Atti & Sipari numero 0

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Atti&Sipari 792.05 (21.) 1. Teatro – Periodici CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa Edizioni PLUS - Pisa University Press Lungarno Pacinotti, 443 56126 Pisa Tel 050 2212056 - Fax 050 2212945 [email protected] www.edizioniplus.it MEMBER OF Direttore Responsabile Maurizio Alfonso Iacono Direttori Concetta D’Angeli, Maurizio Alfonso Iacono, Guido Paduano Caporedattore Simone Soriani Segretaria di Redazione Anita Simon Comitato di Redazione Associazione A&S, Federica Antonelli, Maria Celeste Bellofiore, Mariacristina Bertacca, Francesco Ceglia, Alessandro Cei, Eva Costa, Ilaria D’Angelo, Serena Gatti, Annastella Giannelli, Mari Carmen Llerena, Giulia Nasini, Diego Passera, Maria Francesca Stancapiano Grafica e impaginazione Mariacristina Bertacca, Annastella Giannelli Si ringraziano i disegnatori Luca Bellofiore e Francesco Giani, per i bozzetti che ci hanno fornito; i fotografi e le compagnie: Marcello Norberth e la “Compagnia Lombardi-Tiezzi”, Stefano Vaja e Carte Blanche, Rodrigo García e “Carnicería Teatro”, Federica Giorgetti e i “Motus”, Maurizio e Federico Buscarino e “Pontedera Teatro”, Alessandro Banducci e Massimiliano Civica, Sonia Lombardi, che ci hanno concesso l’uso delle loro foto in questo primo numero; Marika Bonuccelli, che ci ha gentilmente offerto un aiuto informatico per il blog della rivista. Contatti Atti&Sipari: [email protected] A&S: [email protected] www.attiesipari.splinder.com Chiuso in Redazione nel dicembre 2006 La rivista è stata stampata con i contributi del DSU (Azienda Regionale del Diritto allo Studio) e grazie al sostegno dei nostri sponsor: la CLU Cooperativa Libraria Universitaria (Pisa), il Teatro Verdi (Pisa), La Città del Teatro (Cascina), il CinemaTeatroLux (Pisa), il Teatro Rasi (Ravenna). Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org .

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Atti & Siparti (Aprile 2007) www.attiesipari.it

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Atti&Sipari 792.05 (21.) 1. Teatro – Periodici CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa Edizioni PLUS - Pisa University Press Lungarno Pacinotti, 443 56126 Pisa Tel 050 2212056 - Fax 050 2212945 [email protected] www.edizioniplus.it MEMBER OF Direttore Responsabile Maurizio Alfonso Iacono Direttori Concetta D’Angeli, Maurizio Alfonso Iacono, Guido Paduano Caporedattore Simone Soriani Segretaria di Redazione Anita Simon Comitato di Redazione Associazione A&S, Federica Antonelli, Maria Celeste Bellofiore, Mariacristina Bertacca, Francesco Ceglia, Alessandro Cei, Eva Costa, Ilaria D’Angelo, Serena Gatti, Annastella Giannelli, Mari Carmen Llerena, Giulia Nasini, Diego Passera, Maria Francesca Stancapiano Grafica e impaginazione Mariacristina Bertacca, Annastella Giannelli Si ringraziano i disegnatori Luca Bellofiore e Francesco Giani, per i bozzetti che ci hanno fornito; i fotografi e le compagnie: Marcello Norberth e la “Compagnia Lombardi-Tiezzi”, Stefano Vaja e Carte Blanche, Rodrigo García e “Carnicería Teatro”, Federica Giorgetti e i “Motus”, Maurizio e Federico Buscarino e “Pontedera Teatro”, Alessandro Banducci e Massimiliano Civica, Sonia Lombardi, che ci hanno concesso l’uso delle loro foto in questo primo numero; Marika Bonuccelli, che ci ha gentilmente offerto un aiuto informatico per il blog della rivista. Contatti Atti&Sipari: [email protected] A&S: [email protected] www.attiesipari.splinder.com Chiuso in Redazione nel dicembre 2006 La rivista è stata stampata con i contributi del DSU (Azienda Regionale del Diritto allo Studio) e grazie al sostegno dei nostri sponsor: la CLU Cooperativa Libraria Universitaria (Pisa), il Teatro Verdi (Pisa), La Città del Teatro (Cascina), il CinemaTeatroLux (Pisa), il Teatro Rasi (Ravenna). Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org.

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Editoriale Concetta D’Angeli, Maurizio Alfonso Iacono, Guido Paduano

Una nuova rivista di teatro – già. Non ce ne sono moltissime in giro, sebbene le esistenti siano benemerite e preziose. Questa che avviamo (le auguriamo lunga e felice vita) possiede alcune specificità che vogliamo sotto-lineare.

Nasce dall’idea di costruire un processo educativo, dove il teatro funziona in doppia veste: come punto d’arrivo, nel senso che è necessario allevare un pubblico che sappia riconoscere il codice del teatro, ormai de-sueto, e decifrare un linguaggio diventato straniero; e come luogo da cui l’educazione stessa promana e si tra-smette, sede d’emissione di messaggi etici e sociali, oltre che di creazioni artistiche.

Quest’ultimo aspetto non è e non deve risultare secondario: il piacere estetico che si coniuga alla fruizione dello spettacolo possiede una centralità che non va dimenticata e che continua a costituire l’attrattiva propria e la grande scommessa della gratificazione a teatro. Come è di tutte le arti.

Per dar vita alla rivista, che nasce all’interno dell’Università di Pisa ma ambisce a collaborazioni e a un pub-blico più ampi, abbiamo fondato un gruppo in cui specialisti veterani di studi drammaturgici e performativi lavo-rano e si confrontano con giovani studiosi e ancor più giovani studenti, non ancora laureati. Ci accomunano la passione per lo spettacolo; e poi la curiosità reciproca; e poi il desiderio di accostare conoscenze diverse, compe-tenze ed esperienze (ogni generazione ha le sue) che, scambiate, producono un reciproco reale apprendimento. Questa biunivoca comunicazione di saperi e pratiche è l’applicazione di un’utopia egalitaria e libertaria – fac-ciamo voti che possa resistere nel tempo in barba ad ogni cauta o cinica Realpolitik. La fede dalla quale il pro-getto nasce e che è ben viva in noi non finge però di ignorare il ruolo dell’esperienza culturale, e della naturale autorevolezza (non autoritarismo) che da essa proviene. È una scommessa anche pedagogica, basata sulla costru-zione di un doppio vettore, orientato in direzione duplice, scambio culturale vicendevole.

Il segno di tale fruttuosa permuta è l’allegria e il senso di vivacità intellettuale che si attiva nelle “riunioni di redazione”. È anche la voglia degli apprendisti redattori (il comitato redazionale è costituito tutto da studenti), lampante in questo numero inaugurale, di restituire attraverso recensioni, articoli, interviste, le impressioni e le riflessioni discese dal loro estivo peregrinare per festival – documentate purtroppo in ritardo, per inattesi ostacoli. Un aspetto importante del progetto educativo (allevare ragazzi innamorati del teatro) s’è così avviato con suc-cesso. Il risultato è la sezione “Rubriche”, affidata loro per buona parte.

E qui è il caso di attirare l’attenzione su un fattore generazionale sul quale spesso si sorvola: non solo in tal modo si dà la parola a fasce d’età di cui si auspica e si ricerca la presenza nelle sale teatrali ma di cui si ascoltano poco i pareri e le emozioni; soprattutto si mette in evidenza che i critici più giovani sono, più o meno, coetanei dei teatranti più giovani (numerosi, soprattutto in alcuni generi dello spettacolo contemporaneo) e perciò, gio-vandosi con naturalezza di un terreno comune, possono rilevare con facilità aspetti che a fruitori adulti, anche se colti e raffinati, tendono a sfuggire.

Attraverso il lavoro comune non vogliamo perdere di vista ciò che sempre più il teatro sembra acquisire: un forte valore sociale, politico, etico; e inoltre il fatto che rappresenta la vita associata, implicita già nella sua capa-cità di aggregazione – se non altro perché a teatro ci va gente diversa, di diversa estrazione sociale, di una certa qualità culturale sì, ma anch’essa diversificata, con attese e valori diversi...

Appunto per queste proprietà che storicamente il teatro possiede, per ridar loro smalto ed evidenza, abbiamo scelto di costruire il primo numero sull’impegno politico.

La nostra scommessa è stata possibile grazie ad una concorrenza di sostegni, non tutti istituzionali, che hanno soccorso finanziariamente e dunque sostanzialmente la nostra nascita. Li ringraziamo con calore. È un gesto di fiducia che incoraggia il nostro progetto utopico e ci aiuta a perseverare. Di sogni, la realtà ha bisogno; il teatro è uno di essi. E anche la speranza e l’entusiasmo giovanili.

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Indice

LA PAROLA AGLI ARTISTI Sandro Lombardi intervistato da Concetta D’Angeli 3 Un mondo che non c’era: il lavoro dell’attore

SOTTO LA LENTE Alessandro Grilli Aristofane e la satira politica 15 Individuo, progetto, afasia:

trasformazioni della commedia politica da Aristofane a Nanni Moretti

Guido Paduano 20 Dalla fantasia di felicità alla satira politica e ritorno

Umberto Albini 26 Un esempio aristofanesco: Gli Acarnesi

SCENE DAL TERRITORIO Simone Soriani 27 Non-solo-narrazione. Appunti per uno studio sull’attore solista

Federica Antonelli, Alessandro Cei 30 La Roccia di T.S. Eliot a San Miniato

Serena Gatti 32 Amleto a Pontedera

Simone Soriani 33 Festa di popolo nel carcere di Volterra

Mariacristina Bertacca, Giulia Nasini, Maria Francesca Stancapiano 34 La Fortezza dei giullari satiri e dei frati buffoni

Marc de’ Pasquali 37 La Fortezza

IN ITALIA E NEL MONDO Eva Costa 38 Rodrigo García: a teatro nel giorno del giudizio

Maria Celeste Bellofiore 40 Pier Paolo Pasolini: dal teatro di parola al teatro-immagine

Guido Paduano 42 Torvaldo e Dorliska

CONVERSANDO Massimiliano Civica intervistato da Annastella Giannelli e Diego Passera 45 Oltre la regia: firme d’attore

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Un mondo che non c’era: il lavoro dell’attore

Sandro Lombardi intervistato da Concetta D'Angeli

Il 3 maggio 2006, presso il Teatro delle Commedie di Livorno, un’intervista a Sandro Lombardi ha inau-gurato la III edizione del seminario interuniversitario (coinvolge gli Atenei di Pisa, Bologna e Torino, idea-trice e responsabile culturale è Concetta D’Angeli), che il Comune della città labronica con generosità promuove, e finanzia per intero.

Il tema del seminario 2006 è stato “Il non-lavoro del teatro”: per evidenziare la marginalità e l’atipicità del mestiere teatrale, che è solitario nel suo versante creativo, sempre collettivo nella realizzazione; che de-ve tener conto delle leggi di mercato, trattandosi an-che di un prodotto economico, eppure sovverte le norme del consumo perché è arte; che richiede pro-fessionalità a volte specifiche, ma può utilizzare chi non ha alcuna formazione attoriale o drammaturgica; che si svolge in luoghi costruiti ad hoc come in spazi imprevisti...

Sandro Lombardi (“Compagnia Lombardi-Tiezzi”) ha scritto su questi temi un libro bello e toccante, Gli anni felici, edito da Garzanti nel 2004.

CONCETTA D’ANGELI: Sandro Lombardi, grande attore, è autore di Gli anni felici. Realtà e memoria nel la-voro dell’attore. Opera autobiografica, se si accoglie un’i-dea nobile di autobiografia. In questo caso è il punto

di vista dal quale guardare il lavoro dell’attore. La linea che Lombardi segue nel raccontarsi non è asfittica; di continuo la narrazione s’allarga dalle proprie espe-rienze soggettive alla storia del teatro, non solo ita-liano, dagli anni ’60 in poi. E ancora s’allarga, spazia fuori dall’ambito dello spettacolo perché la forma-zione di Lombardi e del suo gruppo riguarda, oltre che il teatro, la pittura, la musica, la letteratura. E qui emergono, di Sandro, amori che ci accomunano, co-me quello per Elsa Morante, in particolare per Ara-coeli, un romanzo così poco capito e così poco noto.

Qualche informazione. Alla fine dei ’60, ad Arez-zo, Lombardi fonda, insieme a Federico Tiezzi e Ma-rion d’Amburgo, la compagnia “Teatro Liberazione”, che a Firenze, dove i tre si trasferiscono, diventa il “Carrozzone” fino al 1981, poi “Magazzini Crimina-li”, poi “Magazzini”. Infine, dal 2001, “Compagnia Lombardi-Tiezzi”.

La dimensione del gruppo è riconosciuta impor-tante da Sandro sia nel proprio sviluppo individuale, sia nella sua nascita come attore. Nel libro si parla di felicità del contesto collettivo, di conforto nella con-divisione di un progetto: è un filo che vorrei tener presente, significativo soprattutto oggi, che della col-lettività ci si dimentica spesso, lasciando prevalere in-dividualismi esasperati. Già intorno agli anni ’80 viene però registrata una crisi significativa. Vuoi leggere, Sandro, il punto in cui ne parli?

SANDRO LOMBARDI: «Un’intera generazione, forma-tasi sul lavoro di gruppo, attraversava l’inevitabile sfa-satura che si crea quando, dopo anni di concordia pressoché assoluta, i tempi di crescita individuale cambiano e si aprono divergenze non più ricomponi-bili se non a patto di un equilibrio delicatissimo tra dialettica e libertà. Arriva un momento in cui diventa una forzatura mantenere le dinamiche individuali en-tro un orizzonte unitario. Un altro limite della cultura di gruppo si manifesta quando, inavvertitamente, la consonanza e comunanza di vedute (che all’inizio co-stituiscono forza e unità di una compagine di persone che definisce la propria identità separandosi dal resto del mondo) si trasformano in chiusura autoreferen-ziale; quando la compattezza di posizioni che offre al gruppo lo strumento per dare forma concreta alle proprie utopie diventa solo una legge superata dalla realtà» (Gli anni felici, pp. 156-157).

Dopo vent’anni di lavoro, cominciavano ad emer-gere le vocazioni individuali, e si trattava di trovare un

Sandro Lombardi, Antigone di Sofocle(foto di Marcello Norberth)

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equilibrio tra quello che volevamo realmente fare, cioè non infrangere la dimensione collettiva, e allo stesso tempo lasciare che, all’interno di questa, avessero spa-zio anche le vocazioni e i progetti individuali.

D’ANGELI: I “Magazzini” vengono identificati, oltre che con una pratica, con un’idea di teatro; sono im-portanti infatti sia per i lavori che hanno realizzato e la qualità artistica che li contraddistingue, sia per l’ela-borazione teorica che li ha accompagnati – un fatto inconsueto, soprattutto in Italia. Nell’82, in uno spet-tacolo tratto dal romanzo, che allora era un cult, Sulla strada di Jack Kerouac, il gruppo propone l’idea di “teatro di poesia”. Servendosi della lingua della scena, si vuole trovare l’equivalente visivo del ritmo, della struttura e della geometria poetiche; e una lingua di-versa dalla prosa naturalistica, usuale del teatro bor-ghese.

La poesia costituisce una presenza costante nel la-voro di Sandro e della compagnia, a cominciare dalla messinscena integrale della Divina Commedia, con la collaborazione di tre scrittori contemporanei, Edo-ardo Sanguineti per l’Inferno, Mario Luzi per il Purgato-rio, Giovanni Giudici per il Paradiso. Nel ’94 avven-gono due incontri fondamentali, che verranno iterati fino ad oggi: con Giovanni Testori (Edipus) e con Pier Paolo Pasolini (Porcile). La fedeltà di Sandro per Te-stori, di cui è straordinario, commovente interprete, prosegue con i Lai (Cleopatràs nel ’96; nel ’98 Erodiàs e Mater Strangosciàs); né esclude la produzione critica dello scrittore lombardo (come esperto d’arte si forma con Longhi), portando in scena Il gran teatro montano. Saggi su Gaudenzio Ferrari, dedicato al Sacro Monte di Varallo, straordinaria mescolanza di pittura, scultura e teatro; e Il ventre del teatro, il suo difficile manifesto te-atrale. Nel 2001, con una prova eccezionale, Lom-bardi è il protagonista de L’Ambleto.

A proposito del primo incontro con Testori, vi in-vito a leggere le pagine in cui Sandro parla della ne-cessità di operare sul proprio corpo una serie di tra-sformazioni materiali, per poter rappresentare i diversi personaggi del dramma. Il mito di Edipo riscritto da Testori si colloca infatti in una cornice metateatrale: un capocomico che in origine faceva la parte del pro-tagonista viene abbandonato via via da tutti gli attori fino a restare solo, e da solo deve interpretare tutti i personaggi della tragedia. Sandro offrì, di quest’attore disperato e ridicolo, una performance memorabile. Le pagine che scrive al riguardo hanno un taglio tecnico, che non sarà irrilevante per chi ricerca un approccio concreto al lavoro d’attore.

LOMBARDI: Questi testi (la trilogia degli Scarozzanti) sono scritti in una lingua del tutto particolare, del tut-to d’invenzione, che ha alla base il dialetto brianzolo (Testori era nato a Novate Milanese), su cui si incro-stano francesismi, venetismi, latinismi e neologismi: il risultato è una lingua molto difficile, quasi una lingua

straniera, a prima lettura incomprensibile, ma che può diventare di grande comunicazione nel momento in cui l’attore riesce ad appropriarsene.

«Un nesso strettissimo lega la dimensione lingui-stica del testo a quella psicologica dello Scarozzante. Lo spessore umano che lo caratterizza è inseparabile dalla violenza della lingua che parla. La fisicità estrema dell’eloquio chiede d’essere attraversata dall’attore con le viscere, quasi che in essa emergesse il conflitto pri-mordiale che sussiste tra voce come espressione dello spirito e voce come espressione della dimensione ani-male. Non si tratta di metafore: il percorso che quel testo mi imponeva implicava la necessità di rendere concretamente fisica la voce. Era il solo modo di dif-ferenziare la parola di Laio da quella di Iocasta, quella di Edipus da quella di Dioniso. Andavo scoprendo, al mio interno, cavità e snodi attraverso cui direzionare la voce. Non era un lavoro soltanto razionale. E an-che il coinvolgimento emotivo forse non bastava. Do-vevo trovare un punto d’equilibrio in cui far incon-trare, nella voce, il senso di una musica primordiale e la logica del linguaggio» (Gli anni felici, p. 236).

D’ANGELI: Anche l’incontro con Pasolini si estende nel tempo, con la lettura di Le ceneri di Gramsci (2000), con Il mio Pasolini (2004). E poi, anche questa costan-te, c’è l’attenzione al teatro classico, dall’Antigone di So-focle (2004) nella rielaborazione che ne dette Bertolt Brecht in base alla poetica e infedele versione di Höl-derlin, ai recentissimi Uccelli di Aristofane, uno spetta-colo pieno d’allegria e levità.

Dopo questa sintetica ricognizione del lavoro di

Sandro Lombardi e del suo gruppo, farei qualche do-manda su alcuni punti del libro; però mi piacerebbe se il pubblico volesse intersecarsi, in tutta libertà, con la nostra discussione-riflessione ad alta voce.

Per primo voglio affrontare il punto della memo-ria, proprietà essenziale nel lavoro dell’attore. Con un’unica parola, “memoria”, mi riferisco, come spesso succede, a contenuti, esperienze, concetti, assai diffe-renziati.

Memoria collettiva, per incominciare. In teatro

Sandro Lombardi, Ciro Masella, Leonardo Capuano, Gli Uccelli (foto di Marcello Norberth)

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essa conserva, tra l’altro, le modalità dell’operare arti-stico: come procedeva quel famoso regista, come quell’attore importante interpretava i suoi personag-gi... Tracce labili, di solito non affidate alla scrittura ma depositate in chi ne fu testimone, che tendono a perdersi, cancellarsi. C’è poi una seconda accezione, tecnica, di “memoria”, supporto necessario dell’arte attorale. Sandro parla a lungo dell’esercizio mnemo-nico che compiva negli anni del liceo, quando man-dava a mente lunghi pezzi delle tragedie greche (in lingua originale), fissandone l’aspetto fonico, ritmico, musicale, piuttosto che il significato. E poi e soprat-tutto il bagaglio dei ricordi individuali, l’accezione più consueta, quella di cui si parla fin dall’introduzione, in termini affascinanti, e in questo caso insoliti. La me-moria, che siamo abituati a pensare in antitesi al-l’oblio, attua invece, con questo, un gioco dinamico produttore di creatività. È nella relazione con la di-menticanza che la memoria recupera le sue orme. Non si tratta dunque di una banca-dati immutabile, ma di una sostanza fluida che diventa forza inventiva, che attira e risucchia le facoltà razionali, la mente, l’immaginazione. Non troppo diversamente la pensa-va la “nostra” Elsa Morante: «ché tutto il pensare è forse ricordare».

LOMBARDI: In ebraico c’è un solo termine che signi-fica pensare e ricordare, che è zakhar: la stessa parola indica l’attività del pensiero e quella della memoria. Del resto, anche alla base della cultura greco-latina, Platone esprime lo stesso concetto.

D’ANGELI: Leggeresti un passo relativo alla memo-ria? Poi parleremo delle diverse accezioni del termine, e dell’esperienza stessa di memoria.

LOMBARDI: Questo brano fa parte di un capitolo centrale, che si intitola Le vacanze. Quando si scrive si pensa sempre a un lettore ideale, e i miei lettori ideali erano e sono principalmente gli attori: attori giovani, attori in cerca di una strada. Ciò che volevo dimo-strare è che si può diventare attori in mille modi di-versi, che non c’è un’unica strada come spesso hanno voluto farci credere le scuole, più o meno ufficiali, o anche quelle cosiddette alternative: hanno sempre voluto farci credere che esistono metodi migliori di altri. Secondo me ciascuno può trovare una sua stra-da, e questa non passa solo attraverso il lavoro e lo studio. O perlomeno, anche le vacanze, appunto, pos-sono essere momenti di crescita.

«Il primo strumento [...] è la memoria. È nella me-moria che si tratta di imprimere un percorso di pen-siero che coincida con una sostanza linguistica; è con la memoria che si ricreano le condizioni affinché il proprio pensiero si sovrapponga a quello sotteso al testo. Queste operazioni necessitano di una serie di atti molto concreti. Mi esercitavo ad analizzare il testo dal punto di vista della sua struttura logica, di leggerlo

tenendo conto esclusivamente della funzione che han-no le parole che lo costituiscono [...]. La lettura logica corrisponde al primo livello di significato, quello che veicola una serie di funzioni linguistiche le quali, al-l’interno di un codice, costituiscono un senso.

C’è poi il livello sonoro, indipendente dal signifi-cato e legato invece all’effetto musicale della frase. Serviva un’analisi metrica, capace di rendere piena-mente percepibili gli accenti. Naturalmente non si tratta di tenersi rigidamente legati a questa scansione, tutt’altro... Ma sono proprio il rigore e l’implacabilità della griglia metrica a far sì che l’attore trovi, attra-verso differenziazioni più o meno marcate nell’appog-giarsi a un accento piuttosto che a un altro, una libertà all’interno del gioco metrico» (Gli anni felici, p. 202).

Qui interrompo con un esempio perché quel che ho letto può sembrare molto astratto e teorico. Pren-diamo un verso tra i più celebri della poesia italiana, l’incipit dell’Inferno di Dante: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Nel verso, ci sono quattro accenti, i quattro accenti canonici dell’endecasillabo, che costi-tuiscono la struttura sonora di quel verso, non il suo significato. Dove sta la libertà dell’attore? Essa può sembrare minima, in realtà è grandissima: basta privi-legiare uno di questi accenti (senza sminuire gli altri, naturalmente), basta sottolinearne uno, anche legger-mente, per avere quattro significati, non voglio dire del tutto diversi, ma quattro sfumature di significato diverse. Perché se io dico: «Nel mezzo del cammin di nostra vita», pongo l’accento sulla centralità della vita. Se invece dico: «Nel mezzo del cammin di nostra vita», evidenzio che la vita è un percorso, un divenire. E se dico: «Nel mezzo del cammin di nostra vita», sottolineo l’universalità dell’esperienza dantesca. Op-pure posso dire: «Nel mezzo del cammin di nostra vita», e in questo caso tendo a esaltare il mistero dell’esistenza stessa.

«Passando dal piano metrico-ritmico (musicale) a quello semantico, e cercando di arrivare alla radice della natura dei vocaboli, mi accorgevo che era utile visualizzarne mentalmente le immagini. Una mattina rileggevo l’episodio casentinese del quinto canto del Purgatorio. In quel caso, associare un’immagine a dei versi mi era facile perché riferivano di una topografia a me ben nota e cara, ma in seguito presi a estendere questa pratica a qualsiasi testo [...]. Sperimentavo così l’importanza di far sempre riferimento a esperienze reali, a conoscenze dirette, a ricordi personali. Su que-sta strada non è possibile truccare. Talvolta capita di trovarsi in difficoltà di fronte a un verso, a una parola, a una frase; di non capire come pronunciare determi-nate battute. In tali casi ogni tentativo di mascherare la difficoltà denuncia inevitabilmente la finzione. Il regista può aiutare l’attore a sciogliere il nodo, ma spesso c’è un problema così profondo che, per una fase più o meno lunga, non si può pretendere di risol-verlo. Bisogna allora farsi passivi riguardo al punto oscuro, attivandosi però su tutto ciò che lo circonda.

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Questa è del resto la tecnica da seguire per favorire ogni processo di associazione alle esperienze perso-nali: rendere passiva una parte di sé lavorando attiva-mente a nutrire la sfera inconscia. In attesa che il nodo si sciolga, il solo modo di realizzare una provvi-soria soluzione è quello di esibire apertamente, nella recitazione, quella difficoltà, esprimendo dichiarata-mente dubbi e incomprensioni in modo da comuni-care comunque una verità: il disagio per il nodo irri-solto» (Gli anni felici, pp. 202-203). DAL PUBBLICO: Potrebbe insistere ancora sulla rela-zione tra attore e memoria? LOMBARDI: La memoria è lo strumento principale con cui lavora un attore, in tutti i sensi. Attraverso la memoria un attore può trovare le associazioni indi-spensabili: può capitare di dover interpretare un per-sonaggio con cui ci si identifica quasi alla perfezione, e in quel caso tutto diventa più semplice; ma ci si può anche trovare nella situazione opposta di dover inter-pretare un personaggio che non ha niente a che ve-dere con quello che noi siamo nella vita, e in quel caso si tratta di cercare nella memoria, perché solo nella memoria si possono trovare delle situazioni, dei ri-cordi, delle immagini, dei contesti a cui associare quel qualcosa che non ci appartiene, con cui entrare in qualcosa che non è nostro. La memoria, poi, lavora anche molto spesso con il suo contrario, cioè con l’oblio, in una dialettica tra ricordo e dimenticanza che è estremamente importante, perché spesso è grazie ad essa che si trovano le intuizioni più felici, più folgo-ranti, quelle che poi aprono il varco nei momenti di difficoltà.

Questo seminario si chiama Il non lavoro del teatro.

In effetti è vero che il teatro è un gioco: solo la lingua italiana non presenta quel fenomeno straordinario, per cui i francesi, gli inglesi o i tedeschi usano lo stesso termine per indicare giocare e recitare: jouer, to play, spie-len. È vero che c’è questo aspetto di ludicità, però c’è anche un aspetto di drammaticità: quando non si sa bene come procedere, come sbloccare dei nodi. Molte

scuole insistono sulla concentrazione, sulla razionaliz-zazione e individuazione psicologica degli elementi di un personaggio o di una situazione. Secondo me, in-vece, l’importante è rendersi passivi interiormente, ma attivare tutto quello che sta attorno a questo nucleo passivo: il cuore della recitazione sta proprio in questa dialettica tra concentrazione e deconcentrazione, tra lavoro razionale e abbandono, distrazione, passività, lasciarsi andare all’inconscio, a quello che non è ra-zionale. Lì lavora l’oblio, in una zona di non perce-zione, ma stimolato da un lavoro razionale, può rila-sciare qualcosa: questo può avvenire durante le prove, ma anche nel corso di una recita. È stato scritto molto su questo aspetto da Stanislavskij nel volume Il lavoro dell’attore in scena (secondo me è il suo libro più bello, più attraente, più condivisibile dal mio punto di vista), che riguarda il lavoro dell’attore una volta che lo spet-tacolo è messo a punto. Ma il teatro non è come il cinema, il teatro deve rivivere ogni sera, quindi ogni sera si deve rimettere in moto qualcosa. Ecco, nel te-nere in vita uno spettacolo, nel ripeterlo, certamente non si deve cambiare nulla, perché tutto deve filare alla perfezione, perché ci vuole rispetto dei propri compagni di lavoro, perché si deve essere sempre puntualissimi all’appuntamento, però ci sono degli spazi apparentemente infinitesimali, in cui spesso si aprono delle illuminazioni. È quello che Stanislavskij chiama “il lavoro dell’attore in scena”, cioè l’essere sempre presente a se stesso, ma nello stesso tempo – aggiungo io – essere anche sempre assente, mantenere sempre questo equilibrio: la totale presenza a se stessi e un’altrettanta totale assenza a se stessi, un altrettanto totale lasciarsi possedere da qualcosa che non è no-stro, oppure che è nostro in modo tale da poter affio-rare solo se non si mantiene troppo freddamente il controllo.

