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1 Nuovi stili di pensiero: la strategia dello sguardo e il problema dei confini. Silvano Tagliagambe 1. La restrizione: dal vedere al guardare Che cosa significa “vedere”? Dietro questa attività, apparentemente semplice e banale, che è alla base di ogni istante della mia vita da sveglio, si nasconde un processo di grande complessità e molto articolato. Per esempio un oratore che parla di fronte a un folto pubblico vede numerose persone dinanzi a lui, ma, ovviamente, non è in grado di distinguerle uno per uno. E soprattutto non è lui il protagonista di questo atto: è il pubblico, con la sua presenza, che s’impone alla sua vista, costringendolo a una situazione di passività, in virtù della quale egli deve limitarsi a prendere atto e a registrare ciò che c’è e quello che si svolge dinanzi ai suoi occhi. C’è un’altra cosa sottolineare: vedere non significa ancora riconoscere. Consideriamo, ad esempio, una situazione proposta da Hanson: quella di un fisico preparato e di un bambino esquimese posti, in un laboratorio di fisica, di fronte a un tubo a raggi x. Possiamo dire che vedono la medesima cosa? "Si e no", risponde Hanson. "Sì nel senso che sarebbero visivamente consapevoli del medesimo oggetto, no in quanto il modo in cui ne sono visivamente consapevoli è profondamente diverso [...]. Dopo anni di università e di ricerca, il fisico vede lo strumento nei termini della teoria dei circuiti elettrici, della teoria termodinamica, delle teorie della struttura dei metalli e del vetro, dell'emissione termoionica, della trasmissione ottica, della rifrazione, della diffrazione, della teoria atomica, della teoria quantistica e della relatività speciale [...]. Il profano, anche se vede esattamente ciò che vede il fisico, non può interpretarlo nello stesso modo perché non ha le conoscenze del fisico" 1 . Il vedere di cui parla Hanson è dunque il risultato dell'inserimento dell'oggetto verso il quale l'attenzione è diretta entro un contesto, che ne determina il modo di lettura. Di questo contesto entrano a far parte in modo determinante, oltre allo "sfondo" in cui l'oggetto medesimo è collocato, il soggetto con il bagaglio di conoscenze di cui dispone. Non è, ovviamente, necessario che questo contesto venga indicato in maniera esplicita: ma è la sua presenza a determinare "letture" diverse della stessa figura o "cosa". È importante sottolineare che il contesto acquista una duplice valenza: da un lato è riferimento imprescindibile al soggetto che vede, con l’archivio di dati, informazioni, saperi di cui dispone; per l’altro è relazione, altrettanto inderogabile, con l’ambiente e con la rete di scambi e di traffici in cui esso si articola. L’osservazione mostra, ed è esperienza comune, che il cervello non acquisisce mai una nuova informazione senza inquadrarla in un contesto: il rosso del vestito di mia moglie che vedo di fronte a me, anche se, dal punto di vista fisico, è il medesimo rosso del semaforo (la stessa composizione spettrale, in termini di frequenze o lunghezze d’onda caratteristiche di quel colore) non provoca in me la medesima reazione di arresto stimolata dal codice del semaforo. Pur trattandosi del medesimo segnale e della stessa informazione riguardo a ciò che mi dice la fisica assume un significato completamente diverso, addirittura opposto, determinato, appunto, dal diverso contesto in cui questa informazione viene a cadere. Nell’atto del vedere c’è dunque un duplice riferimento relazionale: da una parte, il rapporto con il contesto, che incide sul significato, all’altro un costante riferire a sé dell’osservatore, in una continua ri-composizione dell’oggettivo nel soggettivo, e viceversa, a cui è tra l’altro 1 N.R. Hanson, I modelli della scoperta scientifica, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 27.

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Nuovi stili di pensiero: la strategia dello sguardo e il problema dei confini.

Silvano Tagliagambe

1. La restrizione: dal vedere al guardare

Che cosa significa “vedere”? Dietro questa attività, apparentemente semplice e banale, che è alla base di ogni istante della mia vita da sveglio, si nasconde un processo di grande complessità e molto articolato. Per esempio un oratore che parla di fronte a un folto pubblico vede numerose persone dinanzi a lui, ma, ovviamente, non è in grado di distinguerle uno per uno. E soprattutto non è lui il protagonista di questo atto: è il pubblico, con la sua presenza, che s’impone alla sua vista, costringendolo a una situazione di passività, in virtù della quale egli deve limitarsi a prendere atto e a registrare ciò che c’è e quello che si svolge dinanzi ai suoi occhi.

C’è un’altra cosa sottolineare: vedere non significa ancora riconoscere. Consideriamo, ad esempio, una situazione proposta da Hanson: quella di un fisico preparato e di un bambino esquimese posti, in un laboratorio di fisica, di fronte a un tubo a raggi x. Possiamo dire che vedono la medesima cosa? "Si e no", risponde Hanson. "Sì nel senso che sarebbero visivamente consapevoli del medesimo oggetto, no in quanto il modo in cui ne sono visivamente consapevoli è profondamente diverso [...]. Dopo anni di università e di ricerca, il fisico vede lo strumento nei termini della teoria dei circuiti elettrici, della teoria termodinamica, delle teorie della struttura dei metalli e del vetro, dell'emissione termoionica, della trasmissione ottica, della rifrazione, della diffrazione, della teoria atomica, della teoria quantistica e della relatività speciale [...]. Il profano, anche se vede esattamente ciò che vede il fisico, non può interpretarlo nello stesso modo perché non ha le conoscenze del fisico"1.

Il vedere di cui parla Hanson è dunque il risultato dell'inserimento dell'oggetto verso il quale l'attenzione è diretta entro un contesto, che ne determina il modo di lettura. Di questo contesto entrano a far parte in modo determinante, oltre allo "sfondo" in cui l'oggetto medesimo è collocato, il soggetto con il bagaglio di conoscenze di cui dispone. Non è, ovviamente, necessario che questo contesto venga indicato in maniera esplicita: ma è la sua presenza a determinare "letture" diverse della stessa figura o "cosa". È importante sottolineare che il contesto acquista una duplice valenza: da un lato è riferimento imprescindibile al soggetto che vede, con l’archivio di dati, informazioni, saperi di cui dispone; per l’altro è relazione, altrettanto inderogabile, con l’ambiente e con la rete di scambi e di traffici in cui esso si articola. L’osservazione mostra, ed è esperienza comune, che il cervello non acquisisce mai una nuova informazione senza inquadrarla in un contesto: il rosso del vestito di mia moglie che vedo di fronte a me, anche se, dal punto di vista fisico, è il medesimo rosso del semaforo (la stessa composizione spettrale, in termini di frequenze o lunghezze d’onda caratteristiche di quel colore) non provoca in me la medesima reazione di arresto stimolata dal codice del semaforo. Pur trattandosi del medesimo segnale e della stessa informazione riguardo a ciò che mi dice la fisica assume un significato completamente diverso, addirittura opposto, determinato, appunto, dal diverso contesto in cui questa informazione viene a cadere.

Nell’atto del vedere c’è dunque un duplice riferimento relazionale: da una parte, il rapporto con il contesto, che incide sul significato, all’altro un costante riferire a sé dell’osservatore, in una continua ri-composizione dell’oggettivo nel soggettivo, e viceversa, a cui è tra l’altro

                                                                                                               1 N.R. Hanson, I modelli della scoperta scientifica, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 27.

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legato il fluire della percezione della corporeità che determina le reazioni emotive. Indicativo, da questo punto di vista, è il modo in cui i neuroscienziati stanno inquadrando il tema delle emozioni. Damasio, in particolare, a partire da un’opera del 19992, affronta e tratta la questione in un modo che può essere sintetizzato come il risultato della consapevolezza di un triplice ordine di fatti:

1) in primo luogo che il cervello è stato selezionato dall’evoluzione naturale per conoscere l’ambiente esterno sulla base delle modifiche che esso subisce in seguito alle interazioni con gli oggetti e i processi della realtà con cui entra in contatto e interagisce;

2) che l’espressione più diretta e immediata di queste modifiche è costituita dalle emozioni, le quali sono qualcosa che accade nel corpo, che si pone in uno stato determinato dal modo in cui si contraggono i muscoli, si dispongono gli organi interni e agisce nel cervello una serie di sostanze messe in circolo;

3) che il cervello pensa e agisce in primo luogo per immagini costruite proprio sulla base dei cambiamenti che esso e l’intero corpo subiscono durante l’interazione fisica con il contesto ambientale. Il ricorso alle immagini rappresenta infatti il modo più economico che il cervello dei mammiferi ha per far passare rapidamente informazioni tramite varie interfacce cerebrali. In esse c’è pertanto un’informazione sintetica capace di attivare vari circuiti che collegano il sistema limbico con le aree corticali elaborative ed esecutive.

Questi tre ordini di fatti convergono nell’idea di un processo che riunisce, all’incirca nello stesso istante, la raffigurazione dell’oggetto esterno con cui si entra in contatto, quella relativa all’organismo e quella relativa alla relazione tra i due. Il risultato di questa interazione e delle modificazioni che esso provoca nel corpo lascia nel cervello delle tracce alle quali vengono associati stati, valori e previsioni positivi (chiamati marcatori somatici, proprio perché sono l’espressione di reazioni corporee e incidono sullo stato complessivo dell’organismo), di felicità e soddisfazione, e quindi orientati verso la disponibilità a ripetere le relative esperienze, o negativi, di ripugnanza, paura o rabbia, e che di conseguenza fungono da segnali di stop verso questa ripetizione. Si forma così nel cervello un intero archivio di rapporti con l’ambiente emozionalmente marcati, fissati nella memoria del vissuto, tra stati del corpo positivi o negativi ed eventi, accadimenti, scenari, situazioni, esiti, in grado di anticipare il risultato, sul piano emotivo, di una eventuale interazione con questi eventi, soggetti, oggetti, e situazioni. Questo archivio funziona dunque come un filtro di previsione\valutazione basato sulla memoria dell’esperienza pregressa e consente una continua attività di attribuzione di significato e di anticipazione per evenienze future, agendo da stimolo e incentivo alla ripetizione dell’esperienza o, al contrario, come campanello di allarme o segnale di stop.

