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AUTOBIOGRAFIA DI SILVANO TAGLIAGAMBE

Silvano Tagliagambe è nato a Legnano il 9 luglio del 1945. Dopo aver completato la scuola secondaria superiore al liceo Parini di Milano si è iscritto in filosofia all’università degli Studi della stessa città. Si è laureato con Ludovico Geymonat con una tesi sull’interpretazione della meccanica quantistica di Hans Reichenbach e nel 1969 si è recato a Mosca con una borsa di studio del Ministero degli esteri, ottenuta grazie al sostegno determinante di Giovanni Polvani, docente di fisica sperimentale e allora Rettore dell’Ateneo milanese, al quale si era rivolto per ottenerne l’appoggio lo stesso Geymonat. Ebbe così la possibilità di proseguire i suoi studi sui rapporti tra fisica e filosofia, soprattutto alla luce degli sviluppi della scoperta del quanto d’azione di Planck, prima all’università Lomonosov, sotto la direzione di Ja. P. Terleckij, e poi all’Accademia delle scienze dell’URSS, con la supervisione del grande fisico V.A. Fock e del filosofo della scienza M. E. Omelyanovskij. Dopo aver ricoperto incarichi di Storia della filosofia contemporanea e di Filosofia della scienza a partire dal 1973 nelle università di Cagliari e di Pisa nel 1981, vinto il concorso a cattedra, è diventato titolare dell’insegnamento di Storia della filosofia contemporanea presso la facoltà di Magistero dell’università di Cagliari, di cui è stato Preside dal 1983 al 1989. Dal 1994 al 2000 è stato nominato Vice presidente del CRS4 (Centro di Ricerca, Sviluppo, Studi Superiori in Sardegna), allora presieduto da Carlo Rubbia. Nel 1993 è stato chiamato alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Roma “La Sapienza” a ricoprire la cattedra di Filosofia della scienza che era stata di Vittorio Somenzi. Nel novembre del 2001 si è trasferito all’università di Sassari per partecipare alla fondazione della nuova facoltà di Architettura con sede ad Alghero, nella quale è stato Presidente del Corso di laurea in Architettura dal 2002 al 2008. È sposato dal 1976 con Susi Ronchi e ha tre figli, Valentina, Laura e Marco, e due nipoti, Alessandro e Davide. E’ direttore scientifico del progetto Sistema Online per la Formazione, l’Insegnamento e l’Apprendimento - Sardegna (Acronimo S.O.F.I.A. – Sardegna), gestito da un Consorzio appositamente costituito dalle università di Cagliari e di Sassari e sostenuto dalla Regione autonoma della Sardegna con le risorse del Fondo Sociale Europeo, il cui obiettivo primario è quello di dar vita a un progetto educativo finalizzato all’apprendimento attraverso strumenti di collaborazione in rete e in grado di affrontare, sulla base di un approccio sistemico e avendo di mira la specifica aderenza al territorio, i diversi problemi posti dalle esigenze di cambiamento del mondo dell’istruzione e dell’università e di innovazione delle metodologie didattiche. È stato membro delle Commissioni tecnico-scientifiche per la riforma del sistema scolastico italiano istituite dai ministri Berlinguer, De Mauro, e Moratti e della Commissione per la riorganizzazione dell’istruzione tecnica e professionale, nominata dal Ministro Fioroni, nell’ambito della quale ha coordinato il gruppo incaricato di occuparsi del rinnovamento delle metodologie didattiche. Tagliagambe non si è limnitato a partecipare ai lavori di queste Commissioni: egli si è impegnato altresì nella riflessione teorica sui temi del rinnovamento dei processi d’insegnamento e del loro rapporto con i processi di apprendimento, alla quale ha dedicato opere come La didattica e la rete, del 2000, e le più recenti Più colta e meno gentile. Una scuola di massa e di qualità e Saper fare la scuola: il triangolo che non c’è, quest’ultima scritta in collaborazione con Vittorio Campione. E’ componente del Comitato scientifico del FISEC- “Foro Iberoamericano Sobre Estrategias de Comunicaciòn”, comprendente università della Spagna, del Portogallo e dell’America latina (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Messico). E’ condirettore della rivista ‘Civiltà delle Macchine’, edita dalla ERI e direttore della collana “Didattica del progetto” dell’editore Franco Angeli. Dal periodo di formazione nell’URSS sono scaturiti due filoni di ricerca di Tagliagambe: il primo riguardante la riformulazione del concetto di realtà fisica ad opera, soprattutto, di Niels Bohr, Werner Heisenberg e Max Born e la posizione assunta in merito ad essa dagli esponenti della scuola sovietica; il secondo la ricostruzione e la lettura del ricco e complesso intreccio tra pensiero

