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Il primo Visconte di Pombia si trova nell’ 841 (Ved. Le più antiche carte dell'archivio di San Gaudenzio di Novara, doc. 1°: "Maginardo, Visconte di Pombia, dona alla Chiesa di San Gaudenzio un podere in Garbagna (giugno 841) " "... ego Maginardo ex genere Francorum Vice Comes Plumbiense abitator in loco Casaliglo ..."). Un successivo documento del 16 aprile 867 (n° 243, cod. dip. lang.) porta: "Gnerulfus ministeriali domni Imperatori di legge salica, per mezzo del giudice Pietro del fu Paolo, e del suo vassallo Ercembaldo, stabilisce di elargire in elemosina i beni da lui posseduti: "... tam in Valetelina iudicairia Mediolanensis et in Casale iudiciaria Plumbiensis". Essendo il termine "iudiciaria" una dizione longobardica per le località che avevano una propria giurisdizione, è accreditata da questo documento l'ipotesi dell'esistenza del Ducato di Pombia (Gabotto "Per la storia Novarese nell'Alto Medioevo - Ducati e Comitati", B.S.S.N. 1917 n° 1-2). Tale termine fu poi usato nel periodo Franco per le Contee rurali. In un'altra carta, già da noi menzionata, troviamo: “(17-7-885) Raginaldus Archidiaconus e Vicedominus sancte novariensis ecclesie, figli bone memorie Rapaldi de castro Plumbiae" dona alla Luminaria della Chiesa di Novara un campo in Mergozzo. Fra i testimoni figura "Madalberti qui beto vocatur filio Ioannemperti de Plumbia - Luoni de Uuaralo". Il re Berengario dà a Leone, Visdomino della Chiesa di Novara, fra il 911 e il 915 la facoltà di costruire castelli in propriis suis rebus finibus Plumbiensis Comitatus, in vocabulis villulis in sunt Peronate, Terdoblade, Cammari ed Galliade; nello stesso periodo dona alla Chiesa di S. Maria "mansos duos in villa Nebbiola actenus pertinentes de Comitato Plumbiense, cum omni eorum integritate" (Gabotto o.c.). Successivamente nell'Aprile del 942, tale Arnaldo di Biulaco lascia per testamento alla Chiesa di S. Maria al monte sopra Varese, proprietà "in vico et fundo Cassiate Comitatum Plumbiense" (Cod. Dip. Lang. Doc. 567). Da queste carte si ha notizia diretta che fra il 911 e il 915 Pombia è già sede di Comitato, ma non compare sino ad ora nessun Conte di Pombia. Nel documento 70 delle Carte dell'Archivio Capitolare di S. Maria in Novara, troviamo tal Elgerico del fu Manginardo, Conte, che vende a Uberto, Vescovo di Parma, la metà di un suo castello "in Comitato Plombiensis locus quae dicitur Meecia".

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Il primo Visconte di Pombia si trova nell’ 841 (Ved. Le

più antiche carte dell'archivio di San Gaudenzio di Novara, doc.

1°: "Maginardo, Visconte di Pombia, dona alla Chiesa di San

Gaudenzio un podere in Garbagna (giugno 841) " "... ego Maginardo

ex genere Francorum Vice Comes Plumbiense abitator in loco

Casaliglo ...").

Un successivo documento del 16 aprile 867 (n° 243, cod.

dip. lang.) porta: "Gnerulfus ministeriali domni Imperatori di

legge salica, per mezzo del giudice Pietro del fu Paolo, e del suo

vassallo Ercembaldo, stabilisce di elargire in elemosina i beni da

lui posseduti: "... tam in Valetelina iudicairia Mediolanensis et

in Casale iudiciaria Plumbiensis".

Essendo il termine "iudiciaria" una dizione longobardica

per le località che avevano una propria giurisdizione, è

accreditata da questo documento l'ipotesi

dell'esistenza del Ducato di Pombia (Gabotto "Per la

storia Novarese nell'Alto Medioevo - Ducati e Comitati", B.S.S.N.

1917 n° 1-2).

Tale termine fu poi usato nel periodo Franco per le

Contee rurali.

In un'altra carta, già da noi menzionata, troviamo:

“(17-7-885) Raginaldus Archidiaconus e Vicedominus sancte

novariensis ecclesie, figli bone memorie Rapaldi de castro

Plumbiae" dona alla Luminaria della Chiesa di Novara un campo in

Mergozzo.

Fra i testimoni figura "Madalberti qui beto vocatur filio

Ioannemperti de Plumbia - Luoni de Uuaralo".

Il re Berengario dà a Leone, Visdomino della Chiesa di

Novara, fra il 911 e il 915 la facoltà di costruire castelli in

propriis suis rebus finibus Plumbiensis Comitatus, in vocabulis

villulis in sunt Peronate, Terdoblade, Cammari ed Galliade; nello

stesso periodo dona alla Chiesa di S. Maria "mansos duos in villa

Nebbiola actenus pertinentes de Comitato Plumbiense, cum omni

eorum integritate" (Gabotto o.c.).

Successivamente nell'Aprile del 942, tale Arnaldo di

Biulaco lascia per testamento alla Chiesa di S. Maria al monte

sopra Varese, proprietà "in vico et fundo Cassiate Comitatum

Plumbiense" (Cod. Dip. Lang. Doc. 567).

Da queste carte si ha notizia diretta che fra il 911 e il

915 Pombia è già sede di Comitato, ma non compare sino ad ora

nessun Conte di Pombia.

Nel documento 70 delle Carte dell'Archivio Capitolare di

S. Maria in Novara, troviamo tal Elgerico del fu Manginardo,

Conte, che vende a Uberto, Vescovo di Parma, la metà di un suo

castello "in Comitato Plombiensis locus quae dicitur Meecia".

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TAV. IV - AGRO NOVARESE NEL MEDIO EVO

Carta ricopiata dalla carta geografica del Giulini contenuta

in “ Ager Mediolanensis Aevi”.

PARTE QUINTA

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V

SOMMARIO DI STORIA GENERALE ITALIANA

1-5 S M E M B R A M E N T O D E L S A C R O R O M A N O I M P

E R O

Per meglio inquadrare questo periodo e i successivi

occorre, a nostro avviso, dare un breve ragguaglio della storia

generale italiana.

Carlo Magno, sconfitti i Longobardi, divenuto signore

d'Italia, assoggettati Sassoni, Bavari, Longobardi e Slavi

ripristinò in parte l'Impero Romano d'occidente.

I suoi successori non riuscirono a conservare tale opera

e con la morte di Carlo il Grosso (888) l'impero si smembrò.

I tedeschi proclamarono re Arnolfo, duca di Carinzia, i

feudatari Italiani elessero re Berengario, duca del Friuli, il cui

dominio era limitato ai precedenti Ducati Longobardi.

Il suo regno è tribolato: la Chiesa tenta di far cingere

la corona al duca di Carinzia ma Berengario riesce a mantenerla

finché non è ucciso a tradimento a Verona nel 924.

Allora i feudatari eleggono re Ugo di Provenza, il quale,

ritirandosi dopo qualche anno, lascia come erede il figlio

Lotario, sotto la tutela di Berengario II, Marchese d'Ivrea.

Morto precocemente Lotario, Berengario II rimane l'unico

sovrano (950). A questi si associa il figlio Adalberto, cui

Berengario vorrebbe dare in sposa la vedova di Lotario, Adelaide,

che rifiutatasi e fatta prigioniera, riesce a fuggire e a chiedere

aiuto al re di Germania Ottone I.

Ottone scende in Italia, si porta a Pavia, dove sposa

Adelaide e con essa torna in Germania.

Berengario, che è fuggito d'innanzi a Ottone, tenta un

accordo dichiarandosi vassallo del tedesco.

I feudatari Italiani richiamano di nuovo Ottone che nel

961 rientra in Italia e a Pavia si fa proclamare re d'Italia.

A Pombia il 6-9-957, moriva forse di veleno Liutulfo,

figlio di Ottone, che era sceso in Italia a combattere Berengario

II (il Bascapè nell'opera "Novaria Sacra", ed. 1878, tradotta dal

Ravizza, ricorda che nel castello di Pombia c'era un sarcofago con

l'iscrizione: LITULPHUS), dopo averlo assediato e scacciato

dall'isola di San Giulio d'Orta.

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Berengario fuggì nella rocca di San Leo presso Urbino,

mentre la moglie, al sopraggiungere di Ottone, si rinchiudeva

nuovamente nell'isola si San Giulio d'Orta, ripresa, nel frattempo

dai partigiani di Berengario II. Nel 962 Ottone assedia l'isola,

la coraggiosa regina Willa gli resiste per ben settanta giorni,

poi si arrende ed è lasciata libera di raggiungere il marito che

nel frattempo si era rifugiato a Monte Feltro.

La lotta tra Berengario II da una parte e la chiesa con i

vescovi dall'altra aveva fatto sì che questi perdessero privilegi

e terre che in seguito Ottone I restituiva loro.

A Ottone I successe il figlio Ottone II (973-983) morto

giovane lasciando come successore Ottone III, morto a soli

ventidue anni.

L'improvvisa scomparsa del terzo Ottone offerse ai

feudatari Italiani la possibilità di una rivincita rivendicando

l'indipendenza del regno d'Italia.

Venne così eletto re d'Italia Arduino, Marchese d'Ivrea,

nell'anno 1004.

Questi era già molto noto per le sue lotte con i Vescovi

piemontesi.

L'Imperatore di Germania, Enrico II, chiamato dai Vescovi

calò in Italia costringendo Arduino, abbandonato da tutti nei

momenti di bisogno, a ritirarsi nei suoi feudi e si fece

incoronare a Pavia re d'Italia.

Ripartito Enrico II, egli riprese il potere per un

decennio (1004-1O14).

alla vittoria dei Tornielli furono poi distrutti (fra

questi i castelli di Borgosesia, Pombia, Revislate, e altri; -

Rizzo “Compendio di Storia Novarese”). Avido di vendette non ebbe

però forze sufficienti per fronteggiare i Vescovi e i Signori

laici, benché riuscisse a togliere molti privilegi e terre

specialmente ai primi.

Tornato Enrico verso la fine del 1013 il Marchese si

rinchiuse nelle sue rocche Canavesane finché stanco, ammalato,

impotente, rimasto solo ad affrontare la situazione, si ritirò nel

monastero della Fruttuaria ove morì nel 1015.

I suoi sostenitori rimasero così soli a lottare contro i

Vescovi, pure essendo certi di soccombere.

Con la morte di Enrico II (1024), fatto santo dalla

Chiesa, si estinse la casa di Sassonia e la corona passò con

Corrado II (1024-1039) alla casa di Franconia o Salica.

La potenza dei Vescovi-Conti, di nomina imperiale, era

divenuta enorme a danno dei grandi e piccoli feudatari laici.

Il loro massimo rappresentante fu Ariberto, Arcivescovo

di Milano che si fece nominare da Corrado II Vicario Imperiale.

A Corrado II successe Enrico III (1039-1056) poi Enrico

IV: durante questo periodo la spinta antifeudale dei comuni

nascenti cominciava a manifestarsi mentre ancora fervevano le

lotte per le investiture fra il Re e il Papato.

Con Enrico V (1106-1125) si arrivò al famoso concordato

di Worms (1122) con il quale il sovrano rinunciava a qualsiasi

ingerenza nell'elezione dei Papi e dei Vescovi, mentre il Papa

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riconosceva all'imperatore il diritto di dare ai Vescovi i feudi,

non con lo scettro ma con il pastorale.

2-5 N A S C I T A D E I C O M U N I

Nel periodo feudale i Vescovi-Conti governavano le città

e la loro giurisdizione si estendeva anche ai territori

circostanti, ove si trovavano i piccoli feudatari vassalli del

Vescovo.

