-desi attività.

I negozi e i palazzi raccontano la sto-ria della contrada. E un po’ lo fa ancheMario Labolani, presidente della cir-coscrizione, pantaloni rossi e biciclet-ta elettrica, candidato per Alleanza Na-zionale, eletto a maggioranza assolutae «imbattibile anche la prossima volta,qui votano tutti per me». Se non che

«tutti» sono sempre meno. Tutti sonopochi. Ufficialmente gli stranieri nellacontrada sarebbero il 34%. Con gli irre-golari la cifra raddoppia e si intuisce avista d’occhio. C’era una volta il centrostorico di una città lombarda, vecchiecase piene di storia e muffe, in manoquasi esclusivamente a tre famiglie(Boscain, Morosini, Tinti).

Cominciarono ad affittare i locali,spazi sempre più piccoli a prezzi sem-pre più alti. Li potevano pagare i clan-destini e i disperati. Magari i fuorileg-ge. Vennero i senegalesi, vennero gli al-banesi, poi i cinesi, i pakistani. Strettitra loro e gli uni accanto agli altri. Que-sta è la caratteristica unica, forse almondo, della Babele del Carmine: per-corri una strada e fai il giro del pianeta.Altrove, perfino nelle metropoli d’A-merica, i cinesi si prendono un interoquartiere, i sudamericani stanno tra

loro, possibilmente al di là di un fiume,i coreani si radunano attorno a quelloche ritengono il simbolo di maggiorepotenza della città.

Al Carmine, per non avere briciole,hanno diviso la torta e la mangiano al-lo stesso tavolo. I cinesi si sono presi ibar, i bengalesi i negozi di frutta e ver-dura, i pakistani i phone center, gli al-banesi la prostituzione, i nordafricani(capeggiati dal carismatico Stampella,lesto di mano più che di gamba) il traf-fico di stupefacenti.

È cambiato tutto e ancor più cam-bierà. Al Carmine, se vedi un cane o ungatto è di un italiano, se vedi un bam-bino è di uno straniero. La scuola all’o-ra della ricreazione sembra una pub-blicità di Benetton. Chi non vuole mi-schiarsi va a studiare dalle dorotee. Ipiù restii all’Onu dell’apprendimentosono i cinesi, secchioni e disciplinati

per natura, che considerano palle alpiede il resto del mondo e spesso emi-grano verso banchi di altri quartierimeno frammentati.

Al Carmine, se vedi un negozio mer-ceologicamente superato (Coppe, tar-ghe, incisioni Benedini, Caccia e PescaLa Rossana) è italiano, tutto il resto,quel che si compra e si vende davveroogni giorno, il cibo, le stoffe, le schedetelefoniche, è straniero e sottocosto.L’abbigliamento per neonati è cinese.Le onoranze funebri (Curati, o Cùrati,dal 1935, italiano). C’è un ristorante in-diano (Taj Mahal) che serve menù ita-liano a mezzogiorno e ci sono due lum-bard che vendono abbigliamento etni-co su un banco in piazza. Chi ha passa-to l’attività è stato pagato in contanti,parte in nero, ha sorriso e adesso criti-ca l’immigrazione selvaggia sedutoper ore a un tavolino con il conto in

GABRIELE ROMAGNOLI

la copertina

la percentualedi stranieri sposati

Erano il 40%nel 1992

54%

i matrimoni mistia Brescia

In Lombardiasono il 12,6%

15,4%

i matrimonitra stranieri

o mistia Brescia

21,5%

gli studentistranieri sul totale

degli alunniIn Italia sono il 4,8

10,4%

gli studentistranieri

nella scuolaprimaria a Brescia

12,3%

gli studentistranieri

nella provinciadi Brescia

17.814

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COPERTINA

In copertina,campanelli

nel vecchio centrodi Brescia

CITOFONI

A sinistrae in alto a destra,

il melting potdei citofoni

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 24GIUGNO 2007

banca a fare da scudo. Se vuole instal-lare il condizionatore («Se mùr! Se cre-pa!») chiama Hafeez Tahir, «the bestelectrician» del quartiere.

Dalle scritte sui muri del Carmine:«Quieres cafe mi vida? Sirvetelo», «Ikatangy», «Palestina rossa», «I shin denshin», «Morte al fascio».

Il cambiamento lo vedi, lo ascolti, lopuoi perfino annusare. All’ora dei pa-sti salgono odori multietnici, speziati eforti. Al mercato locale le vendite di ci-polle sono più che decuplicate. Unafricano cucina nel suo take away dovesono esposti un menù internazionale el’invito «Vieni, qui trovi Little Senegal aBrescia». Penso che la definizione siaimprecisa. La Babele del Carmine nonè la somma di Little Senegal, China-town e Rabat Due.

È, piuttosto, Little Brescia, quel cheresta dal tempo in cui «tutta la città ave-

va una sola lingua e le stesse parole».Poi ha cominciato a costruire la Torre,ma nessuno se ne è messo a guardia.Gli uomini emigrati da Oriente sonoentrati portando le loro lingue, i costu-mi e gli ingredienti per il pasto, accolticon un sospetto che l’avidità dissipa-va. Pagavano il pedaggio, dunqueavanti. Quando la distrazione e il tor-naconto hanno lasciato il posto allaconstatazione tardo sbigottita, RuaSovera era già una terra di mezzo e nelCarmine la babele di voci si levava daquaranta phone center. C’erano unbarbiere per arabi e una parrucchieraper africane, un alimentari cinese euno pakistano, con un’offerta così va-riegata e sottocosto, una clientela cosìprecisa e limitata da rendere legittimoil sospetto che a garantire la sopravvi-venza fossero anche altri commerci, acominciare da quelli dei permessi di

soggiorno, garantiti da assunzioni difacciata in un qualunque eserciziocommerciale.

Dalla sezione annunci economici,rubrica incontri, del quotidiano Bre-scia Oggi: «Cinese, ottima massaggia-trice», «Marocchina calda riceve»,«Thailandese cortese, non te ne penti-rai», «Argentina bionda, gentilezza erelax», «Trans brasiliana, anche a do-micilio», «Russa, tacchi alti e calze ne-re, condizionatore», «Giovane bulga-ra, come tu mi vuoi».

Adesso si corre ai ripari: una legge re-gionale ha limitato il numero dei pho-ne center, si impongono restauri negliappartamenti e si controllano gli affit-ti, ma la legge di natura è implacabile,nel giro di dieci anni l’ultimo italianolascerà, per scelta o per decesso, lacontrada al cui ingresso, ironicamen-te, esiste e resiste un negozio chiamato

«Medinitali». È una maledizione o unabenedizione? Il testo della Genesi hadiverse interpretazioni.

Una sostiene che la «cittadella uni-versale» che si stava erigendo, con alcentro la torre, simboleggiava la can-cellazione della diversità delle lingue,delle culture, della gente. Dio sarebbeintervenuto per impedire agli uominidi distruggere una parte essenzialedell’umanità: la diversità, che sarebbeaddirittura sacra. Secondo questa teo-ria quello della torre di Babele è un rac-conto satirico, è una satira dell’impe-ro, che condanna l’uniformità, esaltala diversità e ci dice che è voluta da Dio,appartiene al nostro patrimonio e nonsi può cancellare. Qui siamo, cittadinidi una contrada globale, tra tonnellatedi cipolle, carne halal, massaggi relax,scarpe da cinque euro, preghiere intutte le lingue del mondo. E così sia.

FONTE ISTAT

Tutti i dati che certificanocome, sia rispetto al comune

che alla provincia, Bresciasia la città-babele, ovvero

la città statisticamentepiù multietnica d’Italia,

dati utilizzatiper l’inchiesta di copertina e riportati in queste pagine,

sono stati elaboratiappositamente

per la Repubblicadal Servizio statistichedemografiche dell’Istat

Città campioneL’88% della popolazionestraniera in Italia risiedenel Centro-nord, un quartoin Lombardia, il 7% sul totale dei residentiNella provincia di Bresciaquesta percentuale saleal 9,4% e supera il 13%nel Comune

MultietnicaGli stranieri residentiin provincia sono oltre110mila suddivisi in 151etnie. I più numerosi sonoi marocchini (oltre 15mila)seguiti da albanesi(14mila), pakistanie indiani (oltre ottomila),romeni (oltre settemila)

ProlificaA livello nazionale i natidi cittadinanza stranierasono il 9,4% del totaledei nati residentinel 2005. In Lombardiasuperano il 15%e nel comune di Bresciala percentuale raddoppiaarrivando al 31,3%

i figli per donnastraniera

in provincia control’1,2 delle italiane

2,97

i nati a Bresciacon almenoun genitore

straniero nel 2005

35,1%

i minorennisul totale

degli stranieria Brescia

20%

i permessidi soggiornoin provincia

al gennaio 2006

97.388

gli stranieri in etàattiva (18-39 anni)

contro il 29%degli italiani

50,8%

gli stranieriche lavoranonel comunedi Brescia

42.480

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COPPIE

A sinistrae sotto, coppie

di immigratinei parchi cittadini

BABELE

In queste pagine,quattro quadri

della torredi Babele

Repubblica Nazionale

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2007

ni. «E pensare che era in un declino che sembrava ir-reversibile, poi l’aids — spiega Marilà Gennaro — harotto un equilibrio e quello che è successo a New Yorksi è replicato in modo identico in Sud Africa. La ma-lattia ritorna in auge sfruttando le devastazioni del-l’aids e, grazie alle trascuratezze delle cure, fa il saltodi qualità, diventa “multi drug resistant”. Prenderenovanta pillole alla settimana, nella fase intensiva,per poi continuare sei mesi, un anno, è pesante e fa-ticoso, molti abbandonano la cure, senza controlli,dopo poche settimane non appena hanno la sensa-zione di stare meglio. Così si selezionano i batteri piùresistenti agli antibiotici, i mutanti spontanei».

«Nei paesi dell’Europa dell’Est che erano sottol’Urss — continua Marilà Gennaro — con il crollo delsistema sanitario sono esplosi i ceppi resistenti ai far-maci. Quasi mezzo milione dei nuovi malati ogni an-no nel mondo è di questo tipo. Intanto la tbc corre eha fatto il nuovo salto, il terzo: ora è anche “extensi-vely drug resistant”, è la tubercolosi estrema che re-siste anche ai farmaci di seconda linea. Si prova a cu-rarla con farmaci sempre più costosi e tossici. In SudAfrica ha avuto una fiammata all’inizio dell’anno

con una mortalità pressoché totale: la sopravviven-za media dal giorno della diagnosi è sedici giorni.Una malattia che era terribile ma affrontabile confarmaci poco costosi e relativamente tossici sta di-ventando, nelle sue forme estreme, incurabile. Stia-mo tornando a scenari di possibile mortalità prece-denti alla terapia antibiotica».

Bisogna aumentare la ricerca, ma i soldi non ba-stano, quando in Occidente si deve dare priorità auna malattia per assegnare i fondi di ricerca si scegliequalcosa che è più vicino a noi, dal cancro al diabete.Non si punta su malattie che colpiscono i poveri, imalati di aids africani e, negli Stati Uniti, i neri, gliispanici e gli immigrati. Bisogna cercare nuove me-dicine, l’ultima è del 1963, sono più di quarant’anniche non si mettono a punto terapie antibiotiche ag-giornate, che siano capaci di abbreviare le terapie. Esi devono trovare metodi per fare diagnosi precoci,prima che i malati diventino contagiosi. Ma costatroppo alle case farmaceutiche, è uno sforzo ecces-sivo in termini di tempi e investimenti in ricerca perdare vita a una medicina che non sarà mai remune-rativa, perché utilizzata soprattutto dai più poveri

NEWARK

Successe nel 1990, quando la tubercolosi,ormai quasi scomparsa, incontrò unapandemia nuovissima, apparsa aManhattan meno di dieci anni prima.

Una delle malattie più antiche della storia dell’uo-mo, presente da quindicimila anni, rintracciabileperfino nelle mummie egiziane, trovò l’habitat idea-le per risorgere: i corpi debilitati dall’aids. Ma si pre-sentò con una sorpresa: non era più solo la malattiascatenata da quel micobatterio scoperto da un oscu-ro medico tedesco, Robert Kock, nel 1882 e curatacon farmaci messi a punto negli anni Quaranta, ave-va un volto nuovo e sconosciuto, aveva fatto il saltodi qualità, era diventata più forte e resistente ai vec-chi antibiotici.

Il primo caso apparve in un carcere a nord di NewYork. Sarebbe rimasto isolato, ma il «peggior scena-rio possibile» doveva avverarsi.L’uomo uscì per curarsi e la sor-te volle che nell’ospedale in cuiarrivò il reparto dei malati di tbce quello di chi aveva l’aids con-clamato fossero contigui. Fuun gioco da ragazzi e tra le duemalattie si celebrò un matri-monio perfetto. La tbc è vigliac-ca, capace di dormire per anninei corpi sani per presentarsinon appena riconosce i primisintomi di debolezza: vec-chiaia, alcolismo, malnutrizio-ne, droga. Niente di meglio diuna malattia che distrugge il si-stema immunitario comel’aids, quello è l’habitat ideale eallora la combinazione diventaesplosiva.

L’epidemia a New York futerribile: in quarantatré mesi,dal gennaio 1990 all’agosto ‘93,i casi furono oltre dodicimila.La città corse ai ripari, spese unmiliardo di dollari per fronteg-giare l’emergenza, riaprì i labo-ratori chiusi nell’era reaganiana, stanziò fondi in unalotta contro il tempo e di fronte al vecchio ospedaleBellevue, lo storico sanatorio di New York, nacqueun centro d’avanguardia dove raccogliere i migliorimedici e microbiologi per fermare l’epidemia e at-trezzarsi per il futuro.

Il simbolo di quello sforzo oggi si è trasferito in NewJersey, a Newark, attratto da una politica intelligen-te di finanziamenti alla ricerca: è un edificio nuovis-simo che si raggiunge in venti minuti di treno daManhattan. Qui c’è la sede del TB Center, il centroche studia la tubercolosi del Public Health ResearchInstitute. Nove laboratori d’avanguardia, ognuno hagrandi stanze BL3, spazi di bio-sicurezza di terzo li-vello, a pressione negativa — l’aria è filtrata ed entrama non esce — ci si accede solo con la tuta, la ma-scherina e gli occhiali, qui si studiano i micobatteridella tubercolosi. Ce lo racconta Marilà Gennaro,medico italiano con specializzazione a Londra che faricerca da più di vent’anni negli Stati Uniti. Dirigeuno dei gruppi che studia le risposte immunitarie enuovi metodi di diagnosi.

Sullo stesso piano, un ambiente impressionanteper gli spazi, la luce e le tecnologie d’avanguardia, la-vora Barry Kreiswirth, microbiologo. Sul suo tavoloun mattone con incisa una scritta, «Non sputate sulpavimento», viene da un sanatorio degli anni Venti,intorno i poster della prima metà del secolo scorsocon i bambini malati che dicono: «Non baciatemi».Lui è un investigatore. È quello che prende le im-pronte digitali ai batteri della tbc, li scopre, li traccia,li archivia e così li può seguire, può ricostruire per-corsi dei contagi, per cercare di rompere la serie.

Ha scoperto il colpevole delle morti: «Ci volle oltreun mese, mentre eravamo nel bel mezzo dell’epide-mia. Lo isolammo, capimmo che era simile al ceppoBeijing che si trova in Asia e nell’Europa dell’Est maquesto era diverso da tutti gli altri. Era nato qui. Era ilventitreesimo, lo chiamammo «W»: i batteri hanno lelettere dell’alfabeto come gli uragani, qualcuno diceche la scegliemmo perché significava «wicked», mal-vagio, ma la verità è che era la prima lettera disponi-bile. Identificammo 357 pazienti con il W, in gran par-te sieropositivi, morirono quasi tutti, il novanta percento, fu terribile ma questo fermò l’epidemia».

Oggi i valori sono tornati a scendere ma ci sono an-cora un migliaio di casi di tbc l’anno a New York e ilceppo W circola per l’America. Ogni tanto salta fuo-ri da qualche parte, è successo centosessanta volteda allora. Una ventina erano persone che a quel tem-po lavoravano negli ospedali. Pochi giorni fa è acca-duto nella Carolina del Nord: un malato, uno stranoceppo, dall’ospedale si rivolgono al centro diNewark, gli mandano una mail con l’identikit, a ve-derlo stampato su carta sembra un codice a barre co-

il fattoPandemie

È una malattia antica, resa leggendariadai libri dei nostri nonni. Sembrava sconfittadai farmaci del Novecento ma in anni recenti,nella distrazione di governi e Big Pharma,è tornata a uccidere. Fino a quando, pochigiorni fa, è spuntato il “malato perfetto”

MARIO CALABRESI

A Newark, New Jersey,sorge il TB Centerdove i migliori ricercatoristudiano nuovi metodidi diagnosi e nuovi farmaciIl caso Andrew Speaker,giovane avvocato bianco,tipico americano medio,aggredito dalla tbc,ha riaperto il rubinettodei finanziamenti

Nel laboratorio-sentinella

della nuova tubercolosi

IERI E OGGIDall’alto, la corsiadi un anticoospedale per malatidi tubercolosiUna visitaper la prevenzionedella tbcin una scuolaamericana nel 1938Uno scienziatodel TB Centerdi Newark,nel New Jersey,indossa abitie mascherinaprotettiviprima di entrarenei laboratoridove si svolgela ricerca di puntanegli Stati Uniticontro le nuoveforme di tbcmulti resistente

me quelli dei prodotti del supermercato. Lo inseri-scono nella banca dati dove ci sono 22.493 micobat-teri schedati, il verdetto è W: «Chiedetegli subito se èmai vissuto a New York», la risposta arriva quasi su-bito: «Sì, nella prima metà degli anni Novanta».