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scientifico e pensiero filosofico nella cultura russa della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. Per quanto riguarda il primo aspetto egli si è impegnato a mettere in luce come la teoria quantistica capovolga la definizione classica di “oggetto fisico” e ci costringa ad abbandonare l’idea che possa esistere una linea di demarcazione netta tra ciò che si descrive e il modo in cui lo si descrive. Questo ha ripercussioni rilevanti sul tipo di linguaggio che viene adottato, e, in particolare, sulla semantica di riferimento, che è olistica anziché quella analitica che è usualmente tipica delle teorie scientifiche. Come evidenziava già in un’opera del 1991, L’epistemologia contemporanea, nella meccanica quantistica si ha infatti un tipo di semantica formale che è capace di descrivere situazioni olistiche e contestuali. Ciò è dovuto al fatto che, nell’ambito di questa teoria fisica, “la referenza non può essere localizzata in un punto particolare del discorso: è quest’ultimo nella sua totalità che attua il riferimento, per cui non più di referente si dovrà parlare, ma di funzione referenziale da intendersi come una funzione globale ripartita su tutto l’enunciato” (Op. cit., p. 252). Si riscontra così una vaghezza e labilità dell’abituale e preliminare operazione di identificazione di un referente che “contribuisce non poco a mettere in forse la legittimità della distinzione, che abitualmente siamo portati a compiere all’interno di ogni enunciato, tra segmenti referenziali (destinati, appunto, a far riferimento agli oggetti di cui si parla e ad operare, da soli, questa referenza, indipendentemente dal resto della frase) e segmenti descrittivi (il cui ruolo, invece, dovrebbe essere quello di descrivere le proprietà o il comportamento degli oggetti ai quali i segmenti precedenti si riferiscono)”. (Ivi, p. 96). L’impossibilità di ridurre la funzione referenziale alla designazione di oggetti e l’esigenza di presentarla come una funzione “spalmata” sull’intero discorso, conferiscono a questo una compattezza e un grado di integrazione tali da far sì che i sensi delle singole parole si fondano e si correlino strettamente, subendo ‘variazioni semantiche’ determinate dalle reciproche integrazioni. Il discorso si trasforma, cioè, in un tutto semantico con un contenuto distribuito sul suo spazio globale” (Ivi, p. 97). Si ha in tal modo una “catena di causalità circolare” che, proprio perché produce un’interferenza tra ciò che si descrive e il modo in cui lo si descrive, e dunque tra l’oggetto su cui verte il discorso e il soggetto che ne parla, assegna all’atto di “instaurare una funzione referenziale” il compito di concentrare l’attenzione su determinate proprietà e di selezionare associazioni con certi altri oggetti, piuttosto che con altri, e quindi di far rientrare l’oggetto medesimo all’interno di una prospettiva influenzata in misura tutt’altro che trascurabile dal contesto, in particolare dalle “condizioni di osservazione” e dagli strumenti” di misura ma anche da quelli linguistici e concettuali, di cui l’osservatore dispone. L’interesse per questo problema della “mediazione linguistica” ha portato Tagliagambe a occuparsi della questione del rapporto tra scienza e “senso comune”, legandola al problema della disponibilità di linguaggi che consentano anche al profano di orientarsi, in qualche modo, nei meandri