DAL PUBBLICO: Per ragioni personali, io sto lottando moltissimo tra memoria e oblio, ma ce la sto facendo, la memoria sta tornando. Poco fa mentre tu parlavi, avevo gli occhi chiusi e ho visto una scena di un film, su cui sono comparse alcune parole che all’improv-viso mi sono tornate alla mente. I versi di Dante: «Tu te ne porti di costui l’etterno/per una lagrimetta che’l mi toglie;/ma io farò de l’altro altro governo!» Credo che sia l’inizio di Accattone di Pasolini. Quando hai no-minato il V canto del Purgatorio, pensavi a questi versi?

LOMBARDI: Sì.

DAL PUBBLICO: Allora questa volta la memoria ha vinto l’oblio… Grazie infinite, grazie di cuore. LOMBARDI: I brani che abbiamo letto sono tra quelli più tecnici. Il libro non è tutto così, ci sono anche altri aspetti, altre dimensioni. Il titolo Gli anni felici non è un titolo nostalgico: gli “anni felici” non significano gli anni passati, ma il tempo del lavoro, certamente

Gli Uccelli, regia di Federico Tiezzi(foto di Marcello Norberth)

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quello presente e spero, mi auguro, quello futuro. Gli anni felici sono quelli in cui persone che ritengo pri-vilegiate, come noi attori, noi teatranti (non voglio dire che sia un paradiso, però siamo comunque per-sone privilegiate), possono fare quello che desiderano: dare realtà ai sogni, realizzare delle cose che prima non c’erano, «mettere al mondo il mondo» come di-ceva Alighiero Boetti, cioè creare qualche cosa che prima non c’era. Concetta D’Angeli parlava di “teatro di poesia”: è una teoria che Tiezzi aveva elaborato, ma era anche un gioco di parole basato sul fatto di essere il contrario del “teatro di prosa”. Per me il “teatro di poesia” implica una oscillazione, che ho scoperto ca-sualmente, lavorandoci, facendo le prove di uno spet-tacolo. Racconto nel libro tre o quattro episodi, uno legato a Testori, uno a Pasolini, uno a Luzi, che dimo-strano come l’essenza della recitazione, delle intuizioni più felici emerga e risieda – e qui vado contro quello che sostengono tante scuole di teatro e di recitazione – proprio nell’oscillazione tra concentrazione e passi-vità.

C’è una fase in cui lavora la ragione, una in cui la-vora la psicologia... ma poi deve lavorare il senti-mento, e deve lavorare la tecnica; comunque nulla di tutto questo arriverebbe allo spettatore se non ci fosse una ferrea volontà di comunicare. Spesso l’attore non ha questa intenzione: molti attori preferiscono ascol-tarsi, si compiacciono dell’ascoltarsi, si sentono bravi (magari lo sono, e fanno tutto nel modo giusto), ma dimenticano il destinatario principale del loro lavoro, che è lo spettatore. Quindi da un lato c’è questo ele-mento della volontà di comunicare qualcosa, non im-porta cosa: qualcosa di proprio, qualcosa del testo che si recita, qualcosa della regia che ci è stata costruita sopra, qualcosa di preciso, insomma; e dall’altro si deve avere la capacità di abbandonarsi, di assentarsi, e di rendersi passivi, disponibili ad accogliere quello che la memoria o l’oblio, rilasciano. Tali considerazioni possono introdurre queste pagine…

«La soglia tra il sonno e la veglia è il momento in cui le regioni razionali e quelle profonde possono sconfinare l’una nell’altra [...]. Mi piace lavorare in quella terra di nessuno tra la veglia e il sonno: riper-correre una sequenza performativa con il pensiero, rivivere un testo in silenzio oppure mormorandolo a fior di labbra, provare a vedermi dall’esterno mentre faccio quello che si è stabilito alle prove... Quell’insie-me di tentativi, pensieri, risultati più o meno parziali, dubbi, domande, emozioni, intenzioni, e quant’altro costituisce il nucleo in via di definizione di un ruolo, si tratta di consegnarlo, al momento di prendere son-no, all’inconscio, di modo che questo vi lavori sopra, e di riprenderlo al risveglio […]. Ed è il momento in cui avvengono le metamorfosi nella memoria: quando il pensiero corre e vola sugli avvenimenti passati, e per improvvise illuminazioni vi scopre un senso mai pri-ma colto, ne intravede un significato nuovo. Del resto la memoria non conserva algidamente i dati immagaz-

zinati ma li espone al contatto con nuove esperienze, facendosi così il luogo in cui frammenti e brandelli di un passato non meno misterioso del futuro reagisco-no e si attivano [...]. Credo sia questa la memoria creativa che Stanislavskij voleva che i suoi attori mettessero in moto come reviviscenza: un terreno su cui tracciare i segni con cui raccontare la parte più profonda e tal-volta meno conosciuta di sé. È un percorso di consa-pevolezza: per raccontarsi bisogna conoscersi» (Gli an-ni felici, pp. 203-205).

D’ANGELI: Ecco, le frasi appena lette dimostrano be-ne come nel libro di Lombardi anche il lavoro tecnico, quello che sembra solo di superficie, venga sempre ri-condotto a un’operazione sotterranea, che coinvolge i diversi strati dell’io. Penso che sia uno dei tratti che non solo rendono affascinante questo testo, ma ser-vono a spiegare l’intensità che la recitazione del suo autore sa raggiungere.

DAL PUBBLICO: Potremmo ritornare sull’opposizio-ne tra straniamento di Brecht e tecnica di recitazione di Stanislavskij? LOMBARDI: Nel secolo immediatamente passato, so-no state prodotte molte teorie su come si deve recita-re. Due tra le più importanti, e opposte l’una all’altra, sono quelle di Stanislavskij, che prevede un’immedesi-mazione totale e quindi un lavoro soprattutto di psi-cologia, e quella di Brecht, che invece prevede un di-stanziamento dell’attore dal proprio personaggio. So-no passati molti anni da entrambe, quindi un attore adesso può fare tesoro dell’una e dell’altra.

Io utilizzo indifferentemente l’una e l’altra a secon-da del momento, a seconda del testo con cui mi trovo a lavorare, a seconda della fase di lavoro in cui sono arrivato o che sto attraversando. Un risultato definiti-vo un attore non lo raggiunge mai: il risultato del-l’attore è sempre provvisorio, è in ogni caso un qual-cosa che vola e va, ed è questo il miracolo del teatro rispetto a tutte le altre forme d’arte: il teatro avviene qui e ora e, in qualche modo, non è mai del tutto

Sandro Lombardi, Due lai (foto di Marcello Norberth)

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controllabile, né del tutto controllato, quindi può av-venire come non avvenire, il miracolo può darsi come non darsi. Per quanto riguarda la tecnica dello strania-mento di Brecht, mi raccontarono che Tino Buazzelli quando faceva il Galileo di Bertolt Brecht (che era uno spettacolo meraviglioso, uno dei capolavori di Stre-hler), non appena Strehler si assentava dopo aver fatto infinite disquisizioni sulla tecnica dello straniamento, diceva ai suoi compagni di lavoro: «Non rompetevi troppo la testa. La tecnica dello straniamento è molto semplice, basta pensare prima di ogni battuta: egli disse, due punti, virgolette». Questo solo per dire quanto il tea-tro può essere anche un gioco, ma in questo gioco c’è sempre qualcosa di vero, perché in realtà un attore sulla scena finge sempre tutto, però alla base di quella finzione deve esserci comunque una verità. Un attore può fingere tutto meno la verità che sta alla base di ogni sua finzione. Per esempio, durante un percorso di prove, un attore può trovarsi ad attraversare una zona che non ha risolto: in quel caso non può far finta di averla risolta, e a volte l’attore se la porta dietro anche dopo un debutto, quindi anche di fronte al pubblico. Quando mi è capitato di non riuscire a risol-vere un determinato brano, allora l’associazione che facevo era quella del dubbio, del problema: cercavo di comunicare allo spettatore la mia difficoltà a recitare quel brano. Era l’unica verità che mi era possibile co-municare in quel momento.

D’ANGELI: Ci hai esposto un paradosso, sul quale mi sembra il caso di riflettere. Il teatro, che è un universo di finzione, si costruisce però su una pietra di verità, coincidente col raggiungimento dell’intensità autentica e veritiera da parte dell’attore: quel suo gesto o quella sua intonazione obbediscono a una tale necessità che diventano obblighi morali, e per questa via raggiun-gono il voluto risultato estetico.

Ho sempre pensato che per un attore sia un mo-mento difficile quando la finzione dello spettacolo fi-nisce, il pubblico se ne va, lui resta solo, con i resti di una finzione smantellata. Sandro scrive, su quest’im-magine, una pagina emozionante sul tema della transi-torietà e della finzione teatrale, ma anche del nucleo di forza e di realtà su cui il gioco teatrale s’imposta.

LOMBARDI: Prima abbiamo parlato di Edipus. Anche questo brano è legato al modo in cui un attore arriva per gradi successivi ai suoi risultati. Qui racconto come alla base della verità ci sia anche la casualità di quello che ci circonda, di dove si fanno le prove, in che stagione si fanno, in che ambiente...

«A Montalcino, la mattina era dedicata al lavoro sul testo ma per il pomeriggio Federico voleva che subito traducessi in azioni sceniche le ipotesi formu-late a tavolino e che trovassi un immediato riscontro fisico alle intenzioni che si facevano via via più precise [...]. Cercavo di dare un ritmo alla sequenza delle azio-ni che avevo in mente. Stabilivo continui scarti di pro-

spettiva, di intonazione, di clima. Ma il ritmo non ba-stava: non era solo una questione musicale. Allora mi spinsi a concepire le variazioni come conseguenze di repentini mutamenti di pensiero, sviluppando le azio-ni verbali secondo immagini interne di cui favorivo l’irruzione. È la fase del lavoro in cui ogni elemento dell’interpretazione (scelte, idee, suggestioni, riferi-menti, intenzioni) va strutturato in modo da essere re-cepibile. Si tratta di far lavorare insieme piani diversi del pensiero sovrapponendo, alla logica che segue lo sviluppo del testo, il racconto (che può anche non avere relazione con esso) del proprio innestarsi nella situazione drammatica. Agli scarti d’intonazione e intensità, previsti dal ruolo e incarnati nell’interpreta-zione, si aggiungono così quelli che nascono dalle vi-sioni private dell’attore. Una volta creato in una strut-tura oggettiva un percorso interiore, vi costruivo so-pra, successivamente, un ricamo di variazioni ritmico-musicali solo in parte determinato dalle necessità del testo di partenza. Su questo ricamo si trattava di lavo-rare ancora di montaggio, scegliendo di volta in volta tra la via della sintesi e della simultaneità e quella dello svolgimento e della paratassi.

A un tratto sentii il desiderio di dimenticare tutto e lasciar vagare il pensiero, ormai padrone della memo-ria, in una sorta di passività pronta alla fecondazione. Sentivo che solo in tal modo il cuore poteva farsi stra-da nella mente – e i ricordi dimenticati affiorare alla coscienza. Bisognava mollare la tensione che nella vita quotidiana ci tiene sempre attivi nel trasformare il presente in futuro. Bisognava lasciare che il passato ir-rompesse. Tenevo insieme, così, le varie componenti del lavoro, riuscendo ad evitare la separazione tra vo-ce e corpo, tra pensiero e azione, tra ragione e miste-ro.

Nei freddi pomeriggi prenatalizi di Montalcino, mentre a teatro arrivava a folate un odore di legna bruciata che mi riportava al Casentino dell’infanzia, iniziavo a eseguire le mie strutture performative. Al-l’inizio mi apparivano fredde ma con la ripetizione perdevano a poco a poco la secchezza delle decisioni a priori e si incarnavano, diventando parte di me. Ac-quisita questa sicurezza strutturale, passavo al secondo livello: quello in cui è necessario che la partitura venga allagata dalla vita interiore, che irrompe in silenzio a disfare gli argini della ragione. I ricordi, le immagini, i profumi, i suoni dimenticati si risvegliano allora nel buio della coscienza e concorrono a nutrire il lavoro. Mi abbandonavo alla partitura elaborata in tanti mesi di studio e di prove e da quella risalivo a un me stesso anteriore che non aveva niente a che fare con il per-sonaggio se non nella misura di un’attribuzione a lui di quel me stesso resuscitato dall’oblio...

Non mi ero mai sentito così libero. Era come se fossero caduti tutti i blocchi, tutte le resistenze. Pro-vavo un senso di pulizia interiore che mi permetteva di abbandonarmi con sicurezza agli impulsi. Quel tar-lo dell’autocritica, che altre volte m’aveva irrigidito,

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sembrava scomparso e le idee nascevano direttamente durante le improvvisazioni. Il corpo e la voce, che spesso l’attore sente come ingombranti ostacoli sulla via del proprio processo creativo, si erano fatti leggeri e malleabili, come uno strumento perfettamente ac-cordato. Mi si presentavano alla mente, durante il la-voro, soluzioni diverse e multiple, in simultaneità. Fe-derico sapeva scegliere quelle più vive» (Gli anni felici, pp. 243-245).

«Un’accelerazione marcata a questo processo fu innescata un pomeriggio da una scoperta inattesa. Cercavo di concentrarmi prima dell’inizio della prova e mi sentivo particolarmente stanco. Federico mi con-sigliò di fare solo una filata tecnica, necessaria per mettere a punto le luci. Iniziai così a lavorare senza eccessive preoccupazioni. Non so come né quando sia avvenuto il passaggio ma a un dato momento mi tro-vai pienamente concentrato nel lavoro proprio mentre ero massimamente distratto, mi trovai attivo nel mo-mento di maggiore passività. E mi scoprii la mente piena d’immagini e frammenti di memoria proprio nel momento in cui meno li cercavo. Ho già ricordato la teoria di Bergson sulla visione panoramica dei mori-bondi. Secondo il filosofo francese, nel momento in cui l’io, consapevole di star morendo, molla la sua ten-sione verso il futuro, la progettualità e la vita, ecco che si rompe il diaframma che tiene separata la sua co-scienza dal pozzo dei ricordi, che dunque possono af-fiorare» (Gli anni felici, pp. 247-248).

E qui mi interrompo, perché mi sembra di aver da-to fin troppi elementi di riflessione, di discussione.

D’ANGELI: Confesso di essere combattuta tra la vo-glia di fare spazio alle mie curiosità e l’obbligo di non venir meno al mio ruolo, di accogliere altri punti di vista. Ora però un piccolissimo spiraglio alla curiosità personale me lo permetto.

Mi pare che spesso tu dimostri attenzione alla di-mensione psichica, alludi a letture di tipo psicanalitico, da cui sembri attingere molti elementi del tuo lavoro d’attore. Hai voglia di dirci qualcosa di più?

LOMBARDI: Proprio di recente mi è stato commis-sionato dalla rivista “Klaros”, organo ufficiale dell’As-sociazione degli Psicanalisti Junghiani in Italia, un te-sto dal titolo preciso, Psicanalisi e palcoscenico. Le mie letture di natura psicanalitica sono lacunose, disordi-nate, casuali, legate alle necessità del momento, però sono convinto che ci sia un parallelismo, e molti mo-menti di comunanza tra il lavoro dell’analisi e il lavoro dell’attore: fatto in un certo modo, anche il lavoro del-l’attore è uno scavo, come lo è quello dell’analisi; an-che il lavoro dell’attore è un oscillare tra sfera coscien-te e sfera inconscia, come quello della psicanalisi; an-che il lavoro dell’attore è un continuo cercare di capire i meccanismi, le dinamiche, i movimenti che avvengo-no dentro di noi, spesso a nostra insaputa. E questi sono gli elementi che possono avvicinare il lavoro del teatro al lavoro terapeutico. Molto teatro nasce infatti anche con una funzione terapeutica, ma bisogna stare molto attenti perché il teatro può essere anche una cosa pericolosa. Nel cercare di pescare dal profondo di sé, bisogna usare molta cautela, perché si può an-dare a toccare, a risvegliare qualcosa di doloroso. A volte sfiorare queste zone, questi ambienti è utile, è necessario, ma giusto sfiorarli, accarezzarli, darci una sbirciatina: spingersi troppo a fondo, resuscitare a-spetti dolorosi o sgradevoli o colpevoli della propria vita, del proprio passato, può essere anche molto peri-coloso. E così mi ricollego al discorso di prima: come il lavoro del teatro, e in particolare il lavoro dell’attore, stia in questa oscillazione continua tra aspetto giocoso e aspetto drammatico. DAL PUBBLICO: Come si riesce a capire quando si sfiora soltanto il campo del ricordo, dei momenti deli-cati, dolorosi del proprio passato, e quando invece es-si emergono perché, per esempio, il regista insiste nel ricercarli?

LOMBARDI: Ci vuole molta esperienza, molta co-scienza, molta etica, che non tutti hanno. Un buon regista deve sapersi rendere conto di quando l’attore sta rischiando di cadere in una situazione eccessiva, ed essere in grado di fermarlo. L’attore, con l’esperienza, può imparare anche da solo, pagandone le conseguen-ze magari, perché se non lo provi almeno una volta non puoi capire, però quando ci cadi una volta, ci stai più attento la seconda. Questo serve a dimostrare che il teatro è un’esperienza che non si fa da soli. Ci sono registi che a volte spingono gli attori a pescare nel tor-bido, che per ottenere determinati effetti scenici la-sciano sprofondare gli attori in situazioni, ricordi o dinamiche violente, autolesioniste o comunque delete-rie. Bisogna avere esperienza, consapevolezza, e biso-gna avere un’etica per evitare questo.

DAL PUBBLICO: Le mie esperienze teatrali, per quan-to scarse e superficiali, mi hanno sempre arricchito di energia, sia pure a costo di forti tensioni interiori. Ho Sandro Lombardi, Edipus (foto di Marcello Norberth)

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cominciato a fare teatro dopo la pensione; prima inse-gnavo storia e filosofia. Mi ricordo che per molto tempo è circolata la convinzione, e ha avuto grande credito, che la ricca fioritura teatrale nella Repubblica di Weimar sia stata una fuga dalle tensioni politiche, e quindi un modo, per quanto involontario, di favorire la ventata terribile dell’estrema Destra. Al contrario, la mia esperienza mi porta a vedere nel teatro la possibi-lità di scoprire nuovi aspetti della persona, delle rela-zioni, della realtà; un’occasione in più, dunque, per una vita più democratica, al di là delle manifestazioni preoccupanti del tempo attuale, dove penso anch’io, come la prof.ssa D’Angeli, che l’individualismo do-mini in modi a volte spaventosi.

LOMBARDI: Io non credo che l’esperienza del teatro nella Repubblica di Weimar sia stata una fuga dalla realtà: è stata un’esperienza legata a un momento sto-rico purtroppo soffocato dal Nazismo, ma era un mo-mento di apertura, di speranza, di straordinaria espan-sione culturale, che caratterizza quella che Salvatore Natoli chiama “l’esperienza della felicità”, ossia l’e-spansione di sé. Quand’è che si è felici? Quando ci si sente in espansione non solo individualmente, ma anche collettivamente. Questo per rispondere al pri-mo aspetto. Poi lei parla dell’individualità. Sì, questo è un fatto adesso preminente, rispetto a quando ero ra-gazzo io: quando cominciavo ad affacciarmi al teatro in anni prima liceali poi universitari, a cavallo fra la fine degli anni ’60 e gli inizi dei ’70, in quel periodo il teatro era visto e concepito principalmente come fe-nomeno collettivo, di aggregazione, corrispondente storicamente a quanto andava trasformandosi nella società. Io non credo alla teoria marxiana dell’arte co-me sovrastruttura rispetto alla realtà: l’arte è una com-ponente della realtà, non è una sua sovrastruttura. A volte l’arte addirittura precede determinate strutture politiche. Dopo la crisi del mondo antico, della cul-tura greco-romana, nei secoli dell’Alto Medioevo, il formarsi dell’Europa nasce prima figurativamente che politicamente, quindi sono del tutto in disaccordo con l’idea che l’arte sia una sovrastruttura: l’arte è una cosa che spesso coincide, quindi converge e fa parte della realtà, è uno degli elementi che creano la realtà, spesso precedendo le stesse strutture politiche. Pensiamo a cosa è successo a Firenze nei primi decenni del XV secolo, tra la fine del Trecento e il 1420-1430, quando Firenze è stata il centro del mondo, come nel VI se-colo a.C. lo era stata Atene. In quella Firenze tutto passa attraverso la pittura. In quel momento sono la pittura, la scultura e l’architettura le voci più impor-tanti, mentre nel secolo precedente era stata la lettera-tura, con Dante, Petrarca e Boccaccio. In questo con-vergere, coincidere, che Jung definirebbe “mysterium co-niunctionis” (il mistero delle coincidenze), nulla avviene per caso: le cose avvengono, coincidono. Oggi nessu-no è qui per caso, siamo tutti qui per un disegno, che sarà diverso per ciascuno di noi, ma che per ciascuno

di noi avrà un suo significato: qualcuno magari incon-trerà un amico, qualcuno una ragazza, qualcuno un marito, qualcuno scoprirà che può fare l’attore, qual-cuno scoprirà che del teatro non gliene importa nien-te. Tutto questo avviene perché c’è un concorso di coincidenze che ci ha portato ad essere qui, qui ed ora insieme, non casualmente. Quando ero ragazzo io, nell’intera società c’era un movimento di aggregazione che si rispecchiava anche nel teatro. Oggi, al contra-rio, c’è una tendenza all’isolamento. Però dobbiamo essere consapevoli del fatto che abbiamo subìto ven-t’anni di lavaggio del cervello. Il ventennio di Musso-lini non è stato niente, dal punto di vista culturale (aveva ragione Pasolini, secondo il quale il fascismo, nonostante tutto, culturalmente non aveva toccato nel profondo, non era riuscito a modificare la mentalità degli italiani) a confronto del ventennio berlusconia-no, che è stato invece culturalmente devastante, ha distrutto le coscienze. Fellini lo aveva capito con una intuizione profetica girando Ginger e Fred, quando an-cora Berlusconi non era neanche entrato in politica. Berlusconi la sua battaglia non l’ha vinta politicamen-te, ma l’ha vinta sul piano culturale. Un grande errore della Sinistra è stato quello di considerare la cultura un qualcosa di secondario, mentre Berlusconi ha capito perfettamente la priorità della cultura, e sulla cultura ha lavorato – certo su una cultura bassa, volgare, però in questo modo è riuscito non solo a convincere quasi metà degli italiani a votare per lui, ma è riuscito addi-rittura a fare in modo che buona parte dell’altra metà che non lo vota, condivida culturalmente il suo mon-do. DAL PUBBLICO: Finora abbiamo parlato di memoria dal punto di vista dell’attore. Ma esiste anche una me-moria del pubblico. Lei come si pone nei confronti degli spettatori?

LOMBARDI: In una posizione di desiderio di comuni-cazione, come oggi mi pongo nei confronti vostri: sto cercando di comunicare, sto cercando di dire qualcosa che non sia preparato, che non sia artefatto, che corri-sponda a una mia verità, a una mia realtà. Questo è il mio atteggiamento nei confronti del pubblico. La me-moria collettiva è fondamentale. Ad esempio, sono vent’anni circa che recito Dante, e mi sono accorto che la memoria collettiva, che prima rendeva imme-diatamente fruibile da parte dello spettatore quello che stavo leggendo, stia man mano decrescendo, per-ché le vecchie generazioni scompaiono, e le nuove non hanno studiato Dante come le vecchie, non lo imparano a memoria. Uno degli aspetti più disastrosi della riforma scolastica è stato abolire il mandare a memoria le poesie, o i pezzi di prosa, come si faceva ai miei tempi. Il fatto di avere a memoria un testo, che può anche essere dimenticato ma che poi può riaffio-rare a brandelli in un momento imprevisto e inaspet-tato, è un elemento strutturante dell’individualità, del

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l’identità non solo culturale ma direi umana di una persona. Quindi il mio rapporto col pubblico punta a questo, a condividere un’esperienza.

DAL PUBBLICO: Forse la mia domanda è stata un po’ troppo ellittica. Intendevo dire: come si pone di fron-te a un pubblico che non è più abituato al teatro? Or-mai siamo abituati alla televisione... Guardando gli spettacoli, per esempio, non ci premuriamo di parlare sottovoce perché alla tele non c’è bisogno di questa precauzione.

LOMBARDI: Trovo che avesse perfettamente ragione Alberto Arbasino quando, intervistato sulla televisio-ne, disse più o meno che, ai suoi tempi, chi guardava la televisione era considerato uno sciocco: significava che non aveva niente di meglio da fare, che la sera non aveva da andare al cinema, a teatro, a un con-certo, a rimorchiare, non aveva assolutamente niente di meglio da fare. I giovani oggi sono inchiodati da-vanti alla televisione la sera, non hanno niente di me-glio da fare. Questo è il risultato del ventennio che abbiamo subìto e che purtroppo continueremo a su-bire, perché ormai è la stragrande maggioranza degli italiani che la pensa così.

L’attore non può e non deve, secondo me, met-tersi a rincorrere la velocità di fruizione del pubblico. Deve svolgere il suo lavoro nei suoi tempi. Certo i tempi del teatro sono cambiati, come del resto sono cambiati anche i tempi del montaggio del cinema: se voi vedete un film degli anni quaranta, vedete che ha un montaggio completamente diverso da un film degli anni ottanta o novanta, o di un film contemporaneo.

Oggi si è arrivati a volte a dei limiti di velocità di montaggio quasi insostenibile per chi non ha quindici o sedici anni: io, che non ho quell’età, non ce la faccio a seguire certe velocità di montaggio, quindi si creano delle sfasature in base a cui inevitabilmente ciascuno farà poi le sue scelte, e ciascuno si ritroverà con i lin-guaggi e con i ritmi a cui è più abituato, data la sua cultura, data la sua formazione, data la sua età... E ognuno si ritroverà a fruire la cultura che si merita. È chiaro che c’è pubblico e pubblico: c’è il pubblico del-le prime, c’è il pubblico borghese, c’è il pubblico che viene a teatro senza neanche sapere cosa vada a ve-dere, c’è il pubblico motivato in cui ogni singolo spet-tatore va a quel determinato spettacolo perché sa quello che vuole vedere. Ma il compito dell’attore è comunque sempre quello di fare come se avesse di fronte un pubblico che lo sta a sentire e lo ascolta at-tentamente. Certo, se c’è un pubblico ben disposto, il compito sarà più semplice; se il pubblico sarà indiffe-rente, ostile, svogliato, con la testa ad altro, il compito dell’attore sarà più difficile, perché sarà quello di cat-turare l’attenzione di qualcuno che non ha nessuna in-tenzione di farsi catturare, che non collabora.

DAL PUBBLICO: Se deve interpretare un personaggio

che sperimenta qualcosa che lei non ha mai provato, ad esempio la morte di un parente, su che cosa si basa per la sua recitazione? LOMBARDI: Su qualcosa che vi sia il più possibile vi-cino. La morte di un parente, più o meno, credo che purtroppo l’abbiamo sperimentata tutti, ma ci posso-no essere cose ancora più distanti. Comunque po-niamo che io non abbia mai avuto la morte di un pa-rente e debba interpretare il dolore di una persona che ha subìto la morte di un parente. Posso pensare alla fine di un amore, posso pensare alla distruzione di un monumento al quale ero particolarmente affezionato: per esempio, quando i Talebani hanno distrutto i Buddha in Afghanistan... L’importante non è tanto che cosa uno va a cercare, ma la possibilità che quel qualcosa susciti nell’attore una dinamica che lo porti ad assimilarlo alla realtà del personaggio, alla dimen-sione, al momento che una determinata battuta o si-tuazione scenica il personaggio attraversa – e tutto questo detto da un attore che non si sente affatto psi-cologico. Io mi sento un attore più legato ad altre di-mensioni: l’aspetto psicologico mi appartiene solo in parte, non credo che l’interpretazione si esaurisca nel-la immedesimazione psicologica: ne ha bisogno, non può farne a meno, ma non vi si esaurisce. DAL PUBBLICO: E come si fa a guarire da questa te-levisione, che ci droga con i vari Zelig, talk-show, rea-lity...?