Nelle numerose lotte di quel tempo i Vescovi-Conti sono

costretti a chiedere l'aiuto dei feudatari minori e del popolo per

costituire un vero e proprio esercito cittadino.

I feudatari, però, chiedono in cambio di cooperare nel

governo della città con la costituzione di un "Consiglio" degli

uomini più eminenti, presieduti da un Vice-Comes (Visconte) che

sostituisce il Vescovo nelle cose politiche e militari.

A poco a poco, queste nuove istituzioni prendono il

sopravvento e al vescovo, rimangono soltanto le mansioni di

carattere religioso.

Il governo cittadino diventa laico, regolare e mirante al

benessere di tutti: nasce così il Comune.

Compaiono i primi Consoli, i Podestà, i Capitani del

popolo e i Consigli. Sorgono le corporazioni delle industrie,

dell’artigianato e del commercio.

In una parola ci si avvia verso una nuova era.

Il Comune, sorto con intento di sostituirsi al

feudalesimo, era riuscito a imporsi, o quasi, nell’Italia

settentrionale.

Sostituitosi ai feudatari nel godimento delle terre, si

trovò ad assumere una posizione di rottura nei confronti

dell’Imperatore, che, per diritto feudale aveva la prerogativa di

imporre balzelli, nominare magistrati, ecc.

3-5 G U E L F I E G H I B E L L I N I

I Comuni avevano avuto modo di raggiungere tale

condizione anche poiché l’Imperatore era sconvolto della rivalità

di due grandi Case in lizza per il trono: la Casa di Svevia o di

Honenstaufen i cui seguaci erano detti Ghibellini, dal castello di

Waiblinghen, e la Casa di Sassonia, che, da Welf, fondatore della

casa di Baviera, era chiamata Guelfa.

In Italia, invece, i partigiani della Casa di Svevia, che

combatteva i Comuni e il Papa erano i Ghibellini, i Guelfi erano i

sostenitori dei Comuni e della Chiesa.

4-5 I L B A R B A R O S S A L O T T A T R A C O M U N I E L

’ I M P E R A-

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T O R E

Nel 1152, in Germania, le lotte dinastiche cessarono con

l’ascesa al trono di Federico di Svevia, “IL BARBAROSSA”,

ghibellino.

L’ambizione di Federico è grande, vorrebbe restaurare

l’autorità imperiale in Italia, dove fra i liberi Comuni primeggia

Milano, tanto potente da minacciare il Marchese del Monferrato,

fautore dell’Imperatore.

Nel 1154 Federico scende in Italia per rivendicare i

diritti Imperiali: Milano si oppone ed è messa al bando. Incendia

Chieri, Asti e distrugge Tortona, Trecate e Galliate, alleate di

Milano, poi, a Pavia, assume la corona di Re d’Italia e

successivamente a Roma, il 18 giugno 1155, riceve dal Papa la

corona Imperiale.

Tornato in Germania, Milano si riprende, ricostruisce

Tortona e apre la lotta contro le città ghibelline.

Nell’estate del 1158 il Barbarossa è di nuovo in Italia,

a lui si uniscono le ghibelline Lodi, Como, Pavia e Cremona.

Assediato Milano, questa è costretta alla resa, poi

Federico, a Roncaglia, dichiara di non riconoscere le usurpazioni

dei Comuni.

Nella città invia podestà imperiali, ma i Comuni, Milano

in testa, si rivoltano e scacciano i podestà.

Allora Federico distrugge Crema, si precipita su Milano,

la assedia e la fa distruggere, nel 1162, dai Pavesi e Cremonesi,

quindi rientra in Germania.

La rivolta contro l’imperatore è ormai in atto, Milano

risorge, le rivalità scompaiono e i rappresentanti dei grandi

Comuni Veneto-Lombardi a Pontida fondano la Lega Lombarda cui

aderiscono i Comuni dell’Emilia e del Piemonte (fra cui Novara).

Per tagliare la via fra il Marchese del Monferrato e

Pavia, ghibelline più che mai, la Lega Lombarda fonda la città di

Alessandria.

Nel 1174 Federico è di nuovo in Italia, devasta la

Lombardia, e dopo un assedio di sei mesi prende Alessandria, ma a

Legnano il 29 maggio 1176 è sconfitto in maniera disastrosa dalla

Lega Lombarda.

Nel 1177 a Venezia firma col Papa e con i delegati dei

Comuni una tregua di sei anni, mentre nel 1183, col trattato di

Costanza, riconosce i diritti dei Comuni a patto che questi

riconoscano l’autorità Imperiale.

Non ci dilungheremo oltre in questa cronologia storica,

diremo soltanto che la lotta fra i Comuni e gli Imperatori

continuò con alterne vicende.

Ricorderemo Federico II, figlio del Barbarossa, celebre

per le sue dispute con la Chiesa; Lodovico di Baviera, il Bavaro,

Imperatore dal 1327 al 1347 e Giovanni di Boemia che fra il 1330 e

il 1333, anno del suo ritorno in Boemia, era divenuto Signore di

molte città, fra cui Novara, Pavia e Vercelli.

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5-5 L E S I G N O R I E I V I S C O N T I

I Comuni ormai avevano fatto il loro tempo: a essi

subentrarono le Signorie, sorta di dittature ereditarie che

riconoscevano la sovranità dell’Imperatore.

L’istituzione Comunale perse di importanza politica

riducendosi a semplice organismo amministrativo.

A Milano come capi-popolo primeggiavano i Torriani,

guelfi, contro i quali si posero i Visconti, ghibellini, assurti a

grande potenza.

Dal 1240 al 1277 prevalsero i Torriani, ma a Desio in

quell’anno l’Arcivescovo Ottone Visconti sconfisse Napoleone Della

Torre, facendolo poi morire barbaramente in gabbia, esposto al

pubblico ludibrio.

Secondo il Bascapè nel 1275 Ottone Visconti occupò Pombia

e il suo castello che sembra fosse stato tolto precedentemente dai

Torriani alla Chiesa di Novara.

Matteo Visconti, figlio di Ottone, fu poi espulso dalla

città dai Torriani, ma nel 1311 riuscì ad avere il sopravvento e a

stabilire definitivamente la Signoria Viscontea.

Prima di essere Arcivescovo di Milano, Ottone Visconti fu

Podestà di Novara nel 1260 e canonico della Cattedrale nel 1261.

A Novara intorno al 1310 le lotte fra i Sanguigni

(famiglia Brusati) e i Rotondi (famiglia Tornielli) sfociarono

nella cacciata dei Sanguigni dalla città che si rifugiarono nei

loro castelli che, in seguito alla vittoria dei Tornielli furono

poi distrutti (fra questi i castelli di Borgosesia, Pombia,

Revislate, e altri; - Rizzo “Compendio di Storia Novarese”).

Approfittando delle lotte fra le fazioni Novaresi,

essendo morto nel 1329 il Vescovo Uguccione Borromeo, gli successe

Giovanni Visconti figlio di Matteo.

Prima di essere Vescovo, Giovanni Visconti era stato

nominato Cardinale dall’antipapa Nicolò V, creato da Ludovico il

Bavaro.

Al rientro in Germania di Ludovico, Il Visconti si

rappacificò col Papa, dal quale fu nominato Vescovo di Novara.

Resi impotenti i capi delle fazioni rivali Novaresi con

uno stratagemma, intenzionato a ripristinare l’autorità del

Vescovo sulle terre Novaresi e di Pombia, il Visconti unì questi

territori a quelli già appartenenti alla sua famiglia.

Il Papa che approvava il suo operato, lo fece

amministratore della Diocesi di Milano e nel 1342 Arcivescovo.

Passata sotto la Diocesi di Milano, Novara e il contado

rimasero sotto la Signoria dei Visconti.

L’apogeo dei Visconti si ebbe con Gian Galeazzo che nel

1395 ottiene dall’Imperatore il titolo di Duca di Milano.

Nelle lotte fra Gian Galeazzo e il Marchese del

Monferrato che nel 1356 aveva occupato Novara e posto un

castellano a Pombia (Bascapè o.c.), il Visconti nel 1958 recuperò

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Novara e per ripagarsi incendiò e distrusse borghi e villaggi fra

cui Pombia e Varallo Pombia (Bascapè o.c. - Giovannetti “Le risaie

Novaresi”).

Per non dilungarsi troppo, facciamo un bel balzo in

avanti e vediamo che nel 1450, a Milano, prende il sopravvento

Francesco Sforza.

6-5 G L I S F O R Z A - L A D O M I N A Z I O N E F R A N C

E S E

A Francesco Sforza successe fraudolentemente Ludovico il

Moro al quale si attribuisce la responsabilità di avere nuovamente

data l’Italia allo straniero.

Infatti, nel 1494 Carlo VIII di Francia scendeva in

Italia, invitato dal Moro che temeva la vendetta del Re di Napoli,

Ludovico, infatti, si era impadronito del Ducato dopo avere ucciso

Galeazzo Maria Sforza, suo fratello, e rinchiuso il figlio di

questi nel castello di Pavia.

In seguito ad alterne vicende i principi Italiani

sconfissero a Fornovo (8 luglio 1495) Carlo VIII.

Luigi XII, re di Francia, poiché accampava pretese di

successione sul ducato dei Visconti, d’accordo con i Veneziani,

dopo avere messo in fuga Ludovico il Moro, si impadronì di Milano.

Il Moro tentò la riconquista del ducato, ma il francese

corrompe i mercenari di Ludovico, e quando a Novara i due eserciti

si incontrarono non si combatterono e il Moro abbandonato fu fatto

prigioniero e portato a morire in Francia.

Per opera di Papa Giulio II, promotore con i Veneziani e

Spagnoli della Lega Santa, i Francesi dovettero abbandonare

l’Italia.

Il ducato di Milano venne, quindi, assegnato a

Massimiliano Sforza, figlio del Moro, ma sotto la tutela della

Spagna.

Nel 1515 Francesco I re di Francia, succeduto a Luigi

XVI, rivendicando diritti su Milano se ne impadronisce (battaglia

di Melegnano).

Carlo V, re di Spagna, Imperatore d’Austria, re di

Napoli, in lotta con la Francia per il predominio in Europa, nel

1521 scaccia i Francesi dal Ducato di Milano e vi insedia l’ultimo

dei figli del Moro: Francesco Maria.

Verso la fine del 1523 un nuovo esercito francese scende

in Italia e rioccupa parte della Lombardia, ma l’esercito del

Borbone lo ricaccia di là del Ticino e il 30 aprile 1524, a

Romagnano Sesia, sconfigge i Francesi.

Francesco I non cede, ma, successivamente, a Pavia, fra

il Ticino e il Po, è sconfitto e fatto prigioniero.

Morto l’ultimo Sforza, Carlo V rivendicò la successione

del ducato di Milano.

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7-5 L A D O M I N A Z I O N S P A G N O L A

Ha così inizio la dominazione Spagnola: in questo periodo

il Novarese è tormentato dalla continua lotta fra i Francesi e

Carlo V fino a quando quest’ultimo non ne rimase l’assoluto

dominatore.

Carlo V cede il Novarese a Pier Luigi Farnese, nipote di

Paolo III.

Assassinato il Farnese, morto Paolo III, il Marchesato di

Novara passa a un certo Dal Monte, nipote di Giulio III.

La Francia ne trae occasione per riprendere le ostilità

che cessano solamente con la morte del Dal Monte. Con la “Pace di

Castel Cambresis” del 1559 si consolidò il predominio Spagnolo

sull’Italia.

Il Ducato di Milano si estendeva dall’Adda al Sesia.

Il dominio Spagnolo fu dannoso per l’Italia: il disordine

amministrativo, l’intollerabile contegno di una nobiltà

debilitata, il pesantissimo aggravio fiscale, la terribile miseria

e l’ignoranza sono gli effetti di tale dominazione.