della ricerca scientifica e che possono essere chiamati, proprio perché sono destinati a fungere da “interfaccia” tra quest’ultima e una più vasta platea di destinatari, “linguaggi di mediazione”. Nei confronti di questi linguaggi spesso, dall’interno del mondo della scienza, viene manifestato un aperto scetticismo, determinato dalla convinzione che qualsiasi tentativo di esprimere i contenuti e i concetti che caratterizzano la chimica, la fisica, le scienze biologiche ecc. in parole che non appartengano al lessico specifico di queste discipline non possa che sfociare in una sensibile alterazione e in un’inevitabile cattiva interpretazione di questi contenuti. La sua convinzione, al contrario, è che l’uso di questi linguaggi possa consentire alle discipline suddette di incidere e influire sul patrimonio culturale comune molto più di quanto non avvenga attualmente, senza per questo perdere la loro caratterizzazione e scadere necessariamente nell’imprecisione e nelle distorsioni. Non solo, ma esso, se ben indirizzato, può condurre all’acquisizione di strumenti di lavoro tutt’altro che irrilevanti negli specifici campi di riferimento e può favorire un’apertura mentale che ha un valore e un significato generali.

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Va a questo proposito ricordato che a mano a mano che i sistemi scientifici e tecnologici diventano più complessi e i loro componenti più strettamente correlati, il problema della ricerca dell’equilibrio fra fattori eterogenei o addirittura incommensurabili, che era un tempo marginale per la ricerca, si sposta sempre più al centro. Questo spostamento segnala ed evidenzia la necessità, ormai imprescindibile, di far convergere sui problemi, oggetto di analisi e di intervento, più punti di vista, anche molto diversi tra loro. Non a caso la caratteristica fondamentale di quella che oggi viene usualmente chiamata la "società della conoscenza" è quella di mettere quanto più possibile e nel modo più rapido ed efficiente in comunicazione persone o gruppi di persone e di considerare il know-how e le competenze tecniche come risultati che emergono e vengono sviluppati nell'ambito di un processo d’interazione e di condivisione all'interno di sottogruppi e di reti di cooperazione intersoggettiva. Questa impostazione sta influenzando lo stesso modello d’innovazione, che non viene più visto come processo lineare che procede attraverso passi ben definiti, bensì alla luce di un modello "chain-link", secondo il quale le idee innovative possono provenire da diverse sorgenti e si affacciano con tanto maggiore facilità e ricchezza quanto più queste sorgenti (ricerca scientifica, ovviamente, ma anche nuove tecniche di produzione, nuove esigenze di mercato ecc.) vengono poste in comunicazione reciproca. E questo processo di comunicazione, per essere significativo e foriero di risultati proficui, esige la capacità di identificare caratteristiche comuni in campi differenti e di portare alla luce analogie a priori impensabili, così che idee generali possano essere elaborate ed applicate a situazioni fra loro a prima vista assai differenti. A un simile risultato non si potrà però mai pervenire senza la disponibilità di elementi aggreganti tra ricercatori operanti in campi disciplinari diversi e di linguaggi che consentano agli uni di farsi una qualche rappresentazione non banale dei punti di vista, delle impostazioni e degli approcci ai problemi degli altri. Naturalmente questa rappresentazione deve essere giustificata: non deve far perdere di significatività al problema originario, deve conservarne le proprietà teoriche fondamentali e pur tuttavia deve risultare comprensibile anche da parte di coloro che non hanno consuetudine e familiarità con le specifiche questioni da affrontare e risolvere nel campo di ricerca al quale appartiene il problema in esame. La sintesi fra queste due esigenze non è facile e richiede uno sforzo congiunto di operatori provenienti da matrici disciplinari differenti e una