Negli ultimi anni i ricercatori nell’ambito delle neuroscienze in un gran numero di pubblicazioni hanno approfondito queste ricerche giungendo a individuare nei neuropeptidi e nei loro ricettori la chiave biochimica delle emozioni e a ricostruire un quadro generale all’interno del quale i grossi sistemi biologici (sistema nervoso centrale e periferico, sistema endocrino, sistema immunitario) risultano legati tra loro in un netwotk di informazioni e di comunicazioni in senso bidirezionale che dialoga proprio con il linguaggio dei neuropeptidi. Da questo complesso processo che coinvolge processi cognitivi e reazioni emotive

                                                                                                               2 A.R. Damasio, Emozioni e coscienza, Adelphi, Milano, 2000.

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emerge il significato, che quindi non appartiene all’input, che in sé stesso è privo di senso, bensì, come si è visto, al contesto complessivo in cui l’esperienza percettiva si colloca. L’apprendimento consiste in un continuo processo di aggiornamento del paesaggio dell’universo interiore preesistente, che a sua volta riassume in sé il significato delle anteriori esperienze percettive. In questo processo il flusso di informazioni scambiato nella relazione comportamentale col mondo diventa conoscenza. Questa comporta una prospettiva, misura l’esperienza accumulata in esperienze percettive passate e crea aspettative che orientano il soggetto in quelle future, nella ricerca mirata, intenzionale, di situazioni esperienziali positive e atte a soddisfare i bisogni e le attese del soggetto conoscente. Il cervello rimette dunque continuamente in discussione, in ogni suo atto percettivo, tutto il suo assetto esperienziale, lo ristruttura e lo ridisegna in uno scambio dialogico incessante tra il proprio mondo interiore nel suo complesso e la realtà esterna. Per assumere una funzione da protagonista di questo processo e non subirlo passivamente egli deve, come osserva Bion, “gettare un raggio di intensa oscurità all’interno, in modo che qualcosa sinora passato inosservato alla luce abbagliante dell’illuminazione possa luccicare ancor più in quella oscurità”3. Ed è stato ancora Bion a ricordare che “Freud disse di doversi accecare artificialmente per poter concentrare tutta la luce su un punto oscuro”4. Accecarsi artificialmente significa passare dal vedere al guardare: lo sguardo è restrizione del campo visivo, è selezione, azione, impulso attivo, capacità di focalizzare l’attenzione sugli aspetti di proprio specifico interesse e che si ritengono significativi e pertinenti ai fini di ciò che si sta facendo o pensando.

2. Il confine e la sua duplice natura e funzione I temi posti dal processo della visione sono profondi e complessi, frutto di una fitta trama che disegna un panorama di grande interesse.

Per ricostruire questo ordito e mostrarne le connessioni interne proviamo a raggruppare gli argomenti trattati attorno a un motivo conduttore che mi è caro, quello del confine, al quale ho dedicato un’apposita analisi ormai molti anni fa5 proprio perché lo consideravo cruciale, il punto di confluenza di tutta una serie di questioni riguardanti l’organizzazione del nostro apparato percettivo e cognitivo e le sue modalità di funzionamento.

Per capire questa sua funzione centrale partiamo da un’osservazione di Vallortigara che riguarda il nostro apparato visivo e le condizioni che ci permettono di vedere: “Il mondo visivo delle specie che possono focalizzare la luce per formare immagini deve essere caratterizzato dalla presenza di figure segregate e ben distinte rispetto allo sfondo. Date le proprietà della luce, ci sono pochi modi per ottenere ciò. Un modo, generalissimo, è di ricavare margini o bordi laddove la stimolazione fisica rileva delle differenze. Il problema naturalmente è che in molte circostanze tali variazioni fisiche possono essere assai poco nette, per non dire indistinte, oppure possono essere presenti solo a tratti (pensate a un animale che si muove nel fitto del fogliame). Ecco allora che per mezzo della selezione naturale sono stati messi a punto dei meccanismi di interpolazione che, usando regole piuttosto semplici basate sulle regolarità statistiche dell’ambiente (similarità di colore, chiarezza e tessitura, continuità di direzione, movimento comune delle parti ecc.)                                                                                                                3 Citazione ricavata da J.S. Grotstein, Un raggio di intensa oscurità. L’eredità di Wlfred Bion, Raffaello Cortina, Milano, 2010, p. 324. In nota Grotstein scrive: “Si tratta della citazione esatta di Bion, durante la mia analisi con lui nel 1976. Menzionò di averla tratta da una delle lettere di Freud a Lou Andreas. Salomé (Freud, Andreas-Salomé, 1966)”. 4 Ibidem, 5 S. Tagliagambe, L’epistemologia del confine, Il Saggiatore, Milano 1997.

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estraggono, a uso e consumo dell’animale che ne ha bisogno, margini anche laddove non ve ne sono”6.

Dunque, per agire in modo appropriato ed efficace nel nostro ambiente, abbiamo bisogno di confini e margini. È un’esigenza talmente radicata e fondamentale da spingerci a vederli anche laddove non vi sono, come nel caso dei famosi triangoli di Kanizsa:

Fig. 1

In questa figura si vede indubbiamente un triangolo rosso che copre parzialmente un triangolo a solo contorno nero con la punta in giù e tre gruppi di dischi neri che appaiono completarsi amodalmente7 il triangolo, tuttavia, fisicamente non c’è. Nello spazio fisico si riscontrano soltanto tre angoli e tre settori circolari neri. Se si andasse a misurare con un fotometro la quantità di luce riflessa nella zona dove si vede il triangolo inesistente e nella zona esterna a esso si troverebbe che è esattamente la medesima: nonostante ciò, si continua a vedere il triangolo come più chiaro e compatto dello sfondo e nel rendimento fenomenico i tre angoli diventano un triangolo e i tre settori circolari acquistano completezza e regolarità trasformandosi in tre dischi. Il fenomeno è indipendente dal tipo di colore adottato, come mostrano i due esempi seguenti:

Fig. 2

                                                                                                               6 G. Vallortigara, Cervello di gallina. Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 29. 7 Gli psicologi della percezione usano l’espressione “completamento amodale” per designare un completamento che si verifica senza che venga stimolata la modalità appropriata (visiva, in questo caso); la luce riflessa dalle porzioni occluse degli oggetti non può infatti raggiungere direttamente gli occhi.

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Fig. 3

A proposito di quest’ultima figura Kanizsa osserva che “la condizione perché possa verificarsi questo miglioramento dell’organizzazione complessiva è che la zona centrale bianca sia vissuta come una superficie triangolare opaca sovrapposta alle figure nere e allo sfondo. E poiché una superficie non esiste senza margini, l’emergere fenomenico di questi ultimi, in assenza di gradienti nella stimolazione, andrebbe considerato come una conseguenza diretta della stratificazione, che a sua volta sarebbe prodotta dai processi di completamento amodale verso cui tendono determinati elementi figurali del complesso”8.

In un primo momento l’ideatore di queste figure indica come fattore importante, anzi determinante, per questo processo di completamento una tendenza alla massima regolarità. Successivamente però rivede questa ipotesi in seguito alla possibilità, da lui stesso evidenziata con nuove figure come la seguente, di ottenere ottimi contorni senza-gradiente con completamenti che danno luogo a casi nei quali sia la superficie anomala che le figure inducenti sono configurazioni non regolari. “Il fattore decisivo sembra dunque essere non tanto la tendenza alla regolarità geometrica, quanto una tendenza alla chiusura di strutture aperte”9:

Fig. 4

Fissiamo dunque questi che appaiono due presupposti fondamentali per comprendere il processo della visione: il bisogno di un confine, che ci consenta di separare una figura dallo sfondo e la tendenza alla chiusura di strutture aperte. Si tratta di esigenze talmente imprescindibili da dar corpo e conferire realtà fenomenica a pure costruzioni del nostro apparato percettivo, come i margini illusori e gli oggetti completati amodalmente.

                                                                                                               8 G. Kanizsa, Grammatica del vedere. Saggi su percezione e Gestalt, Il Mulino. Bologna, 1980, pp. 278-279 (Il corsivo è mio). 9 Ibidem, p. 304.

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Un altro aspetto fondamentale da segnalare a proposito della visione è che il confine tra figura e sfondo può essere spostato, dando luogo a soluzioni alternative differenti, ma mai eliminato. È dunque dinamico, soggetto a variazioni e a dislocazioni diverse, a seconda delle propensioni e tendenze di colui che osserva, come evidenziano in modo preciso le diverse opzioni alle quali va soggetta la “lettura” delle cosiddette figure ambigue, ma non se ne può mai fare a meno. Gli esempi seguenti sono più che sufficienti a evidenziare questa duplice possibilità:

Fig. 5 Fig. 6

Ci siamo soffermati su questi due aspetti perché essi costituiscono i tratti distintivi della situazione di fronte alla quale ci pone la scienza contemporanea. Il primo, quello del confine e della sua mobilità, è introdotto in maniera esemplare da uno dei maggiori fisici del secolo scorso, Wolfgang Pauli, premio Nobel del 1945 per la scoperta del “principio di esclusione” che porta il suo nome, in uno scritto visionario del 1953 La lezione di piano, “una fantasia attiva sull’inconscio”, dedicata a Marie-Louise von Franz, una psicoanalista svizzera, allieva e collaboratrice di Carl Gustav Jung, che è stata una delle più importanti esponenti della psicologia analitica del XX secolo. Si tratta di un testo non destinato alla pubblicazione e riemerso da poco, che è stato inserito nella traduzione italiana del celebre saggio di Pauli L’influsso delle immagini archetipiche sulla formazione delle teorie scientifiche di Keplero, apparso nel 1952 insieme al saggio di Jung La sincronicità come principio di nessi acausali e a un altro saggio inedito, dal titolo Moderni esempi di “Hintergrundsphysik”. Nella nota editoriale di presentazione all’edizione italiana esso viene presentato come “uno scritto sorprendente, che ha il ritmo di una pièce teatrale di Ionesco, dove Pauli espone le sue congetture su fisica, psicologia, biologia”10.