Già ventidue volte è stato trovato lontano daManhattan: il W viaggia nei corpi di chi cambia casa,lavoro, amici. Un giorno a sorpresa si presenta, in-sieme a un tumore, al deperimento dovuto ad un dia-bete non curato, alla droga, all’alcolismo, a un fortestress; è accaduto a Miami, Las Vegas, Atlanta e per-fino a Parigi. «Andrà avanti per generazioni. Ogni vol-ta — conclude Barry — spieghiamo come provare acurarlo, con quale cocktail di farmaci, perché, se dia-gnosticato in tempo, la metà dei pazienti sopravvive.Isoliamo il paziente, facciamo ricerche sui familiariper prevenire il diffondersi del contagio».

Gli Stati Uniti da soli investono più soldi nella ri-cerca sulla tbc di tutti gli altri paesi del mondo messiassieme. Ma non basta. Nel mondo la situazione si fapiù pesante: c’è un morto ogni quindici secondi, chenell’intero 2005 porta alla cifra totale di due milionidi decessi. Il numero dei casi è arrivato a nove milio-

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 24GIUGNO 2007

del pianeta. Così bisogna puntare sui centri di ricer-ca finanziati con il denaro pubblico. Bill e MelindaGates invece stanno sponsorizzando la ricerca di unvaccino, prima di loro c’erano solo fondi statali an-che in questo campo. Da mesi i laboratori di tutto ilmondo e l’Organizzazione mondiale della sanitàlanciano l’allarme, ma sono poco ascoltati.

Poi arriva il “colpo di fortuna”: si chiama AndrewSpeaker. Bianco, giovane, occhi azzurrissimi, avvo-cato, classe media, con una moglie, Sarah, dai capel-li lunghi biondi e con il classico filo di perle al collo. Èl’incarnazione dell’americano tipo. Si scopre che hala tubercolosi nella sua forma peggiore, quella estre-mamente resistente. Scatta l’allarme perché ha viag-giato tra l’Europa e gli Usa, passando per Roma, indi-sturbato. Viene messo in quarantena. Televisioni,giornali e siti internet si riempiono delle sue foto. Lamoglie gli si avvicina coperta da una mascherina conil becco da paperino. La tbc entra nelle case america-ne all’ora di cena, diventa dibattito da ufficio, da tre-no di pendolari. Occupa le paure dei cittadini. Con-quista prepotentemente un posto di rilievo nell’a-genda dell’informazione e della politica. E segna una

sconfitta dei meccanismi di controllo antiterrori-smo: Andrew è entrato serenamente in macchina dalCanada, anche se il suo volto era stato segnalato e l’F-bi aveva diramato l’ordine di bloccarlo senza esita-zioni. E se fosse stato un terrorista con un’arma bio-logica? L’imbarazzo delle autorità è stato terribile.

Prima si pensa che Speaker abbia preso la tbc daun parente che lavora al Center for Disease Control,il quartier generale delle emergenze mediche e dellaprevenzione a stelle e strisce. Invece quel ceppo nonesiste nei laboratori di Atlanta, sembra possa veniredal Vietnam o dal Perù, dove lui ha fatto volontaria-to. Ora Andrew è a Denver e per salvarlo gli dovran-no asportare la parte di polmone attaccata dal mi-crobatterio.

E subito arrivano i nuovi fondi, la tbc è tornata a fa-re paura, il Congresso approva stanziamenti straor-dinari e si fanno avanti anche i privati per risponde-re alle apprensioni dell’intera America. Nei corridoidel laboratorio di Newark, al tramonto, dietro le ve-trate a tutta parete, risuona una battuta: «È il casoperfetto, un regalo, un vero colpo di fortuna, nean-che ce lo fossimo inventato».

Era il 1928; per diventare scrittore, George Orwell sentì«profondamente» che doveva abbandonare i privile-gi, e condividere la vita degli emarginati. Impegnò i

cappotti al Monte di pietà, e visse al gelo tra i barboni, chenon lo estromisero — come lui temeva — per il suo accen-to di Eton. I polmoni erano già in disordine; una tempestadi nevischio affrontata in camicia degenerò in polmonite epeggio. Imparò però che a Londra le cimici erano più nu-merose nei quartieri del sud che in quelli alti; nei dormito-ri le lenzuola puzzavano maledettamente, e nella notte po-teva capitare che un ubriaco venisse a vomitare vicino ailetti, che distavano un metro (e allora costavano nove pen-ce; la distanza di un metro e mezzo si pagava uno scellino);insomma si fece tutta l’esperienza che diventò nel 1933Senza soldi a Parigi e a Londra, e via via tutti i capolavori —fino a 1984, che gli lasciavano battere a macchina, nell’ul-timo sanatorio, per qualche ora al giorno.

Nel 1918 il creatore dell’hard boiled Dashiell Hammettaveva contratto in guerra una malattia di petto; questo glifu di grande aiuto nel lavoro. Era investigatore privato allaPinkerton Detective Agency di Baltimora, e nei pedina-menti, settantadue chili per due metri di altezza, non pas-sava inosservato. Ora pesava cinquantasette chili, e lochiamavano Slim; ma quando stava bene gli affidavano

compiti turbolenti. In un pedinamentospuntò un complice che lo

colpì alla testa con unmattone, ma lui si ri-fiutò di stare in ospeda-le; in sanatorio andava,perché flirtava con le in-fermiere — una la sposò;c’era un degente chequando stava in forzeusciva con uno sfollagentea fare rapine, e poi si rinfi-lava nel letto.

«Ma non è morto?», sistupì nel 1937 lo sceneggia-tore Budd Schulberg, sen-tendo che Scott Fitzegerald(che era stato in effetti rico-verato per tbc a Tryon nelNorth Carolina e poi a Ash-ville) era stato assunto dallaMetro-Goldwin-Mayer diHollywood — ma era la crisidel ‘29 che aveva sepoltol’età del jazz e la sua miticacoppia con Zelda.

«Il nostro è un tempo chepersegue consapevolmentela salute, ma in effetti credesolo nella realtà della malat-tia», scrive Susan Sontag;«Nietzsche, Dostoevskij,Kafka, Rimbaud hanno au-torità su di noi precisamen-te a causa della loro aria mal-sana». La superiorità del-l’artista è, come la tbc insi-diosa, un segreto che rendeemaciati. I residenti del sa-natorio nella Montagna in-cantata si avvoltolano concronometrici gesti dentro leloro coperte come fosserocrisalidi e, al riparo dal mon-do, si espongono sulle loro«eccellenti sedie a sdraionella fredda umidità del pri-mo autunno». «Avevo subi-to intuito che lei fosse, senzasaperlo, uno dei nostri», di-ce il medico a Hans Castorp,

venuto a trovare un cugino, e poi impaniato per anni inquel confortevole mondo rarefatto. Thomas Mann trasfi-gura il sanatorio di Davos nei Grigioni in un nodo di me-tafore, della borghesia estenuata, del tempo piatto della ri-petizione, del rifiuto. «Ma certo che hai conosciuto RenéCrevel», gli diceva la moglie, irritata che Mann fosse così di-stratto sugli amici dei figli; dimenticava che il loro Klaus eraandato a trovarlo in sanatorio? Crevel, un incrocio tra unarcangelo imbronciato e un marinaio, a un certo punto siera ucciso, in odio al realismo socialista — infatti era affi-liato al surrealismo.

«Anche la sua magrezza era una grazia», dice Dumas fi-glio della Signora delle camelie. Il Romanticismo a suotempo aveva condannato le donne alla virtù, e le cocottesalla tisi. Nel Novecento i nostri poeti crepuscolari muoio-no di consunzione; e subito comincia con Palazzeschi laderisione («Cloffete, cloppete», si lagna la Fontana mala-ta; «la tisi l’uccide. / Dio santo, / Quel suo eterno tossire /mi fa morire»). Il primo giallo di Sciascia rovescia la tbc inmale sociale: nel Giorno della civetta il medico delle carce-ri vuole levare dalle infermerie i mafiosi, e metterci dete-nuti comuni tisici — impossibile.

E l’insetto — segnalato dal respiro — delle Metamorfosi(si chiede Pietro Citati in Kafka) non sarà un malato incu-rabile visto da congiunti insofferenti? «Guarirà», disse nel1921 il giovane amico Janouch a Kafka, che andava al sana-torio dei Monti Tatra. Kafka usava i gesti come frasi sup-pletive; si portò l’indice al petto. Poi disse: «Il futuro è giàcon me». Nei successivi ricoveri, Dora, diciannove anni, siinnamorò di lui, che andava verso «il porto profondo» scri-vendo anche quando da un po’ non mangiava più; e ripen-sava a suo padre, fonte di tutte le sue debolezze, con unasorta di remissività («Abbiamo bevuto la birra insieme, tan-ti e tanti anni fa, quando papà mi portava a nuotare»). Indi-cava a Dora, senza parole, i letti che ogni giorno si vuotava-no; e con tutto il suo sovrumano controllo, fu visto per la pri-ma volta piangere — per lo sforzo di correggere le bozze.

La moglie Fanny nel 1885 aveva invece dovuto accumu-lare i tavoli attorno alla poltrona di Stevenson per evitareche, nel dettare l’incantevole Principe Otto, si estenuassecome al solito a passeggiare eccitato. Interminabile con isuoi cinquanta chili di peso, i lunghi capelli e i baffi biondispioventi, Stevenson vagava, squassato dalla tosse, tra sa-natori e i mari del sud alla ricerca dell’immortalità e dellaguarigione; la prima era arrivata con L’isola del tesoro; la se-conda con Wailima, la grande casa di legno delle Samoa,con le sedie Chippendale arrivate dall’Inghilterra; gli indi-geni e i servitori, con i lava lavatagliati a forma di kilt, ascol-tavano estasiati i racconti di “Tusitala”. Erano stati siste-mati nelle librerie anche i libri, e Stevenson, a larghe pen-nellate, ne verniciava i dorsi, per proteggerli dal caldo umi-do che era — temporaneamente — la sua buona salute.

Quel male letterario

“quasi una grazia”

DARIA GALATERIA

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DETECTIVEBarry Kreiswirth,microbiologo,dirige il TB Centerdi Newark:è uno scienziato“detective”che studia i ceppidella tbcper scoprirnele “improntedigitali”, schedarlie ricostruirneil percorsoIn questa foto,mostra la lastradi un polmoneattaccatodalla tbc “multidrug resistant”

CAMPAGNE DI MASSAQui sopra, un poster del 1917della Croce Rossa per la lotta

alla tubercolosi. In alto, raggi Xa un bambino nella campagna

anti-tbc (Usa, anni Quaranta)

Repubblica Nazionale

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AGRA

Per il poeta indiano RabindranathTagore la sua forma era «una lacri-ma sul volto del Tempo». RudyardKipling lo definì «il cancello d’avo-

rio sotto il quale passano i sogni». È stato vistoanche come un simbolo erotico, per il cupolo-ne immacolato che evoca un seno femminilegonfio di latte. Si può essere irritati dalla suatroppa fama, dall’onnipresenza nelle cartoli-ne e riprese televisive e riproduzioni per turi-sti. Il romanziere Salman Rushdie per anni sirifiutò di guardarlo, ma dopo la sua prima visi-ta dovette arrendersi: «Il mio scetticismo cad-de a pezzi. D’autorità cancellò all’istante mi-lioni di imitazioni. Con il suo splendore riempìuna volta per tutte il posto che nella mia men-te era occupato dalle riproduzioni. Ecco per-ché, alla fine, il Taj Mahal deve essere visto; perricordarci che il mondo è reale, che il suono èpiù vero dell’eco, che l’originale è più potentedell’immagine riflessa allo specchio. La bel-lezza è ancora capace, in quest’epoca saturatadi immagini, di trascendere le imitazioni. E ilTaj Mahal è, ben oltre il potere delle parole perdescriverlo, una cosa adorabile, forse la piùadorabile di tutte le cose».

Il Taj Mahal è uno dei capolavori dell’artemondiale, immediatamente riconoscibile percentinaia di milioni di persone, l’icona dell’In-dia per eccellenza. Lo status di meraviglia uni-versale non è l’unica dimensione del suo fasci-

no. Nella seduzione che esercita il mausoleo diAgra entrano ingredienti che mancano perfi-no a San Pietro, al Partenone e alla Piramide diCheope. Il Taj è un luogo che parla della mortee dell’aldilà ma anche di una struggente storiad’amore, è la gigantesca e sublime tomba edi-ficata da un vedovo inconsolabile per ricorda-re in eterno la moglie. È una fusione di influen-ze artistiche che spaziano dalla Persia all’E-stremo Oriente, così perfetta da alimentareper secoli un “giallo” tuttorairrisolto sul misterioso archi-tetto che lo progettò. È infine ilfrutto dell’èra più felice dellastoria indiana, monumentoall’armonia tra la religionebraminica e l’Islam. La leggia-dra eleganza delle sue forme,il candore abbagliante dellapietra che cambia riflessi aogni ora del giorno, la ricchez-za dei giardini, la fine tragicadell’imperatore che lo fece co-struire, e poi le velenose gelo-sie tra occidentali, musulma-ni e indù sulla paternità cultu-rale di questo tesoro: per queste ragioni il Tajsuscita estasi e controversie da secoli. Ancoraquest’anno ha ispirato due nuove ricostruzio-ni: Taj Mahal, Passion and Genius at the Heartof the Moghul Empire degli storici oxfordianiDiana e Michael Preston; The Complete TajMahal di Ebba Koch, la più autorevole espertamondiale di storia dell’architettura indiananell’èra Moghul.

Il Taj viene concepito durante la sofferenzadi un parto mortale. È una serata torrida, nelgiugno 1631, sull’altopiano del Deccan nel-l’India centrale. Mumtaz Mahal, “la Scelta delPalazzo”, cioè la preferita dell’harem, a tren-totto anni sta agonizzando negli spasimi dellasua quattordicesima gravidanza. Al capezzalec’è il marito Shah Jahan, quinto imperatorenella dinastia islamica dei Gran Moghul fon-data da Babur. Alla moglie morente lui pro-

mette di non sposarsi mai più,e di edificarle un mausoleo fu-nebre che sarà la testimonian-za perenne del loro amore. Perdue anni, prostrato dal doloreche gli imbianca di colpo tuttii capelli, Shah Jahan pensa so-lo all’amata che non c’è più.Dedica tutte le sue energie amantenere la promessa, mo-bilita per la costruzione delTaj le ricchezze del suo regno,il know-how tecnologico, i ta-lenti artistici di tre continenti.

Il risultato è un exploit ecce-zionale: dodicimila tonnella-

te di pietre e marmi trasportati da grandi di-stanze; un edificio la cui circonferenza superala basilica di San Pietro e la piazza del Berninimesse assieme; la perfezione delle forme rag-giunta grazie a complessi calcoli matematici;l’eresia del marmo bianco che nella tradizioneislamica era riservato alle tombe dei santi; laprofusione di pietre rare incastonate nei muri;le pregevoli decorazioni affidate al più grande

calligrafo persiano dell’epoca, Amanat Khan.«Costruito da giganti, rifinito da cesellatori digioielli», secondo la definizione di un vescovoanglicano, il Taj è così bello che fin dall’iniziogli europei cercano di appropriarsene il meri-to. Il viaggiatore francese François Bernier nel-le sue cronache dall’India del Seicento si diceconvinto che i decoratori abbiano copiato dal-la Firenze dei Medici la tecnica della pietra du-ra incastonata nel marmo. In realtà gli indianipadroneggiano quella tecnica secoli prima delRinascimento italiano.