LOMBARDI: Io ho fatto una cosa molto semplice: cir-ca vent’anni fa, ho preso la televisione e l’ho buttata nel cassonetto della spazzatura. In casa mia non c’è televisione, e io vivo benissimo: ho molto tempo per leggere, per studiare, per ascoltare la musica, per an-dare al cinema, a teatro, ai concerti, o per tutte le altre cose che diceva Arbasino…

DAL PUBBLICO: Come vede la recitazione in Italia ri-spetto a quella delle altre nazioni europee?

LOMBARDI: Questa non è una domanda: è il tema di un convegno. La situazione italiana è unica, rispetto al resto d’Europa, anche per ragioni linguistiche e stori-che. La nostra unificazione linguistica, come del resto quella politica, è tardiva rispetto a paesi come la Spa-gna, l’Inghilterra, la Francia, che nel Seicento gode-vano già di una identità politica forte, e di conse-guenza hanno avuto fin da allora un’unità linguistica che ha permesso il fiorire di drammaturgie nazionali significative. Se pensiamo all’Inghilterra basta dire Shakespeare e Marlowe; se pensiamo alla Spagna, Cal-derón de la Barca e Lope de Vega; se pensiamo alla Francia, Corneille, Racine, Marivaux... In Italia invece Torquato Tasso, nel Cinquecento, è un fiore nel deserto; Alessandro Manzoni, nell’Ottocento, è un fiore nel deserto... Carlo Goldoni è l’unica eccezione

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perché si muove su un piano dialettale e, a differenza di Tasso e Manzoni, scrive prima per la scena che per la pagina. L’attore italiano ha un problema che gli attori francesi o spagnoli o inglesi non hanno: loro hanno un canone di riferimento linguistico sul quale si è fondata una tradizione di recitazione, da cui pos-sono anche più o meno derogare e quindi allontanarsi: provocando, facendo esperimenti (non a caso è là che sono nate le avanguardie). L’attore italiano non ha un canone di recitazione a cui riferirsi, se non il cosid-detto “birignao” delle Accademie, che a sua volta è determinato da una drammaturgia linguisticamente inefficace. Il fatto è che l’unificazione linguistica ita-liana è stata un’imposizione dall’alto: attraverso la ra-dio, la scuola dell’obbligo, la televisione e i mezzi di comunicazione di massa, che peraltro hanno estrema-mente impoverito la nostra lingua.

Tra Ottocento e Novecento c’è una pletora di testi

teatrali scritti in una lingua impossibile, che nessuno parla né ha mai parlato e che, passati cinque, dieci anni al massimo, denota già il suo invecchiamento. L’attore italiano si scontra con questa grande diffi-coltà, con l’estrema rarità di testi che abbiano una vi-talità linguistica, che permetta un’invenzione recitativa all’altezza della verità linguistica di base. I grandi scrit-tori italiani del Novecento usano ciascuno una lingua diversa, e non parlo solo di differenze stilistiche. Que-sto non succede per gli scrittori francesi o spagnoli o inglesi, che usano la stessa lingua; certo cambierà lo stile, ma non la lingua. In Italia, non a caso, gli scrit-

tori prima, gli attori poi, hanno sentito il bisogno di inventarsi una lingua. Gadda, Tozzi, Testori... la lin-gua se la sono inventata, mentre altri hanno scelto il verso e attraverso la concentrazione espressiva del verso hanno raggiunto risultati di verità poetica. Se voi guardate bene, i grandi attori italiani degli ultimi trent’anni, che sono quelli che ho visto recitare dal vivo, recitano tutti in modo personale e soprattutto inimitabile. Tutto questo ha un aspetto negativo, che consiste nell'impossibilità di una tradizione della mo-dernità; ma anche un aspetto positivo. C’è una mag-giore ricchezza e varietà rispetto agli attori non italiani che anche loro, come gli scrittori, possono avere uno stile solo leggermente diverso l’uno dall’altro. Alla Co-médie française recitano tutti bene, ma tutti nello stesso modo; in Italia invece l’attore medio recita in una lingua che non esiste, che nessuno parla nella realtà, come se fosse vera, facendo finta che sia vera, quindi aggiunge falsità a falsità, e il risultato è la media del brutto teatro che mi è capitato di vedere, quando ero ragazzo, e che mi capita di vedere anche oggi. Ma i veri grandi attori italiani recitano tutti in un modo completamente diverso, estremamente individuale, as-solutamente inimitabile.

DAL PUBBLICO: Come lo vede, lei, un teatro politico per sensibilizzare la massa? È favorevole a questo ge-nere di teatro oppure lo pensa privo di colore poli-tico? LOMBARDI: Il teatro è politico di per sé, e deve es-sere politico di per sé, lo è sempre stato fin dalle ori-gini, il teatro è sempre stato politico. Non credo in-vece al teatro politico come teatro di propaganda, strettamente, dichiaratamente, apertamente politico. La politicità del teatro sta nella sua eticità, nella sua morale, e cioè nel fatto che sia fatto bene. Facciamo bene il nostro lavoro, quello è fare politica, natural-mente con la consapevolezza, come diceva Brecht, che prima si è cittadini e poi attori.

D’ANGELI: Mi voglio riallacciare al discorso sull’autenticità, la verità che fonda l’universo della fin-zione teatrale, e la rende morale. Un punto che, se-condo me, è valido per l’arte in genere è l’identifica-zione – cito ancora Elsa Morante – di etica e bellezza, tanto per usare una parola desueta. Bellezza sostan-ziale, non di superficie. La connessione stretta tra que-ste due dimensioni, che fonda la verità dell’arte e quindi anche del teatro, mi sembra che risolva anche la questione politica, che dia il senso e l’indicazione della resistenza anche politica.

LOMBARDI: Certo, non ho nulla da aggiungere. An-che tutto il discorso che facevo sulla verità, all’inizio, anche quello è politica. La dimensione politica del-l’attore è questa: comunicare una verità. Fare una politica culturale è diverso: è compito degli organiz-

Sandro Lombardi, Cleopatràs (foto di Marcello Norberth)

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zatori, degli amministratori, dei politici, degli inse-gnanti, delle istituzioni. L’attore o il gruppo o il regista o l’imprenditore teatrale in proprio, può fare anche una politica culturale, ma io parlavo del lavoro speci-fico dell’attore. La politicità non è tanto nel fare poli-tica culturale, quanto nella moralità del fare bene il proprio lavoro, e nel non farsi condizionare né dalla televisione né da altri: tanti dicono che bisogna parlare come si parla a casa. Intanto non è vero, perché tu li vai a sentire e non parlano come parlerebbero a casa, ma scimmiottano una sorta di linguaggio naturalista che è inascoltabile, di matrice televisiva. Anche questa purtroppo è una politica, una politica scorretta, ma è politica.

DAL PUBBLICO: Vorrei farle una domanda che deriva dalla lettura del libro, oltre che da quello che è stato detto oggi. Sono colpito dalla sua esperienza, perché è quella di un attore formato e cresciuto alla ruota di una compagnia. Questo, negli ultimi venticinque-tren-t’anni, costituisce un’anomalia nel sistema teatrale ita-liano, dove è raro che una compagnia abbia vita lunga e sia costituita da elementi che svolgono insieme un lavoro ma condividono anche pezzi di vita e costrui-scono un progetto che dura nel tempo. Una compa-gnia che non si annulla nel nome di un regista o di un attore. Tenendo conto della singolarità rappresentata dai “Magazzini” e considerando che il suo libro do-vrebbe avere come lettore ideale un giovane attore, le chiedo: secondo lei, ha ancora senso oggi la dimen-sione della compagnia – compagnia di giro, di produ-zione – come elemento strutturante del teatro? Op-pure bisogna entrare nella convinzione che un gio-vane attore debba formarsi in una scuola, fare i pro-vini, passare per le diverse strutture teatrali, avvalo-rando il meccanismo del “provinato” e della mancan-za di un progettualità di ampio respiro?

LOMBARDI: Quello che dico sempre ai giovani è: cercate di fare il vostro teatro e non quello degli altri, perché purtroppo questo secondo sistema, quello dei provini, in qualche modo aliena ed espropria l’attore. Io mi considero fortunato ad aver avuto fin dall’inizio questa dimensione di compagnia, che è per certi aspetti molto dura e pesante da sostenere, perché im-pone sempre dei budget limitati, e bisogna sempre fa-re i conti con il soldo che manca, con la burocrazia, con le difficoltà organizzative, e così via... Tuttavia, fare teatro è anche questo, non si parla soltanto di te-orie, di tecniche. Certo, avere una compagnia alle spalle garantisce la libertà di certe scelte.

DAL PUBBLICO: Lei ha parlato, più che di un lavoro, di un percorso che compie per interpretare i suoi per-sonaggi, mobilitando l’inconscio, tenendo conto delle necessità comunicative, ecc. Come ci si accorge che si sta percorrendo la strada giusta? LOMBARDI: Non ce ne accorgiamo. Di errori se ne

fanno tanti. Certo, a volte capita di sentire quando hai imboccato la strada giusta: lo capisci, lo sai, qualcosa te lo dice; altre volte invece senti che hai preso la strada sbagliata ma non puoi tornare indietro perché ormai è un dazio da pagare. Però gli errori fanno parte dell’esperienza, della vita di tutti, e senza errori non si crescerebbe, quindi anche gli errori sono a loro modo necessari ed importanti.

DAL PUBBLICO: Quando l’attore si rende conto di non riuscire a risolvere un punto oscuro della sua in-terpretazione, lei ha detto che non lo deve nascon-dere, anzi lo deve comunicare al pubblico. In che mo-do? LOMBARDI: Non ci sono parole per poter risponde-re, ci potrebbero essere solo degli esempi. È molto più semplice di come sembra. In quei casi, io non ho mai fatto finta di aver risolto quel passo, ma ho cer-cato un’associazione dentro di me che mi permettesse di raccontare una verità, un’associazione a momenti di dubbio, di paura, di smarrimento e quindi ho cercato di esprimere quelli: esprimere un senso di smarrimen-to, di non sapere dove andare, di non sapere più chi si è: quante volte capita nella vita? Così ci si pone quan-do si tratta di esprimere qualcosa che non ci appar-tiene, o perché proprio non ci appartiene, o perché non lo si è capito, non lo si è risolto, o perché il pro-blema non si è del tutto sciolto. Allora non faccio finta di averlo risolto, tanto si sentirebbe, lo spettatore accorto se ne renderebbe conto. Io credo che per es-sere attori bisogna essere stati prima anche molto spettatori. Purtroppo invece, sia ieri come oggi, molti attori vanno pochissimo a teatro, e quindi non sanno distinguere; però se si va molto a teatro, si impara a riconoscere certe cose, e quando l’attore finge, e finge davvero, e dietro quella finzione non c’è nessun tipo di verità, lo spettatore accorto se ne accorge, eccome se se ne accorge! D’ANGELI: Su questo rilievo critico mi associo in-condizionatamente. Aggiungo che anche molti studio-si di teatro vanno poco a teatro... LOMBARDI: Non ci vanno quasi mai. Io sono pieno di richieste di studenti che mi dicono: «Sto facendo una tesi sul suo lavoro», e io chiedo: «Hai mai visto un mio spettacolo?», «No», «E allora arrivederci». «Ma al professore non interessa che andiamo a vedere», «Peggio per lui», «Ma noi siamo abituati a lavorare su-gli attori del passato», «Benissimo, lavorate sugli attori del passato». Se lavori sul presente, non vedo perché non devi andarlo a vedere.

Moltissimi studiosi di teatro, e di conseguenza una infinità di studenti di teatro, si laureano, studiano, pubblicano libri, solo ed esclusivamente sui documen-ti, è già tanto se sono documenti cinematografici o video, che comunque sono traditori anche quelli. Il teatro è il teatro, e l’esperienza teatrale si fa solo ed

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esclusivamente a teatro.

D’ANGELI: Un punto che mi stava molto a cuore, stasera non s’è toccato per niente: la pittura. Ne vo-glio comunque accennare però, mi serve per rivolgere a tutti una specie di appello. Lombardi, come molti membri della sua compagnia, ha una notevole prepa-razione pittorica, anche per ragioni di nascita: l’Are-tino è uno dei posti più belli d’Italia, e più ricchi d’arte. L’esperienza dell’arte, originaria, ritorna e so-stanzia il suo fare teatro. Sono convinta che uno spet-tacolo, per possedere l’intensità o verità e quindi il valore politico di cui prima si parlava, debba avere fondamento nella cultura. In Italia possediamo un’ec-cezionale tradizione d’arti visive, che in genere igno-riamo; come ignoriamo e disprezziamo un nostro al-tro grandissimo patrimonio, quello musicale. L’atten-zione di Lombardi e Tiezzi a musica e pittura, aspetti costitutivi del teatro, è evidente a chiunque veda un loro spettacolo, arricchisce enormemente il loro lin-guaggio teatrale. Dovrebbero essere elementi struttu-ranti anche nella formazione di chi studia teatro. Che non ne facciano parte è una grave carenza, e motivo di colpevole povertà.

LOMBARDI: Anche questa è una riflessione che sa-rebbe il titolo di un convegno per cui ti risponderei leggendo alcune pagine che, oltre che venire meglio incontro alla tua domanda, molto più chiaramente di come potrei fare parlando, possono anche chiudere il cerchio. Si tratta del capitolo dedicato a Porcile di Pa-

solini. «Tornavo alla vecchia abitudine di affiancare al te-

sto vero e proprio una sorta di testo visivo che, nel caso di Pasolini, spaziava tra i suoi amori figurativi (Giotto e Simone Martini, Pontormo e Romanino, Caravaggio) e i pittori evocati più o meno direttamen-te dal dramma (Velázquez e Rembrandt, Otto Dix e Georg Grosz). Avevo maturato un diverso rapporto con il repertorio della memoria. Divenuto ormai parte di me, non mi limitavo a trarne dei modelli: lasciavo che agisse facendo affiorare alla coscienza non solo un’immagine nuda e cruda ma anche il sentimento suscitato a suo tempo da quell’immagine. Ma ora ave-vo scoperto il valore della deconcentrazione, di quel-l’abbandono di cui parla Bergson a proposito del-l’ipermnesia dei moribondi Questa forma di memoria involontaria, che stava diventando il nucleo del mio lavoro, mi permetteva di stratificare sul piano del-l’interpretazione quello di un racconto personale. Con Edipus avevo scoperto la necessità di abbandonare il pensiero per antitesi a favore di una sensibilità per analogie. Pochi scrittori si sono espressi utilizzando gli schemi del pensiero per antitesi come Pasolini. Ma dietro questa apparenza lucidamente hegeliana mi pa-reva ribollisse il magma torbido di un pensiero nietzscheano: la nostalgia per la tragedia che ripetuta-mente Pasolini dichiara attiene più alla dimensione del sogno che a quella della ragione, concerne più la di-sperazione post-moderna che la speranza classico-romantica di far rivivere le forme sceniche di Atene. E anche dal punto di vista figurativo, altro che Grosz e Dix con la loro carica di critica sociale! Erano invece le larve malate di Francis Bacon, i lugubri pontefici ri-presi dall’Innocenzo X di Velázquez, che mi salivano alla coscienza.

Avevo elaborato un trucco deformante, con un occhio malato e la bocca cadente. Passavo un tempo lunghissimo allo specchio, convinto che questa opera-zione investa a fondo l’attore che, solo di fronte a se stesso, si dipinge sul volto i segni esteriori di una tra-sformazione interna. Nel sentirmi addosso quella lar-va, nel percepire la sensazione del disfacimento che deformava il corpo a misura che più intensa si faceva la memoria delle immagini, toccavo con mano la re-altà di un teatro che non si ferma al piano della rap-presentazione. In quei momenti non è la ragione che agisce, e solo dopo ci si rende conto di come i mecca-nismi della memoria vadano a cogliere nel giusto. In altre parole, non mi ero riferito a Bacon perché con-vinto di una sua affinità con Pasolini: fu l’affiorare delle immagini di Bacon a illuminarmi su quella affi-nità…» (Gli anni felici, pp. 255-256). Direi che potrei chiudere qui.

Sandro Lombardi, Gli Uccelli (foto di Marcello Norberth)

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Individuo, progetto, afasia: trasformazioni della commedia politica da Aristofane a Nanni Moretti

Alessandro Grilli

Nato come adattamento stilizzato di un rito col-

lettivo, trasferito dalle pratiche del culto rurale al cen-tro della vita istituzionale della polis, non sorprende che il teatro ateniese abbia manifestato fin dai suoi primi passi, ponendosi come momento essenziale di riflessione della collettività su se stessa, una spiccata vocazione politica. Fra le prime risposte a questa vo-cazione (attestata fin dai primi anni del V secolo a.C. per il tragico Frinico, e testimoniata per noi dai Per-siani di Eschilo, del 472 a.C., l’unica tragedia greca su-perstite esplicitamente incentrata su un problema di immediata attualità), l’opera di Aristofane sembra de-finire una volta per tutte le coordinate espressive del-l’aggressione politica nella tradizione occidentale. Non sappiamo quanto di specificamente aristofaneo ci sia nelle situazioni delle sue undici commedie conservate – visto che esse sono altresì tutto quanto ci resta del teatro comico più antico. Quel che è certo è che l’in-tera commedia ateniese del V secolo a.C. è stata com-media politica, come ad abundantiam rivelano i fram-menti degli autori contemporanei di Aristofane. La componente politica viene assunta anche nelle più an-tiche teorizzazioni storico-letterarie, risalenti alla pri-ma età ellenistica, come il tratto determinante dell’ar-chaia. Ed è proprio a causa dell’aderenza all’attualità extratestuale che la commedia attica di epoca classica diviene presto repertorio di difficile fruizione, subor-dinato al sussidio erudito una volta sottratto al suo contesto originario.

Se la componente politica è senz’altro il tratto più vistosamente peculiare della commedia antica, tutt’al-tro che uniformi sono le modalità del suo adatta-mento, in ciascun dramma, alle dinamiche del genere. Nello stesso corpus di Aristofane, per dire, l’innegabile politicità di tutte le commedie è declinata nei modi più diversi: in Acarnesi, Cavalieri, Pace e Lisistrata, ad esem-pio, la commedia apporta in modo diretto, senza mez-zi termini, il proprio contributo al dibattito politico in corso, asserendo con il crisma perentorio della dram-maturgia la preferibilità della pace alla guerra o denun-ciando il carattere inaffidabile dei leader. Uccelli, Rane, Ecclesiazuse e Pluto, invece, con loro programma di pa-lingenesi o di radicale riforma dello Stato o dell’eco-nomia, non fanno altro che affrontare il problema po-litico in una prospettiva di maggiore ampiezza. Anche nelle altre commedie l’apparente studio di carattere

non è altro che uno strumento, un modo di piegare l’esplorazione sociologica all’analisi politica: la con-danna delle avanguardie intellettuali (Nuvole) o del-l’ipertrofico apparato giudiziario ateniese (Vespe) van-no intese infatti come capitoli di un discorso ininter-rotto sulle dinamiche della vita associata, un discorso che non viene meno neanche quando il fuoco dell’in-teresse sembra ricondotto entro il più limitato oriz-zonte della critica letteraria (Tesmoforiazuse): parlare di tragedia e di poesia, per Aristofane, è ancora una volta un fatto politico, perché il teatro è già di suo, con di-gnità pari rispetto a spazi istituzionali come consigli e assemblee, un luogo naturalmente deputato alla rifles-sione politica.

Da questo, un piccolo paradosso: Aristofane parla di politica anche quando sembra parlare d’altro, anche quando i riferimenti all’attualità sono più coperti e in-diretti – il contesto, le sue basi materiali, gli stessi meccanismi del genere comico (lo vedremo fra poco) sono congegnati ad hoc per l’espressione di un discor-so politico. Spariti questi elementi, nella civiltà dello spettacolo del nostro tempo, ad esempio, il rischio è quello di un indebolimento strutturale, di una progres-siva afasia dello spettacolo (con isole di felice ecce-zione, come gli anni Settanta e in genere il teatro di Dario Fo) rispetto alla dimensione politica. Lo ve-dremo alla fine con una piccola sugkrisis che potrà sembrare azzardata, ma che mostra in che modo, se il teatro di Aristofane è politico anche quando parla di nuvole e di uccelli, i nostri spettacoli stentano ad es-serlo anche quando parlano del Presidente del Consi-glio.

Sarà il caso di scendere un po’ nello specifico: un

testo cruciale per la comprensione della commedia di Aristofane come teatro politico è proprio uno di quel-li in cui natura e misura della componente politica so-no state più soggette a discussione: gli Uccelli. La storia della sua interpretazione si presenta infatti decisamen-te polarizzata: la tradizione più illustre e più antica ve-de in questa commedia il compimento di un sogno di evasione, e sottolinea a preferenza di ogni altra la componente di idealità rarefatta entro cui avviene la realizzazione dell’utopia. Altri studiosi hanno invece rivendicato a vario titolo, con argomenti a volte anche curiosamente disparati, l’esistenza e la rilevanza di una

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dimensione politica nel testo. Per dirla con l’autore di Sei lezioni sulla storia, come l’opera storiografica, anche la critica letteraria dice di più dell’epoca in cui è scritta che di quella su cui è scritta. Carr cita ad esempio la storia greca di Grote e la storia romana di Mommsen, in cui ogni lettore avvertito è in grado di riconoscere, dietro all’esaltazione delle figure rispettivamente di Pericle e di Cesare, l’impronta della borghesia pro-gressista inglese in opposizione al disorientamento dei liberali tedeschi alla ricerca, dopo «le umiliazioni della Rivoluzione tedesca del 1848-49», dell’ennesimo “uo-mo forte”. Applicato agli Uccelli, il ragionamento per-mette di capire come mai gli esponenti più di spicco della lettura “evasiva” e disimpegnata di questa com-media si siano trovati ad attraversare alcuni dei mo-menti più travagliati della storia del continente o del pianeta. Darò tre esempi: nel 1809, quando A.W. von Schlegel esplicita, nelle sue Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur, l’interpretazione degli Uccelli come parabola di evasione nel mondo della fantasia, Napo-leone era al culmine del suo programma di espan-sione, e aveva trasformato i connotati politici del con-tinente con successi costati decine di migliaia di vite e riportati in primo luogo sui campi di battaglia italiani e tedeschi. Nel 1933 esce invece a Oxford la monogra-fia su Aristofane di Gilbert Murray, Regius Professor di greco, ellenista famoso e ancor più famoso esponente dei movimenti pacifisti nati dal trauma della Grande guerra. È un dato che torna facilmente alla memoria quando nelle sue pagine sugli Uccelli si legge che quella commedia è soprattutto «an escape from worry and the sordidness of life, away into the land of sky and clouds and poetry». Nel 1954, infine, quando l’inter-pretazione degli Uccelli come vicenda di evasione viene riproposta in un articolo di E.M. Blaicklock pubblica-to in «Greece and Rome», il ricordo della II guerra mondiale è vivo e doloroso, e l’autore ne è a tal punto influenzato da esplicitare nel sottotitolo la radice auto-biografica della sua lettura.

Per Blaicklock «[i]t is one of the uses of literature to enable men and women to escape [ancora la stessa parola chiave] from the pains of here and now and to transport themselves imaginatively into happier times and places» (p. 104). Chi di politica ne ha vista troppa nella vita reale, insomma, e in particolare ha avuto modo di apprezzarne gli effetti distruttivi, tende a va-lorizzare negli Uccelli il disimpegno, e a vedere nella sua vicenda la realizzazione di quella pace indisturbata esperibile solo nella fantasia.

Per quanto autorevoli, le voci che hanno ridimen-sionato le componenti politiche degli Uccelli sono co-munque minoritarie rispetto a quelle di chi ha prefe-rito invece metterle in rilievo. Per continuare l’ipotesi metadiscorsiva, si potrebbe osservare che all’infittirsi delle letture politiche corrisponde sul piano della sto-ria il diradamento, l’estromissione della politica dal campo dell’attività intellettuale in senso lato. La poli-tica è ormai affare dei professionisti: i professori di-ventano sempre più professori (mi ci metto anch’io), sicché la politica di Aristofane diventa tanto più inte-ressante e cospicua quanto meno si riesce a sentire il mondo esterno, quanto più lontane si fanno le ur-genze di una presa di posizione sul campo. Ma il di-scorso andrebbe forse ulteriormente precisato distin-guendo, anche fra i sostenitori della politicità degli Uc-celli, un approccio erudito da uno più propriamente letterario. Per chi interpreta, politico può voler dire molte cose diverse; in compenso lo sguardo erudito si mantiene costante nel tempo, indifferente a quello che avviene fuori dalle biblioteche. In effetti la ricerca an-tiquaria del XIX secolo non è diversa, per problemi e metodi, da molti studi anche recentissimi, e tende a ri-condurre la politicità degli Uccelli alle allusioni più o meno esplicite a fatti o personaggi dell’Atene classica. Contrariamente alla prassi di Aristofane, gli Uccelli sembrano evitare le allusioni dirette, ma il testo si pre-sta in più punti, di struttura o di dettaglio, al disvela-mento di rimandi in qualche misura trasparenti alla realtà politica ateniese del 414 a.C. Al centro di queste letture è ovviamente il rispecchiamento, nella proget-tata utopia di deduzione coloniale, della spedizione imperialistica in Sicilia partita da Atene pochi mesi prima della rappresentazione del dramma. Su questa somiglianza di fondo, gli studiosi hanno cercato corri-spondenze di dettaglio, in ossequio a una concezione della commedia antica che vede in essa qualcosa di molto simile a un fossile, a una lastra fotografica – a un oggetto magicamente impregnato di una specifica aria di Atene e capace perciò di rivelarla a partire da un sedimento leggibile come traccia meccanica. Simili ricerche cominciano a farsi più sfumate con un lavoro di J. Dalfen, pubblicato nel 1975 in un volume del «Bollettino dell’Istituto di Filologia Greca dell’Univer-sità di Padova», in cui l’autore non insiste tanto sui richiami puntuali all’attualità politica quanto sull’omo-geneità fra la strategia persuasiva di Pisetero e quella della demagogia democratica fautrice delle scelte im-Disegno di Francesco Giani, ispirato a Gli Uccelli

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perialistiche di Atene. Del resto già qualche anno pri-ma G. Paduano aveva intuito che la radice della pro-spettiva politica negli Uccelli non è tanto una questione di referenti puntuali quanto di progetto complessivo, e va individuata pertanto nella stessa «ipotesi com-prensiva di rinnovamento che viene adombrata nella fondazione di Nefelokokkygia» («Studi classici e orien-tali», 22, 1973, p. 116). Paduano non contesta la for-mulazione della lettura escapista: si limita a osservare che anche un’utopia di evasione non è altro che un progetto politico fondato sul radicale rifiuto della città nella sua forma storica.

La mia posizione si colloca sulla stessa linea, ma è più radicale nel sostenere che la politicità degli Uccelli dipende, prima ancora che dal tema o dalla natura fondamentalmente politica del progetto utopico, dalle coordinate entro cui si colloca lo scontro di forze che dà luogo al dramma. Come ho avuto modo di argo-mentare più ampiamente nell’Introduzione agli Uccelli che ho curato nel 2006 per l’editore Rizzoli, la vicenda degli Uccelli si configura come il capovolgimento car-nascialesco di uno stato di frustrazione individuale, una frustrazione che nasce da uno scontro dell’io con la collettività, la quale è rappresentata nel testo, in modo subliminale ma nettissimo, come un superindi-viduo dalle esigenze urgenti e insaziabili. La città, di cui il cittadino non può non sentirsi parte integrante (come dimostra ad esempio l’ironia contro i cittadini di origine straniera ai vv. 10 e 31), è quindi al tempo stesso il suo più pericoloso nemico personale (nel senso che essa è una persona in concorrenza con lui come persona).

La posizione dei protagonisti è infatti inizialmente sospesa fra l’orgoglio civico per l’esuberanza imperia-listica di Atene, di cui ci si continua a sentir parte, e il timore delle esazioni che a questa esuberanza inevi-tabilmente si collegano.