La metafora guida di questo scritto del 1953, come si evince già dal titolo, è quella del “suonare il pianoforte”. Pauli la spiega così: “L’essere umano è simile a questo pianoforte: le note hanno un’altezza e un’intensità, le melodie sono figure che è possibile riprodurre e riconoscere in differenti tonalità poiché una tonalità si può trasformare in un’altra. Così come ci sono suoni gravi, medi e acuti, così nell’uomo esistono l’elemento istintivo o pulsionale, quello intellettuale o razionale e quello spirituale o sovrasensibile. L’intensità invece è la forza con cui le note agiscono sulla nostra coscienza”11.

Questa metafora serve a Pauli per chiarire quella che ritiene la novità più rilevante della teoria fisica così come si presenta alla luce degli sviluppi della meccanica quantistica: “La fisica moderna ha generalizzato la vecchia contrapposizione di soggetto conoscente e oggetto conosciuto nell’idea di una separazione (Schnitt) tra osservatore o dispositivo di misura da un lato e sistema osservato dall’altro. Mentre l’esistenza di una tale separazione è condizione necessaria per la conoscenza umana, essa [la fisica moderna] concepisce il

                                                                                                               10 W. Pauli, Psiche e natura (1952), tr. it., Adelphi, Milano 2006, p. 9. 11 Ibidem, pp. 167-168.

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punto (Lage) della separazione come relativamente arbitrario e frutto di una scelta condizionata da valutazioni di utilità, e dunque in parte libera”12.

Il confine, dunque, anche in questo caso deve essere:

§ imprescindibile e tale da fungere da linea di demarcazione: senza di esso e senza questa specifica funzione di demarcazione non sarebbe possibile, per un sistema qualunque, distinguersi dall’ambiente in cui vive, così come una figura si distingue dallo sfondo, e acquisire una specifica identità;

§ poroso e tale da fungere da interfaccia con l’esterno e con l’altro: se non fosse così non sarebbe possibile lo scambio, in termini di materia, energia e informazione, tra il sistema vivente e il suo ambiente;

§ mobile: L’osservatore può spostare avanti o indietro il confine che lo separa dal sistema osservato e questo spostamento determina, come si è visto nel caso della percezione visiva di una figura ambigua, un diverso modo di vederla e interpretarla.

Ne consegue che: “Gli osservatori o gli strumenti d’osservazione a cui la moderna microfisica deve far riferimento si differenziano in modo essenziale dall’osservatore indipendente della fisica classica. Per osservatore indipendente intendo un osservatore che non è necessariamente privo di un effetto sul sistema osservato, ma la cui influenza può essere eliminata attraverso opportune correzioni. In microfisica, invece, le leggi sono di un tipo tale che ogni incremento di conoscenza guadagnato con una misurazione viene necessariamente pagato con la perdita di altre conoscenze complementari. Ogni osservazione è allora un intervento di entità non esattamente quantificabile sia sul piano osservato che sull’apparato di osservazione, e interrompe la connessione causale tra i fenomeni che la precedono e quelli che la seguono. Questa interazione incontrollabile fra osservatore e sistema osservato che ha luogo in ogni osservazione rende impraticabile la concezione deterministica su cui si fonda la fisica classica. Questo gioco che segue regole predefinite, una volta avvenuta la libera scelta dell’osservatore tra dispositivi sperimentali che si escludono a vicenda, viene interrotto dall’osservazione selettiva; la quale, in quanto evento essenzialmente non automatico, può essere paragonata a un atto di creazione nel microcosmo o anche a una mutazione, ma in ogni modo con un risultato imprevedibile e incontrollabile”13.

Concentriamo dunque l’attenzione sull’importanza di questo concetto di “osservazione selettiva” e sulla possibilità di paragonarlo a una mutazione il cui risultato è imprevedibile e incontrollabile. È bene completare il discorso di Pauli, evidenziando il suo punto d’approdo: “Come reazione a queste nuove idee”, conclude dunque Pauli, “ […] alcuni fisici pretendono di restaurare il vecchio ideale dell’osservatore indipendente, cosa che però mi appare come un’utopia negativo-regressiva. A fronte di ciò vorrei difendere il punto di vista opposto, e cioè che da queste idee sia solo possibile partire per andare avanti e che un tale progresso ci porterebbe direttamente ai fenomeni della vita. Per quanto la fisica odierna si discosti dalla vecchia descrizione ‘classica’ della natura, anch’essa dopotutto fa le sue tacite concessioni alla forma tradizionale dell’’oggettività’ delle leggi naturali: una volta che l’osservatore ha scelto il suo dispositivo sperimentale, il risultato dell’osservazione secondo la concezione della fisica odierna è del tutto indipendente dal suo stato psichico; l’osservatore lo può soltanto registrare ma non è in grado di influenzarlo”14.                                                                                                                12 Ibidem, p. 118. 13 Ibidem, pp. 119-120 14 Ibidem, pp. 163-164.

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Dunque, come dice Ian McEwan: “Chi si accinge a calcolare il mondo non può più farlo con distacco. È costretto a comprendere nei propri calcoli anche sé stesso”15.

3. La dilatazione: la “visione doppia”

Per mettere bene a fuoco il problema di cui ci stiamo occupando occorre tenere conto del fatto che, sia che veda o guardi, il nostro cervello è sempre attivo. Lo dimostra il “punto cieco della visione”, quella piccola regione della retina a cui afferiscono i nervi ottici, che non contiene alcun recettore e non può quindi trasmettere alcuna impressione sensoriale al cervello. Eppure nessuno ha la sensazione di avere un buco nel campo visivo, nessuno ne ha percezione cosciente per due ragioni:

• l'altro occhio fornisce al cervello informazioni su cosa si trova in quella parte di campo visivo, anche se non molto dettagliate

• se l'altro occhio viene chiuso, il cervello riempie comunque il buco usando informazioni provenienti dalle zone immediatamente circostanti.

È importante sottolineare che, quando viene usato un solo occhio, ciò che viene visto nell'area del punto cieco è solo un’ipotesi, una supposizione da parte del cervello. Il fenomeno è ben più generale. La letteratura su pazienti affetti da lesioni neurocerebrali più o meno gravi ci dice che spesso il soggetto non percepisce la portata e forse nemmeno l’esistenza stessa della lesione. Al contrario, ristruttura i suoi campi sensoriali in maniera tale da dare un’impressione di coerenza in sé stessa compiuta e autosufficiente, da cui non appare alcuna sensazione di deficit e di mancanza.

II cervello, dunque, non subisce mai passivamente ciò che vede, ma lo rielabora. Decostruisce le forme e le strutture con cui entra in contatto e le ricostruisce secondo una logica che non è quella dell’oggetto esterno, ma quella interna dei processi cerebrali. Per questo noi vediamo anche quello che non c’è, come nelle figure di Kanizsa:

Dunque la visione si nutre anche di supposizioni che potrebbero essere sbagliate ed è per questo alimentata di continuo dall’immaginazione. Lo aveva già capito, con grande acume, Leopardi il quale, nello Zibaldone, parla, non a caso di visione doppia: “All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione"16. È questa visione doppia che ci consente di avvicinarci al cielo anche se non abbiamo le

                                                                                                               15 I. McEwan, Bambini nel tempo, Einaudi, Torino, 2005. 16 G. Leopardi, Lo Zibaldone, Firenze 30 novembre 1828.

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ali, come lo stesso Leopardi sottolinea nel suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:

Forse s’avess’io l’ale Da volar sulle nubi, a noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. Questa apertura della visione all’immaginazione, e quindi alla dimensione del possibile, che comporta la capacità di vedere e pensare altrimenti, sottraendosi al giogo degli automatismi che spingono a vedere sempre le stesse cose e nello stesso modo, senza alcun impulso creativo, non è soltanto una fantasia dei poeti. Essa può infatti contare sulla disponibilità, nel nostro cervello, di un circuito che si sottrae al prevalente orientamento all’azione. Si tratta del Default-Mode Network (DMN), una rete neurale distribuita in diverse regioni corticali e sottocorticali, che viene generalmente attivata durante le ore di riposo e di attività “passive”. Questa rete si attiva proprio quando il lavorio della mente non è rivolto a stimoli esterni ma verso il mondo interno. Pur non occupandosi delle usuali faccende quotidiane il metabolismo del cervello è intenso, cioè la corteccia consuma una gran quantità di energia e sono all’opera diverse componenti del sistema cerebrale: il lobulo parietale inferiore, la corteccia cingolata posteriore, la corteccia prefrontale ventro-mediale e la formazione dell’ippocampo. È un sistema di aree cerebrali dense e fitte di connessioni. Questa rete è associata a processi mentali definiti “immagini e pensieri non correlati a un compito” e si attiva, ad esempio, quando gli individui pensano al loro futuro costruendo una “scena mentale” basata sulla memoria episodica. Alcune sue componenti forniscono quindi informazioni provenienti da esperienze pregresse sotto forma di ricordi e associazioni che costituiscono i mattoni della simulazione mentale e dell’immaginazione. Il Default-Mode Network è pertanto fondamentale per utilizzare le esperienze passate al fine di progettare il futuro, individuare le interazioni sociali e massimizzare l’utilità dei momenti in cui ciascuno di noi non è direttamente impegnato nel mondo esterno e la sua attività mentale è diretta verso i canali interni. In queste fasi non si ha un pensiero ordinato e organizzato, ma piuttosto un agglomerato di istanti e di frammenti di esperienza interiori, miscugli saltuari fatti di sogni a occhi aperti, di fantasticherie, di monologhi interiori vaganti, di immagini vivide che contribuiscono molto alla formazione e al benessere della persona umana. Questo circuito spiega quindi alcune condizioni neuropsicologiche importanti ed evidenzia la funzione fondamentale del “sogno a occhi aperti”, di quella sorta di mondo intermedio tra il sogno vero e proprio e il momento introspettivo, come se si fosse svegli ma non davvero presenti a se stessi, mondo nel quale cominciano tuttavia a emergere e a prender forma le visioni orientate al futuro e i relativi progetti.

