Atti & Sipari numero 3

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Direttore Responsabile Maurizio Alfonso Iacono Direttori Concetta D’Angeli, Maurizio Alfonso Iacono, Guido Paduano Caporedattore Simone Soriani Segretaria di Redazione Anita Simon Responsabile organizzativo Mariacristina Bertacca Comitato di Redazione Associazione A&S, Federica Antonelli, Celeste Bellofiore, Mariagrazia Bertino, Francesco Ceglia, Eva Costa, Serena Di Sanzo, Alessandra Donati, Giulia Filacanapa, Annastella Giannelli, Giulia Nasini, Maria Bianca Nicolai, Alessandro Orsi, Diego Passera, Elisa Pezzini, Maria Francesca Stancapiano, Chiara Tarfano, Alice Tavilla Grafica e impaginazione Mariacristina Bertacca, Annastella Giannelli, Alessandro Orsi, Chiara Tarfano Illustratore Klaus Lucas Si ringraziano: Alessia Contu e Silvia Lelli, Enrico Fedrigoli e il “Teatro delle Albe”, Laura Curino, Samuele Pellecchia/Prospekt e Lella Costa, Rolando Paolo Guerzoni e il “Teatro della Valdoca”, Carlo Riccardi e Laila Ripoll, Isolde Ohlbaum e Gerlind Reinshagen, Annamaria Benedetto e la “Città del Teatro”, Massimo Schuster e “EmmeA’ Teatro”, Andrea Chesi, Noemi Brunelli e Armunia, “Pepita Promoters” e Carte Blanche, Giovanni Mocchi e “Cas’Arsa Teatro”, Maurizio Buscarino, Guia Sambonet, Mirella Calderone e “Teatro Minimo”, che ci hanno concesso l’uso delle loro foto. Contatti Atti&Sipari: [email protected] A&S: [email protected] www.attiesipari.altervista.org (Web master Federica Antonelli) ISSN 1973-5472 Reg. Tribunale di Pisa n. 44/07 del 21/12/2007 La rivista è stata stampata grazie al sostegno di: Banca del Monte di Lucca, Blue Box Studio (Livorno), Borgo Paola (Roma), Fondazione Teatro Goldoni (Livorno), La Città del Teatro (Cascina), Libreria Belforte (Livorno), Spazio NU (Pontedera) Edizioni PLUS - Pisa University Press Lungarno Pacinotti, 443 56126 Pisa Tel 050 2212056 - Fax 050 2212945 [email protected] www.edizioniplus.it MEMBER OF Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o com- merciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org Abbonamento annuo alla rivista “Atti&Sipari” € 9,00 (uscita semestrale: aprile e ottobre) Pagamento tramite versamento su: c/c postale numero 84665579 intestato a “A&S”, con causale “Abbonamento Atti&Sipari” Con pagamento dal 01/11/2008 al 30/04/2009 riceverete i nn. 4 e 5; dal 01/05/2009 al 31/10/2009 riceverete i nn. 5 e 6 La parola agli artisti 2 Ermanna Montanari intervistata da Gerardo Guccini Antologia personale Sotto la lente Drammaturghe in Europa 8 Claudia Bellana, Concetta D’Angeli La “mancanza” delle drammaturghe italiane 14 Mari Carmen Llerena Le drammaturghe spagnole e il loro spazio 18 Antonietta Sanna Voci femminili sulla scena francese 20 Alicia Tycer Risonanze femministe nel teatro britannico contemporaneo 21 Marianne Hepp Drammaturghe tedesche: un teatro di denuncia Scene dal territorio In Italia e nel mondo Teatro e... Profili Conversando 24 Federica Antonelli, Celeste Bellofiore, Eva Costa, Melanie Gliozzi Speciale “Frontiere in Metamorfosi” 2008. Città del Teatro - Cascina 30 Celeste Bellofiore, Alessandra Donati, Annastella Giannelli, Maria Bianca Nicolai Speciale “Inequilibrio” 2008 34 Maria Francesca Stancapiano Cluchey e la Fortezza: gli ultimi due nastri di Krapp 36 Francesco Petrocchi La Salomè di Oscar Wilde: una tragedia postmoderna 38 Elisa Pezzini La scuola di Jacques Lecoq: il “vero” poetico DISAGIO 40 Francesco Ceglia, Giulia Nasini Quando si porta in scena la “diversità”. Attraverso le esperienze toscane di “teatro e disagio” FOTOGRAFIA 42 Maurizio Buscarino intervistato da Alessandra Donati Ombre su lamine d ’argento 44 Concetta D’Angeli Teatro talento tenacia... Mario Mieli 46 Michele Sinisi e Michele Santeramo intervistati da Mariagrazia Bertino (con un intervento di Simona Gonella) Dialogo “minimo” Chiuso in Redazione nel settembre 2008 In copertina due foto di Mario Mieli

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Direttore ResponsabileMaurizio Alfonso Iacono

DirettoriConcetta D’Angeli, Maurizio Alfonso Iacono, Guido Paduano

CaporedattoreSimone Soriani

Segretaria di RedazioneAnita Simon

Responsabile organizzativoMariacristina Bertacca

Comitato di RedazioneAssociazione A&S, Federica Antonelli, Celeste Bellofiore, Mariagrazia Bertino, Francesco Ceglia, Eva Costa, Serena Di Sanzo, Alessandra Donati, Giulia Filacanapa, Annastella Giannelli, Giulia Nasini, Maria Bianca Nicolai, Alessandro Orsi, Diego Passera, Elisa Pezzini, Maria Francesca Stancapiano, Chiara Tarfano, Alice Tavilla

Grafica e impaginazioneMariacristina Bertacca, Annastella Giannelli, Alessandro Orsi, Chiara Tarfano

IllustratoreKlaus Lucas

Si ringraziano: Alessia Contu e Silvia Lelli, Enrico Fedrigoli e il “Teatro delle Albe”, Laura Curino, Samuele Pellecchia/Prospekt e Lella Costa, Rolando Paolo Guerzoni e il “Teatro della Valdoca”, Carlo Riccardi e Laila Ripoll, Isolde Ohlbaum e Gerlind Reinshagen, Annamaria Benedetto e la “Città del Teatro”, Massimo Schuster e “EmmeA’ Teatro”, Andrea Chesi, Noemi Brunelli e Armunia, “Pepita Promoters” e Carte Blanche, Giovanni Mocchi e “Cas’Arsa Teatro”, Maurizio Buscarino, Guia Sambonet, Mirella Calderone e “Teatro Minimo”, che ci hanno concesso l’uso delle loro foto.

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Indice

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2 Ermanna Montanari intervistata da Gerardo Guccini Antologia personale

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8 Claudia Bellana, Concetta D’Angeli La “mancanza” delle drammaturghe italiane14 Mari Carmen Llerena Le drammaturghe spagnole e il loro spazio18 Antonietta Sanna Voci femminili sulla scena francese20 Alicia Tycer Risonanze femministe nel teatro britannico contemporaneo21 Marianne Hepp Drammaturghe tedesche: un teatro di denuncia

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24 Federica Antonelli, Celeste Bellofiore, Eva Costa, Melanie Gliozzi Speciale “Frontiere in Metamorfosi” 2008. Città del Teatro - Cascina30 Celeste Bellofiore, Alessandra Donati, Annastella Giannelli, Maria Bianca Nicolai Speciale “Inequilibrio” 200834 Maria Francesca Stancapiano Cluchey e la Fortezza: gli ultimi due nastri di Krapp

36 Francesco Petrocchi La Salomè di Oscar Wilde: una tragedia postmoderna 38 Elisa Pezzini La scuola di Jacques Lecoq: il “vero” poetico

Disagio

40 Francesco Ceglia, Giulia Nasini Quando si porta in scena la “diversità”. Attraverso le esperienze toscane di “teatro e disagio”FotograFia

42 Maurizio Buscarino intervistato da Alessandra Donati Ombre su lamine d’argento

44 Concetta D’Angeli Teatro talento tenacia... Mario Mieli

46 Michele Sinisi e Michele Santeramo intervistati da Mariagrazia Bertino (con un intervento di Simona Gonella) Dialogo “minimo”

Chiuso in Redazione nel settembre 2008In copertina due foto di Mario Mieli

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Il 13 dicembre 2006 si è tenuto presso i Laboratori DMS di Bologna, nell’am-bito del progetto “Il teatro delle attrici”, un incontro con Ermanna Montanari, anima e storica fondatrice del “Teatro delle Albe”. Il dialogo che segue docu-menta il più fedelmente possibile l’episodio. Il suo testo, però, prima di giungere a questa forma, è passato attraverso diverse mani. Giuseppina Ripoli ha trascritto la registrazione e, assieme a Fabio Acca, ha fatto una prima pulitura cancellando le ripetizioni e riformulando le frasi poco chiare. Poi, sia Ermanna che io abbia-mo precisato il senso delle domande e delle risposte. Alla luce di questi passaggi, le didascalie, che abbiamo avvertito l’esigenza di aggiungere, potrebbero sem-brare più un accorgimento drammatico che un dispositivo documentario. Non è così. L’incontro è stato accompagnato da un tensione e da una partecipazione emotiva, che non potevano venire escluse dal testo edito. Da un lato, è stato dunque necessario indicare le pause del discorso e i mutamenti d’intonazione. Dall’altro, invece, proprio le ragioni di tale tensione hanno comportato l’esigenza d’una revisione dettagliata. Ermanna, in questo incontro, si è infatti messa in una condizione di sincerità che si scontrava con i limiti del linguaggio. Se ci si accontenta di spiegarsi “pressapoco”, “più o meno”, selezionando gli argomenti trasmissibili, si può parlare con immediatezza, con rilassatezza, ma se l’obiettivo è non nascondere nulla di quanto sentiamo delle realtà indicate dalle parole, allora il timore di risultare falsi e non adeguati diviene palpabile e contagioso. Dialo-gando con me e gli studenti di Bologna, Ermanna ha mostrato lo stato d’animo d’un tiratore che tema di farsi male non colpendo il bersaglio. Un miscuglio di precisione e di tremore, di chiarezza e d’ombra. Per chiarire l’atmosfera occorre-vano delle didascalie, per giungere il più vicino possibile al centro del bersaglio

bisognava continuare la ricerca delle parole esatte. Così, questo testo non è una correzione del parlato, ma il suo proseguimento.

Il titolo si riferisce ai testi di Ermanna, che, letti durante l’incontro, ne hanno indiriz-zato e commentato lo svolgimento. Ma parte dell’antologia è anche la poesia di Wislawa Szymborska che la chiude. L’intimità è ospi-tale.

(G.G.).

