Un'associazione per la Padania Il «Sole delle Alpi», · una federazione italiana Una lingua, un...

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Un'associazione per la Padania Il «Sole delle Alpi», simbolo Padano Federalismo, secessione, costituzione e codice penale La matrice alpina dell'identità etnica lombarda Le suddivisioni delle entità componenti una federazione italiana Una lingua, un popolo Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana Anno 1 - N. 1 - Estate 1995

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Un'associazione per la Padania

Il «Sole delle Alpi»,simbolo Padano

Federalismo,secessione,costituzionee codice penale

La matrice alpinadell'identità etnicalombarda

Le suddivisionidelle entità componentiuna federazione italiana

Una lingua, un popolo

Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana Anno 1 - N. 1 - Estate 1995

Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana Anno 1 - N. 1 - Estate 1995

Un'associazione per la Padania 1Il «Sole delle Alpi»,simbolo Padano - Gilberto Oneto 3Federalismo, secessione, costituzionee codice penale - Giorgio Veronesi 7Riflessioni sulla matrice alpinadell'identità etnica lombarda - Michele Corti 8Indagine sul tema delle suddivisionidelle entità componentiuna federazione italiana - Gilberto Oneto 17Una lingua, un popolo - Corrado Galimberti 24Biblioteca padana 26

I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla“Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche acontributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana,C.P. 792, via Cordusio 4, 20123 MILANO

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le regione padano-alpine sono state ca-ratterizzate dalla nascita di nuovi movi-menti che si sono affiancati alla struttu-re “storiche” dell’autonomismo nella ri-chiesta di federalismo e autonomia.

Rispetto al passato, quando i movi-menti autonomisti rivestivano un ruoloperiferico e marginale nella vita politi-ca, i nostri giorni si sono caratterizzatiper i successi elettorali di queste nuoveforze localiste e federaliste.

A questa crescita elettorale non haperò corrisposto un identico successonella diffusione della cultura autonomi-sta padana che ha finito per essere pena-lizzata dalla grande attenzione riservataalle istanze economiche e sociali “nazio-nali”. Il parziale abbandono della forzaculturale e morale delle proprie originifinisce però anche per diventare il mag-gior punto di debolezza di questi movi-menti.

La stessa idea federalista perde granparte della forza vitale quando viene scol-

legata dalle istanze autonomiste dellecomunità locali: una struttura federalenon può infatti prescindere dal ricono-scimento morale prima ancora che isti-tuzionale delle “piccole patrie” e delleloro aggregazioni organiche, prima fratutte la Padania.

Nessuno degli elementi originari chehanno determinato il successo dei mo-vimenti autonomisti è però venutomeno.

La Padania è sempre più oppressa dalcentralismo romano, la sua società di-strutta e rapinata dalla corruzione e dallamalavita di importazione e la sua eco-nomia dilapidata per mantenere malvez-zi e inefficienze. Di conseguenza le èimpedita l’appartenenza all’Europa di cuila Padania è sempre stata uno dei cuoripulsanti.

Oggi - passato il momento delle gran-di ammucchiate demagogiche - l’Euro-pa “vera” stà ritrovando la propria unitàriproponendo legami antichissimi che sisviluppano attorno al nucleo alpino-cel-tico del Reno, del Rodano e del Po.

e idee autonomiste hanno avuto ne-gli anni più recenti momenti digrande diffusione e fortuna. Tutte

Un'associazione per la Padania

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L’antico patto è però di fatto ridotto alrapporto tra Francia e Germania, glimanca l’apporto della sua terza compo-nente storica: quello della Padania, unaterra sempre più coinvolta da uno statocentralista in una politica pericolosa-mente mediterranea e terzomondista.Oggi alla Padania è impedito il ricon-giungimento con l’Europa e l’Europasenza la Padania è zoppa.

Con la crescita dei movimenti auto-nomisti, la Padania ha mostrato di pos-sedere ancora grande e forte vitalità, haespresso il desiderio incontenibile di af-fermare la propria identità culturale e hariconosciuto la necessità di ricercare congrande determinazione la propria auto-nomia politica ed economica.

Ma - soprattutto - ha mostrato di ave-re finalmente cominciato a prenderecoscienza della propria identità e dellapropria condizione.

Quel che serve oggi è una forte ripro-posta di identità padana, mediante unosforzo di riordino e di ricostruzione del-l’unità organica della sua cultura.

Per questo nasce La Libera Compa-gnia Padana, una associazione culturaleche ha per scopo la promozione del-l’identità padana e cioè della coscienzadi tutte le sue peculiarità, autonomie edespressioni.

La Padania è la terra dei popoli gallo-italici e veneti, essa è l’unione delle cen-to autonomie e diversità che ne fanno

un caso unico per ricchezza, storia ecultura.

La Libera Compagnia Padana si ponecome obiettivo l’autonomia e l’unità del-la Padania, lo studio della sua storia edel suo territorio, dei suoi caratteri so-cio-economici, la promozione delle suemanifestazioni culturali locali, delle suelingue e dei suoi costumi.

La Libera Compagnia Padana intendeindividuare i fattori che limitano o com-promettono le potenzialità di sviluppoeconomico e sociale della Padania e cheimpediscono azioni efficaci a tutela delsuo patrimonio naturale e culturale.Essa si propone di individuare e di stu-diare le soluzioni atte a rimuovere sulpiano economico e istituzionale tali vin-coli nell’ambito di un concreto program-ma autonomistico.

Alla Compagnia possono aderire cit-tadini padani appartenenti a qualsiasiforza politica che non sia in contrastocon i fini dell’Associazione.

La Compagnia promuove la collabo-razione di tutti i movimenti autonomi-sti e padanisti con particolare rispettoper quelli di più antica tradizione.

Aderire alla Compagnia deve costitui-re il piacere di tutti i cittadini padani cheamano la propria terra al di là delle ideo-logie e dei particolarismi.

La Padania potrà essere liberista o pro-gressista, cattolica o laica, proporziona-lista o maggioritaria: di sicuro noi vo-gliamo che Essa sia federalista, europeae prospera.

Viva la Padania autonoma!2

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scente successo come segno dimovimenti ed associazioni pada-niste o di gruppi impegnati nel-la promozione della cultura pa-dana in ambito locale e si è difatto imposto come il più popo-lare simbolo di riconoscimentodell’intera comunità dei popoliPadani. La sua prima adozione“moderna” (con significati cul-turali e politici) risale al 1982quando il Sol è stato preso comesimbolo dal “Centro per lo stu-dio della cultura brigasca e del-le altre culture delle Alpi ligurimarittime” R nì d’àigüra (“Ilnido dell’aquila”). Il successo eil più ampio riconoscimento glisono però venuti a seguito dellapubblicazione del libro Bandie-re di Libertà nel quale è statoper la prima volta indicato comestemma (sigillo) della Padania.

Da allora la sua diffusione è sta-ta continua: è stato adottato - fragli altri - dalla Associassion col-tural piemonteisa “Äl Sol ‘d j’Alp”, dall’”ALPI - AssociazioneLiberi Professionisti e Imprendi-tori”, dall’Unione Federalista, dal-

la corrente indipendentista dellaLega Nord e - naturalmente - da“La Libera Compagnia Padana”.L’ampio ventaglio d’origine e disingola specificità degli organismiche l’anno adottato fa veramentedel Sol il simbolo della Padania,riconosciuto al di sopra delle fa-zioni e dei loro obiettivi contin-genti.

Graficamente, il Sol è costitu-ito da sei petali (o raggi) dispo-sti all’interno di un cerchio il cuiraggio fornisce la cadenzaturadell’intera costruzione (Fig. 2).

Il segno è estremamente fami-gliare e la sua presenza risultatanto continua e quotidiana dafarne forse dimenticare i molte-plici significati più antichi e pro-

fondi. In realtà, esso è un auten-tico concentrato di simbologiedotate di grande forza: è infatticontemporaneamente sole, cer-chio, ruota, fiore, segno religio-so e - naturalmente - la loro in-tricata commistione e somma-toria di valenze (Fig. 3).

Fig. 3

nche “La Libera Compa-gnia” ha adottato comeproprio simbolo il cerchio

solare a sei raggi noto come“Sole delle Alpi” (Sol ‘d ‘j Alp)(Fig. 1). Questo incontra cre-

Il «Sole delle Alpi», simbolo Padano

Fig. 1

Fig. 2

di Gilberto Oneto

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Il suo nome più usato ripropo-ne il più evidente dei suoi signifi-cati: quello di segno solare.

Da sempre le rappresentazio-ni grafiche più diffuse del solesono un cerchio, un cerchio cir-condato da raggi, un cerchio conun punto centrale e la cosiddet-ta “ruota solare”, cerchio sud-diviso in quattro parti (“croceceltica”), in sei, otto o più parti(Fig. 4).

La sua personificazione mito-logica più antica è Lug (“il lu-minoso”) che è anche dettoGrianainech (“faccia di sole”) ela cui immagine è all’origine ditutti i soli rappresentati comevisi umani circondati da raggiche sono comuni nell’iconogra-fia di tutta l’area alpina (Fig. 5).

Nella tradizione celtica, il solenon rappresenta solo la luce ela brillantezza ma anche tuttociò che è bello, piacevole e splen-dido. I testi gaelici indicanospesso il sole con la metafora“occhio del giorno”; in irlande-se occhio si dice sul, terminebretone e padano (fonetico) cheindica il sole.

È questo un legame che ripor-

ta ad intriganti accostamenticon la simbologia cristiana (maanche orientale) e nella quale ilCristo è spesso indicato comeSol justitiae o come Sol invic-tus.

Assai interessante è anche lacoincidenza di una delle figura-zioni del sole più comuni e dif-fuse (cerchio con punto centra-le) con un segno di rappresen-tazione femminile (segno di ses-so femminile, di fecondità, del-la Terra Madre) che riporta alfatto che il sole nelle lingue cel-tiche e germaniche (e in tuttele lingue indoeuropee antiche)sia di genere femminile.

Di derivazione solare è anchela rappresentazione della ruota,presente in tutte le simbologiepiù antiche.

Essa si rapporta al mondo del“divenire” e della creazione con-tinua attorno ad un centro im-mobile. La sua forma circolarericorda l’uroburos, simbolo del-l’eterno ritorno o, in generale,dell’eternità (Fig. 6).

Essa simboleggia anche unluogo sacro (nemeton) circo-scritto e difeso che benissimo siadatta alla terra Padana racchiu-sa dai mari e dai monti e gravi-tante su un centro fisico e sa-crale: l’etimo di Milano va pos-sibilmente ritrovato secondo al-cuni non solo in Mediolanumma anche in Medionemeton.

Nelle dottrine magiche il cer-chio ha una funzione di difesadagli spiriti cattivi.

Talune danze circolari (giro-tondo, rondò, ronde) possonoessere considerate “cerchi dan-zati”, con origini apotropaiche

spesso collegate con i festeggia-menti dei solstizi e con il sole.

Il legame solare della ruota ècomunque evidente: nel solsti-zio d’estate ruote infuocate ve-nivano fatte rotolare giù daimonti in un rito che ricorda la“ruota di fuoco” celtica e la suadoppia rotazione.

La ruota è attributo di Tara-nis (“dio della ruota”) ed ha lastessa funzione del fulmine diGiove: ancora un simbolo sola-re che si connette con le cop-pelle, con le “pietre di tuono” econ tutto l’universo simbolicodelle incisioni rupestri alpine.Non è infatti un caso che inci-sioni di ruote si trovino lungotutto l’arco delle Alpi.

Sul calderone di Gundestrupè rappresentato un guerriero(“servitore della ruota”) che tie-ne sollevata e fa girare la ruotacosmica.

Alla ruota sono legati anche idiffusi simboli cristiani della“ruota della vita” e della “ruotadella fortuna” (mai ferma masempre soggetta a mutamento),spessissimo rappresentata a seiraggi (Fig. 7).

A questa fa curioso riferimen-

Fig. 4

Fig. 5 Fig. 6

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Maghen David (“Stella di Davi-de”).

Quest'ultimo elemento porta afare alcune considerazioni sulsei, un numero non in sè ric-chissimo di valenze simboliche:è infatti quasi solo ricordato perla creazione del mondo, defini-ta Hexaemeron (“Opera dei seigiorni”).

La sua importanza cresce in-vece di molto se lo si intendecome il doppio di tre o come lasommatoria dei primi tre nume-ri (1+2+3).

Il tre è numero sacro per ec-cellenza, in particolare presso lacultura celta: qui è nato il con-cetto religioso di triade e di tri-nità che è poi passato al cristia-nesino.

Come unione di tre numeridiversi in entità, il sei si rivelapoi invece perfetto a rappresen-tare la Padania, somma organi-ca di componenti molto diversefra di loro come dimensione.

Un corollario recente di que-sta considerazione è quello chelega il Sol alla rappresentazio-ne dei sei ceppi etno-linguisticiche popolano la Padania: il Cel-to-italico (Piemontese, Ligure,Lombardo, Emiliano e Roma-gnolo), il Veneto, il Tirolese(Südtiroler e Welschtiroler), il

to il decimo degli “Arcani mag-giori” dei Tarocchi che stà a in-dicare “il salire e lo scendere del-la vita, il destino, l’inevitabilità”.

Stranamente, il segno dellaruota con sei raggi è anche ilsimbolo alchemico del verdera-me.

Legato alla ruota è il signifi-cato di rotazione che accumu-na una vastissima gamma disegni antichissimi: dal trisce-le (triskel) allo svastica, so-

tatorio: quello del compasso equello della punta sulla circon-ferenza originaria.

In alcune culture locali, il Solè anche chiamato “Fiore delleAlpi” o “Margherita a sei petali”per il suo aspetto che richiamarappresentazioni stilizzate dicrisantemi o di fior di loto chesono però - ancora una volta -simboli solari.

I fiori infatti simboleggianol’energia vitale, la gioia di vive-re, la fine dell’inverno.