Le battute dei due vecchi ateniesi sono costellate di indizi della loro sintonia con la forza politica della madrepatria: per loro Atene è, con sapida perifrasi, la città «delle triremi belle» (v. 108), cioè la capitale del-l’impero marittimo (cfr. anche v. 1204); il progetto utopico di Pisetero viene equiparato all’assedio di Me-lo (v. 186), uno degli episodi più crudi della politica estera ateniese, così come le sue trovate sopravanzano l’abilità strategica del generale Nicia (vv. 362-363). Analogamente l’oriente è ridotto a memoria della guerra vinta sui Persiani (v. 278). Non sorprende per-tanto che la fondazione dello stato degli uccelli sia di fatto concomitante a un progetto di guerra (sacra, contro gli dei), come mostra il riferimento agli avvisi di mobilitazione (v. 450). Il clima generale rispecchia proprio quello della madrepatria, dove, come rimarca il coro, bastano requisiti minimi per fare una brillante carriera militare (vv. 798-800, contro Diitrefe).

D’altro canto, proprio questa percezione della città come potente ed esigente si traduce in odio delle tasse e paura delle multe: nel primo caso le stoccatine sono

esplicite (cfr. v. 36) oppure investono il lusso dei fun-zionari, dietro al quale il cittadino vede lo sperpero di risorse di sua competenza (cfr. ad esempio v. 1022, sull’abbigliamento eccessivo dell’Ispettore); nel secon-do, la paura si articola seguendo i vari aspetti della prassi giudiziaria: si esecrano direttamente i tribunali (v. 41; 110) oppure i sicofanti, cioè gli individui che, stante l’inesistenza della procedura d’ufficio nel diritto attico, si costituivano parte civile e venivano gratificati in caso di condanna degli imputati (contro i delatori si va dall’irrisione nominale, ad esempio al v. 153 contro Opunzio; oppure alla deplorazione degli effetti, come nel caso di Callia salassato dalle continue accuse, v. 285; ma le ragioni di opportunismo personale del si-cofante sono analiticamente esplorate in una delle sce-ne più gustose del dramma, vv. 1410 sgg.).

L’impennata eroica degli Uccelli, che è di fatto il prototipo dell’eroismo comico aristofaneo magistral-mente studiato da C.H. Whitman nella sua monogra-fia del 1964, scaturisce appunto dal capovolgimento della asimmetria iniziale: se l’individuo è dapprima vit-tima di uno scontro che lo oppone al gruppo, cioè a questa Città-Stato che è al tempo stesso mondo e in-dividuo, la soluzione più efficace coinciderà con l’e-spansione dell’io individuale che si farà Stato esso stesso. L’eroe di Aristofane è un individuo che trova nell’energia del desiderio, in cui la commedia antica ri-conosce con perspicacia la sola vera forza propria dell’individuo, la chiave per ridisegnare il proprio mondo, un mondo perfettamente adeguato ai suoi bi-sogni perché perfettamente coincidente con il suo profilo.

In sintesi: la politicità del teatro di Aristofane non è un fatto di contenuti, ma di forme – una politicità “di posizione”, in qualche modo. Posizione che tradu-ce gli estremi dello scontro primordiale “io-altro” nel codice del genere: il ruolo eroico è un vero e proprio distillato dell’individualismo implicito nell’io, mentre l’altro (che è “chiunque-altro”, ovvero “tutti-gli-altri”) diventa facilmente, in chiave politica, l’ipostasi del gruppo che schiaccia l’individuo, il “mondo-com’è”, vincolato alla limitazione delle parti, cioè alla negazio-ne del desiderio potenzialmente infinito di ciascuna.

Che di fatto l’energia politica di Aristofane derivi più da uno scontro di posizione che da un reale con-fronto di posizioni mi sembra confermato dalla se-mantica degli Uccelli, dove la trasformazione del vec-chio in nuovo avviene all’insegna di una sostanziale continuità, e i soli reali cambiamenti riguardano non gli enti ma le loro relazioni e posizioni nel sistema. Questo si intuisce ad esempio da una replica di Pise-tero i cui impliciti, a mio giudizio, non sono stati ade-guatamente messi in evidenza: «Gli uccelli sono gli dei degli uomini, adesso. A loro devono fare sacrifici, e a Zeus basta, per Zeus!» (vv. 1236-1237): la rivoluzione di Pisetero non cambia la sostanza degli oggetti, ma le loro relazioni. Gli dei restano dei (come mostra il giu-ramento che ne conferma le funzioni), ma non sono

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più gli «dei degli uomini», cioè sono privi delle prero-gative relazionali che procuravano loro sacrifici e of-ferte. Il merito del discorso non viene nemmeno af-frontato, né in termini teologici né in termini politici – semplicemente l’eroe, tuttora uomo ma anche uccello fra gli uccelli e loro capo, si limita a occupare la posi-zione che garantiva agli dei tutti i vantaggi.

Nel marzo 2006, con una scelta strategica e discus-

sa della data, a ridosso delle elezioni politiche del 9-10 aprile, è uscito nelle sale italiane l’ultimo film di Nanni Moretti, Il caimano. Un film politico come pochi altri, o meglio un metafilm, che tematizza la difficoltà/im-possibilità di fare un film su Berlusconi Presidente del Consiglio. Proprio pochi mesi prima la Schiwago Film, una casa di produzione tedesca di cinema indi-pendente, aveva presentato alla Berlinale 2006 un film a basso costo diretto da Jan Henrik Stahlberg. Il film, sceneggiato da Stahlberg e dalla sua compagna italiana Lucia Chiarla, e girato in Italia con attori italiani, era stato presentato sia col titolo originale (Buonanotte To-polino!) che con quello per la distribuzione internazio-nale, meno sottile, va da sé, ma utilmente inequivoca-bile: Bye Bye, Berlusconi! Un giudizio d’insieme? In e-strema sintesi: un film politico come pochi altri, o me-glio un metafilm, che tematizza la difficoltà/impos-sibilità di fare un film su Berlusconi Presidente del Consiglio.

Se qualcuno pensa che io stia ipotizzando un pla-gio in uno dei due sensi, sbaglia: chi ha visto entrambi i film (non molti, da noi, visto che Buonanotte Topolino! non ha avuto una regolare distribuzione ed è stato ignorato stranamente anche da molti dei circuiti cine-fili di solito attenti alla promozione delle pellicole più rare o coraggiose) sa che, al di là dell’idea di fondo, tutti i dettagli di produzione, sceneggiatura, regia ri-velano la più completa indipendenza dei due progetti. Com’è possibile allora che i due film si possano rias-sumere con una stessa frase, decisamente molto meno ovvia dell’onnipresente «lui incontra lei»? È proprio questo il punto su cui vale la pena di riflettere, e che mi ha spinto a questa bizzarra divagazione. Due sono gli elementi che sarei incline a considerare significativi: da un lato l’urgenza espressiva, che fa sì che nello stesso momento due autori non accomunati nemme-no dalla nazionalità scelgano di concentrarsi sulla figu-ra dominante della politica italiana dell’ultimo quin-quennio; dall’altro, e direttamente proporzionale a quell’urgenza espressiva, la difficoltà con cui essa si scontra al momento della realizzazione. In entrambi i casi il film sceglie di focalizzarsi proprio su dinamiche e conseguenze di questa difficoltà di espressione: Mo-retti attribuisce l’istanza critica a una giovane sceneg-giatrice, una ragazza dura e pura che si vede approvare il progetto di un film su Berlusconi più che altro per equivoco. Il produttore, dapprima coinvolto suo mal-grado poi sempre più convinto del progetto, reagisce con forza crescente a ogni incidente di percorso inve-

stendo sempre più sul film, in termini sia materiali che umani. Stahlberg racconta invece di essere arrivato al-la cornice metanarrativa quasi per caso, dopo che il consulente legale aveva suggerito una strategia di stra-niamento per evitare possibili difficoltà giudiziarie. La soluzione è quella della farsa, con un travestimento appena opacizzato sul piano onomastico che permette la messa in scena di Berlusconi-Topolone, sindaco di Topolonia, uomo d’affari corrotto ma popolare grazie al successo della volgarissima Tele Anguria, che viene rapito da una banda sovversiva e sottoposto a un pro-cesso di fronte a un tribunale popolare; la giuria è lo stesso popolo della rete, che appunto via internet vie-ne chiamato a esprimere il proprio verdetto.

In entrambi i casi, lo spostamento metanarrativo serve ad accentuare un dato cruciale, e cioè il conflitto paradossale fra pervasività e ineffabilità di uno stesso oggetto: la presenza di Berlusconi al potere è più che semplicemente ingombrante, per la coscienza critica del cittadino – è un ostacolo alla sua stessa dicibilità. L’ipotesi più ovvia, infatti, cioè che la rappresenta-zione delle difficoltà di fare un film su Berlusconi ri-fletta una semplice paura del potere, non mi sembra affatto convincente. Un argomento del genere defini-rebbe meglio le mancate critiche alla mafia, il cui po-tere si fonda appunto sull’inibizione della denuncia e-splicita (mi limito a rimandare a I cento passi). Nel caso di Berlusconi, invece, il problema non sta tanto nei limiti posti alla libertà di parola; il problema è a mon-te, e investe strutturalmente la stessa dimensione lin-guistica, comunicativa del discorso politico. Con Ber-lusconi il punto è l’ottundimento dello scarto differen-ziale da cui dipende (Saussure docet) ogni possibilità di significazione. La pervasività del personaggio politico è il dato quantitativamente e qualitativamente di mag-gior rilievo: nel film di Moretti esso è segnalata dalla molteplicità eterogenea dei contesti dove il Caimano ha le mani in pasta; in quello di Stahlberg, più sempli-cemente, dall’efficacia ubiqua e ipnotica di Tele Angu-ria. Proprio questa pervasività è tale da non permet-tere nemmeno le forme minimali della contrapposi-zione. Al personaggio Berlusconi è riuscito niente-meno che il progetto eroico del protagonista degli Uc-celli: abbattere la barriera identitaria fra se stesso e il mondo, in modo da precludere a priori ogni presa di coscienza alternativa. Un “eroe” che ha mangiato il mondo, che è diventato il mondo, è difficile infatti anche solo concettualizzarlo: se lui è tutto, al di fuori di lui non c’è spazio per nient’altro – e proprio questa è la dinamica cui i nostri due film, con la pesantezza implicita nella scelta metadiscorsiva, cercano di dare voce. Ma si tratta comunque di una voce sommessa – garbata, ironica, graffiante quanto si vuole, ma a tutti gli effetti più vicina al silenzio che al grido di denun-cia. Deboli, dissanguati, poco definiti (lo si vede so-prattutto nel film di Stalhberg) i portatori dell’istanza positiva non sono mai individui determinati, in ogni senso. Dalla parte dei buoni sta una collettività inar-

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ticolata che aspira ma non desidera. Una collettività di cui fa parte (col ruolo del “raggio di sole” ottimista, in un film dove si ride per non piangere) anche il figlio di Topolone, che chissà perché odia suo padre e non perde occasione per sabotarlo o dissociarsi. Sempre, però, curiosamente, senza dire una parola. Nessuna sorpresa che alla fine tutta la troupe degli idealisti fini-sca dispersa in una nuvoletta di afasia.

Un’ipotesi possibile, facilitata dalla familiarità con il teatro di Aristofane: l’afasia è il risultato dell’impos-sibilità di tradurre una situazione estrema (pervasività del nemico e suo successo nella strategia di confon-dere i confini io/altro) in una chiara dinamica di con-flitto. Possiamo, una volta rotti i tabù delle divarica-zioni eccessive, permetterci una piccola verifica: anche Aristofane, agli inizi della sua carriera, si è confrontato con l’urgenza di attaccare il leader democratico Cleone, un uomo politico dalla popolarità debordante e perva-siva da cui erano state ispirate molte scelte di Atene agli inizi della guerra del Peloponneso. Che si trattasse di una figura ubiqua è chiaro non solo dall’insistenza pressoché ossessiva, nell’opera di Aristofane, degli strali da cui Cleone fu bersagliato finché visse, ma so-prattutto dalla sua rappresentazione nella commedia “monografica” del 424, i Cavalieri, in cui Cleone viene

adombrato nella figura di un temibile occhiuto onni-presente servitore di Demo (l’allegoria del popolo). In una prospettiva come quella di Aristofane, la contrap-posizione a un nemico pervasivo sì ma precisamente individuato si realizza attraverso la contrapposizione del mostro non a una collettività di benintenzionati (che infatti si limitano a ideare-creare il golem del Sal-sicciaio, e poi a lasciarlo agire), ma a un individuo al-trettanto netto e mostruoso nell’esibizione delle sue urgenze di soddisfacimento privato. Il punto del con-fronto è il carattere essenziale della dimensione indivi-duale nella rappresentazione dello scontro: in virtù delle energie profonde che esso è in grado di mobili-tare nel destinatario, grazie agli automatismi identifica-tivi del genere, l’individualismo comico è il solo piede di porco capace di scardassare un sistema fondato sul torpore oppiaceo indotto dalla pervasività della propa-ganda nemica. Contro il Paflagone, come contro Ber-lusconi, non c’è gruppo che tenga: di fronte a un indi-viduo malvagio, anche se esteso quanto un mondo, o forse soprattutto se esteso quanto un mondo, è necessa-ria la forza non di un mondo, ma di un altro individuo disposto a prestare l’energia della sua consistenza in-dividuale a un progetto di rinnovamento valido per tutti.

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Dalla fantasia di felicità alla satira politica e ritorno Guido Paduano

Solo Aristofane è sopravvissuto dei poeti della più

antica commedia attica, che nel quinto secolo a.C. fonda le norme regolative del teatro comico europeo, destinate a essere modificate e adattate, ma non a de-cadere; ma Aristofane ci ha fortunatamente trasmesso un numero di opere, undici, sufficiente a individuare nel suo teatro un messaggio unitario, un’avventura in-tellettuale costante e coerente nel fine, ancorché sfac-cettata nella varietà delle invenzioni episodiche e si-tuazionali.

E il fine è la rappresentazione di un dato basilare, o addirittura del dato basilare della psiche umana, il sogno di felicità che possiamo leggere in contrapposto alla fantasia d’angoscia rappresentato dal genere con-temporaneo della tragedia: mentre l’una mette in sce-na la subalternità dell’uomo rispetto al reale (agli dei, al destino, agli uomini ostili, in ultima analisi alla pro-pria mortalità), la commedia mette in scena la sovra-nità sul reale, ovvero la totalità di un narcisismo infan-tile appagato.

Alla domanda «che cos’è la felicità?» il teatro di Aristofane fornisce una risposta che ha cadenze pres-soché ossessive, nel rimarcare l’elementarità del biso-gno: la felicità è prima di tutto il benessere alimentare, la quantità e la qualità del cibo di cui si può godere.

Qualche esempio soltanto di questa assolutizza-zione: nella prima commedia conservata, Gli Acarnesi, una feroce e splendida specularità contrappone il par-tito della guerra e il partito della pace, e i rispettivi esiti che loro augura e prepara la strategia comica: la guerra è stenti, combattimenti, ferite; la pace si identifica sen-za riserve con un grandioso banchetto, dove l’uomo si esalta nella vittoria simposiale, esattamente come la tradizione eroica lo esaltava nella vittoria in battaglia. Negli Uccelli l’alleanza surreale che una umanità etero-dossa stipula col popolo degli uccelli non impedisce che sia irresistibile la tentazione di far regredire gli al-leati a manicaretti succulenti – ma si tratta di avversari politici, uccelli condannati a morte per alto tradimen-to, questa è l’irresistibile giustificazione. Nelle Donne al Parlamento il finale simposiale topico trasferisce le se-duzioni dei sapori a quelle dell’udito inventando una parola gigantesca in cui si assommano tutti gli ingre-dienti di un piacere illimitato.

Funzione dunque simbolica, il cibo: ma insieme concretissima, e di un’amara concretezza storica: per noi è difficile ricordare che gli spettatori degli Acarnesi – ma anche delle tragedie di Sofocle e di Euripide – erano gli abitanti di un’Atene davvero affamata, invasa nelle sue campagne dall’annuale spedizione degli Spar-tani, e affollata dai contadini privati del loro habitat e inurbati a forza.

L’altro desiderio basilare, quello sessuale, è per lo

più considerato in Aristofane complementare e omo-geneo a quello alimentare, secondo un nesso rappre-sentato al meglio dal finale della Pace, dove il protago-nista Trigeo, una volta che è riuscito a riportare la dea Pace in mezzo agli uomini, ottiene di sposare una dea del suo seguito, quella che sovrintende al raccolto e ne porta il nome (“Opora”). Questo desiderio è dunque rappresentato come un’estensione immediata del nar-cisismo maschile, tranne che si prende atto della sua natura di relazione, e di relazione resa problematica dall’incrocio di volontà diverse, nella Lisistrata e nelle Donne al parlamento: in quest’ultima commedia si regi-strano le inquietudini derivate dall’idea di una felicità sessuale imposta per legge, secondo la quale cioè tutte le relazioni sono promiscue, ma regolate da un mec-canismo compensativo per cui hanno la precedenza i brutti (uomini e donne).

Ma che il desiderio alimentare, invece, sia ad ogni

effetto un problema politico, questa è una verità rico-nosciuta in ogni momento del teatro aristofanesco, e per la quale desidereremmo un riconoscimento altret-tanto immediato nella nostra civiltà, dove i problemi della fame nel Terzo Mondo sono spesso avvertiti dall’Occidente come astrazioni.

La politicizzazione si innesta sulla specificità dello statuto drammatico, intendo dire sulla opposizione tra singolo e collettività che definisce l’azione della com-media, come quella della tragedia, in termini di con-flitto, e sembra altresì alludere all’origine corale, per quanto misteriosa e irrecuperabile, che Aristotele ci indica per entrambe (il ditirambo per la tragedia, le processioni falloforiche per la commedia): in entrambi i casi il protagonista è colui che a un certo punto della preistoria del genere si è staccato dal coro per acqui-sire voce singola, e impersonare dunque la diversità.

In questo schema, la felicità di cui parlavamo non è un Eden senza tempo, ma una conquista faticosa-

Alessandro Schiavo, Massimo Verdastro, Sandro Lombardi, Gli Uccelli (foto di Marcello Norberth)

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mente strappata a un ambiente concepito come ostile: la collettività umana è definita infatti in termini non cooperativi, ma al contrario di impedimento rispetto ai desideri dell’individuo, in quanto la sua organizza-zione, il corpo politico, lavora ai danni del cittadino comune (di quell’uno che li rappresenta tutti sulla sce-na), caricandolo delle conseguenze di un insieme di negatività, errori, colpe, malversazioni, derivate dalla perversa alleanza che si realizza fra la malvagità dei governanti e la stupidità dei governati.

È molto significativo, e dovrebbe anche essere uti-le per la confusione dei nostri tempi, che la nebulosa negativa prenda le forme della guerra e del partito che in Atene la sostiene.

Esemplare al riguardo è la messinscena, all’inizio degli Acarnesi, dell’assemblea (ecclesia) degli Ateniesi, questo mito degli ideologi di tante epoche, questa commovente fondazione delle nostre stesse idee di cittadino e di stato: all’inizio e prima di tutto l’assem-blea è una sorta di fantasma, perché il protagonista Diceopoli, contadino inurbato a causa della guerra, è il solo a presentarsi in orario. Nell’emergenza gravissima in cui si trovano, gli Ateniesi non avvertono come prioritario il dovere di dibattere il problema della guerra e della pace, vale a dire della loro stessa esi-stenza, individuale e collettiva, ma preferiscono chiac-chierare in piazza di futilità, o fare i loro affari al mer-cato. Quando con tutta calma si presentano, si realizza un’ipotesi anche peggiore di quella temuta da Diceo-poli, che cioè anche i lavori dell’assemblea si disper-dano in questioni secondarie: non questo avviene, ma che il gruppo di potere al governo (i pritani, che nel loro insieme compongono la Bulè) sabota, in modo questo sì efficiente, la proposta di avviare le trattative di pace, negando all’autore della proposta i modesti fondi necessari a condurre la sua missione.

Spese enormi vengono invece sostenute per mis-sioni in paesi remoti come l’impero persiano o la Tra-cia, ai quali si richiede aiuto, finanziario o militare, per sostenere lo sforzo bellico. Sono missioni in realtà fi-ne a se stesse, come mostra la durata abnorme, che Diceopoli riconduce al desiderio di frodare lo stato prolungando la ricca diaria; strumento di auto-gratifi-cazione finanziaria e simbolica da parte della classe di-rigente ateniese, che ne esclude la gente comune. Ai carbonai di Acarne che lo accusano di tradimento per aver patteggiato col nemico, Diceopoli aprirà gli occhi chiamandoli a testimoni di non aver mai partecipato dei privilegi che i politici concedono a se stessi.

È dunque abbastanza conseguente che queste mis-sioni abbiano esito fallimentare, ma gli Ateniesi non se ne accorgono, non se ne possono o non se ne vo-gliono accorgere.

Da parte del gran Re arriva un’ambasceria palese-mente finta, che parla una lingua orientale macchero-nica ed è la capostipite dei mille travestimenti esotici che affollano il teatro del Settecento italiano. Non ser-ve che Diceopoli la riconosca come composta di de-

bosciati ateniesi – rimane solo nel suo smaschera-mento come era desolatamente solo poco prima sulla Pnice vuota; non serve neppure che l’ambasciatore stesso, sottoposto a stringente interrogatorio, confessi il trucco: quello che avviene tra lui e Diceopoli rimane confinato a fatto privato, e non intacca la ritualità del-l’imbroglio pubblico, per cui il falso dignitario viene accolto con tutti gli onori.

Dalla Tracia invece arrivano, anziché parole inter-pretabili come ambigue, i rinforzi richiesti, che peral-tro dovranno essere arruolati a spese degli Ateniesi: il loro arrivo sortisce il solo effetto di fare constatare – sempre al solo che è capace di farlo – quanto siano pericolosamente vicini i concetti di “alleati” e “truppe d’occupazione”, visto che per prima cosa gli alleati derubano Diceopoli del suo prezioso aglio.

E a quel punto ancora una botta irridente, non più per compensare l’impotenza del cittadino probo di fronte al malgoverno, ma per celebrarne un successo, sia pure occasionale e provvisorio; Diceopoli inventa di essere stato colpito da una goccia di pioggia: dun-que l’assemblea e l’arruolamento dei Traci devono es-sere rinviati, suggerendo il messaggio che gli Ateniesi sono manipolabili da chiunque, perfino dalla gente perbene!

Degno finale della scena in cui Aristofane ha rea-lizzato il rischioso progetto di mettere in scena, e dun-que alla berlina, la sacrosantità dell’atto politico: ma nel successivo rendimento di conti col Coro, che ri-cordavo prima, Diceopoli torna a prendere di mira la politica guerrafondaia in modo che possiamo dire complementare al precedente: se prima si dimostrava che la guerra non si può vincere, ora si dimostra che non avrebbe dovuto mai neppure essere iniziata, trat-tandosi della prevaricazione di un capo dispotico (il grande Pericle) che fa passare per interesse nazionale futili motivi di prestigio – una riedizione grottesca del ratto di Elena e della guerra di Troia. Qui dunque è sotto accusa l’imperialismo come valenza concettuale della guerra; sette anni più tardi, nella Pace, Aristofane, pur ribadendo la condanna di Pericle, attacca la classe dei mercanti d’armi, unico soggetto antisociale che trae profitto dai lutti e rovina economica dalle fortune della collettività.

Quanto alla massa dei cittadini che nella guerra non investono interessi né economici né simbolici, ma al contrario ne vivono i danni nella devastazione delle loro campagne e delle loro vite quotidiane, proprio questi danni sono strumentalizzati dall’establishment per stimolare in loro un nazionalismo revanchista ispirato alla logica del “tanto peggio tanto meglio” che punta dritto in direzione della catastrofe. Questo il quadro degli Acarnesi, e se Diceopoli ne ha abbastanza, Ari-stofane ha ancora molto altro da dire.

La commedia dell’anno successivo, I Cavalieri, è tutto un lungo, feroce e inesauribile dibattito fra il de-magogo al potere e l’uomo che i benpensanti vorreb-bero mettere al suo posto per liberarsi dalla tirannia;

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ma la sfiducia nella nazione e l’interpretazione nega-tiva e regressiva della storia è scritta nella norma che regola l’avvicendamento: per scalzare il demagogo bi-sogna essere peggiori di lui, cioè più abili nell’ingan-nare il Popolo (qui trasformato in un personaggio alle-gorico), fino a strappare al rivale scavalcato un rigur-gito di deluso e paradossale moralismo: «Quali me-schine lusinghe adoperi per farti credere da lui!»

In effetti, per ingraziarsi il popolo basta spargere la voce – perfettamente infondata – che il prezzo delle acciughe, il genere più popolare di sostentamento, è di colpo calato: alla notizia di un simile miracolo gli Ate-niesi recuperanno subito euforia nazionalistica e otti-mismo, e si getteranno a precipizio nella stolida politi-ca di guerra, rifiutando a priori le proposte del ne-mico.

Ancora due anni dopo, con Le Vespe, è la volta di un altro fra i pilastri della società, per usare l’espres-sione di Ibsen: l’amministrazione giudiziaria, in cui il poeta ravvisa una vera mania ossessiva del suo popo-lo, tanto che ancora molti anni dopo, negli Uccelli, la prenderà a pretesto brachilogico perché il suo nuovo protagonista abbandoni la patria.

S’intende che il potere giudiziario è visto da Ari-stofane come tutt’altro che autonomo da quello politi-co. L’ufficio di giudice popolare è pagato con un mo-desto compenso, che è l’unico mezzo di sostentamen-to per gli anziani delle classi meno abbienti, ai quali è impossibile svolgere attività più remunerative: essi so-no dunque ricattati e tenuti a stecchetto perché la loro aggressività, dietro l’aspetto dell’imparzialità severa, si eserciti in modo funzionale al regime e ai danni dei suoi avversari. Quando l’imputato è invece eccellente, i giudici si troveranno ad averlo assolto senza neanche saper come, come al protagonista delle Vespe capita in un grottesco processo al proprio cane che il figlio, oppositore dei demagoghi, gli allestisce in casa come compromesso per neutralizzare politicamente la sua mania, lasciandogli il vacuo piacere dell’apparenza au-toritaria, il solo che possedesse anche prima, nel pieno delle sue funzioni pubbliche.

La grande emergenza della pace è affrontata un’ul-tima volta nella Lisistrata, del 411 a. C., ma l’establish-ment politico sul quale si riversano gli strali del poeta non è più quello dei demagoghi imperialisti, giacché quattro anni prima nelle acque di Siracusa è affondato una volta per tutte il disegno dell’imperialismo atenie-se: è piuttosto quello che conduce la guerra per inca-pacità di un’alternativa progettuale, come una stanca e fatale coazione a ripetere; a Lisistrata che insieme alle sue compagne ha occupato l’Acropoli con il tesoro dello stato, rivendicando la capacità delle donne di amministrarlo così come amministrano il bilancio di famiglia, il commissario (probulo) oppone soltanto, tau-tologicamente, che “non è la stessa cosa”, poi il dia-logo procede così:

LIS: Perché non è la stessa cosa?

COMM. Questo denaro serve per fare la guerra. LIS: Ma non c’è nessun bisogno di farla, la guerra. COMM: E come ci salveremo, allora? LIS: Vi salveremo noi. COMM. Voi? LIS. Noi, sì. COMM. Ridicolo! LIS. E ti salveremo anche se non vuoi. Alla desolata impotenza sul che fare si mescola

una concezione del monopolio maschile della politica anch’essa inerte, frutto di una tradizione intoccabile e mai messa alla prova: ma questo è il momento epocale in cui la satira di costume diventa satira politica, per-ché sul terreno della politica si affaccia la donna con tutta la forza e la coerenza progettuale che gli uomini hanno perduto, perdendo altresì, col discredito dei continui errori e défaillance, la legittimazione del loro potere. “La guerra è affare da uomini”, lo slogan cui affettuosamente e protettivamente Ettore tacitava An-dromaca nel sesto dell’Iliade, viene adesso ribaltato nello slogan simmetrico, “la guerra è affare da don-ne”, le vesti e gli attrezzi che simboleggiano la subal-ternità femminile vengono imposte a forza al medesi-mo Commissario.

La scena della Lisistrata è singolarmente felice per

il ritmo rapido e travolgente che fa coincidere quasi la denuncia dell’invalidità dell’establishment con la sua pronta esautorazione: ma nessuna delle aggressioni politiche di Aristofane si arresta alla fase diagnostica, tutte si realizzano in una prassi che l’ipoteca eudemo-nistica dalla quale siamo partiti destina alla vittoria, e la mostruosa difficoltà del compito, che si risolve in un’impari lotta fra l’individuo e lo stato, connota dei tratti dell’eroismo demiurgico onnipotente.