Il riferimento a questa rete evidenzia l’importanza dei risultati della psicoanalisi e della psicologia analitica. In particolare delle riflessioni di Freud sulla condensazione come strumento privilegiato di organizzazione interna e di espressione del linguaggio onirico e sul sogno come traduzione di avvenimenti che si svolgono ai margini dell'attenzione in immagini visive, che espandono improvvisamente, in senso positivo o negativo, il campo della coscienza. Dunque condensando si può espandere, tant’è vero che nel sogno non ci sono solo ricordo e previsione, ma anche la possibilità di porsi nei riguardi dell'esistenza in modo nuovo; in un modo che può definire, modificandola, la struttura stessa dell’esistenza e ampliarne gli orizzonti e le prospettive. Altrettanto fondamentali e lungimiranti appaiono le considerazioni di Jung sull’immaginazione – si potrebbe anche dire creatività – come risultato della tenacia “reattiva” con cui l’inconscio rivendica il suo diritto a manifestarsi,

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nonostante le “ragioni” della coscienza. L’immaginazione e i suoi prodotti sono pertanto, a suo giudizio, il luogo privilegiato del rapporto con l’inconscio, che si modula, si coniuga, si declina soprattutto attraverso un pensiero che impara e riesce a farsi figurativo, a drammatizzarsi, a mettersi in scena e rappresentarsi, producendo concetti, come i grandi archetipi di cui parla Jung - Puer, Senex, Animus, Ombra e il Sé – capaci di essere “visti” nella mente, oltre che compresi nella loro forza di potenti astrazioni. Proprio questo tipo di pensiero immaginante è lo strumento più efficace del dialogo e della comunicazione tra le funzioni superiori e quelle inferiori della psiche e di mediazione tra la coscienza e l’inconscio. L’integrazione tra questi opposti può darsi solo sul piano psichico che si manifesta come attività immaginativa creatrice. Proprio per questo le immagini e i simboli frutto di questa attività costituiscono gli strumenti insostituibili di quell’autentica conoscenza di sé che scaturisce dalla tendenza al superamento dell’inconscio inteso come territorio esterno ed estraneo, come non-conscio.

4. La luce taborica: la trasfigurazione dello sguardo

Questo complesso sostrato interiore, fatto di archetipi, di immaginazioni, di visioni, di sogni ad occhi aperti e chiusi retroagisce sul vedere e ci mette in condizione di vedere altrimenti, di vedere con occhi diversi, di vedere l’infinito.

Questo passaggio, di fondamentale importanza, in virtù del quale il processo della visione diventa creativo e trasforma il mondo, è al centro del tema della trasfigurazione come viene affrontato nella cultura russa e nelle religione ortodossa. Esso è strettamente legato alla funzione determinante assegnata alla luce, in particolare a quella luce che gli apostoli videro risplendere sul monte Tabor attraverso la carne e la veste di Cristo: “Egli] fu trasfigurato di fronte a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”17. Gli ortodossi la chiamano perciò luce taborica e spiegano che sul monte Tabor a cambiare non fu il corpo di Cristo, da sempre e per sempre divino-umano, ma gli occhi degli Apostoli, resi in quel momento capaci di vedere la divinità, come a dire ciò che è naturalmente invisibile. L’icona il cui primo obiettivo è quello di “catturare” e riprodurre la luce taborica, non è dunque soltanto un’immagine, ma uno strumento operativo per mettere in comunicazione reciproca infinito e finito, mondo ultraterreno e realtà quotidiana. Per questo essa può essere considerata la specifica incarnazione dello spazio intermedio tra questi due domini. La luce taborica è pertanto l’espressione concreta del modo in cui gli uomini possono partecipare alla rappresentazione dell’invisibile, di ciò che è inaccessibile ai sensi e allo stesso pensiero, l’immagine di Dio, l’icona del Cristo totale, del Dio-uomo.

Non sono però soltanto il culto e la religione che ci conducono al di là dell’effettuale, del riferimento al «qui» e «ora», a ciò che è collocato nello spazio e nel tempo e che veniva considerato da Kant l’ambito insuperabile dell’esperienza che siamo in grado di attingere. A varcare questi limiti oggi è anche la scienza; la metafora guida dello scritto di Pauli del 1953, “suonare il pianoforte”, è interessante perché si collega chiaramente a un passo del romanzo di Dostoevskij Zapiski iz podpolja (Memorie dal sottosuolo), che Nietzsche considerò la nascita ufficiale di una teoria dell’inconscio, già prima di Freud che quando quest’opera fu pubblicata aveva otto anni. Conoscendo l’interesse di Pauli per i problemi riguardanti l’esplorazione dell’universo interiore, attestato dal suo intenso e prolungato scambio dialogico con Jung, è da escludere che questo scritto non fosse tra le sue letture. Ebbene il protagonista, l’uomo del sottosuolo, che dichiara subito di avere un corpo malaticcio, una natura maligna e di rifiutare ogni interesse e passione per la vita nella sua completezza, ostentando un totale disinteresse all’esteriorità incarnata nel suo organismo,                                                                                                                17  La Sacra Bibbia, Matteo 17,2, C.E.I., Ed. San Paolo, 2009.

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nella seconda parte del romanzo confessa che, pur non volendolo, egli si comporta così, di fatto, contro ogni sua velleità e pretesa come “un tasto di pianoforte”18: e “perfino nel caso in cui risultasse che l’uomo è effettivamente un tasto di pianoforte, e perfino se ciò gli venisse dimostrato matematicamente e anche con l’aiuto delle scienze naturali, ebbene, neanche allora egli rinsavirebbe, ma farebbe a bella posta qualcosa in contrario, mosso unicamente dall’ingratitudine e tanto per far di testa sua”.19

Questa metafora del pianoforte serve a Pauli per chiarire quella che ritiene la novità più rilevante della teoria fisica così come si presenta alla luce degli sviluppi della meccanica quantistica. Il nuovo scenario, tratteggiato da Pauli con la consueta lucidità e capacità di sintesi, pone in primo piano una questione del tutto sconosciuta alla fisica classica, quella del rapporto tra descrizione e misurazione. Nella meccanica quantistica per passare da una descrizione a una misura attiva occorre rimuovere la stazionarietà ed entrare nella dimensione tempo. Il problema maggiore di questa teoria è proprio quello di conciliare l’aspetto reversibile dell’evoluzione con quello intrinsecamente irreversibile della misurazione. All’interno della teoria si registrano, infatti, due differenti modalità di evoluzione del vettore di stato. Da un lato, le normali interazioni tra due sistemi atomici, o tra un sistema atomico e un oggetto macroscopico che non sia un apparato di misura, sono caratterizzate da un’evoluzione deterministica regolata dall’equazione di Schrödinger, che descrive naturalmente anche l’evoluzione dei singoli sistemi che non interagiscono, mentre dall’altra il processo di misura provoca invece una transizione discontinua dallo stato iniziale a uno degli stati finali possibili. La teoria quantistica senza osservazione non determina più i fenomeni stessi, ma la loro possibilità, la probabilità che succeda qualche cosa. Nel caso della disintegrazione dell’atomo radioattivo, per esempio, la funzione d’onda di Schrödinger non contiene alcun asserto riguardo all’istante in cui essa avviene. Nel momento in cui questa disintegrazione si verifica effettivamente ed è osservata, la funzione d’onda “collassa”, cioè si restringe fino a identificarsi con l’istante di tempo nel quale l’esito in questione viene registrato. Questo collasso segna perciò il passaggio, attraverso il processo di misurazione, dalla dimensione del possibile al mondo dei fenomeni, vale a dire a quello che si riscontra “qui” e “ora” in un istante di tempo e in un luogo ben definiti .

5. La prospettiva rovesciata

C’è un altro aspetto da sottolineare a proposito della cultura russa e dell’icona. Anziché seguire i dettami della prospettiva classica, la quale mira a fornire l’illusione di una rappresentazione pittorica il più fedele possibile dello spazio tridimensionale, essa colloca il punto di fuga non verso l’interno del quadro, bensì verso lo spettatore, rivolgendosi direttamente a quest’ultimo, per coinvolgerlo direttamente nella rappresentazione del sacro, in una sorta di interazione diretta e continua tra l’oggetto della percezione visiva e il soggetto che la esercita. L’idea di fondo è dunque che l’osservatore vada coinvolto, debba partecipare, guardare e non vedere.