Un segno così carico di meta-fore come il Sol non poteva nonavere anche profondi significatireligiosi o essere ripreso da sim-bologie religiose cristiane. Ri-sulta facile e immediato il suoaccostamento grafico - media-to dalla simbologia solare e daquella della ruota - con il Chri-smon, monogramma formatodalle iniziali greche di Cristo,X (chi) e P (rho) (Fig. 9).

La ripartizione in sei non puòpoi non far venire in mente an-che il “Sigillo di Salomone” o il

Fig. 8 Fig. 9

Fig. 7 prattutto nellasua versione ba-sca di Lau buru(“quattro rag-gi”) (Fig. 8).

In questo casola connessionecon il nostro Solnon è ti tipo gra-fico (il Sole del-le Alpi non ha se-gni di rotazione)ma può essereritrovata nel suoprocesso co-struttivo che av-viene mediantesuccessive pun-tature del com-passo sulla cir-conferenza cheproducono undoppio moto ro-

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Friulano, il Ladino (e Grigione-se) e l’Occitano-Arpitano.

Per quanto concerne il suo usostorico, il Sole delle Alpi è sicu-ramente un segno antichissimo:ruote si trovano in tutte le inci-sioni rupestri proto-storichedell’arco alpino e dell’appenni-no ligure. Il suo legame con ilmondo celtico è di tipo simboli-co (si tratta - come visto - di si-gnificati in gran parte generatida quel mondo e lì ampiamentepresenti), di tipo geometrico (lacostruzione a cerchi successiviè tipica delle geometrie celtichead intreccio) ed è documentatada numerose presenze archeo-logiche. Una particolare concen-trazione di Sol in epoca celticasi ritrova in Galizia e fa pensare- vedendo la diffusione del segnodel sole a ruota nell’arco alpinosoprattutto occidentale - ad unaancora più lontana comune ori-gine ligure.

La sua fortuna continua nelMedioevo (con particolare ricor-renza nelle decorazioni longo-barde) e prosegue ininterrottafino ad oggi. La presenza nel-l’iconografia longobarda può - inparticolare - spiegare la sua at-tuale diffusione anche nelle alpiorientali e in molti paesi, abita-ti da popolazioni di ceppo celto-germanico - con esse confinan-ti. Più in generale, le ricorrenzepiù consistenti si hanno - fuoridalla Padania e dall’arco alpino- soprattutto nei paesi celti, cel-to-romanzi e celto-germanici:Galizia, Catalogna, Occitania,Baviera, Polonia meridionale,Slovenia e Transilvania.

Risulta estremamente interes-sante considerare il tipo di uso

piuttosto peculiare che ne è sta-to fatto e che denota una note-vole costanza nel tempo e nellospazio.

Innanzitutto si deve notareche il Sol non ha mai avuto uti-lizzi “nobili”: esso non esistenell’araldica nobiliare e se netrovano tracce solo insignifican-ti su manufatti (architetture,monumenti, decorazioni, ecc.)aulici prodotti da culture domi-nanti.

La sua diffusione è invece in-credibilmente massiccia e capil-lare nell’arte e nell’iconografiapopolare: esso orna gli edifici mo-desti, decora i costumi popolari e- soprattutto - gli utensili e glioggetti della vita quotidiana. Losi ritrova costantemente - adesempio - sugli stampi per il bur-ro, sui mobili, sui finimenti deglianimali e sugli attrezzi di lavorocon particolare rilevanza per tut-ti i manufatti che sono vitali perla vita della comunità.

La sua particolare fattura ge-ometrica nè fà un segno “di in-cisione” e di decorazione pitto-rica (e non di ricamo o sculturain rilievo) che meglio si prestaall’utilizzo della pietra, del legnoe dell’intonaco. Per questo mo-tivo, lo si trova soprattutto nel-le aree deve questi materialisono dominanti e, quindi, in Pa-dania.

La sua diffusione in questearee deve molto anche allo spe-ciale procedimento di traccia-mento che richiede l’impiegoesclusivo del compasso (stru-mento di scalpellini e falegna-mi) che non può non richiama-re taluni dei significati simboli-ci di questo strumento: nei ritiiniziatici delle corporazioni “dellegno e della pietra” le punte delcompasso univano il cuore del-

Fig. 10

l’iniziato a quelli di tutti gli al-tri sodali.

Questo legame con il compas-so serve anche a spiegare lagrande diffusione della versionecon la circonferenza “a petali”(Fig. 10).

Si può sicuramente con tuttociò affermare che si tratta del se-gno più diffuso in Padania nellacultura subalterna, in quellacultura popolare contadina,montanara ed artigiana che èancora radicata e ricca e che rap-presenta il più forte e vitale tes-suto connettivo del paese.

Anche per questo non ci puòessere simbolo migliore del Solper rappresentare un paese cheha sempre mantenuto la suaunità culturale anche sotto se-colari divisioni politiche e cul-ture dominanti, spesso forestie-re ed imposte con la forza o conl’inganno.

Ora che questa terra stà fati-cosamente lottando per ritrova-re la propria cultura più profon-da, non può darsi sigillo più an-tico, ricco e popolare di questoche significa luce, fecondità eritorno eterno alla propria tra-dizione ed alle proprie radici piùantiche.

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to” diretto a distaccare dalla ma-dre patria una colonia o un'altroterritorio, anche temporanea-mente, alla sua sovranità (restau-razione o costituzione di Stati na-zionali autonomi, restaurazione ocostituzione di Stati nazionali fe-derati entro la compagine dellostato italiano, ecc.).

È sorta controversia sullaesatta interpretazione che deveessere data all'espressione“compiere un fatto diretto a ...”.

È evidente, perché lo diceespressamente la legge, che nonbastano le parole, cioè la pub-blicazione di programmi cultu-rali o politici, ovvero la manife-stazione di opinioni o desideridi rendere parzialmente indi-pendenti o addirittura sovraneparti del territorio nazionalemediante il distacco dalla madrepatria ma occorrono azioni uni-voche e concrete?

I giudici si sono già occupatiin passato della questione (peresempio la Corte d'Appello diMilano con la sentenza 20 apri-le 1967 affermando che, per lasussistenza del reato non è ne-cessario che si realizzi il fine vo-luto dall'agente ma è sufficien-te che l'integrità territoriale del-lo Stato sia, quantomeno, mes-sa in pericolo.

Il pericolo inoltre, si affermanella motivazione della senten-za, deve essere accertato conuna valutazione puntuale dellacondotta dell'agente al fine di

stabilire se, al momento in cuii fatti vennero compiuti, esiste-va non la semplice possibilitàma la concreta probabilità delrisultato voluto (per esempio lasecessione).

Ne consegue logicamente cheper la sussistenza del reato nonè sufficiente una condotta pre-paratoria, ancorché potenzial-mente pericolosa, ma occorrequalcosa di più sostanzioso econcreto, è necessario cioè chesi pongano in essere fatti, anchenon violenti, che valgono a cre-are una reale situazione di pe-ricolo per l'integrità territoria-le dello Stato.

Siamo quindi completamenteal difuori dalla portata della nor-ma ogni qualvolta si proponganomodifiche costituzionali, referen-dum od altre iniziative previste oammesse dalle leggi vigenti (in-dipendentemente dalla loro con-creta legittimità costituzionale o,più in generale, amministrativa)al fine di modificare l'assetto ter-ritoriale o istituzionale dello Sta-to italiano.

Esiste, poi, l'art. 283 del CodicePenale che vieta di commettere“un fatto diretto a mutare la co-stituzione dello Stato o la formadel Governo con mezzi non con-sentiti dall'ordinamento costitu-zionale dello Stato”.

Anche per la commissione diquesto reato non basta eviden-temente esprimere opinioni oformulare proposte di modificadella costituzione ma occorro-no concrete azioni materiali di-rette in modo non equivoco a

mutare con mezzi illeciti la co-stituzione.

Tralasciamo, ovviamente difar cenno a tutte le previsioni direato dirette a proteggere l'in-tegrità dello Stato da azioni cheper la loro evidente gravità e na-tura criminale non meritanocommenti quali ad esempiol'azione armata contro lo Stato,l'intelligenza con lo straniero ascopo di guerra, il favoreggia-mento bellico, la sottrazione didocumenti concernenti la sicu-rezza dello Stato, lo spionaggio,la rivelazione di segreti di Sta-to, l'associazione sovversiva,l'attentato contro il Presidentedella Repubblica, l'insurrezionearmata, la devastazione, il sac-cheggio, la guerra civile, l'usur-pazione di poteri politici di co-mandi militari, l'attentato con-tro gli organi costituzionali ocontro le assemblee regionali, ilvilipendio ecc., ecc.

Dalle norme di cui si è fattobreve cenno risulta che nella co-stituzione vigente l'integritàdello Stato è considerato benesupremo e fondamentale ed allasua salvaguardia sono poste nor-me rigorose e pene severissime.

Per rispondere di reati a dan-no di detta integrità non bastaperò esprimere opinioni o nelleforme legittime e costituzionaliformulare proposte di cambia-mento del vigente assetto ma, ènecessario mettere in essereazioni specifiche che mettanoconcretamente in pericolo l'in-tegrità dello Stato Italiano.

di Giorgio Veronesi

Federalismo, secessione,costituzione e codice penale

L'art. 241 del codice penalepunisce con l'ergastolo chicompia, tra l'altro, ogni “fat-

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bardia (1) è fondamentale ana-lizzare il rapporto intercorso neisecoli tra la montagna (42% del-la superficie territoriale dell’at-tuale Lombardia) e la pianura. Iflussi di popolazione e la risul-tante distribuzione della stessatra le due aree rappresentanouna delle chiavi per comprende-re la composizione etnica delnostro popolo e alcuni elemen-ti caratteristici che ne definisco-no il carattere e l’identità cul-turale.

La trattazione che segue è ba-sata prevalentemente sulla sto-ria dell’agricoltura dal momen-to che le forme di produzioneagricola, i tipi di insediamentoumano nello spazio rurale, la di-namica della popolazione rura-le, i rapporti sociali ed economi-ci che si sviluppano sulla basedella produzione e distribuzio-ne delle derrate agricole, hannocostituito, fino ad epoche a noivicine, un elemento imprescin-dibile per spiegare i fatti fonda-

mentali riguardanti la cultura el’identità etnica di un popolo inrapporto ad altre culture e real-tà etniche.

Le recenti indagini scientifi-che condotte con le metodolo-gie della genetica molecolaredalla scuola di Cavalli-Sforzahanno fatto giustizia di secoli dideformazioni ideologiche ten-denti a dimostrare l’ascendenzadell’etnia lombarda. Le analisigenetiche portano ad assegnarela Lombardia all’area celtica e aquella ligure (limitatamente allearee sud-occidentali). Natural-mente la diffusione delle risul-tanze di questi studi sono stateconfinate alle riviste scientificheo, al più, alle “rubriche scienti-fiche” di quotidiani e settimana-li. Non c’è nulla di nuovo in que-sta ricorrente sorpresa per la“scoperta” della celticità lom-barda e nell’altrettanto ricorren-te protervia della cultura ufficia-le nel minimizzarne la portata.

Il dogma della cultura ufficia-le, consistente nel negare la dif-ferenziazione dell’Italia in areeetniche ben distinte (celtica, li-gure, etrusca, greca), si è affer-mato nonostante l’evidenza del-le fonti storiografiche classiche(greche e latine) e non è statoscalfito né dalla “scoperta” del-la presenza dei Celti nella Pada-nia legata ai rinvenimenti ar-cheologici del secondo ottocen-to, né dalle risultanze inoppu-gnabili degli studi glottologicied etnografici di questo secolo.Questa cecità, questo negarel’evidenza della storia, questo

tentativo quasi ossessivo di ri-muovere tutte le evidenze checontrastano con l’ideologia ita-liana della “romanità” e dellapretesa omogenità etnica del“popolo italiano”, si spieganosolo con motivazioni politiche.Le basi dello stato accentratoitaliano erano, e sono, tanto fra-gili da essere messe in crisi an-che dalla diffusione di una sep-pur vaga consapevolezza del-l’identità etnica dei vari popoli.

Al di là della fredda evidenzadella caratterizzazione dei geni(che dà comunque evidenzascientifica al concetto di “sangue”delle culture tradizionali), la ri-costruzione e l’appropriazione diuna identità etnica presuppone laconoscenza delle modalità di stan-ziamento dei “progenitori”, lecondizioni nelle quali ha potutotrasmettersi la tradizione delgruppo etnico, le relazioni con glialtri gruppi etnici e con le cultu-re dominanti succedutesi nei variperiodi storici.

Ai nostri fini interessa soprat-tutto conoscere o, meglio, rico-noscere ciò che nelle forme delpaesaggio, nelle tradizioni agra-rie e industriali, nelle tipologiedi insediamento, nelle forme ar-chitettoniche, nella toponoma-stica, nella cultura popolare, ri-flette una ascendenza etnica in-dividuabile. Oltre a tutto ciò ciinteressa conoscere/riconoscerel’ascendenza etnica del nostrocarattere, della nostra psicolo-gia collettiva e, forse, nel pro-fondo, anche della nostra spiri-tualità.

Riflessioni sulla matrice alpinadell'identità etnica lombarda

i fini del riconoscimento edella comprensione del ca-rattere etnico della Lom-

(1) «Il contenuto del presente saggio siriferisce ad un’area più vasta della Lom-bardia come viene delimitata dagli at-tuali confini amministrativi regionali;per di più siamo convinti che molte con-siderazioni svolte a proposito dellaLombardia valgono anche per la Pada-nia più in generale ed in particolarmodo per il Piemonte ed il Veneto. Sul-la scia di quanto esposto nel presentesaggio sono auspicabili altri contributivolti alla definizione del rapporto tra lamontagna e la pianura nell’intera areaPadana».