Gerardo Guccini: Prima di questo no-stro incontro, parlavo con Ermanna Montana-ri e Marco Martinelli, regista e drammaturgo del “Teatro delle Albe”, della distanza tem-porale che intercorre tra i tre spettacoli visti in video: I brandelli della Cina che abbiamo in testa, drammaturgia di Martinelli, è del 1987, circa dieci anni dopo viene Lus (1995), un monologo poetico scritto da Nevio Spadoni, e dopo circa dieci anni ancora viene La mano, il “de profundis rock” ispirato al romanzo di Luca Doninelli. Sono spettacoli che indicano un percorso attoriale forte, evidente, ed unico. Il percorso di Ermanna, infatti, non si declina né attraverso una molteplicità di personaggi né sulla base di abilità preesistenti, ma svolge, inventa e trova la “propria” tecnica, fortissima e personale insieme, con movimenti che, più che in ampiezza, si sviluppano in altezza e in profondità, decantando dal vissuto sostan-ze drammatiche e sapere teatrale. I brandelli della Cina che abbiamo in testa mostrano una presenza enigmatica perché non realistica né modellata dalla realtà drammatica: il teatro, qui, viene colto nell’atto di cercarlo, e, nell’av-vertirne la sorprendente presenza, l’attrice so-spende in un interrogativo il proprio essere di fronte al pubblico. Troviamo poi in Lus una lingua, una metrica, un linguaggio, un modo di intendere la presenza e la voce tutto pro-prio, una phonè personalissima, prossima a quell’interazione con gli elementi sonori che caratterizzerà spettacoli come L’isola di Alci-na (2000) e poi La mano (2005), entrambi con musiche di Luigi Ceccarelli. Gli approfondi-menti personali che in altri artisti sono sfocia-ti in espressioni autobiografiche, in Ermanna hanno sedimentato una tecnica che conserva in presenze drammaticamente scolpite l’enig-ma del vivere, l’interrogativo preoccupato che coglie l’attore allorché, sentendosi diventare teatro, rivede in un’altra luce le immagini del vissuto. Bisognerebbe essere sfrontati per en-trare in questa personalissima dialettica con domande poste dall’esterno, così introdurrò gli argomenti della nostra conversazione leggen-do alcuni brani di Ermanna.

ANTOLOGIA PERSONALE

Ermanna Montanari intervistata da Gerardo Guccini

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la parola agli artisti ERMANNA MONTANARIla parola agli artisti ERMANNA MONTANARI

(Si rivolge direttamente all ’attrice)

Vorrei incominciare con il tema della radici sul quale hai scritto pagine molto belle. Ho scelto un brano che racconta di Campiano e parla della “lingua” ascoltata nell’infanzia: un elemento essenziale del tuo percorso.

Mio nonno paterno era il grande patriarca della mia famiglia contadina. Oggi so che e stato per me pa-dre, maestro e modello di vita. L’ho seguito, studiato e adorato come una pecora obbediente. Aveva un’osses-sione per le parole; che fossero quelle. Le scandiva e pronunciava lentamente, quando uscivano erano maci-gni. Si creava un vuoto sacro, quando parlava. A tavola era sempre il primo a parlare e si rivolgeva solo a mio padre, che rispondeva dopo un attimo di riflessione, quasi avesse paura di sbagliare. Le donne e noi bam-bine potevamo parlare, ma solo se avevamo qualcosa di importante da dire. Era vietato ridere - a tavola non si ride - e dire una parola così, tanto per dire... vietato anche quello.

(Figlia e attrice, in “Lapis”, n. 20, dicembre 1993).

Il mondo che hai descritto tornerà nel tuo teatro, ma quali sono i tempi e le modalità del suo ritorno?

(Ermanna risponde dopo un attimo di esitazione, quasi a voler raccogliere le idee in un discorso coerente)

ermanna montanari: Spesso sono presa da una goffaggine della parola. Così mi sento quando sono fuori dalla precisa e solida architettura teatrale, che è la forma degli spettacoli. Quando mi trovo a parlare di fronte a un’assemblea, mi coglie un forte disagio, perché so di dover dire, o ci si aspetta che io dica, qualcosa di importante. Si scatena, indipendentemen-te dalla mia volontà, una forma sentimentale di pu-dore rispetto alle parole da dire come se il corpo non avesse a che fare col cervello. Terribile condizione, dal momento che so che questo pensiero “parassita” mi accompagnerà per tutto il tempo del nostro incontro. Ovvio che preferisco il patibolo del palco a questa nostra conversazione apparentemente “libera”. Il pal-co prevede un “tracciato” utile a dire qualcosa che non è mai il dire quotidiano.

Per quel che riguarda la situazione familiare evo-cata da Gerardo, esiste sì, all’origine del percorso, uno scacco fondante, un vuoto su cui poggia la mia visio-ne tra ciò che è vita e ciò che è teatro: un invisibile che non so decifrare... ma è materia che vibra e sulla scena esiste in quanto enigma. Cosa significa? ...forse che quel nodo invisibile diventa “sapere” in scena, un sapere che si esprime di volta in volta attraverso le opere, che arrivano all’esistenza come all’esistenza ar-rivano gli alberi, gli uccelli, l’acqua. È un sapere silen-zioso, specifico di quel luogo che è il palco. Quando ne esco, mi ritrovo priva di un “tracciato”, e spesso mi rifugio in una sorta di pudore.

Guccini: Rispetto alla quotidianità antica rievocata nei tuoi scritti, il teatro è un salto. Inizialmente non c’è stata immissione ma separazio-ne, tanto che quando tu e Marco raccontate l’inizio del vostro teatro, ne parlate come di una fuga da Campiano: mondo che noi oggi, possiamo immaginare e sentire vicino, attraverso la tua lingua scenica e i tuoi scritti. Qual è stato il momento in cui le parole petrose di Campiano hanno co-minciato ad esistere nel teatro? Seguendo una mia impressione, credo che un primo riavvicinamento sia stato Confine, lo spettacolo del 1986 in cui il dialetto è entrato per la prima volta nel “Teatro delle Albe”. In questo lavoro, tu e Marco avete inventato una forma scenica per raccontare il mondo dei circhi di provincia. Lo dici in un brano che mi sono appuntato e ora leggerò:

Quando ho fatto Confine impersonavo Raffé, un’ultima, un’affamata che lottava contro angeli invisibili, che gridava per la sua fame d’amore, che urla-va: «come pesci volanti sulla sommità delle onde», e agiva su una scena utero, fatta da un telone di campagna. Lì, avevo presente la mia nonna materna, una donna furiosa e passionale, piccola e gracile con un grande naso e scura di occhi e capelli. Analfabeta, non parlava l’italiano, mi ha insegnato a be-stemmiare, assorbita dal terrore della morte e dalla organizzazione del suo funerale. Costruiva feticci e recitava il rosario. D’estate quando stavo da lei, dormiva abbracciata a me e mi raccontava storie paurose. Amava affacciarsi ai pozzi e andare in giro con i capelli bagnati. La Raffé di Confine aveva questa sua furia.

(Dalla presentazione di Rosvita di Ermanna Montanari, Edizioni Essegi, Ravenna, 1992).

(Ermanna sorride, poi risponde)

montanari: Questo immaginario mi fa sorridere, perché sono cose scritte tanto tempo fa. Il “salto” di cui parli, a volte, l’ho colmato con la scrittura e, in principio a incoraggiarmi, sono state persone a me vicine: Marco per primo, poi Marco Belpoliti e poi Gianni Celati.

Sicuramente esiste alla radice della visione un aspetto autobiografico, ora però preferirei non avere legami con quel mondo là, anche se il quo-tidiano del mio immaginario contadino-animista è sempre presente, fa parte dei sogni, della relazione con i miei familiari, vivi e morti... L’enigma riposa tutto in quel “come” che è la particolarità dell’esecuzione, nella sua massima precisione, nella materia-teatro appunto... Io vorrei possedere la serenità e l’ingenuità di sguardo dell’ analfabeta, restare a guardare i pozzi, le foglie; sarei capace di costruire feticci... una condizione del desiderio che biologicamente mi appartiene. Ma poi è il temibile enigma del tea-tro ciò che mi fa correre e che mi assorbe. Fino all’età di sei anni, oltre a obbedire con gioia ai “comandamenti” di mio nonno, non riuscivo a pro-nunciare parole senza vergogna, perché la mia figura di bambina gracile strideva in modo asimmetrico e inaccettabile con la mia voce da maschio, cupa, prepotente, che da sola è tutta un “mondo”: esiste per se stessa, devo solo obbedirle, abbandonarmi con vitalissima passività alle regole espres-sive che di volta in volta mi detta. È lei l’antenna del mio corpo-attrice. È a questa vergogna, a questo sentimento che si è via via fatto spavaldo, che in gran parte debbo il mio percorso di attrice.

E la tecnica? Per quel “poco” che c’entra, non è qualcosa a se stante, e non è qulcosa di circoscritto e facilmente estraibile da un contesto, quindi dalla poetica delle “Albe” e dalla loro polittttttticità, bensì si innesta in modo capillare e quotidiano nel nostro fare teatro. La tecnica, col tempo, si oggettiva e diventa più leggibile, a volte diventa un “personaggio” indi-spensabile, a volte un fardello alienante del fare quotidiano. I suoi confini non sono comunque mai precisi: leggere poesie è la stessa cosa che scal-dare voce e corpo attraverso esercizi yoga e mettersi in condizione di agire.

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la parola agli artisti ERMANNA MONTANARIla parola agli artisti ERMANNA MONTANARI

a terra, “privato” delle parole “importanti” da dire. Come si può essere leggeri? Non so. Non c’è rispo-sta. So che Rosvita, Isis, Alcina, sono impetuose figure sputate fuori da infiammazioni in corso nel mio corpo e dalle quali non si guarisce, anzi vengo-no alimentate e moltiplicate come “cura” in teatro. È comunque un nodo, spesso oscuro, da percorrere senza paura e con pudore, perché lì c’è la radice. Ci sono giorni in cui, nonostante tutto sia architettato alla perfezione per accogliere al meglio e riuscire in quello che si deve fare, non ci si riesce. Il punto di partenza di tutte le opere delle “Albe” è l’imprendi-bile, quella leggerezza minuta che non si coglie con la tecnica, quella qualità azzurrina che è la stoffa di cui siamo fatti che, dal buio, pian piano, si fa chiara materia e può essere esposta.

In questo senso per me Grotowski è stato un indicatore. Quando lavorai con lui, dopo notti e notti di vivace stanchezza, arrivò con decisione a spostarmi un mignolo all’interno di una figura che avevo costruito: finalmente capii che si stava realiz-zando un atto amoroso, che ciò che è molto grande è sempre molto piccolo, che ciò che si vede è spes-so un buco, colsi il senso di ciò che significano una variante e un fondamento estetico. C’era una falla nella figura corporea che io mi ero costruita, ma so-prattutto ero disposta, allora come ora ad accogliere quella falla e mostrarla.