Grazie a questo rovesciamento la relazione tra sistema osservante e sistema osservato non è più ineguale e asimmetrica, costituita cioè da un soggetto attivo che guarda e da un oggetto passivo che viene guardato. Essa diventa simmetrica, per cui la realtà osservata assume, a sua volta, la funzione di sistema osservante, che contempla e agisce, come in questo splendido esempio del rapporto tra il pastore e la luna ancora nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi:

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

                                                                                                               18 F. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, tr. it. a cura di G. Pacini, Feltrinelli, Milano, 1995, p. p. 50. 19 Ivi,

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silenziosa luna? sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. La luna non è oggetto passivo di contemplazione: il pastore si rivolge a essa chiedendole cosa faccia nel cielo, per cui il suo interesse si sposta immediatamente sull’azione di contemplazione che questo corpo celeste esercita da lassù, contemplando, a sua volta, i deserti. Così, attraverso questa relazione paritaria, si stabilisce una relazione interattiva tra il pastore e la luna grazie alla quale lo spazio si dilata, e da semplice contenitore inerte diventa tessuto relazionale tra due sistemi che si osservano reciprocamente. Anche questo è un aspetto importante e gravido di conseguenze significative. Come nel vedere e pensare liberamente del pastore errante si stabilisce una continuità tra gli spazi siderali e infiniti del cosmo e quelli del suo universo interiore così la prospettiva rovesciata crea uno spazio intermedio tra l’icona e chi la contempla in virtù del quale quest’ultimo da semplice osservatore si trasforma in partecipante attivo della scena oggetto della sua visione, nella quale viene coinvolto sino a sentirsene a sua volta componente. Lo sguardo diventa così veicolo di partecipazione, di coinvolgimento nelle vicende e nei destini del sistema osservato. L’io, apparentemente così limitato e finito, comincia a sentirsi immerso in uno spazio infinito e ad avvertire di far parte di una dimensione globale e indefinibile che non è soltanto all’esterno, ma anche all’interno della sua persona. Comincia in questo modo a stabilirsi un legame e una dialettica concreta tra soggetto e ambiente in cui vive, tra finito e infinito, che non vengono più avvertiti e concepiti come opposti, ma come realtà complementari e compresenti. Gli esempi della retta, o anche di una parte di essa, di un semplice segmento, fatto comunque di un insieme infinito di punti, o del tempo, in cui ogni singolo istante finito acquista significato e spessore solo se viene legato, attraverso la memoria e il ricordo, al passato, e mediante la speranza, l’immaginazione e la previsione al futuro, dimostrano che la percezione del finito viene sempre filtrata attraverso quella dell’infinito, che è di conseguenza continuamente e concretamente presente nel nostro vissuto, per cui senza riferirci all’infinito non saremmo in condizione di pensare il finito.

Come ha scritto Pavel Florenskij, interpretando al meglio il significato dell’icona e della trasformazione dello sguardo che la sua visione comporta: “La vita vola come un sogno, e non si fa in tempo a far niente in quell’attimo che è la vita. Perciò bisogna apprendere l’arte del vivere, la più difficile e la più importante delle arti: quella di riempire ogni ora di un contenuto sostanziale, pensando che quell’ora non tornerà mai più”20.

In questo senso la visione diventa superamento dell’autoidentità e dei confini dell’io, capacità di scoprire e valorizzare l’altro che è in sé, di sentirsi un tutt’uno con l’ambiente in cui si vive, in tutta la sua estensione, di prendersene cura, di tutelarlo. Per Florenskij è fondamentale capire che l’azione che raggiunge il massimo grado d’intensità e di efficacia è quella che riesce ad accoppiare conoscenza e volontà, razionalità e libertà, visione e partecipazione, e che sa guardare non solo ai destini del singolo individuo, ma dell’intera specie umana e, nel rispetto e in coerenza con il concetto di “unidualità” tra organismo e ambiente, anche del contesto complessivo nel quale siamo immersi e operiamo. Per lui questo non fu soltanto un principio teorico, un cardine della sua riflessione filosofica, ma un’esperienza di vita, di cui seppe dare testimonianza concreta con il rifiuto di lasciare il suo paese dopo la rivoluzione, pur conscio dei pericoli che correva rimanendo, e di seguire tanti suoi amici e colleghi sulla via dell’esilio, andando invece incontro alla fucilazione nella notte dell’8 dicembre 1937, in un bosco vicino a Leningrado, per accuse tanto infamanti quanto del tutto strumentali e false.

                                                                                                               20  P.A. Florenskij, Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, a cura di N. Valentini e L. Žak, Mondadori, Milano 2006, pp. 374-375.

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Come ha scritto S.N Bulgakov: “È come se la vita gli avesse offerto la scelta tra le Solovki21 e Parigi, ma egli scelse… la patria, benché si trattasse delle Solovki, volle fino alla fine condividere la sorte del suo popolo. Padre Pavel non poteva e non voleva internamente diventare un emigrato, nel senso di un distacco volontario o involontario dalla patria. Lui stesso e il suo destino sono la gloria e la grandezza della Russia, e nello stesso tempo il suo più grande delitto”22.

Emerge così un ricco e articolato territorio di confine tra ragione ed emozioni, tra conoscenza e volontà, tra uomo e ambiente, all’interno del quale, secondo Florenskij, ad assumere la funzione di criterio guida di base non deve essere soltanto l’interesse egoistico di ogni individuo per la propria sopravvivenza, il proprio benessere o il proprio piacere ma l’idea della cura per l’altro e della tutela per l’ambiente in cui si vive e di cui si è parte spinti fino al punto di assumere, come proprio interesse personale, la pienezza della vita che risorge attorno a ciascuno di noi e di tutti siamo parte integrante.

In questo modo la visione, oltre che cerniera progettuale tra senso della realtà e senso della possibilità, diventa interesse e amore per ciò verso il quale si rivolge, desidero di prendersene cura sentendosi coinvolti nel suo destino, impegno di tutela e di valorizzazione. In questo cerchio magico l’uomo si pone pertanto in una posizione intermedia tra sé stesso e il suo ambiente, tra sé stesso e l’altro, tra finito e infinito, che è lo spazio in cui, concretamente vive, anche se raramente se ne rende conto. L’infinito dentro di noi è una risorsa determinante per il nostro modo di essere nel mondo: è qui che si attingono nuove energie, quando le illimitate disposizioni del sé offrono nuove combinazioni di senso che si dischiudono verso l’io, liberandolo dalle sue costrizioni, dal cortocircuito della banalità dell’esperienza quotidiana, dai rispecchiamenti penosi e annichilenti di ciò che vuole imporsi alla nostra vista e al nostro pensiero, pretendendo di colonizzarli ed egemonizzali, per il solo fatto che c’è. A questa schiavitù bisogna reagire con un guizzo della mente, un’intuizione improvvisa, un’immaginazione creativa che ci apre a nuovi e imprevedibili sviluppi.

6. Come va intesa l’illusione

Questo guizzo della mente, questa intuizione improvvisa, questa immaginazione creativa, che esprimono l’insopprimibile tensione dell’uomo verso l’invisibile e l’aspirazione, altrettanto incoercibile, a costruire uno spazio intermedio tra finito e infinito sono gli strumenti di cui si vale l’arte: “l’essenza stessa dell’attività dell’artista”, osserva Florenskij, è “la deformazione degli elementi in un tutto organizzato, cioè, in altre parole, l’illusione”23 (Florenskij, 1925/1995, 207). Occorre però intendersi bene sul significato che questa parola ha qui, in questo contesto, dove il riferimento a essa intende evidenziare che “nell’opera intera, gli elementi vengono percepiti e valutati in modo diverso da come vengono percepiti e valutati separatamente. Si dice di solito in questi casi: ‘Non sembrano ciò che sono in effetti’, cioè sono un’illusione. Ma se anche parrà utile conservare la parola illusione in rapporto a sintesi psicofisiche che trasmettano ai singoli elementi una nuova forma, questo deve essere fatto assolutamente a condizione del rifiuto dell’espressione: ‘Non sembrano ciò che sono in effetti’. Perché gli elementi della sintesi psicofisica nell’ordine della conoscenza non sono affatto meno validi di quegli stessi elementi, presi

                                                                                                               21 Le isole Soloveckie, note anche con il nome di Solovki o Solovetskij, sono un arcipelago del Mar Bianco ove, al posto di un antico monastero, fu allestito il primo gulag sovietico nel quale Florenskij fu rinchiuso nel settembre del 1934, 22  S.N. Bulgakov, Il sacerdote Pavel Florenskij, in ID., Lo spirituale della cultura, Lipa, Roma 2006, p. 153.  

23 P. Florenskij (1923-1925), Analiz prostranstvennosti i vremini v chudožestvenno-izobrazitel’nych proizvedenijach. Lekzii po VCHUTEMAS’E. Tr. it. P.A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, a cura di N. Misler, Adelphi, Milano 1995, p. 207.

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separatamente; anzi, al contrario, il loro significato si accresce nella sintesi. Di conseguenza non si può contrapporre un sembra a un in effetti. Bisogna essere realisti e dire: ‘Gli elementi della sintesi dell’intero non sono ciò che sarebbero presi in se stessi’, oppure giudicare tutto come soggettivo e dire con i soggettivisti: ‘Gli elementi della sintesi non sembrano quelli che sembrano in se stessi, presi separatamente’. Che si conservi pure, se si vuole, la parola illusione, ma senza la sfumatura denigratoria verso il valore conoscitivo di ciò a cui la parola illusione viene applicata”24

Il senso di questa variazione di significato della parola illusione rispetto al modo usuale in cui viene applicata e al suo significato abituale viene ulteriormente chiarito subito dopo: “Le illusioni comuni si giudicano come curiose eccezioni, come un raro caso particolare delle nostre percezioni; ma se questo caso è raro, lo è in quanto la percezione del mondo della maggioranza si concentra in modo frammentario soltanto su singoli elementi della realtà, e, per la sua passività, è poco capace di sintesi. Ma via via che l’attività sintetica si approfondisce e cresce in modo corrispondente l’attenzione alla forma, l’attenzione a cogliere un’interezza significativa, aumentano sempre di più anche i motivi per parlare di illusione, nel senso sopra chiarito. E allora l’illusione diventa un fattore sostanziale della percezione. Infine, nelle opere d’arte la cui percezione è facilitata da una forma ripulita da ciò che è problematico, tutto dipende da una sintesi ampia e fortemente compatta”25.

Vale la pena di soffermarsi su questo passo, perché dalla sua corretta interpretazione scaturiscono conseguenze teoriche estremamente significative e di ampio respiro.