Così negli Acarnesi l’esasperazione suscitata dal-l’intangibilità del sistema politico che continua a girare (a vuoto) in perfetta indifferenza alle smentite e alla dimostrazione della sua perversità, induce il protago-nista a fare di persona con Sparta la pace che il go-verno del suo paese non farebbe mai; nella Pace un contadino attico, Trigeo, ricalca le orme dell’eroe Bel-

Sandro Lombardi, Leonardo Capuano, Ciro Masella, Gli Uccelli (foto di Marcello Norberth)

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lerofonte nel salire al cielo su una cavalcatura alata (ma la sua è uno scarabeo stercorario) per chiedere conto al dio supremo Zeus del suo governo del mon-do, infelicitato dall’inesauribile guerra, e ne torna do-po avere disseppellito e riportato alla luce la dea Pace; negli Uccelli, come ha detto un geniale studioso ameri-cano, Cedric Whitman, è un modo di dire banale, “an-dare ai corvi”, equivalente a un “andare al diavolo”, che costituisce la cellula creativa capace di trasformare il disgusto per Atene nella costruzione di una comu-nità e di una città alternativa; nel Pluto un altro conta-dino ostinato corona il suo progetto di ridare la vista a Pluto, il dio cieco della ricchezza, trasparente simbolo di una rinascita etica che premia gli onesti, tutto al-l’opposto della tendenza cinica che governa il mondo quotidiano.

E anche senza elementi favolistici, non è meno “miracolosa” l’impresa di Lisistrata, che non solo ha da scalzare, come abbiamo visto, lo zoccolo duro del potere maschile, ma per farlo dispone solo dell’arma del sesso, che richiede, nelle donne stesse che la utiliz-zano, un sovrumano controllo di istinti e desideri.

Più difficile, e aperta a risposte differenziate se non ambigue, è piuttosto la domanda se la distruzione mi-racolistica del vecchio sistema comporti un nuovo or-dine politico, o nessun ordine, una nuova organizza-zione della collettività o l’abolizione del patto sociale.

Solo una delle facce del problema è costituita dal luogo comune – come la maggior parte dei luoghi co-muni, profondamente radicato nella verità – secondo il quale la satira sociale è un compito negativo, esau-rito nella funzione destruens, e alle prese con difficoltà insuperabili quando si tratti di dedurne un modello positivo. In effetti, il finale delle Rane, l’unico momen-to di tutto il teatro di Aristofane in cui viene messa in scena la ricerca di buoni consigli e di buone politiche per salvare Atene nella sua più terribile emergenza, alla vigilia della sconfitta decisiva, non approda a nes-sun risultato. E anche altrove constatiamo che l’ideale di Aristofane appartiene alla volontà e non alla ragio-ne, è il passato mitico di Maratona, col suo equilibrio tra una politica interna imperniata sulla giustizia e il disinteresse proverbiale di un Aristide, e una politica estera abilissima nel mettere a frutto l’immagine reto-rica delle guerre persiane per conquistare la legittima-zione dell’impero. Anche la posizione più ardita, l’affi-damento del governo alle donne, è giustificata da una compensazione retrograda, patente nelle Donne al Par-lamento, dove si sostiene che solo le donne sono capaci di conservare il patrimonio dei valori acquisiti, mentre i maschi sono soggetti alla facile sirena dei cambia-menti.

Peraltro le fantasie costruttive sono attraversate da distonie e inquietudini: la città governata dalle donne, oltre gli interrogativi suscitati dalla legislazione in ma-teria sessuale, che abbiamo visto prima, subisce quelli generati dalla diffidenza sul fatto che i cittadini con-tribuiranno davvero a costituire la proprietà comune,

invece di limitarsi a sfruttarne i benefici evadendo il più possibile i doveri. Il mondo etico del Pluto, dove i ricchi coincidono con gli onesti, è soggetto all’ipoteca logica che è stata delineata da Penia (la povertà) nel-l’agone sostenuto col protagonista, e che è stata an-cora una volta non debellata razionalmente, ma re-spinta volontaristicamente: se l’onestà è premiata con la ricchezza, nessuno vorrà più essere disonesto, per-ché lo si era appunto – tranne qualche esempio di perversità ontologica e auto-referenziale quale era per Aristofane il delatore (“sicofante”) – al solo scopo di arricchire. Tutti onesti e tutti ricchi, verrà a mancare il fondamentale stimolo alla produzione che la Povertà rivendicava consistere in sé medesima, nell’aspirazio-ne a migliorare il proprio stato.

Quanto ai Cavalieri, là non è questione di dubbi o ombre sporadiche: il principio ispiratore della dram-maturgia, che il demagogo può essere rovesciato solo da uno peggiore di lui, permette di credere al risana-mento dello stato solo invertendo la progressione ne-gativa col prodigioso ringiovanimento del Popolo, che riacquista lo splendore di Maratona, e riprende pos-sesso della sua identità politica. Ma il prodigio è dato come credibile, e anche i tentativi di capovolgere nel nichilismo il messaggio delle altre commedie che ho appena citato sono stati tanto frequenti quanto falli-mentari, per la ragione fondamentale che proprio il nucleo narcisistico rimane in tutte compatto e con al-trettanta certezza comunica allo spettatore la propria irrefrenabile euforia. Essa non è strutturalmente di-versa da quella delle commedie ispirate a una con-cezione della socialità che è invece larga, affettuosa, commovente, diciamo almeno Pace e Lisistrata.

Nella Pace, la battaglia donchisciottesca di Trigeo e la sua ascesa al cielo segnano il momento in cui il bene si qualifica come singolarità scandalosa, ma solo come tappa intermedia verso la sua felice diffusione endemica. Lo sforzo per disseppellire la Pace, inteso, come fa sempre Aristofane, nella sua concretezza e carnalità, non è possibile se non a un gruppo – e que-sto compare da sé, senza bisogno di condividere la te-merarietà avventurosa di Trigeo. È la collettività pa-nellenica, che supera nell’occasione particolarismi e conflitti, e ha al suo centro come cuore pulsante la più ristretta comunità dei contadini attici. E collettivo è il godimento dei benefici, che esclude solo, confinandoli al contrario nella disperazione, i mercanti d’armi: ma la loro esclusione cementa anziché compromettere l’unità nazionale.

In Lisistrata, tanto è genialmente singolare l’inven-zione decisiva dello sciopero sessuale quanto di neces-sità collettivo il modo di attuarla: ma soprattutto è collettiva e istituzionale fin dall’inizio la prospettiva del disegno comico, che mira all’esaltazione della fa-miglia e suggerisce più volte il parallelo tra microco-smo e macrocosmo, tra famiglia e società.

Il limite decisivo cui è sottoposta la chance della po-sitività sociale esce allo scoperto nelle situazioni in cui

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il narcisismo del protagonista entra in collisione col benessere collettivo: in queste condizioni la scelta a suo favore è un dato strutturale della commedia ari-stofanesca, tanto univoco quanto può riuscire scon-certante al nostro moralismo.

Ripercorriamo da questo punto di vista il profilo del capolavoro, gli Uccelli.

Due Ateniesi decidono di abbandonare la patria per disgusto della sua situazione politica e di andare in cerca di un luogo tranquillo (apragmon, l’esatto oppo-sto della polypragmosyne, l’interventismo imperialista che ad Atene veniva rimproverato dai nemici): un luo-go dunque apolitico, sede di tutte le delizie narcisisti-che. Si convincono ben presto che a questo scopo non solo Atene, ma la comunità e la condizione uma-na debbono essere abbandonate per convertirsi a quelle degli uccelli, simbolo ovvio dell’aerea libertà.

Gli uccelli, viene loro detto, vivono senza la schia-

vitù del denaro e adottando un codice normativo che anticipa lo slogan del ’68, “vietato vietare”: tra loro non vale il rispetto dell’autorità patriarcale, né il pro-tocollo degli obblighi militari e civili che incombe su-gli uomini e sugli Ateniesi in particolare.

Ma l’ingresso nella comunità e nella condizione al-ternativa si rivela tutt’altro che semplice: per gli uccelli tutti gli uomini sono cacciatori, nemici atavici e sto-rici. La loro ostilità viene sanata quando uno dei due Ateniesi, Pistetero, che proprio in quel momento as-sume le funzioni definitive e incontrastate di leader, promette agli uccelli che sotto la sua guida riconqui-steranno l’impero del mondo che apparteneva loro nella remota antichità, e che è stato rubato e usurpato dagli dei. Come? Costruendo una città fortificata nel-l’aria, nella posizione strategica che controlla il pas-saggio dal mondo degli dei a quello degli uomini e sarà dunque in grado di affamare gli dei, che vivono alle spalle degli uomini, e imporre loro la resa.

Ma una piazzaforte non è un luogo apragmon; lo spostamento sorprende e sconcerta almeno quanto il sentir parlare un protagonista aristofanesco di guerra santa e necessaria, per quanto anomala sia questa guerra. Inoltre, sulla nuova comunità si accumulano

altri sintomi inquietanti: dell’altro Ateniese, Evelpide, all’inizio presentato su un piano di assoluta parità, non si sente più parlare; il solenne banchetto sacrificale in onore della città viene consumato in solitudine da Pi-stetero, licenziando di colpo il sacerdote-uccello che recitava l’elenco degli invitati; una serie di uomini che aspirano a ricevere le ali e integrarsi nella nuova co-munità, attratti dalle sue caratteristiche libertarie, ven-gono cacciati via, e contro di loro vengono riconfer-mati i dettami della morale tradizionale.

Quando infine si arriva alla trattativa con gli dei, essa concerne soltanto il potere supremo, vale a dire l’apoteosi del medesimo Pistetero, mentre agli uccelli torna ad essere assegnato il ruolo subalterno invete-rato, di ambasciatori ed esecutori della volontà divina. La guerra è vinta perché Pistetero convince la maggio-ranza dell’ambasceria divina inviatagli da Zeus, vale a dire un dio barbaro analfabeta (“il Triballo”) ed Era-cle, incorreggibile ghiottone che per un invito a pran-zo – non un piatto di lenticchie, ma, come già abbia-mo visto, un arrosto di uccelli-oppositori – tradisce la sua causa.

Chi pensa che la commedia sia un amaro atto d’ac-cusa contro il potere personale e contro la corruttibilità dei rivoluzionari (una specie di Animal Farm, con la situazione della quale i tratti comuni non mancano) si trova però di fronte ostacoli insormontabili: per dirne uno soltanto, il trionfo del Pistetero cannibale, irreli-gioso, immorale, è descritto in termini che si sovrap-pongono in tutto a quelli del pacifista e benefattore Trigeo della Pace, soprattutto per quanto concerne la ierogamia con Basileia (“Regina”), compagna di Zeus e icona vivente del potere universale.

La chiave della scelta obbligata tra l’io e la società discende dal fatto che negli Uccelli il benessere cosmi-co si presenta sotto l’aspetto di risorse limitate e divi-sibili, laddove nelle due commedie portatrici dei valori collettivi, Lisistrata e Pace, questo aspetto era ignorato. Qui si torna a considerare la presenza di altri esseri come una concorrenzialità e dunque un limite al pos-sesso del piacere assoluto, sviluppando il pensiero po-litico in una direzione che porta inevitabilmente a questa conclusione: una collettività bene organizzata è certo meglio di una collettività male organizzata; ma nessuna collettività è certo ancora meglio per l’indivi-duo, e se si suppone che l’individuo sia onnipotente, perché dovrebbe egli stesso porsi dei limiti, accettan-do quello che da grandioso progetto rivoluzionario viene declassato a male minore?

Ho detto “si torna a considerare” perché credo che gli Uccelli finiscano con l’illuminare a posteriori la non meno rivoluzionaria drammaturgia degli Acarnesi, dove il protagonista Diceopoli, dopo avere constatato lo sfacelo irreparabile dello stato ateniese, promuove-va a istituzione statale se stesso, facendo lui da solo la pace con Sparta, e godendone in implacabile solitudi-ne tutti i prevedibili benefici.

La domanda astratta “avrebbe potuto Diceopoli,

Gli Uccelli, regia di Federico Tiezzi (foto di Marcello Norberth)

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senza mutare le coordinate del quadro drammatico, porsi per obiettivo, anziché lo stato-persona, lo stato risanato e riformato?”, non può che avere risposta po-sitiva, dal momento che il corpo ideologico della com-media, l’agone, ci mostra appunto un Diceopoli che ha necessità e capacità di convincere il coro dei carbo-nai di Acarne, rappresentante istituzionale della comu-nità, che la scelta della pace è quella giusta. Riesce pri-ma a persuaderne una metà, mentre l’altra metà, non negando la validità delle sue tesi circa la responsabilità originaria della guerra, nega solo l’opportunità di di-vulgarle; poi convince anche la seconda metà con la dimostrazione dei privilegi ingiusti dei governanti.

Ma arrivare a condividere l’ideologia del vincitore non significa affatto essere ammessi a condividere i frutti della vittoria: anche da questi rimangono esclusi, coinvolti in un rifiuto dal quale si salva soltanto una donna che, prima di Lisistrata e Le donne al parlamento, rimane fuori dall’universo politico. La dimostrazione

dei torti di un preciso regime politico ha dunque spia-nato la strada al rifiuto di qualunque regime politico; o, se si preferisce, il moralismo ha ben lavorato a fa-vore del narcisismo assoluto. La cosa può assumere un aspetto ironico per chi tenga presente che l’accusa principe rivolta da Aristofane ai politici del suo tempo è di coltivare l’interesse privato ai danni del pubblico.

Che cosa dunque, a parità di prevaricazione, rende il demagogo spregevole e il protagonista ammirabile? A questa ingenua domanda si possono dare due rispo-ste: la prima, auto-referenziale se non proprio tauto-logica, è che il protagonista è l’io, e il demagogo l’al-tro, risposta che ha il pregio di chiarire come l’identi-ficazione teatrale sia una delle forme più complesse, ma anche più nette, del narcisismo; la seconda è di ordine quantitativo, intendo dire relativa all’ordine di grandezza, alla scala su cui si muove il protagonista: requisito della sua azione è il respiro cosmico che im-pegna problemi e risposte universalmente validi.

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Un esempio aristofanesco: Gli Acarnesi Umberto Albini

Nell’Abbazia di San Niccolò in Càsole risulta pre-

sente, nel XII secolo, un manoscritto di commedie aristofanee preso in prestito da un notaio. L’irruzione di materiale laico in un ambiente sacro testimonia la forza di attrazione del grande commediografo ateniese e la sua capacità di passare le barriere ideologiche gra-zie a un’arte ricca di invenzioni sceniche e verbali.

Esistono molteplici modi per avvicinarsi a questo Proteo del teatro. Prenderò a campione della sua scin-tillante magia comica la più antica delle commedie a noi pervenute, Gli Acarnesi.

Aristofane dirige le sue frecce contro bersagli col-lettivi, cominciando dagli Ateniesi riuniti in assemblea. In una sua splendida messinscena della commedia (Si-racusa 1996) Egisto Marcucci aveva raffigurato i de-putati come tanti neri corvi strepitanti e aggressivi.

In questo segmento il poeta sottolinea le gravi pec-

che dei cittadini (l’avarizia da un lato, la follia sper-peratrice dall’altro), pone ironicamente in discussione le iniziative diplomatiche e la tendenza prevaricatrice a sbarazzarsi dell’opposizione con metodi spicci, non-ché il ricorso a partner ansiosi di prebende non meno degli ambasciatori e nel contempo pusillanimi. Nel suo allestimento aristofanesco Viva la Pace (Genova 1988) Aldo Trionfo conferiva ai non eroici alleati di Atene le sembianze di grassi eunuchi muniti di un fal-lo enorme penzolante.

Note beffarde costellano anche l’incontro tra il pa-cifista Diceòpoli e i carbonai di Acarne, muniti di sas-si, carichi di rabbia e fautori della guerra. Ma Aristofa-ne, esperto di trucchi, era consapevole che il pubblico si diverte molto ad ascoltare diverbi e dispute spirito-se, e che però si diverte molto di più nel veder messi alla berlina individui di spicco che rappresentano posi-zioni progressiste o reazionarie. I due bersagli più si-gnificativi dei brillanti attacchi condotti da Aristofane restano Euripide, autore di drammi “cenciosi”, e il pi-

gnace generale Lamaco, atterrato non da un nemico ma da un malaugurato capitombolo.

Lo scherno è esteso anche, con effetto-sorpresa, a personaggi estranei allo svolgimento della trama, co-me il demagogo Cleone.

Tralascio tutte le altre vignette e trovate che con-trassegnano gli Acarnesi e squadernano i benefici di una sospensione delle ostilità.

Passando dal caso singolo al complesso dell’opera

si possono azzardare cautamente spunti interpretativi. Non si ricava, a mio parere, che Aristofane fosse solo uno scettico scanzonato, né che sbandierasse valori politici di qualche tipo. Forse aveva ragione Gennaro Perrotta quando lo definì «il poeta della gioia di vi-vere» (“Maia” 1952, pp. 28-29).

Alcuni indizi potrebbero rivelare una simpatia per gli Spartani e indurre a ritenere il commediografo un uomo di centro-destra, un cimoniano (in ogni caso, dalle sue commedie traspare una profonda conoscen-za del dialetto spartano, mai messo alla berlina).

Disegno di Francesco Giani, ispirato alla messa in scena di Egisto Marcucci de Gli Acarnesi

Disegno di Francesco Giani, ispirato a Gli Acarnesi

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Non-solo-narrazione. Appunti per uno studio sull’attore solista

Simone Soriani

La difficile situazione economica che il teatro ita-

liano sta attraversando da decenni ormai, per i conti-nui tagli ai finanziamenti pubblici ed anche per un’in-negabile penuria di spettatori, per di più attratti so-prattutto da produzioni di “consumo” come musical, cabaret e commedie brillanti con star e starlette prese a prestito dal piccolo o dal grande schermo, è una del-le principali cause – non certo l’unica – della diffusio-ne, sulle scene della ricerca, di spettacoli per attore so-lista di cui il “teatro di narrazione” è solo il fenomeno più vistoso e riconosciuto. La convenienza economica del one man show ha dunque favorito l’affermazione di un teatro “monologico” per lo più estraneo alla tradi-zione spettacolare italiana (almeno se si escludono i casi della serata d’onore dei mattatori otto-novecente-schi e del numero del comico di Varietà e d’avanspet-tacolo) ed invece profondamente radicato nella storia del teatro europeo, soprattutto anglosassone in cui, sulla scia dei bardi gaelici, la pratica dello storytelling af-fonda le proprie radici in alcune performance databili tra il XVIII e XIX secolo.

L’occasione per riflettere su questa contemporanea tendenza del teatro italiano, e per proporne una sorta di mappatura individuandone possibili costanti di ge-nere, mi è stata offerta dalla IX edizione del Festival Inequilibrio, diretto da Massimo Paganelli e tenutosi a Castiglioncello (LI) nello scorso mese di luglio, che – anche, e non a caso, per una dichiarata crisi finanziaria – ha ospitato un vario campionario di spettacoli per attore solista, in qualche modo connessi allo schema dell’attore che narra, eppure non del tutto coincidenti con esso. Definisco “narr-attore” (Paolini e Baliani, Celestini ed Enia) quel performer monologante il cui racconto – perlopiù detto in prima persona, senza la maschera del personaggio – evoca un insieme di vi-cende che, in un’opera drammatica, troverebbero e-spressione nelle azioni delle dramatis personae, incarnate nei diversi attori della compagnia, e nella dinamica delle battute che queste si scambiano sulla scena. Alla figura del narr-attore contrappongo tutta una serie di solisti che indicherei come “meta-narratori”: etichetta in grado di denotare, innanzitutto, quei performer che etimologicamente operano “al di là” del teatro del rac-conto, superando la pura evocazione narrativa con un ritrovato gusto per la “rappresentazione”. A questa categoria ascriverei la produzione di Oscar De Sum-ma che a Castiglioncello ha presentato Diario di provin-cia, monologo da lui scritto ed interpretato a partire

dal 1999: qui l’attore non demanda la trasmissione della vicenda soltanto al logos, ma ripristina alcuni ele-menti drammatici a cominciare dal principio di fin-zione, per cui il performer non agisce solo in nome della propria identità biografica, ma come un novello tra-sformista di Varietà si moltiplica in una teoria di mac-chiette comiche – individualizzate per mezzo di una istrionica progressione di maschere vocali, mimiche, posturali – che si raccontano e confessano alla ribalta. Non a caso nato dopo una serie di laboratori sulla Commedia dell’Arte, lo spettacolo di De Summa rifiu-ta l’immobilismo (logocentrico) di tanto narrare sce-nico e, anzi, recupera una consapevole e studiata sin-tassi fisico-corporea per cui i contenuti drammaturgici sono veicolati anche per mezzo di una gestualità tutta terzo-teatrista, cioè a dire stilizzata e sintetica come nel caso del cenno che allude al movimento a scorrere della macchina fotocopiatrice e che scandisce la suc-cessione in quadri della pièce.

In una cittadina del profondo sud pugliese le gior-

nate sono tutte uguali, monotone come fossero per l’appunto uscite da una fotocopiatrice, ma la ribellione all’asfissia quotidiana e il tentativo dell’Io narrante e dei suoi amici di emanciparsi dal conformismo paesa-no si scontra, tragicamente, con la realtà della malavita organizzata che impone le proprie regole con la vio-lenza dell’assassinio (riprodotta per mezzo di un im-provviso cambio luci – peraltro l’unico sensibile in uno show volutamente povero ed essenziale – che illu-mina di rosso sangue il performer inginocchiato nell’atto di piangere l’amico ucciso).

Dall’altra parte, l’etichetta “meta-narratore” per-mette di definire anche l’attività di quei solisti che as-sumono la funzione e il ruolo del narr-attore con in-tenti parodici e caricaturali, servendosi degli stilemi performativi e drammaturgici del teatro del racconto per ridicolizzare comicamente questi e quelli, allo stes-

Oscar De Summa, Diario di provincia (foto di Sonia Lombardi)

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so modo in cui la “meta-recitazione” di Ettore Petro-lini degradava le performance del “grand-attore” del contemporaneo teatro di prosa. È questo il caso di Daniele Timpano autore ed interprete di Dux in scato-la, racconto in prima persona della tragicomica epo-pea del cadavere di Mussolini, da Piazzale Loreto nel ’45 fino alla tumulazione nel camposanto di San Cas-siano di Predappio nel ’57.

Le peripezie del corpo morto del duce diventano

un espediente per ripercorrere una porzione della sto-ria italiana, dagli anni del consenso al regime alla libe-razione, dall’instaurazione della repubblica alla nascita del MSI e dei movimenti neofascisti, non senza un certo disorientamento ideologico – mascherato da una programmatica ambiguità – per cui la pietas nei con-fronti del cadavere del dittatore finisce inevitabilmen-te per riverberarsi sulla di lui figura storica, ed il bia-simevole scempio di piazzale Loreto per offuscare il mito della Resistenza partigiana (per di più il performer, levato il braccio in alto, confonde spesso e voluta-mente il gesto del pugno chiuso con il saluto romano, quasi a tradurre a livello performativo quella sostan-ziale, e provocatoria, indifferenza tra partigiani e fasci-sti su cui è concettualmente imperniato lo show). Du-rante il suo monologo Timpano esaspera alcuni ma-nierismi attoriali di certa narrazione, svelandone il ca-rattere di posticcio ed artificiale cliché: l’immobilismo esasperato, qui reso per mezzo della mano destra for-zatamente infilata nella tasca della giacca; l’eloquio ed il tono medio da conversazione extra-teatrale, qui al-luso per mezzo di una vocalità acidula e metallica; i gesti delle braccia e delle mani che si allargano ad in-dicare punti imprecisati nello spazio in cui il narr-at-tore finge di osservare “in tempo reale” quanto si ac-cinge a raccontare, qui riprodotti per mezzo di movi-menti meccanici e ripetitivi da comica muta (si pensi al gesto di battersi il petto, all’altezza del cuore, ogni

qualvolta viene nominata l’amata Claretta Petacci). Al-lo stesso modo, se nella gran parte degli spettacoli di affabulazione il narr-attore tende a presentarsi alla ri-balta con la propria identità non sostituita, Timpano sembra giocare sul diaframma tra personaggio finzio-nale ed Io biografico, di continuo slittando dal ruolo assolto nella finzione scenica alla propria individualità extra-drammaturgica e mischiando i ricordi ed il vis-suto di Mussolini con la propria esperienza personale (come quando cita uno slogan inneggiante al duce e di-chiara: «L’ho letto sotto casa mia, ma mia mia, di Da-niele Timpano»).

Se il narrare scenico è storicamente scaturito dalle sperimentazioni del “nuovo teatro”, da cui ha derivato il rifiuto di una concezione rappresentativa dello spet-tacolo e ha assimilato la dimensione laboratoriale e collettiva dell’elaborazione drammaturgica, allo sche-ma del solista che narra sembra avvicinarsi una pratica performativa popolare e pre-moderna come il “cun-to” della tradizione siciliana. Già allievo di Cuticchio, il cuntista Vincenzo Pirrotta ha presentato (a Inequili-brio) La fuga di Enea, in cui si narra delle avventure del-l’eroe troiano dalla partenza da Ilio, messa a ferro e fuoco dagli achei, fino all’abbandono di Didone alla volta del Lazio, per adempiere il proprio destino di fondatore della gens Iulia. La pièce di Pirrotta si snoda attraverso una successione di racconti, canti (non a ca-so l’attore è accompagnato in scena da una attrice-cantante e da un fisarmonicista) e cunti, in cui il perfor-mer – per mezzo di una vocalità energica fatta di grida, suoni nasali e sospiri esasperati – scandisce la sillaba-zione delle parole modificandone l’accentazione ed alterando così, con accelerazioni e decelerazioni im-provvise, il naturale ritmo dell’eloquio per puntare sui valori fonici della parola, in un indistinto (straniante e narcotizzante) flusso discorsivo. Nell’esposizione del racconto, coerentemente con le consuetudini sceniche dei cuntisti tradizionali, Pirrotta si serve di una poli-valente spada di legno che ora assolve alla propria funzione di arma, ad esempio durante la rievocazione della battaglia tra Ettore ed Achille; ora cadenza e rit-ma il tempo del cunto, in sincrono con i colpi che l’attore batte con i piedi sulle assi del palcoscenico; ora si trasforma in una bacchetta con cui il performer, secondo la tradizione dei contastorie popolari, indica al pubblico alcuni cartelloni dipinti, collocati sul fon-do della scena, che visualizzano graficamente i princi-pali snodi delle vicende narrate. Nelle intenzioni del-l’attautore la materia epica virgiliana – contaminata con elementi desunti dal folclore siciliano, quali ad e-sempio il tradizionale personaggio di Giufà: lo scioc-co-astuto che, nell’economia dello show, riesce infine a convincere Enea a lasciare Cartagine per salpare alla volta del Lazio – si carica di una forte tensione etica e civile, assurgendo a metafora universale delle odierne migrazioni: «Mi piaceva fare il paragone tra i profughi di una guerra antica – ha detto Pirrotta – e l’impres-sionante attualità dei profughi di oggi».

Daniele Timpano, Dux in scatola (foto di Sonia Lombardi)

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Al magistero del cuntista-puparo Cuticchio sembra rifarsi – ma in un’atmosfera postindustriale, direi quasi post-atomica – anche L’ultimo guerriero presentato da Massimo Schuster. La pièce ripercorre le tappe salienti della vita di Achille, rievocate dallo stesso eroe greco immaginato sotto le mura troiane, in punto di morte per la freccia avvelenata conficcata nel tallone, e raffi-gurato per mezzo di un burattino adagiato in prosce-nio. L’attore, a metà tra uno spiritato Mangiafuoco ed un bonario Geppetto, si muove all’interno di un box (sorta di robivecchi dell’animo, dove si sono accumu-lati i ricordi di un’intera vita), incarnando e dando vo-ce all’insorgenza memoriale dell’eroe morente: di lui riferisce i pensieri e racconta le gesta, inserendole in una scansione narrativa non lineare o cronologica ma sussultoria, attraverso la tecnica cinematografica del flashback. Talora Schuster raffigura queste stesse gesta manipolando i bellissimi burattini realizzati da Rober-to Abbiati, che materializzano vicende e personaggi della biografia di Achille (Agamennone, Patroclo, Et-tore, Priamo…). Proprio come Cuticchio, Schuster si inserisce all’interno del tradizionale codice del teatro di figura, però rinnovandolo con una sensibilità epica tutta “nuovoteatrista” (non è un caso che abbia a lun-go lavorato con il Bread and Puppet di Peter Schu-mann). Se infatti nella tradizione popolare il mario-nettista manovra i burattini, e presta loro la propria voce, agendo tuttavia fuoriscena; Schuster – come Cu-ticchio – non si nasconde al pubblico, anzi manipola le marionette “a vista”, moltiplicandosi in tutte le dra-matis personae della fabula, in una continua dialettica tra l’oggettivizzazione del personaggio nel burattino e la propria soggettività di affabulatore fisicamente pre-sente sul palco, ossia in un’alternanza sistematica tra narrazione in prima persona e drammatizzazione tra i vari personaggi-marionette della vicenda. Come nel caso dello show di Pirrotta, anche il monologo di Schu-ster tratta la materia classica con un forte intento poli-tico, al punto che il racconto si presenta come una sorta di apologo pacifista: lo stesso Achille, il più fe-roce dei guerrieri che pure nel ricordo del duello con Ettore non rinnega la propria natura ed il proprio ta-lento di assassino, riconosce e svela le ragioni econo-miche della guerra di Troia e, per estensione, pure dei conflitti attuali e presenti.