Anche il mistero dell’architetto anonimo ec-cita le fantasie eurocentriche. «Secondo il sa-cerdote portoghese Sebastien Manrique chevisitò Agra nel 1640 — scrivono Diana e Mi-chael Preston — l’architetto era un venezianodi nome Geronimo Veroneo, giunto in India suuna nave portoghese. Per secoli lo sciovinismoeuropeo diede grande credibilità a questa leg-genda. C’era la convinzione razzista che unnon-europeo non poteva aver disegnato unedificio di così rara bellezza. Ma l’affermazio-ne di Manrique non ha fondamento. L’in-fluenza europea sull’architettura Moghul eramolto limitata. Se un europeo fosse stato l’ar-chitetto avrebbe incorporato nell’edificio al-meno qualche segno della sua tradizione. Nonce n’è traccia». La risposta all’enigma dell’a-nonimato è semplice. Con ogni probabilitàmolti architetti contribuiscono al progetto, ecomunque l’ultima parola e un’influenza de-cisiva spetta proprio all’imperatore ShahJahan, uomo di cultura e appassionato cono-scitore di architettura.

il reportageTra harem e templi

Viaggio alla scoperta del Taj Mahal, uno dei capolavoridell’arte mondiale sull’altopiano indiano del Deccan.Fu edificatonel Diciassettesimo secolo dall’imperatore Moghul Shah Jahancome tomba per la sua favorita, Mumtaz Mahal. Quandolei non sopravvisse al parto l’uomo più potente del mondo crollò

Il marmo scavato dalle lacrimeFEDERICO RAMPINI

Al capezzale della mogliepromise di non sposarsimai più, e di edificarleun mausoleo funebrecome testimonianza

perenne del loro amore

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2007

Èl’incarnazionedi tutto ciò che è puro,

santo e infeliceÈ il cancello d’avorio

sotto il qualepassano i sogni

Rudyard Kipling

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Repubblica Nazionale

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L’invidia europea per questo capolavoro e inostri complessi di superiorità sono rivelatoridi un’ignoranza sull’India di quel tempo. Concento milioni di abitanti nel Diciassettesimosecolo i Moghul amministrano la più vasta po-tenza musulmana mai esistita, cinque voltepiù grande dell’Impero ottomano. La loro sto-ria spiega perché il baricentro dell’Islam natoin Arabia slitta progressivamente sempre più aOriente. Se ancora oggi ci sono più musulma-ni a est dell’Afghanistan che a ovest, lo si deveal successo dei Moghul nel subcontinente in-diano. La loro India è una potenza ricca e svi-luppata. La capitale imperiale di Agra è detta laVenezia indiana per il lusso e la profusioned’arte, ma le sue dimensioni eclissano qual-siasi città europea dell’epoca. Con settecento-cinquantamila abitanti è due volte più grandedi Londra, supera di molto sia Parigi che Co-stantinopoli, le maggiori metropoli europeedel Seicento. Un’esibizione dell’opulenza in-diana di quell’epoca è la cerimonia annua delcompleanno imperiale: il sovrano viene “pe-sato” su una bilancia prima in argento, poi inoro, poi in gioielli. I metalli rari e le pietre pre-ziose equivalenti al peso regale vengono di-stribuiti in beneficenza. Mentre l’Europa è ter-rorizzata dalle guerre di religione e dall’Inqui-sizione, sotto i Moghul si afferma una versionedell’Islam aperta e tollerante, in convivenzaarmoniosa con l’induismo e il cristianesimo.

La storia di colei che è sepolta nel Taj, Mum-taz Mahal, sfida gli stereotipi sul ruolo delladonna nella società islamica. Gli imperatoriMoghul praticano la poligamia ma questo non

impedisce una certa libertà di costumi negliharem delle loro mogli. La morbosa curiositàdei visitatori occidentali è eccitata dalle de-scrizioni dei falli d’oro e d’argento che circola-no nei serragli, dalle descrizioni esplicite degliamplessi imperiali, dall’uso dilagante di afro-disiaci. L’harem è anche un centro di potereeconomico dove le donne amministrano fio-renti attività imprenditoriali. «Le donne di cor-te — scrivono i Preston — erano ricche, istrui-te e abili nell’usare le loro re-lazioni. Attivando reti di in-termediari dirigevano com-merci con il mondo intero,erano armatrici di navi mer-cantili, esportavano prodottiindiani in Arabia e oltre». Ilpotere di Mumtaz sull’impe-ratore deriva in parte, secon-do i due storici inglesi, dallesue arti erotiche. «Perfino do-po sedici anni di matrimonioe tanti figli Mumtaz esercita-va chiaramente un’attrazio-ne sessuale unica su ShahJahan. A trent’anni suonati,aveva un’età in cui molte mogli e concubineerano considerate troppo vecchie per il sesso,la sua bellezza invece resisteva. Alla vagina,detta madan-mandir (tempio dell’amore),applicava delicatamente pomate di canforamiste a miele, fiori di loto schiacciati nel latte,bucce di melograno macinate. Anche il biso-gno della donna di provare piacere era ricono-sciuto, delle miscele afrodisiache l’aiutavano a

luto rivendicarne la genesi, inventando unaleggenda: Shah Jahan non avrebbe costruito ilmausoleo ma lo avrebbe ricavato modificandoun pre-esistente tempio di Shiva costruito dalrajah di Jaipur. I musulmani più fanatici dopol’Indipendenza nel 1947 tentarono di seque-strare il Taj per riservarlo solo alla memoria deimorti di religione islamica. Dovette interveni-re la Corte suprema per sottrarlo alla legge del-la sharia e lasciarlo aperto ai visitatori di ogni fe-de. Nel 1965, durante la guerra col Pakistan, èstato a lungo incappucciato con un’immensarete nera per nasconderlo ai raid aerei e sot-trarlo ai bombardamenti.

Le ultime aggressioni sono quelle dell’inqui-namento e del turismo. Per salvare i suoi mar-mi candidi dalla corrosione dell’anidride solfo-rosa il governo ha dovuto chiudere duecento-cinquanta piccole fabbriche locali, costringen-do centomila operai alla disoccupazione(«Tutta Agra diventerà una tomba per proteg-gere il Taj», fu il commento di un sindacalista).La siccità e la desertificazione inaridiscono ilcorso del fiume Jumna che lambisce la cinta delmausoleo, l’erosione fa già inclinare le torri deiminareti. Perfino il fiato dei turisti è una mi-naccia: tre milioni di visitatori all’anno produ-cono una umidità pericolosa per la conserva-zione dei dipinti all’interno del mausoleo. Ep-pure resiste, in uno stato di salute stupefacen-te, per ricordare che in India i miracoli sonopossibili. Il più importante è di quattro secoli fa,un gioiello dell’arte di tutti i tempi nato dall’a-more fra un uomo e una donna, e dall’incante-vole unione tra la civiltà indiana e l’Islam.

raggiungere l’orgasmo, come la polvere dizenzero mista a pepe nero e miele. Altri afrodi-siaci venivano spalmati sul pene dell’uomodue ore prima dell’amplesso, per garantire al-la donna sensazioni più intense».

La disperazione in cui Shah Jahan piombaalla morte della Mahal non si spiega solo per lafine di un’intesa fisica così perfetta. Tutti i re-soconti dell’epoca descrivono tra l’imperato-re e Mumtaz un rapporto di fiducia, di vera

amicizia, di complicità intel-lettuale: un amore paritetico,esclusivo, quasi monogami-co perché mette in ombra tut-te le altre mogli e concubine.La morte precoce della favo-rita, oltre che alle numerosegravidanze, va attribuita al-l’insolita abitudine di Mum-taz di viaggiare sempre a fian-co del sovrano nelle defati-ganti campagne militari.Quasi a sottolineare il rap-porto di parità con la moglie,Shah Jahan accarezza il pro-getto di far costruire per la

propria morte un gemello del Taj Mahal, iden-tico ma tutto di colore nero, per esservi sepol-to a fianco del mausoleo di Mumtaz. Un can-tiere mai iniziato: il figlio Aurangzeb farà mo-rire Shah Jahan in carcere e lo seppellirà nellostesso Taj Mahal.

In quattro secoli di esistenza il Taj ha attra-versato tutte le tensioni e le contraddizioni del-la storia indiana. I nazionalisti indù hanno vo-

Per due anni, prostratodal dolore che gliimbiancò di colpoi capelli, il sovrano

dedicò ogni sua energiaa mantenere la promessa

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 24GIUGNO 2007

‘‘Il Taj Mahal è,ben oltre il potere

delle parole per descriverlo,una cosa adorabile,

forse la più adorabiledi tutte le cose

Salman Rushdie

‘‘Il mondo si dividetra quelli

che hanno vistoil Taj Mahal

e quelli che nonl’hanno visto

Bill Clinton

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COLLE DELLA LOMBARDA

Freddo, vento di Nordest, cielo blusul Piemonte. Alle 11.06 un uomosolo sbuca dai tornanti, alto sulsellino, in perfetto silenzio, in

mezzo alle Alpi spruzzate di neve. Punta sulColle della Lombarda, quota 2351. «Un uomosolo al comando» avrebbero detto di Coppi,ma quello che vedo salire verso la Francia è unuomo solo e basta. Un uomo magro e biondoche zigzaga tra le marmotte e i nevai, leggerocome un deltaplano in una corrente ascen-sionale. Non è un campione, non ha sponsorné auto di grandi marche al seguito. Il solita-rio tra le pietraie è un uomo normale — o for-se un matto completo — che si prepara a sca-lare la “montagna” più dura di tutte, alta trevolte l’Everest. Il Tour de France.

Sul passo c’è gente intabarrata cheaspetta. La voce s’è già sparsa che c’è unparigino di trentacinque anni che farà la“gran corsa” all’antica: senza squadra esenza chimica. «A’ l’eau claire», dicono ifrancesi. All’acqua chiara, in purezza co-me i ruscelli. In Valle Stura, a Demonte, l’o-limpionica Stefania Belmondo, fondista egrande testimonial dello sport pulito, è giàcorsa a dirgli «in bocca al lupo» e a spiegar-gli che i momenti di crisi, quando arrivano,sembrano interminabili, ma poi passanoin fretta, basta tener duro. E ora anch’ioson qui, che aspetto Guillaume Prébois,seduto sul mio paracarro d’ordinanza co-me se aspettassi Bartali, il cuore che batteforte per la leggenda che torna.

Giornalista sportivo, collaboratore di Le

Monde, paladino dell’antidoping e pre-senza talvolta scomoda nei “Processi allatappa” del Giro d’Italia, Guillaume un gior-no ha detto basta e, dopo l’ennesimo scan-dalo e le ultime “confessioni” dei grandidel ciclismo, s’è organizzato il suo Tour pa-rallelo, per guardare in faccia la fatica. Vo-leva vedere cosa succede, durante la corsapiù dura del mondo, dentro il corpo di unuomo che rifiuta gli additivi. Per questo s’èallenato tremila chilometri al mese, e ora aluglio farà lo stesso percorso dei professio-nisti, controllato a vista da un’équipe dimedici, seguito giorno per giorno da Le

Monde e Radio France Internationale.Tutto avverrà — questa l’unica differenza

col Tour vero e proprio — con un giornod’anticipo sulle tappe, in una corsa solitaria,dunque infinitamente più dura, che saràcondivisa dall’inizio alla fine da un’unicapersona: un ciclista veneto, Fabio Biasiolo,specialista di lunghe distanze. Uno che fa ti-rate pazzesche, come la corsa no stop (senzaquasi dormire) tra i due mari d’America. Magià attorno a questo Forrest Gump della cor-sa pulita si sta formando un plotone di gre-gari, un codazzo di gente che ha risposto al-l’appello — diffuso via internet — per forma-re, tappa per tappa, una libera corsa alterna-tiva. Una sfida che farà notizia, nei giorni incui tutta la Francia è au bord des routes.

Ma voilà, eccolo che arriva in silenzio, bu-ca l’aria fina del passo, rallenta sulla ghiaia,smonta per infilare la giacca a vento e farsiun panino al prosciutto e ricotta prima del-la discesa. Dal fondovalle ha impiegatoun’ora appena, millecinquecento metri insouplesse. Si toglie il casco, e per un attimonon lo riconosco, sembra un’altra persona.Ha lo sguardo blu più luminoso, il viso affi-lato che mostra cinque anni di meno. Glichiedo se ha cambiato occhiali. «Mais non»,risponde con un lampo di soddisfazione.«Me lo chiedono in tanti, ma è solo che hocambiato pelle. Mangio diversamente, e hoimparato a usare il mio corpo».

Sembrava un cavaliere dell’impossibilesolo un anno fa, al momento della decisionepiù pazza della sua vita. Monsieur Préboiscercava sponsor e riceveva in cambio pac-che di compatimento. Oggi tutto gli dà ra-gione. I ciclisti vuotano il sacco. Ha comin-ciato Ivan Basso, vincitore del Giro 2006. Poil’irlandese Floyd Landis, maglia gialla dellostesso anno. Poi il danese Bjarne Riis, vinci-tore del Tour 1996. Anche una decina di pro-fessionisti tedeschi ha scelto di parlare, etutti dicono la stessa cosa: senza eritropoie-tina e altre diavolerie non ce la fai. Roba chetrasforma un asino in un purosangue.

Eppure, nonostante gli scandali, tuttocontinua come nulla fosse accaduto, comese Pantani non fosse morto come un cane;come se, in assenza di fatica, l’epica dellagara esistesse ancora. Le medie continua-no ad aumentare, e nonostante questo ivincitori sembrano meno stanchi dei gior-

nalisti che li intervistano. Coppi si acca-sciava a fine tappa, loro scendono dal sel-lino freschi come rose. L’allenatore di cal-cio Zdenek Zeman, altro solitario grilloparlante, a Prébois l’ha detto chiaro ungiorno: facile capire chi si dopa, bastaguardare chi vince. Ma ormai il treno nonsi può più fermare, è diventato uno schiac-ciasassi che inghiotte tutto. Distacchiabissali e uomini soli al comando.

«Non sono affatto certo di farcela — con-fessa il francese alla vigilia della sua “mis-sion impossible” — ma mi impegno a tira-re a morte per tagliare il mio striscione su-gli Champs Elisées. Sarà dura pedalareduecento chilometri al giorno per tre setti-mane, venendo probabilmente ignoratodalla stampa sportiva. Ma so che una certaFrancia e una certa Italia sono con me. Al-cuni verranno in bici; come al Tour delleorigini, che era a iscrizione libera. E so chealla fine, per la prima volta, i medici po-tranno leggere un corpo umano dopo un si-mile sforzo. Appurare se davvero, come ac-cade tra i professionisti, il livello di globulirossi resterà invariato, o piuttosto, comesono convinto io, è destinato a scendere».

Si tuffa in discesa, non vuol parlare di co-se che gli fanno male. Ma c’è chi ricorda itorti che ha subito. Quando nel 2004 i Nasfecero irruzione nelle case dei corridori piùforti del Giro e lui osò dire a un “Processoalla tappa” che quegli uomini non sareb-bero potuti andare al Tour perché il nuovocorso pulito del ciclismo francese l’avreb-be impedito, venne dileggiato e messo allaberlina. «Chi sei tu per giudicare l’Italia»,gli dissero molti colleghi in diretta. Poi, amicrofoni spenti, manager e direttorisportivi vennero a minacciarlo, consi-gliandogli di cambiar aria, e così il ForrestGump del ciclismo non mise più piede alGiro. Solo la stampa non sportiva espressevoci in difesa, come il critico tv Aldo Gras-so che scrisse, rivolto ai commentatori tv:chiedete scusa a quel francese. Ed ancorala stampa non sportiva, sempre lei, l’unicaa fargli da sponsor in questa scommessa.

La sera lo ritrovo in Valle Stura, nella re-mota frazione Perdioni, mentre spazzolamontagne di tagliatelle, bistecche, patate edolci alla locanda “La Randoulina”. Con lui,il padre Jean-Claude, che suona Brassens al-la chitarra e lo segue a trenta all’ora in auto-mobile da mesi. Ride: «Il mio segreto? Cor-rere tanto, mangiare tanto, dormire tanto.Stop. Ho rivoluzionato i pasti: niente salumie formaggi; niente panna, burro e latte;niente roba gasata. Nella borraccia solomiele, polline, pappa reale, sciroppo di mir-tillo e un mix di silicio che è la mia unica scor-ta di minerali. Sto infinitamente meglio diun anno fa. La vita è una, e nutrirsi bene è unatto dovuto nei confronti del corpo. Inflig-gergli della chimica non è solo una punizio-ne. È anche un atto di sfiducia nei confrontidi una macchina meravigliosa».

Racconta della straordinaria équipe —mezza italiana — che gli si è stretta intor-no. Oltre al ciclista Fabio Biasiolo, un alle-grone che lo “tira” anche moralmente, cisono Claudio e Luigi, uomini della Guardiadi Finanza innamorati dello sport a peda-li, che hanno lavorato sul doping e ora gui-deranno il camper al seguito, preparandoi pasti e tenendo in efficienza la bici di ga-ra. Poi Didier Rubio, dietologo della nazio-nale francese di rugby. Marco Caon, un fi-sioterapista padovano incaricato dei mas-saggi e dei rifornimenti. Infine Dorian Le-camp, medico dell’ospedale universitariodi Tolosa, partner scientifico del serviziomedico-sportivo di Francia, diretto dalprofessor Daniel Rivière. Il tutto con l’im-primatur dell’Agenzia francese antido-ping, che effettuerà su di lui, a sorpresa, itest-campione dei professionisti.