In questo clima scoppiarono rivolte sempre soffocate

dagli Spagnoli, mentre i Signori, i Nobili favorivano il padrone

Spagnolo.

La dominazione Spagnola in Italia durò fino alla Pace di

Utrecht-Rastad (1713-1714) e a essa subentrò la dominazione

Austriaca.

Finalmente con gli accordi di Vienna del 3 ottobre 1735 e

ancora con quelli di Vienna del 1 novembre 1738, Novara, fino al

Ticino, era annessa al Regno Sabaudo.

Con il trattato di Worms del 13 settembre 1743 passava al

Re di Sardegna l’Alto Novarese e il Vigevanese. Si formava così la

provincia novarese comprendente la Lomellina, il Vigevanese, la

bassa e alta Ossola, il Lago Maggiore e la riviera di Orta cui

rinunciavano i Vescovi il 3 giugno 1777, e parte della Valsesia.

1-5 S M E M B R A M E N T O D E L S A C R O R O M A N O I M

P E R O

Per meglio inquadrare questo periodo e i successivi

occorre, a nostro avviso, dare un breve ragguaglio della storia

generale italiana.

Carlo Magno, sconfitti i Longobardi, divenuto signore

d'Italia, assoggettati Sassoni, Bavari, Longobardi e Slavi

ripristinò in parte l'Impero Romano d'occidente.

I suoi successori non riuscirono a conservare tale opera

e con la morte di Carlo il Grosso (888) l'impero si smembrò.

Page 11: Il primo Visconte di Pombia si trova nell’ 841 (Ved. Le · combatteva i Comuni e il Papa erano i Ghibellini, i Guelfi erano i ... T O R E Nel 1152, in Germania, le lotte ... Ricorderemo

I tedeschi proclamarono re Arnolfo, duca di Carinzia, i

feudatari Italiani elessero re Berengario, duca del Friuli, il cui

dominio era limitato ai precedenti Ducati Longobardi.

Il suo regno è tribolato: la Chiesa tenta di far cingere

la corona al duca di Carinzia ma Berengario riesce a mantenerla

finché non è ucciso a tradimento a Verona nel 924.

Allora i feudatari eleggono re Ugo di Provenza, il quale,

ritirandosi dopo qualche anno, lascia come erede il figlio

Lotario, sotto la tutela di Berengario II, Marchese d'Ivrea.

Morto precocemente Lotario, Berengario II rimane l'unico

sovrano (950). A questi si associa il figlio Adalberto, cui

Berengario vorrebbe dare in sposa la vedova di Lotario, Adelaide,

che rifiutatasi e fatta prigioniera, riesce a fuggire e a chiedere

aiuto al re di Germania Ottone I.

Ottone scende in Italia, si porta a Pavia, dove sposa

Adelaide e con essa torna in Germania.

Berengario, che è fuggito d'innanzi a Ottone, tenta un

accordo dichiarandosi vassallo del tedesco.

I feudatari Italiani richiamano di nuovo Ottone che nel

961 rientra in Italia e a Pavia si fa proclamare re d'Italia.

A Pombia il 6-9-957, moriva forse di veleno Liutulfo,

figlio di Ottone, che era sceso in Italia a combattere Berengario

II (il Bascapè nell'opera "Novaria Sacra", ed. 1878, tradotta dal

Ravizza, ricorda che nel castello di Pombia c'era un sarcofago con

l'iscrizione: LITULPHUS), dopo averlo assediato e scacciato

dall'isola di San Giulio d'Orta.

Berengario fuggì nella rocca di San Leo presso Urbino,

mentre la moglie, al sopraggiungere di Ottone, si rinchiudeva

nuovamente nell'isola si San Giulio d'Orta, ripresa, nel frattempo

dai partigiani di Berengario II. Nel 962 Ottone assedia l'isola,

la coraggiosa regina Willa gli resiste per ben settanta giorni,

poi si arrende ed è lasciata libera di raggiungere il marito che

nel frattempo si era rifugiato a Monte Feltro.

La lotta tra Berengario II da una parte e la chiesa con i

vescovi dall'altra aveva fatto sì che questi perdessero privilegi

e terre che in seguito Ottone I restituiva loro.

A Ottone I successe il figlio Ottone II (973-983) morto

giovane lasciando come successore Ottone III, morto a soli

ventidue anni.

L'improvvisa scomparsa del terzo Ottone offerse ai

feudatari Italiani la possibilità di una rivincita rivendicando

l'indipendenza del regno d'Italia.

Venne così eletto re d'Italia Arduino, Marchese d'Ivrea,

nell'anno 1004.

Questi era già molto noto per le sue lotte con i Vescovi

piemontesi.

L'Imperatore di Germania, Enrico II, chiamato dai Vescovi

calò in Italia costringendo Arduino, abbandonato da tutti nei

momenti di bisogno, a ritirarsi nei suoi feudi e si fece

incoronare a Pavia re d'Italia.

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Ripartito Enrico II, egli riprese il potere per un

decennio (1004-1O14).

Avido di vendette non ebbe però forze sufficienti per

fronteggiare i Vescovi e i Signori laici, benché riuscisse a

togliere molti privilegi e terre specialmente ai primi.

Tornato Enrico verso la fine del 1013 il Marchese si

rinchiuse nelle sue rocche Canavesane finché stanco, ammalato,

impotente, rimasto solo ad affrontare la situazione, si ritirò nel

monastero della Fruttuaria ove morì nel 1015.

I suoi sostenitori rimasero così soli a lottare contro i

Vescovi, pure essendo certi di soccombere.

Con la morte di Enrico II (1024), fatto santo dalla

Chiesa, si estinse la casa di Sassonia e la corona passò con

Corrado II (1024-1039) alla casa di Franconia o Salica.

La potenza dei Vescovi-Conti, di nomina imperiale, era

divenuta enorme a danno dei grandi e piccoli feudatari laici.

Il loro massimo rappresentante fu Ariberto, Arcivescovo

di Milano che si fece nominare da Corrado II Vicario Imperiale.

A Corrado II successe Enrico III (1039-1056) poi Enrico

IV: durante questo periodo la spinta antifeudale dei comuni

nascenti cominciava a manifestarsi mentre ancora fervevano le

lotte per le investiture fra il Re e il Papato.

Con Enrico V (1106-1125) si arrivò al famoso concordato

di Worms (1122) con il quale il sovrano rinunciava a qualsiasi

ingerenza nell'elezione dei Papi e dei Vescovi, mentre il Papa

riconosceva all'imperatore il diritto di dare ai Vescovi i feudi,

non con lo scettro ma con il pastorale.

2-5 N A S C I T A D E I C O M U N I

Nel periodo feudale i Vescovi-Conti governavano le città

e la loro giurisdizione si estendeva anche ai territori

circostanti, ove si trovavano i piccoli feudatari vassalli del

Vescovo.

Nelle numerose lotte di quel tempo i Vescovi-Conti sono

costretti a chiedere l'aiuto dei feudatari minori e del popolo per

costituire un vero e proprio esercito cittadino.

I feudatari, però, chiedono in cambio di cooperare nel

governo della città con la costituzione di un "Consiglio" degli

uomini più eminenti, presieduti da un Vice-Comes (Visconte) che

sostituisce il Vescovo nelle cose politiche e militari.

A poco a poco, queste nuove istituzioni prendono il

sopravvento e al vescovo, rimangono soltanto le mansioni di

carattere religioso.

Il governo cittadino diventa laico, regolare e mirante al

benessere di tutti: nasce così il Comune.

Compaiono i primi Consoli, i Podestà, i Capitani del

popolo e i Consigli. Sorgono le corporazioni delle industrie,

dell’artigianato e del commercio.

In una parola ci si avvia verso una nuova era.

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Il Comune, sorto con intento di sostituirsi al

feudalesimo, era riuscito a imporsi, o quasi, nell’Italia

settentrionale.

Sostituitosi ai feudatari nel godimento delle terre, si

trovò ad assumere una posizione di rottura nei confronti

dell’Imperatore, che, per diritto feudale aveva la prerogativa di

imporre balzelli, nominare magistrati, ecc.

3-5 G U E L F I E G H I B E L L I N I

I Comuni avevano avuto modo di raggiungere tale

condizione anche poiché l’Imperatore era sconvolto della rivalità

di due grandi Case in lizza per il trono: la Casa di Svevia o di

Honenstaufen i cui seguaci erano detti Ghibellini, dal castello di

Waiblinghen, e la Casa di Sassonia, che, da Welf, fondatore della

casa di Baviera, era chiamata Guelfa.

In Italia, invece, i partigiani della Casa di Svevia, che

combatteva i Comuni e il Papa erano i Ghibellini, i Guelfi erano i

sostenitori dei Comuni e della Chiesa.

4-5 I L B A R B A R O S S A L O T T A T R A C O M U N I

E L ’ I M P E- R A T O R E

Nel 1152, in Germania, le lotte dinastiche cessarono con

l’ascesa al trono di Federico di Svevia, “IL BARBAROSSA”,

ghibellino.

L’ambizione di Federico è grande, vorrebbe restaurare

l’autorità imperiale in Italia, dove fra i liberi Comuni primeggia

Milano, tanto potente da minacciare il Marchese del Monferrato,

fautore dell’Imperatore.

Nel 1154 Federico scende in Italia per rivendicare i

diritti Imperiali: Milano si oppone ed è messa al bando. Incendia

Chieri, Asti e distrugge Tortona, Trecate e Galliate, alleate di

Milano, poi, a Pavia, assume la corona di Re d’Italia e

successivamente a Roma, il 18 giugno 1155, riceve dal Papa la

corona Imperiale.

Tornato in Germania, Milano si riprende, ricostruisce

Tortona e apre la lotta contro le città ghibelline.

Nell’estate del 1158 il Barbarossa è di nuovo in Italia,

a lui si uniscono le ghibelline Lodi, Como, Pavia e Cremona.

Assediato Milano, questa è costretta alla resa, poi

Federico, a Roncaglia, dichiara di non riconoscere le usurpazioni

dei Comuni.

Nella città invia podestà imperiali, ma i Comuni, Milano

in testa, si rivoltano e scacciano i podestà.

Allora Federico distrugge Crema, si precipita su Milano,

la assedia e la fa distruggere, nel 1162, dai Pavesi e Cremonesi,

quindi rientra in Germania.

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La rivolta contro l’imperatore è ormai in atto, Milano

risorge, le rivalità scompaiono e i rappresentanti dei grandi

Comuni Veneto-Lombardi a Pontida fondano la Lega Lombarda cui

aderiscono i Comuni dell’Emilia e del Piemonte (fra cui Novara).

Per tagliare la via fra il Marchese del Monferrato e

Pavia, ghibelline più che mai, la Lega Lombarda fonda la città di

Alessandria.

Nel 1174 Federico è di nuovo in Italia, devasta la

Lombardia, e dopo un assedio di sei mesi prende Alessandria, ma a

Legnano il 29 maggio 1176 è sconfitto in maniera disastrosa dalla

Lega Lombarda.

Nel 1177 a Venezia firma col Papa e con i delegati dei

Comuni una tregua di sei anni, mentre nel 1183, col trattato di

Costanza, riconosce i diritti dei Comuni a patto che questi

riconoscano l’autorità Imperiale.

Non ci dilungheremo oltre in questa cronologia storica,

diremo soltanto che la lotta fra i Comuni e gli Imperatori

continuò con alterne vicende.

Ricorderemo Federico II, figlio del Barbarossa, celebre

per le sue dispute con la Chiesa; Lodovico di Baviera, il Bavaro,

Imperatore dal 1327 al 1347 e Giovanni di Boemia che fra il 1330 e

il 1333, anno del suo ritorno in Boemia, era divenuto Signore di

molte città, fra cui Novara, Pavia e Vercelli.

5-5 L E S I G N O R I E I V I S C O N T I

I Comuni ormai avevano fatto il loro tempo: a essi

subentrarono le Signorie, sorta di dittature ereditarie che

riconoscevano la sovranità dell’Imperatore.