diversa mentalità, che deve fare i conti con le esigenze della ricerca in team, con la necessità di trovare un equilibrio fra vari punti di vista e tra obiettivi diversi. Per acquisire questo nuovo quadro di riferimento non si può procedere “per sommatoria” o “per aggiunta”, accatastando l’uno sull’altro, in modo casuale e senza un disegno preciso e un progetto coerente, “pezzi” di formazione e componenti di specializzazione diversi. Occorre invece procedere con una politica sottile d’intersezione, d’incastro, organizzando e mettendo in pratica processi formativi e di ricerca basati sul confronto tra prospettive diverse e sperimentando, anche nell’ambito di questi processi, strategie d’interazione complesse. E’ proprio qui, in questi incastri e intersezioni, che emerge l’insostituibile funzione euristica dei linguaggi di mediazione, cioè degli unici strumenti di cui disponiamo per uscire dalla logica di specialismi rigidamente chiusi in se stessi e di garantire un minimo d’interazione e di scambio dialogico tra soggetti individuali e collettivi, portatori d’istanze, prospettive, esigenze e valori diversi. In questo caso e per questo aspetto, dunque, i linguaggi della mediazione non hanno nulla a che vedere con la tradizionale divulgazione scientifica e assumono invece una funzione di cerniera, di “interfaccia” tra prospettive teoriche diverse che appare sempre più importante e decisiva ai fini della crescita della conoscenza scientifica, in quanto funge da elemento catalizzatore e propulsivo per lo sviluppo di quei “ponti sottili” tra le due culture, e tra singoli campi all’interno di ciascuna di esse, che nell’attuale società della conoscenza e di fronte alla crescente irruzione della complessità costituiscono un patrimonio ormai irrinunciabile. Questo processo, in virtù del quale non solo il linguaggio, ma anche il pensiero si presentano come strumenti interattivi, tesi alla costruzione di uno sfondo il più possibile condiviso tra soggetti che partono da punti di vista magari profondamente diversi, pone problemi nuovi che hanno stimolato più ambiti (filosofia della conoscenza e dell’azione, logica, informatica, economia) a studiare, a

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partire dagli anni ’80, modelli atti a rappresentare l’interazione di più agenti, capaci sia di conoscere, sia di agire. In tali contesti risulta essenziale sviluppare un’articolata strumentazione razionale, che permetta a questi agenti di rappresentare conoscenze, di eseguire inferenze, di applicare diverse modalità comunicative e, infine, di pianificare azioni, in quanto singoli, ma anche in quanto gruppo con i connessi problemi di coordinazione. E’ in questo senso ad esempio che vanno le ricerche, dedicate a quelle che vengono sempre più spesso chiamate le forme di “intelligenza connettiva”. In seguito a questi sviluppi il pensiero diventa sempre più una modalità di connessione e collaborazione tra persone diverse, il risultato di una condivisione con la famiglia, con l’impresa, con gli amici ecc. cioè un fenomeno di gruppo e di “comunità”. Proprio a questi problemi Tagliagambe ha dedicato l’opera del 2008 Lo spazio intermedio. Reti individuo e comunità. L’importanza e l’attualità di questo nuovo filone di ricerca sono confermati anche dallo sviluppo, nell’ambito della logica formale, di teorie sistemiche per sistemi multiagente -formalmente dei sistemi multimodali, che possono incorporare anche una dimensione temporale- le quali prevedono la possibilità, da parte di ciascun agente, di ragionare sulle proprie conoscenze e su quelle altrui, e permettono l’identificazione di conoscenze distribuite (distribute knowledge) o condivise da un gruppo di agenti (common knowledge). Nelle logiche dei sistemi multiagente, un aspetto molto interessante è l’introduzione di operatori common knowledge mediante i quali si esprime il fatto che tutti i membri di un gruppo di agenti sanno qualcosa, e ciascuno sa anche che tutti gli altri sanno questo, ecc. Vengono