Apre il computer, riversa dal sensore dibordo i dati dell’allenamento. «Al Tourchiunque potrà leggere cosa succede nelmio corpo. I dati saranno on line sul sitowww. lautretour. com. Pressione, fre-quenza, ematocrito, calorie bruciate, po-tenza media, velocità, esami del sangueprima e dopo la tappa». Fuori il cielo s’è ri-chiuso, un temporale arriva dal Colle dellaMaddalena, la valle crepita di tuoni. «Pre-parare un Tour senza una squadra, dimen-ticati da tutti, è un’impresa. Sei solo, a fati-care per nove mesi, la gara è lontanissima,ti senti un pazzo, e sai che tutto può anda-re in fumo in un attimo. Basta una caduta».Si frega le mani, ora piove a secchi. «Ma orasento che arriverò in fondo. Sto bene, sonotranquillo. La Francia è dalla mia parte, soche non farò questo Tour da solo».

la storiaSport nella bufera

Il Tour de Francea pane e acqua chiaraPAOLO RUMIZ

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2007

Il Tour 2007, edizione numero 94,

va dal 7 al 29 luglio e si articola in venti tappe

per una lunghezza totale di 3.547 km. Undici

le frazioni di pianura, sei di alta montagna,

una di media montagna, due a cronometro

3.547 chilometri

Il Tour 2007 prevede 400,7 chilometri di salita

per un totale di 23.441 metri di dislivello:

quasi tre volte l’altezza dell’Everest

La percentuale media di tutte le salite inserite

nelle venti tappe è del 5,5

23.441 metri

Negli ultimi vent’anni, sia pure a onde,

la velocità media dei vincitori del Tour

ha continuato a crescere: dai 37,020 km

del 1986 ai 40,780 del 2006 passando

per il record, i 41,650 del 2005

40,780 km all’ora

Durante un Tour un ciclista consuma in media,

nelle tappe di alta montagna, 4.000-5.500

calorie al giorno. In assenza di doping, i valori

ematici (ematocrito, emoglobina) calano

mediamente di circa il 10 per cento

4.000-5.500 calorie

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Si chiama Guillaume Prébois, è un giornalista francesedi trentacinque anni che ha deciso di correre “in purezza”un ante-Tour destinato a trasformarsi in anti-Tour:farà, il giorno prima e sotto controllo medico,tutte le tappe della corsa più dura e più bella del mondoper dimostrare che il doping non è stato sconfitto

Repubblica Nazionale

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Alla fine del suo Tour Guillaume Prébois sarà un principe azzurromolto concupito, perché i giornali continuano a svolazzare ma nonè vero che i francesi s’incazzano come nella canzone di Paolo Con-

te. Anzi, i francesi ammirano chi si lancia in un’impresa fuori dal comune.E quindi il Tour resta la Grande Boucle (con le iniziali maiuscole anchequando se ne discorre), con le sue piccole storie, le sue grandi imprese, isuoi miti che non erano sfuggiti a un cacciatore di miti come RolandBarthes, da noi suiveurs regolarmente citato il giorno del Mont Ventoux.

Guillaume lo conosco da anni, ha un nome da capitano di ventura, chesuona campestre anche in italiano — Guglielmo Pratobosco — e in più èalto, magro, biondo e con gli occhi azzurri. Ha già scritto un libro sulle suepedalate lungo il Danubio, né bello né blu, e un altro certamente uscirà daquesto Tour atipico: corso il giorno prima, chilometro su chilometrouguale a quello dei professionisti, giù dalle discese e su per le salite. Sa-ranno diverse, a volte, le temperature, ma non è questo il punto. Il puntoè dimostrare che si può correre il Tour senza fare ricorso a quel che MarioFossati ha chiamato «la farmacia del diavolo», ossia l’aiuto della chimica,in una parola il doping. Vecchio cavallo di battaglia di Guillaume e delgiornale che lo sostiene e sponsorizza (Le Monde, scusate se è poco). L’i-dea in sé non è nuovissima. Anni fa Eric Fattorino, giornalista-scrittore diradici italiane, si lanciò nella stessa impresa, che è poi il sogno di tanti, daAlfonso Gatto a Francesco Guidolin al sindaco di Pordenone, e il titolo d’u-na raccolta di scritti ciclistici di Gatto: Sognando di volare (lui che nem-meno sapeva stare in equilibrio sulle due ruote). Fare come i giganti dellastrada, seguirli o precederli visto che con loro non si può stare in gruppo,altra categoria.

È un sogno antico e non solo maschile. Negli anni Trenta i coloristi an-notarono che per una ventina di km, i primi di una tappa che partiva daAix, in Provenza, le ospiti di una casa chiusa avevano pedalato in fondo algruppo. Sulle salite di tutti i ventuno Tour che ho seguito fin qui ho vistola fauna più svariata: cicloamatori di ogni età, da otto a ottant’anni, zai-netto in spalla e baguette di traverso sul portapacchi, e anche molte don-ne. In genere si scelgono le tappe di montagna, prendendo nota dei tem-pi, cercando di battere se stessi. Si può fare anche una settimana o un me-se dopo che ci passa il Tour, ma non c’è l’aria del Tour, sudore, griglia e pa-tate fritte, il riverbero dell’epicità del Tour e della fatica che costa anche achi non pedala. Perché se vuoi conquistare una buona lochescion (direb-bero, diranno) sul Tourmalet o sul Galibier devi muoverti il giorno prima,quello di corsa il traffico è bloccato. E arrangiarti in tenda, o su un cam-per. E magari starci anche dopo il passaggio della tappa, perché si creanoingorghi paurosi. Il popolo degli appiedati incoraggia quello dei ciclistiper diletto, allez bonhomme, vas-y la belle, una spinta non si nega a nes-suno. Una volta in cima ci si fa fotografare. I poliziotti più zelanti (e ce nesono) forti della circolare che permette il transito solo ai mezzi autoriz-zati e con l’autorizzazione bene in vista, infieriscono su questi poverac-ci facendoli scendere di sella per continuare a piedi. I poveracci obbe-discono fino alla prima curva, poi risalgono in sella e ridiscendono alpoliziotto seguente. È un po’ una comica, ma anche una seccatura.Questo scrivo per dare l’idea di cosa succede prima della corsa vera:una serie di corse e rincorse. L’idea di cimentarsi in una tappa di pia-nura fa meno gola, si va più forte, c’è meno gente, c’è meno gusto. Guil-laume non sarà fermato e diventerà un eroe.

Jean-Marie Leblanc, il gran capo del Tour che è da poco andato inpensione, dava questa definizione, facendo nomi e cognomi. «Hi-nault è un campione, Poli è un eroe». Eros Poli, un gregario, tra l’al-tro più passista che scalatore, aveva vinto la tappa del Ventoux, chemai e poi mai avrebbe immaginato di vincere. Un uovo fuori dallacavagna. L’issarsi, sia pure per un giorno, a una dimensione supe-riore, forse neanche sognata.

Guillaume non avrà una squadra ai suoi ordini, nel senso dei gre-gari, ma una squadra di amici, medici, dietisti. E un padre che suo-na Brassens alla chitarra è il tocco in più. Probabile che la piccolacarovana s’ingrossi per strada, in questo ante-Tour che ha pure iconnotati dell’anti-Tour, col suo richiamo a un’etica della fatica,col suo grido d’allarme contro il doping che imperversa e control’ipocrisia di chi guarda dall’altra parte. Anche questa del do-ping non è una novità, purtroppo. Nel ‘24 i fratelli Pélissier dis-sero al giornalista Albert Londres: «Noi andiamo a dinamite». Egli mostrarono boccettine piene di una polvere bianca chechiamavano la neige, la neve, ed era cocaina. Due anni dopoun tale Mariani fece quattrini in Francia vendendo «le vin Ma-riani, le vin de l’athlète» che era poi un vinaccio da due soldiche conteneva foglie di coca in macerazione. Non interes-serà granché, ma chissà cosa c’era nella pozione magica deldruido per Astérix e Obélix. Robetta, comunque, a frontedel «pot belge» così in voga una ventina d’anni fa. Un cock-tail di anfetamina, caffeina, eroina, coca e corticoidi.

Noi che viaggiamo a pastis e vino rosso, ma anche a litrid’acqua naturale, penseremo a Guillaume senza vederlomai se non forse a Parigi. Le stesse strade, ma ognuno perla sua strada, lui la tartaruga e noi il pie’ veloce Achille.Da un punto di vista gastronomico un Tour che parteda Londra e poi sconfina in Belgio non mi provoca bri-vidi particolari, lì si gioca per limitare i danni. Tantovale saperlo prima, poi magari succede come a ErosPoli sul Ventoux, ma è meglio non farci troppo con-to. A occhio, si comincia a ragionare verso l’11 lu-glio, dalle parti di Chablis, la solita pollastra aBourg-en-Bresse, attenti e arroccati in Savoia,saltare Marsiglia perché c’è troppa confusione e

comunque le migliori bouillabaisse si mangia-no a Parigi. Possibili sorprese nella zona Ca-

stres-Albi, a Orthez vediamo se hanno tenutoin carta l’insalata di manzo bollito, patate

(con la buccia) e scalogni e poi di corsa a Pa-rigi. Dove il Tour si ricompatta per sepa-

rarsi. E dove Guillaume entrerà da vinci-tore (se non cade prima, se regge la fati-

ca). E dimagrito. Sarà interessante ve-dere lo spazio che strada facendo gli

dedicheranno i giornali, Le Monde aparte. Molto su quelli provinciali e

regionali, immagino, poco onulla su quelli nazionali. Ma

questo è un altro discorso.

I campioni, i tifosie il sogno di volareGIANNI MURA

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 24GIUGNO 2007

CICLISMO EROICOQui accanto,

foto d’epocadel ciclismo eroico:

la catena dotatadi cambio fu permessaal Tour solo nel 1937Nelle altre foto,Guillaume Préboisin azione

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Nessuno lo scambierebbe per una valigia ammaccata,abbandonata da un viaggiatore stanco alla fine di unlungo viaggio in treno. Ma ben pochi, a prima vista, ri-conoscerebbero in lui uno dei maggiori fotografi delmondo. Eppure in David Goldblatt queste due imma-gini convergono. E il segno rivelatore sta nell’intensità

di quei suoi occhi di un azzurro profondo, a un tempo saggi e am-miccanti, testimoni di una lunga vita ma anche di una giovinezza ir-refrenabile, pronta al divertimento e all’avventura.

Ho incontrato David per la prima volta vent’anni fa in Sudafrica; miaveva chiesto di posare per un ritratto ed è venuto a casa mia, aGrahamstown. Di quell’incontro, uno dei dettagli più vividi impres-si nella mia memoria è la sua vecchia Leica sbeccucciata, tenuta in-sieme con un elastico — o almeno, così credevo di ricordare. Ma misbagliavo, come mi assicurò lui stesso qualche anno fa, in occasionedi un incontro più recente a Cape Town. Indubbiamente le sue dueLeica, al pari degli altri apparecchi fotografici che si trascina appres-so, portano i segni di una lunga vita e di un uso intenso, ma non tan-to da dover essere tenute insieme con l’elastico. E a pensarci bene misono reso conto che doveva aver ragione lui, dato che probabilmen-te gli sarebbe più facile sacrificare una parte del suo corpo asciutto enervoso, piuttosto che una delle sue fotocamere. Quando ne parla ole maneggia lo fa con abilità e competenza, con rispetto e con cura,direi anzi con vero amore. Perché oltre a essere gli strumenti del suoquotidiano e duro lavoro, sono anche una sorta di estensione del suoessere, la conferma della sua esistenza corporea nello spazio e neltempo, i custodi di quella profonda visione interiore che porta con sé,e che infonde nelle sue immagini quotidiane il senso di quanto vi è inesse di solitamente nascosto o sottaciuto, della loro vita segreta.

Se è vero che uno scrittore, come disse a suo tempo Calvino, può di-re quello che dice solo in virtù di quanto da sempre è rimasto non det-to, ciò è anche più vero nel caso del fotografo David Goldblatt. In Su-dafrica il suo recente libro Some Afrikaner Revisited è stato oggetto,all’indomani della sua pubblicazione, di violente critiche, e accusatodi voler diffamare la storia e la moralità degli afrikaner; mentre oggiproprio chi lo ha più duramente attaccato ne riconosce il valore e ad-dirittura gli rende omaggio per aver affrontato quel tema con un sen-so di verità implacabile unito a una comprensione profonda, che maiprima d’ora aveva trovato espressione su una pellicola fotografica. Ri-prendendo il concetto di Calvino, ciascuna di quelle immagini rap-presenta una vita vissuta due volte: la prima è quella esposta e rivela-ta senza sconti né camuffamenti, impietosamente, seppure concompassione profonda; mentre l’altra è la vita interiore, dietro l’im-magine e al di là di essa, percepibile solo con l’immaginazione, colsenso profondo di un’umanità condivisa, della vulnerabilità e mor-talità che ci accomuna tutti.

Certo, mai nessun fotografo prima di Goldblatt ha saputo cattura-re la vita, i paesaggi e i popoli del Sudafrica con tanta profondità. Co-me il mio caro amico Naas ha scritto sulla copia di un altro libro diGoldblatt di cui mi ha fatto omaggio, On the Mines («Nelle miniere»),la sua opera «svela la bellezza nascosta del mondo, e ci fa vedere glioggetti più familiari come se familiari non fossero».

All’ultima mostra del fotografo, dal titolo Some Afrikaner Revisited,mi hanno particolarmente colpito le numerose foto scattate anni fa aGamkas Kloof, una remota valle di montagna chiamata anche TheHell (L’inferno): una regione quasi inaccessibile, che ho scelto comepunto di riferimento per il mio romanzo La valle del diavolo; e tra que-ste, la straordinaria immagine di una ragazza nella piena, innocentefioritura della sua pubescenza, la stessa foto scelta per la copertina delrecente album che accompagna la mostra. E mi ha commosso senti-re David parlarmi di questa ragazza, Ella Marais, e della sorella Bettie,per raccontarmi le tragiche vicende che hanno vissuto nei qua-rant’anni trascorsi dall’epoca di quelle prime fotografie. Il modo incui si è interessato alla loro sorte nel corso di tutti questi anni è un

esempio della sua profonda umanità: per lui quelli che inquadra nelsuo obiettivo non sono mai solo volti da fotografare, gente incontra-ta di sfuggita e subito dimenticata, ma persone, protagoniste di unastoria, ciascuna con la sua intera biografia. È come se nel momentodello scatto il fotografo l’avesse riassunta nel suo insieme: il prima eil dopo di quell’attimo decisivo — gli sviluppi che hanno portato fin lì,e tutto ciò che da quel momento ha preso il suo corso.

Allo stesso modo, ogni singola fotografia di un libro o di una mostradi David Goldblatt non riguarda solo un dato individuo o un ristrettogruppo di individui, ma porta il segno di tutta un’epoca, di una societàcol suo ethos e i suoi valori, le ramificazioni dei suoi rapporti sociali,culturali e morali. È questa la chiave del senso di responsabilità mo-rale di David Goldblatt: come se in qualche modo si facesse carico, aogni sua fotografia, di vigilare sul soggetto, sulle sue possibilità; comese si sentisse responsabile delle persone che incontra attraverso il suoobiettivo, e della sorte cui vanno incontro.

Ecco perché l’immagine della valigia dimenticata che ho evocatoall’inizio di questo breve saggio conserva tutta la sua forza: non è so-lo un bagaglio qualsiasi, ma l’inventario di un viaggio, il sommario ditutta una vita. Così nelle sue brevi contemplazioni — il minatore ne-ro che emerge al sole dal buio del sottosuolo, duro e risplendente a untempo; o il viso di un bambino che guarda il mondo con meraviglia; ola famiglia vestita a festa sulla via della chiesa, il picnic di un gruppet-to su un prato, due giovani sposi il giorno delle nozze, una coppia dianziani curvi sotto il peso degli anni, che sembrano cedere il passo al-l’ombra incombente della morte; o ancora le rocce affioranti da unapianura brulla flagellata dal sole, o un fiore in anticipo sulla primave-ra — c’è sempre un senso di meraviglia davanti all’insondabile mi-stero dell’universo.

Per questo, a prima vista i soggetti scelti da Goldblatt sembrano co-sì «ordinari» (come la valigia abbandonata sullo scaffale), così banalie nient’affatto degni di nota. Ma è proprio attraverso l’atto di osser-varli, di «prenderne nota», di isolarli dal contesto e dalle circostanzequotidiane che Goldblatt li pone al centro della sua attenzione con-centrata e totale, quasi purificandoli, liberandoli dall’accidentale edal superfluo per rivelarli nella loro essenza.

Per gran parte della sua vita Goldblatt ha lavorato sul bianco e ne-ro. Ho sempre pensato che rispetto alla fotografia a colori, la diffe-renza sia parallela a quella che esiste in letteratura tra prosa e poesia.Nella poesia l’intero patrimonio delle risorse di una lingua è ricon-dotto all’essenziale, permettendo a ogni singola parola, isolata daisuoi appigli sintattici, di emergere in tutta la sua pienezza. Analoga-mente, un’immagine spogliata del colore può essere plasmata nellapurezza della luce e dell’ombra e rivelare, attraverso l’esiguità stessadelle risorse, tutto il peso e il valore di quelle luci e ombre, costrin-gendoci a un modo nuovo di vedere il mondo, letteralmente «in unaluce diversa». È questa la visione dell’uomo che Platone fa emergeredalla caverna, quando vede il mondo per la prima volta. Il colore vi si«aggiunge» solo in un secondo tempo. Forse per questo Goldblatt haevitato per tanto tempo la fotografia a colori. Per lui il colore era«un’aggiunta», qualcosa che non faceva parte integrante del suomondo. Solo negli ultimi anni la disponibilità di mezzi più malleabi-li e versatili lo ha indotto ad appropriarsi della capacità di manipola-re l’intera gamma dei colori con la stessa creatività, per far danzarecon lo stesso virtuosismo ogni loro sfumatura.