Guccini: L’azione di Grotowski è stata quella di rivelare qualcosa di essenziale, come l’oggettività del corpo. Ogni volta che ho parlato con attrici che hanno lavorato con Grotowski, ho avuto la sensa-zione che quell’incontro abbia significato moltissi-mo per loro, e non perché le abbia abbagliate con rivelazioni clamorose, ma perché ha svelato loro qualcosa di fondamentale che già c’era, in profon-dità...

montanari: Si, per esempio, il rispetto dell’at-tesa come condizione creativa. Questa qualità “sen-timentale”, che non mi ha mai più abbandonato, mi ha procurato non pochi problemi in alcuni dei laboratori che ho condotto nel corso degli anni, so-prattutto quelli incentrati sulla voce. Accade a volte che qualcuno, soprattutto dopo aver visto gli spetta-coli, si entusiasmi e chieda di lavorare con me sulla voce. Ciò mi mette spesso in uno stato di tensione e insicurezza perché non so bene come muovermi, dal momento che non c’è niente da muovere, se non un grumo incrostatissimo, che è anche il mio... ma come si fa a condividere questo in un laboratorio, con qualcuno che ti chiede di recitare subito? Una volta ho fatto un laboratorio che è stato un disastro, perché ho passato quattro giorni con alcune persone in assoluto silenzio, ascoltando il corpo nel sangue che fluisce, la materia dell’altro e quella dell’edificio che ci contiene, un intonarsi all’unisono o un urlo solitario, o uno scatenamento imprevedibile nella

Non esiste nel teatro delle “Albe” una tecnica comune di riferimento, un riscaldamento collettivo, esiste la consapevolezza collettiva dell’agire e l’in-venzione della propria individuale disciplina che è uno dei nodi fondanti della nostra poetica.

Il mio rovello è un altro, non è la tecnica. Ogni volta che devo “entrare in scena” spero che vada a fuoco il teatro, che qualcosa di irreparabile acca-da per impedire l’ “entrata”, e nonostante ciò, tutte le volte entro sul palco come spinta da una forza sempre nuova, su quel patibolo che non è altro che una calamita.

Ogni volta si manifesta qualcosa che ha sì a che fare con me, ma nella maggior parte, non dipende affatto da me, ed è quest’ultimo il mistero che mi interessa... è un rubinetto, aperto molto prima della mia venuta. Forse l’aspetto autobiografico è la parte che consola lo iato tra il bios, la piccola vita individuale, e quello che le “Albe” sono-siamo eticamente ed estetica-mente. Quando dico “Albe” immediatamente parlo di me, non so pensarmi separata. Credo che a questo punto sia piuttosto noioso parlare di come ci si “costruisce”. Forse sarebbe più importante riflettere su ciò che ci è dato dall’esterno, su ciò che noi stessi non riusciamo a comprendere e quindi a dire...

Guccini: ...quello che stai dicendo è sintomatico dell’enigma inevita-bile che è l’attore. Tu sostieni che non esiste il momento in cui una cosa si “addormenta” per poi tornare in altra forma, ma che ci sono tanti sentieri, sempre vivi, che l’attore riesce a percorrere; che ci sono, cioè, momenti in cui l’attore riesce a saltare tra i diversi strati del proprio esistere. Il filone autobiografico, anche se non tanto evidente nei Brandelli della Cina che abbiamo in testa, è tuttavia presente, perché tu sei presente con forza e par-tecipazione. Mi sembra che la chiave d’accesso al mistero dell’attore, di cui ci stai parlando, sia la sua capacità di annullare le distanze temporali che intercorrono tra i diversi stadi delle esistenze altrui e della propria. Poiché ti preme parlare di ciò che ti è stato dato dall’esterno, portiamo ora il di-scorso sul tuo incontro con Grotowski. Prendo spunto da una tua intervista con Oliviero Ponte di Pino:

Per me si è chiarito tutto quando sono nate le “Albe”. Ho capito che cosa significava essere un gruppo, avere dei maestri, rintracciare una strada. Sono an-data a cercarmi dei maestri attraverso le letture e non attraverso la conoscenza degli spettacoli, perché in realtà non ne vedevamo tanti... ho scelto Grotowski, Flasken e Kaia della Roy Art Theatre... perché mi interessava lavorare soprat-tutto con la voce. Volevo lavorare assolutamente sull’impossibilità di assotti-gliarsi e di annullarsi del corpo in scena, sull’impossibilità di restare una voce. Si lotta sempre con un invisibile che a volte ti accarezza, a volte ti ripugna, a volte ti fa cadere, e questo invisibile aveva a che fare con il mio teatro, erano i miei fantasmi contadini. A un certo punto, mi è diventato chiaro che il fatto di essere in scena è comunque una costruzione, un artificio. La scena è il massimo luogo della libertà, lucidità e disciplina. Finché non ho fatto quello spettacolo, finché non l’ho portato a Grotowski, non mi era così chiaro. Lo spostamento di un mignolo, di una vocale o di una mezza nota, erano fondamentali. Il teatro è l’assoluta costruzione, il teatro ha a che fare con la vita, ma solo dopo una... - non vorrei chiamarla tecnica - solo dopo il lavoro dello stare in quel luogo, e quel luogo diventa la tua costruzione, la tua visione.

(La mia voce non è un soldatino, 10 frammenti da una conversazione con Er-manna Montanari, di Oliviero Ponte di Pino, in “Art’o”, n. 1, marzo, 1999).

(Con tono basso, come preparando ad accogliere le parole sulla “sparizione”)

montanari: Il nodo è sempre lo stesso, è un fatto di sparizione. L’ago-nia di un corpo che si arrovella tra il desiderio creativo di”non lasciare traccia”, sparire, essere leggera e la pesantezza di un mammifero ancorato

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la parola agli artisti ERMANNA MONTANARIla parola agli artisti ERMANNA MONTANARI

L’isola di Alcina (foto di Enrico Fedrigoli)

(In auditorium si respira un silenzio da “sottrazione di fiato”, un momento di “riposo” per Ermanna. Il momento opportuno per una domanda)

Fabio acca: La mia domanda è pertinente rispetto a quello di cui hai parlato finora. Quando entro nel vostro sito, la prima figura che compa-re è un asino, con una citazione da Giordano Bruno. L’asino è una figu-ra ricorrente che richiama anche il passato evocato dalle tue parole ed è, al contempo, una figura stravagante, perché piena di forza, d’ intimità, di enigmaticità e di verità... mi piacerebbe che tu ci parlassi di questo.

montanari: La figura dell’asino è per noi “Albe” l’icona fondante. Per questo appare come immagine d’apertura del sito, indica l’attraversa-mento del nostro fare. Mi sono laureata alla facoltà di Lettere e Filosofia con Claudio Meldolesi che mi consigliò una tesi sui dialoghi filosofici di Giordano Bruno, dove la figura dell’asino appunto è centrale. Siamo asini o pedanti? (1989), la “farsa filosofica” scritta da Marco, è stata in seguito l’occasione per la compagnia di riflettere sull’asinità come via di accesso previlegiata al sapere. Sentirsi asini, significa per noi non percorrere alline-ati e arroccati il perimetro delle proprie certezze, significa avvertire in sé la spinta della fame di conoscenza, l’allegrezza di attraversare il mistero, di praticare l’ascolto dell’Altro-Te-Stesso come un’arte, come via alla bellezza: attenersi alla fondamentale distinzione che Bruno fa tra asinità e pedante-ria. Io poi, negli spettacoli, più volte sono stata l’asina-Farì dalle orecchie spropositate e l’asina-Fatima, spirito africano di Povertà. Vorrei ricordare ora un episodio emblematico sulla “lingua asinina”: anni fa, dopo aver visto Lus, un monologo cantato in dialetto romagnolo, Gianni Celati ne rimase tanto estasiato da proporci di farne un film. Secondo Celati, la lingua po-etica di quello spettacolo, quella qualità gutturale del dialetto romagnolo e la sua enigmaticità, era la lingua della fine dei tempi, della fine dello spettatore, cioè di colui che può guardare. Celati mi invitò a fare Lus di fronte a una “platea” di asini veri. Andammo su una collina dell’Appennino reggiano dove si raccolsero un ventina di asini per assistere alla profezia di Lus: mi addossai contro un muro su una cassetta da frutta, abbigliata con lo stesso vestitino da prima comunione che portavo nello spettacolo, mentre Gianni faceva uscire dalla stalla gli asini, e guidandoli lungo un percorso li riprendeva con la telecamera. Quando gli asini mi sono arrivati di fronte e

danza, proprio perché non si tratta di parlare o recitare, ma di aspettare un suono, un gesto o la parola importante. Sarebbe molto più sem-plice proporre esercizi, come in tante scuole di teatro, mentre è proprio nella condizione di attesa che tutto si trasforma anche in tec-nica intessuta tra le pieghe dell’espressione vocale.

Guccini: Ci stai mostrando in maniera esemplare il motivo per cui l’attore, per circa duemila anni, è andato così d’accordo con il testo, che è un’architettura con la quale con-frontarsi, alla quale ricondurre la compresen-za emozionale di pulsioni divergenti e conti-nue che hanno bisogno di essere incanalate. È come se l’attore fosse una compresenza di tempi psichici e di sentimenti divergenti che trovano nell’architettura del testo un argine, un modo per annodarsi in momenti di com-presenza. A questo proposito, vorrei leggere quello che hai scritto sull’architettura degli spettacoli delle “Albe”:

È la precisa e riconoscibile struttura dello spetta-colo che ci permette di entrare e uscire velocemente dal tempo della scena. Più è incarnata e cristallina, più è semplice agirla. Ciò che rende plausibile l’espo-sizione finale di un fantoccio, emerso da un improv-viso nero, spesso non ci è dato conoscerlo. Come un sismografo, seguo un vago tracciato finché la figura non si fissi in una forma riproducibile, in un anti uni-verso, in qualcosa di monco e di comprensibile, un falso sembiante, perché è di fantocci che si tratta, di pezzi di pezza cuciti con evidenza, feriti senza sangue proprio [...]. Per Madre Ubu la figura dal fiore bianco, la calla senza profumo, di lungo stelo con corona bal-lerina, permette un cammino laido e volgare, una voce da gufo che si sviluppa in tocco di ceramica. Madre Ubu si veste di grazia, Madre Ubu è musica organica alla matematica vitalità dei Polacchi, come lo è Alcina nell’architettura ferrea dell’Isola di Alcina.

(Un metro cubo di eternità, in “Lo Straniero”, n. 32, febbraio 2003).

montanari: È successo che pensarmi una cal-la, incarnarmi nel suo sentimento, ha fatto scaturire Madre Ubu. Per un attore è sempre più semplice fare che non spiegare, la sua teoria è il palco. L’im-magine della calla è nata all’interno di un lavoro di ideazione comune con Marco, lavoro che facciamo insieme per tutti gli spettacoli; abbiamo lavorato per un anno dentro l’opera di Jarry, e a un certo punto, da accumuli e scarti che il lavoro quotidiano impone, è nata questa figura, così come è nata quella di Alcina: pietra che vibra. Emergono sì all’improv-viso, ma da una materia sedimentata e preparata per il loro accadimento che spesso è sorprendente e imprevisto.

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mi hanno vista (io temevo di essere travolta), si sono fermati e, miti, hanno ascoltato per tutto il tempo necessario. Quando ho concluso con gli ultimi suoni allungati, invocando la luce, se ne sono andati. Come se sapessero. In quel momento, sono stata riconosciuta come asino, come se Lus fosse stato pensato con loro.