L’istituzione Comunale perse di importanza politica

riducendosi a semplice organismo amministrativo.

A Milano come capi-popolo primeggiavano i Torriani,

guelfi, contro i quali si posero i Visconti, ghibellini, assurti a

grande potenza.

Dal 1240 al 1277 prevalsero i Torriani, ma a Desio in

quell’anno l’Arcivescovo Ottone Visconti sconfisse Napoleone Della

Torre, facendolo poi morire barbaramente in gabbia, esposto al

pubblico ludibrio.

Secondo il Bascapè nel 1275 Ottone Visconti occupò Pombia

e il suo castello che sembra fosse stato tolto precedentemente dai

Torriani alla Chiesa di Novara.

Matteo Visconti, figlio di Ottone, fu poi espulso dalla

città dai Torriani, ma nel 1311 riuscì ad avere il sopravvento e a

stabilire definitivamente la Signoria Viscontea.

Prima di essere Arcivescovo di Milano, Ottone Visconti fu

Podestà di Novara nel 1260 e canonico della Cattedrale nel 1261.

A Novara intorno al 1310 le lotte fra i Sanguigni

(famiglia Brusati) e i Rotondi (famiglia Tornielli) sfociarono

nella cacciata dei Sanguigni dalla città che si rifugiarono nei

loro castelli che, in seguito

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Approfittando delle lotte fra le fazioni Novaresi,

essendo morto nel 1329 il Vescovo Uguccione Borromeo, gli successe

Giovanni Visconti figlio di Matteo.

Prima di essere Vescovo, Giovanni Visconti era stato

nominato Cardinale dall’antipapa Nicolò V, creato da Ludovico il

Bavaro.

Al rientro in Germania di Ludovico, Il Visconti si

rappacificò col Papa, dal quale fu nominato Vescovo di Novara.

Resi impotenti i capi delle fazioni rivali Novaresi con

uno stratagemma, intenzionato a ripristinare l’autorità del

Vescovo sulle terre Novaresi e di Pombia, il Visconti unì questi

territori a quelli già appartenenti alla sua famiglia.

Il Papa che approvava il suo operato, lo fece

amministratore della Diocesi di Milano e nel 1342 Arcivescovo.

Passata sotto la Diocesi di Milano, Novara e il contado

rimasero sotto la Signoria dei Visconti.

L’apogeo dei Visconti si ebbe con Gian Galeazzo che nel

1395 ottiene dall’Imperatore il titolo di Duca di Milano.

Nelle lotte fra Gian Galeazzo e il Marchese del

Monferrato che nel 1356 aveva occupato Novara e posto un

castellano a Pombia (Bascapè o.c.), il Visconti nel 1958 recuperò

Novara e per ripagarsi incendiò e distrusse borghi e villaggi fra

cui Pombia e Varallo Pombia (Bascapè o.c. - Giovannetti “Le risaie

Novaresi”).

Per non dilungarsi troppo, facciamo un bel balzo in

avanti e vediamo che nel 1450, a Milano, prende il sopravvento

Francesco Sforza.

6-5 G L I S F O R Z A - L A D O M I N A Z I O N E F R A N

C E S E

A Francesco Sforza successe fraudolentemente Ludovico il

Moro al quale si attribuisce la responsabilità di avere nuovamente

data l’Italia allo straniero.

Infatti, nel 1494 Carlo VIII di Francia scendeva in

Italia, invitato dal Moro che temeva la vendetta del Re di Napoli,

Ludovico, infatti, si era impadronito del Ducato dopo avere ucciso

Galeazzo Maria Sforza, suo fratello, e rinchiuso il figlio di

questi nel castello di Pavia.

In seguito ad alterne vicende i principi Italiani

sconfissero a Fornovo (8 luglio 1495) Carlo VIII.

Luigi XII, re di Francia, poiché accampava pretese di

successione sul ducato dei Visconti, d’accordo con i Veneziani,

dopo avere messo in fuga Ludovico il Moro, si impadronì di Milano.

Il Moro tentò la riconquista del ducato, ma il francese

corrompe i mercenari di Ludovico, e quando a Novara i due eserciti

si incontrarono non si combatterono e il Moro abbandonato fu fatto

prigioniero e portato a morire in Francia.

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Per opera di Papa Giulio II, promotore con i Veneziani e

Spagnoli della Lega Santa, i Francesi dovettero abbandonare

l’Italia.

Il ducato di Milano venne, quindi, assegnato a

Massimiliano Sforza, figlio del Moro, ma sotto la tutela della

Spagna.

Nel 1515 Francesco I re di Francia, succeduto a Luigi

XVI, rivendicando diritti su Milano se ne impadronisce (battaglia

di Melegnano).

Carlo V, re di Spagna, Imperatore d’Austria, re di

Napoli, in lotta con la Francia per il predominio in Europa, nel

1521 scaccia i Francesi dal Ducato di Milano e vi insedia l’ultimo

dei figli del Moro: Francesco Maria.

Verso la fine del 1523 un nuovo esercito francese scende

in Italia e rioccupa parte della Lombardia, ma l’esercito del

Borbone lo ricaccia di là del Ticino e il 30 aprile 1524, a

Romagnano Sesia, sconfigge i Francesi.

Francesco I non cede, ma, successivamente, a Pavia, fra

il Ticino e il Po, è sconfitto e fatto prigioniero.

Morto l’ultimo Sforza, Carlo V rivendicò la successione

del ducato di Milano.

7-5 L A D O M I N A Z I O N E S P A G N O L A

Ha così inizio la dominazione Spagnola: in questo periodo

il Novarese è tormentato dalla continua lotta fra i Francesi e

Carlo V fino a quando quest’ultimo non ne rimase l’assoluto

dominatore.

Carlo V cede il Novarese a Pier Luigi Farnese, nipote di

Paolo III.

Assassinato il Farnese, morto Paolo III, il Marchesato di

Novara passa a un certo Dal Monte, nipote di Giulio III.

La Francia ne trae occasione per riprendere le ostilità

che cessano solamente con la morte del Dal Monte. Con la “Pace di

Castel Cambresis” del 1559 si consolidò il predominio Spagnolo

sull’Italia.

Il Ducato di Milano si estendeva dall’Adda al Sesia.

Il dominio Spagnolo fu dannoso per l’Italia: il disordine

amministrativo, l’intollerabile contegno di una nobiltà

debilitata, il pesantissimo aggravio fiscale, la terribile miseria

e l’ignoranza sono gli effetti di tale dominazione.

In questo clima scoppiarono rivolte sempre soffocate

dagli Spagnoli, mentre i Signori, i Nobili favorivano il padrone

Spagnolo.

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La dominazione Spagnola in Italia durò fino alla Pace di

Utrecht-Rastad (1713-1714) e a essa subentrò la dominazione

Austriaca.

Finalmente con gli accordi di Vienna del 3 ottobre 1735 e

ancora con quelli di Vienna del 1 novembre 1738, Novara, fino al

Ticino, era annessa al Regno Sabaudo.

Con il trattato di Worms del 13 settembre 1743 passava al

Re di Sardegna l’Alto Novarese e il Vigevanese. Si formava così la

provincia novarese

comprendente la Lomellina, il Vigevanese, la bassa e alta Ossola,

il Lago Maggiore e la riviera di Orta cui rinunciavano i Vescovi

il 3 giugno 1777, e parte della Valsesia.

V PARTE SESTA

VARALLO P. LEGATO AL CONTADO DI POMBIA

1-6 I C O N T I D I P O M B I A

Nel diploma del 29 luglio 962 (C.A.S.M. di Novara) doc.

54, l’Imperatore Ottone I restituì alla Chiesa di Novara il

Castello di San Giulio che Berengario II le aveva tolto, donando

anche: “Quosdam res nostro iuri et dominatione actenus subiectas

infra Comitatum Plumbiensen coniacentes, hoc est curtes duas

Barazzolam et Aggredade”.

In altra carta, doc. 56, compare Adalberto Conte di

Pombia (4-11-962), “Adalbertus comes Comitatu huius Plumbiensis”.

Il Gabotto (o.c.) sostiene che il Conte Adalberto sia un

discendente del Marchese di Ivrea Ascanio I, forse suo zio.

Nell’atto di permuta, doc. 58; fra Apualdo Vescovo di

Novara e certo Dagiprando di Galliate (marzo 965) figura un altro

Conte di altra casata: “Uuiberti filius quodam Angelbertj de loco

Plumbia testis” .

Ancora nella carta dell’Aprile 963, doc. 63, dove

Apualdo, Vescovo di Novara, permuta beni in territorio di

Conturbia con Anginone, si legge: “In eodem loco et fundo Plumbia

dicitur a Lentjglaria coerjt ej da duas partes Dadonis comes”.

Dadone, come dice il Gabotto, è il Conte del Comitato

Pombiese: e, inoltre, è padre di Arduino re d’Italia e di Guiberto

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che successe ad Adalberto (ma per il momento non entriamo nella

complicata questione della parentela tuttora in discussione).

Nel doc. 103, del 28 novembre 991, compaiono altri figli

di Dadone: “... nobis qui supra Ubertus comes et Uualbertus

clericus germanis tollere presumat usque e uiginti”.

Nel Cod. Dip. long. abbiamo prova di quanto sopra: in

data 10 agosto 1000, in Ghemme, Guibertus, Comes filius bone

memorie Dadoni, vende a prete Bornone in fundo et loco Bunio.

Nel diploma di Ottone III, dato a Pavia, del 14 ottobre

1001, interviene anche “Wibertus comes filius bone memorie Dadonis

itemque comitis”. (Gabotto o.c.)

Dopo il 1000, signore di Pombia appare Uberto o Giuberto

che, come Conte, agisce anche in Novara ed è sempre della stirpe

di Dadone.

Caduto Arduino, re d’Italia, i Vescovi cominciarono a

vendicarsi dei presunti torti subiti.

Infatti, il 10 giugno 1025 l’Imperatore Corrado, il

Salico, concedeva al Vescovo di Novara, Pietro III l’intero

Comitato di Pombia, ma gli eredi di Guiberto, per alcuni decenni,

furono i veri padroni della Contea.

La prova di ciò si ha nel fatto che il 4 luglio 1034 il

Conte Adalberto del fu Uberto stando in Stodegarda, nel Comitato

di Pombia, permuta dei beni. (Muratori R. A. M. E. tomo II)

La casata dei Conti di Pombia si divise poi in tre rami:

quello del Canavese, quello di Biandrate e infine quello

Piacentino.

Nominato Vescovo di Novara Riprando, parente dei Conti di

Pombia, la contesa naturalmente s’acquietò (1039-1053) per non

toccare e ledere i beni di famiglia.

2-6 L A C O N T E A D I P O M B I A

Le origini di Pombia e di Varallo Pombia sono

antichissime; archeologicamente sono comprese nell’area della

Civiltà di Golasecca.

Subentrati i Romani, verso la fine dell’impero, Pombia

era Municipio con il titolo di Civitas. E’ presumibile che anche

Varallo rivestisse notevole importanza come lo testimoniano la

lapide e il tempio dedicati a Nettuno.

Perché Pombia fosse diventata Municipio nessuno storico

lo dice: l’unica traccia è rappresentata dagli scritti

dell’Anonimo Ravennate e di Guido. La sua costituzione a Municipio

è comunque provata dalla successiva trasformazione, per merito dei

Longobardi, in Ducato, e in seguito a sede comitale.

Riteniamo che la felice posizione geografica di Pombia –

facile alla difesa, la vicinanza del Ticino e delle vie consolari,

il castrum che presumibilmente vi sorgeva - e per ragioni di

carattere politico e militare abbiano giocato un ruolo

determinante per la sua creazione a Municipio, dopo l’ordinamento

della “Lex Iulia Municipalis”.