Eppure devo confessare che per me, sia che si tratti di un paesaggioo di un ambiente urbano, di un viso o di una figura umana, di una ma-no escoriata o di un sorriso innocente, della limpidezza dell’infanziao della contusa saggezza della vecchiaia, il volto del vero poeta delbianco e nero, capace di sfrondare tutto il superfluo da un’immagineper rivelare l’essenza stessa dell’umanità e il posto che occupa in que-sto mondo inospitale, resterà sempre quello toccante e vero, ironicoe schivo, asciutto ed essenziale del fotografo David Goldblatt.

Traduzione di Elisabetta Horvat

IL LIBRO

David Goldblatt. Fotografie,con un’introduzione di Martin Parre testi di Rory Bester e Alex Dodd,

è pubblicato da ContrastoFormato: 28 per 26 centimetri, 255 pagine,

155 fotografie a colori e bianco e nero,60 euro. In tutte le librerie

Informazioni su www.contrasto.it

LA MOSTRA

David Goldblatt inaugura la sua primagrande retrospettiva mercoledì 27 giugno

a Forma, Centro Internazionale di Fotografia,Milano, piazza Tito Lucrezio Caro 1

David Goldblatt. Fotografierimarrà aperta fino al 26 agosto

Informazioni su www.formafoto.it

Da oltre trent’anni questo maestro del fotogiornalismodocumenta la storia del Sudafrica, durantee dopo l’apartheid. In occasione della sua prima mostra

italiana e della pubblicazione del suo libro, abbiamo chiesto a un grandescrittore di quel paese di raccontarci l’uomo che riesce a catturarein un dettaglio apparentemente inutile l’essenza stessa della nostra umanità

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2007

GoldblattDavid

ANDRÉ BRINK

Il poeta del bianco e nero

www.bompiani.eu

DALL’AUTORE DI

LA CHIMICA DELLA MORTE

UNA NUOVA INDAGINE

PER DAVID HUNTER

Repubblica Nazionale

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DONNA CON BUCO ALL’ORECCHIOJoubert Park, Johannesburg, 1975

DONNA CHE RACCOGLIE MOLLUSCHIPort St Johns, Transkei, 1975

UOMO CON COLLANEJoubert Park, Johannesburg, 1975

NONNA E NIPOTETranskei, 1975

DONNA SUL SUO LETTOYeoville, Johannesburg, 1983

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 24GIUGNO 2007

DONNA ELEGANTEJoubert Park, Johannesburg, 1975

DONNE DURANTE UNA PAUSA PRANZOPieter Roos Park, 1975

DONNA CHE FUMAJohannesburg, 1975

DONNA CHE SI RIPOSADe Villiers Street Park, Johannesburg, 1975

UOMO CHE DORMEJoubert Park, Johannesburg, 1975

BAMBINAIAJoubert Park, Johannesburg, 1975

COPPIA AL GIARDINO BOTANICOThe Wilds, Johannesburg, 1975

Repubblica Nazionale

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la letturaContatti con l’aldilà

Un grande scrittore spagnolo ritrova in un vecchio libro la storiadel bizzarro triangolo spiritista tra l’autore di “Cuore di tenebra”,la sua giovane vedova e Arthur Conan Doyle.E la confrontacon una vicenda simile che lo vede protagonista insieme a una mediumportoricana e al suo defunto maestro di letteratura e di vita

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2007

La vedova di Conrad aggiungeva che anche al-tre tre persone avevano cercato, in seguito, di tra-smetterle «messaggi» di suo marito, che lei si eracategoricamente rifiutata di ricevere. Inoltre, ilsegretario di lord Northcliffe, lo stimato editorebritannico scomparso nel 1922, aveva reso notoche l’autore di Cuore di tenebra stava aiutando ilsuo capo in un compito giornalistico, e che i dueuomini indossavano abiti di flanella grigia e far-fallini rossi. «Mio marito, per sua fortuna», com-menta Jessie, «era dotato di sufficiente vanità per-sonale da non avventurarsi a copiare lo stile di ab-bigliamento di sua signoria, quantomeno in simi-li dettagli!». E una nipote dello scrittore america-no Stephen Crane, morto nel 1900, dichiarò chesuo zio e Conrad si erano incontrati in mezzo al-l’Atlantico poco dopo la sua dipartita.

Il massimo che Jessie conceda, riguardo a simi-li «fenomeni», è che a volte, sola nella sua camera,

passa molte ore con la mente concentrata sulricordo di suo marito, con lo sguardo fisso

sulla sua poltrona preferita. E che duran-te quegli istanti di intensa concentra-zione, le capita di vedere la sagoma dilui disegnarsi sulla poltrona. «Quellapostura così familiare, quei tratti benconosciuti, le mani serrate, sì, eranoesattamente quelli che ricordo tantovividamente. Questa visione è durata

qualche secondo. Non si potrebbespiegare, né cercherò di farlo, salvo

che questa manifestazione era perme sola».

Niente di particolare, direiio, i ricordi a volte possono es-serlo estremamente. E al ter-mine della breve opera con-clude, giudiziosamente:«Vorrei essere lasciata in pace

con la mia convinzione origi-naria, che quelli che amiamo e

abbiamo perduto riposano inpace, senza che alcuna legge li disturbi, e senza chedebbano soffrire per il dolore e l’inquietudine dinoi che ancora soggiorniamo nella terra dei vivi».

E lo spirito inverosimile di BenetPochi giorni dopo aver ricevuto il libretto della

vedova di Conrad, mi arrivò una lettera da PortoRico, speditami da un’amabile lettrice e professo-ressa con cui mi ero incontrato qualche mese pri-ma a Madrid. La signora, molto educata e sensa-ta, affermava di non essere religiosa, semmai ra-zionalista e piuttosto scettica, ma nonostantequesto ammetteva di provare un certo interesse,negli ultimi anni, «per le tematiche spirituali». Perquesto motivo si incontrava una volta al mese conuna psicologa cubana «che a quanto sembra pos-siede facoltà spirituali». Apparentemente, la pro-fessoressa le aveva parlato del nostro incontro, ela psicologa, a quel punto, chiuse gli occhi e sem-brò sperimentare una sorta di trance, e disse cheuna persona a cui io avevo voluto molto bene sitrovava lì, che lo spirito si chiamava Benet e chesosteneva di manifestarsi per poter entrare incontatto con me.

Si riferiva senza dubbio a Juan Benet, un mio

vecchio amico e uno degli scrittori spagnoli piùstimati di tutto il Novecento. La psicologa ag-giunse che vedeva Benet «che tirava i capelli a ungiovane capellone, e che quel giovane era lei. Hadetto che Benet faceva questa cosa quando la ve-deva triste o pessimista». (Non credo sia super-fluo sottolineare che tra il 1970 e il 1974, nei primianni in cui frequentavo Juan Benet, sfoggiavo unafolta chioma, all’apache, per così dire, come atte-stano diverse mie foto.)

Visto che continuavo a rimuginare su questacosa, la mia interlocutrice epistolare decise diparlare con una sua amica, psicologa anche lei, eanche lei, a quanto sembra, dotata di «facoltà spi-rituali». Questa le disse che Benet si manifestava

Lo spirito molestato di ConradQualche mese fa ho ricevuto da una li-breria antiquaria un libretto del 1932,pubblicato dalla Mark Twain Societye scritto dalla vedova di Joseph Con-rad. Il grande scrittore si era sposato

con lei in età avanzata, a trentotto anni, quandoJessie ne aveva appena compiuti ventitré. Questo(e la barba che sfoggiava) spiega senza dubbioperché, durante la luna di miele sulla costa fran-cese, un giovane ospite dell’albergo in cui allog-giavano — e che nella sala da pranzo, con un gros-so tavolo comune su cui mangiavano tutti i clien-ti dell’hotel, aveva proprio il posto accanto allasposina — un giorno avesse manifestato eccessi-ve attenzioni per la ragazza, suscitando la diffi-denza dello scrittore e mettendo a disagio la spo-sa.

Finché, alla fine, il francese non decisedi rivolgersi a Conrad, e dopo avergli fat-to un inchino, gli domandò: «Signore,potrebbe concedermi l’onore di cor-teggiare sua figlia?». Fu la prima voltache Jessie Conrad dovette dissuaderesuo marito dal battersi a duello lì, se-duta stante. Dai due libri che scrissesu di lui dopo la sua morte si vede chela vedova di Conrad era una donnagiudiziosa e dotata di senso dell’u-morismo, e che lo aveva amatomolto. In questo libretto raro,la donna spiega che nutrivauna grandissima ammira-zione per Conan Doyle, unpo’ guastata, però, dal fattoche il creatore di SherlockHolmes si fosse messo, nel1929, a importunarla per viaepistolare. (È risaputo,ahimè, che quel grandissimoscrittore, negli ultimi anni della sua vita — morìnel 1930 — si dedicò all’occultismo e allo spiriti-smo, trasformandosi conseguentemente in ungran rompiscatole.) Senza che ci fossero mai sta-ti contatti in precedenza, Conan Doyle le scrisseper comunicarle che era sicuro che il suo defuntomarito (Conrad era morto nel 1924) desideravaentrare in contatto con lei, e aggiungeva che per imorti un’impresa simile risultava piuttosto com-plessa se non potevano contare sull’aiuto dei vivi,perché anche loro, come noi, erano soggetti a del-le leggi.

Tramite una medium, assicurava il creatore diSherlock Holmes nella sua lettera, Conrad avevamanifestato il desiderio che lui portasse a termi-ne al suo posto un libro «di storia francese» che erarimasto incompiuto. Secondo Jessie, sir Arthurera assai male informato: un tema simile, così va-go, non avrebbe mai stimolato l’interesse di Con-rad, e soprattutto non avrebbe mai chiesto a nes-suno, nemmeno a un insigne collega, di portare atermine in vece sua una sua opera.

JAVIER MARÍAS

“Io credo - scrivevaJessie Conrad - chequelli che amiamoe abbiamo perdutoriposano in pace

senza soffrire per noi”

Gli amabili fantasmidi Conrad e Benet

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 24GIUGNO 2007

e sollecitava la sua intercessione per aiutare il mio«spirito incarnato». Aggiunse che «Benet era unsaggio e sembrava avere un gran senso dell’umo-rismo, perché eseguiva una genuflessione primadi andarsene».

La professoressa rimase attonita, e al successi-vo appuntamento con la psicologa, si sentì direche Benet si trovava là e desiderava che io sapessiche lui si era manifestato e che voleva aiutarmi.Aggiunse che era morto con gran dolore, perchélasciava me, una persona che tanto aveva amatoe che era importantissima per la sua vita.

La mia interlocutrice mi chiedeva nuovamentescusa («Nonostante tutto, le spedisco questa let-tera confidando che lei sappia che cosa devo fa-

re») e mi salutava, senza dare successivamente vi-ta a niente che ricordasse neanche lontanamentel’insistenza quasi sfacciata del grande sir ArthurConan Doyle nei confronti dell’afflitta Jessie Con-rad. Lo scorso 5 gennaio sono passati quattordicianni esatti dalla morte di Juan Benet, un uomo dacui ho imparato molte cose, non soltanto in cam-po letterario, e con il quale ho mantenuto un’a-micizia lunga più di vent’anni. Come scrittore,curiosamente, sono stati soprattutto i suoi de-trattori a impedirgli di finire nel dimenticatoio. Intutto questo tempo, molti colleghi suoi e mieihanno continuato e continuano a inveire controdi lui. Dal momento che idiozia e insolenza spes-so vanno a braccetto, la maggioranza di questi de-

trattori sono scrittori semplicemente ridicoli.La sua ombra, evidentemente, deve crear loro

un bel po’ di complessi. I suoi testi sono ostici enon potrei biasimare chi non senta il coraggio dicimentarcisi. Ma visto che ottusi e ottocenteschisbraitano, continuino ad andare per la loro stra-da, e sarà questo il suo «contatto». Quello che noncredo è che il suo spirito vada a manifestarsi a Por-to Rico presso una delle psicologhe del luogo. Co-me l’assennata vedova di Conrad, sono del pare-re che quelli che amiamo e abbiamo perduto ri-posano in pace, senza che alcuna legge li distur-bi». Riesco a immaginarmi Benet che si genuflet-te per gioco, ma non riesco assolutamente a im-maginarmi un Benet che dice simili pacchianerie,o, tanto meno, che confessa quanto io sia statoimportante nella sua vita: come ho risposto allamia interlocutrice, lui fu importante nella mia vi-ta, ma io non lo fui, in alcun modo, nella sua.

Non credo nelle apparizioni né nei messaggidall’oltretomba (salvo che nei racconti dell’orro-re e nei sogni, che sono solo questo, però, bei so-gni e racconti). Ma se mi vengono a raccontare lastoria che un morto che conoscevo bene mi staronzando intorno, la prima cosa che esigo è chequesto morto continui a parlare come parlava davivo, senza propinarci inverosimili solennità chemai sarebbero comparse sulle sue labbra. Per fa-vore: è proprio il minimo.

Traduzione di Fabio Galimberti© 2007 Javier Marías

Distribuito dal The New York Times Syndicate

“Se mi raccontanoche un morto

che conoscevo benemi ronza intorno,

esigo che parli comeparlava da vivo”

L’AUTORE

Javier Marías risiede a Madrid, in Spagna. È uno scrittoreacclamato a livello internazionale. Ha pubblicato dieciromanzi, due raccolte di racconti e numerosi saggiLe sue opere sono state tradotte in 34 lingue, con venditeche sfiorano i 4,5 milioni di copie in tutto il mondoLa sua pubblicazione più recente è Il tuo volto domani

Marías tiene una rubrica settimanalesul quotidiano El País, dove è stato pubblicatooriginariamente questo articolo

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L’ultimo Tarantino, “Grindhouse”, è il punto d’arrivo di un filonecinematografico made in Usa in cui ci si insegue, ci si sfida, si amoreggia,si fanno acrobazie, ci si salva o ci si danna, insomma si sopravvive o si muore

sempre a bordo di automobili. Un film che fa il verso ai B-Movie ma che dà l’opportunitàdi ricostruire - da James Dean a Steve McQueen, da “Duel” a “Thelma e Louise” -lo specialissimo rapporto che lega l’America alle sue “macchine infernali”

Non saprei dire se gli an-droidi sognino pecoreelettriche, come si chie-deva il titolo del roman-zo di Philip K. Dick da cuivenne tratto Blade Run-

ner. Ma so esattamente cosa sogna l’A-merica: sognano automobili, un gi-gantesco autoscontro, un luna parkcon emozioni non stop al volante dauna costa all’altra degli Stati uniti, for-se da un polo all’altro del pianeta. So-no andato al cinema a vedereGrindhouse, e ho avuto una specie diilluminazione: il film di Quentin Ta-rantino mi ha ricordato, con qual-che pugno allo stomaco, ma an-che con parecchio humour,qualcosa che in fin dei contiavevo sempre saputo, ma forsenon mi veniva con tanta evi-denza.

Donne e motori, certo non è unapassione solo americana. Ce l’ha nelsangue tutto l’Occidente, così come ilGiappone può avere nel sangue i sa-murai e la Cina le arti marziali. Ma è inAmerica che ha raggiunto vette inarri-vabili. Sono di una generazione cheandava al cinema da prima ancora checi fosse la tv. Ho sempre prediletto ifilm d’azione. Da bambino mi colpiva,mi pare anzi mi infastidiva un po’ chenon ci fosse film, di qualsiasi genere, incui non ci fosse una storia d’amore, oalmeno una scena di bacio. Molto piùtardi, negli anni in cui vivevo in Ame-rica, mi colpì che non ci fosse filmamericano in cui non ci fossero scenedi inseguimento con automobili, discontri di automobili, di delitti in cuic’entra l’auto, di acrobazie in automo-bile, in cui insomma non fosse co-pro-tagonista l’automobile. Con l’eccezio-ne dei soli western, in cui l’automobi-le si chiama però cavallo. Si amoreggiain auto, si soffre e si gode in auto, si gio-ca con l’auto, ci si salva con l’auto, ci sidanna in auto, si ammazza in autoe con l’auto.

In auto avevamo incontratosullo schermo la “generazio-ne maledetta”, appreso delgioco tra gang su chi sterza pri-ma dello scontro frontale, e in unincidete d’auto era morto JamesDean, il protagonista di Rebel whi-tout a cause. Era stata la MustangGto a immortalare Steve McQueen inBullitt, più che viceversa. Erano auto adue ruote le moto di Easy Rider. Ognifilm un modello. Le Aston Martin perJames Bond, l’Alfa spider per DustinHoffman ne Il laureato, una Thunder-bird convertibile per Thelma e Louise.Un classico taxi newyorchese per TaxiDriver, il cinegenico modello panciu-to con cui si continuarono a girare filmper decenni, anche per molto tempodopo che di quei modelli non ne circo-lavano più per le strade di New York.