Guccini: Nei tuoi scritti c’è un elemento ricorrente, quello del viaggio. Si ha la sensazione che il viaggio, per te, sia come l’apertura d’una finestra su un mondo estraneo, che tu interiorizzi velocemente e ti diventa familia-re quasi a colpo d’occhio.

montanari: A me non piace viaggiare o meglio mi piace farlo da fer-ma, con la mente che prilla, dove i pericoli vengono accettati dal corpo con un’emozione differita. Spostarmi per le tournée mi affatica molto e questo mi porta a fantasticare in modo frivolo... immagino una grande macchina con un autista prudente che parli tutto il tempo di cose senza importan-za, tante valigie piene di abiti bellissimi e importabili, soste in ristoranti sopraffini... viaggi decervellati insomma. Nella realtà faccio viaggi molto diversi. Sono costretta a spostarmi perché il viaggio è una condizione es-senziale del nostro lavoro... i primi che ho fatto con le “Albe” mi sembra-vano interminabili, ci muovevamo con un vecchio furgone che bisognava spingere perché partisse, i finestrini bloccati per le maniglie fuori uso, i sedili scomodi ammazzaschiena... così ecco...

(Guccini innesta la citazione alle parole di Ermanna. Legge senza presen-tare il brano):

Più volte, siamo andati in Senegal in villaggi con a capo dei guaritori scia-mani politici a volte donne a volte uomini, non c’era differenza. Questi capi hanno ricevuto un’eredità magica dai loro predecessori. Abbiamo portato lì i nostri spettacoli, abbiamo cercato di comprendere la difficile lingua di questo popolo, così come i nostri griot senegalesi hanno imparato il romagnolo. Le due lingue sono diventate per noi lingue di scena, della magia della scena, un annodamento del nostro fare teatro, all’interno dei villaggi animisti dei boschi sacri, dell’università occupata di Dakar, abbiamo assaporato la vitalità della pol-vere. Lì vive la Zoe, la vita che scorre secondo i Greci, lì vive Dioniso.

(Il Punto, a cura di Elio Grazioli, Galleria Continua, San Gimignano, 1997. Gli Atti del convegno comprendono un intervento di Ermanna Montanari da cui è stata tratta la citazione).

montanari: Quando arrivi a destinazione tutto cambia e ti piglia l’al-legrezza... per esempio, il primo viaggio in Senegal è stato fondante per le “Albe” e ancora oggi non si è concluso, anzi ne è radice. Andare in Senegal è anche permettersi di percorrere l’altra parte del mondo, di noi nel mondo. Sono antipodi vicinissimi che riflettono l’immaginario selvatico presente e, per un occhio attento, quello disperato della nostra nostalgica e arida cam-pagna romagnola. Gli incontri e le esperienze fatte durante questi viaggi sono stati rielaborati negli spettacoli e nei nostri lavori. Una volta, abbiamo partecipato a una festa nel “bosco sacro” di un villaggio animista dove si danzava al dio dei bambini che muoiono nel ventre prima di nascere... è stata un’esperienza destabilizzante, ti sbalza fuori dalla tua fragile idea di cen-tro... abbiamo poi bevuto del vino di palma da una pipetta di legno (erava-mo circa cento, in cerchio), e dopo aver offerto il primo sorso agli dei della terra, ce la siamo passata per ore, la pipetta, di bocca in bocca, senza alcuna protezione. Questo è assolutamente sconsigliato al viaggiatore... cosa ci spinge a fare una cosa simile quando sai benissimo che potresti pigliarti chissà quale malattia? Forse la seduzione dell’abisso? La tua presunta on-nipotenza? La vergogna di dire no? Vivere o morire subito? Non so, quel che si sa è che si accetteranno poi tutte le conseguenze di quel gesto.

Guccini: Per restare sul tema del viaggio, ricor-do di aver visto un vostro impressionante filmato dei primi anni Novanta. C’era Mor Awa Niang, il vostro attore griot, con la zucchetta e il vestito a lo-sanghe colorate, che danzava e impersonava Arlec-chino in un villaggio africano. È stato come coglie-re le origini di un teatro sul quale si pensa sempre di non poter dare delle spiegazioni geneticamente plausibili. Sembrava la genesi del teatro stesso. Le “Albe” non hanno viaggiato solo in Africa; siete sta-ti anche in ambienti molto diversi, come Scampia e Chicago, dove avete reinventato I Polacchi (1998). Dunque, se da un lato possiamo considerare i viaggi in Africa come dei viaggi agli antipodi del mondo, alla ricerca del teatro delle nostre origini, possiamo anche parlare di viaggi verso altri antipodi, altri spa-esamenti, come quelli napoletani o statunitensi.

(Ermanna risponde dopo un momento di silenzio)

montanari: Quando ti trovi al di fuori del tuo mondo, dell’ambito in cui sei riconosciuto, quando come succede alle “Albe” ti trovi a lavorare con ado-lescenti che non solo non conoscono te ma igno-rano anche l’esistenza stessa del teatro e della sua tradizione, allora sperimenti una condizione di gra-zia davvero singolare: non sei nessuno, non ti porti dietro il nome e la fama, sei come il nobody felice di Emily Dickinson, felice di incontrare altri nessuno. Il vero viaggio è lì: nell’essere nessuno - nel perde-re ogni aura che a volte pensi ti contraddistingua - e nel tentare di costruire bellezza e senso, ovvero teatro, con altri fino a poco tempo prima a te sco-nosciuti. Dall’incontro tra “estranei”, stranieri, nasce l’ebbrezza. È ciò che sta succedendo anche a Scam-pia con il progetto “Arrevuoto” partito nel 2006, Marco potrebbe parlarne meglio, lo ha già fatto at-traverso Pace! (2006), la sua riscrittura da Aristofane [A questa si sono nel frattempo aggiunti, nell ’ambito del progetto “Arrevuoto”, due ulteriori rifacimenti: Ubu sotto tiro (2007) e L’Immaginario malato. Affresco da Molière (2008), n.d.c.]. Il vero viaggio è stato ri-uscire a creare, in quel posto, una piccola vibrante comunità. Una possibilità di quel che chiamiamo dionisiaco.

Guccini: Nei Polacchi, al loro debutto ravennate nel 1998, i personaggi di Madre Ubu, Padre Ubu e del traditore Bordur erano interpretati dagli attori delle “Albe”, mentre gli adolescenti della non-scuola rappresentavano una sorta di coro molto partecipe: lo spettacolo si sostanziava proprio nello scambio scenico tra questi due gruppi. Non avete “messo in scena” il testo, bensì avete ricreato la genesi scolasti-ca del capolavoro di Jarry, mostrandoci il coro attivo e creatore degli studenti che, nella seconda metà dell’Ottocento, in Bretagna, diedero vita al burat-tino patafisico. Nel 2005 a Chicago avete affian-cato alle tre “maschere” rivestite dagli attori delle

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repertorio classico alle percussioni africane, dalla tecno alla collaborazione con musicisti come Roberto Barbanti e Michele Sambin. Il lavoro sulla musica ha poi segnato come una svolta nell’Isola di Alcina, perché le com-posizioni di Luigi Ceccarelli e la poesia di Spadoni erano parte di una stessa architettura. In ogni caso, credo che non si possa fare a meno di rapportarsi alla musica, sia essa presente o meno in uno spettacolo. Il mio lavoro con Ceccarelli per le partiture vocali e sonore dell’Isola di Alcina e della Mano è stato di lunga durata, e articolato. Io gli mandavo dei fram-menti di testo registrati, e lui, trattandosi di musica elettroacustica, cercava di crearci sopra, intrecciandole, delle partiture sonore, o al contrario, Luigi mi faceva sentire delle sonorità sulle quali mi intonavo, mentre Marco fa-ceva da medium. Devo anche dire che non sono una grande lettrice, tranne che di libri di poesia. Credo che la poesia sia la forma più alta di musica, dunque ritrovo il fondamento del mio recitare nelle opere di diversi poeti. Purtroppo, ho scoperto tardi l’esistenza di Wislawa Szymborska, Nobel per la letteratura nel 1996. Oggi ho portato un suo libro, Vista con granello di sabbia, perché vorrei leggervi e dedicarvi una poesia, che illumina quel senso di inadeguatezza di cui parlavo all’inizio. Il volume riporta anche il discorso che lei pronunciò quando le fu conferito il Nobel e che ruota tutto attorno a due “paroline alate” che la contraddistinguono, e che io sento molto vicine: Non so.

(La voce si fa straordinariamente tenera, il tono si abbassa, il ritmo rallenta, spariscono gli sbalzi “tonali” che avevano caratterizzato i precedenti interventi di prima. Così, la lettura restituisce a chi ascolta il senso e la densità del messag-gio poetico, con il quale Ermanna si congeda dall ’incontro):

In lode di mia sorella

Mia sorella non scrive poesie, né penso che si metterà a scrivere poesie. Ha preso dalla madre, che non scriveva poesie e dal padre, che anche lui non scriveva poesie. Sotto il tetto di mia sorella mi sento sicura:suo marito mai e poi mai scriverebbe poesie.E anche se ciò suona ripetitivo come una litania, nessuno dei miei parenti scrive poesie.

Nei suoi cassetti non ci sono vecchie poesie, né ce n’è di recenti nella sua borsetta. E quando mia sorella mi invita a pranzo, so che non ha intenzione di leggermi poesie. Fa minestre squisite senza secondi fini, e il suo caffé non si rovescia sui manoscritti.

In molte famiglie nessuno scrive poesie, ma se accade - è raro che sia uno solo.A volte la poesia scende a cascate per generazioni, creando gorghi pericolosi nel mutuo sentire. Mia sorella pratica una discreta prosa orale, e tutta la sua opera scritta consiste in cartoline il cui testo promette la stessa cosa ogni anno:che al ritorno dalle vacanze tutto quanto tutto tutto racconterà.

(Wislawa Szymborska, Vista con granello di sabbia, Milano, Adelphi, 1998).

“Albe” un coro di adolescenti africani della periferia di Chicago, del tutto digiuni di teatro ma più che esperti di hip-hop. Lo spettacolo ha poi debuttato al prestigioso Museo di Arte Contemporanea di Chi-cago, entusiasmando sia il pubblico che gli addetti ai lavori.

montanari: A Chicago abbiamo lavorato con adolescenti di recente immigrazione dall’Africa che frequentavano la Nicholas Seen Hight School. Lì vengono “formati” i soldati che partono per l’Iraq. Non afro-americani integrati da generazioni, la di-stinzione è importante, ma africani arrivati da poco negli Stati Uniti, che faticano a parlare inglese e molti non lo sanno ancora: etiopi, somali, haitiani, nigerian, ganesii... Ma una passione l’avevano in co-mune, la musica, il rap. E quella è stata la porta at-traverso la quale entrare in contatto con loro: da una parte l’Ubu di Jarry, dall’altra il rap. A me il rap non fa scattare il piacere subitaneo del ritmo, faccio fati-ca nell’ascolto. Durante le prove mi sentivo stonata, non riuscivo a condividere quell’alfabeto, mentre il Padre Ubu di Mandiaye era completamente a suo agio. Ho sentito che per dialogare scenicamen-te con loro dovevo come “oppormi”, partire dalla vibrazione sottile e gelida propria di Madre Ubu, che è bianca e straniera. Invece di ritmi a battito, percussivi, ho elaborato un’invenzione nella danza, vorticosa, a ritmo continuo, senza pause, facendo percepire la possibilità di un tempo musicale di tipo lineare. Dopo giorni di attesa, ho cominciato a ro-teare su me stessa come una trottola, folle e instan-cabile, creando una danza-spirale parallela ai loro movimenti.