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Pombia e Varallo, anche se geograficamente distanti un

paio di chilometri, erano un tutt’uno nell’ambito politico e tali

rimasero per parecchi secoli.

Il termine “Municipio” non deve essere inteso nel

significato moderno del termine, bensì come una circoscrizione

territoriale comprendente diversi borghi sui quali la

giurisdizione spettava al borgo predominante insignito del titolo.

Con i Longobardi le circoscrizioni Romane Novaresi

(Novaria, Plumbia, Laumellum, Staziona e Oxilla) non subirono

modifiche e furono trasformate in “Ducati” e in seguito in

“Gastaldati”. Si spostarono temporaneamente solamente i centri di

due Municipi e si ebbe così i Ducati di San Giulio d’Orta,

Bulgaria, Pombia e Lomello; per Ossola gli storici sono incerti.

Caduti i Longobardi (773 d.C.) i Franchi trasformarono i

Ducati in Comitati: si ebbe così la Contea di Pombia, di Bulgaria,

di Lomello, di Orta-Stazzona, di Ossola.

Inoltre fra il Sesia e l’Agogna si insediava il piccolo

comitato di Fontaneto, che in seguito fu assorbito dai comitati

maggiori.

In pratica che cos’era questa contesissima Contea di

Pombia?

Il Duranti (Alpi Graie e Pennine) e il Giulini (Memorie

della città di Milano e della campagna nei secoli bassi) dicono

che la Contea di Pombia comprendeva, fra l’altro, Varallo Pombia,

Conturbia, Divignano, Revislate, Agrate, Mezzomerico, Cressa,

Suno, Vaprio, Momo, Alzate, Caltignaga, Oleggio, Bellinzago,

Dulzago, Cavagliano, Cameri e forse anche Bornate, Galliate,

Terdobbiate, Trecate, Olengo, Vespolate, Nibbiola, Stodegarda.

Una prova che quest’ultima località appartenesse al

Comitato di Pombia si ha nella carta prima citata del 4-7-1034.

Questa Contea, quindi, era un grande e ricco possedimento

che avrebbe destato invidia a chiunque, soprattutto perché posto

in una felice posizione geografica, politica ed economica.

Ne erano proprietari i Marchesi d’Ivrea da cui sortì

Arduino, che fu poi l’unico re d’Italia italiano fra tanti

stranieri fino all’avvento dei Savoia.

La Marca d’Ivrea, nel novarese, da Carlo Magno in poi,

comprendeva cinque comitati: Bulgaro, Pombia, Fontaneto, San

Giulio d’Orta-Stazzona e Ossola, oltre ai limitrofi comitati

d’Ivrea, Santhià, Vercelli e Lomello.

Fra le genti Longobardiche stanziatesi nel Novarese, come

attesta P. Diacono, molti furono i Bulgari, dai quali derivarono i

nomi di Bulgarum (Borgovercelli) e Bulgaria (Borgolavezzaro). Da

qui prese il nome il Comitato di Bulgaro o di Bulgaria, come

appare nel documento 65 delle Carte dell’Archivio di Santa Maria,

del 18-6-969, di Ottone, dove si legge: “… coniacentes infra

Regnum Italicum in Comitatibus uidilicet Bulgariensis,

Laumellensi, Plumbiensi, Mediolanensi…” e ancora continua “… et

uilla Sazago seu infra ciuitatem nouariensem cortem de ueratelino

(da ueratelim, verectelim), cum castro super habentem…”.

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Secondo il Rusconi (I Conti di Pombia e di Biandrate) il

“Veratelino” è nientemeno che la corte di Varallo Pombia.

Le “corti”, dice il Volpe (o.c.), erano quelle località

ove esistevano complessi di case coloniche, di edifici padronali,

piccole officine, terre coltivate, boschi e pascoli, in altre

parole una specie di azienda autosufficiente.

Il Pezza (Profilo della Bulgaria Italiana in B.S.S.N.

1935, n° 1-2) pone il Veratelino in Novara e noi siamo propensi a

dargli ragione se soltanto interpretiamo alla lettera il diploma,

infatti, il termine “Ciuitatem” sta per Novara, sede municipale.

Il Ruasconi errava quando affermava che in una carta del

marzo 931 si aveva la prova dell’esistenza del castello di Varallo

Pombia: tale carta (doc. 44, Carte A.C.S.N. di Novara) si legge:

“… de loco Castro Plumbia uassallo predicto Uualoni istj testjs.”.

Si potrebbe interpretare che tale corte, con il suo

castello, fosse una dipendenza di Novara, in una località per noi

incerta, ma senz’altro non facente parte del Comitato di Pombia.

Il Comitato Bulgaro o Bulgaria ha dato luogo a parecchie

controversie. Inizialmente, secondo il Gabotto (o.c.), aveva il

suo centro in Borgolavezzaro e Novara, che faceva parte di tale

Comitato, non poteva appartenere al Comitato di Pombia, che

veniamo a conoscere solo in seguito.

In seguito, nei documenti, non è più citato il Comitato

di Bulgaria, sostituito con quello di Novara. Presumibilmente la

sede si trasferì quando i vescovi assunsero, assieme ai religiosi,

i poteri civili.

Il Pezza ritiene che Novara fosse appartenuta, per

qualche tempo, al Comitato di Pombia, e localizza Bulgaro di là

del Ticino, in Lombardia. Divide, poi, la storia dei due comitati

in tre periodi ben distinti. Il primo, fra il secolo VIII e il IX,

che vede il Comitato Novarese indipendente. Il secondo, dall’813

al 968, durante il quale Pombia assorbe Novara. Il terzo vede

nuovamente i due comitati indipendenti e si termina con

l’investitura al vescovo di Novara, nell’anno 1025, del Comitato

di Pombia.

3-6 I C O N T I D I B I A N D R A T E

Nel novarese le lotte fra i Vescovi e i Marchesi di Ivrea

raggiunsero il massimo con Arduino che, approfittando della lotta

che gli derivava dal possesso della corona d’Italia aveva

insediato i suoi sostenitori nei punti chiave del territorio a

danno del Vescovo a cui toglieva privilegi, decime e terre.

Scomparso Arduino con l’aiuto dello straniero asceso al

trono, incominciarono le vendette e, nonostante la resistenza dei

Conti, la cospicua Contea pombiese passò al Vescovo.

Ma la cessione del Comitato di Pombia al Vescovo di

Novara, avvenuta nel 1025, rimase per qualche decennio un fatto

puramente formale: al Vescovo, tolta forse Pombia e qualche terra,

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non rimaneva che il titolo. Le località più importanti erano

possedute dai Conti di Pombia e da qui continuarono le dispute.

Con la salita alla cattedra di San Gaudenzio del vescovo

Oddone si ha la riconferma, con il diploma del 3 aprile 1060 di

Enrico III (IV), della cessione del Comitato Plumbiense al Vescovo

di Novara con l’aggiunta della riva del Ticino da Cameri fino alla

Pietra Mora (Cum ripa Ticini a loco Camararum usque a Petram

Mauram).

Morto Oddone, il nuovo vescovo Alberto riprese con

rinnovato vigore la lotta per il possesso del Comitato ma “fu

ingiustamente ucciso da iniqui conti” che il dittico di San

Gaudenzio precisa di “Biandrate” (di Pombia).

Per ottenere il perdono è probabile che i Conti di Pombia

cedessero definitivamente i loro possessi e si ritirassero in

Biandrate assumendone il nome (1093) per mascherare l’infamia

dell’assassinio.

Sotto questo nome assunsero a grande potenza con Federico

Barbarossa, tanto che, se per diritto imperiale la Contea di

Pombia apparteneva al Vescovo di Novara, di fatto era alla mercè

del Conte Guido di Biandrate, il più famoso di tale dinastia.

I successivi imperatori confermarono tale donazione

(Federico Barbarossa con il diploma del 3-1-1155 ed Enrico VII con

quello del 20-4-1311) e la Contea di Pombia rimase ai Vescovi di

Novara fino al 1413.

Federico Barbarossa, con il diploma del 1152, conferma ai

Conti da Castello il possesso del castello di Marano Ticino e i

loro possessi in Pombia e nella Contea con il mercato di Scozola

ai due lati del Ticino e i diritti di pedaggio del porto di Sesto

Calende. Tale concessione fu riconfermata da Ottone IV il 15-4-

1210.

4-6 A R D U I N O

Per un millennio abbiamo visto Pombia nello splendore

della sua grandezza: dai Romani ai Longobardi e al periodo

comitale chiusosi, di fatto, nel 1093. Con il definitivo passaggio

ai Vescovi di Novara e in seguito ai Visconti e ai Ferrero, Pombia

progressivamente decadde.

Della sua grandezza non restano che pochi e incerti

ricordi. Il suo apogeo si ebbe con Dadone e con suo figlio Arduino

e di questo personaggio, forse nativo di Pombia, sicuro conte di

questa località narreremo le vicende, non per fini meramente

campanilistici, ma perché fu un grande italiano.

Arduino nacque verso l’anno 955 da Dadone, Conte di

Pombia, e da una figlia di Arduino III Glabrione. Fu prima Conte

di Pombia, poi succedette al cugino Corrado Conone, intorno

all’anno 989, nel governo della Marca di Ivrea che allora

comprendeva i comitati di Ivrea, Pombia, Bulgaria, Vercelli,

dell’Ossola, Stazzona e di Lomello.

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Era un grande feudatario, ostile a Ottone III ed alla

feudalità ecclesiastica dei vescovi-conti creati e protetti dagli

Ottoni.

Ottone I aveva trovato la feudalità laica molto potente

e, non potendo annientarla, tentò di diminuirne i poteri con la

collaborazione dei vescovi-conti sensibili ai bisogni della

corona. Anche i suoi successori continuarono questa politica che

sfociò nel forte antagonismo dei feudatari laici capeggiati da

Arduino.

Nel 995 con la donazione della Corte di Caresana ai

canonici vercellesi da parte dell’imperatrice Adelaide, Arduino

ebbe occasione di scatenare il conflitto contro Pietro, vescovo di

Vercelli. Occupata la città anche il Vescovo fu ucciso e il suo

corpo bruciato con la chiesa (13/2 – 17/3/997).

Continuò la lotta contro il Vescovo di Ivrea Marmondo,

dal quale fu scomunicato due volte.

Sulla cattedra di Vercelli, dopo la morte di Pietro,

salirono Raginfredo ad Adalberto, partigiani di Arduino.

Nel 999 la sede di Vercelli, per ordine del Papa, è

affidata al monaco tedesco Leone della curia imperiale.

Nonostante le scomuniche e la minaccia dell’anatema del

predecessore di Silvestro II, Gregorio V (morto nel 999), e

l’opposizione di Leone, Arduino si presenta al Sinodo Romano,

indetto da Silvestro II e Ottone III, a sostenere i suoi diritti.

Il Sinodo, fra l’aprile e il maggio del 999, lo condanna:

”che egli debba deporre le armi, non mangiare carne, non dare

bacio né a uomo né a donna, non vestir lino, non dormire più di

due notti, se sano, nel medesimo luogo, non ricevere il corpo del

Signore se non in morte e condurre penitenza dove nessuno possa

offendere dei suoi avversari, o farsi monaco immantinente”.

I suoi beni con diploma del 7-5-999 sono concessi al

Vescovo Leone, al quale, con altro diploma in pari data, sono

concessi i comitati di Vercelli e di Santhià.

I poteri di Arduino passano così al figlio Arduino II

(Ardicino).

Arduino non cede alla condanna e, ritornato nelle sue

terre, riprende la situazione scacciando dalle rispettive sedi i

Vescovi di Ivrea e di Vercelli.

I nemici richiamano Ottone III che alla fine del 999

giunge a Pavia, chiama in sua presenza Arduino II (Ardicino) che

si presenta, ma fugge ai primi sentori di tradimento.