Ogni generazione americana haavuto i modelli in cui identificarsi, concui giocare all’autoscontro e all’inse-guimento ad alta velocità. In genere,come conviene ad una nazione alta-mente patriottica fino al midollo (nelmondo moderno sono rimasti oramaisolo due grandi “patriottismi” viscera-li, con convinzione di massa, quelloamericano e quello cinese, quelli eu-ropei, per fortuna o per disgrazianon ci sono più, o sono una pallidaombra del nazionalismo Usa e ci-nese), su modelli made in Usa,ma qualche volta, nei momentiin cui l’America aveva i blues, sumodelli d’importazione. Ronin, diJohn Frankenheimer, con Robert DeNiro e alcune delle migliori scene diinseguimenti e scontri automobilisti-ci degli ultimi anni, aveva pratica-mente lanciato la Audi. Nei film ame-ricani si sono visti talvolta nei ruoliprincipali Mercedes, Bmw, un famo-so maggiolino Vw, e virtuose MiniMorris, ma mai un’auto giapponese,

SIEGMUND GINZBERG

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2007

SULLO SCHERMO/1

IL LAUREATOIl Duetto Alfa Romeo rosso conquista

Hollywood grazie a Dustin Hoffman nei pannidi Benjamin Braddock nel film Il laureato

di Mike Nichols. L’anno è il 1967, corse in autoal ritmo di Mrs Robinson di Simon & Garfunkel

BULLITTSteve McQueen, che le auto le amava

alla follia anche nella vita privata, è Bullittnel film del 1968 diretto da Peter Yates

Una caccia a killer e mafiosi per le stradedi San Francisco a bordo di una Ford Mustang

TAXI DRIVERPer calarsi nel personaggio di Travis Bickle,Robert DeNiro, con la solita furia maniacale,

ha guidato un taxi per un mese. È il 1976,il simbolo giallo di New York è protagonista

nel capolavoro di Martin Scorsese

Il sesso, la mortee i film trita-auto

American

CarsRepubblica Nazionale

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una Mitsubishi o una Toyota. Anche noi abbiamo avuto auto miti-

che, che rappresentavano un’interaepoca, la Topolino, la Seicento, la Cin-quecento, la decappottabile del Sor-passo, guidata da Vittorio Gassman,una metafora degli anni ruggenti e in-sieme insipidi del miracolo economi-co, rivista in tv qualche sera fa. Ma, an-diamo, chi farebbe oggi un film conprotagonista un nuovo modello Fiat?Le nazioni hanno momenti di calo, co-me le marche e i modelli d’auto. Sonouna Mustang modificata e una miticaDodge Challenger, bellezze degli anniSessanta, ma in realtà senza tempo,simboli dell’America al meglio, le autostar in quest’ultimo film di Tarantino,che in qualche modo riassume ironi-camente un intero mondo di passioneper il car chase e il car crash. Passionepiena, senza limiti, irrefrenabile, co-me sanno esserlo solo le passioni in-fantili.

Grindhouse è un titolo che fa venirein mente il tritatutto, tritacarne. È, holetto da qualche parte, il modo in cuivenivano chiamati i cinema decaduti,dove ti offrivano con lo stesso bigliet-to due film al posto di uno. In effetti co-sì si intitola l’accoppiata del film di Ta-rantino, che si intitola Deathproof, aprova di morte, e di quello del suo ami-co Robert Rodriguez, che si intitolaPlanet Terror. Io mi sono sentito de-fraudato, perché, a differenza che inAmerica, dove l’accoppiata vieneproiettata insieme, un film dopo l’al-tro, nelle sale italiane con lo stesso ti-tolo vi fanno vedere un film solo.

Ma non è di questo che volevo rac-contarvi. Ho letto che Grindhouse fa-rebbe il verso ai film “di serie B”, quel-li dozzinali che non andranno mai neicinema d’essai, così come Pulp Fictionlo faceva alla letteratura popolare al-l’ingrosso, da fumetto. A parte che nonbisognerebbe mai sottovalutare la“serie B” (ricordo male, o anche Totò egli spaghetti western di Sergio Leonevenivano considerati di serie B rispet-to ai “film d’autore”?), mi sono fatto l’i-dea che faccia il verso ad uno dei car-dini del modo di essere, della culturaamericani. Come è impossibile imma-ginare il Far West senza cavalli, e il

cipio del carro armato (il peso e laquantità di acciaio impiegato).

Ma allora, perché il boom imperter-rito degli Sport Utility Vehicle? Soloperché più comodi e perché la benzi-na costa ancora così poco? Certo ci so-no gli airbag, ci sono limiti di velocitàpiù severi che in Europa, in teoria alguidatore non sarebbe consentitonemmeno un bicchiere di vino o birraai pasti. Eppure, ogni anno continua-no a morire in incidenti stradali piùamericani di quanti ne siano mortinella guerra di Corea e in quella inVietnam, dieci, venti, trenta voltequanti ne sono morti sotto le Torri ge-

melle o nelle guerre in Afghani-stan e Iraq insieme.

La prima vittima si era avu-ta a New York, una tranquilla

sera di fine estate, il 13 (non11) settembre 1899, quando un

broker di Wall Street, Henry H.Bliss, fu falciato da un tassì mentre

scendeva dal tram che allora percorre-va l’8th avenue. Da allora, nel secolo epassa successivo, si calcola che solo ipedoni travolti dalle auto siano stati inAmerica quasi tre milioni. Le vittimein scontri tra veicoli, ovviamente mol-ti di più. Più di quelli ammazzati con lapistola o il coltello, incomparabil-mente più delle vittime delle bombe odel terrorismo. Secondo alcune stime,gli incidenti stradali sarebbero già og-gi la principale causa dell’aumento deidecessi non correlati a malattie tra-smissibili, insomma un killer che tal-lona cancro e malattie cardiache.

Nel film di Tarantino, l’arma del se-rial killer è un’automobile da stunt-man, modificata e rinforzata in mododa garantire la sopravvivenza del gui-datore anche in caso di scontro fron-tale. Per questo la chiamano “death-proof”. Un’altra automobile è l’armacon cui si difenderanno e lo puniran-no le ragazze che avrebbero dovuto es-sere le sue nuove vittime prescelte.L’auto è uno strumento di aggressio-ne, ma anche di esibizione sessuale. Lacompiacenza sul sangue, le mutilazio-ni e la carne trita è quella solita, fossetutto qui non varrebbe nemmeno lapena di prender nota di una sorta diKill Bill 3 in cui la strage avviene a col-pi di lamiere contorte anziché di spa-da da samurai o arma da fuoco. La no-vità non è nemmeno l’inseguimento el’autoscontro, anche se l’autore sivanta di aver girato tutto alla vecchiamaniera, dal vero, e non con i solititrucchi fatti al computer. L’idea diusare una vera stuntwoman australia-na per il gioco del cavalcare sul cofanoun’auto lanciata a piena velocità èbuona, aggiunge molta adrenalina alsolito gioco dell’autoscontro, evocaun po’ Europa in groppa al Toro, unpo’ la cavalcata di Lady Chatterley, unpo’ il supplizio di Mazzeppa nel poe-ma di Byron.

Ma tutto questo non basterebbe adare senso ad un “B-Movie” dichiara-to se non ci fosse anche questa faccen-da del rapporto particolare tra l’Ame-rica e le sue automobili. Senza contareche in America l’auto è anche spetta-colo, più che in qualsiasi altra parte delmondo. Gli eventi sportivi organizzatidal Nascar (National Association ofStock Car Automobile Racing) hannooltre dieci milioni di spettatori direttiogni anno, settantacinque milioni difan che seguono regolarmente glieventi, centocinquanta milioni se sicontano anche quelli che vi assistonoanche saltuariamente sugli schermitv. Si stima che per seguito le corsed’auto (auto modificate ma somi-glianti a quelle che circolano sullestrade, non da fantascienza come leFormula 1) vengano giusto dietro ilfootball americano, ma prima del ba-sket, del baseball e del wrestling, mol-to prima del calcio, che chiamano soc-cer e resta una raffinatezza all’europeaper pochi intenditori.

grande decollo industriale Usa dellaseconda metà dell’Ottocento senza leferrovie transcontinentali, è inimma-ginabile l’American way of life senzaautomobile. Chissà perché dicono«american as the apple pie». Dovreb-bero dire «american as the automobi-le». Che il vecchio Henry Ford abbiainventato modello T e catena di mon-taggio proprio per costruire automo-bili può essere una coincidenza (eraanche un antisemita pazzesco, da darlezioni a Hitler, ma non per questo l’A-merica è divenuta nazista).

Non può essere solo coincidenza,invece, che dagli anni Venti e Trenta inpoi l’automobile sia diventata non so-lo simbolo di libertà, di movimentonei grandi spazi, ma un vero e pro-prio “modo di vivere”. «Statussymbol, icona religiosa, feticcioerotico, insomma quasi un og-getto “non di questo mondo”,sempre più voluttuoso e carnoso,quasi fosse sull’orlo dell’orgasmo», è ilmodo in cui ne scrisse LewisMumford. Era uno che già agli inizi de-gli anni Sessanta aveva intuito moltecose. Compresa l’idea dell’automobi-le americana che evoca eros e thana-tos, sesso e morte, piacere e dolore. Ar-rivò a definirla addirittura come «re-sult of a secret collaboration betweenthe beautician and the mortician»,frutto maledetto di una sorta di pattosegreto di collaborazione tra salone dibellezza e pompe funebri.

Erano gli anni in cui le auto ameri-cane erano tutte cromature, curveinutili e siliconate, pacchianerie di sti-le, gadget, senza alcuna o pochissimaconsiderazione per la sicurezza. Veni-vano reputate bare su ruote. Ralph Na-der era diventato famoso, aveva lan-ciato una lunga e fruttuosa carriera dicontestazione con un libro di denun-cia dell’industria dell’auto Usa, in par-ticolare del modello Corvair dellaChevrolet: Unsafe at Any Speed, peri-colosa a qualsiasi velocità è il titolo delbestseller. Non è più così, nei decennisuccessivi costruttori di auto america-ni si sarebbero dati molto da fare per lasicurezza. Ora i loro modelli non do-vrebbero più fondarsi per la sicurezzadi guidatore e passeggeri solo sul prin-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 24GIUGNO 2007

SULLO SCHERMO/2

THELMA & LOUISEDue donne in fuga dal loro passato

e da un’accusa di omicidio. Susan Sarandone Geena Davis dirette da Ridley Scott (1991)

attraversano gli Stati Uniti su una Thunderbirddecapottabile del 1966

CARSLa giovane auto Saetta McQueen, astro

nascente delle corse, giunge in una piccolacittà di provincia abitata da auto sempliciche hanno capito che la vita non è solo

correre. È la magia Disney/Pixar del 2006

GRINDHOUSEL’ultima adrenalinica e a tratti splatter fatica

di Quentin Tarantino. Ragazze, corse in auto,omicidi in stile B-Movie anni Settanta

Le auto sono una Dodge Charger del 1969e una Dodge Cahllenger del 1970

‘‘- La Cadi, dov’è

la Cadi?

- L’ho data via

per

un microfono

- Per un

microfono!?

Hai dato via la Cadi

per un microfono?

Bene, hai fatto bene

John Belushi e Dan AykroydTHE BLUES BROTHERS (1998)

‘‘Era nuova di zecca,

aveva l’odore

delle macchine

nuove

Che è poi

il miglior

profumo

del mondo,

a parte quello

di donna

George LeBayCHRISTINE (1983)

‘‘Lisa: Papà, abbiamo

fatto una cosa terribile!

Homer: Avete

sfasciato la macchina?

Bart: No!

Homer: Avete

resuscitato i morti?

Lisa: Sì!

Homer: Ma la macchina

sta bene? Lisa: Ahah.

Homer: Allora tutto ok

The SimpsonsLA PAURA FA NOVANTA III (1992)

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Repubblica Nazionale

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InteroIl latte di partenzaè intero, ovvero con un contenutodi grassi non inferioreal 3%. Può esserebianco – il più semplice– con o senzazucchero, addizionatodi frutta, aromi, muesliÈ il più usato nella preparazione di torte, gelati e dolcial cucchiaio

Da bereLa versione fluida si ottiene grazie a rottura del coaguloe successivopassaggio al setacciofine. Quasi semprel’appetibilità passa da aromi e dolcificantiLiquido ma diversoil kefyr, di originecaucasica, che oltreai fermenti vanta la presenza di lieviti

La yogurtieraDi forma rotonda o quadrata, la yogurtiera è un contenitore

con coperchio che scalda i vasetti contenuti, da sei a dieci,

per il tempo (da tre a sei ore) e ai gradi necessari (35-40°)

A partire da fermenti secchi (in vendita in farmacia)

o da uno yogurt (intero, non zuccherato, possibilmente

di pecora, a garanzia di un risultato cremoso) si miscela

a temperatura ambiente con latte lasciato sobbollire

per un quarto d’ora e fatto intiepidire (40°). Poi, riempiti

i vasetti, si accende la yogurtiera. Dopo lo spegnimento

automatico, lasciate riposare i vasetti in frigo

i saporiOltre il latte

Magri, belli, sani: tutto merito del latte cagliato che - acidissimo,cremoso o corretto con zucchero, miele o muesli - consumatoquotidianamente assicura vitamine e fermenti al nostro organismoLa sua è una storia alimentare lunghissima che affonda le proprieradici nell’antica India degli yogi. Ottomila anni fa l’avevanobattezzato “cibo degli dei”, oggi il consumo continua a crescere

LICIA GRANELLO

Magri, belli, sani, virtuosi: tutto merito del latte cagliato. Impossibile trovare unaltro alimento così carico di benemerenze. Bisognerebbe farci il bagno, nelloyogurt: corpo, viso, capelli ne guadagnerebbero assai. E mangiarlo con rego-larità, per ritrovare, come un filo d’Arianna, tutti i fermenti smarriti per colpadi diete sbagliate, stress incombenti, ambienti inquinati. Abbiamo faticato unpoco a farcelo piacere, perché il gusto acido non è tra i più praticati della no-

stra cucina. Ma alla fine, tra aggiustamenti, trucchi e un po’ di coscienza alimentare in più,siamo riusciti ad adottarlo come un felice passe-partout della cucina estiva. In più, il fai-da-te è semplice, economico e allegro, l’inserimento nelle ricette variegato e curioso, imargini di tolleranza digestiva ampi, l’appetibilità per grandi e piccini accertata.

Da quando, nei primi anni del secolo scorso, lo scienziato russo Ilya Metchnikoff, av-viato uno studio sulla longevità del popolo bulgaro, venne folgorato dall’intuizione che lo yo-gurt fosse la causa di tanto buon invecchiare, la sua diffusione ha avuto un incremento espo-nenziale. Metchinikoff, battezzato “bulgaricus” il lattobacillo principale responsabile della fer-mentazione, ci scrisse un libro sopra, intitolato L’allungamento della vita, dove sosteneva chelo yogurt consumato quotidianamente, grazie al suo apporto di batteri buoni, era da conside-rarsi una sorta di elisir di eterna giovinezza. Una scoperta che gli valse il premio Nobel.

Del resto, lo yogurt è citato come simbolo di alimentazione sana nei testi Ayurve-da indiani datati ottomila anni fa. Allo stesso modo, molti secoli prima di Cristo gliyogi lo avevano battezzato «cibo degli dei». Un’eredità alimentare ben corposa, se è ve-ro che gli indiani sono tuttora infaticabili consumatori di yogurt, che traducono in salse, con-dimenti e nei gustosi lassi, la bevanda nazionale indiana realizzata con yogurt, acqua (in quan-tità dimezzata), ghiaccio, spezie o frutta a piacere.

Il problema è che esiste yogurt e yogurt. Al supermercato, restiamo incantati e confusi da-vanti alle scaffalature dove, allineati con implacabile disciplina, centinaia di vasetti prometto-no mirabilie. Scelta difficilissima: abbassare il colesterolo e ridurre gli zuccheri, far pace conl’intestino pigro o stroncare l’acne giovanile?

Nudo e crudo, lo yogurt è irreprensibilmente benefico: il lattosio, scisso dalla fermentazio-ne in zuccheri più semplici (glucosio e galattosio), e i lipidi omogeneizzati risultano altamen-te digeribili, le proteine contengono tutti gli aminoacidi essenziali, le vitamine del gruppo Bproteggono fegato e intestino, l’acido lattico favorisce l’assorbimento di calcio e fosforo, i lat-

tobacilli favoriscono il ricambio della bile, incrementano la produzione di acido folico, mi-gliorano la microflora intestinale.

Il resto, lo garantiscono gli optional, equamente divisi tra plusvalore semi-terapeutico e ir-resistibile golosità. Convinti di regalarci un francobollo di salute, spesso ingoiamo chimica tra-vestita da cibo salutare, tra aromi e coloranti, zuccheri nascosti e frutta col contagocce, senzanemmeno l’alibi dell’economicità: quattro-cinque euro al kg, quasi mai sapendo da dove ar-riva il latte.

La ribellione alla dittatura del vasetto industriale passa dalla yogurtiera, che garantisce otti-mi yogurt fatti con tutti i vostri ingredienti preferiti, dal latte biologico al vero muesli integrale.Se invece l’autoproduzione vi atterrisce, organizzate una gita a Vipiteno nelle settimane cen-trali di luglio, per partecipare all’Olimpiade dello yogurt, con degustazioni a occhi bendati, vi-sita alle latterie sociali (comprese quelle di Merano e Bolzano) e cene dedicate. Verrete tra-sformati in veri Highlander del probiotico.

YogurtElisir di lunga vita

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2007

7,4% l’aumento del consumonell’ultimo anno

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 24GIUGNO 2007

Lo yogurt sta al formaggio come il chiaro di luna sta all’amo-re: avendo del chiaro di luna il frescore, la volatilità, l’opa-lescenza. Se non vi fossero altre ragioni, politiche, a consi-

gliare l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, basterebbela paternità dello yogurt a perorare la causa.