Guccini: Per un attimo, mentre parlavi della musica, ti ho vista contenta. Vorrei ricordare - que-sta volta con le parole di un critico: Paolo Ruffini - come la musica sia un elemento interno e quasi generativo del tuo teatro:

L’isola di Alcina è una specie di lapsus linguae di un dramma contemporaneo senza dramma in un ritrovato legame tra il teatro e la musica, quasi una scultura di suoni stagliata sulla figura che viene così ripensata dallo spettatore, mentre un tappeto mag-matico costante sostiene il ritmo del racconto.

(Paolo Ruffini, Alcina e le Albe, in “Lo Straniero”, n. 13-14, inverno 2001).

montanari: Per noi teatro e musica non sono scindibili, ogni battuta è suono e significato insie-me, ogni attore è a suo modo un musicista, la re-citazione è intrinsecamente canto, la regia deve far vibrare insieme le voci degli attori come la partitura musicale di un’orchestra. E nello specifico le “Albe” hanno condotto negli anni una propria ricerca mu-sicale, alla quale si è dedicato soprattutto Marco, lavorando su materiali eterogenei e contrastanti, dal

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Claudia Bellana, Concetta D’Angeli

La “mancanza” delle drammaturghe italiane

La scrittura per il teatro non è territorio molto praticato dalle donne, in Italia; la loro scarsa

presenza è inoltre recente, e spesso nascosta in testi inediti, mai rappresentati...

Difficile darne un rendiconto appropriato. Ma temendo che il silenzio si aggiunga alla scarsa visibilità femminile e che diventi definitivo e invin-cibile, comunque tentiamo di avviare una ricerca su questo argomento, e di riflettere su alcuni aspetti che dalla nostra rudimentale indagine sono emersi. Precisiamo che essa è ristretta al secondo dopoguerra; che non tie-ne conto delle autrici di una sola opera drammaturgica, per quanto possa essere di rilevante valore estetico (valga per tutti il caso di Elsa Morante che ha scritto un unico dramma, La serata a Colono, bello e aspro, e di no-tevole interesse formale); che trascurerà la produzione per bambini, dove la scrittura femminile è invece cospicua. Nell’indagine è stato nostro iniziale punto di riferimento il catalogo del “Centro Nazionale per la Drammatur-gia delle Donne” di Calenzano, che nasce nel 1996 e raccoglie testi teatrali scritti da donne, inediti e no, purché abbiano avuto almeno una messinsce-na, anche soltanto in forma di lettura. Ma il fatto che gli aggiornamenti si fermino al 2003, che manchino numerose autrici, anche di rilievo, e che parecchie delle loro opere non siano registrate, ci ha indotte a ricorrere ad altre fonti (in particolare i siti dramma.it e gttempo.it, oltre ai siti personali, quando esistono), che forniscono risultati non sempre uniformi.

Delle scrittrici sconosciute/inedite parleremo in termini generali, sof-fermandoci invece su quelle note, anche per descrivere caratteristiche di temi e di forme che si ripetono e che sarà agevole esemplificare nelle opere più lette e rappresentate.

Colpisce che molto spesso la scrittura sia realizzata col contributo di altri autori; Lella Costa, per esempio, che ha sempre avuto numerosi colla-boratori, di recente è affiancata da Gabriele Vacis; le meno famose preferi-scono la compagnia femminile. La plurivocalità potrebbe essere determi-nata dal fatto che il prodotto teatrale è, anche nell’aspetto drammaturgico, un manufatto artigianale, bisognoso di competenze diversificate. Si può ipotizzare un bisogno di coalizione che nasce dall’atavica insicurezza fem-minile nei territori della cultura e dell’arte, a lungo suo sofferto interdetto; in tal caso non sorprende che il timore aumenti in un campo che obbliga a stretti rapporti col mercato, a contrattazioni di tipo economico, a valuta-zioni finanziarie; che richiede insomma capacità imprenditoriali... Perfino Franca Rame, attrice di fama nonché abilissima impresaria e amministra-trice, confessa la paura a cimentarsi con la scrittura, tanto da chiamare a raccolta altre donne che la sostenessero nel compito inquietante, quando negli anni Settanta tentò di creare da sé i suoi testi.

Colpisce anche che frequentissime siano le riscritture, le riduzioni, le trascrizioni da opere preesistenti. In questa scelta gioca un ruolo importan-te la componente emozionale ed evocativa che accompagna storie apparte-nenti all’immaginario collettivo. Per le donne la memoria è un punto fer-mo, il cuore accumula ricordi capaci di appassionare a distanza di anni; di

tale difetto-virtù le autrici sembrano consapevoli e lo usano per “scaldare” i loro testi. La riscrittura av-viene senza badare a distinzioni di genere: da opere drammatiche o narrative o epiche; da epistolari, da documenti, da cronache; tutti appartenenti a tempi e culture assai diversi. L’intento è l’attualizzazione psicologica più che la rilettura storica con finalità politiche - scopo, quest’ultimo, che sembra anzi assente, per lo più, dalla drammaturgia femminile odierna. Con alcune importanti eccezioni, fra le quali Franca Rame, Laura Curino, Letizia Russo.

Nata come soubrettona svampita negli spettacoli di varietà degli anni ’50, nei ’70 Franca Rame (Vil-lastanza di Parabiaco, Milano, 18 luglio 1929) si appropria dei caratteri del cantastorie epico, diventa moderna giullaressa, le sue capacità di interprete si affinano, mentre emergono, non senza conflitti ambiguità resistenze, bisogni di espressione creati-va autonoma, svincolata dal magistero del marito. Già da anni la Rame e Dario Fo collaboravano nella scrittura, ma solo i testi di questo periodo (Tutta casa, letto e chiesa, Coppia aperta, quasi spalancata, La madre), a quel che garantiscono entrambi gli ar-tisti, sono redatti a quattro mani (ad eccezione di Lo stupro, composto da lei). Le tematiche centrali ripropongono le rivendicazioni politiche e sociali del femminismo, che negli stessi anni si diffonde in Italia producendo tensioni scontri crisi, nella vita associata e in quella privata. Franca, in scena da sola, protesta contro uno sfruttamento che avviene sia sul piano socio-economico sia su quello familiare; denuncia la trappola psichica che induce le donne a sottostare e addirittura collaborare al mantenimento della propria subalternità; reclama il riconoscimento pieno della parità sociale e legale. Le sue interpreta-zioni, costruite su un ritmo indiavolato, illuminano il lato grottesco della vita quotidiana e lavorativa ed esprimono un nitido giudizio di condanna su rap-porti e comportamenti, su gestione delle risorse e imposizioni culturali che inducono alienazione e trasformano in macchine gli esseri umani. Con i suoi monologhi e atti unici il teatro italiano offre per la prima volta un ventaglio ricco e diversificato di tipologie di donne, una variegata gamma di pro-blemi legati alla quotidianità e alla realtà della loro vita, una rivendicazione ferma dei loro diritti.

A differenza di molte autrici, Laura Curino (Torino, 26 gennaio 1956), fiduciosa nelle capacità del proprio uditorio, arditamente lo scaraventa in mezzo alle storie, sicura che saprà orientarsi senza perdere il filo del discorso, nonostante le ininter-

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in sezioni che assomigliano a ghetti, oppure tanto scialbe da non meritarsi nemmeno un nome; il paesaggio è fatto di deserti senza strade né punti di riferimento, case sventrate, cicatrici di una guerra infinita. Né il tempo, rarefatto, vago, aiuta a dare concretezza e riferimenti storici alle vicende: si tratta di un futuro qualsiasi, vicino o lontano, comunque devastante, nel quale domina l’amara consapevolezza che il passato, per quanto odiato, era meglio del presente, ridotto a uno scorrere anonimo di giorni, simile a un supplizio. I personaggi, sopravvissuti a disastri naturali, amorosi, bellici, si comportano con ferocia; solo la morte permette a chi resta di addolcire i ricordi e riaccogliere nell’affetto e nella società coloro che non ci sono più. Per superare il vuoto che tormenta ognuno e contrastare l’insignificanza si crede in divinità improbabili, che si palesano attraverso i mass-media, il telefono... Non esistono rapporti positivi, né fra le generazioni né fra uomini e donne, mentre imperano malattie fisiche e mentali, emblema di un’insanabile putrefazione dell’animo. Anche la similarità dei linguaggi è la conferma che il dolore e l’asprezza dell’esistenza, governata solo dagli eventi, rendono gli uomini svuotate ombre di se stessi, fantocci uguali e indistinguibili.

Le problematiche civili, espresse da Letizia Russo insieme a poche altre giovani autrici, sono un’eccezione nell’attuale drammaturgia delle donne, che di solito indaga le relazioni affettive e amorose più che le condizioni sociali, si occupa dei miti antichi per rappresentare stati psichici che ca-ratterizzano la modernità, usa i fatti della storia in chiave simbolica e li fa interferire con l’interiorità.

Il tema dominante sembra il vuoto della mancanza - che già negli Écrits del ’66 Jacques Lacan individuava come il centro dell’identità (non solo femminile). Nelle nostre drammaturghe la mancanza riguarda le per-dite affettive, le morti, l’assenza dei luoghi amati, e soprattutto (in chiave propriamente lacaniana) la relazione d’oggetto, l’impossibilità di fondare il significato dell’essere attraverso la catena dei significanti e di ricostruire l’unità che dà senso. Di qui l’insoddisfazione, che spesso caratterizza i per-sonaggi femminili: tutti privi d’equilibrio, in cerca d’identità difficilmente raggiungibili, rappresentati a tinte forti ed estreme.