introdotti anche operatori di “conoscenza distribuita”, mediante i quali si evidenzia che gli agenti sanno qualcosa “insieme”, cioè una forma di conoscenza collettiva, o connettiva come forse è più corretto e pertinente chiamarla. In questo stesso ambito di problemi e di interessi può essere fatto rientrare, in modo tutt’altro che forzato, anche il filone delle ricerche di Tagliagambe dedicato al pensiero filosofico e scientifico russo. Questo si è, infatti, concentrato sulla Pietroburgo degli ultimi decenni del XIX secolo e dei primissimi anni del XX, che era un ambiente ove si realizzavano un intenso scambio dialogico e una singolare convergenza di ricerche di tipo eterogeneo, un laboratorio di sperimentazione dove convivevano, fondendosi al di là d’ogni confine disciplinare, punti di vista e modalità interpretative e d'indagine fortemente differenziati. La città, voluta con ferrea determinazione da Pietro il Grande con l'obiettivo di farne una "finestra sull'Europa", presentava in quel periodo quella concentrazione di personalità di gran talento in uno spazio ridotto e in un arco di tempo ristretto, racchiuso nel succedersi di pochissime generazioni, che ne faceva un "cronotopo denso di tempo", per usare un'espressione coniata più tardi per l'opera di Goethe da un originale pensatore che si plasmò, almeno parzialmente, a Pietroburgo e cioè Michail Bachtin. In questo scenario si formarono e operarono personalità come, I. M. Sečenov, D.I. Mendeleev, V. I. Vernadskij. A questi due ultimi, in particolare, Tagliagambe ha dedicato studi miranti non solo ad analizzare i loro specifici percorsi di ricerca, ma anche a cercare di ricostruire l’atmosfera culturale che si poteva respirare nella Pietroburgo del tempo e gli straordinari intrecci tra le personalità di scienziati, filosofi, letterati, musicisti e artisti che ne animavano la vita culturale. Un vero e proprio laboratorio di “intelligenza connettiva” ante litteram. Per quanto riguarda Sečenov egli si è occupato invece del modo in cui furono accolte e recepite nell’ambiente culturale russo le idee sul secolare problema del rapporto mente/corpo da lui esposte in saggi scritti a partire dal 1863 e poi raccolti nel volume intitolato da ultimo Refleksy golovnogo mozga (I riflessi encefalici), dopo che la censura aveva rifiutato il titolo, ben più significativo ed esplicito, originariamente scelto dall’autore, e cioè Popytka vvesti fiziologičeskie osnovy v psichičeskie processy (Tentativo di porre i processi psichici su basi fisiologiche). Con quest’opera egli aveva posto le basi di un indirizzo di ricerche psicologiche interamente fondato sulla fisiologia e caratterizzato da una critica implacabile e radicale delle idee di mente e di coscienza e della pretesa del pensiero di attribuirsi il ruolo di causa delle azioni e dei comportamenti umani. Questo sua prospettiva teorica incontrò l’ostilità dura ed esplicita di Fëdor Dostoevskij, che alla critica di essa dedicò due suoi romanzi entrambi scritti nel pieno del rinnovamento e incremento

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degli studi sulla mente e sul suo rapporto con il cervello, alimentato dall’indirizzo del pensiero scientifico russo della prima metà degli anni ’60, e cioè Zapiski iz podpolja (Memorie dal sottosuolo), uscito nel 1864, e quindi solo un anno dopo la pubblicazione dei primi contributi di Sečenov sul tema, e Prestuplenie i nakazanie (Delitto e castigo), romanzo progettato e iniziato nel 1865 e pubblicato, nella sua versione definitiva, nel 1866 e che del precedente può essere considerato uno svolgimento approfondito. All’analisi delle motivazioni che sono alla base dell’ispirazione di questi due capolavori e delle ragioni per le quali entrambi possono essere legittimamentte considerati una sfida aperta e dichiarata al riduzionismo di Secenov, in quanto propongono fenomeni mentali che, a giudizio dell’autore, resistono ad ogni sforzo di analisi e spiegazione di tipo fisiologico, Tagliagambe ha dedicato