Adi Michele Corti

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Anno I, N. 1 - Estate 1995 Quaderni Padani - 11

La “romanizzazione”del territorio: mistificazionee realtà

Le spiegazioni per la “sorpren-dente” marcata celticità dellaLombardia non sono così diffi-cili se solo si ha l’onestà di nonvoler vedere a tutti i costi le cosecon gli occhiali dell’“ideologiaitaliana”. Per sottolineare lacomponente latina del popololombardo la cultura ufficiale hadistorto la storia applicando in-terpretazioni forzate alle fonticlassiche. La storiografia ha inpassato enfatizzato il caratteredi conquista militare e di occu-pazione del territorio dell’attua-le Lombardia da parte dei roma-ni. La “conquista romana” in re-altà fu prevalentemente un fat-to economico e quindi cultura-le. L’esaltazione e l’enfatizzazio-ne delle vittorie militari roma-ne presenti nelle fonti dell’epo-ca, spiegabili con intenti apolo-getici, sono state successiva-mente acriticamente assuntecome base per costruire la tesidella sottomissione manu-mili-tari e del parziale genocidio deicelti. In realtà sia i Cenomani (2),che gli Insubri (2) non vennerosoggiogati militarmente ma,dopo alterne vicende politiche emilitari, pervennero ad accordipolitici per i quali il riconosci-mento dell’egemonia romananon significò la rinuncia all’au-tonomia delle classi dirigenticeltiche. Queste ultime diventa-rono “romane” gradualmentesotto l’influenza dei nuovi mo-delli culturali e non dalla coer-cizione.

La gradualità di questa tra-sformazione culturale è testi-moniata dalla frequenza di tom-be celtiche nel I secolo a.C. eanche oltre (le sepolture celti-che sono contraddistinte dallapresenza della spada celtica ac-canto alle spoglie dei guerrieri).

Nel III secolo, specie con il

trasferimento della capitale del-l’impero a Milano, avvenuto nel285, si determinò un generalespostamento del baricentro cul-turale ed economico dell’Occi-dente verso l’Europa continen-tale; contemporaneamente l’in-fluenza “latina” in termini etni-ci può dirsi cessata e per secolila Lombardia ricevette apporti dipopolazione dall’area germani-ca.

È importante osservare, inci-dentalmente, che l’influenzaculturale “romana” sulle classidirigenti celtiche ha poco a chefare con la cultura etnica “lati-na” o “italica”, dal momento chevi si rintracciano elementi di di-retta derivazione greca, tali daconfigurare una cultura cosmo-polita estesa agli altri territoriche entrarono nella sfera diRoma. Buona parte di questi in-flussi cosmopoliti riguardò pe-raltro solo le classi dirigenti dalmomento che il popolo ha con-tinuato per quanto riguarda leabitudini alimentari (utilizzodel burro come condimento, lar-go impiego di carne suina), lemodalità di insediamento sulterritorio e altri aspetti fonda-mentali della vita materiale, autilizzare i precedenti modelliculturali che sono stati assorbi-ti dagli stessi coloni “latini” e sisono perpetuati per secoli giun-gendo sino a noi.

Oltre a sottolineare il carat-tere di conquista e di rotturadella situazione preesistente gliapologeti della romanità hannocostruito la tesi di una romaniz-zazione sistematica del territo-rio della Gallia cisalpina suppor-tata dalle evidenze della centu-riazione, delle bonifiche, dei di-sboscamenti, e degli insedia-menti di coloni.

A parte la presenza non cer-to generalizzata della centuria-zione (che spesso viene indivi-duata sulla base di labili trac-

ce aereofotogrammetriche econfusa con interventi medio-evali) a smontare le tesi prov-vedono altre fondamentaliconsiderazioni:

1) i “romani” non pianificaro-no una colonizzazione fine a sèstessa allo scopo di sostituire iCelti con elementi italici, mapromossero - eccettuato un pri-mo periodo di assegnazione diterre ai legionari - l’insediamen-to di singoli e comunità per sco-pi funzionali all’amministrazio-ne, all’organizzazione civile edeconomica (vedi gli insediamen-ti greci sui grandi laghi prealpi-ni ai fini della promozione dellanavigazione);

2) alla riorganizzazione agra-ria del territorio i Celti parteci-parono sia come lavoratori liberiche come proprietari;

3) nell’epoca imperiale gli ap-porti di popolazione addetta al-l’agricoltura furono per la granparte costituiti da schiavi pro-venienti da varie parti dell’im-pero ma, probabilmente, inmodo prevalente dall’area celto-germanica;

4) la colonizzazione dellecampagne e la centuriazione ri-guardarono solo le terre ricchedi pianura e le colline più vici-ne ai centri commerciali e ca-ratterizzate da produzioni spe-cializzate (vite, frutta, olivo)mentre, al di là di queste aree,solo qualche villa isolata rappre-sentava l’elemento “romano”nell’ambiente rurale compatta-mente celtico dove le comunitàlocali proseguirono nella vita disempre seguendo i ritmi dell’or-ganizzazione agraria tradiziona-le, solo superficialmente modi-

( 2 ) Si tratta delle due grandi confede-razioni delle tribù celtiche della Lom-bardia, la prima con sede nella Lombar-dia occidentale, la seconda in quellaorientale; il confine tra le due aree coin-cideva con il fiume Serio.

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ficata da elementi culturali “la-tini”;

5) la popolazione di origine al-loctona si concentrò nei centriurbani che, con la decadenzadell’agricoltura e dei commerci,persero buona parte della popo-lazione anche prima delle “in-vasioni barbariche” (e delleguerre, saccheggi e pestilenzead esse connesse) in modo taleche la diminuzione della popo-lazione fu “selettiva” (a vantag-gio dei celti!): dove più eranoconcentrati i “romani” (città,centri minori, aree rurali vicinealle vie di comunicazione e allecittà) più avvenne la falcidia del-la popolazione, al contrario nel-le aree più lontane dalla “civil-tà”, dove l’elemento latino erainsignificante - e comunque as-similato - la popolazione, sia purregredita ad una economia pri-mitiva di sussistenza, ebbe piùpossibilità di sopravvivere.

Tutto ciò spiega la “sorpren-dente” celticità della Lombardiacosì come evidenziata dagli stu-di genetici e concorre a ritene-re con certezza che l’apporto de-mografico italico nella Cisalpi-na fu complessivamente mode-sto anche perché, vale la penadi ripeterlo data la “sordità” diqualcuno, l’elemento alloctonoqualificato come “romano” inrealtà risultava tutt’altro che“latino” e neppure “italico”, mauna mescolanza cosmopolita incui gli elementi italici e medi-terranei furono senza dubbiocontrobilanciati da quelli nordi-ci (vedi considerazioni sulla pro-venienza degli schiavi, ma an-che, nel tardo impero, di mili-tari, funzionari ecc.).

La “rivincita” della montagnaVenendo ora al tema chiave

del ruolo della montagna nelladeterminazione della matriceetnica lombarda dobbiamo inprimo luogo osservare che le

considerazioni circa il diversoinflusso della colonizzazioneromana nel caso delle aree agri-cole “ricche” (pianura bonifica-ta) e “marginali” valgono, amaggior ragione, quando si con-frontino le zone prealpine edalpine e quelle di pianura. L’in-flusso “romano” fu limitatissi-mo nella montagna dove il con-trollo del territorio risultava amaglie larghe (postazioni mili-tari e commerciali nelle posizio-ni strategiche allo sbocco dellevalli per il controllo delle vie dicomunicazione). I romani noncostituirono mai (anche altrove)stazioni militari o commercialiabitate in permanenza al di so-pra dei 1100 m così che la pre-senza di Roma nelle parti altedelle valli fu limitata, laddoveerano presenti importanti vie dicomunicazione, ai transiti civi-li e militari.

Nella montagna lombarda lapresenza “romana” ha avutopertanto i connotati del “presi-dio” non diversamente da quel-le remote aree dell’impero (vedifrontiera danubiana, Inghilter-ra settentrionale ecc.) dove nes-suno si sognerebbe di sostenereche l’elemento locale rappresen-ta il frutto della fusione tra l’ele-mento autoctono e quello “lati-no”. Un riflesso di questa realtàè rinvenibile nella toponomasti-ca. In montagna i toponimi conil suffisso prediale -ano (da anus= appartenente a) sono quasi deltutto assenti mentre sono fre-quenti nelle zone di alta pianu-ra a ridosso delle pendici preal-pine. A dimostrazione dello scar-so interesse per la montagna nu-trito dai “romani” si deve rimar-care come le zone alpine furo-no sottomesse tardivamente eoggetto dell’interesse di Romasolo in quanto garanzia di col-legamenti tra le aree ricche del-l’Europa. Esse rappresentavanouna “frontiera interna”. La “con-

quista” romana, avvenuta tra lafine del III e l’inizio del II seco-lo a.C., non venne completatanelle vallate alpine che nell’ul-timo e penultimo decennio a.C.(Valle Camonica, Rezia), ma ilRegno celto-ligure dei Cozi (nel-le alpi occidentali) perse la suaindipendenza solo nel 64 d.C. ei Leponzi in Val d’Ossola, secon-do alcune fonti, la persero solonel 100 d.C. e cioè quando l’im-pero aveva conseguito la suamassima espansione dalla Cale-donia (Scozia) alla Nubia (Su-dan)! Se i Reti (3) avessero pos-seduto una struttura confedera-le come quella dei Cozi delle AlpiOccidentali i “romani”, che lad-dove possibile ricercavano ac-cordi con autorità locali in gra-do di garantire poi il rispetto deipatti sottoscritti da parte dellediverse tribù, non avrebbero cer-tamente organizzato le campa-gne militari contro di essi.

La presenza in forma di “pre-sidio” riduce le possibilità diosmosi con l’elemento localecome invece si può essere deter-minata, anche se non certo nel-la maniera enfatizzata dai fau-tori della “latinità”, nelle areecon una rete di centri urbanidove, con la decadenza di que-sti ultimi, l’elemento alloctonopuò essersi parzialmente rura-lizzato e fuso con i celti. Nellamontagna lombarda non solol’elemento celtico fu “indisturba-to” dalla colonizzazione, ma sipuò anche supporre che in alcu-ni casi la parziale colonizzazionedella pianura abbia spinto i celtiad una colonizzazione secondariadella montagna sovrapponendosioltre che al substrato ligure-pro-toceltico-etrusco anche ai celti giàstanziatisi in precedenza.

(3) Categoria etnica utilizzata per de-finire le popolazioni di matrice ligure-celtica, con influenze etrusche, delleAlpi Centrali.

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Mentre nella pianura e nellecittà la classe dirigente celticaassimilò rapidamente la cultu-ra “romana” o “latina”, tanto daassurgere ad elevate cariche po-litiche (senato) e a costituire ele-mento fondamentale del notabi-lato locale, in montagna, dovenon esisteva una stratificazionesociale paragonabile al resto delterritorio, i nuovi influssi cul-turali ebbero debole eco risul-tando più forti gli elementi dicontinuità con quella civiltàagro-pastorale tradizionale che,dall’età del ferro ad oggi, ha con-servato immutati molti suoi ele-menti.

Naturalmente la mancanza distratificazione sociale delle co-munità celtiche della montagnaha comportato la perdita di tut-ti quegli elementi culturali “ele-vati” (medicina, magia, religio-ne, filosofia) trasmessi dallaclasse druidica. Alcuni elemen-ti culturali di questa tradizione,spesso trasposti in forme cristia-ne, sono comunque pervenutisino ai nostri giorni costituen-do un elemento caratterizzantedelle nostro patrimonio folklo-rico. Ciò vale anche per le for-me artistiche popolar-contadinelombarde che nelle loro strati-ficazioni più antiche trovanocorrispondenza in quelle dellearee più celtiche dell’Europa.

Nell’Alto Medioevo la popola-zione della montagna superavaampiamente quella della pianu-ra poichè, affidandosi ad unaeconomia di sussistenza stretta-mente legata a risorse locali,subì molto meno che nelle cittàe nelle pianure i drammatici ef-fetti delle invasioni, delle care-stie, delle pestilenze. Nella pia-nura, per secoli, le terre già bo-nificate, disboscate e dissodateda etruschi, celti e coloni “ro-mani” dal II-III secolo in poi su-birono il ritorno alla palude in-salubre e alla foresta riducendo

grandemente le possibilità di so-stentamento della popolazione.La tendenza a stabilirsi nei sitipiù elevati era motivata anchedall’esigenza di sicurezza dascorrerie, brigantaggio, invasio-ni, diffusione di epidemie, so-prusi feudali ecc.

Per comprendere lo stato deiterritori di pianura nell’AltoMedioevo basti pensare che i Ci-stercensi, ma anche i milanesiUmiliati (il cui ruolo nella bo-nifica e nello sviluppo agrariodel milanese è stato messo unpò in ombra dalla fama di S. Ber-nardo e dei suoi monaci oltre-montani) si insediarono in unazona, oggi alle porte di Milano,dove sino al XIII secolo regnavala palude, per mettere in atto leloro opere di regimazione delleacque, di scolo, canalizzazionee intensificazione zootecnica. Difatto la distribuzione della po-polazione nelle campagne nel-l’Alto Medioevo tornò quella del-le ultime fasi preistoriche. Lasemplice suddivisione del terri-torio tra aree montane e pianeg-gianti non rende comunqueconto da sola della realtà del fe-nomeno in esame. Oggi, speciedopo i fenomeni di microinur-bazione del dopoguerra, chehanno visto svuotarsi i centri si-tuati a quote più elevate e cre-scere in modo disordinato i cen-tri del fondovalle, ci siamo for-mati una idea della montagnache non risponde alla realtà delpopolamento alpino fino ad unpassato a noi vicino.

L’attuale aspetto del territorionon ci deve ingannare; oggi ve-diamo fondovalli verdi per l’in-tensa coltivazione di foraggere,ma solo 150 anni orsono le cosenon stavano così. L’Adda, laMera, l’Oglio, per non citare chei principali fiumi che scorronolungo le nostre valli alpine, siespandevano ad ogni piena cam-biando il loro corso e rendendo

paludosi e inabitabili i fondoval-le. Con ciò si vuol rimarcare cheper secoli il regime delle acque(e i rischi per la sicurezza) han-no costretto le popolazioni a ri-siedere lungo i fianchi delle val-late. Non solo, quindi, la popo-lazione montana superava quel-la della pianura, ma della mon-tagna era abitata la zona più dif-ficile, con una significativa fra-zione di villaggi e popolazioneal di sopra dei 1000 m.