Data la prevalenza della prospettiva psichica e individuale, ci si aspet-terebbe il ricorso massiccio alla forma che meglio sembra capace di rap-presentarla, il monologo, che manifesta i pensieri di chi parla, ne mette in scena la mente, per così dire, e s’incarica di mediare una dimensione intima

che di norma non ha voce nella drammaturgia basata sul dialogo. La nostra indagine rivela un fatto contraddittorio: la presenza del monologo è dominante nei testi raccolti dall’Archivio di Calenzano mentre negli altri casi, pur restando frequente, non ha una posizione altrettanto as-soluta. Si tratta comunque di monologhi molto “teatrali”, costruiti non sulla narrazione quan-to piuttosto sull’azione dei personaggi. D’altra parte, sono abbondanti i drammi e le comme-die strutturati in modo classico, con divisioni in atti, presenza di numerose figure, cambiamenti di tempi e di luoghi... a dimostrazione della volontà delle drammaturghe di cimentarsi con problemi strutturali elaborati. Soprattutto ci pare degno di riflessione che abbondino gli atti unici: essi infatti conciliano l’esiguità architet-tonica del monologo con l’esigenza di mette-re in scena figure differenziate, cimentarsi col tempo e lo spazio, organizzare un plot anche complesso, e al tempo stesso mantengono una struttura breve e controllabile. L’architettura

rotte divagazioni. Per i suoi testi infatti (Passione, Olivetti, Una stanza tutta per me, Le designer), più che di vere e proprie trame, sarebbe meglio parlare di chiacchierate che, da uno spunto iniziale, proce-dono verso la conclusione attraverso ricordi, com-menti, spiegazioni, collegamenti che, molto liberi, danno l’impressione dell’improvvisazione. L’opera acquista così una nota di freschezza e suscita nel pubblico curiosità e aspettative mai deluse: nono-stante l’apparente nonchalance, infatti, i monologhi sono composti con sorvegliata sapienza. Vi ricorro-no tematiche che l’autrice giudica importanti per stimolare riflessioni sul nostro tempo. Così è per il rapporto con l’arte: arte come mestiere, arte come passione, come mezzo per penetrare in altri mondi, come espressione di sé. Così è per la discriminazio-ne fra mondo maschile e femminile, dove sempre le donne risultano perdenti, malgrado le lotte e le pari opportunità. Così per l’infanzia, raccontata come un periodo significativo della vita in cui si fanno espe-rienze e si sperimentano sensazioni forti e sincere malgrado gli adulti non le prendano sul serio. Così per il lavoro, fonte di sostentamento e realizzazio-ne della propria personalità. Ambientate nelle zone industriali delle grandi città, le storie della Curino sono ricche di personaggi diversi, ognuno caratte-rizzato con cura nella lingua oltre che, come precisa l’autrice-attrice che li interpreta tutti, nei modi di muoversi ed occupare lo spazio, negli atteggiamenti, nelle posture, nei timbri vocali.

Indefinite invece nella collocazione geografica, sono le ambientazioni ricreate da Letizia Russo (Roma, 22 dicembre 1980), a sottolineare come la crudeltà e la violenza umane abbiano reso il mondo uniforme, e i popoli vittime e carnefici, a ritmi al-ternati (Tomba di cani, Babele, Binario morto, Primo amore, Edeyen). Le sue città sono futuristiche, divise

Laura Curino

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dei testi è il punto debole più diffuso in questa drammaturgia: avviene spesso d’imbattersi in incipit promettenti che presto deludono per l’inca-pacità, sembrerebbe, di gestire ampie arcate strutturali.

Mentre la difficoltà costruttiva riguarda soprattutto le autrici meno note e, si suppone, più inesperte, l’altro esteso difetto, l’assenza di lavoro formale e di attenzione linguistica, concerne anche autrici di fama.

Succede ad esempio per l’icona della drammaturgia femminile italiana, Dacia Maraini (Fiesole, 13 novembre 1936). Le sue storie, sempre avvin-centi, ispirate a eventi reali copiosamente documentati, a vicende diventate patri-monio comune della tradizione letteraria, a figure femminili che spesso la scena ha ospitato, si svolgono tutte, comprese quelle mitiche, in una società borghese collocata fuori dal tempo, della quale sono messi in luce i conflitti interni e le contraddizioni: la nuova classe crea la morale e i peccati, pronuncia i giuramenti e fornisce i modi per tradirli, protesta in piazza per i diritti alle donne e poi senza pietà le rinchiude in celle d’iso-lamento (Dialogo di una prostituta con un suo cliente, I sogni di Clitennestra, Maria Stuarda, Mela, Donna Lionora giacubina, Stravaganza, Veronica, me-retrice e scrittora, La terza moglie di Mayer, Camille, Memorie di una came-riera, Storia di Isabella di Morra raccontata da Benedetto Croce, I digiuni di Catarina da Siena). Ecco perché dai salotti eleganti e straripanti di buone intenzioni si passa ai postriboli, dai conventi in odore di santità ai lazza-retti per i lebbrosi, dai luoghi di facciata ai posti segreti in cui ci si spoglia delle proprie maschere e ci si mostra per ciò che si è, ipocriti codardi in-capaci di vivere e troppo frustrati per accettare che qualcuno osi farlo senza pagarne un alto prezzo. Il ricorso alla storia e alle sue protagoniste si accoppia spesso in Dacia Maraini all’uso di frasi di autori canonici (Baudelaire, Ariosto, Eschilo, Platone, Goethe, Shakespeare, Goldoni, Saffo...), utilizzati a sostegno di riflessioni e interpretazioni dell’autrice. Talvolta però l’interesse delle trame e l’acutezza delle riflessioni sono smorzati da una lingua troppo colta, lontana dal parlato quotidiano, non sempre dotata di quella musicalità che è caratteristica così accattivante della comunica-zione teatrale.

Anche Natalia Ginzburg (Palermo, 14 luglio 1916 – Roma, 7 ottobre 1991), autrice raffinata, di successo duraturo sebbene non clamoroso, si serve di una lingua che, pur rispecchiando la società borghese degli anni ’60, risulta poco viva, con frasi troppo verbose e una costruzione sintattica troppo ricercata per essere efficace sul palcoscenico. Ma nel suo caso tali scelte sembrano obbedire a una strategia intenzionale: la ripetizione delle stesse battute, che passano di bocca in bocca o che vengono ridette in modo ossessivo dallo stesso personaggio, crea un effetto a spirale simile ai tormentoni espressivi di Thomas Bernhard, per quanto non altrettanto audace ed estremo. Inoltre l’impressione che il vo-cabolario sia uniforme, che tutti i personaggi possiedano identico linguaggio e identico background non risulta un limite dell’autrice quanto piuttosto una sua provocazione, l’idea che “tutto il mondo è paese” e che dunque gli aspiranti artisti, di cui la drammatur-gia della Ginzburg è piena, soccombano alla stessa frustrazione, agli stessi malumori; e che tutte le coppie s’imbattano in identi-ci problemi per colpa di un decadimento morale, di una crisi di valori che investe l’intera società (L’intervista, La poltrona, Paese di mare, La parrucca, Dialogo, La porta sbagliata). La somiglianza è rafforzata dalla forte comunanza che esiste nelle ambienta-zioni e nelle tematiche delle commedie: il lavoro manca o non è redditizio o non dà soddisfazione; le difficoltà finanziarie

sono continue e insolubili; le tecnologie, utilizzate con disagio e timidezza, tradiscono proprio quan-do sarebbero necessarie; le case in cui i personaggi abitano, provvisorie, scomode, con arredi poveri e malandati, s’assomigliano tutte; le donne soffrono di problemi psichici e devono ricorrere agli analisti (con scarsi risultati); fra le generazioni si misura una distanza incolmabile che crea scontri e incompren-

sioni... L’uniformità del linguaggio non fa che ribadire le analogie che si ri-mandano da com-media a commedia, rappresentando nel

complesso una sommessa, ironica, dolorosa rappre-sentazione di un dissesto sociale, visto attraverso lo sguardo femminile.

Linguaggio di rara maestria è invece quello di Franca Valeri (pseudonimo di Franca Maria Nor-sa, Milano, 31 luglio 1920), realistico, orecchiabile, frizzante, un fiume in piena che travolge chi ascolta o legge, differenziato sapientemente da un perso-naggio all’altro, ognuno dotato di un proprio ritmo, un proprio intercalare, un proprio dialetto, e vizi formali capaci di fare, di ciascun parlante, un essere

Il tema dominante sembra il vuoto della mancanza - che già negli Écrits

del ’66 Jacques Lacan individuava come il centro dell’identità

Lella Costa (foto di Samuele Pellecchia/Prospekt)

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unico, memorabile, del tutto riconoscibile in mez-zo alla folla di comparse che lo attornia e al caos di fatti spesso strampalati che lo travolgono. Risultato, certo, di un’attenta cura che l’autrice dedica ad ogni frase, ma anche della sua vasta e intelligente espe-rienza d’attrice (Sketches, La cocca rapita, La cosid-detta fidanzata, Le catacombe, Meno storie, Tosca e le altre due, Sorelle, ma solo due, La vedova Socrate). Le commedie e gli atti unici della Valeri hanno trame ben imbastite che procedono con ritmo coinvolgen-te verso l’epilogo sempre innovativo e ricco d’effetto; i colpi di scena, i rilanci sono posizionati ad arte lungo l’arco della narrazione in modo da evitare punti morti. Quanto ai monologhi e agli sketches brevi, la smodata parlantina dei protagonisti è ab-binata ad un’assoluta capacità di sintesi nel racconto delle vicende, creando testi equilibrati ed efficaci. Le tematiche sono comuni: la donna, sconcertata dai cambiamenti dell’Italia del dopoguerra, impre-parata, vittima, s’illude di poter affrontare le novità ricorrendo alla sua abilità di organizzatrice, ma non fa che combinare pasticci; la borghesia, fiera di sé, ostinata, pretende di rinnovare il mondo variando l’arredamento delle sue ville e dei suoi palazzi e, all’inevitabile scontento che ne segue, stupidamen-te attribuisce il proprio fallimento agli architetti e agli operai; l’uomo appare come pianeta a sé, lonta-nissimo da quello femminile, indecifrabile, irritan-te, sicché la noia è l’unico risultato certo della vita di coppia; la cattiveria o il vittimismo delle donne si sfogano nel pettegolezzo, nell’autolesionismo, nell’apparenza che pretende di sostituire la realtà, nella chiacchiera autoreferenziale, os-sessiva, fagocitante, droga, e protezione dal peggiore dei ne-mici di questa uma-nità - il pensiero.

Sensibile, attenta all’interiorità è la scrittura di Donatella Diamanti (Carrara, 1 luglio 1959) che tanto nel comico quanto nel drammatico concen-tra l’attenzione su pochi personaggi, per indagare con ampio respiro ogni piega del loro animo (Una voce quasi umana, Bulle & impossibili, I veri uomini sputano lontano, La strada all ’altezza degli occhi, Cala la notte). Le sue protagoniste vengono colte in mo-menti cruciali che scompaginano l’ordine e le scelte consolidate delle loro esistenze, sovvertono la linea-rità del tempo, le costringono a riflettere sul passato, a tirare le somme delle proprie responsabilità. Per quanto siano penose e dolorose alcune situazioni in cui si ritrovano, però, i suoi personaggi, mai privi di spirito, continuano a scambiarsi battute divertenti anche mentre improvvisi colpi di scena li scaraven-tano nella loro insuperata infelicità.

Attrici/autrici affermate sia come personaggi singoli sia come compagnia teatrale (“Le Galline”) sono Katia Beni e Sonia Grassi, spesso coautri-

ci, che senza peli sulla lingua, ispirandosi alla propria esperienza (Perla d’Arsella), indagano la vita delle donne moderne impegnate ad imitare gli uomini (Talk scioc, Universo donna e oltre), o troppo prese dai corsi di yoga, Reiki, shiatsu, «pranosutraprotoechipiùnehapiùnemettalogia» (Lesso, lussu-ria e lussazioni) per dedicarsi a se stesse; e Anna Meacci, che con il suo humor pungente e la sua maestria nel raccontare, rende visibili agli occhi di tutti le contraddizioni del mondo, siano esse storico-politiche (Bignami, Stupidi & Banditi) o sociali (La Romanina). Sono tutte toscane.