il suo libro del 2002 Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello. Il titolo fa riferimento allo sforzo del grande scrittore russo di riuscire a dar senso a una prospettiva, nell’ambito della quale al mentale e allo psichico potesse essere attribuita una specifica dimensione e autonomia rispetto al livello del cervello e del corpo. Prendendo lo spunto da questa controversia della seconda metà dell’800 e dalla sua ricostruzione Tagliagambe si è proposto di esplorarne l’attualità attraverso un confronto serrato con i più recenti studi sulla natura e sul funzionamento dei processi cerebrali e sui rapporti tra questi ultimi e la sfera della mente, pensata non come un qualcosa di occulto situato dentro la scatola cranica di ciascuno, ma come un’atmosfera che ci circonda, un contesto e uno spazio che condividiamo, una disposizione solidaristica, relazionale. Proprio questa idea del mentale lo ha portato ad occuparsi dei tentativi, attualmente in corso, di ridurre l’anarchia che oggi regna nel Web, in seguito alla frammentazione dell’informazione che lo caratterizza, e di facilitare, all’interno di esso, la creazione di uno sfondo condiviso che renda più agevoli la comunicazione reciproca e lo scambio di informazioni tra agenti che partono da punti di vista sul mondo, premesse, orientamenti e valori diversi. Ciò che pare necessario fare a tal fine è riuscire a mantenere traccia del contesto durante il processo di comprensione di un testo qualunque e di elaborazione del linguaggio naturale, integrando l’uso di un linguaggio di meta-descrizione, come XML, con quella che viene chiamata la Web semantic. L’elaborazione e il consolidamento progressivo di questo sfondo condiviso può essere agevolato dallo spostamento del baricentro dell’attenzione dalla singola parola o frase alla struttura dei link, cioè al sistema delle relazioni tra questi ultimi, che contiene una grande quantità di informazioni sulle conoscenze di coloro che utilizzano il Web. L’estrazione di questa conoscenza implicita dal groviglio dei link tra le pagine Web, oltre a costituire uno dei risultati scientifici più rilevanti della ricerca informatica degli ultimi anni, recupera un pezzo significativo di informazione nella fitta rete della nostra cultura e realizza una sorta di meta-memoria, che può contribuire in qualche modo a far convergere le finalità e gli obiettivi degli utilizzatori verso obiettivi e punti di vista comuni e a far quindi emergere, via via, lo fondo suddetto. E tutto questo, come si è visto, valorizzando l’informazione contenuta nella struttura dei link da un sito a un altro, vale a dire l’organizzazione dell’informazione e della conoscenza nel suo complesso. Emerge, in questo modo, un problema di grande importanza sotto il profilo epistemologico, che è quello del rapporto tra conoscenza, rappresentazione della conoscenza e organizzazione della conoscenza, problema che oggi assume aspetti inediti proprio in virtù del fatto che ci troviamo di fronte a tecnologie potenti, come quelle dell’informazione e della comunicazione, che “incorporano”, per così dire, modalità d’organizzazione del sapere radicalmente alternative rispetto a quelle fin qui usuali ed egemoni. Su questo tronco si innesta l’ultimo filone di ricerca che Tagliagambe sta sviluppando, riguardante le modalità di costituzione di nuove forme di “spazio pubblico” come “spazio intermedio”, idea che egli ha tratto dallo studio del pensiero filosofico e scientifico di Pavel Florenskij, e di una nuova idea di città, temi che sono affrontati e sviluppati nei saggi Landscape as a regenerative structure of a fragmented territory e The dilation of the concept of inhabit and the city/territory relationship, entrambi del 2008, e nel volume People and Space. New Forms of interaction in City Project. in

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corso di stampa presso Springer-Verlag, scritto in collaborazione con Giovanni Maciocco, Preside della facoltà di Architettura di Alghero.