Alle figure del meta-narratore e del performer legato alla tradizione popolare, credo si possa affiancare an-che una terza tipologia di solista: quella dell’ “attore molteplice” che, senza mai ricorrere alla mediazione diegetica, interpreta da solo tutti i ruoli della pièce co-me nel caso dei rifacimenti shakespeariani presentati da Michele Sinisi (Amleto) e Gaetano Ventriglia (kitèm-mùrt). L’attore molteplice, pur per mezzo di una reci-tazione straniata ed anti-illusionistica e dunque senza mai trasfondersi integralmente nella dramatis persona, trapassa da un personaggio all’altro attraverso una ca-ratterizzazione allusiva, talora servendosi anche di ele-mentari oggetti di scena come marcatori connotativi:

la bottiglia dentro la quale parla il fantasma del padre di Amleto nel lavoro di Sinisi, la bacinella e la veletta da sposa con cui Ventriglia raffigura Ofelia. Nel caso di Amleto e kitèmmùrt sarebbe forse più opportuno parlare, non già di monologo in quanto diretta esposi-zione di una fabula ad un pubblico che agisce come e-splicito referente e potenziale interlocutore dell’happe-ning, quanto piuttosto di “soliloquio” in cui si mantie-ne quel diaframma che separa la scena dalla sala – la cosiddetta “quarta parete” – e il discorso dell’attore sembra presentarsi come un flusso di coscienza detto tra sé e sé. In particolare l’Amleto di Sinisi – ridotto ad un ridicolo paggio di corte, ad uno Yorick schizo-frenico e malinconico – ripete nella solitudine della propria stanza una tragedia, la sua, che si è già consu-mata: gli stessi personaggi della vicenda compaiono solo come assenze, raffigurate da una sequela di sedie vuote che, progressivamente adagiate a terra, finisco-no per simboleggiare le lapidi di un immaginario cimi-tero dell’anima.

Senza ignorare che entrambi gli spettacoli manten-

gono una certa dimensione metateatrale, per cui il lu-dus scenico costantemente si palesa in quanto tale. E forse, oltre gli innegabili fattori economici, il successo del teatro del solista risiede proprio in questa ricerca di un contatto non-mediato con la sala, nel rifiuto del-la finzione della drammatica tradizionale ed al con-tempo dell’autoreferenzialità – spesso intransitiva – delle avanguardie che, a Castiglioncello come altrove, mostrano ormai un volto invecchiato dalle rughe del tempo.

Michele Sinisi, Amleto (foto di Sonia Lombardi)

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La Roccia di T.S. Eliot a San Miniato Federica Antonelli, Alessandro Cei

I. Il testo Alessandro Cei

Thomas Stearns Eliot non esitò un solo istante,

quando il comitato della diocesi di Londra gli chiese di scrivere i cori, che avrebbero fatto parte del testo completo di La Roccia, opera che sarebbe dovuta an-dare in scena al Sadler’s Wells Theatre dal 28 maggio al 9 giugno del 1934, allo scopo di raccogliere fondi per la costruzione di 45 nuove chiese a Londra. Il po-eta decise, quindi, di inserire i propri “cori” all’interno di un’opera più ampia scritta da altri artisti e di attri-buirsi la paternità dell’intera pièce.

Ne risulta un testo complesso e difficile da mettere in scena, dove brani evocativi si alternano a dialoghi ispirati alla quotidianità; una quotidianità spicciola e banale, dove i temi, spesso di elevata importanza sto-rica e sociale, sono affrontati con toni ed argomenta-zioni poverissimi. La rivoluzione russa viene “demo-lita” con un dialoghetto molto leggero del quale mi sembra opportuno trascrivere almeno qualche brano. La conversazione si svolge tra gli operai che stanno lavorando alla costruzione di un nuova edificio eccle-siastico:

ALFRED: Guarda tutto quello che sta succedendo in Russia. Pensi che riusciranno a fare a meno della religione, Bert? ETHELBERT: Ah, se è per questo la desiderano tanto come chiunque altro; e l’hanno avuta in modo davvero peggiore. Se la gente non può avere la religione nel modo consueto e appropriato, l’avrà comunque in un altro, per esempio sotto forma di politica; e in questo modo finisce per cacciarsi in un pasticcio infernale [...]. E la religione politica è come il porto scipito: la chiami medicina, ma presto diventa solo un’abitudine.

Una sorte ancora peggiore è riservata alla figura

chiamata, così da non destar dubbi nei lettori, “Agi-tatore”. Costui rappresenta i sindacati, ma più in gene-rale tutti i movimenti, non solo marxisti, che si oppo-nevano al potere della chiesa. Questo personaggio in-carna tutti i peggiori stereotipi del socialista d’inizio secolo e viene denigrato, prima ancora che dai mura-tori, da colui che gli attribuisce le parole: l’autore, che Marco Respinti, curatore della nuova edizione di La Roccia per la casa editrice BvS, ci assicura non essere Eliot.

Negli intenti di chi commissionò questo lavoro a Eliot c’era l’idea di mettere in scena un testo che si ispirasse alle sacre rappresentazioni medioevali. Va detto che il poeta anglo-americano è certamente mol-to interessato a questa idea, che si avvicina ai suoi ten-tativi di creare un teatro in versi capace di opporsi al realismo del contemporaneo teatro di consumo. An-

che Assassinio nella cattedrale sarà un esperimento di questo tipo, ma i risultati saranno sicuramente mi-gliori. La Roccia precede di un anno quest’opera e, a differenza di essa, non si svolge per intero nel medio-evo.

Agli occhi della critica La Roccia parve troppo cle-ricale e contribuì a rafforzare la teoria di coloro che parlavano di un vero e proprio calo di tensione arti-stica, intervenuto dopo La landa desolata (1922). Questi critici individuavano tale momento facendolo coinci-dere con la conversione del poeta al cristianesimo, av-venuta nel 1927. Non a caso La Roccia è un opera in-trisa di riferimenti biblici: si tratta di un vero e proprio viaggio nella storia della cristianità; un ruolo fonda-mentale è affidato alla figura di San Pietro, che in al-cuni momenti coincide con la roccia stessa, e quindi con la pietra che l’apostolo pose per ordine di Gesù Cristo. I riferimenti religiosi non affondano le loro radici soltanto nella preistoria biblica, ma anche nella storia inglese. La pièce racconta la costruzione di una chiesa in particolare: l’abbazia di Westminster. Nar-rando le vicende dell’edificazione del tempio cristiano più importante di tutta la Gran Bretagna, si intende alludere alla storia della cristianità; come tramite ide-ologico e spirituale troviamo la figura di San Pietro, che precede il vescovo di Londra Mellito nella consa-crazione della chiesa che, infatti, porta il suo nome. Verità e leggenda, storia e memoria si intersecano, si incontrano creando momenti suggestivi e spazi per la riflessione a proposito di argomenti di grande valore morale e spirituale. Tuttavia, i continui riferimenti, spesso faziosi, alla situazione socio-politica di quel pe-riodo, rischiano di offuscare le molte pagine d’alto li-vello.

Non vogliamo avvicinarci a quei critici che accusa-rono questo testo di clericalismo, ponendo l’intera po-lemica sul piano religioso; in queste pagine, però, col-pisce una certa leggerezza nell’affrontare temi impor-tantissimi come la storia del movimento socialista, l’avvento del nazismo in Germania, oppure la condi-zione dei lavoratori e quella dei disoccupati. Eliot ri-solve tutto con un abile colpo di spugna che odora, se possibile, di restaurazione; così si conclude l’opera, è il vescovo di Londra a parlare: «Una chiesa per tutti e lavoro per ognuno, e il mondo di Dio per tutti noi fino a quando esso durerà».

II. La messa in scena Federica Antonelli

Nella suggestiva cornice della piazza del Duomo di

San Miniato si è svolta la LX Festa del Teatro, che ha

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visto portare in scena, col patrocinio dell’Istituto del Dramma Popolare, La Roccia di T.S. Eliot, autore in-glese spesso rappresentato su questo palcoscenico. La regia e la drammaturgia sono di Pino Manzari, un re-gista perfettamente consapevole della problematicità di mettere in scena un testo riguardante la storia del-l’anglicanesimo in Inghilterra, anche data l’evidente difficoltà di ricezione da parte del pubblico italiano. Ha deciso di mantenersi fedele allo spirito del testo, più che alla lettera, inserendo in esso alcuni richiami agli effetti devastanti della seconda guerra mondiale sulla città di San Miniato.

La particolare disposizione dell’apparato scenogra-fico risulta perfettamente calzante all’intenzione regi-stica: grazie ad un piano inclinato digradante verso la parete di fondo – per garantire al pubblico una mi-gliore visuale – sfrutta la scenografia “naturale” della facciata del Duomo, costruendo uno spazio non per l’azione, ma per la parola, come si addice alle generali caratteristiche del teatro eliottiano (basti pensare a Landa desolata o ad Assassinio nella cattedrale). Al di sotto di questo piano inclinato vi è una sorta di inner stage, una botola da cui entrano ed escono i vari personaggi, tra cui i sacerdoti all’inizio dello spettacolo, con l’in-tento di ricostruire l’edificio-chiesa distrutto dalla se-conda guerra mondiale.

Tutta la rappresentazione è dominata dal coro e

dalla figura di Pietro la Roccia: interpretato da Mas-simo Foschi, è una sorta di coscienza custode del-l’ortodossia e della rettitudine di azione e pensiero in materia religiosa e umana.

L’attore dà a questo personaggio un grande spes-sore: sfruttando la sua centralità nel testo, e grazie ad un’intonazione bassa e scandita, dimostra come la sua saggezza sia spesso un punto di riferimento per tutto il coro nei momenti di sconforto. Un gruppo, questo, composto da dodici individui, la cui peculiarità è quel-la di esprimere all’unisono i concetti riguardanti la dif-fusione della chiesa nel mondo.

Questa scelta espositiva deriva dal ruolo morale di cui il coro è investito: risulta insieme una predica e

una preghiera per gli uomini che hanno perso la fede nella Chiesa, intesa come istituzione religiosa e mo-rale. Alle orecchie del pubblico risuona come una can-tilena, il cui ritmo è scandito dal traslare l’accento sulle diverse sillabe del verso.

In alcuni momenti della rappresentazione il coro si divide in piccoli gruppi che, di nuovo all’unisono, si alternano in scambi veloci di battute, esprimendo opi-nioni contrastanti. Il regista, per accrescere la con-trapposizione tra coloro i quali vogliono ridare splen-dore all’istituzione chiesa e gli oppositori, sfrutta gli stereotipi del socialista, insieme operaio e ateo, e di al-cuni redenti in grado di convertire gli altri miscre-denti, dando così vita ad una tensione che sfocia nella scena corale finale: la conversione di tutti gli individui. Questa avviene attraverso l’unica azione concreta del-l’intera rappresentazione, fatta eccezione per quella iniziale dei sacerdoti che costruiscono, in modo al contempo simbolico e materiale, l’edificio-chiesa.

I personaggi del coro sono connotati dal costume: tipici abiti da operai o da donne del popolo, sporchi, strappati, ad indicare quella classe sociale cui – secon-do l’autore inglese – ci si doveva maggiormente rivol-gere.

Nella seconda parte del testo, si affrontano i temi riguardanti la “memoria dell’interiore distruzione” e il “difficile perdono”, che richiamano in scena il vissuto di una coppia di coniugi, Vivien e Thomas (rispetti-vamente interpretati da Maddalena Crippa e Massimo Foschi), che hanno perso la sacralità della vita e, in-sieme, del loro reciproco sentimento d’amore.

Questi due segmenti del testo si distaccano dai momenti del coro: sono a sé stanti dal punto di vista testuale ed anche scenico, infatti i due attori, soli in scena, aprono un dialogo ricercando una complicità che traspare a tratti. Vivien-Crippa è una donna pas-sionale ma troppo distante dal marito; da parte sua, Thomas-Foschi è freddo ed egoisticamente legato al proprio passato: entrambi riusciranno ad ottenere il reciproco perdono, punto d’approdo cristiano e uma-no. Sono due personaggi attuali, per gli eventi a cui si riferiscono (la seconda guerra mondiale) e per i loro costumi: abiti eleganti, naturalistici, ma meno tipizzan-ti di quelli del coro.

Ad accompagnare i momenti salienti della rappre-sentazione è unicamente il percussionista, alla destra del palco, illuminato da un controluce così da perce-pirne soltanto la sagoma: è un’impercettibile presenza, ma fondamentale nell’economia del dramma, perché ha il compito di porre gli accenti ritmici, in maniera particolare, sulle lunghe battute del coro.

La Roccia, regia di Pino Manzari (riproduzione della scena di Luca Bellofiore)

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Amleto a Pontedera Serena Gatti

Dopo la messa in scena di Aspettando Godot e dei

tre grandi romanzi, Oblomov, La Montagna Incantata, L’Idiota, la Compagnia Laboratorio di Pontedera de-butta con Amleto.

Quante volte siamo capaci di rimandare o di non compiere un’azione che cambierebbe la nostra vita? Di che tipo di azione ha bisogno la nostra vita per compiersi? Riflettere sull’azione è l’interrogativo che spinge il regista Roberto Bacci verso Amleto. Il suo te-atro, inteso come luogo di narrazione e di meditazio-ne, affronta ora – in un primo confronto con un’ope-ra di Shakespeare – il tema del dilatare e rimandare un’azione.

La scena, ideata da Marcio Medina, è caratterizzata

da una struttura poliedrica in ferro e legno, pesante e movibile, che funziona come un personaggio aggiun-to. Sviluppando lo spettacolo nello spazio e nei tempi dell’azione, questa macchina offre varietà di stimoli e immagini e spinge a una riflessione sulla materia. L’al-lestimento è definito, inoltre, dalla presenza di sei per-sonaggi neutri nelle vesti di schermitori, ad esprimere l’incarnazione fisica di leggi che conducono verso il compiersi di un destino.

L’elaborazione drammaturgica di Stefano Geraci si è avvalsa di varie traduzioni di cui una sola comple-tamente riconoscibile: il monologo “Essere o non Es-

sere” di Eugenio Montale. Il testo non integra altro materiale letterario se non quello proprio delle versio-ni dell’Amleto di Shakespeare e risulta in un atto unico.

Se il teatro è una trappola per catturare il senso,

così perfetta da rendere visibile l’invisibile, possiamo intendere Amleto come una zona sismica che genera interrogativi sul nostro ruolo, linguaggio e finzione. Auguro ai suoi spettatori di arricchirsi ancora una vol-ta di domande e stupore, di fronte a una storia ricca di strati sconosciuti e sorprendenti, come lo è la sostanza stessa dell’essere umano.

Antonio Lanera, Amleto (foto di Maurizio e Federico Buscarino)

Amleto, regia di Roberto Bacci (foto di Maurizio e Federico Buscarino)

Stefano Vercelli, Amleto(foto di Maurizio e Federico Buscarino)

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Festa di popolo nel carcere di Volterra Simone Soriani

Come ormai di consueto, all’interno del program-ma del Festival Volterrateatro – giunto quest’anno alla ventesima edizione – gli attori-detenuti della Compa-gnia della Fortezza, diretta da Armando Punzo, hanno presentato il loro ultimo lavoro, Budini, capretti, capponi e grassi signori ovvero la Scuola dei Buffoni. Come si è af-frettato a dichiarare lo stesso regista – prima di acco-gliere il pubblico nel cortile del carcere volterrano do-ve stava per essere inscenata la pièce – si tratta di un «primissimo studio», a partire dal Gargantua e Panta-gruele di Rabelais, cui è previsto un definitivo approdo spettacolare solo per il prossimo anno. La drammatur-gia, ad opera dello stesso Punzo, deriva dal capola-voro rabelaisiano un campionario di personaggi grot-teschi (giullari e buffoni, monaci catechisti e frati gau-denti), sulla successione dei cui “lazzi” e monologhi è imperniata la pièce, in un caleidoscopico bailamme di a-zioni molteplici e simultanee. Collocati in vari “luoghi deputati” disseminati nell’intero spazio teatrale, gli at-tori della compagnia si palleggiano il discorso scenico in un’alternanza di numeri e di assoli – di rado infram-mezzati a sporadiche azioni corali, come la danza dei frati festanti o la processione dei monaci penitenti – che si richiamano e susseguono per contrapposizione o corrispondenza. La strutturazione in quadri della piè-ce è cadenzata anche dai lazzi di un attante travestito da gallina che, aggirandosi in platea in mezzo agli spettatori, accompagna e ridicolizza le battute delle varie dramatis personae con il proprio starnazzante chiocciare. Dall’altra parte, dal Gargantua precipita nel-lo spettacolo una Weltanschauung carnevalesca per cui lo spazio/tempo della performance si connota come un regno di Cuccagna che, per contrasto, denuncia ed amplifica le ristrettezze morali e materiali della società contemporanea e, a maggior ragione, della condizione carceraria degli attori della compagnia. «L’opera del grande artista francese – ha scritto Punzo nel pro-gramma del festival – è interpretata come una sorta di auspicio verso un nuovo rinascimento in un’epoca di “cultura” medioevale». Ecco dunque, nella pièce, la ce-lebrazione di un principio di vita basso e materiale che si esprime soprattutto attraverso l’esaltazione del cibo e del sesso: coerentemente con l’immaginario grotte-sco medievale, per cui l’eros assolve una funzione libe-ratrice nei confronti delle costrizioni moral-compor-tamentali dell’etica dominante, gli attori esibiscono ed interagiscono con enormi organi sessuali come in una baccanica falloforia; ecco dunque la distribuzione in platea di cibi e vivande cucinate a vista da un mani-polo di performer travestiti da cuochi, ad alludere ai lu-culliani simposi dei festeggiamenti popolari tra medio-evo e rinascimento.

L’idea registica su cui si fonda il lavoro sembra

consistere proprio in questo tentativo di riprodurre nello spazio della mise en scène la gazzarra carnevalesca della festa di piazza: il sacro convive con il profano ed il frate contende al buffone l’attenzione e l’interesse del pubblico in sala, questi invitandolo alla lascivia e al divertimento, quello al pentimento ed alla contrizione quaresimale (nel medioevo per il frate ed il giullare, derivando entrambi la propria sussistenza dalla que-stua, conquistare la benevolenza dell’uditorio era una necessità). Come il carnevale non conosce separazio-ne tra attori e spettatori, così i performer della Fortezza agiscono in platea confusi con il pubblico, anzi intenti costantemente a coinvolgere l’audience per mezzo di oscene profferte sessuali («potremmo fare una peco-rina al forno») o provocazioni giullaresche, sulla scor-ta dell’insegnamento erasmiano per cui, paradossal-mente invertitosi il rapporto tra sanità e follia, il fool – come nel Re Lear shakespeariano – assurge infine a portavoce delle più profonde ed inconfessabili verità. Persino il palco, abdicata la propria consueta funzione di accogliere l’azione scenica, è ridotto a semplice po-dio ligneo, disadorno di qualsiasi scenografia, su cui agisce quasi esclusivamente un angelo – non a caso un personaggio trascendente, e pertanto estraneo al con-testo “carnale” della piazza festante – abbassato e de-sacralizzato per mezzo di un parodico lavacro dei maleodoranti piedi e di una blasfema fellatio. Sul pal-co-podio, sorta di incarnazione popolare delle tesi di Benjamin a proposito della scena epica, si consuma infine l’atto conclusivo della pièce: gli spettatori sono invitati a scagliare delle uova, precedentemente distri-buite in platea, contro un buffone collocato per l’ap-punto sulla ribalta – parodia dei roghi inquisitoriali medievali ed al contempo rituale di purificazione ed espulsione del male (nella tradizione carnevalesca era pratica diffusa quella di lanciare uova o altri alimenti come ad esempio le arance: si pensi al carnevale di Ivrea), liturgia propiziatoria per l’avvento di un nuovo mondo possibile ed augurio di un nuovo rinascimento carnevalesco dopo la quaresima medievale degli anni trascorsi.

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La Fortezza dei giullari satiri e dei frati buffoni Mariacristina Bertacca, Giulia Nasini, Maria Francesca Stancapiano

L’idea di Armando Punzo (regista e drammaturgo

della Compagnia della Fortezza) è quella di un teatro d’arte, che si spinga oltre la funzione sociale, che dia la possibilità ai suoi tanti attori di esprimersi coral-mente e comunicare attraverso uno strumento artisti-co; una possibilità a molti “operatori teatrali” negata a causa della crisi economica e culturale che sta affron-tando la scena italiana, nella quale imperversano mo-nologhi o spettacoli agiti da ben pochi interpreti. Il teatro di Punzo non è e non vuole essere pedagogico, ma si inserisce in un contesto (quello carcerario) che gli permette di avere a disposizione tempi molto lun-ghi e una compagnia numerosa (di formazione groto-wskiana, Punzo sente e segue la necessità di lavorare a lungo termine con uno stesso gruppo, che sia in grado di portare avanti un percorso di ricerca). Budini, capret-ti, capponi e grassi signori ovvero La Scuola dei Buffoni, lo spettacolo della Compagnia presentato nel variegato Festival Volterrateatro 2006 (nei giorni 24-27 luglio), è un primo studio sulla libera riscrittura del testo di François Rabelais, Gargantua e Pantagruel, contaminato con passi di Artaud. Il lavoro prende spunto dalla fa-mosa opera rabelaisiana, grandiosa per la sua moder-nità, per una satira senza risparmio che appunta i suoi strali contro ogni dogmatismo, ove l’autore rinasci-mentale ha voluto offrire una visione violenta e grot-tesca della vita. Stesso l’intento di Punzo, che osserva e muove i suoi burattini-buffoni, posizionati come statue intorno al pubblico: un burattinaio sui generis, in quanto concede loro la possibilità di parlare e agitarsi liberamente all’interno di quattro mura, esprimendo – in battute di un canovaccio – le loro fantasie, i loro stati d’animo, comicamente tristi, assetati di libertà, e rompendo la cosiddetta “quarta parete”. Lo spettaco-lo è di tutti: è l’attore che domanda, è lo spettatore che risponde.

Durante una serie di incontri nella Fortezza di Volterra, nell’ambito del Workshop “Teatro e carcere in Europa” (in data 31 marzo, 1-2 aprile 2006), è emerso che le produzioni della Compagnia sorgono spesso dal vissuto personale: «Le origini di uno spet-tacolo – afferma il regista – nascono sempre da una frustrazione. C’è bisogno di energia per andare in sce-na e chi ha un vissuto forte, ha anche più energia. Ogni lavoro parte da un tema, da un testo, da un’idea. Si hanno persone che lo possono sviluppare. Allora il gioco del teatro diventa provocazione e si comincia a metterci la propria vita». Questo primissimo studio sul Gargantua ha permesso a Punzo di portare avanti l’idea che una compagnia nata in carcere debba dimostrare, più delle altre, di avere diritto a lavorare, per non ri-manere letteralmente imprigionata nelle sue mura. L’attore-detenuto suscita curiosità, compassione, e-mozioni intense; per questo è altissimo il rischio che non gli venga riconosciuto il ruolo di attore-artista impegnato, ma solo quello del carcerato che svolge un’attività ricreativa: «A un certo punto, ci siamo resi conto che gli attori sarebbero rimasti sempre e co-munque detenuti, sempre e comunque sarebbero stati visti più attraverso la loro biografia e la loro storia e non per quello che erano capaci di fare. Tutto ciò lo vivevamo in maniera estremamente negativa: era un problema enorme» (così ha affermato il regista, du-rante un intervento tenuto a Bologna il 10 novembre 2004, e adesso in parte pubblicato su “Prove di Dram-maturgia”, 1/2005). Teatro in carcere come teatro di qualità dunque, non solo come salvifico o terapeutico, non solo come mezzo di svago, di rieducazione, o con un qualsiasi altro ruolo sociale, ma che miri a lavori artistici in grado di competere e superare le produ-zioni delle compagnie libere: «Nel carcere – ha sottoli-neato Punzo durante gli incontri di marzo-aprile – ci sono persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono mai andate a teatro, quindi non hanno sovrastrutture o condizionamenti di alcun genere». Ciò permette al regista napoletano di lavorare in un clima di assoluta spontaneità, privo di cliché e di una preparazione teatrale già formata e consolidata.

Ne La scuola dei buffoni – come in altri precedenti lavori della Fortezza – il rapporto tra gli attori ed il pubblico si rivela particolarmente interessante, inse-rendosi in una dimensione metateatrale e autoreferen-ziale che si dimostra preponderante per tutto il tempo della performance. Rivela infatti il diverso modo in cui gli attori si correlano con il sesso maschile e con quel-lo femminile, durante le loro improvvisazioni simu-late: gli uomini sono dileggiati dai buffoni e a loro si rivolgono battute scherzose, per certi versi provocato-rie («io sono buffone e ne sono consapevole, tu lo sei

Budini, capretti, capponi e grassi signori ovvero La Scuola dei Buffoni,regia di Armando Punzo (foto di Stefano Vaja)

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senza esserne consapevole»). Mentre l’interazione con le donne si inserisce in una sfera più sessuale ed ero-tica, mantenendo però un aspetto comico che eviti di sfociare nell’offensivo e nel volgare: il pubblico fem-minile è perlopiù coinvolto in lazzi ambigui, fatti di doppi sensi o di proposte esplicite con evidente al-lusione autoreferenziale all’astinenza dei carcerati. Al-lo stesso modo va considerata la preminente e con-tinua esaltazione del fallo, inteso come simbolo di vi-rilità: tutti gli attori indossano infatti un costume che presenta l’organo sessuale bene in evidenza e dalle di-mensioni spropositate. Gli stessi attori-detenuti cer-cano costantemente di mettere in mostra i propri at-tributi: c’è chi tenta di colpire col proprio sesso una spettatrice con cui improvvisa un giro di valzer, chi se ne serve per fustigarsi e, ancora, chi lo usa come mi-crofono per gli spettatori che vogliano esprimersi. Un attore, con in capo un’ambigua tiara papale, si dispone su uno dei podi di legno presenti sulla scena e, assu-mendo pose plastiche, mostra un fallo come fosse un trofeo; c’è poi la scena della tenzone tra due cavalieri in armatura “fallica” il cui copricapo è un enorme ses-so argenteo. Di un certo effetto è poi la violenta evira-zione di uno dei buffoni, in legame con la realtà car-ceraria: in carcere l’uomo subisce una sorta di castra-zione, a cominciare da quella sessuale, per poi prose-guire verso quella espressiva e mentale.

Sulla scia dell’idea artaudiana, secondo cui l’azione

delle dramatis personae dovrebbe articolarsi intorno al pubblico ed evolversi su tutti i piani e in tutte le pro-fondità, questo studio della Fortezza annulla la divi-sione palco-platea, altresì cerca di riempire e sfruttare ogni spazio. Mentre a turno i giullari recitano il loro monologo, gli altri attori non si fermano ad ascoltare il compagno protagonista del momento, ma movi-mentano la scena per attirare lo sguardo dei presenti: c’è chi si sposta tra un podio e l’altro, chi gira attorno al pubblico, e chi si alterna sul palco centrale, al punto che lo spettatore è quasi costretto, di volta in volta, a scegliersi un solo punto di vista, non potendo quindi assistere e seguire la performance nel suo insieme. Dopo essere riusciti a conquistare l’attenzione dell’audience, i

buffoni guardano con stupore e sorridono al pub-blico, ma solo per beffeggiare chi, per un attimo, è caduto nella trappola malinconica. «È stata solo una burla!», sembrano voler dire; e riprendono a recitare ciascuno la propria parte, raccontando aneddoti, o cercando di individuare una possibile preda tra gli spettatori, oramai del tutto coinvolti nel ludus scenico. Non c’è dialogo tra i personaggi: forte è il bisogno di raccontarsi, di esprimersi individualmente, di avere l’at-tenzione tutta per sé. Anche durante il seminario dello scorso marzo-aprile onnipresente era la voglia di dire ognuno la sua, senza necessariamente raccontare la propria vita; la voglia di esprimere un pensiero e un’i-dea; ma soprattutto la voglia di essere ascoltati e quin-di riconosciuti per quello che sono (uomini-attori-de-tenuti). E Punzo stesso – nel corso dell’intervento bo-lognese – ha dichiarato la sua ferma intenzione di la-vorare con attori che si rivolgano direttamente al pub-blico, di fronte al quale l’unica via di scampo è quella dell’autoironia.