Lingua vivace e limpida caratterizza i monologhi di Lella Costa (Mi-lano, 30 settembre 1952), che hanno il respiro della chiacchierata a tema libero; come capita nei racconti improvvisati, alla voce narrante si alternano quelle dei personaggi “raccontati” di cui vengono riprodotti gli idiomati-smi, il ritmo, il dialetto, lo stile... (Adlib, Coincidenze, Malsottile, Magoni, Stanca di guerra, Un’altra storia, Precise parole). Appunto nella lingua risiede la facile fruibilità dei suoi testi: un italiano fatto di parole comuni e fami-liari che spesso cede il passo a citazioni colte o “nazionalpopolari”, a remi-nescenze di studi classici, espressioni dialettali, termini tecnici, parolacce, creando un pot pourri adatto a tutti. Una particolarità espressiva della Costa è la citazione, usata in chiave dinamica e propulsiva: le frasi estrapolate da altri testi teatrali e letterari, dalle canzoni e dai melodrammi, dal cinema, dalle fictions televisive, s’intrecciano alle parole dei monologhi, li arricchi-scono grazie alla loro alta qualità, alla posizione strategica in cui vengono collocate, alle reazioni emotive che suscitano, appartenendo a una memoria diffusa e condivisa. Attraverso queste mediazioni emergono i temi portan-ti: la donna descritta in ogni suo ruolo; il rapporto genitori-figli; la società, criticata con durezza, pur nella speranza che una chance di redenzione esi-sta ancora; l’amore come motore del mondo, come legame indistruttibile all’interno della famiglia, come fucina di delusioni cocenti; il teatro come mestiere da imparare ed esercitare alla maniera dell’artigiano, come arte capace di parlare nei secoli, come magia e apertura verso mondi lontani.

Un’attenzione pronunciata alla sperimentazione si manifesta anche nella scrittura di Letizia Russo, soprattutto se i suoi testi vengono letti

più che messi in scena. Singolare è l’uso della punteggiatura: mancano tutti i se-gni d’interpunzione, ad eccezione di una gran quantità di punti fermi che spezza-no, frammentano, distruggono il discorso, infischiandosi delle regole grammaticali. In questo modo l’autrice suggerisce dove

inserire le pause, dove fermarsi per riflettere, dove creare attesa e suspence; il risultato è una sintassi-scrittura angosciata e sussultoria e allo stesso tempo calcolata alla maniera di uno spartito musicale, in voluto contrasto con il lessico-lingua, che continua a mantenersi uniforme, comune, banale.

La nostra indagine rivela una produzione dialettale imponente fra le autrici semi-note, più contenuta fra le autrici note, che però adottano spes-so un parlato con patina o inflessioni semi-dialettali sia per accentuare l’impressione di mimesi realistica sia per rendere riconoscibili i personag-gi.

Un uso sensazionale del dialetto avviene in uno dei non numerosi testi tragici di Franca Rame, Medea, scritto insieme a Dario Fo, sebbene l’attri-ce-autrice sostenga: «né Dario né io ci abbiamo messo niente. L’abbiamo ritrovato e ve lo riproponiamo tale e quale. È recitato in un linguaggio arcaico, un dialetto dell’Italia centrale». Affermazione la cui fondatezza fi-lologica va presa con cautela; il linguaggio in particolare è sospettabile di molte licenze. Ma l’efficacia teatrale del monologo è indubbia, con una Me-dea popolana che dell’archetipo classico recupera il pensiero dirompente, sottratto a leggi e norme; col serrato contraddittorio tra la protagonista e il coro, che traduce due modi antitetici e inconciliabili d’intendere la dignità e l’identità della donna; con la dura solitudine di Medea, eroina di mistico

Eppure rimane un sospetto: che l’elegante sagace autoironia sia

un sottile - e certo inconsapevole - adeguamento alla cultura dominante

Lella Costa (foto di Samuele Pellecchia/Prospekt)

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smabile libera morbidezza della prosa. Le norme metriche vengono rispettate con disciplina, perfino a costo d’eroismo, senza mai barare. I testi (i mo-nologhi Teodia; una tragedia di struttura articolata, Kouros, che ripropone addirittura il coro) ne acqui-stano in leggerezza e rispettano una struttura che nasce quasi soltanto dalle regole metriche. Ospi-tano temi d’importanza sociale (la sofferenza del-la diversità, sia essa sessuale o psichica; il conflitto generazionale), riflessioni sulla solitudine affettiva e sulle diverse manifestazioni d’infelicità indotte dalla mancanza d’amore, considerazioni di notevole

acume sull’arte e in particolare sul teatro e sulla recitazione degli attori; vengono riproposti argomen-ti il cui legame con quelli trattati nella letteratura classica

passa per il riuso che ne ha fatto la psicanalisi, e così acquistano una necessità filosofica e una por-tata epistemologica che li rinnova e li rende com-moventi. I personaggi, diventati nobili, giganteschi per il loro prospettarsi sullo sfondo della tradizione, possiedono una forza estetica e emotiva che li scol-pisce, tutti latori di storie esemplari, raccontate con sapienza, rispettando la tensione necessaria perché il pubblico teatrale si coinvolga e non lasci mai ca-dere la concentrazione.

La poesia di Mariangela Gualtieri (Cesena, 1951), apparentemente acronica, svincolata da rife-rimenti ai luoghi e ai tempi storici, esce dal cuore di una modernità in crisi, che non sa più trovare il bandolo della sua esistenza né ha speranza che l’at-traversamento del mistero la porterà all’approdo del senso. Che i suoi versi siano destinati al teatro non significa che si limitino a contenere la previsione dello spettacolo; nascono piuttosto dallo stretto le-game con la voce, trovano un ritmo che coincide col respiro e confluisce nella battuta dell’attore in scena (Antenata, Fuoco centrale, Parsifal, Senza polvere sen-za peso). E così le frequenti ripetizioni, le anafore sulle quali gran parte di questa lirica è costruita non si giustificano con ragioni retoriche: obbediscono agli stessi meccanismi della poesia orale, al bisogno di ancorarsi a suoni ricorrenti che sappiano stabi-lire un ritmo riconoscibile per chi ascolta e fissare punti di aggancio per la memoria di chi recita - fare insomma, della recitazione, un canto, sottolinean-done le ricorrenze ritmiche e armoniche. Il ricor-so al dialetto o, più spesso, a forme mimetiche del dialetto, così come il linguaggio piano, le strutture sintattiche semplici, l’uso di modi linguistici regres-sivi o infantili promuovono un tratto antiaccademi-co, naturale, di cui la poetica della Gualtieri offre una definizione lapidaria: «Scrivere coi rifiuti della lingua». Coerente col passo semplice del suo lin-guaggio, questa poesia sembra escludere i temi im-

estremismo, pronta a distruggere se stessa e i suoi affetti, in nome della fede in una donna rigenerata; con la secchezza luciferina del suo linguaggio.

E in modo centrale il dialetto interviene nel fenomeno teatrale forse più clamoroso degli ultimi anni, Emma Dante (Palermo, 1967), che lega i per-sonaggi ai luoghi attraverso una lingua impastata di terra e sangue, carnale, dotata di una sonorità onomatopeica che risulta, all’ascolto, violenta, la vera protagonista dei suoi drammi; tanto da far supporre che non tanto la lingua esista per far esprimere i personaggi, quanto che i personaggi esistano solo per dare voce alla lingua. L’impressione è rafforzata dal fatto che nel teatro della Dante non esistono trame né identità psichiche, accennate e gene-riche; esiste un unico gigantesco calderone in cui i tempi si mescolano, si soffre per gli stupri dell’infanzia come per un tradimento appena avvenuto o una morte attesa ma ancora non giunta (mPalermu, Carnezzeria, Vita mia, Cani di bancata, Il festino). Gli argomenti ricorrono con caparbietà ossessiva: la famiglia come nucleo primitivo, sedimento di frustrazioni, nevrosi, segreti mai svelati che devastano le coscienze, albergo di violenze sia fisiche sia psicologiche; la morte sempre in agguato e sempre vincente; le donne, vittime inconsapevoli di un complotto oscuro, sicché solo il dolore riesce a far loro comprendere le terribili regole del mondo; la Sicilia come terra separata, lontana da un’Italia astratta, leggen-daria, non credibile; l’ossessivo ritornare del passato; la paura del giudizio altrui; l’assenza o l’eccesso di averi (cibo, soldi), agognati con bramosia, sperperati senza criterio.

Prestiti dialettali, neologismi inventati attraverso un uso così creativo e personale del parlato da far pensare a un idioletto entrano nello stupe-facente impasto linguistico di Mariangela Gualtieri. La Gualtieri scrive in poesia: una pratica non eccezionale, per quanto sorprendente; anzi è piut-tosto diffusa, soprattutto fra le autrici meno note. Ce ne siamo chieste la ragione. Si può supporre che il verso, per l’assimilazione alla scrittura lirica e dunque intimista, dia l’impressione, alle donne che si cimentano con un genere viceversa pubblico e commerciale, di trovarsi ancora nel territorio del privato e della soggettività, e dunque intimidisce di meno. Si può sup-porre, con Virginia Woolf (Le donne e il romanzo), che «la maggiore imper-sonalità della vita delle donne stimolerà lo spirito poetico», proponendo problemi esistenziali più che concreti e sociali. Si può anche supporre che la difficoltà, già notata, ad orchestrare le strutture drammaturgiche, sia so-stituita o aggirata se viene osservata la costrizione delle norme ritmiche, che comunque obbligano a una struttura. La previsione della recitazione, d’altra parte, mentre esalta proprio l’armonia del ritmo, pone le parole poe-tiche in una prospettiva teatrale - e in alcuni casi, offrendo un palcoscenico all’espressione dell’io, celebra il narcisismo che si nasconde (ma resta rico-noscibile) dietro tante scritture di donne. Il fatto poi che molte dramma-turgie nascano come riscritture di opere preesistenti, anche teatrali e spesso in versi, fomenta una tendenza imitativa che spinge a mantenere i caratteri formali delle opere riscritte. Fra le autrici note vanno ricordate almeno Ludovica Ripa di Meana e, appunto, Mariangela Gualtieri.