L’aumento della popolazio-ne verificatosi nel periodo trail 1000 e la grande peste se ècorrisposto ad un considerevo-le aumento della popolazionedelle città e delle pianure (gra-zie alle nuove opere di cana-lizzazione, bonifica, irrigazio-ne) è stato conseguito anchecon una nuova fase di coloniz-zazione della montagna edun'intensità di insediamentoche ha segnato il massimo sto-rico di antropizzazione dellamontagna. Nel XIII e XIV se-colo la colonizzazione dei sitipiù elevati è stata attuata an-che da coloni Walser (popola-zione alemannica stanziatasisin dall’Alto Medioevo nel Val-lese) che hanno lasciato unaconsiderevole impronta anchein Lombardia, in alta Valtelli-na e nella Valchiavenna. Nei se-coli successivi la crisi demogra-fica, la recrudescenza del clima(la fase climatica fredda di bre-ve periodo è durata sino al XIXsecolo), le opportunità di emi-grazione (a Venezia, Palermo ealtre città italiane nel XVII-XVI-II), la povertà delle risorse agri-cole dei siti colonizzati nel Bas-so Medioevo ha determinatol’abbandono di molti insedia-menti permanenti molto primadell’”esodo” del dopoguerra.Complessivamente il quadro cheemerge è di una Lombardia conconnotati fortemente alpini sinoall’età moderna.

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Il debito della Lombardianei confronti della montagna

Il carattere alpino della Lom-bardia non costituisce però soloun dato storico. L'aspetto cosìmarcatamente alpestre dellaLombardia medioevale e prein-dustriale ha influenzato il carat-tere complessivo del nostro pa-ese per altre e significative vie.

Per secoli le città lombarde(ed europee) furono caratteriz-zate da un saldo demograficonaturale negativo data la facili-tà con cui in una popolazioneconcentrata si diffondevano lemalattie per l’insalubrità delleabitazioni e la mancanza di fo-gnature. Le città insieme allapianura, dove frequente era lamancanza di manodopera sala-riata per eseguire i lavori deicampi, attinsero abbondante-mente dalla “riserva sana” dellamontagna. Per quanto concer-ne i secoli più vicini a noi, basticonsiderare quanti cognomi di“vecchi milanesi” traggono ori-gine da toponimi prealpini dalnovarese alla bergamasca a co-minciare dall’emblematicoBrambilla (4).

Non è fuori luogo sostenereche la popolazione celtica dellaLombardia in qualche modomantenutasi nelle aree monta-ne e collinari della parte centro-settentrionale della regione sisia poi per un processo secolare“travasata” da queste aree (ca-ratterizzate da una più elevatacrescita demografica e da risor-se agricole limitate) a quelle del-la pianura. Qui infatti l’irrigazio-ne, lo sviluppo degli allevamen-ti, le tecniche di rotazione agro-nomica, le nuove piante coltiva-te introdotte dall’America, laproduzione della seta, attirava-no sempre più mano d’operaconsentendo, grazie all’intensi-ficazione delle rese colturali, dimantenere una crescente popo-lazione rurale e di distaccare alla

nascente industria schiere di la-voratori già agricoli.

Nelle alterne vicende delle cri-si demografiche succedutesi dalMedioevo all’Età Moderna lamontagna ha costituito pertan-to un insostituibile “sebatoio de-mografico”. Non è esagerato af-fermare che l’agricoltura, l’in-dustria e l’artigianato lombardihanno nella montagna la loromatrice. Oltre all’apporto dimanodopera, la montagna con-tribuì a costruire l’economiaLombarda agricola e industria-le con altri fattori essenziali qua-li le capacità allevatoriali, indu-striali, artigianali accumulatesinei secoli. Basti pensare all’al-levamento bovino della Valsas-sina e delle altre valli prealpine,alla metallurgia con i magli ca-muni e le fucine lecchesi, alla la-vorazione del legno e alla tessi-tura della lana. Fondamentale ful’apporto della montagna sottoforma di risorse energetiche (le-gname, carbone vegetale - pre-parato dai poiàt secondo meto-di antichissimi - salti d’acqua) edi materie prime (minerali fer-rosi, calce, legname, lana). Lapresenza di materie prime e dienergia - nonché di manodope-ra - ha determinato durante laprima timida rivoluzione indu-striale (contemporanea a quellache avveniva in Inghilterra) laconcentrazione dei primi opifi-ci agli sbocchi delle valli, veraculla dell’industria lombarda.Oggi, significativamente, dopola crisi delle grandi concentra-zioni industriali e secondo unatendenza economica più atten-ta alle vocazioni territoriali(comprese quelle culturali) ealle economie esterne, alcuni trai più importanti “distretti indu-striali” tornano ad essere loca-lizzati nella fascia pedemontanacon esempi eclatanti per il Lec-chese, la Val Seriana e le Vallibresciane. Una località è para-

digmatica: Lumezzane, al cen-tro di una zona di forte impron-ta celtica. Essa rappresenta unvero e proprio paese-fabbrica,un nome che in Europa è sino-nimo di ottonami, maniglie, ru-binetti, valvole ecc. Alla lucedella storia, il riemergere pre-potente della fascia pedemonta-na con il relativo spostamentodel baricentro delle attività pro-duttive (ma anche della popola-zione e delle attività culturali)da sud-ovest a nord-est rappre-senta il riemergere di una di-mensione economico-socialepiù legata ai connotati peculia-ri dell’identità lombarda e con-tribuisce a spiegare ed ad ali-mentare il risveglio della co-scienza etnica e autonomistica.

I malghesi (5): un'etnia nell’etniaa cavallo tra pianura e montagna

Nel caso lombardo il rappor-to montagna-pianura è però piùprofondo di quando potrebberofare supporre le pur fondamen-tali correnti di migrazione. Trapiano e montagna, tra le cam-pagne del magentino, abbiaten-se, martesana, melegnanese, lo-digiano, codognese da una par-te e la Valsassina, Valtaleggio eVallimagna dall’altra, tra le cam-pagne cremasche e bergama-sche da una parte e le valli oro-biche dall’altra, tra la bassa bre-sciana da una parte e la Valca-monica e le altre valli brescianedall’altra, esistono rapportistrettissimi prodottisi durantesecoli e che vanno ben al di là disemplici scambi economici e deiflussi migratori. Alla base di

(4) Cognome originario di Brembilla,nell’omonima vallata della Bergamasca,da dove, nel XVI secolo, la popolazionesi trasferì a Milano.(5) Da “malya” termine di origine celti-ca che denomina dei fabbricati ruraliutilizzati stagionalmente in montagnaper il ricovero dei pastori e per la lavo-razione del latte.

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questi rapporti vi è un elemen-to fondamentale nel determina-re radici e legami etnico-cultu-rali: l’attività agricola e zootec-nica. Quest’ultima, sino a pochidecenni orsono, si è basata suuna complementarietà delle ri-sorse foraggere del piano e delmonte attraverso la transuman-za stagionale gestita dagli alle-vatori di montagna. Tale feno-meno ha determinato l’instau-razione ed il mantenimento dicollegamenti stretti sul pianoparentale e culturale tra mon-tagna e pianura.

La transumanza ovina, cheancor oggi interessa i greggi dirazza Bergamasca, rappresentagrazie ad una continuità mille-naria un vero e proprio fossiledi cultura pastorale (6). Essaperò non crea legami tra la pia-nura e la montagna al di là diun rapporto utilitaristico trasoggetti ben distinti e, a volte,in contrapposizione (7). Ben di-verso è il ruolo della transuman-za bovina. Con il basso medioe-vo la ripresa degli scambi com-merciali, la disponibilità di risor-se per investimenti e la crescitadella popolazione crearono lecondizioni per una ripresa del-l’economia lattiero-casearia. Inpianura si affermano le sistema-zioni dei terreni a marcita (8)(per merito dei Cistercensi e de-gli Umiliati) che consentono didisporre di foraggio fresco utilea stimolare la produzione latteadelle bovine anche in inverno.Le Grangie (grandi proprietàmonastiche e quindi di signorilaici) si arricchiscono di stalle.In montagna grandi energievengono dedicate alla creazionedi alpeggi, ottenuti attraversodisboscamenti, spietramenti,predisposizione di rudimentalistrutture per il ricovero del be-stiame e del personale e per lalavorazione del latte. Gli alpeg-gi (denominati Alpi o Malghe),

spesso costituiti o migliorati periniziativa feudale, successiva-mente passeranno alla proprie-tà collettiva o privata. Semprenel Basso Medioevo prende av-vio il miglioramento del bestia-me che trarrà impluso, dal XVIIsecolo in poi, dall’attività selet-tiva avviata in modo sistemati-co nella Svizzera interna. È in-teressante osservare che, oltre airiproduttori, provenivano daUri, Svitto, Unterwalden, con ca-denza stagionale, carovane digiovane bestiame da rimontache, acquistato all’origine dacommercianti lombardi, venivafatto proseguire a piedi sino adestinazione. Ciò rappresentaun esempio interessante (moltialtri ve ne sono e riguardano iflussi di lavoratori stagionali) dicome i rapporti tra l’area alpinae la pianura lombarda interes-sassero anche altri paesi.

Lo sviluppo dell’allevamentobovino è stato reso possibile neisecoli della rinascita agraria bas-so medioevale e, quindi, in ma-niera assai più consistente aitempi della rivoluzione agrariasettecentesca, attraverso il rifor-nimento di giovani manze dallamontagna dove il bestiame è al-levato all’aperto al pascolo neimesi favorevoli. Le condizionedi stabulazione tradizionali del-le cascine lombarde della bassa,caratterizzate da scarsa ventila-zione delle stalle favorivano, in-fatti il diffondersi di patologie,specie polmonari, che minava-no la fertilità e la longevità delbestiame (9). Per favorire la sa-lute del bestiame e sfruttare lerisorse degli alpeggi le stessevacche da latte (significativa-mente chiamate in milanese“bergamine”) (10) venivamo tra-sferite annualmente sui pascoliestivi. Sino agli anni ’50 il tra-sferimento avveniva ancora apiedi. Ancor oggi gli ultimi mal-ghesi (allevatori di montagna

proprietari del bestiame checonducono in affitto aziende zo-otecniche in pianura) trasferi-scono il loro bestiame su auto-mezzi dal milanese ai pascolidella bergamasca. È estrema-mente significativo che i cogno-mi a più elevata frequenza tragli attuali allevatori milanesi elodigiani, siano tipicamente lec-chesi e bergamaschi, (Locatelli,Invernizzi, Manzoni ecc.). Ciòtestimonia inequivocabilmentela discendenza dai malghesi chenei secoli scorsi praticavano latransumanza del bestiame bovi-no tra la montagna e la pianuraseguendo da epoca immemora-bile gli stessi itinerari (11).

Lungo le vie della transuman-za, in corrispondenza di sosteobbligate, si svilupparono tecni-che e strutture per la lavorazio-ne delle quantità ingenti di lat-te prodotte dalle mandrie in

(6) Ma anche di cultura più in generale(come vedremo in altra sede trattandodel gaì, vera e proria lingua neocelticadella Padania).(7) L’agricoltore di pianura consente(oggi sempre di meno) di utilizzare lerisorse foraggere marginali dei suoi fon-di ed il transito del gregge in cambiodella stabbiatura, ossia della concima-zione organica apportata dal gregge rag-gruppato durante il riposo notturno.(8) Si tratta di prati dove, grazie alla si-stemazione delle pendenze ed ai siste-mi di afflusso e deflusso, durante il pe-riodo invernale, dell'acqua viene fattascorrere in continuazione. L'acqua di ir-rigazione ha una temperatura tale daimpedire il gelo del terreno e consenti-re la crescita dell'erba.(9) La tubercolosi bovina, fino alle campa-gne di risanamento di qualche decennio or-sono, era presente regolarmente nelle stalledella bassa determinando anche la trasmis-sione all’uomo con il latte infetto e la diffu-sione della TBC tra la popolazione.(10) Con il termine di “bergamini” sonoinvece definiti i salariati agricoli addet-ti al governo delle vacche e, in partico-lare, alla mungitura.(11) Tipica la “Via Cerca” (attualmen-te Strada provinciale “Cerca”) che daipaesi sulla sinistra dell’Adda nei pressidi Lecco conduce a Melzo e quindi aMelegnano.

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transito primaverile e autunna-le. Lo “stracchino” (probabil-mente tale perché ottenuto dal-la munta delle vacche straccheper la transumanza) è diventa-to una produzione tipica che hatrainato ad una dimensione in-dustriale aziende artigianali delMelzese nate nell’ambito di fa-miglie di malghesi prealpini.Unitamente alle imprese chehanno mantenuto la propriasede in Valsassina (12) le impre-se casearie melzesi, dopo unalunga dinastia imprenditorialefamigliare, hanno ceduto allemultinazionali leader del setto-re alimentare la proprietà delleimprese. I cognomi delle dina-stie dei malghesi della Valsassi-na e Vallimagna rimangono inogni caso a denominare le piùimportanti e note aziende lattie-ro-casearie padane rappresen-tando di per sè la testimonianzadi un pezzo importante di sto-ria lombarda.

Con il tempo, approfittandodella dissoluzione delle grandiproprietà signorili ed ecclesia-stiche e della diffusione del con-tratto di affitto (fenomeni que-sti acceleratasi ad opera delleriforme teresiane e dei succes-sivi rivolgimenti politici otto-centeschi), i malghesi modifica-rono radicalmente il loro rap-porto con i fondi della bassa.Essi, che durante il periodo in-vernale erano “ospitati” con illoro bestiame nelle stalle dellegrandi proprietà della pianura incambio della fertilizzazione or-ganica assicurata ai campi dalloro bestiame e di una parte deiprodotti caseari o del loro rica-vo, subentrarono come “fittavo-li” nella gestione imprenditoria-le delle aziende divenendo agri-coltori-allevatori stanziali ed af-fidando a salariati e “caricatorid'alpe” la “montificazione” del-le mandrie. Il processo di pas-saggio all’agricoltura stanziale

da parte dei nostri allevatori pre-alpini, iniziato in modo signifi-cativo nel XVIII secolo, è anco-ra in corso. In tutto questo pe-riodo anche le famiglie di fitta-voli “stanziali” attraverso lega-mi parentali ed economici han-no però mantenuto rapportistretti con la montagna. I lega-mi parentali tra agricoltori del-la “bassa” e le sedi “ancestrali”sono ancora vivi. Per diverse ge-nerazioni i fittavoli discendentidai malghesi hanno praticatouna sorta di endogamia e, ancoroggi, in occasione dei funerali,hanno l’occasione di incontrar-si i membri dei “clan” agricolisparsi per tutta la “bassa” insie-me a quelli provenienti dallamontagna (13).