In generale, la decisione di mostrare giullari-satiri grotteschi sulla scena nasce probabilmente dal legame che si può stabilire tra questi ed i carcerati, e si ricol-lega al modo in cui Punzo procede nei suoi allesti-menti: non disponendo di attori professionisti in gra-do di entrare nella parte, si serve di testi che presen-tino personaggi adatti ai suoi interpreti, dai corpi ta-tuati, pieni di cicatrici, sofferti e vissuti. Da qui deriva, ad esempio, la scelta dei personaggi loschi e furfanti dall’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, dei reietti ed emarginati da I negri di Jean Genet, dei pazzi rinchiusi in un manicomio dal Marat-Sade di Peter Weiss e, per questo nuovo lavoro, dei giullari ironici e dissacratori da Rabelais. Nel periodo medievale gli istrioni – pro-prio come i carcerati nella società contemporanea – erano considerati abietti e degradati, portatori di per-dizione e di sconvolgimento dell’anima (perché in gra-do di stravolgere l’immagine umana, attraverso una mimica facciale esasperata, capace di riprodurre le fat-tezze e le espressioni animalesche). Invece i buffoni di corte, cioè quei giullari che – per fortuna o abilità pro-fessionale – vivevano alle dipendenze delle autorità politiche o religiose, non rischiavano condanne o de-nunce ed erano liberi di dire anche la verità più atroce, perché considerati pazzi e quindi non creduti da nes-suno; a loro era permesso di affrontare la satira poli-tica e religiosa, il tema sessuale (con l’intento di esor-cizzare la repressione del periodo) e quello gastrono-mico. I giullari-carcerati della Fortezza tentano dun-que la via del ribaltamento carnevalesco: trattano an-ch’essi la satira religiosa, presentando frati scurrili e dai forti appetiti sessuali, che pronunciano battute am-bigue e ricche di doppi sensi, che rovesciano il signifi-cato della Confessione e i canti liturgici (i frati sfilano cantando «Allegria», anziché «Alleluja», e uno di loro sfrutta il suddetto Sacramento per abusare di una pec-catrice in cerca della remissione dei peccati); il tema sessuale è ricorrente, e quello gastronomico è affron-

La Scuola dei Buffoni (foto di Stefano Vaja)

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tato da attori-cuochi sulla scena che offrono al pub-blico cibi e vivande. Insomma ogni ruolo viene rove-sciato: lo spettatore è attore, non ci sono più confini tra chi agisce e chi osserva, i buffoni diventano saggi e scagliano perle di verità in faccia alle persone, mentre i frati diventano portatori di vizi e peccati quali l’amore per il cibo e per il sesso.

Così i personaggi fanno rotolare e rimbombare da una parte all’altra la domanda sulla legittima apparte-nenza della verità: chi può dire la verità? Chi ha la ve-rità? Forse i frati, annunciatori della giustezza divina, mentre si abbandonano ad un girotondo vorticoso, invitando il pubblico alla lussuria con battute a doppi sensi? O i buffoni che insultano ridendo lo spettatore, il quale non solo non si offende ma si fa una risata scrollando le spalle? Viene rimarcato un punto forse banale ma reale: chi è al margine, chi non ha un ruolo apparentemente riconosciuto, ha il diritto-dovere di dire la sua verità, ormai unica attività nella quale im-pegnarsi. Il problema è che, mancando un’ufficializza-zione sociale, le figure al margine non vengono ascol-tate e prese sul serio. Il teatro in carcere racchiude due creature e creazioni liminari, al confine: il detenuto e l’attore. Impellente è infatti il bisogno di «trovare un posto, un ruolo in questo mondo e in questa società» (come afferma Punzo nel programma del festival). La necessità di avere un riconoscimento è emersa anche parlando con gli attori che, presentandosi durante il Workshop di marzo-aprile, hanno espresso questa esi-genza, ovvero di far capire a coloro che li vanno a vedere che «noi siamo uguali a voi» e che «noi siamo l’anello mancante». Anche per questo motivo si ha un continuo intrecciarsi di spettatori-attori, che raggiunge l’apice con “il sacrificio del giullare”: questi ha il di-ritto di dire la verità, in quanto buffone, ma allo stesso tempo concede a chi lo ascolta il diritto di sacrificarlo ed ecco allora che si trova costretto come alla gogna, a prendersi uova in faccia (lanciategli dagli spettatori), senza potersi sottrarre a tale condanna. Spettacolo questo, dove la comicità raggiunge il suo livello più assoluto, dove la risata da dolce si tramuta in spinosa, per la sua satira contro la chiesa, fino a diventare ama-ra, nel momento in cui improvvisamente i detenuti-buffoni piangono e urlano: urla che non derivano più da un’opera di secoli fa – quale appunto il Gargantua –, ma sembra essere l’unico vero indumento che quei detenuti possono indossare, perché nessuno, neppure un secondino, potrà privarli di queste.

In un carcere la libertà è il desiderio più ambìto e il teatro rappresenta proprio questo spiraglio verso di essa. Nel teatro i carcerati – come hanno asserito in prima persona – cercano tutto quello che non hanno: un gruppo forte dietro al quale rifugiarsi, un gruppo che «serve a muoverti, ad esprimerti, perché ti senti protetto da esso»; la possibilità di rivelare emozioni e sentimenti, la libertà di urlare, perché «quando comin-ciamo a giocare qua dentro, si sente un bisogno forte di comunicare, di voler dire, e la volontà dilaga in ogni

spazio. Il teatro diventa luogo di evasione, di libertà, dove rifletti sulla vita veramente». Neppure la limita-tezza della stanza rossa, nella quale preparano gli spet-tacoli, impedisce loro di creare scenografie grandiose: «la limitatezza spaziale non limita l’immaginazione, la fantasia, tutt’altro, le dà spazio, le dà possibilità di e-mergere al massimo e di pensare in grande».

La ricerca di Punzo si dirige infatti verso un teatro

d’arte, la cui finalità non si esaurisca in una sola fun-zione sociale o di animazione, sebbene sia inevitabile la presenza di un effetto terapeutico per i carcerati, perché tale è la natura del teatro. E il regista stesso non nega la presenza di entrambi gli obiettivi: «A me non interessavano i detenuti in quanto tali – si legge su “Prove di Drammaturgia” –, io non sono entrato nel carcere di Volterra per motivi politici, sociali o ideologici. Il carcere l’ho semplicemente pensato, al-l’inizio, come un luogo in cui ci sono tante persone che, non avendo niente di meglio da fare, mi pote-vano forse seguire nell’avventura del teatro. Questo è importante capirlo, perché se no tutto il discorso si sposta verso la funzione sociale del teatro in carcere, che è uno degli aspetti del nostro lavoro, ma non quello che poi mi ha motivato all’inizio».

La Scuola dei Buffoni (foto di Stefano Vaja)

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La Fortezza Marc de’ Pasquali

In provincia di Pisa, attraverso l’affioramento delle

argille, il neolitico, l’acropoli etrusca, il municipio ro-mano, la sede vescovile, medioevale, comunale; nella pietra grigia, ben isolata, in salita, nacque Volterra... D’Annunzio vi ambientò il romanzo Forse che sì forse che no, Carlo Cassola la pose nei suoi libri, Luchino Vi-sconti la filmò in Vaghe stelle dell’orsa, Camille Corot la dipinse.

A ridosso delle sue mura, tra la voragine delle Bal-

ze e del vento sul dorso collinare, si erge la trecente-sca Fortezza, la prigione che Lorenzo il Magnifico re-se rinascimentale e che dopo i Guelfi, il matematico Lorenzini, lo scrittore Guerrazzi, custodisce un cento-sessanta sequestratori stupratori omicidi mafiosi.

Quindi, codesto penitenziario, l’Eliseo di Roma che ha riprodotto dei testi scritti dai carcerati, i call center della Telecom a Rebibbia e a San Vittore (Tronchetti Provera e Mastella all’inaugurazione), ci portano a non ignorare galere, deportazioni, deformità manicoma-niali, e perché no? L’indulto... Participio passato d’in-dulgere quanto neanche le varie leggi Cirielli Ciriani Pecorelli salva Previti o l’indultino del 2003 riusciro-no... Sinonimo di commutazione, di scambio (come il voto), anche per la sessantina di privilegiati che plau-dono gli USA dove invece li terrebbero ben dietro le sbarre, e per sempre svergognati... Manovra preven-tiva per avvantaggiare imputati eccellenti... Discono-scimento dei giudici che condannano i reati d’evasio-ne, di tangenti, di corruzione pubblico-amministrativa, di possesso fraudolento... Pontificazione con sgram-maticature, minacce, lodi, promesse. Risultato? La Bossi-Fini o la Giovanardi-Fini, per dire. Leggi niente affatto garantiste se si trattava d’usufruire dell’avvo-

cato d’ufficio, se fomentarono l’eccedenza nei due-cento carceri nazionali (il 40% occupati da tossici stra-nieri ladruncoli di catenine d’oro assai meno dannosi dei criminali industriali bancari dirigenti sindaci depu-tati). E al diavolo il coronamento di riforme strutturali sulla giustizia coeve all’indulto per cui le celle torne-ranno ristrabordanti (bastava una legge ordinaria, so-spendere le sanzioni minori); e al diavolo le pianifica-zioni per nuovi istituti (magari simili a quelli tedeschi diventati aziende agricole); e al diavolo la nobiltà della misericordia, laica virtù che induce comprensione e pietas verso chi sbaglia, verso chi non ha alternative e reitera il reato.

Lo Stato – cioè noi, dimenticoni rassegnati – do-vrebbe porre modelli, non scappatoie (obtorto collo). Lo Stato dovrebbe offrire opportunità, riscatto, rige-nerazione. Lo Stato dovrebbe contribuire a non cau-sare nuovi crimini, detenuti recidivi. Chi governa non è misura di tutto, non comanda, non rappresenta sol-tanto se stesso o gli alleati, non lede la dignità altrui. La politica è bene comune, intendimento, scienza. Tol-stoj che per l’appunto scrisse Resurrezione, insegna che nulla è più eloquente del carattere delle prigioni di una nazione.

Perciò la Casa di Reclusione di Volterra, gli ottanta agenti, la direzione di Maria Grazia Gianpiccolo che da vent’anni accordano alla “Compagnia della Fortez-za” (ideata dal regista Armando Punzo) d’organizzare spettacoli dentro e fuori, sono ammirevoli. Anche se – e va detto senza provare sensi di colpa – l’ultima recita cui abbiamo assistito fosse goffa, troppo libera-mente tratta da Rabelais, il monaco benedettino del ’500 che insegnava anatomia e adorava il vino, l’autore di Gargantua e Pantagruel, cioè di due giganti, padre e figlio, che creano deformazione, rovesciamento, in-certezza... Ma non importa. Gli attori reclusi tende-vano alla crudeltà di Artaud, al doppio, ai gesti che liquidano l’aristocrazia della parola. Alludevano al Dia-rio del ladro di Genet sepolto in Marocco, a Beckett che ad Alcatraz sperava in Godot. Gli attori reclusi inter-pretavano il rispecchiamento, la reciprocità, la cono-scenza. E la disperazione... Disperazione inconsape-vole, forse; disperazione agitata e incipriata nei loro corpi... Corpi violati e tatuati, corpi poco morali, si-mulatori di non paura nella costrizione di pietre grigie, ben isolate, in salita, nei fortilizi della terra.

Si ringrazia “La Gazzetta di Parma”, per aver gentilmente concesso la ripubblicazione dell’articolo La Fortezza di Marc de’ Pasquali del 14 ottobre 2006.

Volterra, Palazzo dei Priori (foto di Mariacristina Bertacca)

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Rodrigo García: a teatro nel giorno del giudizio Eva Costa

Rodrigo García, il regista quarantunenne argentino (spagnolo d’adozione), fa del teatro il suo nucleo di resistenza; un momento orgiastico, eccessivo, nause-ante, che schiaffeggia lo spettatore, bersaglio-vittima della performance, rendendolo complice o ignorandolo provocatoriamente.

Un tappeto d’erba verde che ricorda un campo da calcio, ma al posto dei giocatori, tante mele avvelenate che luccicano invitanti. Un corpo pitturato d’azzurro con unghie lunghissime, in bilico su un rigurgito di immagini impietose, proiettate sul fondo della scena: quel mostro ci parla di Borges. Borges+Goya, presen-tato in prima nazionale, porta però al Festival di Santar-cangelo un García placato: atipica infatti la scelta di una messa in scena quasi tradizionale, in cui prevale il par-lato, e in cui due attori, in due momenti diversi, si li-mitano a raccontarci una storia. Decisione del tutto casuale a quanto dichiara il regista, dovuta «alla forma di materializzazione in cui un’idea prende vita».

Queste due grandi figure intoccabili, lo scrittore-filosofo appunto e il grande pittore spagnolo, vengo-no poste fuori dal loro contesto, creando una discre-panza inquietante tra ciò che sono e ciò che rappre-sentano, come in un quadro di Magritte. Borges, seb-bene non si parli mai direttamente di lui né dei suoi scritti, è mostrato in tutta la sua cecità, ben diversa da quella che ci ricorda la letteratura, intesa qui come una totale mancanza di umanità. Goya invece, in senso de-cisamente meno critico, diventa colui le cui pitture ci fanno perdere il sonno.

Il testo è la fusione di due monologhi concepiti in due momenti ben distinti della vita del regista. Il pri-mo assume chiaramente i tratti di un’autobiografia ed è stato ripreso da un lavoro del ’99 in cui García de-scrive l’Argentina degli anni Settanta, durante la ditta-tura e il crollo economico, scenario degradato su cui scorre la sua adolescenza. La fame di cultura del gio-vane Rodrigo cresce intorno all’immagine patinata di Borges, poeta celebratissimo ma colpevole perché in-capace di utilizzare la propria posizione internazionale per denunciare quello che stava accadendo. Lo spetta-colo si configura quindi come un viaggio che parte dal racconto della creazione di un mito alla sua demoli-zione pezzo per pezzo, secondo un percorso sempre più ossessivo. «Parlare di Borges è stato soltanto un pretesto per raccontare l’Argentina di quegli anni», confessa García in conferenza-stampa, ma ciò non esclude evidentemente un’aspra critica al ruolo dell’in-tellettuale del nostro tempo.

Il tappeto verde dove cerca di rimanere in equili-brio “quel diavolo strano”, portavoce dell’autore, sarà il trait d’union con il secondo monologo. Infatti il nuo-vo personaggio, inizialmente nascosto e reso inumano dai panni della mascotte dell’Atletico Madrid, eviden-zia più che mai il legame con il mondo del calcio. Il testo, proveniente dalla video-istallazione Preferisco che mi tolga il sonno Goya, piuttosto che un figlio di puttana qual-siasi del 2004, ci mostra la tipizzazione di chi è consi-derato socialmente un fallito, attraverso il racconto del suo folle progetto. Ritirati dalla banca i miseri ri-sparmi di una vita (5.000 euro), quest’uomo decide as-sieme ai figli, di sei e di dieci anni, di scialarli tutti in una notte. La serata si concluderà però non a Disney-world, come i ragazzi vorrebbero, ma con una surrea-le corsa in taxi verso il Prado, in cui si vedrà coinvolto anche il filosofo Sloterdijk, affittato per l’occasione in quanto “filosofo alla moda”. Lo scopo di tutto que-sto? Entrare di nascosto nel museo e ammirare, da soli e in pace, la serie “negra” di Goya.

Un’avventura che assorbe in un ritmo nuovamente incalzante tutte le tristi ossessioni del nostro tempo, le paure e le angosce imposte da una società che detta freneticamente le sue regole, universalizzate da un profetico Topolino, «un ragazzo mal pagato che sgob-ba 12 ore al giorno carbonizzato sotto un costume di peluche». Il dialogo generazionale padre-figlio, su cui si concentra il testo, porta a galla la necessità politica dell’utopia, dell’idealismo nel quotidiano, che ormai non ha più niente da rischiare: una sorta di allontana-mento senza ritorno da quello stato di meraviglia, tan-to caro ad Aristotele.

Juan Loriente, Borges+Goya (foto di S. Dominguez)

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Con Borges+Goya García ci lancia l’ennesima pro-vocazione, alimentando quell’eterogeneità caotica che rende impossibile classificare i suoi spettacoli. Quel che è certo è che con lui, a teatro, si respira sempre una coerenza tematica di fondo, in cui si mescolano – come in un incubo ricorrente – la famiglia, il calcio, l’infanzia, McDonald’s, il sesso, Goya, Borges, i car-toni animati e tutti i grossi simboli della società occi-dentale, asfissiata dal proprio benessere.

Del resto il nome della compagnia, “Carnicería Te-atro” (Macelleria Teatro), riassume già le intenzioni di un autore, il cui problema – a detta di lui stesso – è di avere «troppe cose da dire». L’utilizzo così diretto e provocatorio dell’immagine resa nuda ed essenziale; il corpo dell’attore, che si trova in una continua meta-morfosi tra individuo e automa: con García ciò a cui si assiste ogni volta sulla scena è l’uccisione catartica dell’uomo contemporaneo. Un artista dunque, che ha ormai abituato il suo pubblico all’autopsia della nostra società dei consumi.

«Le mie creazioni sono per la gente come me: una minorità acculturata inoperante, patetica. Gente che ha soldi per comprare, che parla di arte e che non cor-re pericolo». Ecco allora la necessità sul palcoscenico di quelle figure senza volto che si attorcigliano per ter-ra scivolando, sporche e forse già inutili rifiuti. Op-pure il video in cui tre pagliacci, sosia inquietanti di Ronald McDonald, preparano un picnic nel parco, ma sul barbecue al posto della carne finiranno i libri che, come se niente fosse, verranno poi spalmati di mo-starda e divorati con gusto dai tre replicanti.

Queste sono solo alcune delle scene di La historia de Ronald, el payaso de McDonald’s, messinscena sicura-mente tra le più scioccanti dell’artista, presentata al-l’interno dell’ultima edizione del Volterrateatro. In mol-ti sono usciti dallo spettacolo storditi, a causa dell’ag-gressione continua di odori nauseabondi provenienti dal palcoscenico.

È stato piuttosto difficile raccogliere l’unità dram-maturgica e il senso completo di questa performance, au-tentica, poetica e politica ad un tempo. Alcuni degli attori, che usano i propri nomi, raccontano le loro

prime esperienze con McDonald’s, come se si trat-tasse di un gruppo di alcolisti anonimi che confessano i loro abusi con l’alcol. C’è musica e spesso c’è silenzio. Chi sta sul palco si può concedere tutto; qualcuno fa conoscere al pubblico la propria famiglia: due bambini e una moglie, ultimo ramo di un albero genealogico fatto di escrementi (fortunatamente di gomma), realizzato con cura sul pavimento.

È una violenza che non grida ma si racconta da sola, ironica, a tratti geniale, intrisa di un linguaggio quotidiano che non si libera mai della volgarità, ma a lungo forse un po’ ripetitiva. Niente a che fare col cri-ticatissimo Accidents: matar para comer, rifiutato da molti palcoscenici internazionali (ma non a Volterra), altro esempio di come l’arte di García sia espressivamente e diabolicamente molteplice. Il dispositivo scenico e drammaturgico di quest’opera è apparentemente sem-plice: un uomo dal fare circospetto, prende un grosso astice da una tinozza d’acqua, e dopo aver posto un microfono sul corpo del crostaceo, lo assicura ad un cavo che scende dal soffitto. Poi si accende un sigaro. Non avendo acqua, l’animale sente l’approssimarsi della propria morte; il suo battito cardiaco (o più pro-babilmente la riproduzione artificiale di esso!) rim-bomba con violenza, accelera ogni volta che l’uomo si avvicina. Sempre lo stesso uomo, di cui non sappiamo niente e da cui non trapela nessuna espressione, pren-de l’astice, lo dispone con estrema precisione su un ta-volo, e senza pietà, con una mannaia, spezza il suo corpo a metà. Con la stessa freddezza finisce di affet-tare l’animale, e infine lo getta a cuocere sulla piastra già calda. «What a wonderful World!» ci ricorda la can-zone che sentiamo di sottofondo, mentre il “nostro eroe” apre una bottiglia di vino e comincia a mangiare lentamente.

A questo punto gli spettatori abbandonano in fret-ta la sala. Forse si ha paura di una identificazione? Po-tremmo essere noi quell’astice incapace di difendersi davanti al proprio carnefice, il consumismo? Le parole di García che scorrono nella proiezione alla fine dello spettacolo purtroppo ci dicono: «Devi avere molta immaginazione – ed io non ne ho – per tremare da-vanti all’idea della morte, aprendo una scatoletta di polpette con piselli nella cucina di casa».

La historia de Ronald, el payaso de McDonald’s,regia di Rodrigo García (foto di S. Dominguez)

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Pier Paolo Pasolini: dal teatro di parola al teatro-immagine Maria Celeste Bellofiore

«La più grande attrazione di ognuno di noi è verso il Passato, perché è l’unica cosa che noi conosciamo ed amiamo veramente. Tanto che confondiamo con esso la vita». Queste sono le parole che Pasolini fa di-re a Pilade nella tragedia omonima e questo è anche l’assunto da cui partono due degli artisti del nostro pa-norama teatrale che, pur in modo differente, si sono avvicinati al poeta-regista: Ascanio Celestini e “Motus”.

In occasione del Festival di Santarcangelo, Villa Tor-lonia, a San Mauro Pascoli in provincia di Rimini, dedica una serata a Pier Paolo Pasolini. A dar voce ad alcune pagine delle sue opere è il narrattore Ascanio Celestini, che legge il racconto Mignotta, tratto dal ro-manzo Alì dagli occhi azzurri e la poesia inedita Poeta delle Ceneri, accompagnato dalle note di Nicola Pio-vani. Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini, scritto ed inter-pretato nel 1998 con Gaetano Ventriglia, è la sua pri-ma tappa verso lo scrittore friulano: «La storia di un padre romano e di un figlio foggiano che accettano la morte con la leggerezza di un sogno popolato di grilli e profumato di erbe selvatiche». Ascanio afferma di essere attratto dai romanzi come Ragazzi di Vita, Una vita violenta, insomma dal Pasolini popolare, che rac-conta della gente comune, che guarda con gli occhi del presente ad un passato che non c’è più, ma che è ancora vivido nella mente di chi lo ha vissuto. Cele-stini sfrutta questa lezione nel suo happening, mischian-do in un’ora passi pasoliniani con spezzoni dello spet-tacolo Scemo di guerra (2004).

Parte da una data precisa, il 4 giugno 1944, giorno a partire dal quale si snoda la vicenda storica del-l’ingresso degli americani a Roma mescolata ad aned-doti quotidiani. Così il bombardamento di San Lo-renzo o il rastrellamento del Quadraro si trasformano in una favola raccontata da Celestini che ricorda del padre, Nino, quando da bambino aveva rischiato di essere ucciso per aver provato a raccogliere una ci-polla. Il testo è costruito alternando gli episodi tra-mandati del padre a episodi ascoltati da altri. Dice a tal

proposito: «Io passo il tempo ad ascoltare la gente che chiacchiera, al di là del fatto che le storie siano vere. Poi con queste ci costruisco qualcosa».

Su un palco spoglio e illuminato da luci fioche, Ce-lestini fa il suo ingresso in abiti scuri, restituendoci un amaro pezzo di storia e rompendo fin da subito la quarta parete. Egli ricorda un avvenimento noto a tut-ti o quasi, quello cioè della seconda guerra mondiale. Insieme a lui, come ipnotizzati dalla sua arte affabu-latoria o solamente dal lungo pizzetto, avanziamo an-che noi tra le macerie della guerra, e lo facciamo os-servando, sentendo, respirandone quasi la polvere. Come Pasolini, il teatro di Celestini mira a dare al pubblico la possibilità di trasportare in visioni le pa-role e come dice lo stesso Ascanio «Il teatro è verità! Il luogo dove non vedi gli oggetti ma le immagini. Quello che succede sul palcoscenico, non la storia che racconto io».

Da un teatro di parola, dove le immagini sono frutto della fantasia dello spettatore che si lascia con-durre attraverso la storia, si passa ad un teatro dove l’immagine la fa da padrona. Il lavoro dei “Motus” – anche loro presenti al festival con la video-performance A place [That again] (un omaggio a Samuel Beckett) –, rispetto a quello di Celestini, scenograficamente par-lando, è più articolato e lascia maggiore spazio alla tecnologia. Dalle 18 lampadine da 15 watt appese a quattro pali di legno di Cicoria, si viene catapultati in un mondo ricco di immagini video proiettate su gran-di schermi calati sull’intera cornice scenica.

L’ibridazione tra voce e media, ha reso possibile la

convivenza tra immagine, silenzio, parola scritta, secondo gli assunti programmatici della poetica della compagnia. Del resto il teatro di Pasolini era molto legato alla parola; ma le sue forme di espressione sono varie, dal cinema alla poesia, dalla letteratura alla pittura. La drammaturga Daniela Niccolò (fondatrice, insieme ad Enrico Casagrande della compagnia), afferma: «Una delle grandi lezioni di Pasolini è stata proprio quella di dare dimostrazione di una possibilità

Ascanio Celestini (disegno di Luca Bellofiore) Motus, A place [That again]

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straordinaria di spaziare da un campo all'altro, di attraversare gli ambiti artistici».

Il viaggio verso Pasolini inizia per i “Motus” nel 2002, anno in cui mettono in scena Come un cane senza padrone, tratto dal romanzo Petrolio, per concludersi nel 2004 con L’Ospite, spettacolo che prende le mosse dal romanzo/film Teorema. Petrolio riassume tutte le espe-rienze di Pasolini. È uno sguardo sui problemi e av-venimenti che, negli anni Sessanta, hanno caratteriz-zato la vita italiana politica ed economico-sociale. Protagonista è un borghese ricco, colto; un ingegnere che si occupa di ricerche petrolifere. Il romanzo è, nei suoi temi perversi e sadici, una disamina sul potere cui Pasolini aggiunge uno spregiudicato eros omosessuale che diventa fonte di appagamento per il protagonista.

Un’esperienza simile è vissuta dal padre industriale in Teorema che si lascia possedere dall’Ospite. Il miste-rioso giovane, presentato come una figura angelica ve-nuta per dissacrare, distruggere i fragili equilibri dei nobili, è egli stesso un borghese, ma ciò che lo distin-gue è la sua capacità di donare amore senza compro-messi. È attraverso il corpo, suo unico mezzo di e-spressione, che trascina i personaggi in un vortice di desiderio. Intratterrà rapporti sessuali con ogni mem-bro della famiglia, ciascuno dei quali reagirà alla crisi mettendo in discussione il proprio ruolo sociale e fati-cando a ritornare alla vita normale. L’Ospite è l’ele-mento sacrale-distruttivo che si materializza in forme diverse anche in Porcile, San Paolo e Petrolio.

Celestini e “Motus” ricordano e recuperano questo Pasolini per dirigere lo sguardo sulla contemporaneità. Ma se a concludere la narrazione, in un momento di grande commozione, è la voce registrata del padre di Celestini, che lascia spazio, come in ogni suo spetta-colo, ad un’infantile risata; il viaggio dei “Motus” ha risvolti poco felici: Come un cane senza padrone termina con una morte violenta, unica via di salvezza, L’Ospite, invece, rimanda ad un grido finale capace di far crol-lare l’intera scenografia, «destinato a durare oltre ogni possibile fine» (M. Gervais). E proprio come un viag-gio è andare fra le parole di Pier Paolo Pasolini, tra le pagine, i personaggi ed i pensieri, che ancora oggi si prestano alle diverse letture teatrali.