Da qui una nuova messa al bando tanto per Arduino che per

Ardicino.

Ritornato Ottone III in Germania, Arduino risale il

terreno perduto e, sembrerebbe, fosse proclamato re dai feudatari

dell’Italia settentrionale nella primavera dell’anno 1000.

Morto Ottone III il 23-1-1002, il 15 febbraio dello

stesso anno, in Pavia, Arduino ricevette la seconda incoronazione

con tutta la solennità del rito.

L’incoronazione non servì a riconciliare le parti: da un

lato i suoi sostenitori per i quali era “il nobile Marchese

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d’Ivrea”, eletto a Pavia re di tutti “I Longobardi”, per gli altri

era l’usurpatore del trono, l’uccisore del Vescovo.

Intanto in Germania la corona imperiale passava a Enrico

II, pronipote di Ottone I e continuatore della sua politica a

favore dei vescovi-conti.

I vescovi di varie città, con Arnolfo arcivescovo di

Milano in testa, si rivolsero a Enrico II per avere aiuto a

combattere Arduino.

Enrico mandò allora in Italia Oddone, duca di Carinzia e

Conte di Verona. Arduino, data l’inimicizia dei vescovi e dei

feudatari più ossequenti, per gelosia, al tedesco non poteva avere

un grande esercito. Ciononostante, appoggiato dai secondi militi

(la piccola nobiltà campagnola) approntò un piccolo esercito e con

una indovinatissima mossa strategica passò all’offensiva occupando

la marca di Verona e in una memorabile battaglia al Campo della

Fabbrica sconfiggeva Oddone fino a costringerlo a rivalicare le

Alpi (dicembre 1002 – gennaio 1003).

Nella primavera del 1004 Enrico giungeva in Italia con un

grande esercito per assecondare i desideri dei vescovi e dei

feudatari che temevano sempre più l’autorità di Arduino.

Purtroppo i “Longobardi” di Arduino, ridotti di numero

per le continue defezioni, furono sconfitti e il Conte Pombiese fu

costretto a ritirarsi nel Canavese dove, asserragliandosi nella

rocca di Sparone, faceva l’estremo tentativo di fermare il

tedesco.

Enrico, intanto, si recava a Pavia, dove il clero e la

nobiltà lo incoronò Re d’Italia. I “plebei” il giorno stesso si

rivoltarono tanto che Enrico, per reprimere la rivolta, incendiò

la città punendo poi crudelmente i ribelli.

In seguito Enrico dovette ritornare in Germania per

arginare un tentativo d’invasione dei Polacchi. Da questo fatto

Arduino ne trasse immediato vantaggio, riprendendosi la Marca

d‘Ivrea e alcuni comitati limitrofi, ma la sua autorità non tornò

ristabilita in tante altre parti del regno. Comunque, nonostante

continuassero le contese tra Enriciani e Arduinici, Arduino poté

regnare con relativa tranquillità per qualche anno ancora.

Nel dicembre del 1013 Enrico era di nuovo in Italia e i

feudatari ne trassero argomento per ribellarsi. Occupata con

facilità la Lombardia, Enrico giungeva a Roma, dove il 14 febbraio

1014 riceveva da Benedetto VII la Corona Imperiale.

Arduino propose allora a Enrico un accordo che fu

respinto dal tedesco. Arduino, sdegnato, attese il momento

propizio per vendicarsi e l’occasione non si fece attendere. Otto

giorni dopo l’incoronazione, il popolo romano si ribellava al

tedesco che, trovandosi in difficoltà, rientrava in Germania.

Arduino, allora, sostenuto dai suoi fedeli, si impadroniva di

Vercelli, dove il Vescovo Leone riusciva a sfuggirgli a stento, di

Novara, Como ed anche Milano e Piacenza si disponevano a

sottomettersi. Improvvisamente i seguaci di Enrico, sostenuti,

parrebbe, dal Marchese di Toscana e appoggiati da Arnolfo,

Arcivescovo di Milano, riprendevano il sopravvento e Vercelli era

restituita a Leone.

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Arduino, intanto, gravemente malato, persa ogni speranza,

abbandonato da tutti, deponeva allora lo scettro e la corona

sull’altare del monastero della Fruttuaria per vestire l’abito

secolare. Lì lo colse la morte il 14 dicembre 1015.

Nel sepolcro i monaci lo composero con le vesti regali

tanto che nella ricognizione nel secolo XVII il Cardinale Ferrero

così lo trovò.

Fuori dalle ire dei suoi contemporanei italiani e

tedeschi, nella quiete monastica, i santi monaci, sopra di ogni

contesa, l’avevano riconsacrato per la storia, assegnandogli il

titolo che per diritto gli spettava.

Se da un lato aveva difeso gli interessi feudali laici

contro i vescovi-conti sostenuti dal papato e appoggiati dagli

imperatori, dall’altro combatteva il tedesco sia perché questi

mirava a frammentare il potere feudale laico, sia per una naturale

insofferenza al giogo straniero, preludio di una nascitura

coscienza nazionale.

5-6 I V I S C O N T I

L’Imperatore Ludovico il Bavaro, con diploma dato in

Pavia il 6-8-1329, infeudava Castelletto Ticino a Ottorino

Visconti a cui succedesse il figlio Bartolomeo e in seguito il

nipote Alberto.

Nel 1407 il Duca di Milano Filippo Maria Visconti

nominava Alberto signore di Borgo Ticino e Varallo Pombia; poi lo

stesso Duca con diploma del 7-5-1413 (Milano Archivio di Stato)

investiva i figli di Alberto: a Ermes concedeva il titolo di

Barone di Ornavasso, con le terre del Vergante, di Invorio

Inferiore, di Borgo Ticino, Varallo Pombia e Pombia per sé e i

suoi eredi. (Nominative terram de Ornavasso, terram Invorio

Superiori, terram de Burgo Ticini, terram de Varale Pombie, terram

Pombia, Vergantium, diocesis Novariensis.)

6-6 N I B B I A - C A C C I A - F E R R E R O

Il 6-10-1469 il Duca Galeazzo Maria Sforza concedeva a

Martino Nibbia, segretario del Marchese del Monferrato, il feudo

di Varallo Pombia; il 31-7-1628, Paolo e Martino Nibbia alienavano

mezzo feudo a favore di Camillo Caccia.

Successivamente il 5-4-1685 Luigi Nibbia cedeva l’altra

metà di feudo a Ottavio Caccia e al Cardinale Federico Caccia,

Arcivescovo di Milano (1693-1712), la cui abitazione era l’attuale

Casa Simonetta.

Nel 1690, una parte del feudo passava al Marchese Pietro

Antonio Ferrero, feudatario di Pombia.

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7-6 A N N E S S I O N E A L R E G N O D I S A R D E G N

A

Col passare degli anni, assopite per sempre le discordie

fra Conti, Vescovi e Comuni, le nostre terre assunsero, con

l’annessione del Novarese al Piemonte (Trattato di Worms, 1748)

l’aspetto attuale.

Le terre furono frazionate, si formarono le piccole

proprietà terriere, le aziende individuali, fiorirono le

industrie, i commerci, avviando così le premesse della vita

attuale.

Però dobbiamo trarre una amara conclusione: le vicende di

secoli hanno fatto decadere i borghi di Pombia e di Varallo a due

località povere e sottosviluppate.

8-6 D O M I N A Z I O N E S P A G N O L A - P E S T I L E N

Z E

Durante la dominazione Spagnola, il Contado Novarese come

del resto le terre Lombarde e viciniore, furono flagellate dalla

peste, immortalata dalla descrizione che il Manzoni ne fa ne’“I

Promessi Sposi”.

Date le pessime condizioni igieniche e profilattiche, nei

tempi antichi erano soventi le epidemie.

Paolo Diacono (o.c.) ricorda di una epidemia di peste

verso il 680.

Il Giulini (o.c.) ricorda l’epidemia del 1004 e quella

terribile del 1187, del 1361 e come se ciò non bastasse nel 1364,

1373 e 1378 le cavallette provocarono una terribile carestia.

Il Contado di Milano subì altre epidemie di peste fra il

1450 e il 1451 e nel 1485 che durò più di quattro anni, provocando

oltre 100 mila morti.

Il De Vit (Storia del Lago Maggiore) ci dice che il

Capis ricorda che l’Ossolano e il Novarese ebbero pestilenze nel

1513, 1528, 1550, 1564.

Il Medoni narra che la peste del 1524 fece morire più di

140 mila persone nella Lombardia.

Notissima è la peste di San Carlo, preceduta da una

grande carestia, fra gli anni 1574 e 1575.

Il Medoni scrive, inoltre, che venne dal Tirolo, proseguì

per il Veneto e il Mantovano e si portò poi sul Lago Maggiore.

Paruzzaro fu il primo paese toccato (14-3-1576); poi essa

si diffuse verso il Cusio e, quindi, nel Milanese.

La peste del 1629-1631, fu preceduta da una grande

carestia tra il 1627 e il 1628, che mostrò bene le pessime

condizioni dell’agricoltura, la prostrazione e il debilitante

stato delle genti povere. Esse, private a causa della carestia,

dei se pure miseri sostegni che potevano dare la terra e prostrate

dai continui passaggi e distruzioni compiute dalle genti straniere

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assoldate dai potenti, sempre in lotta fra loro, e assoggettate

all’autorità Spagnola, che, tutta impegnata nell’assedio di

Casale, non si curava dello stato della popolazione, erano

destinati a essere preda della peste senza possibilità di scampo.

Alla miseria e alla fame che decimavano sempre più le

genti, subentrò, quindi, la peste che contribuì all’eccidio con

migliaia di vittime.

A nulla valsero le istrioniche cure dei medici del tempo,

né a calmare la popolazione di Milano, esasperata dalla cecità

ipocrita dei governanti e dall’incertezza dei tempi, e il ricorso

alla violenza come testimonia il processo agli untori che

avrebbero propagato la peste facendo uso di unguenti medicinali su

mandato di potenti Signori, se non a rendere più tragica una

situazione di per sé già drammatica.

Senza dubbio fu un autentico disastro che si ripercosse

per decenni sulle terre che ebbero a soffrire l’epidemia.

Fu anche però una sorta di giustizia che non risparmiava

né ricchi né poveri, rendendo tutti, almeno una volta, uguali.

I morti furono complessivamente diverse centinaia di

migliaia. La relazione dell’Arnali (B.S.S.N. 1939 - fasc. II-III)

deputato del tribunale di sanità, del 17-6-1631, dice che Oleggio

ebbe nel primo contagio 1062 morti, nel secondo 115.

Di Pombia non parla, di Varallo dice che restavano 125

famiglie con 750 abitanti e che nel secondo contagio i morti

furono 23.

Il soprintendente era Gerolamo Caccia.

Sempre in tema di calamità, ricordiamo le piene del

Ticino e del Lago Maggiore descritte dal Muratori: nel 1717, ad

esempio, il Lago si alzò di 10,80 metri sul livello normale.

Le altre piene degne di nota furono quelle del 1566,

1570, 1571, 1587, 1601, 1640, 1704

VII PARTE SETTIMA

CRISTIANESIMO – MONUMENTI PIU’ IMPORTANTI

1-7 I L C R I S T I A N E S I M O N E L L E N O S T R E

T E R R E

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E’ presumibile che dopo l’editto di Milano del 313 il

Cristianesimo cominciasse a diffondersi anche nelle nostre

contrade.

La tradizione pone Gaudenzio (397-417) primo Vescovo

Novarese, ma il Lizier (Episcopato e Comitato in Novara nell’alto

medioevo) mette in dubbio la tradizione e pone San Lorenzo quale

primo Vescovo, ritenendo già organizzata la Chiesa Novarese

attorno al 356.