Aristocrazia contadina alpinae spirito del capitalismo

Il successo dei montanari nelconferire una peculiare im-pronta imprenditoriale e dina-mica alla nostra agricoltura(che nel XVIII-XIX secolo, eraammirata come una delle piùprogredite d’Europa) è dovutonon soltanto ad una abilità nel-l’allevamento del bestiame cheorigina dalla preistoria ma an-che ad altri fattori che devonoessere fatti risalire alla cultu-ra, ai modi di vita, all’organiz-zazione sociale ed economicache hanno caratterizzato i se-coli di “fase montanara” deinostri allevatori-agricoltori.

Anche se, come abbiamo vi-sto, in montagna è facile rag-giungere il limite della dispo-nibilità delle risorse, un atten-to ed equilibrato utilizzo ditutte le risorse disponibili nelterritorio (boschi, prati di fon-dovalle, maggenghi di mezzaquota, alpeggi) ha consentitoalle comunità alpine di soprav-vivere spesso meglio dei con-tadini del piano sia dal puntodi vista materiale (la pellagra

era prerogativa delle zone dipianura per l'alimentazioneprevalentemente a base dimais) che della indipendenzapersonale. Le modalità socialiche hanno consentito alle co-munità montanare di raggiun-gere un equilibrio con le risor-se locali sono di grande impor-tanza per spiegare il caratteredelle nostre popolazioni. Lavita delle comunità alpine è ba-sata su una organizzazione edad una divisione del lavoro chenon lascia nulla al caso affidan-do ad ogni componente dellafamiglia un ruolo preciso epresupponendo anche forme dicooperazione collettiva tra lefamiglie per la gestione di ri-sorse comuni (pascoli) e l’or-ganizzazione di rudimentali“infrastrutture” (mulini, pon-ti, sentieri e mulattiere). Nes-suna organizzazione esternaper quanto rudimentale prov-vedeva ai bisogni della comu-nità, ma, d’altra parte, questaera relativamente autonoma dainterferenze ed in grado, purnella ristrettezza dell’econo-mia di sopravvivenza, di orga-nizzarsi sulla base di propricriteri. Questo elemento di au-tonomia, di capacità di coope-razione, di organizzazione perfare fronte alla durezza dellecondizioni climatiche unita-mente allo spirito di autosuf-ficienza e di individualità svi-luppatosi attraverso la formadi insediamento isolata (o co-

(12) Da parecchi anni in questa valleculla della tradizione casearia lombar-da le grandi aziende hanno però man-tenuto solo la fase di stagionatura deiformaggi.(13) È questo un questo caso che illu-stra come i moderni mezzi di trasportofavoriscono la coesione del gruppo co-stituendo una delle tante smentite allatesi che la moderna mobilità agisce uni-lateralmente nel senso dell’annulla-mento di identità e appartenenze.

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stituita da pochi nuclei fami-gliari imparentati) è fonda-mentale per spiegare sul pia-no sociologico le origini dellospirito imprenditoriale tipicodell’aristocrazia contadinaprealpina. In termini più stret-tamente economici si deveconsiderare che l’allevamentodel bestiame ha consentito, at-traverso una forma di “investi-mento” consistente nell’am-pliamento della mandria bovi-na famigliare al di là delle di-mensioni necessarie all’auto-consumo (ed ad una limitataeconomia di baratto) e allo svi-luppo conseguente di scambicommerciali di fare assurgerela suddetta aristocrazia conta-dina ad una dimensione mer-cantile e proto-capitalistica.Queste precondizioni hannocostituito l’incubatoio di unosviluppo imprenditoriale e ca-pitalistico che ha potuto effet-tivamente dispiegarsi graziealle condizioni favorevoli rap-presentate dal rapporto con lapianura (moltiplicatore delleoccasioni di scambio mercan-tile e di accumulazione) e allaconcomitante evoluzione del-le strutture fondiarie della bas-sa. Questa è in somma sintesila genesi dello sviluppo capi-talistico dell’agricoltura lom-barda (14).

Percorsi analoghi potrebbe-ro essere delineati per la genesidella piccola e media impresaindustriale ed artigianale, checostituisce l’elemento di forzadella nostra economia. I pro-tagonisti di quest’ultimo feno-meno non sono solo i titolaridelle aziende ma anche quellamanodopera specializzata diorigine locale che contribuiscea conferire all’ambiente pro-duttivo dei distretti industria-li un forte elemento di qualifi-cazione oltre ad un connotatoprettamente lombardo. Tipica

della PMI (Piccola e Media Im-presa) lombarda (ma più in ge-nerale dell’economia dei di-stretti industriali più dinami-ci) è la tendenza delle mae-stranze più specializzate e in-traprendenti a trasformandosiin imprenditori di nuoveaziende a partire dallo scorpo-ro di lavorazioni (o di attivitàdi servizio alla produzione)dall’azienda madre. Questa vi-talità industriale trova originein una cultura della maestriaartigianale che ha radici celti-che e nello spirito proto-capi-talistico delle nostre comuni-tà rurali (15).

Nella nostra trattazione cisiamo occupati prevalente-mente degli aspetti agricoli.Molto vi sarebbe da dire intema di rapporti tra montagnae pianura lombarda a proposi-to di quegli artigiani, commer-cianti e lavoranti che, al finedi integrare i redditi famiglia-ri si trasferivano stagional-mente nelle città e nei centridel piano. Basti pensare agliombrellai, agli arrotini, aglispazzacamini che per secoli,percorrendo il cammino dalleloro valli (“specializzate” neltempo in particolari attività)alle città del piano, hanno rap-presentato un elemento di in-tegrazione importante del-l’economia e della cultura del-le due aree geografiche.

Le contraddizioni dell’oggi:conclusioni

È indiscutibile che anche nel-la nostra cultura etnica cosìcome in quella di molti altri po-poli, la montagna rappresentiun ruolo importante assumen-do un chiaro valore mitico esimbolico: è il luogo delle origi-ni dove i genuini valori etnici sisono mantenuti più saldamen-te. Nel caso della Lombardia ab-biamo cercato di dimostrare che

i rapporti tra montagna e pia-nura sono stati in passato parti-colarmente stretti a cagione del-la particolare conformazione delnostro territorio contraddistin-to da una vasta pianura la cuifertilità è dovuta solo agli inter-venti umani di regimazione del-le acque ed alla continuità del-l’attività agricola e zootecnica.Abbiamo in particolare eviden-ziato come sia stato importanteai fini della formazione di unaricca agricoltura (in grado di sfa-mare i centri urbani e la mano-dopera extraagricola ed in defi-nitiva di consentire il decolloeconomico della Lombardia)l’apporto del bestiame allevatoin montagna, e lo spirito im-prenditoriale dell’aristocraziacontadina prealpina e della ma-nodopera proveniente dalle val-li. Tutto ciò unito alle fonda-mentali considerazioni sulla di-stribuzione territoriale dellecomponenti etniche e dei flussidi popolazione dalla pianura allamontagna e viceversa, rende nelcaso lombardo, particolarmen-te forte la valenza di “luogo an-cestrale” della montagna costi-tuendo, così come in altre cul-ture legate ad un “mito delleorigini”, un elemento forte dicostruzione dell’identità etnica.

In tempi recenti il rapportodi integrazione tra montagnaè pianura è stato caratterizza-

(14) Lo sviluppo dell’economia agricoladella bassa lombarda non è stato omo-geneo, la dimensione capitalistica èstata raggiunta precocemente sin dalXVIII secolo nel milanese, lodigiano,cremonese, in tempi molto più recentinella parte orientale.(15) I celti non solo erano abilissimi ar-tigiani che hanno rivoluzionato moltetecniche agricole grazie agli attrezzi daloro inventati o da loro migliorati, maavevano in grande considerazione gli ar-tigiani nell’ambito della gerarchia so-ciale, al contrario delle culture medi-terranee dove l’abilità manuale è scar-samente apprezzata.

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to dai flussi e dagli insedia-menti turistici. Le aree urba-nizzate della pianura sono tor-nate invivibili. Non è più l’ariamefitica delle paludi, ma losmog, la congestione del traf-fico, l’inquinamento sonoro arenderle tali e si assiste ad una“migrazione stagionale al con-trario”: non più dalla monta-gna alla pianura, ma dalla pia-nura alla montagna. Ciò che inuovi “migranti” stagionalicercano in montagna durantei periodi festivi invernali edestivi è sicuramente “vitale” aifini dell’incremento e del man-tenimento del benessere fisicoe psichico.

Ancora una volta gli abitan-ti della Lombardia cercano dimigliorare le proprie condizio-ni di vita attraverso un utiliz-zo complementare delle risor-se offerte dai due grandi am-biti territoriali. La spinta cheha visto i lombardi praticare daantesignani gli sport invernalie frequentare in modo appas-sionato le cime, le malghe, iboschi e i sentieri della mon-tagna è da ricercare anche inmotivazioni diverse da quellebanalmente “turistiche” lega-te al livello socio-economicodelle classi medie urbane. Ilgrande numero degli appassio-nati della montagna (una vol-ta èlite, oggi massa) oltre checon l’attrazione per gli aspettinaturalistici e ricreativi è spie-gabile anche con altri fattori ditipo culturale e sociologico,che si ricollegano a quelle con-siderazioni etnico-culturalisopra abbozzate.

È forse un caso se sui sen-tieri, sulle cime, nei rifugi,nelle baite si ha la gradevolesensazione di trovarsi “tra dinoi”, quindi più liberi, piùaperti al rapporto confidenzia-le, in un gruppo etnicamenteomogeneo. In montagna non

ci sentiamo solo momentane-amente al riparo dal “mondoesterno” (e dalle più o menoinevitabili costrizioni dellamoderna vita associata) ma an-che lontani dalle quotidianeesasperanti costrizioni buro-cratiche spesso sadicamenteimposte dagli apparati pubbli-ci alla nostra vita sociale e in-dividuale ed estranee alla no-stra cultura. L’allontanarsi dacittà e paesi trasfigurati a cau-sa della sostituzione dei lin-guaggi architettonici tradizio-nali con le banali architetture“razionalistiche” e dalle conse-guenze delle ondate immigra-torie non ha forse anche il si-gnificato di una ricerca di va-lori tradizionali, estetici, maanche più ampiamente cultu-rali, morali ed umani? La pas-sione di molti lombardi “etni-ci” per la montagna è motiva-ta in conclusione da una spes-so inconsapevole ricerca dellapropria identità di popolo, ne-gata o parzialmente perduta.

Delle implicazioni culturalidi quanto abbiamo sommaria-mente trattato in questo bre-ve saggio sono sicuramentemaggiormente consapevoli inegatori dell’identità etnica,culturale, territoriale e comu-nitaria ancora così saldamen-te, anche se spesso inconsape-volmente, radicata nella socie-tà lombarda, sia nei suoi ele-menti tradizionali che in quellipiù “moderni”. Essi, attraver-so politiche neo-colonialiste,motivate pretestuosamentecon la “rinaturalizzazione” delterritorio montano tendonocon l’applicazione di strumentivincolistici pseudo-ambienta-listi, ad aggravare gli svantag-gi delle attività produttive edella residenza in montagnafavorendo l’ulteriore spopola-mento e la dispersione del pa-trimonio culturale tradizionale.

Lo scopo, nemmeno troppodissimulato, di questa scissio-ne e contrapposizione tramontagna come dimensionestorica-culturale-economica-etnica-morale e montagnacome dimensione naturalisti-ca-astorica è quello di perve-nire ad una gestione dellemontagna come di un grande“parco divertimenti” per gliabitanti delle conurbazionidella pianura (multiculturali emultirazziali negli auspici deiprogressisti!). In questa visio-ne la “manutenzione” del ter-ritorio verrebbe affidata allagestione di Enti pubblici (a co-minciare dai Parchi per arriva-re alle aziende para-regionali)e, al più, a Cooperative con-trollate politicamente, deter-minando la fuoriuscita dellamontagna dai circuiti dell’eco-nomia privata e di mercato ecreando un settore assistito.Come si vede politiche che per-seguono scopi apparentementeanaloghi: “la tutela della mon-tagna” possono assumere valen-ze opposte. Non basta comun-que contrastare le mene di quel-le forze che sotto nuove e men-tite spoglie perseguono le solitefinalità di appiattimento socialee culturale e di imposizione diun dirigismo dall’alto sulla so-cietà e l’economia. Bisogna chele forze sociali, economiche,culturali che hanno a cuore gliinteressi e l’identità della Lom-bardia e della sua montagna ab-biano la forza di invertire la po-litica di inerzia e disinteresse sinqui seguita anche in sede regio-nale e di affrontare una politicaattiva a favore della montagna,dotata di incisivi, originali e spe-cifici strumenti legislativi, isti-tuzionali e finanziari. Tale poli-tica rappresenta uno degli ele-menti portanti di un vero rilan-cio autonomistico.

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Esistono numerosissime proposte emerse nel-l’epoca delle più attive discussioni sul federali-smo, prima e durante la fase risorgimentale, maanche progetti apparsi più tardi e - soprattutto -ci sono quelle più recenti, frutto dei rivitalizzatidibattiti di questi ultimi anni.

Tutte le ipotesi rintracciate insistono su tre ri-correnti filoni di pensiero principali, impiegati neldelineare i confini interni allo stato federale.