Se ci poniamo dal punto di vista della comprensione comune, poco interessata alla sintesi e concentrata sui singoli elementi come materiale valido dal punto di vista pratico, e analizziamo “Illudersi che P”, dobbiamo considerare anche quest’ultima un’espressione ponte, ma di segno opposto rispetto a “Sapere che P”. Anche in questo caso, infatti, abbiamo il riferimento a un’articolazione nella quale, al livello inferiore, vi è uno stato di coscienza e, a quello superiore, la descrizione di una situazione oggettiva che però, deve essere del tipo “non P”, cioè una negazione, in quanto per il senso comune illudersi implica “credere falsamente”. Se, facendo il consuntivo di una giornata appena trascorsa, dico: “M’illudevo che fosse migliore” è evidente che sto parlando di uno stato di fatto effettivo che ha contraddetto le mie attese, e che è dunque falso rispetto a esse. Tuttavia questa non è una buona ragione per equiparare “illudersi” e “credere falsamente”, come risulta chiaramente dal seguente esempio: “Otello credeva falsamente che sua moglie lo tradisse”, che è un enunciato vero, non può essere ritenuto equivalente a “Otello s’illudeva che sua moglie lo tradisse”. “Illudersi che P” non significa semplicemente “credere falsamente che P”, ma “credere falsamente che P” coniugato in modo indissolubile a “desiderare che P”. Lo si desume facilmente dagli esempi che abbiamo appena proposto: “M’illudevo che fosse migliore” presuppone il mio desiderio di un diverso andamento della giornata e così Otello, tralasciando complesse interpretazioni psicoanalitiche sulle sue motivazioni inconsce, sulle quali non è il caso di soffermarsi qui, non desiderava certamente il tradimento di Desdemona ma c’è al contrario da supporre che sperasse nella sua fedeltà. Questo ci dice una cosa importante, da rimarcare subito: che anche dal punto di vista strettamente logico l’illusione non può essere identificata e confusa con l’inganno e con l’errore: essa appartiene a un livello categoriale differente, che va esplorato nella sua specificità.

La differenza tra “Sapere che P” e “Illudersi che P” la si può cogliere soltanto se i due livelli in cui si collocano, rispettivamente, lo stato di coscienza e la situazione effettuale sono

                                                                                                               24 Ibidem, pp. 206-207. 25 Ibidem, p.207.

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distinti da un confine così come lo intende Florenskij sulla base della lezione di Vladimir Ivanovič Vernadskij, uno degli esponenti più autorevoli della scienza russa del tempo, noto in particolar modo per i suoi studi pionieristici in biogeochimica e per aver delineato, già nel 1920, un paradigma cibernetico ed energetista che prendeva le mosse dall'analisi ecologica dei cicli di trasformazione degli elementi sulla crosta terrestre. Artefice di un metodo di ricerca basato sulla convinzione, non certamente egemone negli ambienti scientifici del tempo, che se vogliamo capire problemi complessi, e cioè controllati da reti di cause o addirittura da reti di reti di cause, dobbiamo fin dall’inizio avere un’idea generale del funzionamento dell’intero sistema, prima di analizzarlo in dettaglio, egli ci pone di fronte a una sovrapposizione di tre grandi sistemi, le geosfere, la biosfera e la noosfera, determinata dalla promiscuità, parziale o totale, dei rispettivi processi, che ci obbliga ad affrontare e risolvere la questione dei loro mutui rapporti e della loro profonda interazione e incidenza reciproca, senza per questo compromettere la specifica autonomia di ciascuno di essi. Per venire a capo di questa complessa interrelazione, caratterizzata al contempo da inscindibile connessione e autonomia, egli approfondisce in modo originale, appunto, la nozione di confine, sottolineandone la duplice natura: linea di demarcazione che separa e, contemporaneamente, interfaccia, ponte sottile che collega e unisce i tre sistemi in questione. L’idea di questa duplice funzione è ripresa ed efficacemente sintetizzata dallo psicoanalista britannico Wilfred Bion, che la applica alla questione del rapporto tra la realtà esterna e la dimensione psichica interiore per evidenziarne la necessaria distinzione e, nello stesso tempo, l’esigenza di mantenerle in una costante relazione reciproca. Egli parla, a questo proposito, di “barriera di contatto”, sottolineando che senza fare riferimento alla doppia funzione da essa esercitata risulterebbe impossibile capire come il mondo degli oggetti possa divenire supporto di proiezione su di essi di contenuti psichici, in quel continuo processo di ricomposizione dell’oggettivo nel soggettivo, e viceversa, che arricchisce costantemente e integra l’informazione ricevuta e le conferisce quella specifica impronta legata all’ identità e alla memoria del sistema osservante medesimo. Questo processo è bidirezionale, in quanto, come si è visto parlando di “trasfigurazione dello sguardo”, può essere l’oggetto della percezione visiva a guardare, a sua volta, l’uomo e a modificarne la capacità di visione, ampliandola in modo significativo. Questo è ciò che succede regolarmente quando si guarda nel modo dovuto l’icona.

A proposito di questo “potere trasfigurante” dell’oggetto sullo sguardo meritano di essere ricordate le osservazioni di Ernst Bernhard: “Il mondo dei fenomeni e degli accadimenti è vita e manifestazione delle “immagini”. Il suo ordine e il suo corso sono determinati dall’entelechia. L’entelechia si esprime attraverso le immagini sui tre noti piani, come istanza autonoma, nella identificazione e nella proiezione. L’entelechia ha la tendenza ad affermarsi assolutamente e può estendersi maggiormente verso l’esterno (estensione) o condensarsi maggiormente verso l’interno (interisione). Nella estensione si propaga e riempie, fin dove arriva, le forme che stan fuori di essa; quando le forme fuori di essa sono psichico-plastiche, vale a dire esse stesse psichiche o tali da poter essere animate psichicamente, vengono costrette dalla entelechia entro la propria legge e usate come mezzi al suo fine (ad esempio uomini, animali, piante, orologi, e altri oggetti d’uso); quando non sono psichico-plastiche vengono prese al proprio servizio così come sono e, se necessario, ricevono una diversa interpretazione (ad esempio l’affondamento di una nave per le diverse persone coinvolte o una rappresentazione teatrale o cinematografica, ecc.)”26.

Queste considerazioni sull’entelechia e sulle sue articolazioni consentono di immaginare una relazione fra umano e non umano non esaurita dalla direzione proiettiva,                                                                                                                26 E. Bernhard, Mitobiografia, a cura di H. Erba Tissot, tr. it. G. Bemporad, Adelphi, Milano 1969, pp. 20-21.

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riconoscendo una complessità fatta anche di direzioni rovesciate rispetto a essa, come è rovesciata la prospettiva di Florenskij: “Nelle forme psichico-plastiche la nuova interpretazione (proiezione) è capace, come s’è detto più sopra, di modificare gli oggetti, temporaneamente o durevolmente; ma in certi casi anche gli oggetti del mondo esterno, se da parte loro sono depositari di un’altra entelechia, sono capaci di modificare le immagini, così che la trasformazione può essere di massima intesa come un vicendevole processo di assimilazione o di dissimilazione tra entelechie più o meno affini o estranee27.

Questo “potere trasfigurante” dell’oggetto, in particolare dell’oggetto dell’attività artistica, è dovuto proprio al fatto che in esso “la sintesi delle percezioni è tutto, mentre i singoli elementi in sé non sono nulla” (Florenskij, 1925/1995, 207). L’espressione ponte “M’illudo che P” in questo caso va pertanto valutata in rapporto alla “deformazione degli elementi in un tutto organizzato” che costituisce “l’essenza stessa dell’attività artistica”28, per cui non si tratta di errore o di inganno, ma degli effetti della sistematicità e di un approccio che privilegia la struttura globale rispetto al singolo dettaglio, secondo i dettami di una semantica olistica, in cui la determinazione del significato va dal tutto alle parti, e non viceversa, Nella prospettiva rovesciata, nell’icona, l’illusione, che è il risultato di questa deformazione, non crea un’opera illusionistica, ma al contrario ci avvicina a una comprensione più profonda e autentica del significato della realtà.

7. Illusione e gioco: Bateson e Winnicott

Per capire come e in che senso questo approccio ci avvicini a una migliore comprensione del senso autentico di ciò che ci circonda è opportuno fare riferimento alla straordinaria esplorazione, proposta da Gregory Bateson, “padre” delle terapie sistemico-relazionali, di quella sorta di “cortocircuito” tra comunicazione e metacomunicazione, senza il quale particolari forme di espressività, come il gioco e il rituale, non sarebbero realizzabili.

Egli cita, a questo proposito, una sua esperienza diretta allo zoo di san Francisco: “Vidi due giovani scimmie che giocavano cioè erano impegnate in una sequenza interattiva, le cui azioni unitarie, o segnali, erano simili, ma non identiche, a quelle del combattimento. Era evidente, anche all’osservatore umano, che la sequenza nel suo complesso non era un combattimento, ed era evidente all’osservatore umano che, per le scimmie che vi partecipavano, questo era ‘non combattimento’. Ora questo fenomeno, il gioco, può presentarsi solo se gli organismi partecipanti sono capaci in qualche misura di metacomunicare, cioè di scambiarsi messaggi che portino il messaggio. ‘Questo è gioco’”29.

Per lo più questi messaggi metacomunicativi rimangono impliciti: e, “specialmente durante le sedute psichiatriche, interviene un’altra classe di messaggi impliciti, concernenti l’interpretazione dei messaggi metacomunicativi di amicizia e ostilità”30.

Il riferimento alla metacomunicazione fa entrare in gioco, come componente imprescindibile del processo, l’incidenza del contesto, e quindi della sintesi, di quella deformazione degli elementi (in questo caso delle azioni unitarie delle due scimmie) in un tutto di cui parla Florenskij, chiamando in causa quello che può essere chiamato l’”effetto cornice”: “La cornice di un quadro dice all’osservatore che nell’interpretare il quadro egli non deve impiegare lo stesso tipo di ragionamento che potrebbe impiegare per                                                                                                                27 Ibidem, p. 20 28 P.A. Florenskij (1995), Lo spazio e il tempo nell’arte, cit., p. 207. 29 G. Bateson, G. (1955). A Theory of Play and Fantasy, ‘A.P.A. Psychiatric Research Reports’, 2, tr. it. di G. Longo in G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1985, p. 219.. 30 Ibidem, p. 217.