Il Gabotto (Storia dell’Italia Occidentale) ritiene che

inizialmente in ogni Municipio Romano si trovasse una sede

Vescovile, in ogni pago (villaggio del Municipio) una pieve, e in

ogni vico (borgata) un titolo o cappella.

Quindi, in ogni sede municipale risiedeva un Vescovo, e

in ogni villaggio un pievano o un arciprete (archipresbiter).

Secondo questa tesi anche Pombia era sede vescovile, però

in merito non si ha nessuna traccia.

In proposito, la lapide che si trova nella Parrocchia di

Varallo, fra l’altro, dice: “... IN PROVINCIA CAPUT -

IMEMO(RA)BILI ARCHI(EPISCO) - PALE - VETUSTATE SUBLIME ...”. (...

centro arcivescovile della provincia di antichità immemorabile).

Siccome sia a Varallo Pombia sia a Pombia le chiese

parrocchiali sono dedicate a San Vincenzo, nulla toglie che nel

1755 (anno della lapide) l’estensore della stessa, memore di

qualche antica tradizione pombiese, volesse ricordare

(confusionariamente) la dignità assunta dalle chiese locali.

Nel Comitato di Pombia, secondo il Gabotto (B. S. S. N. -

1918 - fasc. II) “Le Pievi della Diocesi”), si trovano le seguenti

pievi: Ponzana, Canceriano, Casalvolone, Biandrate, Mosezzo,

Trebbiate, Cameri, Dulzago, Oleggio, Contengo, Pro, Seso, Sizzano,

Ghemme, Camodegia, Grignasco, Cureggio, Suno, Pombia (poi Varallo

Pombia).

Pombia, secondo il Bascapè, è indicata come pieve in un

documento del Vescovo Guglielmo (1° o 2°). Litifredo, Vescovo di

Novara dal 1124 al 1151, ottenne da Papa Innocenzo II, nell’anno

1133, un diploma nel quale figurano le pievi della diocesi sopra

le quali il Vescovo aveva diritti: “Innocenzo Vescovo servo dei

servi di Dio. Al venerabile fratello Litifredo, Vescovo di Novara,

ed ai di lui successori che saranno canonicamente sostituiti in

perpetuo... Plebem Olegli cum capellis suis. Plebem Dunciagi cum

capellis suis. Ecclesias Santi Iulii nouam et antiquam. Plebem

Varadi (Pombia) cum capellis suis. Plebem de Gatico cum capellis

suis ... “(26-6-1133). (C. A. S. M. vol. 2° - doc. CCCXX).

Nelle testimoniali del 2-3-1157 troviamo che “Presbit

Otto Gagia” ricorda l’elezione di “magistrum nebulonem in

archipresbiterium in plebe uarali” (C. A. S. M. vol. 2° - doc.

CCCXCIV).

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Nelle “Consignationes” di tutti i benefici ecclesiastici

ordinate dal Vescovo Guglielmo Amidano nel 1347, a Varallo non

compare nessun pievano, ma il solo chierico Giacobino da Casteno,

mentre è ricordato Arnaldo pievano della Chiesa di San Vincenzo di

Pombia.

E’ probabile che con il decadimento politico di Pombia,

la dignità pievana, verso il 1133, passasse a Varallo Pombia,

benché non sia possibile dare una risposta precisa, come abbiamo

già fatto cenno, nelle “Consignationes” della dignità pievana è

investito Arnaldo di Pombia.

Se però consideriamo che nelle “Rationes Decimarum

Italiae” del 1335-1336 imposte dal Papa Benedetto XII, nelle

collettorie al n° 200 - Diocesis Novariensis - foglio 60,

troviamo: “Item pro Iohanne de Vaegiis archispresbytero plebis

Varalli iuxta Pombia pro prebenda sua dicte plebis assignarunt V

libras imper.” (F. Pezza - “Tributi pontifici e le scomuniche

fiscali ecc.” in B. S. S. N. - 1947), dunque abbiamo un Arciprete

a Varallo Pombia e non a Pombia appena dodici anni prima

l’ordinamento delle “Consignationes”.

Si potrebbe anche terminare che dopo il 1133

l’arcipretura fosse passata definitivamente a Varallo Pombia e che

durante le “Consignationes” l’arcipretura stessa fosse

provvisoriamente vacante.

Il Vicariato foraneo di Varallo Pombia fu istituito dal

Vescovo Speciano (1590) e comprendeva Varallo Pombia, Marano

Ticino, Pombia, Divignano, Conturbia, Castelletto Ticino, Borgo

Ticino e i suoi parroci erano insigniti del titolo di Arciprete.

In seguito Marano Ticino vene unita al vicariato di

Oleggio.

Nelle “Consignationes” compaiono per la prima volta i

nomi delle più antiche famiglie di Varallo Pombia: gli Albertalli

ed i Favini.

Nelle stesse carte si parla dei possedimenti delle

“Humiliate”, delle quali tratteremo brevemente.

Il Romussi (o. c.) narra che alcuni cittadini di Milano e

Contado, fatti prigionieri dall’Imperatore di Germania Enrico,

fecero voto che, se fossero ritornati in Italia, si sarebbero

ritirati insieme a fare vita devota.

Assunsero il nome di Humiliati e si divisero in seguito

in tre ordini: il primo dei Primissimi, che comunemente vestiva in

grigio; il secondo, istituito da San Bernardo, i cui appartenenti

eressero la loro casa in un luogo di Milano detto Brera (da Baida,

podere) . La casa di Milano diede poi origine ad altre case che

non si chiamarono mai conventi a causa della loro indipendenza

laicale.

Il terzo ordine fu istituito dal Beato Giovanni di Meda.

San Bernardo aveva trasformato i laici Humiliati in una

sorta di frati, Giovanni li cambiò in una specie di preti.

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Il Cardinale Jacopo di Vitri nel 1240 così descriveva gli

Humiliati; “In Lombardia vi sono certe congregazioni di uomini e

di donne che chiamansi Umiliati perché e nella povertà e

nell’asprezza e nella compostezza esteriore e nella gravità dei

costumi, in tutte le loro parole e opere insomma danno grande

esempio di umiltà. Vivono in comune e in gran parte del lavoro

delle proprie mani; perciocché non hanno molti redditi o

possessioni, né è lecito ad alcuno di loro di possedere alcunché

di proprio... scacciano l’ozio colle lezioni, colle orazioni e

coll’assiduo lavoro delle loro mani e molti nobili e potenti

cittadini e molte matrone e vergini si sono consacrate al Signore:

dei quali personaggi alcuni sono entrati nella religione; altri

rimasti nel mondo con i loro figlioli e colle loro mogli, ciò

nonostante Umiliati, in abito religioso, sobri nel vitto e pieni

d’opere di misericordia, sono nel secolo come se non vi fossero”.

Questi frati, “solo a metà”, si diedero all’industria

manifatturiera della lana, in Italia e in Europa, ricavando dalle

loro attività grandi ricchezze (si pensi alla grandiosità di

palazzo Brera).

Quest’ordine assurto a grande potenza economico-

commerciale si era inserito vigorosamente nella società, ma le

grandi ricchezze portarono gli Humiliati alla corruzione e al

lusso sfrenato, tanto che San Carlo Borromeo, nel 1570, chiese

l’abolizione dell’ordine destinando i suoi possedimenti ai

Gesuiti.

Palazzo Brera venne così destinato all’accademia delle

Belle Arti.

La via Brera di Varallo potrebbe anche indicare la

vecchia strada che portava alle braide (poderi) degli Umiliati che

compaiono nelle “Consignationes” di Pombia.

2-7 I M O N U M E N T I P I U’ I M P O R T A N T I

§ 1 - RESTI DI CHIESA A SAN GIORGIO

A San Giorgio di Pombia esistono, in un boschetto pieno

di rovi, i resti di una cappella.

Da quel poco che rimane si può dedurre che la cappella

aveva tre absidi. Dei due laterali rimane ben poco, mentre quella

centrale è quasi completa e, inoltre, vi si vede traccia di un

affresco che sembra proto-romanico.

La costruzione di tale cappella è databile fra il VII e

l’VIII secolo.

§ 2 - IL CASTELLO DI POMBIA

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Poco discosto dalla Chiesa di San Vincenzo di Pombia si

trovano i ruderi di un antichissimo castello. Vi sono i resti di

due muri perimetrali, in ciottoli di fiume e pietre squadrate

negli angoli.

Quasi al centro di questa doppia recinzione si trova la

torre quadrata.

Il castello, posto in posizione strategica, al limite del

ciglio della collina che guarda al Ticino, fu costruito sul

modello dei primi castelli piemontesi e romani che erano

costituiti da una torre posta al centro di uno spiazzo recintato.

Il Nigra (Torri, castelli e case forti del Piemonte) lo fa

risalire all’XI secolo.

Il Bascapè (o.c.) ricorda che queste rovine furono

denominate Castel Dogno, da Castel Domino, appellativo che

anticamente si attribuiva ai Vescovi e il luogo appartiene ancora

alla Chiesa.

Avanziamo l’ipotesi che Castel Dogno derivi piuttosto dal

latino volgare “dunio” che sta per montagnola, poi trasformato in

don jon, che stava appunto a indicare i primitivi castelli posti a

difesa di luoghi rialzati, com’è il caso del castello di Pombia

che può, quindi, essere sorto in epoca anteriore all’XI secolo,

forse sulle rovine di un castrum romano.

Un altro castello si trova poco discosto da Castel Dogno,

è di epoca più recente, XVI secolo, ed è posto anch’esso sul

ciglio della collina e guarda verso il Ticino.

Forse è sorto sui resti di una costruzione trecentesca,

come si può ritenere considerando alcuni elementi incorporati

nella costruzione.

Sono notevoli alcune parti della costruzione e alcuni

affreschi che sembrerebbero riprodurre Pombia con la valle del

Ticino.

§ 3 - SAN VINCENZO DI POMBIA

La Chiesa parrocchiale di San Vincenzo di Pombia, insigne

monumento romanico, è stata da poco riportata, in parte, al

primitivo stato a cura della Soprintendenza ai Monumenti di

Torino, sotto la personale direzione del Soprintendente Prof.

Chierici.

Il Ravizza, annotatore della Novaria Sacra, presume, a

causa di certe analogie con il Duomo di Casale Monferrato, che la

sua costruzione sia avvenuta in epoca longobarda.

Il Verzone (l’Architettura Romanica nel Novarese, in B.

S. S. N. - 1935-37) data la costruzione fra il 1025 e il 1050,

motivando la sua opinione con l’indicazione del tipo di muratura e

di volte a crociera con tre absidi sul lato di levante.

Dinanzi l’ingresso fu costruito un nartece a due piani.

Attualmente il piano terra è stato sfondato per ripristinare gli

arconi che formavano l’ingresso, più basso del piano della Chiesa

alla quale si accedeva mediante una gradinata.

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Fra il 1754 e il 1756 il monumento fu ripristinato in

stile Barocco, furono demoliti gli apsidi laterali e all’interno

si fecero delle decorazioni non troppo ortodosse per cui il

complesso, anche a causa di successive modifiche, perse il suo

valore. Notevole è l’unico affresco romanico conservato,

rappresentante una Madonna.

Nelle vicinanze della Chiesa doveva esserci il battistero

già ridotto in pessime condizioni fin dal XVIII secolo (Verzone,

o.c.).

§ 4 - SAN MARTINO DI POMBIA

La Chiesa di San Martino è un piccolo monumento romanico

che si componeva, originariamente, di tre piccole navate con

absidi. Adesso rimane solo la navata centrale, le laterali furono

demolite non si sa quando.

La muratura è di ciottoli misti a mattoni romani, il

tetto è in parte coperto da tegole romane.

La sua costruzione risale fra il 1000 e il 1025 (Verzone

o.c.) e pare fosse un priorato dell’abbazia di Arona, la quale

rivendicava l’indipendenza dall’Episcopato Novarese.