Esistono infatti un filone che si basa su conside-razioni di carattere storico, uno etno-linguistico edinfine uno più preoccupato degli aspetti funzionali.

dirittura vecchi catenacci del peggior centralismoborbonico si riempiono la bocca di presidenziali-smo e federalismo.

Tutti parlano di riforma dello stato, in tanti sicimentano (con o senza competenze) nel deline-are ideali architetture costituzionali distribuen-do competenze e poteri fra i diversi livelli istitu-zionali; solo in pochi però si occupano seriamen-te di uno dei nodi più importanti e delicati dellariforma: la suddivisione geografica dei soggettidel nuovo assetto federale.

Discussioni e ragionamenti sulla divisione del-le competenze, sui rapporti di potere costituzio-nale e sull’organizzazione della struttura dellostato sono intriganti e possono scatenare passio-ni ideologiche e creare fazioni; restano in ognicaso esercitazioni intellettuali o studi seri, utili,stimolanti e costruttivi che non presentano peròreali livelli di pericolosità. Questi si raggiungonoinfatti solo quando ci si addentra sul terreno del-le divisioni territoriali delle entità fisiche deglielementi che devono comporre la federazione.

È terreno minato su cui è pericoloso addentrarsie che però costituisce la vera discriminante di ogniriforma, la cartina al tornasole della rivoluzionefederalista, il nodo spinoso su cui si confrontanopassioni e reali volontà al cambiamento.

È da sempre il vero punto di attrito di tutte leipotesi federaliste, fin dal loro primo apparire sullascena politica italiana più di un secolo e mezzoaddietro.

Non si vuole qui ancora entrare nel merito del-la opportunità dei progetti: si vuole solo effet-tuare una escursione documentale sulle varie pro-poste che sono emerse, a partire dalla metà delsecolo scorso, ogni volta che si è in qualche modoaffrontata la questione del riassetto federale dellapenisola italiana.

Indagine sul tema delle suddivisionidelle entità componentiuna federazione italiana

di Gilberto Oneto

i questi tempi si fa un gran parlare di fede-ralismo, si dicono convertiti a questa dot-trina personaggi di ogni provenienza: ad-D

Tavola 1 - Federazione degli Stati preunitari(Carlo Farini, Vincenzo Gioberti, Massimo D'Aze-glio, Gino Capponi, ecc.)1) Sardegna; 2) Lombardo-Veneto; 3) Parma-Piacen-za-Guastalla; 4) Modena; 5) Lucca; 6) Toscana; 7) Sta-to della Chiesa; 8) Due Sicilie

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Il primo si rifà alle suddivisioni storiche dellapenisola, sia a quelle degli stati preunitari che aconfini più antichi che hanno mostrato notevolecostanza nel tempo.

Il secondo pone le differenze etno-linguistichee culturali dei popoli che abitano la penisola alrango di elemento prioritario su cui ricostruirela geografia amministrativa.

Occorre a questo proposito osservare come iconfini etno-linguistici somiglino molto per cer-te aree a quelli storici ma come presentino anchetalora alcune sostanziali differenze la cui costan-za nel tempo pone problemi di interpretazionesoprattutto in zone complesse come quelle alpi-ne.

Il terzo si basa sostanzialmente su considera-zioni di funzionalità amministrativa e di equili-brio dimensionale. Esso cerca di creare unità cheabbiano equivalente peso in dimensioni, numerodi abitanti e in potenzialità economiche.

Si tratta di un criterio di derivazione giacobi-no-bonapartista che da noi ha dato vita sia alleattuali regioni che alle province (eredi dei dipar-timenti) e che denota la persistenza di un latentepericolo centralista : una struttura fatta di com-ponenti di uguale peso infatti rischia troppo spes-so di collocarsi in una costruzione piramidale cen-

tralista ed autoritaria. Tutte le innumerevoli pro-poste formulate nel tempo ruotano attorno a que-sti criteri, sono l’espressione di uno o più di essi,o sono - almeno quelle migliori - una formula-zione articolata che tiene conto della complessi-tà delle varie esigenze.

Progetti storici

Le prime proposte in ordine di tempo sono tut-te fortemente influenzate dallo stato di fatto del-le suddivisioni territoriali dell’epoca. Formulateprima delle vicende che hanno portato alla for-mazione dello stato italiano, esse non possono chefare sostanziale riferimento alla situazione preu-nitaria risultante dalle decisioni prese al Congres-so di Vienna (Tav. 1).

Quasi tutti i primi pensatori federalisti fannoriferimento a questo assetto non fosse altro cheper un motivo di opportunità politica e di preoc-cupazione per il successo del progetto.

Così i vari Carlo Farini, Vincenzo Gioberti, Mas-simo d’Azeglio, Gino Capponi, Cesare Balbo, An-tonio Rosmini, ecc. si sono basati nei loro pro-getti di federazione sull’accettazione di questostato di fatto introducendo al più talune minorivariazioni come l’accorpamento dei piccoli stati

Tavola 2 - Assetto etno-linguistico1) Arpitania-Occitania; 2) Padania; 3) Veneto; 4) Tiro-lo; 5) Ladinia; 6) Friuli; 7) Slovenia; 8) Toscana: 9) Ita-lia; 10) Sicilia; 11) Sardegna

Tavola 3 - Progetto delle Tre Italie (Luigi Torel-li, Camillo Benso di Cavour, ecc.)1) Alta Italia (Savoia); 2) Italia Centrale (Lorena); 3)Bassa Italia (Borboni)

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delle “Tre Italie” con l’aggiunta di parte dello StatoPontificio (essenzialmente il Lazio), mantenutocome entità federale (Tav. 4).

Un peculiare corollario allo schema delle “TreItalie” è rappresentato dalla proposta di Vincen-zo Salvagnoli (1859) che, per accentuare l’equili-brio demografico fra le varie componenti, colle-ga l’Emilia con l’Italia centrale (caso invero uni-co nel panorama dei progetti storici) e proponeRoma come capitale federale. Questo ultimo ele-mento costituisce una ricorrenza comune cheviene riproposta anche nel tentativo di conserva-re in qualche modo lo Stato della Chiesa (Tav. 5).

Ai progetti di tripartizione si contrappone conuguale successo (e frequenza di proposizioni)quello delle “Due Italie” che trova il proprio sup-porto principale nella presa d’atto della divisioneetno-linguistica e culturale di cui Costantino Ni-gra è stato uno fra i primi studiosi (Tav. n.6). Que-sta pone speciale enfatizzazione nella ripartizio-ne fra celto-latini e latini meridionali ed istitu-zionalizza il confine linguistico che attraversa lapenisola fra Senigallia e Massa (la cosiddetta “Li-nea Gotica”) e che divide in due l’intera area lin-guistica romanza.

Questa distinzione fra “Italia europea” ed “Ita-

emiliani o la revisione dei confini fra il Lombar-do-Veneto e l’Impero Asburgico (interessanti insostanza l’Istria e la Dalmazia).

Si deve comunque riconoscere come l’assettodato dal Congresso di Vienna (e risultato da unlungo processo di assestamenti successivi) rical-chi in qualche modo sia la situazione etno- lin-guistica che la vocazione storica delle diverse areedella penisola: più autonomistica (e quindi fram-mentata politicamente) al nord e più unitaria ecentralista al sud (Tav. 2).

Appena più elaborata è la proposta delle “Tre Ita-lie” di Camillo Benso di Cavour, Luigi Torelli edaltri (fra cui Proudhon) che si basa su (ed è base)di una concezione che è assai radicata nella cul-tura popolare e che resta costante nel tempo. Sitratta di una suddivisione che comincia a tenereconto di tutte le realtà storiche ed etno-linguisti-che ma anche dell’esigenza di un equilibrio fun-zionale fra le componenti della federazione cheavrebbero uguale peso geografico e limitato squi-librio demografico (Tav. 3).

Evidentemente influenzato dal Cavour è il pro-getto di assetto formulato negli accordi di Plom-bieres e sostenuto da un federalista della staturadi Giuseppe Ferrari. Esso ripropone lo schema

Tavola 4 - Assetto di Plombieres (1858)1) Regno dell'Alta Italia; 2) Regno dell'Italia Centrale;3) Stato della Chiesa; 4) Regno di Napoli

Tavola 5 - Progetto di Vincenzo Savagnoli (1859)1) Settentrione (Savoia); 2) Centro e Sardegna; 3)Roma (Pontefice); 4) Meridione e Sicilia

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lia mediterranea” è alla base di tutti i successiviprogetti di divisione inizialmente formulati da ungruppo di scrittori di scuola positivista (AlfredoNiceforo, Cesare Lombroso, Enrico Ferri ed al-tri) e che hanno trovato grande successo sopra-tututto presso la cultura di sinistra.

Si sono infatti largamente basati su questo sche-ma di bipartizione i progetti di riforma istituzio-nale di Filippo Turati e di Gaetano Salvemini maanche quello di Antonio Gramsci che ha dato ori-gine alla proposta presentata al Congresso di Li-one del PCI con la sola variante (peraltro piutto-sto diffusa) costituita dall’autonomia della Sici-lia e della Sardegna.

Anche questa delle “Due Italie” è rimasta unadelle idee più ricorrenti e radicate nell’immagi-nario popolare (Tav. 7).

Un caso del tutto singolare nel panorama dei pro-getti ottocenteschi è costituito dall’assetto propo-sto da Carlo Cattaneo nel quale si ritrovano suddi-visioni risultanti da una serie di peculiarità cultu-rali del grande pensatore lombardo (Tav. 8).

La prima di queste è rappresentata dalla preoc-cupazione di avere un sufficiente numero di sog-getti in modo da impedire che uno degli stati fe-derati possa (per dimensioni o capacità di pote-

Tavola 6 - Suddivisione di Costantino Nigra1) Italia Superiore; 2) Italia Inferiore

Tavola 7 - Progetto delle Due Italie (Alfredo Ni-ceforo, Cesare Lombroso, Enrico Ferri, FilippoTurati, Antonio Gramsci, ecc.)1) Settentrione; 2) Meridione; [3) Sardegna; 4) Sicilia]

re) prevalere sugli altri. L’altra gli viene dalla suacultura storica che identificava i grandi centri diirradiazione civica soprattutto nel nord, nel Pie-monte, in Lombardia e nel Veneto, cui ricono-sceva grandi valenze di entità autonome che - nelcaso del Piemonte - venivano un po’ forzate edinfluenzate dall’avversione del Cattaneo per i Sa-voia e per le idee fusioniste.

Progetti contemporanei

Negli anni a noi più vicini c’è stato un granderifiorire di idee federaliste che hanno anche ge-nerato qualche interessante proposta di suddi-visione amministrativa diversa.

Il primo di questi progetti è stato quello origi-nario della Lega Nord che prevedeva la formazio-ne delle Repubbliche del Nord, del Centro e delSud e che riprendeva una delle immagini più for-ti e ricorrenti (quella delle “Tre Italie”) presentinella coscienza popolare. Risulta però strano edincomprensibile come una forza politica - chepure era nata in ambiente culturale autonomista- abbia potuto ignorare le istanze autonomisti-che “storiche” e come abbia ipotizzato l’unionedella Toscana con la Padania (Tav. 9).

La parte più rudimentale del progetto è però

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costituita dalle denominazioni proposte che igno-rano ogni sedimentazione della toponomasticastorica per adagiarsi su banali denominazioni “ita-locentriste”.

Di fronte all’avanzata delle istanze federali-ste - spesso capziosamente bollate come sepa-ratiste - la “cultura ufficiale” ha cominciato adattrezzarsi elaborando delle revisioni territo-riali basate essenzialmemnte su princìpi fun-zionalisti e tecnocratici. È emblematica in que-sto senso la presa di posizione della Fondazio-ne Agnelli (dicembre 1992) che si è cimentatain una coraggiosa opera di “razionalizzazionedel razionale” proponendo una risuddivisionedelle regioni italiane e riducendone il numeroda venti a dodici (Tav. 10).

È chiaro che questa proposta non tiene in nes-sun conto le preesistenze storiche, le peculiaritàetno-linguistiche e culturali, nè le tradizioni au-tonomiste più forti (Tirolo e Valle d’Aosta) basan-do la propria architettura amministrativa solo suconsiderazioni di ordine demografico (maggiorequilibrio numerico fra gli abitanti), di continui-tà e convenienza geografica e di compatibilità eco-nomica e produttiva.

Si dà qui vita ad una sorta di neo-regionalismo

Tavola 10 - Fondazione Agnelli1) Piemonte-Liguria-Val d'Aosta; 2) Lombardia; 3) Ve-neto-Friuli-Trentino-Südtirol; 4) Emilia-Romagna; 5)Toscana-Perugia; 6) Marche-Abruzzi-Molise; 7) Lazio-Terni; 8) Campania; 9) Puglia-Basilicata; 10) Calabria;11) Sicilia; 12 Sardegna

Tavola 9 - Progetto originario Lega Nord1) Repubblica del Nord; 2) Repubblica del Centro; 3)Repubblica del Sud

Tavola 8 - L'Italia Federale di Carlo Cattaneo

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L’assetto di Assago non riesce però ad arrestareil processo di penetrazione corrosiva del neore-gionalismo efficientista e centralista che prose-gue il suo incistamento anche all’interno dellaLega. Questa finisce così per allontanarsi daogni istanza autonomista basata su realtà sto-riche, culturali ed etno-linguistiche che ripu-dia ufficialmente con il progetto di revisionecostituzionale presentato dal senatore EnricoSperoni all’Assemblea Federale di Genova del6 novembre 1994 (Tav. 12).

Il progetto riprende quello della FondazioneAgnelli esasperandone la ricerca di efficientismoamministrativo da raggiungere mediante l’accor-pamento delle regioni esistenti che riduce a nove,esibendosi in alcuni funambolismi di geografiapolitica degni di nota.