Paternità culturale, come attesta l’etimo: da yogurmak, me-scolare, impastare. Non necessariamente anche biologica. Tan-to Plinio (XXVIII, 133) quanto Columella (XII, 8) ricordano il gre-co oxygala, latte acido insaporito di varie erbe antesignane deipezzetti di frutta spesso natanti nelle nostre confezioni. E in Sar-degna — altra terra di pastori migranti come i turchi — abbiamotuttora, bovino ed ovino, su gioddu, la cui madre, come descriveil Dizionario geografico storico statistico commerciale degli statidi S. M. il Re di Sardegna, pubblicato a Torino nel 1824, era otte-nuta facendo fermentare pane nel succo mammario, in attesa diessere aggiunta ad una massa di latte bollito grazie all’immissio-ne di ciottoli arroventati. Un vero trionfo del folclore, oggi sem-plificato.

Paternità culturale, ripetiamo. Infatti, se il prodotto appartie-ne ad una vena profonda della civiltà mediterranea — quasi unasorta di carsismo gastronomico che qua e là affiora — non ci so-no dubbi che a imporlo all’attenzione europea è stata la Turchia.Allo stesso modo che, per il diritto naturale, il padre non è il do-natore del seme ma l’individuo additato da giuste nozze, anchelo yogurt vede nei turchi i padri additati da una giusta storia.

Perché, nell’immaginario di molti, lo yogurt nasce bulgarotanto che i suoi fermenti sono detti bulgarici? Perché la Bulgariaè stata, fino alla seconda metà dell’Ottocento, una provincia tur-ca. E perché, entrando in un supermercato, la più raffinata delleconfezioni esposte è quasi sicuramente greca? Perché svariati se-

coli di dominazione ottomana hanno consentito agli Elleni di ac-quisire tutti i segreti del mestiere. A distanza di quasi due-cent’anni il regalo dell’arte yogurtina risolve (se non assolve) imassacri di Scio immortalati nel quadro di Delacroix al tempodella guerra per l’indipendenza.

Dopo un lungo periodo di gastronomico carsismo il prodottoemerge all’attenzione europea nel 1542. Francesco I, galante Redi Francia, era caduto in uno stato di prostrazione dal quale nonriuscivano a sollevarlo i medici abituali. Fu allora che il suo am-basciatore presso la Sublime Porta gli segnalò un medico ebreodi Costantinopoli che faceva miracoli con latte di pecora rappre-so in un certo modo. Fu fatto venire a Parigi, a piccole tappe, perrestare unito al suo gregge: che, guarito il re, fu invece abbattutodal rigore dell’inverno europeo.

Passarono altri tre secoli prima che Théophile Gautier, il deli-cato cesellatore di Smalti e cammei, decantasse le esposizioni avento aperto di questo latte cagliato nelle vie di Costantinopoli.L’Oriente si fa moda. Finché, nel 1919, ecco sorgere a Barcellonail primo stabilimento industriale, con un’etichetta ancora oggiben nota: Danone. Da allora la corsa allo yogurt, ormai bovino,non conosce soste. Con una accelerazione davvero incalzante.L’Ismea calcola che tra il 1999 e il 2006 i consumi italiani sono sa-liti da 352 a 497 migliaia di tonnellate, da 6,1 a 8,5 chilogrammipro capite. Con qualche conseguenza sulla nostra bilancia deipagamenti, le importazioni essendo cresciute dal 20 al 40 percento, nonostante i progressi dell’industria nazionale. Ma è unoscotto da pagare volentieri, visto che lo yogurt, promuovendo losviluppo della flora intestinale, fa delle nostre trippe i giardinipensili della salute.

L’autore è presidente dell’Istituto nazionale di sociologia rurale

La trovata dei pastori migrantiCORRADO BARBERIS

AromatizzatoMagro o intero, si caratterizza per la presenza di cereali, nocciole,caffè, vaniglia, malto,cioccolato. Quasisempre, si trattadi aromi di sintesiLa dicitura “naturali”consente comunque di replicare sostanzenaturali con metodichimici

ProbioticoAllo streptococcustermophiluse al lactobacillusbulgaricus, vengonoaggiunti altri fermentiegualmente capacidi svilupparsialla temperatura del corpo e resistentiagli acidi gastriciTra le loro funzioni:proteggere l’intestinoe alzare le difese

75 le calorie in un vasettodi yogurt intero

itinerariAntonio Palmieriè l’appassionatoproprietariodi “Vannulo”,caseificio-cultoall’ombra

dei templidi Paestum. Il lattelavorato (crudoe biologico) provienedalle bufale allevatein azienda. Mozzarella,ricotta e yogurt da solivalgono il viaggio

Fascino medievalee ospitalità a 360gradi per l’anticaVipitenum Sterzen(terreno di Starzo)Il paese - i tre quartidei suoi abitantisono di madrelingua tedesca -

è inserito tra i borghi più belli d’Italia. La sua latteriasociale è famosa per l’alta qualità di yogurt e burro

DOVE DORMIREAQUILA NERA-SCHWARZER ADLER (con cucina)Piazza Città 1Tel. 0472-764064Camera doppia da 110 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREPRETZHOFLocalità Tulve Tel. 0472-764455Chiuso lunedì e martedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRARELATTERIA COOPERATIVA VIPITENOVia Passo Giovo 108Tel. 0472-764155

Vipiteno (Bz)Appoggiato a mezzacosta nell’alta valledel Volturno, fa partedi uno dei due policampanidell’allevamentodi bufale. In sciaall’eterna lotta traCaserta e Salerno

per la supremazia della mozzarella, nei caseificisi producono yogurt gustosi e cremosissimi

DOVE DORMIREAGRITURISMO BOSCO FARNETO (con cucina)Bosco FarnetoTel. 0823-989506Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELE DUE TORRI (con camere)Via Venafrana Km 4700Tel. 0823-989518In estate sempre aperto, menù da 30 euro

DOVE COMPRARECASEIFICIO LA FENICEVia Vadopiano 5, Presenzano Tel. 0823-989318

Presenzano (Ce)Intitolato alla pievedi San Lorenzo, è uno dei borghidella concadel Mugello, alle spalle di FirenzeCampi e stalle gestiti con sapienzagarantiscono

produzioni di alto livello, a cominciare da latte,yogurt e formaggi con il marchio Mukki Mugello

DOVE DORMIRELOCANDA DEGLI ARTISTI (con cucina)Piazza Romagnoli 2, Tel. 055-8455359Camera doppia da 110 euro, colazione inclusaIn estate sempre aperto, menù da 30 euro

DOVE MANGIARECOLLEFERTILE (con camere)Località La SugheraFrazione ArlianoTel. 055-495201

DOVE COMPRARECOOPERATIVA EMILIO SERENIVia La Brocchi 27 Tel. 055-8459100

Borgo San Lorenzo (Fi)

CompattoTipico della Grecia,di consistenza quasisoda, simile a un formaggio fresco,viene preparato comequello fluido. Una voltacompletata la fermentazione, però,si fa “sgrondare”facendo colare il sierodentro una garzatenuta in frigoper qualche ora

2,2 i miliardi di vasettiacquistati ogni anno

ScrematoPreparato con lattela cui percentuale di grassi non superal’1%. Esiste anche in versioneparzialmente scremata,con un contenutolipidico che varia tra l’1,5% e il 2%Può essere arricchitocome l’intero e zuccheratocon dolcificanti

CremosoLa tecnica prevede una maggior accuratezza nel rimescolare,omogenizzandoil compostoPiù semplicee golosa l’aggiunta di panna (quasi sempresenza percentuale in etichetta)La definizione “cremadi yogurt” evita i vincolinormativi

Alla fruttaArricchito con fruttisingoli o miscelati(anche con verdure)a pezzetti, frullati,spesso con aromi

Colorantie conservantisupportano o sostituiscono la frutta. Il contenutomedio varia intornoal 10%, pari a pochigrammi per vasetto

Repubblica Nazionale

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le tendenzeModa virtuale

Ora vogliono guardarsi negli occhi, la doppia vita non basta. L’orgoglio avatar fa co-ming out, scende in piazza a Pistoia per il primo raduno dei residenti italiani (vir-tuali) su Second Life, il gioco online in 3D che definirlo così è ormai solo una pru-dente convenzione. Il 18 luglio nel parco dell’Aringhese di Montale ci saranno gli al-ter ego della terza dimensione con i loro corpi, visi, nomi; e un concerto di FrecciaLane, alias Irene Grandi, che ha girato su SL il video del suo Brucia la città, attori-ava-

tar arruolati dalla Ibridarte, l’isola-azienda creata della Pim che è anche il marchio dell’evento pi-stoiese. Mario Gerosa, giornalista di Architectural Digest, pioniere di mondi virtuali con SecondLife (Meltemi), prima guida-saggio sull’argomento, dice: «Conviene tenere conto dei socialnetwork come SL, non sono solo un doppio ma un’alternativa concreta del fare e dell’essere».

Gli oltre 7,5 milioni di residenti di quell’aldilà digitale lo sanno bene che significa inventarsiun’altra identità e poterci fare tutto. E che piacere siauna vita priva di scopo, senza timbrare cartellini maanche senza ammazzare mostri e conquistare reami.Al posto di doveri, molte opportunità: di creare, diver-tirsi, fare soldi (1,6 milioni i dollari scambiati in mediaogni giorno). E dire che erano poche centinaia gli uten-ti nel 2002 quando la Linden Lab di Philip Rosedale aSan Francisco si è inventata questa patria di replican-ti, di altri, di rovesci. Tutto attorno inchieste, studi, euna fitta manualistica perché andare dall’altra parte èun’avventura complicata. Second Life, guida turisticaessenziale si chiama il vademecum degli inglesi PaulCarr e Graham Pond (Il Saggiatore). Second Life, la gui-da ufficiale è il testo di riferimento di Repubblica-L’E-spresso, scritto dai residenti di SL e dai tecnici della so-cietà madre californiana.

Orientarsi, per perdersi meglio: in questo altrove è ne-cessario uno smarrimento consapevole, la più fecondacondizione creativa. Oltre la retorica tecnoutopica, SL è di-ventato l’universo parallelo non solo mimetico, ma anche

fortemente demiurgico. Una vita altra, soprattutto una vita espressiva. Tra le molte professioni degliavatar, da animatore di night a organizzatore di matrimoni, da paesaggista a sviluppatore di abbracci,da agente immobiliare a investigatore privato, non a caso abbondano i designer di oggetti e di moda.

Vestire, abbigliare, travestirsi: finalmente lì si può eccedere, esagerare, giocarsi un ruolo. Sessua-lità ambigue, soprattutto corpi e accessori impudicamente esorbitanti, spettacolari, carnevaleschi.Nella varietà e diversità sociale di SL, la creatività è praticabile, l’utopia d’essere autori accessibile.Qui la dittatura del brand è fragile, le grandi corporation tra cui Reebok, Toyota, American Apparel,Ibm e altre che ormai da anni hanno aperto vetrine per pubblicità, non possiedono più appeal di unqualsiasi Pirandello (cognome parecchio diffuso “in-world”) che apra bottega. Gli stili in circolospiegano il resto. Gerosa: «Il fetish va molto, perché è la metafora di qualcosa che manca, la pelle eil latex simulano una sensualità che nel virtuale è sorda, priva di appigli sensibili».

C’è anche molta classicità, romanticismo e demodè, citazioni dai Sessanta e Settanta, ma so-no le sottoculture a emergere, tutto l’immaginario pop del cinema e dei manga giapponesi, il sel-vaggio, il cyberpunk, il gotico, il vampiresco, l’estetica dei videogame. Le molte riviste specia-lizzate come Second Style e i blog dei creativi come quello di Ginny Talamasca (Dazzle Haute

Couture), danno indirizzi: per qualcosa di sobrio, Shiryu Musashi o Rebel Ho-pe Design, street style da Form di Zabitan Assia, molto trendy Nocturnal Th-

reads di Kaia Ennui (alias Calan Ree), jeans a vita bassa e ali (perché in SLsi vola, ovvio) nella boutique di Toni Barrett a Butterfly Island, il dra-culesco da Mistress Midnight, stilista assai in voga almeno come Ai-mee Weber (Alyssa LaRoche). Secondi corpi e seconde pelli. Non so-lo il sogno americano rivisitato in digitale, ma il riflesso luccicantedella vita, la tentazione del doppio di sempre.

Erano poche centinaia nel 2002, quando questo aldilà digitale fu ideatoOggi sono sette milioni e mezzo i residenti di Second Life, un altromondo dove la creatività è un must e che esprime uno stile spessoeccessivo, impudico, carnevalesco.E adesso gli avatar made in Italyper la prima volta si incontrano (dal vivo) a Pistoia per confrontarsi

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2007

Farò il replicantema cosa mi metto?ALESSANDRA RETICO

Gli stilisti e gli atelierche vestonole “seconde pelli”amano le sottoculturee dunque dominanoil pop, il cyberpunk,i manga, il selvaggio,il gotico-vampiresco

I LOOK

PSICHEDELICOSuggestioni anniSettanta nei pantalonia zampa d’elefante,nei top opticale nelle stampe a fiorie psichedelichedelle collezionidi Vitamin Ci,disegnatedall’avatarCiera BergmanCultura popmolto in voga su SL

NEOROMANTICOSi ispiraalla Russiadi Anna Kareninail mantello nerodi Ookami Ningen,rintracciabilenella boutiqueDark Eden Plaza,Indigo. Vestitoneoromanticofirmato Houseof Zen HinodeShima

CITAZIONISTAUn po’ Parigi anniTrenta, un po’Katharine Hamnett:incrocio di stilie citazioni sonofrequentinei designer di SLA destra: modellodi Meekale AliciaKay Kilara,si trova da A Touchof Ireland Hatchet,Cove

MANGAFumetti, manga,bambole, gadget:gli avatar di SLamano vestirsicome i personaggidei comics giapponesiQui, una creazionedel marchio Tweet,che rispondeal nome dell’avatarSumire MochiLa linea è pensataper teenager e donne

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 24GIUGNO 2007

Sognare un’altra vita rispetto a quella che ci capita di vivere è, tra i sogni dell’uomo,quello più antico. Senza questo sogno forse non sarebbero nati i miti dove nelle vi-cende degli dèi ci si rappresenta la vita che si vorrebbe vivere, le religioni che pro-mettono una vita eterna al di là di quella che trascorriamo sulla Terra, la letteratu-ra dove storie fantastiche ci trasportano in mondi altri rispetto a quello in cui siamocostretti a vivere, la musica che ci porta fuori dallo spazio e dal tempo abituali per

immergerci in assonanze e dissonanze sconosciute al nostro trascorrere quotidiano.Senza il sogno di un’altra vita non avremmo immaginato alcuna utopia dove possa aver luo-

go quello che al momento non ha luogo, alcuna rivoluzione che, rispetto all’esistente, pro-mette «nuovi cieli e nuove terre» e, se non proprio, almeno altre condizioni di vita, alcun pro-gresso scientifico promosso dal sogno di ridurre la fatica del lavoro e la crudeltà del dolore,quando non addirittura quello di procrastinare la morte. Senza il sogno di un’altra vita, dav-vero, ma proprio davvero, non riusciremmo a vivere. Tale è infatti la condizione umana, il suotratto specifico, la sua peculiarità, la sua bellezza.

Su questo sogno primordiale, in cui probabilmente è da rintracciare l’essenza dell’uomo,le religioni hanno costruito il concetto di “trascendenza”, una sorta di oltrepassamento del-l’esistenza, in vista di altri scenari possibili e futuri. Dal canto suo la psicoanalisi, sempre a par-tire da questo sogno, ha costruito il concetto di “inconscio”, dove il desiderio di un altrove, ri-spetto alla monotonia del quotidiano, irrompe per creare scenari alternativi che, quando nonsi realizzano, diventano sofferenze nevrotiche.

Quando il sogno di un’altra vita oltrepassa i limiti del desiderio e dell’immaginazione e piùnon si accontenta degli scenari dispiegati dai miti e dalle religioni, né di quelli più modesti di-schiusi dalle visioni utopiche o dalle istanze rivoluzionarie, allora può accadere che ci si con-gedi dalla realtà per inoltrarsi in quei percorsi, ora bui ora folgoranti, che siamo soliti chiama-re “follia”. Un tentativo estremo per continuare a vivere quando la realtà non ci offre più le con-dizioni e, senza il sogno di un assoluto altrove, altro non ci resterebbe che il suicidio.

Una realizzazione di questo bisogno tipico dell’uomo — che nasce in un mondo “dato”al solo scopo di ri-nascere in un mondo da lui “creato”, perché solo nelle nostre creazionireperiamo un senso che sia davvero “nostro” — oggi ce lo concede la frequentazione del vir-tuale, dove ciascuno di noi può identificarsi nel mito di se stesso, nella storia che vorrebbee che non può vivere nella realtà, negli amori che gli sono impediti, in spazi che non ha maifrequentato, abitando case o castelli, spiagge o deserti che ha solo sognato, indossando abi-ti che non sono sul mercato, ma che ciascuno, vestendoli, sente di essere finalmente se stes-so. Forse tante terapie psicoanalitiche potrebbero accorciare i loro tempi alla scoperta del-l’inconscio, se ogni paziente portasse al suo analista un dischetto in cui descrive la sua “Se-cond Life” e se l’analista avesse l’accortezza di non ricondurre subito l’immaginazione delpaziente alla realtà. Perché senza sogni la vita è invivibile, e i sogni forse non vanno solo in-terpretati ma anche realizzati, a meno che non si voglia rinunciare totalmente al proprio séprofondo, dimenticando l’invito di Nietzsche: «Diventa ciò che sei».