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interpretare la carta da parati esterna alla cornice”. Questa distinzione sta a significare che nel rapporto tra il quadro e la sua cornice “l’inquadramento stesso diviene parte del sistema delle premesse. O l’inquadramento, come nel caso del gioco, è implicato nella valutazione dei messaggi che contiene, oppure semplicemente assiste la mente dell’osservatore nella comprensione dei messaggi contenuti, ricordandogli che questi messaggi sono mutuamente rilevanti e che i messaggi fuori di quell’inquadramento possono essere ignorati”31. Qui sono dunque centrali la relazione, il riconoscimento e il contesto. Inoltre, identità e alterità coesistono nello spazio e nel tempo; si tratta di una relazione in cui essere e non essere stanno insieme, costituiscono le due facce di un’unica medaglia.

Le riflessioni di Florenskij sulle quali ci siamo soffermati, come quelle di Bateson, possono essere appropriatamente messe in rapporto con le considerazioni di Winnicott sul gioco e sulla relazione primaria madre-bambino, imperniate sull’idea che il ruolo della madre sia quello di insegnare al bambino la distinzione tra illusione e inganno come momento necessario per lo sviluppo della sua autonomia. Autonomia nella relazione, dove “il compito della madre è di disilludere gradualmente il bambino, ma essa non ha speranza di riuscire a meno che non sia stata capace da principio, di fornire sufficiente opportunità di illusione”32.

La legittimità e l’appropriatezza di questo accostamento è attestata dal proposito enunciato in modo esplicito dallo stesso Winnicott, che richiama senza forzature quanto sostenuto a suo tempo da Florenskij: “Sto […] studiando la sostanza della illusione, quella che viene concessa al bambino e che, nella vita adulta, è parte intrinseca dell’arte e della religione, e che tuttavia diventa il marchio della follia allorché un adulto pone un eccesso di richieste alla credulità degli altri costringendoli a condividere un’illusione che non è quella loro”33.

8. Florenskij: l’irreale che irrompe nel reale. Costruzione e composizione

Ciò che Florenskij ci ha insegnato a questo proposito è che quando entriamo in uno spazio intermedio, come quello della cultura in generale e dell’arte in particolare, l’illusione svolge una funzione determinante e imprescindibile: e Winnicott mostra di avere appreso bene questa lezione allorché scrive: “L’area intermedia a cui io mi riferisco è l’area che è consentita al bambino tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà. I fenomeni transizionali rappresentano i primi stadi dell’uso dell’illusione, senza la quale non vi è significato per l’essere umano nell’idea di un rapporto con un oggetto che percepito dagli altri come esterno a quell’essere umano”34.

Ciò che possiamo trarre dall’analisi di Florenskij del rapporto tra la costruzione, come struttura della realtà in sé, e la composizione, come espressione del mondo interiore proprio dell’artista, della struttura della sua vita interiore, è che tra queste due strutture, come si è visto, non può esistere alcun legame diretto: fra di esse non c’è niente in comune, per cui vanno considerate reciprocamente autonome, pur essendo entrambe

                                                                                                               31 Ibidem, pp. 229-230 32 D. W. Winnicott, Transitional objects and transitional phenomena, ‘International Journal of Psycho-Analysis’ (1953) vol. 34, part 2. Trad. it. Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974.  

33 Ibidem, p. 26. 34 Ibidem, p. 39.

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necessariamente presenti in un’opera d’arte. “La costruzione è ciò che la realtà vuole dall’opera, la composizione ciò che l’artista vuole dalla sua opera. Queste due esigenze, che derivano una dal mondo esterno, l’altra da quello interiore, si esprimono in modo autonomo l’una dall’altra” (Florenskij, 1924/1995, 94), ribadisce Florenskij, che tuttavia aggiunge subito, non a caso: “in un primo approccio alla questione, perlomeno” (Florenskij, 1924/1995, 94). Infatti è chiaro che, pur in presenza di questa reciproca autonomia, una relazione tra costruzione e composizione deve sussistere “perché esse si incontrano nell’opera e la configurano attraverso la loro interferenza reciproca, come l’ordito e la trama tessono una tela”35 (Florenskij, 1924/1995, 94). Questo è il punto: “l’uno e l’altro tipo di unità, pur riferendosi a sfere sostanzialmente estranee e conducendo all’interezza sfere completamente eterogenee, sono nondimeno collegati da un nodo misterioso, che si chiama opera d’arte. Entrambe le unità, costruttiva e compositiva, si confondono in una sola opera d’arte, sebbene non dipendano in nessun modo direttamente l’una dall’altra. […] La compresenza delle due unità non soltanto esiste nell’opera, malgrado l’idea astratta della sua impraticabilità, ma anzi determina attraverso di sé la possibilità stessa dell’esistenza di un’opera. Le due unità sono i poli dell’opera, congiunti in modo antinomico, non separabili l’uno dall’altro, e non riducibili l’uno all’altro. La formula del Simbolo Perfetto [Uno e Trino], “separato e inseparabile”, si estende anche a qualsiasi simbolo relativo: a qualsiasi opera d’arte. Al di fuori di questa formula non esiste neppure l’arte”36.

Questa stessa dialettica di autonomia e relazione, di illusione e disillusione, all’insegna della formula “separato e inseparabile” la troviamo nel rapporto tra la madre e il bambino così come lo tratta Winnicott, secondo il quale la madre deve far emergere progressivamente nel bambino l’autonomia, la capacità di star solo, senza che ciò implichi la perdita della relazione, che anzi esce rafforzata dal raggiungimento di questo obiettivo, dato che lo scopo primario della relazione è proprio la formazione e il consolidamento dell’autonomia del bambino all’interno della relazione stessa, che è destinata a mutare pur restando tale.

Per pensare e praticare questa che Florenskij chiama la “formula del simbolo perfetto” è di grande aiuto l’inserimento, anche in una rappresentazione che voglia riferirsi al reale, di una “irrealtà” come momento semantico: il “gioco del rocchetto”, con il quale il bambino mette in scena la propria angoscia d’abbandono per l’allontanamento della madre, rivelando la propria reazione emozionale all’evento traumatico, riesce e risulta efficace se la consapevolezza che ciò che è rappresentato non è reale è accompagnata e sostituita, almeno provvisoriamente, dalla convinzione che lo è purtuttavia in questo momento intenzionale della rappresentazione. Questa specifica condizione è la forza autentica e l’aspetto caratterizzante dell’illusione, che la differenzia in modo sostanziale, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, dall’errore e dall’inganno. In essa non ci sono soltanto un reale e un irreale come estremi inconciliabili, ma c’è uno spazio intermedio tra i due, nel quale qualcosa che non è reale diventa però tale come rappresentazione di un irreale, per cui siamo in presenza di un reale che racchiude in sé l’irreale come contenuto semantico. Proprio per questo il gesto di ritirare a sé il rocchetto e di farlo riapparire consente al bambino di provare un’autentica (e non puramente fittizia) soddisfazione riparatoria legata a un ritorno da lui gestito e non subìto.

L’irreale che irrompe nel reale, che determina il lato creativo del gioco, esprime lo stesso rapporto di autonomia nella relazione che Florenskij pone tra costruzione e composizione

                                                                                                               35 P.A. Florenskij (1995), Lo spazio e il tempo nell’arte, cit., p. 94. 36 Ibidem, p. 98.

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nella produzione artistica nella quale, come abbiamo visto, la composizione si svincola e si rende autonoma dalla costruzione, ma nello stesso tempo rimane in qualche modo legata al luogo da cui si autonomizza, perché altrimenti non ci sarebbe alcuna opera d’arte, anzi non esisterebbe neppure l’arte. Siamo di fronte a un paradosso, quello del vincolo originario che permane, pur nel processo del suo necessario superamento, che si rivela però più apparente che reale, ed è comunque indispensabile per rendere autonomo il quadro dalla realtà e rompere l’aspetto riproduttivo, mimetico della pittura, consentendo a quest’ultima di rendere visibile ciò che la riproduzione mimetica non può comunicare. Che non si tratti di una contraddizione insanabile, come potrebbe sembrare a prima vista, ma di un processo legato al nesso inscindibile tra senso della realtà e senso della possibilità, tra percezione e immaginazione, è del resto un insegnamento che possiamo trarre anche dagli sviluppi più recenti della ricerca scientifica riguardante il processo della visione, se è vero che un autorevole neuroscienziato come Chris Frith può scrivere, sintetizzando questi sviluppi: “Ciò che percepisco non sono gli indizi grezzi e ambigui che dal mondo esterno arrivano ai miei occhi, alle mie orecchie e alle mie dita. Percepisco qualcosa di assai più ricco, un’immagine che combina tutti questi segnali grezzi con un’enorme quantità di esperienze passate. La nostra percezione del mondo è una fantasia che coincide con la realtà”37.

9. Completezza e non perfezione: il tema dell’ombra

Manca ancora un tassello per completare la nostra analisi della “visione doppia”, di questa straordinaria fantasia coincidente con la realtà, espressione dell’anelito dell’uomo a costruire, con l’immaginazione, uno spazio intermedio tra finito e infinito. Di questa simbiosi ed endiadi tra la terra e il cielo, tra l’esperienza quotidiana e la realtà ultraterrena al di là del visibile si fa interprete autentico Jung, il quale sottolinea che: “la vita per compiersi non ha bisogno della perfezione, ma della completezza”38.