Piuttosto ardite risultano infatti la ricostituzio-ne dei confini dello Stato della Chiesa e l’ineditaunione fra Emilia e Toscana (il confine dell’Ap-pennino ha costituito una delle più forti costantidella storia d’Italia) e alcune altre stravaganzegeografiche. Assai più grave risulta la scomparsadefinitiva ad ogni riferimento alle autonomie sto-riche ed etno-linguistiche che vengono elimina-

Tavola 11 - Progetto di Assago1) Valle d'Aosta; 2) Trentino-Südtirol; 3) Repubblicadel Nord; 4) Etruria; 5) Friuli-Venezia Giulia; 6) Re-pubblica del Sud; 7) Sicilia; 8) Sardegna

Tavola 12 - Proposta costituzionale “Speroni”1) Piemonte; 2) Veneto-Trentino-Südtirol-Friuli; 3)Emilia-Toscana; 4) Romagna-Marche-Umbria-Lazio; 5)Abruzzi-Molise-Puglia-Basilicata; 6) Campania-Cala-bria; 7) Sicilia; 8) Sardegna; 9) Lombardia

efficientista che si pone come contrapposizioneal federalismo autonomista basato sul riconosci-mento delle diversità locali.

Contro queste manifestazioni di cultura funzio-nalista che avvengono anche al suo interno (èsintomatica la riapparizione di tesi regionalisteal convegno sul “Nuovo Federalismo Europeo” te-nuto a Stresa il 25 e 26 giugno del 1993), la LegaNord ufficializza (e in parte sconfessa quasi subi-to) il progetto redatto dal professor Miglio - notocome “Progetto di Assago” (11 dicembre 1993) -che prevede la creazione di tre macroregioni e laconservazione delle cinque regioni a statuto spe-ciale esistenti (Tav. 11).

Si tratta - come appare subito evidente - di unariproposizione del ricorrente assetto delle “Tre Ita-lie” reso più sofisticato dal riconoscimento delleautonomie “storiche” più forti, accettate però sen-za ulteriori approfondimenti.

Per la prima volta si dà poi all’Italia centrale ladenominazione (e la connotazione) di Etruria ri-cominciando a formulare un distinguo storico elinguistico fra la Toscana (eventualmente esten-dibile ai confini dell’antica Etruria) e il resto del-la parte centrale della penisola.

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te in un processo di razionalismo dai connotatipoco autonomisti.

È sintomatico che la stampa ed i mezzi di in-formazione “di regime”, che si sono accaniti con-tro questo progetto, non abbiano fatto nessunadi queste considerazioni ma che si siano prodi-gati nel sottolineare dettagli del tutto irrilevanticome la mancanza di continuità geografica fra laCampania e la Calabria.

L’idea delle “Tre Italie” ricompare nel progettoredatto da Gianfranco Miglio per la FondazioneItalia Federale che ripropone lo schema di Assa-go con maggiore definizione e con l’istituziona-lizzazione dell’allargamento dell’Etruria a granparte dell’Italia centrale (Tav. 13).

Sugli stessi princìpi si fonda anche la proposta“padanista” illustrata sul numero 4 di Ethnica(Autunno 1994) ed in seguito ulteriormente de-lineata (Tav. 14).

Essa parte dalla costante rappresentata dall’ideadi tripartizione di cui però comincia ad elaborarecon più precisione le modalità di costituzione deiconfini. Restano i riconoscimenti delle forti iden-tità delle isole e viene proposta la creazione di unterritorio federale attorno a Roma.

Tavola 13 - Proposta «Fondazione Italia Fede-rale»1) Valle d'Aosta; 2) Valle Padana; 3) Italia Centrale; 4)Trentino-Südtirol; 5) Friuli-Venezia Giulia; 6) ItaliaMeridionale; 7) Sicilia; 8) Sardegna

Tavola 14 - Progetto «Padanista»1) Padania; 2) Etruria; 3) Distretto Federale; 4) Italia;5) Sicilia; 6) Sardegna

La Padania viene proposta come entità unicaall’interno della quale siano riconosciute pe-culiarità ed autonomie ed anche ampi diritti diautodeterminazione. La Padania viene cioè vi-sta come un elemento unitario nei suoi rap-porti con la struttura federale ma libero di rior-ganizzarsi al proprio interno secondo costru-zioni amministrative più aderenti alle ricono-sciute diversità dei sei gruppi di popoli che laabitano.

In questa flessibilità di organizzazione nonpuò non trovare coerente ospitalità la più am-pia disponibilità alla revisione dei suoi confiniesterni sulla base di oggettive realtà culturali,storiche ed etno-linguistiche e - soprattutto -del riconosciuto rispetto della effettiva volontàdei cittadini.

In questo progetto si fondono con equilibriostoria e cultura, realtà etno-linguistiche e ra-zionalità socio economica, oltre che il ricomo-scimento della forza della geografia e della inos-sidabilità nella coscienza popolare dell’imma-gine delle “Tre Italie”.

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temiamo sappiano rispondere aduna domanda tanto singolare,senza per questo accusare nes-suno, intendiamoci, di essereuna persona disattenta o pocoinformata.

Di questo sconosciuto indivi-duo non ne ha del resto mai par-lato alcun giornale, almeno traquelli stampati entro gli italiciconfini. Non siamo stati infor-mati dalla onnipresente televi-sione (ma allora non si parlavaancora di “par condicio”). Nonabbiamo ascoltato nessuna in-formazione in proposito, nean-che da nessuna radio. Comemai? Il motivo è molto sempli-ce: questo critico d’arte e sena-tore catalano al parlamento diSpagna, nonché parlamentareeuropeo, nel 1981 fu incaricatodi redigere un dettagliato rap-porto sulle «lingue ed i dialettiminoritari europei, allo scopo dicurarne la protezione». E non daqualche “nostalgico” sostenito-re del “buzzurro parlare”, madalla Commissione di cultura ededucazione del Consiglio d’Eu-ropa. Cirici Pellier tenne il suoprimo intervento dopo l’elezio-ne al parlamento europeo, pro-prio sul tema del diritto alla lin-gua ed alla cultura popolare. InItalia nessuno ne riferì.

Particolare di estremo interes-se è che il rapporto, approvatodalla commissione Cultura il 26maggio 1981, venne successiva-mente ripreso come base peruna “Raccomandazione ufficia-le” (la numero 929, per i pigno-li e gli increduli) in data 7 otto-

bre dello stesso anno. E, sorpre-sa tra le sorprese, tra le nume-rose lingue locali da tutelare in-cluse nell’elenco stilato in sedeeuropea, figurano anche mene-ghino, veneto e piemontese! Unmotivo più che sufficiente permolti sostenitori del primatodelle lingue ufficiali - spesso ar-tificiali ed imposte con la violen-za - su quelle locali, per mette-re la sordina ad un provvedie-mento di estrema importanzaper ogni comunità locale, chenella lingua vede il principaleelemento di identità e comunesentire.

Un provvedimento importan-te non solo da un punto di vistaculturale, ma anche politico, eche rafforza la lapidaria consta-tazione fatta propria da NoamChiomsky alcuni anni fa: «Sa-pete cos’è un dialetto? Una lin-gua, ma senza passaporto edesercito». Naturalmente, dalmomento che l’Italia detiene ilprimato negativo delle inadem-pienze comunitarie, il messag-gio è sempre caduto nel vuoto,nessun governo ha curato l’ap-plicazione della Raccomanda-zione ufficiale del Parlamentoeuropeo, ed i mass media si sonoben guardati dall’informarnel’opinione pubblica. Forse perevitare verità decisamente sco-mode sulle origini linguistiche,e quindi etniche, dei popoli cheabitano un, ahinoi, unico Stato,pur essendo molte e radical-mente differenti nazioni.

Ma torniamo ai documenti uf-ficiali, quelli di fronte ai qualichi sostiene che parlare in dia-letto è sinonimo di ignoranza,potrebbe, forse, diventare un

tantino più cauto, tollerante, erealmente europeista.

L’assemblea parlamentare delConsiglio d’Europa (doc. n.4745, 12 giugno 1981) ritenne“molto importante per il pro-gresso d’Europa e dell’idea eu-ropea, assicurare il rispetto e losviluppo equilibrato di tutte leculture europee e, specialmen-te delle identità linguistiche”.Inoltre, nel “rapporto sui pro-blemi educativi e culturali po-sti dalle lingue minoritarie e daidialetti in Europa” l’assembleasottolineò quanto segue: «Con-siderando che le grandi differen-ze relative alla demografia, allasituazione sociologica, alla nor-malizzzazione del linguaggio, alsuo uso privato o pubblico e allepossibilità d’accesso all’insegna-mento e ai mezzi di comunica-zione di massa, fanno sì che iltrattamento di ogni caso debbaessere specifico, senza che siapossibile una soluzione genera-lizzata. Considerando che il trat-tamento scientifico, umano eculturale di ogni lingua deve es-sere affrontato in base a:

A - rispetto dell’autenticitàscientifica;

B - diritto del bambino allapropria lingua;

C - diritto delle comunitàumane allo sviluppo della linguae delle culture proprie;

raccomanda al Comitato deiministri di esaminare la possi-bilità da parte dei governi degliStati membri, di mettere in ope-ra le seguenti misure (e qui, an-drebbe aperto un capitolo a par-te per quanti, in terra padana,hanno in passato respinto sde-gnati, o con sorrisi di commise-

lexander Cirici Pelier. Beh,chi era costui? Purtroppo,solo pochi addetti ai lavoriA

Una lingua, un popolodi Corrado Galimberti

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Anno I, N. 1 - Estate 1995 Quaderni Padani - 27

razione, le richieste avanzate daesponenti autonomisti, di topo-nomastica bilingue in localitàche loro, e solo loro, ritengonoesclusivamente italiane):

A - a livello scientifico: l’ado-zione progressiva, eventual-mente insieme alla denomina-zione divenuta usuale, delle for-me toponomastiche corrette apartire dai linguaggi originali diogni territorio per piccolo che sia.

B - a livello umano: l’adozio-ne progressiva della lingua ma-terna nell’educazione del bam-bino (uso del dialetto a livelloorale negli asili e delle formenormalizzate della lingua ma-terna nell’insegnamento prima-rio, durante il quale sarà gra-dualmente introdotta a fiancodella lingua materna, la linguamaggioritaria del paese.

C - a livello culturale: il rispet-to e aiuto pubblico in favoredell’uso locale delle lingue mi-noritarie normalizzate e delloro uso corrente nell’insegna-mento superiore e nei massmedia dei territori relativi, inproporzione alla volontà dellecomunita” che lo parlano.

D - a livello politico: in tutti iterritori che abbiano una linguapropria e qualche grado distruttura amministrativa nellostato di cui fanno parte la pos-sibilità di adottare questa lin-gua come lingua ufficiale ocoufficiale da parte dei poteristabiliti in questi territori.

Come era inevitabile, il crite-rio adottato da Cirici Pelier perstabilire quali lingue locali eracorretto menzionare nel rappor-

to e quali, invece, non citare, hasuscitato alcune polemiche an-che, e soprattutto in seno al va-riegato mondo autonomista, aonor del vero, non a torto. Mal’importante è che il messaggioche doveva passare è passato:ogni popolo ha il diritto di par-lare la lingua che ne rispetta larispettiva identità, anche se essanon coincide con quella ufficialedello Stato in cui vive e, in parti-colare, tale idioma deve essere tu-telato in maniera concreta.

Che tra le lingue locali men-zionate nel rapporto Cirici Pe-lier ci siano anche il “meneghi-no”, il veneto ed il piemontese,non può che, chiediamo scusaper un momentaneo impetod’orgoglio di cisalpina natura,farci piacere. Certo, il milanesenon è che una delle numeroseparlate lombarde e, più in gene-rale padane. Lingue che, perquante differenze possano ave-re, tra di loro, hanno comunquecomuni radici.

Esse dimostrano tuttavia, an-che da un punto di vista lingui-stico, che la Padania, pur conmille diversità all’interno delproprio territorio (differenzeche sono in ogni caso un sino-nimo di arricchimento, e non didebolezza) può e deve essereconsiderata, una terra gallica (e,nel caso della Lombardia, anchegermanica), nel mondo italico.

Queste considerazioni nonsono frutto delle elucubrazionementali degli appartenenti ad aduna associazione padanista, mala risposta del professor GeoffreyHull, docente all’università di

Melbourne, che a quello che luidefinì “padanese”, dedicò anni distudi e ricerche.

È ormai risaputo che il crina-le degli Appennini tosco-emilia-ni, coincide perfettamente conle differenze etnico-linguistichedei popoli che abitano a nord ea sud di tale linea. Ed il profes-sor Hull, analizzando meticolo-samente i tratti fonologici, mor-fosintattici e lessicali della lin-gue parlate in Padania, ne misein rilievo la netta separazionedai dialetti italiani, e la paren-tela con le altre lingue galloro-manze, abbozzando persinol’ideale creazione di una comu-ne koiné reto-cisalpina.

Del resto, gli specialisti diglottologia romanza considera-no le lingue locali parlate nelleregioni settentrionali dello Sta-to italiano, parte integrante delsistema galloromanzo e strette“parenti” del francese (incluso ilfranco-provenzale) e dell’occita-no catalano. Per questo, comesottolineò il glottologo PierreBec, il termine “gallo-italico”,indicato da alcuni in riferimen-to alle “lingue padane” va corret-to in “galloromanzo cisalpino”.

Nel 1982 Geoffrey Hull pre-sentò una tesi di dottorato di ri-cerca con il titolo «The lingui-stic unity of Northern Italy andRhaetia» con la quale dimostròche, dopo venti secoli, la GalliaCisalpina (che i romani conqui-starono fra il 193 ed il 78 a.C.,ma che non hanno ancora ab-bandonato) esiste ancora. For-se sta a noi testimoniarlo.

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Claus GattererIn Lotta Contro Roma. Citta-dini, Minoranze e Autonomiein Italiapp. 1584 - Lit.60.000Bolzano: Praxis 3, 1994(Casa Editrice Praxis 3 - ViaMendola 43/A Bolzano - Tel.0471/281778, Fax 0471/281822)

Con questa ponderosa operadi grande impegno storiogra-fico e documentale di quasi1600 pagine, lo studioso sudti-rolese Gatterer (Sesto di Pu-steria 1924 - Vienna 1984)traccia un quadro interessan-te ed inquietante della vicen-da delle minoranze “storiche”presenti in Italia (tirolese, slo-vena e valdostana) ma anchedegli altri movimenti autono-misti e dell’evoluzione nove-centesca del pensiero federali-sta di casa nostra.