Motus, L’Ospite (foto di Federica Giorgetti)

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Torvaldo e Dorliska Guido Paduano

Proseguendo in una politica culturale equilibrata,

ma tutt’altro che priva di coraggio, specie in tempi di preoccupanti difficoltà finanziarie, il ROF 2006 ha ri-proposto fra le altre opere, con la direzione di Victor Pablo Pérez e la regia di Mario Martone, Torvaldo e Dorliska, un testo che è eufemistico definire fuori re-pertorio, essendo del tutto sconosciuto fuori di una esecuzione radiofonica del 1977 e di una registrazione al vivo del 1992 a Lugano, diretta dal compianto Mas-simo De Bernart.

Ed è un capolavoro sconosciuto, un testo e uno spettacolo di rara intensità.

Scritta per il teatro Valle di Roma alla fine del 1815, l’opera suggerisce un motivo di interesse previo nella contiguità immediata col Barbiere di Siviglia, che ha anche lo stesso librettista, Cesare Sterbini. Conti-guità non sterile, e addirittura tangibile nel trattamento “accelerato” dei concertati, ma a differenza del Bar-biere il libretto è di estrema e quasi sommaria sempli-cità, per cui le indicazioni della trama, che è doveroso fornire da parte mia, potrebbero anche non andare molto al di là di quello che è lo schema fondante del-l’opera, secondo la fin troppo celebre schematizzazio-ne di George Bernard Shaw: una coppia di innamorati vede minacciata la propria felicità da un rivale poten-te, sul quale tuttavia ha alla fine la meglio attraverso l’esercizio indefettibile della virtù amorosa per eccel-lenza, la costanza. Quella di Dorliska, che rimasta sen-za lo sposo, ferito – ma tutti lo credono ucciso – dal duca suo rivale ripara a un castello che è quello del duca stesso, e una volta caduta nella trappola si di-fende irriducibilmente dalle avances; quella di Torvaldo che penetra a sua volta nel castello portando un falso messaggio in cui il presunto morto esorta la sposa a rassegnarsi e cedere al duca. Il messaggio dovrebbe dargli, e gli dà infatti, via libera a ristabilire il contatto con la sposa e a preparare l’evasione di entrambi: ma non appena il contatto è stabilito, Torvaldo si fa rico-noscere anche dallo stesso duca: un gesto in cui ve-drei, più che la tradizionale inefficienza del tenore, e più che il culto cavalleresco dell’autenticità, il primato delle urgenze emotive: ad esse la voce dei protagonisti (nell’occasione quella di Darina Takova, ormai conso-lidata come soprano istituzionale del ROF, e quella di Francesco Meli, che ha rappresentato invece per me una felicissima sorpresa) appare tutta consacrata, den-tro situazioni che si direbbero convenzionali, se inten-sità, nitore, profondità del linguaggio musicale non imponessero piuttosto termini come “primario” o “archetipico”.

Interesse specifico, cioè vero interesse drammati-co, riveste invece il ruolo dell’antagonista, signore di un feudo collocato «in una provincia del Nord del-

l’Europa», in realtà coincidente con uno spazio astrat-to, totalmente determinato dal reticolo dei rapporti di forza.

Uso il plurale perché la violenza sessuale ai danni di Dorliska non è nel duca che l’epifenomeno, secon-do un’associazione già canonica nell’antichità, di una “tirannia” feroce esercitata sui suoi sudditi: secondo la teleologia teatrale, anzi, essa è la goccia che fa traboc-care il vaso, creandogli un avversario che non a lui soltanto risulta imprevisto: il suo servo Giorgio (vo-calmente un buffo), che tramite una supplica al go-vernatore, e una fitte rete di relazioni sempre nell’am-biente subalterno, è autore di una sollevazione che ab-batte il potere costituito e risolve così la vicenda, na-scondendo sotto l’aspetto della jacquerie il valore so-stanziale di una forza pubblica in grado di reprimere la prevaricazione individuale. Come se Macbeth fosse ucciso, anziché in battaglia dal suo pari Macduff, dal portiere alla cui porta batte la metafisica denuncia del-la morte di Duncan: oppure, per restare sul terreno di analogie più precise, come se il Pizarro di Fidelio fosse esautorato dal buon Rocco anziché dall’onnisciente e autoreferenziale giustizia del sovrano. O forse meglio ancora, come se la guerra interclassista dichiarata dal Figaro di Beaumarchais – quello portato sulle scene musicali da Lorenzo da Ponte, non da Sterbini! – pas-sasse dalla scacchiera intellettuale, dove giocava un gioco in ultima analisi derivato dal servus callidus di Plauto, al più rischioso campo dei forconi e dei fucili.

Ma sul Duca occorre ancora dire che il suo spes-sore di personaggio trascende la demonizzazione qua-si automaticamente generata dal sistema delle opposi-zioni interpersonali, sia quella aulica dei protagonisti, sia quella grossolana di Giorgio: in particolare chi pre-stasse troppa fede a quest’ultima («il bestion del mio padrone»), che ha il vantaggio di essere incipitaria e fornire dunque allo spettatore l’orientamento basilare, resterebbe spiazzato dalla cavatina del Duca, che e-sprime in termini a loro volta aulici il pathos del desi-derio frustrato, rispetto al quale si rivela inutile il de-litto che crede di avere compiuto («Dunque invano i perigli e la morte»).

Sappiamo come sia tutt’altro che infrequente nel-l’opera la presenza di una solidarietà patetica verso l’a-mante non ricambiato proprio in quanto non ricam-biato: solidarietà che fa non da limite ma da contro-canto a quella istituzionalmente spettante ai protago-nisti, e nella sostanza rimanda alla dignità universale del dolore. Peculiare è invece il fatto che la sconfitta privata del duca si associ a quella pubblica e sociale, sopportata con cupa dignità («Per pietà, mi traete alla morte»), e che la mediazione fra le due sia costituita da un’autocoscienza morale tanto limpida quanto ino-

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perante: qualcosa di questa posizione fa davvero pen-sare a Macbeth, se non fosse che proprio la libido amorosa, assente in Macbeth, sorgente di energia e di infiniti autoinganni, porta il duca vicino all’illusione della felicità: «degli empi felici io son l’esempio» è la sua frase emblematica, sulla quale tutti i segnali delle convenzioni melodrammatiche aggettano l’ombra del ribaltamento, definendola nei termini dell’ironia tragi-ca.

Come che sia, parte essenziale della performance del-l’interprete di Pesaro, Michele Pertusi – a buon titolo acclamatissimo – risiede nel portamento nobile, cali-brato ed equilibrato fra le varie sfaccettature come contrastato e dialettico è il fascino che questa tipolo-gia di personaggio è destinata ad esercitare.

Con ciò peraltro siamo entrati nel vivo delle scelte

registiche di Mario Martone, perché il trattamento ri-spettoso dell’antagonista è solidale a una lettura strut-turale dell’opera in quanto “dramma semiserio”. Non c’è dubbio che in questo modo Torvaldo e Dorliska sia definito principalmente grazie alla presenza di Gior-gio, che peraltro non ha il semplice e usuale compito di alleggerire la tensione, ma addirittura quello di ri-solverlo; e Giorgio era qui recitato e cantato da Bruno Praticò, uno specialista del ruolo di valore assoluto e di verve illimitata. Pure, le valenze comiche sono raf-frenate da una coerente sobrietà, e nell’insieme si vie-ne indotti, assai più che al riso, a una compartecipa-zione sensibile e serena, appena venata dall’ironia.

Nel panorama teatrale contemporaneo, non si po-trebbe dare una scelta più risolutamente controcor-

rente: nella mia lunga esperienza di spettatore non mi sono mai imbattuto in una sottovalutazione della vis comica del testo, mentre spessissimo mi è capitato di assistere a una deriva che copre tutti i livelli stilistici e anche, se si vuole, qualitativi, dalle “dissacrazioni” che maestri osannati hanno perpetrato perfino sulla trage-dia greca alle attualizzazioni che per abitudine scardi-nano l’omogeneità dell’operetta viennese o parigina. In comune queste operazioni hanno un tacito pactum sceleris con la fascia più corriva del pubblico che si pre-sume (purtroppo non a torto) che trascinerà tutto il resto a gratificazioni estemporanee, e soprattutto de-vianti, se è vero che a venire offeso è anche e soprat-tutto il ruolo ermeneutico ed educativo del vero co-mico, vorrei dire: quello che è invece istituzionale a un genere storico.

Per dire il peggio (provvisorio) ricorderò un Turco in Italia dove al cast veniva aggiunta la comparsata di una servetta sciancata che si trascinava per la scena con esiti, appunto, esilaranti.

Peraltro mi sembra di capire che in questo Torvaldo e Dorliska l’attenuazione del riso non sia soltanto una questione di stile, ma discenda da una lettura propria della situazione, dalla domanda cioè perché si ride, e di che cosa. La risposta è che si ride essenzialmente della paura che Giorgio ha del terribile padrone e che crea il contrasto prima con la sua benevolenza nei confronti dei perseguitati, poi a maggior ragione con la sua progettualità rivoluzionaria. Si ride dunque di una debolezza condivisa dalla condizione umana, in quanto essa è in generale riscattabile dal principio di conservazione; in altri termini l’inferiorità che secon-do lo schema freudiano instaura la possibilità del riso è il prodotto della medesima violenza che produce l’aggressione sessuale e più in generale l’infrazione abitudinaria del patto sociale da parte del duca: le si apre dunque la prospettiva del riscatto generalizzato che tocca alle vittime, e che il riso ai suoi danni debba essere lieve e comprensivo è condizione necessaria a che il riscatto venga preso profondamente sul serio. Cosa che Martone non manca di fare, andando sem-mai vicino a una iper-drammatizzazione del finale, qua-le la testimonia la distesa dei corpi dei caduti dopo la battaglia.

Peraltro l’oltranza della deissi è esclusa per le ma-nifestazioni della violenza non meno che le gag poten-ziali: lo mostrano bene le due scene di avances, o di stupro simbolico, che occupano il centro di ciascuno degli atti, con una ripetitività funzionale alla tematica del desiderio ossessivo, più ancora che alla costanza che ne viene messa alla prova. In queste scene l’ecces-so è tutto “astratto”, sta nella messa in tensione dello spazio prossemico che si restringe gradualmente ai dan-ni di Dorliska, minacciando e limitando la sua libertà di movimento.

Anche qui siamo distantissimi da un malcostume corrente, ma già inveterato, che accentua la fattualità e l’oggettività dell’azione teatrale, fino a quello che chia-

Torvaldo e Dorliska(disegno di Annastella Giannelli)

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merei referenzialismo, e per cui sarà più comodo e spiccio fare un esempio, vecchio di trent’anni: nel Don Carlos scaligero di Ronconi non basta che Posa rac-conti a Filippo II gli orrori delle Fiandre; o meglio basta a Filippo ma non al pubblico, cui deve essere fornita la pezza d’appoggio di un filmato contestuale ed esplicativo. Simili strategie discendono dalla sfidu-cia nella tradizione del teatro, almeno di quello occi-dentale, che da sempre ripone la summa della sua concretezza in quella meravigliosa funzione corporea che è la parola: e s’intende che la parola cantata, chec-ché ne pensino sia i detrattori che i fanatici del bel canto, ha maggiore e non già minore forza rappresen-tativa.

Parola, in ogni caso, modellata dallo spazio scenico e modellatrice dello spazio scenico: proprio nella ge-stione di esso risiede la dimensione essenziale dello spettacolo di Martone.

Prima di tutto la scena si prolunga appropriandosi in qualche modo della platea che, regolarmente occu-pata dal pubblico, è però spesso attraversata – ma di-rei che la parola giusta è mobilitata – dalle incursioni degli oppositori del duca, significando in questo modo una richiesta di solidarietà e un’affermazione dei così compromessi valori sociali, e facendola come rifluire in scena.

Il palcoscenico è invece articolato dal grande can-cello che separa il castello del duca da un bosco dai colori favolistici ed enigmatici, matrice oscura di even-ti prevedibili sì, ma ambigui o almeno alternati nei sensi opposti della disforia e dell’euforia. La separa-zione degli ambienti è accentuata dall’uso insistito del-le chiavi che prefigura l’uso drammaturgico del tema nel secondo atto, quando però è questione delle chiavi della prigione in cui Torvaldo, dopo essersi fatto ri-conoscere è stato rinchiuso, e che Giorgio presta alla propria sorella Carlotta per favorire un incontro tra i due sposi: ma si trova poi in estremo imbarazzo quan-do il duca gliele chiede con l’intento di recarsi dal ri-vale per sbarazzarsi una buona volta di lui (ancora co-me accade nel Fidelio).

La prigione è ricavata in verticale nella striscia del proscenio, individuando un parallelepipedo cavo, illu-minato da perentorie luci bianche. Torvaldo ne fuo-riesce a mezzo busto, tranne muoversi in apparente e totale libertà per cantare l’aria «Dille che solo a lei», momento di chiaro significato metalinguistico, che e-sprime un omaggio alla tradizione.

Peraltro l’uso del proscenio come spazio funzio-nalmente distinto dal fondo scena – tra i due si apre la buca dell’orchestra – sortisce risultati ermeneutici an-che più importanti che non l’abolizione della quarta parete, e questo proprio in riferimento alla specificità del linguaggio musicale. È infatti l’orchestra, diretta con esemplare precisione e passione dal maestro Pé-rez, che gestisce le relazioni fra i personaggi collocati rispettivamente al di là e al di qua, come se si tra-sferisse la stereofonia delle voci alle forme visive, e al-

le costellazioni e alle opposizioni che esse esprimono. È esemplare al riguardo la resa dei conti che avvie-

ne nel secondo atto tra gli sposi, Giorgio e Carlotta (dal lato del pubblico), e dal lato opposto il duca che ha appena scoperto la loro alleanza ai suoi danni, e nei loro confronti celebra, seduto su una sedia che gli vie-ne portata allo scopo, una sorta di processo: è chiaro che le vittime riconoscono in qualche modo la sua au-torità, per quanto fondata soltanto sulla coercizione: Giorgio “trema come una foglia” e i due sposi svol-gono la reciproca e canonica gara di generosità per salvare il partner. Ma quest’affermazione dell’establish-ment è anche la testimonianza del suo definitivo tra-monto, giacché il processo viene interrotto dalla cam-pana a martello – decifrata nel suo significato dal solo Giorgio – che segna il punto di svolta e la massima di-varicazione tra i ritmi dell’azione: alla staticità solenne succede la massima agitazione e accelerazione, con la sommossa e la vittoria dei rivoltosi.

Ma indicativa, e più finemente simbolica dell’im-minente trapasso di civiltà era già stata, nel primo at-to, un’altra scena, quando Martone mette a consumare un pasto alla stessa tavola il duca, Giorgio e Torvaldo nelle vesti del falso boscaiolo. L’infrazione all’etichetta suona come preannuncio della crisi delle gerarchie, ma la comunanza di questi uomini è falsa non solo a motivo della falsa identità di Torvaldo (che solo per classe potrebbe solidarizzare col duca), ma soprattutto a motivo della divisione fra i loro progetti e desideri che la musica enfatizza con uno stilema ben noto: quello sotto cui identiche parole (in questo caso la fra-se «Ah, qual raggio di speranza») si nascondono vo-lontà incompatibili quanto lo è l’amore che il duca e Torvaldo portano alla stessa donna, mentre sotto quel-la stessa insegna verbale Giorgio sente dileguarsi la sua paura, e avvicinarsi un diverso modello di vita as-sociata. Ma solo con la forza, e non con una apparen-te unità degli opposti, esso potrà essere instaurato.

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Oltre la regia: firme d’attore Massimiliano Civica intervistato da Annastella Giannelli e Diego Passera

A Castiglioncello, nella splendida cornice naturali-stica dell’anfiteatro adiacente al Castello Pasquini – dove ogni anno è ospitato il Festival Inequilibrio – abbiamo incontrato Massimiliano Civica (in occasione della prima nazionale di Farsa, suo ultimo lavoro). Affermato regista del teatro contemporaneo, egli si contraddistingue per la particolarità dell’indagine con-dotta sull’attore, che diviene il centro gravitazionale attorno al quale prendono forma i suoi spettacoli. At-traverso la complessa analisi di quello che Civica de-finisce il “dato umano”, ha preso vita un’arte ben de-lineata che approda a risultati apparentemente diver-sissimi, ma riconducibili all’unica forte volontà di ren-dere chi è sul palco parte attiva del processo creativo.

Quale è stata la tua formazione? Io ho una formazione abbastanza saltellante ed

eterogenea. Ho fatto le prime esperienze all’interno del cosiddetto “Terzo teatro”, con un gruppo italiano che era abbastanza famoso ai tempi: il Teatro Potlach. Poi sono andato in Danimarca da Eugenio Barba (so-no stato un po’ di tempo lì a studiare l’antropologia teatrale, i principi pre-espressivi...). Successivamente sono entrato all’Accademia d’Arte Drammatica come regista e questo è un passaggio abbastanza non tradi-zionale: in genere succede il contrario, oppure non c’è proprio interscambio tra mondi così distanti. Al se-condo anno c’era per me una proposta di espulsione. Andrea Camilleri, a quei tempi insegnante di regia, si interessò alla situazione e trasformò questa decisione drastica in un provvedimento più leggero: un periodo di studi da passare fuori dall’Accademia. Cosicché ho

trascorso all’incirca un anno al Teatro della Tosse di Genova, uno stabile privato. Quei mesi sono stati mol-to divertenti, perché il lavoro era caratterizzato da una estrosità molto vivificante, ai confini della cialtroneria. Inoltre si trattava di un’esperienza diversa da quelle fatte con Barba e con l’Accademia. Queste tre situa-zioni completamente differenti – il Terzo Teatro, l’Ac-cademia di Arte Drammatica e un intelligente stabile privato – sono state le esperienze, antitetiche ma com-plementari, che mi hanno permesso di non essere troppo settorializzato: infatti non stravedo né per il teatro di ricerca, né per il teatro di tradizione, né per il teatro commerciale; ma in ciascuna di queste realtà vedo del buono e del cattivo. Per quanto riguarda la mia tecnica registica è importante sottolineare che io mi sono formato come attore, con la volontà di acqui-sire sul mio corpo una serie di esperienze che mi per-mettessero di comprendere meglio gli attori che di-rigo, e di essere più solidale con loro. Per conto mio però non ho mai pensato di recitare.

Il tuo lavoro si inserisce in una strada già codifi-cata o sei epigono di te stesso?

Nell’esigenza dello spazio vuoto e dell’attore come punto cardine della rappresentazione (nei miei spetta-coli tutto è sacrificato all’attore, non c’è niente che possa distogliere l’attenzione da lui: non c’è scena, in genere non ci sono musiche, non ci sono costumi, le luci sono fisse) potrei fare riferimento a Peter Brook, ma anche al teatro greco, medievale, elisabettiano: spa-zio e attore sono infatti da sempre l’ubi consistam, la specificità del teatro. Quindi, per rispondere alla do-manda: mi inserisco in una strada già aperta, semplice-mente perché mi interessano gli aspetti peculiari del-l’arte teatrale. Ci tengo a sottolineare però che acqui-sire quest’arte nei suoi elementi base non è semplice, perché hai a che fare con l’umano: per capire come re-golare un proiettore basta poco, ma per comprendere una persona e metterla in condizione di lavorare bene non basta una vita. È anche per questo che io tendo all’essenzialità.

Il tuo teatro sembra infatti procedere per sottra-zione: gli stessi attori sono ridotti a presenze qua-si metafisiche, che si concretizzano – paradossal-mente – attraverso l’elemento più astratto della rappresentazione, che è la voce.

Bisogna essere un po’ precisi. Dobbiamo distin-guere l’essenzialità dalla povertà di mezzi. Io non mi

Monica Piseddu, Aldo Ottobrino, La Parigina (foto di Alessandro Banducci)

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sento un regista povero di mezzi, mi sento un regista essenziale: l’essenzialità quando è ben usata è comun-que ricca. Nei miei spettacoli utilizzo solo i mezzi che mi servono e che sono adatti a dire la cosa che voglio dire. Non si tratta di minimalismo, ma di precisione: non c’è nulla di ridondante. Per esempio la “Raffaello Sanzio” – con tutto il suo immaginifico meccanismo teatrale, con tutte le sue macchine – è essenziale e po-vera allo stesso modo di come lo sono io, perché uti-lizza quello che le serve per dire una certa cosa. Se un giorno dovessi sentire la necessità di usare un raggio laser o un carro armato in scena per dire una cosa, lo utilizzerei e non per questo mi sentirei barocco. Però io sono anche convinto che per esprimersi al meglio non bisogna essere eccessivi, anzi occorre qualche li-mite: la libertà assoluta non è mai stata feconda per la creazione artistica, il limite acuisce la creatività.

In Grand Guignol questi limiti sono molto evi-denti, tanto che gli attori non possono appog-giare la propria parola né sull’espressività vocale, né su qualunque altro codice della rappresenta-zione…

È così, ma Grand Guignol, è solo un momento di una carriera. Se lo spettatore, invece di fermarsi ad os-servare il singolo momento, analizzasse l’intero per-corso di un regista, potrebbe notare la lentezza che serve al processo artistico. Quindi, al di là del risultato che ogni singolo spettacolo raggiunge, quello che io voglio è prima di tutto che in scena ci siano persone uniche. Normalmente sul palcoscenico avviene un mascheramento che rende gli attori intercambiabili, io invece cerco di avere individui irripetibili. Per esempio in Grand Guignol, se io cambio uno di quegli attori cambia completamente tutto lo spettacolo, perché lo-ro si portano appresso la propria voce, la propria for-mazione, il proprio vissuto. I miei attori stanno in sce-na per una cosa che non c’è, che è il personaggio; stanno in scena per una cosa che non esiste, che è la storia. Quindi la mia ricerca sull’attore è in un certo senso – con tutto l’orrore di questa parola – umanista: voglio avere in scena delle persone, degli autori. Ele-menti insostituibili dello spettacolo.

Hai dichiarato di scegliere prima gli attori con cui lavorare e poi il testo più adatto alle loro pe-culiarità…

Infatti. Io cerco le persone, poi i testi teatrali. Il te-sto teatrale non necessariamente va a coincidere con un gran testo letterario. I classici greci e Shakespeare sono due eccezioni, ma questa coincidenza non è in-dispensabile, perché il teatro non vive della letterarietà del testo, vive dell’attore. Per Grand Guignol, ad esem-pio, cercavo una cosa molto semplice: alcuni copioni, scritti bene, con i personaggi sufficientemente deline-ati e che non parlassero troppo. Io sono inorridito quando vado in libreria a leggere qualche testo con-temporaneo, dove i personaggi parlano con pagine e

pagine di monologhi: il testo – se c’è – deve essere so-lo uno strumento per avviare l’evento teatrale.

La forte componente evocativa del tuo teatro sem-brerebbe obbligare lo spettatore a non rimanere passivo, ma ad attivarsi e a saturare tutto il vuoto che è lasciato intorno alla voce degli attori, rico-struendo con la propria fantasia tutto ciò che è assenza. Quali sono gli obiettivi che ti poni, in qualità di regista, con questo tipo di lavoro?

Non ho obiettivi particolari. Uno fa spettacolo per fare spettacolo. C’è una sorta di tautologia in atto. L’unica risposta seria sarebbe: uno fa spettacolo per guadagnare soldi. Quindi c’è anche una faccia mera-mente commerciale nel teatro, che è stata sempre la sua forza. La professione, nel senso del guadagno, è anche una componente artistica fondamentale. Quindi uno spettacolo si fa perché è un mestiere. Di solito il regista non è altro che un fastidioso intermediario che presuppone di spiegare le cose al pubblico, ma io non ho questa presunzione: non faccio nient’altro che met-tere in scena storie. Do l’intreccio, do la fabula, niente di più. Se io mi preoccupassi di spiegare ad un attore com’è un personaggio attraverso la psicologia; ad uno spettatore che cosa vuol dire il testo (con le luci, con la musica… che sono tutte arti didascaliche), la por-tata dello spettacolo indubbiamente diminuirebbe. Inol-tre l’idea di un regista, per quanto geniale, è sempre un’idea. Poi, tolti i geni (e il punto di riferimento per un sistema produttivo non può essere il genio), quelli che rimangono sono gli artigiani, e l’artigiano non ri-tiene la sua piccola idea prioritaria rispetto a quella de-gli altri: sceglie piuttosto di lavorare in una situazione di gruppo in cui vi è una strutturazione di funzioni che rende più agevole l’organizzazione, ma nell’am-bito creativo il regista è importante quanto i suoi atto-ri. In questo senso io sono un artigiano e racconto storie, senza mostrare qual è la mia opinione o il mio sguardo su di esse.

«Fare spettacolo per guadagnare soldi». In realtà, però, le tue scelte artistiche non sembrano guida-te da un intento così tanto commerciale…

Uno deve essere in grado di fare esattamente ciò che gli piace e trasformarlo in qualcosa di commer-ciale. Questa è la battaglia. Quanto a me, se qualche anno fa avessi accettato determinati compromessi ades-so farei spettacoli per qualche stabile. Il punto è essere così intelligenti da dire: «Io adesso faccio quello che mi pare e trovo il modo affinché la mia opera par-ticolarissima diventi anche commerciale». Questa cosa è possibile, ma è chiaro che si tratta di un percorso lungo… si parla di anni, non di giorni.

Con il tuo ultimo spettacolo Farsa, presentato in prima nazionale al Festival Inequilibrio 2006 di Castiglioncello, sembra che tu ti sia allontanato molto dagli altri spettacoli. Come si inserisce

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questo lavoro nel tuo cammino registico? Farsa secondo me è esattamente uguale agli altri

spettacoli. C’è una componente che il mondo accade-mico e i critici non concepiscono mai: il fatto che io lavoro con le persone. Non mi stancherò mai di dirlo: gli esseri umani non sono un proiettore che un giorno ha una luce sbagliata e il giorno dopo la metti a posto. Ognuno ha un vissuto, e una personalità che richiede tempo per instaurare un feeling con la scena. Se Farsa lo rivedi dopo alcune repliche (con i vari aggiustamen-ti; dopo che gli attori trovano la calma per manifestare al meglio le proprie potenzialità) ti accorgi che non differisce ad esempio da Grand Guignol. Perché allora sembra diverso? Perché la forma è diversa: in quello gli attori si muovono, in questo stanno fermi. Ma la forma è uno strumento, non un fine. Ogni tecnica serve per poter dire qualcosa nella maniera più pre-cisa.

A me non importa nulla in realtà della fissità del-

l’attore: in Grand Guignol ad esempio è un’esca per rag-giungere un determinato risultato. Farsa diventerà uno spettacolo che dice su per giù la stessa cosa degli altri; per capirlo ci vuole solo pazienza perché si lavora con esseri umani, di cui è necessario rispettare il carattere e il bisogno di adattarsi a una nuova situazione. Non si possono imporre le cose, bisogna far nascere una collaborazione, una tranquillità, che fioriscono col tem-po. Per me sarà fastidioso sentirmi dire dai critici in questi giorni: «Farsa non aveva la precisione di Grand Guignol». Le persone coinvolte sono diverse; arrivere-mo alla purezza attraverso un’altra via. Qui lo spetta-tore vede sul palco due esseri umani: mai c’è il perso-naggio, come mai c’era il personaggio in Grand Gui-gnol.

Come hai lavorato per Andromaca, che è un testo della tradizione letteraria alta, e quindi più com-plesso da modificare per plasmarlo sugli attori?

Molto semplicemente: la tragedia greca ha una componente epica fortissima, i personaggi stanno là

per raccontare qualcosa. Io avevo incontrato Andrea Cosentino, che è un raccontatore eccellente, una per-sona capace di creare tipi umani, macchiette. Un nar-ratore nel senso più profondo del termine. Mi sono chiesto: con questa persona che cosa ci faccio? Andro-maca. Cioè una tragedia con un solo attore che fa tutti i personaggi (poi riscritta o re-inventata da me in al-cune parti). Quindi il lavoro è sempre quello: si parte dal dato umano, dalle capacità del singolo attore, dalle sue abilità, dalle sue competenze, e poi quest’attore in qualche modo chiama il testo. Andrea, che è un gran-de attore tout court, non ha però per vocazione la ten-denza ad interpretare personaggi. Probabilmente non gli si potrebbe chiedere di recitare Amleto, perché non se la sentirebbe di incarnarlo: ha sempre una specie di distanza sardonica nei confronti del personaggio. An-dromaca era la situazione ideale per far sì che lui po-tesse raccontare tutti i personaggi e utilizzare al me-glio le sue capacità. Mirko Feliziani, uno degli attori di Grand Guignol, ha anche la capacità di fare il narratore, però per vocazione è mimetico. Se dovessi fare un Amleto lui quindi sarebbe l’attore ideale. Insomma, in ogni occasione si parte sempre dalla conoscenza del dato umano.

Andrea Cambi, Bobo Rondelli, Farsa (foto di Alessandro Banducci)

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