Naturalmente più solerte e più attento degli psicoanalisti è il mercato che studia il “Se-cond Life Style” per consentire ad architetti, designer e creatori di moda di alimentare la lo-ro creatività consunta e in via di estinzione e di andare incontro ai desideri segreti, ma in Se-cond Life manifesti, di personalità creative a cui il “sano realismo” che regola la nostra cul-tura non concede di esprimersi se non nel virtuale.

Ma il virtuale anticipa il reale come l’alchimia ha anticipato la chimica, il sogno leonar-desco di volare l’aeronautica, l’immaginazione atomistica di Democrito la fisica quantisti-ca, la chimica l’interpretazione goethiana dell’amore a partire dalle “affinità elettive”. Aquesto punto potremmo pensare che il reale è solo il residuato del virtuale, il passato del-l’immaginazione, ciò che resiste all’ideazione e a quella proiezione futura senza la qualel’uomo sarebbe già scomparso in quella noia profonda e letale dove già stava scomparen-do Dio, quando, come ci ricorda Kierkegaard, reagendo all’immenso vuoto che lo circon-dava, con un gesto di immaginazione, creò il mondo. Forse fu proprio ispirandosi a questogesto che l’uomo divenne immagine e somiglianza di Dio.

Ma la Second Life, oltre ad essere un inno alla magia del sogno, è anche un sintomo del-l’intollerabilità della vita a cui siamo costretti. Una vita dove ciascuno di noi ha dimentica-to il proprio nome perché è riconoscibile solo dalla sua funzione, a sua volta regolata dallemaglie strette e dalle regole ferree dell’apparato di appartenenza. C’è solo da augurarsi chela promessa di una seconda vita virtuale non rimanga solo un’evasione, ma diventi spuntoper una progressiva modificazione del reale, senza che un’anticipata rassegnazione lascitutto irrimediabilmente così com’è. Sarebbe la fine della vicenda umana in quel che ha dipiù creativo e ideativo.

Quel sogno di un Altrovemotore delle nostre vite

UMBERTO GALIMBERTI

LA GUIDA

Con la Repubblica e L’Espressola guida ufficiale di Second Life,scritta dai residenti e dai tecnicidella Linden Lab, proprietaria del gioco in 3D. Tradotto per la primavolta in italiano, il manuale orientanel mondo online con le rispostee i consigli pratici per costruireil proprio personaggio, l’avatar,per esplorare un universo in continuaespansione e per realizzare veriprofitti con il lavoro dei propri sogniIl volume conta 360 pagine a colori,si compone di 13 capitoli tematicidivisi in tre parti e di 4 appendici:prezzo 7,10 euro

NEOPUNKVideogiochi, Matrixe Il Quinto ElementoPrevalgono nero, cinghie,fibbie, pelle, stivali, borchie:il neopunk è una delle modemeglio rappresentate in SLNella foto, un modellodel marchio Canimal. Punke stile vittorianonelle firme Taliah Talamascae Hyasinth Tiramisu,mentre l’intera isola NexusPrime è cyberpunk

FETISHLatex, pelle,collari, piercing,tatuaggi. Il fetishè tra le cifrepiù evidentinel mondo virtualeNella foto accanto,una creazionedella X3D ApparelMolti i marchidi moda,come DraconicLioncourt e KyrrahAbattoir

Sono circa 7,5 milioni i residentiin Second Life: in due mesipiù di 1,7 milioni i nuovi iscritti

7,5 milioni

Si calcola che sianocirca 50mila i residenti italianinel mondo virtuale in 3D

50mila

Nel giro di 24 ore su SL vengonoscambiati in attività commercialioltre 1,6 milioni di dollari Usa

1,6 milioni

Circa il 75% dei residentiha acquistato almeno un oggetto,mentre il 25% ha un negozio

75%

STREET STYLEDalla stradaproprio come avvienenel mondo reale,arrivano le ispirazioniper lo street o urbanstyle, che puntaalla comoditàe fa tendenza. A destra,modello di SassafrasDesigns, negoziosu Mo Islanddell’avatar ChaTrimble

NEOGOTICOIl neogoticoè una delletendenzepiù diffusein SL e mischiasuggestionicinemato-grafiche,delle serietelevisivee dei videogameUna delle firmepiù note è 7Deadly Sins,marchioche rispondeai nomidei partnerLilmiss & LokiCorsettie merletti,ha inveceun’esteticavampiresca:rosso e neroi colori preferiti

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52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2007

l’incontroPoeti rock

COPENHAGEN

Al cospetto di Patti Smith siavverte il silenzioso frago-re della storia. Storia rocks’intende, ma ricca di ri-

verberi, come una drammaturgia dell’e-sistenza scritta sotto l’urgenza delle can-zoni. Il suo volto scabro, non ritoccato, al-tamente espressivo, perfino rude, fino ache il sorriso non addolcisce gli occhi spi-ritati, è l’emblema di questo incontami-nato rispetto per la figura della donna.Senza trucchi. Come senza trucchi è lasua arte, una lama affilata da affondarenel parco emotivo che le si distende da-vanti quando canta, che siano teatri, pa-lasport, o lo sgangherato, enorme, loftdove suona a Copenhagen, nella surrea-le enclave di Christiania, anzi la liberacittà di Christiania, il quartiere fondatonel 1974 e ancora oggi gestito con in-confondibile filosofia comunitaria distampo hippy. «Sì, ho voluto suonareproprio qui, perché bisogna sostenerequesto posto. La gente ne ha bisogno». Equando canta, come un esordiente in unclub fumoso, fronteggia il pubblico,guarda negli occhi gli spettatori, uno peruno, trasmette lampi chiari di rabbiosabeatitudine, urla: «Voi siete il futuro!».

«Ho sempre voluto comunicare diret-tamente con la gente» spiega, «Sono con-sapevole della loro presenza, la gentevuole essere riconosciuta, e voglio che lagente sappia che sono lì per loro, vogliovederli, sentirli». Propone canzoni d’altritempi, tra cui quelle che ha scelto per ilsuo recente album di cover, Twelve,un’occasione per riflettere sul passato.«Alcune le ho scelte perché era una mis-sione, come Are you experienced, volevo aogni costo aprire il disco con un pezzo diJimi Hendrix». Il suo modo di raccontarsiè sempre in bilico tra memoria e futuro.Le persone perse, le persone ritrovate, ilfiglio Jason, ventiquattrenne, che ora è intour con lei, e che lei protegge come una

no tutti, tutti i giorni, anche qui girandoper le strade ho visto una grande statuacon King Frederick, e ho subito pensato almio Fred, ogni giorno mi manca questagente, non solo per l’amore che avevo perloro, ma per il lavoro che abbiamo fattoinsieme. Potrei dire che la mia vita è piùpovera, ma provo anche ad apprezzarequello che ho avuto, la mia vita è più riccagrazie al fatto che Fred mi ha dato due stu-pendi figli, ho incontrato nuovi amici,nuovi musicisti come Michael Stipe oFlea (dei Red Hot Chilli Peppers), ho ami-ci meravigliosi, viaggio, e viaggiare rendela mia vita più ricca, amo arrivare nei pae-si, la gente mi dà energia, spero che ci ispi-riamo a vicenda, mi manca la mia gentema loro sono sempre con me, preferiscopensare che cammino con loro in un di-verso modo».

Metaforicamente, ma anche alla lette-ra, è una vera viaggiatrice, nel senso cheporta con sé poche cose, essenziali, macosa esattamente? «Parto sempre con unlibro che voglio leggere, poi diventanotanti perché la gente mi regala spesso li-bri, questa volta ho portato un libro dipoesie di William Blake. Porto sempre un

leonessa col suo cucciolo, come se fossela sua proiezione nel domani. «Hendrix,l’ho incontrato una volta, poco prima chemorisse» racconta. «Era allo studio Elec-tric Ladyland, c’era un party, stava perpartire per l’isola di Wight, io ero troppotimida per entrare nello studio e stavosulle scale, lui uscì fuori, mi sorrise, miraccontò i suoi sogni, le sue speranze, ilrock’n’roll come linguaggio universale,voleva sviluppare un movimento pacifi-sta dentro le strutture del rock, e poi morì,così cercai di pensare a lui, onorarlo, e ioregistrai lì il mio primo singolo, Hey Joe,che avevo imparato da lui».

Oggi Patti Smith ha sessant’anni. Coltempo ha acquisito una sorprendente eluminosa serenità. A vederla sul palco èuna belva scatenata, un furore ininterrot-to, come se davvero fosse in missione perconto di cause superiori. La mattina do-po nel bar dell’elegante albergo in cui ri-siede è tranquilla, calma, attenta a ogniparola che dice, è seduta in un angolo,con un blocco notes in mano, un tè da sor-seggiare, sembra un’intellettuale d’altritempi in cerca di sottili empatie, con unborsalino nero a tese larghe saldamenteinfilato sulla testa: «Lo amo, quello cheavevo mi è volato via mentre ero in viag-gio, ero molto triste per questo e quellidella Borsalino me ne hanno mandatosubito uno nuovo, ne sono molto ricono-scente perché il cappello è come un mioamico». Ha vicino a sé un libro, di EdgarAllan Poe, lo apre a caso e come una mo-nellesca sciamana legge la prima fraseche trova: «Permettiti di sognare». Poi miguarda come dire: vedi? La vita è una me-ravigliosa catena di casualità.

Fa di tutto per sembrare normale:«Non sono una celebrità, non sono unapopstar, voglio una vita normale, cam-minare per le strade, e voglio anche che lagente sappia che non sono inaccessibile,sto sul palco ma questo non fa automati-camente di me una persona migliore, è ilmio lavoro, tutti insieme creiamo la not-te e ogni concerto è diverso, anche nellostesso luogo la sera seguente sarà diverso,c’è sempre qualcosa che deve essere ap-preso, qualcosa che deve essere scam-biato, ogni notte è nuova anche per me,una notte può essere molto politica,un’altra omosessuale, una anarchica, osolo divertente».

Eppure la sua normalità è frutto di unavita votata all’arte, a fianco dei personag-gi più fantasiosi e eretici espressi dallacultura americana, una vita travagliata,lontana dai compromessi, funestata daperdite gravi. In pochi anni, dopo che nel1979 aveva annunciato un clamoroso ri-tiro dalle scene, all’apice del successo, haperso il marito Fred Sonic Smith, bassistadel ruggente gruppo Mc5, poi il fratelloTod, l’amico di sempre Robert Map-plethorpe. Poi sono scomparsi i suoi ami-ci poeti, Gregory Corso, Allen Ginsberg.Non è troppo subire così tante perdite?Anche su questo mostra una insospetta-bile serenità, eppure si capisce che supe-rare il lutto deve essere stata un’esperien-za liberatoria ma devastante. «Mi manca-

notebook, un paio di penne, una foto dimia figlia, una piccola medaglia di Gio-vanna D’Arco, qualche t-shirt, dei calzini,porto anche la mia vecchia macchina fo-tografica, ce l’ho dal 1963, mi piace viag-giare leggera, spesso do via le mie cose, lagente me ne dà, a volte sembra una caro-vana di zingari, scambio le cose con quel-li che incontro».

E non si ferma mai, sembra che la suatesta sia ingombra di progetti come uncantiere in costruzione: «Ho molto lavoroda fare fuori dai concerti, voglio lavorarecon altri artisti, come l’italiano Marco Tu-relli, ci sono molte fondazioni e musei chemi chiedono cose, e poi soprattutto voglioscrivere un’opera, una piccola opera, noncome quelle di Verdi o Puccini, ma co-munque un’opera, poi voglio finire il do-cumentario a cui abbiamo lavorato perdieci anni, col mio amico Steven Sebring.Credo che sarà al festival del cinema di Ro-ma, si intitola Dream of life, è sui dieci an-ni passati dopo che mio marito è morto,con i figli che crescono, mi segue in viag-gio, visitando la tomba di Rimbaud oquella di Gregory Corso a Roma, è la miaripartenza nella vita, e poi sto finendo unlibro su Robert Mapplethorpe».

Di tanto in tanto quando parla il volto siillumina, sembra colta da visioni, qualco-sa di simile a quello che avviene in con-certo quando sembra rapita da un effetto-trance. «Capita con canzoni speciali. Unadi queste è Smells like teen spirit dei Nir-vana. È molto emozionante per molte ra-gioni, la prima è che ammiravo molto iNirvana e ho molto sofferto per la mortedi Cobain, ma più di questo le liriche del-la canzone le sento molto personali, comese le avessi scritte io stessa, parlano delconflitto di essere un artista che lavoracon la gente con una certa forma di idea-lismo, essendo allo stesso tempo cinici,sentire quello che la gente ama e deside-ra, ma qualche volta odiandoti. Tutti gliartisti passano attraverso questo, primailluminazioni, e poi dubbi su se stessi. Luideve aver provato questo così intensa-mente da togliersi la vita, ma anche io sen-to le stesse cose, capisco la canzone, sonoi sentimenti che mi hanno fatto abbando-nare il palcoscenico nel 1979. Io ho perse-guito la vita, l’amore, la maternità, senti-vo la responsabilità, sentivo di aver fattotutto quello che sapevo di dover fare, e tut-to quello che potevo fare finché avessi im-parato altre cose, era diventare più ricca efamosa, ma io non ho mai adottato il rockper diventare ricca e famosa, l’ho fatto perservire la gente, e ho pensato nel 1979 dinon aver più niente da dare, piuttosto do-vevo imparare a diventare una madre,avere bambini, un marito, una vita diffici-le diventare una vedova, ricominciare dacapo. Ora ho molte più cose da spartire,ho più empatia con la gente».

Ma da quando ha ricominciato, ricu-cendo pazientemente gli scopi, il sensostesso del suo mestiere, il mondo è cam-biato, e di parecchio. «Quando ho co-minciato c’era più ottimismo, la guerradel Vietnam era finita, c’erano state con-quiste nei diritti civili, il movimento delle

donne, il mio primo disco era anche la ce-lebrazione di essere giovani, di esserci,con nuove idee e la voglia di cambiare ilmondo, ora la gente è demoralizzata, nonc’è niente che possano fare, perché i go-verni e l’economia sono troppo potenti,c’è sempre più gente esageratamente ric-ca che prende decisioni per gli altri. Mistupisce come la gente possa dimentica-re, lascia che l’amministrazione Bush in-vada l’Iraq senz’altro scopo se non desta-bilizzare il Medio oriente. Qualcuno miha detto: vorrei fare una maglietta per ri-cordare l’11 settembre, io ho risposto no,devi farne una per ricordare il 10 settem-bre, per ricordare chi eravamo prima. Gliartisti devono fare la loro parte, riavviareuna rivoluzione spirituale, non bisognamollare, non importa se si è capiti o me-no, bisogna fare il proprio lavoro con lastessa passione, la mia missione è fare unbuon lavoro, bisogna combattere, com-battere, combattere, e magari perdere,ma ricordare alla gente che può semprecombattere. Dobbiamo aiutare i nostri fi-gli a non avere paura. Ricordo che quan-do ero piccola, dopo la Seconda guerramondiale, mio padre mi spiegò che co-s’era la bomba, io avevo cinque o sei an-ni, e cercavo di capire: abbiamo unabomba capace di uccidere migliaia dipersone? Era spaventoso, mi rendevamolto triste. Poi pensai, no, questa è lamia vita, e non posso viverla nella paura,devo godere la vita che ci è stata data, de-vo esplorarla, dare il mio contributo. Bu-sh ha capitalizzato la paura della gente,ma noi dobbiamo cacciare la paura fuoridell’atmosfera, ho visto cose brutte, cosetristi, ho visto le peggiori cose, ho persomia marito, ma devo essere grata di esserstata con lui per un certo periodo. C’è unacosa che ho imparato da Allen Ginsberg,mi chiamò quando morì mio marito, midisse: lascia andare e continua la celebra-zione della vita. È così, ogni giorno pensoche sono sveglia, ho un altro giorno da vi-vere, un altro cielo da guardare, un altrolibro da leggere, un altro sorriso, un altrouomo che mi prenderà per mano».

Mi hanno detto:facciamo una t-shirtper l’11 settembreHo risposto: no,facciamone unasul 10 settembre,per ricordarechi eravamo prima

Il marito e gli amici perdutitroppo presto, due figli amatissimi,una straordinaria carrieramessa da parte e poi riagguantataIl suo racconto è sempre in bilico

tra memoria e futuroma oggi questapassionale popstarche ha saputoricominciare da capo parla solo di speranza“Aiutiamo i nostri ragazzia non aver paura,

a combattere, combattere, combattereper costruirsi un avveniredove la vita possa essere esaltata”

GINO CASTALDO

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Patti Smith

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Repubblica Nazionale