Questa edizione italiana appa-re con molto ritardo rispetto allaprima edizione in lingua tede-sca (originariamente edita nel1968 a Vienna col titolo ImKampf gegen Rom) e perciò nonsi occupa degli ultimi più inte-ressanti e sconvolgenti sviluppidell’autonomismo nella peniso-la. Ne permette però la più am-pia comprensione descrivendocon dovizia di particolari tuttigli avvenimenti e le idee che lihanno originati e ne hanno per-messo la crescita esplosiva.

La conoscenza di una lungaserie di fatti (che l’autore rac-conta con precisione e analizzacon grande intelligenza e obiet-tività) permette infatti di com-prendere la grande diffusionedelle idee autonomiste ed il suc-

cesso dei movimenti localisti equanto vi abbia influito il com-portamento - ottuso prima an-cora che oppressivo - del poterecentrale romano.

In particolare, il processo diomologazione e di italianizza-zione forzata intrapreso subitodopo l’unificazione assume isuoi toni più paradossali e dram-matici dopo la prima guerramondiale quando vengono in-globate all’interno dei confinidel regno intere regioni appar-tenenti a culture nazionali mol-to forti ed estranee alla storiadella penisola e non più sologruppi etno-linguistici apparte-nenti ai ceppi celto-latini o lati-ni in qualche modo gabbabilicome “italiani” (padani, veneti,friulani, toscani, sardi e sicilia-ni) o a gruppi per qualche ra-gione più deboli (greci ed alba-nesi).

Nel Tirolo meridionale, nel-l’Istria, nella Slavia veneta e neibrandelli di Dalmazia acquisiti,lo stato romano si comportacome in terra di conquista e conla stessa arroganza dei suoi an-tichi omonimi cui fa continuovanaglorioso riferimento.

Ovunque infatti si tenta di ita-lianizzare le popolazioni localicon pesanti interventi di snatu-ralizzazione forzata e di “puli-zia etnica” (espulsione di au-toctoni e massicci invii di im-migrati- coloni) e lo si fa contutta la protervia e la stoltezzache la deflagrante miscela di fa-scismo e burocrazia meridiona-le riesce a mettere assieme.

L’oppressione colonialista siabbatte su tirolesi e ladini, susloveni e croati ma anche - inun drammatico delirio naziona-lista - sugli abitanti della Valled’Aosta che pure ha fatto partedel regno fin dalla sua formazio-ne e che è legata alla dinastia re-

gnante da più tempo di ogni al-tra parte d’Italia.

Ma lo zelo patriottardo non siferma davanti alla storia nè al-l’evidenza dei fatti e si cimentacon pelasgica determinazione inuna politica fatta di vergognosevessazioni (l’imposizione asso-luta della lingua italiana, lachiusura delle scuole locali, lasoppressione della stampa libe-ra, l’obbligo di portare nomi ita-liani, il trasferimento di interepopolazioni, la distruzione diantiche autonomie amministra-tive) e di stupidaggini littorie (ilcambio dei nomi dei morti, l’in-venzione di strampalate topono-mastiche, fino alla tragica farsadella creazione di tre cimiteri diguerra in aree mai toccate dalconflitto con il trasloco di sal-me di soldati morti a Caporet-to). Purtroppo gran parte di que-sto comportamento è sopravvis-suta alla caduta del fascismo el’Italia repubblicana ha perpe-tuato con immutata lungimi-ranza atteggiamenti persecuto-ri e menzonieri.

Così - ad esempio - si è conti-nuato a sostenere la patetica foladell’italianità di quelle terre ba-rando su dati e numeri.

Prima del 1915 (secondo i datidel censimento imperiale del1910) c’erano nell’attuale pro-vincia di Bolzano 235.000 abi-tanti di lingua tedesca e ladinae 7.000 italiani; nell’odiernoTrentino (allora chiamato Tiro-lo meridionale o Tirolo italiano)c’erano 341.000 italiani, 4.000ladini e 15.000 tedeschi; a Trie-ste città 119.000 italiani, 51.000sloveni, 2.000 croati e 12.000tedeschi; nel territorio di Gori-zia e Gradisca 90.000 italiani,154.000 sloveni e 4.000 tede-schi; in Istria 147.000 italiani,176.000 serbo-croati, 54.000

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sloveni e 13.000 tedeschi; a Fiu-me 25.000 italiani, 26.000 slavie 6.000 ungheresi e in Dalma-zia 610.000 serbo-croati e18.000 italiani.

Tutti costoro (a parte gli slavidalmati scampati alla “liberazio-ne”) dovevano nel 1918 diven-tare italiani.

Il più noto teorizzatore di que-sta operazione di “pulizia etni-ca” è stato lo spretato avellineseGiovanni Preziosi, noto per lesue teorie razziali e per il suoinesausto ardore patriottardo.

Ma il più efficiente esecutoredei destini di Roma imperiale inTirolo è stato il trentino EttoreTolomei, ripropositore del neo-logismo giacobino di Alto Adi-ge, scalatore e battezzatore del-la Vetta d’Italia, autore (con Pre-ziosi) dei Provvedimenti di ita-lianizzazione. La sua opera in-defessa ha riguardato l'invenzio-ne di nomi italiani, lo sposta-mento di monumenti, lo sciogli-mento di associazioni, la sop-pressione di giornali, l’italianiz-zazione dei cognomi tedeschi, ildivieto di immigrazione di stra-nieri di lingua tedesca, il licen-ziamento o il trasferimento de-gli impiegati pubblici tedeschi,l’eliminazione delle banche te-desche, l’agevolazione degli ac-quisti di terreni da parte di ita-liani e dell’immigrazione di ita-liani e numerose altre patriotti-che canagliate.

Gatterer riporta l’ironico (madisperato) giudizio di Salvemi-ni su questo personaggio :

“Si deve a lui (Tolomei) la sco-perta che i contadini del Tirolomeridionale non capivano i con-tadini bavaresi e che di conse-guenza l’insegnamento scolasti-co doveva essere impartito loroin italiano e non in tedesco (...).Per molti anni il nuovo Tolomeoaveva elaborato la tesi che la

maggior parte della popolazio-ne del Tirolo meridionale era co-stituita da latini, i quali aveva-no dimenticato la loro origineed erano diventati tedeschi. Bi-sognava dunque “recuperarli”.Per sostenere il suo punto, in-ventò un “sostrato” latino “piùantico” o “più genuino” per ogninome locale tedesco. Questefantasie erano sempre state con-siderate dalle persone di buonsenso quali innocue debolezzedi un fanatico provinciale (...).(Tolomei) scoprì che 16.800nomi locali (sudtirolesi) da luiraccolti, i più non erano altroche nomi latini degenerati esmaniosi di tornare alle origini”.

Il tutto in perfetta sintoniacon Mussolini che dichiarò nel1926:

“(...) I tedeschi dell’Alto Adi-ge non rappresentano una mi-noranza nazionale, rappresenta-no una reliquia etnica. Sono180.000 (...) e di questi 180.000,80.000 io affermo che sono ita-liani diventati tedeschi (...). Glialtri sono residuo di invasionibarbariche”.

Uguale accanimento è statomostrato per gli slavi, per i gre-ci del Dodecanneso e - follìa frale follìe - per gli arpitani dellaValle d’Aosta. In tutte le areeannesse le amministrazioni co-munali avevano sempre godutodelle più ampie autonomie, frut-to di diritti conquistati da seco-li. A minare quello che Cattaneoaveva chiamato “il più intimoasilo della libertà” fu lì speri-mentata la nuova figura del se-gretario comunale di nominaprefettizia.

L’esperimento diede frutti tal-mente buoni per il potere cen-trale che, a partire dal 1925, pri-ma nelle nuove province e poiin tutta Italia, i segretari comu-nali furono “statalizzati”, cioè

nominati e pagati da Roma, tan-to da diventare i servitori delpotere centrale e non del Comu-ne : una categoria di governato-ri del più basso livello.

Dal 1926 i podestà di nominastatale sostituiscono i sindaci :dei 78 podestà del Sudtirolo, 72sono italiani. Dopo la secondaguerra mondiale i sindaci di ele-zione popolare sono stati ripri-stinati ma i segretari comunalisono rimasti, con prefetti e que-sturini, a ricordare - non solo aitirolesi ma anche a tutte le al-tre popolazioni che aspirano aduna vera autonomia locale - chicomanda in realtà.

Quello di inventarsi nomiitaliani mai esistiti o di proce-dere a libere traduzioni ed ita-lianizzazioni della toponomasti-ca locale è un malvezzo che hacaratterizzato lo stato centralefin dall’unità e che non ha ri-sparmiato neppure le regioniPadane con esibizioni di liricastupidità ed esempi di triste co-micità.

Al divieto di usare il termineTirolo non è riuscito per fortu-na ad accompagnarsi il mediter-raneo progetto di ribattezzareBozen in Bolgiano...

In Sudtirolo furono italianiz-zati circa 4.000 cognomi.

A Trieste furono tradotti initaliano, fino al 1927, i cognomidi 2047 famiglie slovene. A Pola(città e provincia), nel gennaio1933, risultavano interessatedall’italianizzazione dei cogno-mi 56.000 persone.

In Valle d’Aosta fu iniziato ilprogetto di italianizzare com-plessivamente 18.000 cognomi.

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Questa italianizzazione dei co-gnomi ha anche dato originead inconvenienti tragici e ri-dicoli dovuti alla ottusità edalla fisiologica disorganizza-zione della burocrazia romana:ci furono casi di fratelli che, ita-lianizzati presso uffici diversi,hanno avuto cognomi diversi. Iprovvedimenti avevano effettoretroattivo anche per i nomipropri: si verificarono casi diadulti che furono “ribattezzati”sbrigativamente dagli uffici ana-grafici senza che nemmeno losapessero.

Dal novembre del 1927, in Su-dtirolo come nella Venezia Giu-lia, fu anche vietato l’uso diiscrizioni tombali che non fos-sero italiane: nomi di battesimocompresi e, anche qui, con ef-fetto retroattivo, “salvo per queitedeschi che avevano avuto laprevidenza di morire prima del28 ottobre 1923; questi ottenne-ro il permesso di continuare adormire sotto una pietra tom-bale tedesca”.

In questo caso la repressionesi dimostrò particolarmenteodiosa: i nastri delle corone cherecavano gli estremi saluti inlingua tedesca o slava furonobrutalmente allontanati dalleautorità.

Un altro degli strumenti prin-cipali del processo di italianiz-zazione è stata la politica di im-migrazione.

In Valle d’Aosta furono impor-tati migliaia di italiani mentrela popolazione locale era co-stretta ad emigrare: ad un certopunto Parigi era diventata, conla presenza di 14.000 valdosta-ni, la maggiore città arpitana,mentre ad Aosta erano di origi-ne aostana solo 8.000 dei 30.000abitanti.

Dalla sola Pola dovettero slog-

giare, negli anni immediata-mente successivi il 1918, 20.000sloveni e croati.

A partire dal 1922, emigraro-no verso la Jugoslavia 70.000 fracroati e sloveni; 30.000 slavi sitrasferirono in America meri-dionale e circa 5.000 in Franciae Belgio.

In Sudtirolo la “bonifica etni-ca” è proseguita con tutti i mez-zi: dall’assegnazione delle casepopolari e dei posti di lavoro nel-le aree di forzata industrializza-zione ad immigrati italiani, al-l’acquisto di fondi agricoli daparte di enti statali, fino al dram-ma dell’opzione cui furono co-stretti i cittadini di lingua tede-sca nel 1939/40.

Allora optarono per la Germa-nia 185.365 dei 267.238 aventidiritto (o 194.748 su 216.814secondo la versione germanica).

Il risultato di questa nefasta po-litica è stato che il rapporto fra itedeschi e gli italiani in provin-cia di Bolzano, che era di235.000 a 7.000 nel 1910, è di-ventato di 227.000 a 115.000 nel1953.

In particolare, nelle tre gran-di città sudtirolesi - Bolzano,Merano e Bressanone - la per-centuale di popolazione italianaè cresciuta dal 5% del 1910, al14% del 1921, al 51% del 1939e al 72% del 1953.

Questa “marcia verso la mor-te” della popolazione tirolese siè significativamente interrottasolo quando la provincia di Bol-zano ha cominciato a conqui-starsi concreti spazi di autono-mia.

Oggi il tasso di nascita di quel-la comunità è il più alto dellaPadania e non è imprudente af-fermare che questo sia il coeren-te risultato dell’autonomia, diun atteggiamento di maggiore

serenità verso il futuro e di undiminuito flusso di immigrazio-ne “coloniale”.

Si tratta di un dato che do-vrebbe portare ad interessanticonsiderazioni anche per tuttigli altri popoli padani e a pensa-re a certi riflessi meno imme-diati, ma non per questo menoimportanti dell’autonomia.

Oggi è infatti la popolazionedella Padania che si trova “inmarcia verso la morte”.

Numerosi altri documentaticapitoli del libro sono poi dedi-cati da Gatterer alla lotta dei su-dtirolesi per la loro autonomiae alla storia dei movimenti poli-tici che hanno incarnato questalotta nel primo e - soprattutto -nel secondo dopoguerra.

Gatterer dedica poi altre nu-merose pagine esemplari ad esa-minare gli inquadramento sto-rici, le evoluzioni e le informa-zioni sui movimenti autonomi-sti di Sicilia, Sardegna, Friuli,Trentino, Ladinia e Valle d’Ao-sta, oltre che per fornire inte-ressanti cenni su altri movimen-ti minori.

Il libro - si è visto - è statoscritto nel 1968, quando la gran-de stagione delle autonomie pa-dane doveva ancora cominciare.

Questo non toglie nulla al va-lore documentario e morale dellibro che si rivela anzi un inso-stituibile strumento di cono-scenza e di riflessione per ognisincero autonomista e un rife-rimento di sprone per chi com-batte per l’autonomia della Pa-dania.

Alfredo Croci

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