A causa del suo stato di decadenza nel 1758 o 1759 la

chiesa fu sospesa dalle funzioni religiose. Ora è proprietà

privata ed è adibita a ripostiglio e cantina.

§ 5 - SAN VINCENZO DI VARALLO POMBIA

A nostro modesto giudizio, se questo monumento non fosse

stato deturpato dalle modifiche e aggiustamenti, se ad esso non

fossero state avvicinate le altre fabbriche che formano il

complesso della parrocchia, senza tema di ricorrere in

campanilismi, esso sarebbe veramente uno dei migliori esempi di

architettura romanica del Novarese.

Secondo il Verzone (o.c.) sorse verso il 1100 o 1125,

mentre il campanile è più antico.

La basilica fu innalzata sui resti di un delubro dedicato

a Nettuno, come ricorda la lapide che si trova ora nella Canonica

di Novara: “NEPTUN - SACRUM - L. LABIENUS - BUCCULUS - COMU ...”.

La lapide della parrocchiale del 1755 ricorda: “...

TEMPLUM HOC - NEPTUM SUPERST(ITIO)NE - ...” questo tempio

(dedicato) a Nettuno (nel tempo della e dalla superstizione).

Escludiamo a priori che tale lapide provenga da Borgosesia, come

alcuni hanno affermato.

Il campanile è in rozza muratura di ciottoli, disposti

senza alcun ordine, ha tre ordini di cornici ed è decorato da

semplici archetti in mattoni. La parte alta fu sfondata per fare

luogo alla cella campanaria.

La basilica era, invece, interamente costruita con conci

di pietra squadrata e levigata.

Sulla fronte dell’ingresso esiste una croce luminosa a

foggia greco-romana.

Page 32: Il primo Visconte di Pombia si trova nell’ 841 (Ved. Le · combatteva i Comuni e il Papa erano i Ghibellini, i Guelfi erano i ... T O R E Nel 1152, in Germania, le lotte ... Ricorderemo

L’ingresso era munito di portale ad arco.

La basilica è addossata al campanile che ne sostituisce

la muratura nel tratto di addossamento. La chiesa era costituita

praticamente da due ambienti all’incirca rettangolari: il primo,

contenente l’ingresso, si eleva più alto del resto della basilica,

il secondo vano, relativamente più basso, era la chiesa vera e

propria e si prolungava fino a metà degli attuali arconi laterali

del transetto.

Non era coperta da nessuna volta, ma semplicemente dal

tetto, infatti, ancora si notano le sedi di appoggio delle

capriate alla sommità della muratura. Il restringimento del vano

d’ingresso è dovuto all’inserimento del campanile, davanti cui

rimaneva una rientranza libera da costruzioni.

La muratura in pietra squadrata è ben curata, tanto che

le lesene dividono esternamente la fabbrica in moduli uguali,

formando dei pannelli sfondati rispetto le lesene nelle cui

mezzerie sono poste le pregevolissime finestre strombate.

Questo tipo di muratura, come abbiamo costatato in

minuziose ricerche, continua anche nella parte cui fu addossata

l’attuale navata si San Giovanni.

Anche le lesene continuano lungo questo lato con lo

stesso modulo e le finestre strombate hanno l’archivolto in pietre

e mattoni.

I tipi di finestre, architettonicamente parlando, sono

due: quelle a giorno hanno tre archivolti in pietra aggettanti

l’uno rispetto all’altro, sormontati da due anelli in mattoni di

cui il primo è doppio dell’altro, mentre i mattoni sono posti a

losanga.

Le finestre non visibili dall’esterno (lato San Giovanni)

constano di tre archivolti in pietra e mattoni in aggetto l’uno

nell’altro. All’esterno, il timpano della facciata è decorato da

archetti, quasi tutti in cotto, che coprono un concio

semicircolare in pietra.

Sul lato a giorno esiste (visibile dalla scala di accesso

al campanile) un gruppo di tre archetti ricavati da un unico

blocco di pietra, mentre gli altri sono simili a quelli della

facciata d’ingresso. Sul lato di San Giovanni esistono archetti di

foggia analoga agli altri con un concio in cotto, ad archi, sotto

la linea di gronda.

La basilica, per ragioni statiche, non poteva avere

un’abside di diametro uguale alla larghezza della navata. Al

massimo ci poteva essere un’absidiola di dimensioni ridotte,

appoggiata al muro di levante, come abbiamo esempio in numerose

basiliche dell’epoca.

In seconda ipotesi si ritiene che non esistessero né

abside, né transetto. Di qui lo sviluppo della ricostruzione della

pieve riportata in appendice terza.

L’unione fra il corpo dell’ingresso e il resto della

chiesa era costituita da un semplice arcone, impostato fra il

campanile e la muratura del lato di San Giovanni, con timpano in

mattoni a chiusura del dislivello fra i due corpi di fabbrica.

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Nella sua forma la chiesa richiama le primitive basiliche

romaniche costituite da un semplice vano coperto dal tetto senza

abside e transetto.

E’ presumibile che il battistero fosse costituito da una

semplice vaschetta posta nel vano dell’ingresso e nulla impedisce

di ritenere che fosse la stessa che ora si trova nel muro del

campanile nel lato destro dell’ingresso.

In seguito la primitiva basilica fu rialzata, trasformata

internamente secondo lo stile barocco, la rientranza del campanile

fu chiusa, la parte riguardante l’ingresso ridotta e notevolmente

ribassata con un sistema di volte e murature in parte rette da una

rozza colonna.

I lavori successivi portarono la nostra parrocchiale allo

stato attuale, a detrimento del primitivo monumento, verso il

1755, e la chiesa così trasformata fu consacrata dal Vescovo

Balbis Bertone il 3 agosto 1758.

Diremo che, a nostro giudizio, il campanile della chiesa

della Beata Vergine del Rosario sembrerebbe databile al XIII

secolo; resto, forse, di un primitivo castello alla vecchia

maniera e posto a baluardo della vallata in una posizione

strategicamente notevole.

* * *

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Scuole elementari

VARALLO POMBIA - Vedute caratteristiche degli anni ‘40

Giardini e monumento ai caduti

VIII PARTE OTTAVA

APPENDICE

A P P E N D I C E 1

Da: “I Romani ed i loro precursori sulle rive del

Verbano, nell’Alto Novarese e nell’agro Varesino”, di

Filippo Ponti, Regio Ispettore degli scavi e monumenti

(Intra 1896).

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Un rapporto dell’Egregio prof. Castelfranco alla Società Italiana

di Scienze Naturali (vol. XVI fasc. 1° - seduta del 23 febbraio

1873) illustra un’altra stazione preistorica posta ai piedi

dell’altipiano di Golasecca, sulla riva sinistra del Ticino, in

una località denominata Molinaccio, dalle rovine di un antico

mulino ivi esistente.

Il chiarissimo professore nella prima e successive escursioni in

questa località rinveniva molti cocci di stoviglie di comunissimo

impasto, modellate a mano con argilla arenosa e cotta a libera

fiamma o semplicemente essiccata ai raggi solari; tali frammenti,

disposti in vari gruppi nel terreno dell’alluvione sottostante al

terriccio vegetale, appartenevano a fittili di forme e dimensioni

assai variabili: taluni con anse, altri senza, ma privi tutti di

qualsiasi ornamentazione grafica e plasmata, ove si accentuino

alcune tracce o impressioni fatte con la stecca sul collo del vaso

e presso l’orlo.

Accompagnavano i cocci alcune ossa di cervo, di bue a spigoli

taglienti. I caratteri di queste reliquie, i particolari della

loro distribuzione e l’esistenza di piccoli focolari sparsi nello

strato sabbioso, conferiscono alla stazione preistorica del

Molinaccio una fisionomia affatto speciale, che la distingue da

tutte le altre dell’altipiano di Somma Lombardo, avvicinandole a

quelle de Basso Varesotto.

Le ricerche dell’egregio prof. Castelfranco ci rivelano,

sull’opposta riva del Ticino, l’esistenza di un’altra stazione

preistorica coeva a quella dell’altipiano di Golasecca, alla quale

accenneremo valendoci della dotta relazione dello stesso

scopritore.

La stazione preistorica dei Merlotitt si trova sulla riva destra

del Ticino, di rimpetto al passo di Presualdo, in una delle

piccole valli che si sono formate per l’erosione dell’altipiano

morenico entro il quale il fiume, uscito dal Lago Maggiore sotto

Sesto Calende, si scava un letto profondissimo e tortuoso, e vi

accede per un sentiero serpeggiante nel Ghiareto che parte dal

cascinale dei “Savoia”.

Gli avanzi dell’umana industria si rinvengono in questa stazione

disseminati nella massa ghiaiosa sottostante all’esilissimo strato

di terreno vegetale che ricopre quei colli morenici e vi sono

variamente distribuiti.

Nel fondo della valletta abbondano le scorie di ferro miste a

pochi cocci e a carboni, al centro i cocci e i carboni sono

abbondantissimi, mentre scarseggiano le scorie che cessano affatto

sul limite inferiore della stazione, presso lo sbocco della valle.

L’analisi di questi cocci, e i confronti istituiti dal loro

chiarissimo scopritore fra i medesimi e i fittili interi o

frammenti esumati in altre località dell’altipiano di Somma

Lombardo e Golasecca, massime in quest’ultima necropoli, elimina

il dubbio che la stazione dei Merlotitt debba cronologicamente

ritenersi anteriore a quest’ultime, quantunque i cocci che vi si

rinvengono frammisti alle scorie di ferro siano in gran parte

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rozzissimi e tali da essere preferibilmente paragonati a quelli

caratteristici dell’età della pietra.

Non vi mancano, infatti, i frammenti di alcuni fittili che trovano

il riscontro più palese in quelli delle tombe di Golasecca, per la

forma, per la natura dell’impasto, per la vernice a ingubbiatura e

per l’ornamentazione; se questi ultimi sono rarissimi in confronto

dei materiali più rozzi, appare sempre evidentissimo il

sincronismo di questo deposito, comunque non costituente una vera

e propria necropoli, con quelli di Sesto Calende, di Castelletto

Ticino e di Golasecca e le reliquie che vi tornarono alla luce si

può, quindi, indubbiamente considerare come appartenenti a una

stazione, forse temporanea, della prima etˆ del ferro, vista la

scarsità degli avanzi organici e l’assoluta mancanza di oggetti

metallici.

La necropoli di Golasecca occupa il quadrilatero irregolare

compreso fra l’Abbadia di Sesto Calende, Vergiate, Somma Lombardo

e Borgo Ticino, territorio con una superficie di 37 Km quadrati

all'incirca, dimezzato longitudinalmente dal corso del Ticino.

I monumenti che la costituiscono, siano essi le tombe

caratteristiche della prima età del ferro, o i recinti di rozze

pietre, tuttora visibili a fior di terra, sono disseminati in

molti punti di questo territorio, nei pressi di Sesona, al

Galiasco, al Monsoriso, ai Guasti, a Impiovo e specialmente alle

Corneliane, distesa di campi compresa fra Sesto Calende, i

casolari di Sesona e il villaggio di Golasecca, dal quale questa

estesissima necropoli dell’altipiano di Somma Lombardo prende la

sua denominazione che non è forse la più esatta, quantunque un

gruppo di tombe, delle più notevoli, sia apparso, per primo,

appunto nelle immediate vicinanze di quel villaggio.

Queste stazioni preistoriche sparse sulle rive del Ticino, a

mezzogiorno del Lago Maggiore, esplorate fin dai primordi del

nostro secolo, descritte dal Giani, dal Mortillet e dal Biondello

vennero da questi autori erroneamente attribuite ai Romani, ai

Celti, ai Galli ed agli Etruschi, formulando tesi che le odierne e

ripetute ricerche dell’egregio prof. Castelfranco ed un cumulo di

prove, le più evidenti, da lui recate, dimostrarono completamente

erronee, assegnandole, invece,