Completezza significa sapersi guardare dentro e vedere anche il proprio lato oscuro, tutti gli aspetti, anche i più bassi, della propria personalità, la propria ombra, nella consapevolezza che spesso è in quello che viene ritenuto un pericolo che si annida ciò che salva. Jung, che della sapienza custodita negli antichi miti fu lettore e interprete impareggiabile, considerava cruciale e imprescindibile il tema dell’ombra, al punto da scrivere che persino “l’immagine di Dio ha un’ombra. Il senso superiore è reale e getta un’ombra. Infatti che cosa c’è di reale e di fisico che non abbia un’ombra? […] L’immagine di Dio getta un’ombra che è grande quanto lui”39. L’attribuzione anche a Dio della propria ombra vale a sfatare il luogo comune della negatività tout-court di quest’ultima: essa ha, al contrario, un ruolo fondamentale e complementare a quello sia dell’universo interiore, sia della realtà esterna. Non è dunque in assoluto un principio negativo. Senza l’ombra si perde spessore e completezza; sia la personalità umana, sia il mondo risultano, letteralmente, piatti, privi di “chiaroscuro”, unilaterali, e per questo caricaturali. Se viene gettata dietro le spalle, per allontanarla dalla vista-coscienza, quest’ombra finisce per pesare enormemente, per far perdere ogni equilibrio, fino a farci cadere e a schiacciarci sotto la sua mole. L’energia dell’inconscio, dell’ignoto e di ciò che è sconosciuto non può e non deve essere disconosciuta e delegittimata, ma va invece imbrigliata e posta al servizio della conoscenza sia del sé, sia del mondo. Bisogna pertanto imparare a convivere con l’Ombra, ma, contemporaneamente,

                                                                                                               37 C. Frith, Making up the mind. How the brain creates our mental world, Blackwell, Malden MA, Oxford UK, Carlton, Victoria 3053, Australia 2007. Tr. it. Inventare la mente. Come il cervello crea la nostra vita mentale, Raffaello Cortina, Milano 2009. P. 167. 38 C.G. Jung, Psicologia ed alchimia, in C.G. Jung, Opere, vol. 6, Boringhieri, Torino, 1988, p. 180. 39  C.G. Jung, Il Libro Rosso, Liber Novus (2009), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 230.

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evitare di farsi trascinare e dominare da essa, saperla imbrigliare, mantenendo viva la tensione e la lotta con le funzioni superiori e le componenti più luminose della propria personalità e della conoscenza. Questo duplice richiamo di Jung alla completezza e all’esigenza di perseguirla e raggiungerla anche ricongiungendosi con la propria ombra vale a farci capire che non si può diventare completi nutrendosi soltanto di senso della realtà e sentendosi appagati da essa. È ciò che comprende l’Alexandros di Pascoli, nel buio di un oscuro oceano senza onde, con il suo esercito schierato e immobile. Egli ha conquistato tutto quello che c’era sulla terra che gli si spalancava dinanzi, non c’è ormai più nulla da assoggettare, placando la sua ansia di dominio; è giunto in quell’ultimo spazio, dove la fine delle terre si perde nel nulla e “sfuma e si profonda dentro la notte fulgida del cielo”. Nel silenzio, immersa in mezzo allo spazio, inaccessibile, la luna brilla e si riflette sugli scudi dei soldati.

Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla! Non altra terra se non là, nell'aria, quella che in mezzo del brocchier vi brilla.. Azzurri, come il cielo, come il mare, o monti! o fiumi! era miglior pensiero ristare, non guardare oltre, sognare: il sogno è l'infinita ombra del Vero. Stupendo, nella sua incisività, questo verso finale. Anche la verità ha un’ombra da cui non può fare a meno, e senza la quale non può essere completa: si tratta del sogno. Se smarrisce il contatto con la sua parte onirica l’uomo perde il senso dell’infinito, rimane privo di quella dimensione che lo rende comunque regale nella sua individualità. Alessandro il Macedone è re, anzi il più potente re che sia abbia mai calcato la terra, ma avendo pensato di poter placare la sua sete di completezza solo attraverso il senso della realtà e la concretezza che ne deriva, conquistando una terra dietro l’altra, è giunto al punto di inibirsi la possibilità di sognare, di immaginare il possibile. È re, ma ha perso la regalità individuale che solo l’immaginazione e la capacità di sognare possono conferire. Si spiega così il duplice significato della visione: processo percettivo attraverso il quale si prende contatto con il mondo esterno tramite stimoli luminosi elaborati dall’apparato ottico e dall’intero cervello, ma anche capacità di percepire non solo l’astratto con gli occhi della mente, ma anche immagini o eventi non reali e facoltà dell’intelletto di produrre l’immagine, la rappresentazione mentale di un ente reale ma anche fittizio, dando origine a fantasie e alla creazione artistica in tutte le sue varie forme e articolazioni.

10. L’uomo senz’ombra

Che cosa succede se manca l’ombra ce lo fa capire Adelbert von Chamisso con il suo romanzo del 1814 L’uomo senz’ombra. Storia straordinaria di Peter Schlemihl, un autentico capolavoro senza il quale Kafka non avrebbe scritto la Metamorfosi, e Dostoevskij Il sosia. Al protagonista si avvicina uno sconosciuto, che è il diavolo, il quale con garbo e cerimoniosità gli rivolge una richiesta “che è certo sfacciata”: quella di cedergli " la bella ombra che lei, con una certa qual nobile noncuranza e senza farci caso, proietta di sé al sole, quella straordinaria ombra lì ai suoi piedi”. In cambio avrà ricchezze inesauribili. ll baratto dunque ha luogo, e lo sconosciuto, dopo aver staccato piano piano l'ombra con una "mirabile perizia", la solleva, la arrotola come un tappeto e la infila nella sua tasca capace. Una piccola amputazione per niente dolorosa, ed ecco Peter Schlemihl diventato ricchissimo.

Dopo la bizzarra transazione, la vita del protagonista cambia, e non certo in meglio, come si era immaginato. Si accorge di essere guardato da tutti quelli che incontra con raccapriccio, arroganza, dileggio. La gente si mostra a dito l'ombra che non c' è ; le donne evitano il

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povero Peter, manifestandogli una compassione che lo ferisce; gli uomini lo disprezzano, "soprattutto quelli grassi e corpulenti", che proiettano al suolo una vasta e densa appendice; una ragazza innamorata cade senza sensi vedendolo privo di quell' attributo. Ecco la sorte che attende inevitabilmente tutti coloro che pensano di poter fare a meno della propria ombra e di potersene disfare senza problemi.

11. Conclusione: la duplice radice della visione

La ragione di questo esito infelice ce la spiega il finale del film di Benigni dedicato a Pinocchio. “Pinocchio, diventato finalmente ragazzo vero, torna a scuola, segue i suoi compagni e saluta Geppetto ma, proprio un attimo prima che tutto si concluda, la sua ombra si distrae per seguire una farfalla, e se ne va dietro quella in cerca di nuove avventure. Nell’eco di Peter Pan che perde la sua ombra, il Pinocchio di Benigni non perde la sua natura irriducibilmente libera e ribelle, qualcosa gli resta, per fortuna, è dunque quel Pinocchio ‘uno e bino’ che Garroni ha studiato”40.

La morale è chiara: Pinocchio, diventato finalmente ragazzo-scolaro modello, non può essere completo senza il burattino-monello che era fino a poco prima. L’ombra che si distacca dal suo corpo e se ne va per conto proprio per inseguire la farfalla-curiosità e immaginazione è sintomo ed espressione di quella che possiamo chiamare la sua insopprimibile indisciplina creativa. La creatività è sempre e necessariamente privata ed eversiva, perché emerge nella rottura della nostra continua ricerca di senso, in un territorio nel quale sperimentare la provvisorietà degli equilibri raggiunti per generare ciò che è assente, per dare corpo al possibile. Essa viola le norme stabilite e condivise, va alla ricerca di nuove frontiere e quindi oltrepassa e abbatte i confini stabiliti del “pensiero corretto”, si pone in antitesi e in contrapposizione rispetto alla razionalità corrente ed egemone, dilatandone gli orizzonti. Per raggiungerla è pertanto necessario allontanarsi da tutte quelle pratiche funzionali che tendono a reificarla e a trattarla come un’entità concreta per poi poterla prescrivere: per questo Pinocchio deve restare anche burattino e la sua storia non si può concludere facendone l’emblema di questa creatività reificata e incarnata nello scolaro modello. È proprio questa indisciplina creativa a rendere l’uomo libero, a farne il dominus del suo universo interiore.

Qui stanno le radici profonde della visione che si è cercato di proporre in questa analisi. Nell’ indisciplina creativa, che prende atto del senso della realtà e dei suoi vincoli, ma la sa coniugare con il senso della possibilità e con la capacità di vedere e pensare il mondo altrimenti, risiede la natura progettuale dell’uomo, che non si limita a vivere nell’ambiente in cui è inserito, ma lo sa plasmare e modificare, pur rispettandolo. Per questo aspetto, dunque, la visione rimanda al progetto, al desiderio di cambiamento e di innovazione che esso esprime. D’altro canto però la visione è anche capacità di filtrare e rivivere la realtà esterna attraverso l’immaginazione e le emozioni, sentimento profondo di partecipazione e di coinvolgimento nei destini del contesto in cui si è inseriti, unidualità tra l’universo interiore e l’ambiente, e quindi desiderio radicato di prendersi cura di quest’ultimo, tutelandone e valorizzandone i tratti distintivi e la specifica bellezza. Per questo secondo aspetto essa si riferisce alla tutela ed esprime quel genuino bisogno di tradizione autentica e di rispetto dei suoi valori che Mahler ha sintetizzato con estrema efficacia in un celeberrimo e citatissimo aforisma: “tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere”.

                                                                                                               40 O. Martini, Dare corpo. Idee scorrette per una buona educazione, Mondadori Store, 2015, p. 131. L’opera di Emilio Garroni alla quale si fa riferimento è Pinocchio uno e bino, Laterza, Roma-Bari, 1975.

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Se la si intende in questo senso la tutela del patrimonio che essa custodisce e ci trasmette non può essere considerata estranea all’innovazione e in antitesi con essa: le due radici della visione in questo modo convergono e si richiamano vicendevolmente in una trama comune.