Ludovica Ripa di Meana (Roma, 11 febbraio 1933) stabilisce un con-tratto difficile: si serve dell’endecasillabo, verso che pare impraticabile nella contemporaneità. Lo usa con rigore, non si concede deroghe, piegandolo alla versatilità di una lingua che, pur mantenendosi sempre elegantissima, accoglie espressioni di gergo, turpiloquio, parole straniere, tecnicismi, modi dialettali. Così l’endecasillabo perde la rigidità declamatoria e l’eccesso di cantabilità che lo rende poco gradevole e maneggevole a teatro, e la patina d’arcaismo che potrebbe condannarlo all’immobilità del passato, acquista una dicibilità che, pur restando musicale, si piega al racconto, all’argomen-tazione del pensiero, al dinamismo del dialogo - ingloba insomma la pla-

E le relazioni fra le drammaturghe italiane? Rare. Raro, pure, il riconoscimento reciproco di

autorevolezza (con poche eccezioni)

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in musical di successo (Accendiamo la lampada, Aggiungi un posto a tavola, Se il tempo fosse un gambero, Alleluia brava gente), paga un doppio scotto: il pri-mo in quanto donna aggiuntasi a un duo artistico già famoso (ai titoli delle opere si trova abbinato sempre e solo il nome dei due uomini); il secondo a causa dei pregiudizi verso il genere a cui s’è dedicata, relegato in una ca-tegoria inferiore e ignorato dalla critica. Eppure le sue trame sono ben re-alizzate, incalzanti, punteggiate da irresistibili gags; i dialoghi serrati, brevi, ricchi di doppi sensi e giochi di parole, raggiungono l’effetto comico senza cadere nel triviale, mantenendo misura e buongusto. I colpi di scena e le canzoni sono distribuiti con precisione geometrica all’interno della vicenda e impediscono che la tensione si allenti. I temi, pur variati, si ripetono spes-so: la vittoria dei buoni sentimenti e della solidarietà; l’amore che unisce per sempre persone diverse e lontane; l’intervento di un essere superiore (appartenente alla sfera divina o a quella magica) che aiuta i personaggi a superare gli ostacoli; la redenzione possibile per chiunque; la certezza che l’avidità porti solo tristezza e solitudine; la satira verso la Chiesa cattolica che sotto l’apparenza della santità nasconde corruzione e disinteresse. La lingua è chiara, accessibile; la comprensibilità non è intaccata nemmeno quando viene mescolata ai dialetti o a presunte lingue antiche, in realtà inventate dall’autrice.

Non abbiamo finora dato conto di un elemento stilistico che percorre gran parte della produzione teatrale delle donne, l’autoironia. Adottata so-prattutto dalle artiste che rappresentano la quotidianità femminile, appare una scelta emotiva più che stilistica. Il suo uso sembra infatti destinato a tenere a bada, attraverso il distanziamento del ridicolo, due possibilità

temibili - e probabili quando si maneggia una materia che, per essere troppo vicina, comporta un’inevitabile identificazione: il rischio di adottare toni celebrativi, mitizzanti se s’insiste sul coraggio smisurato di alcune vite femminili; o al contrario, lo scadimento nel patetico e nel sentimentale. Tanto che in questo secondo caso il modo duro, tranchant della derisione potrebbe essere il travestimento intelligente della lagna; l’irritazione e la noia indotte dalle lamentazioni, insomma, sarebbero sostituite col divertimento prodotto dall’intelligenza. Eppure rimane un sospetto: che l’elegante sagace autoironia sia un sottile - e certo inconsapevole - adeguamento alla cultura dominante. Attraverso la sfumatura sprezzante che contiene, potrebbe ben testimonia-re l’introiezione di quella misoginia che è tuttora dato culturale assai diffuso (se non universale - anche fra le donne), oltre a costituire, da Aristofane in giù, una inalterata, e sfruttatissima, componente del teatro comico occidentale.

Ricorrenti sono anche l’attenzione ai modi ritmici della lin-gua e lo sfruttamento dei suoi aspetti melodici, sebbene perse-guiti con modalità differenti: dalla meticolosa adozione dei metri tradizionali alla scioltezza del verso libero e della prosa poetica, dall’accentuazione dell’aspetto magmatico, fonico e puramente significante della lingua alla reiterazione formulare di espressio-ni identiche, per caratterizzare personaggi e situazioni. Agisce potentemente la suggestione dei suoni e della musicalità, spesso unico elemento connettivo dei testi.

E le relazioni fra le drammaturghe italiane? Rare. Raro, pure, il riconoscimento reciproco di autorevolezza (con poche eccezio-ni). Aggiungendosi all’assenza di forme promozionali (al con-trario di quel che avviene in altri Stati europei), ciò non facilita il costituirsi di quella tradizione che Virginia Woolf auspicava (Una stanza tutta per sé) e che, sola, riteneva capace di autorizzare e dare forza e futuro alla scrittura femminile: «Poiché, essendo donne, dobbiamo pensare attraverso le nostre madri».

portanti, in nome di un limitato attaccamento alla propria esperienza; ma in contraddizione col prete-so suo volo basso, di continuo introduce argomenti metafisici civili filosofici: atti d’accusa contro la ce-rebralità sterile e nevrotica; condanna della presun-zione umana, quando si pone al centro del mondo e disprezza qualunque alterità; dolorosa percezione della Terra Desolata in cui si vive; e poi memoria della bellezza e di un’antica interezza. Di qui anche la celebrazione dei valori positivi: la natura ancora potente e rigenerante, sebbene sfregiata; gli animali innocenti, per quanto sfruttati con insolenza e cru-deltà; e soprattutto l’Amore, cantato in versi alti, ricchi di figure retoriche, legati alla poesia sublime della III cantica dantesca.

Accantonate, oscure nonostante le lunghe e in alcuni casi fortunatissime carriere, sono le nume-rose figure professionali di degnissime autrici di ra-diodrammi e di commedie musicali.

Di Eva Franchi, autrice di una produzione smi-surata, non si sa quasi niente, data l’impossibilità di leggere la sua opera.

Più conosciuta è Iaia Fiastri (pseudonimo di Maria Grazia Pacelli, Roma, 15 settembre 1937). Avendo però collaborato con Garinei e Giovannini

Mariangela Gualtieri (foto di Rolando Paolo Guerzoni)

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Mari Carmen Llerena

Le drammaturghe spagnole e il loro spazio

Anche quest’anno, a dicembre, verrà asse-gnato a Madrid il XV Premio María Tere-

sa León per la migliore autrice teatrale (l’anno scorso la vincitrice è stata l’argentina Laura Blanca Cotón con la pièce Cartas de consuelo). Lo scopo principale del Premio è di incoraggiare la scrittura teatrale delle donne.

Sono passati più di vent’anni da quando le scuole di scrittura, allora ap-pena nate, segnarono il panorama teatrale spagnolo fornendo uno spazio di riflessione e di confronto. Nel 1986, la rivista “Primer Acto” pubblicava un articolo sulla prima generazione di allievi di Sanchis Sinisterra, Fermín Cabal o Alonso de Santos, che si era formata nella Madrid e nella Barcel-lona della neonata democrazia. Si trattava di un gruppo di autori già allon-tanatisi da un tipo di scrittura più “letterario”, con una grande padronanza del linguaggio teatrale, che dichiarava l’influenza di autori come Beckett, Pinter o Müller. Tra questi, fecero la loro prima apparizione anche diver-se donne, come Paloma Pedrero, combattiva femminista, interessata alla ricerca dell’identità, soprattutto sessuale. La drammaturga Laila Ripoll si dice ottimista sul futuro della scrittura teatrale femminile: «A poco a poco la situazione si normalizzerà e non sarà più necessario ricorrere alle quote o roba simile, perché tutto avverrà più naturalmente. Noi autrici teatrali sia-mo davvero poche, di fatto abbiamo iniziato a scrivere per la scena soltanto nel secolo scorso. Se guardiamo al passato, sono pochissimi i testi teatrali in spagnolo, scritti da donne, sopravvissuti fino ai giorni nostri. Qualche riferimento c’è, ma se pensiamo ai nostri secoli d’oro, oltre a Sor Juana Inés de la Cruz e a poche altre, troviamo il nulla. Sappiamo, ad esempio, che la figlia di Lope de Vega, Sor Marcela de San Félix, scriveva commedie, ma dei suoi testi non è rimasta alcuna traccia...».

Tuttavia, la visibilità delle donne che scrivono per il teatro lascia ancora molto a desiderare. Verso la fine degli anni Novanta, e i primi del Duemila, le drammaturghe avvertono il bisogno di unire le forze per accrescere la propria incidenza sulle arti sceniche, creare uno spazio di confronto, di sperimentazione e di produzione teatrale. Nascono così iniziative come gli “Incontri per la visibilità delle donne nelle arti sceniche dei Paesi Ba-schi” (dicembre 2006) o la tavola rotonda intitolata Ellas crean, tenutasi quest’anno a Madrid. Nell’ambito di quest’ultima, la regista Inmaculada Alvear ha sottolineato lo squilibrio tra la popolarità di registi come Ge-rardo Vera, Adolfo Marsillach o José Luis Alonso e l’inspiegabile anoni-mato delle colleghe donne. Secondo Eva Parra, attrice e regista: «Come in altri ambiti, anche nel teatro noi donne rappresentiamo una minoranza. L’uguaglianza è ancora un miraggio, e gli uomini hanno più opportunità. Non so se ciò dipenda da una diversa promozione del nostro lavoro, fatto sta che restiamo nell’ombra. E dire che, fra l’altro, non siamo poche». A detta della Parra, pur se in aumento, la presenza delle drammaturghe in

cartellone è ancora troppo infrequente, forse a causa di una “prassi consolidata” o della scarsa fiducia di chi stila i programmi. La catalana Carme Portacel-li (regista di opere di Ibsen, Marivaux e Müller), che ha portato in scena due spettacoli nei teatri del “Centro Dramático Nacional di Madrid”, afferma: «Non credo né voglio insinuare che vi sia un’azione di boicottaggio verso le donne nei teatri nazionali e pubblici. Come non credo neppure che ci siano mo-tivi razionali dietro lo stato delle cose. Trovo però curioso che a tutti i nostri spettacoli tocchi sempre la sala piccola e mai quella grande. Tutte noi ab-biamo lavorato sodo ma, nonostante questo, non c’è un solo teatro in Spagna la cui direzione artistica sia affidata a una donna». La regista Aitana Galán lavora nelle cosiddette “sale alternative” o di picco-lo formato: «Per i più, se non lavori per un teatro nazionale, è come se fossi impegnata in un’attività clandestina». Secondo lei, facendo l’esempio della regia di un’opera come Cachorros de negro mirar (di Paloma Pedrero), «la stampa e il pubblico ti giu-dicano per il fatto che sei donna, non una profes-sionista. Io, di rimando, suggerisco loro di guardare il mio spettacolo. Se il mio teatro è diverso, non è certo perché sono una donna!». Per quanto riguar-da la promozione del teatro, la Galán sostiene che «bisognerebbe ragionare secondo una prospettiva più “culturale”: io non voglio che mi diano soldi o sovvenzioni, voglio che mi affidino la realizzazione di spettacoli e che il teatro diventi materia di scuola come la musica».

Nell’ultimo decennio sono sorte alcune associa-zioni di autrici teatrali, tra cui “DONESenART” (Valencia), “Federikas” (Granada), “Sonámbulas” (Alicante), “Noctilucas” (Málaga). Un esempio rap-presentativo è il “Projecte Vaca”, un gruppo di don-ne creatrici di Barcelona, che dal 1998 riunisce in un festival tutte le attività e i lavori collettivi realizzati nel corso dell’anno. Di qualche anno più giovane è la “Asociación Marías Guerreras” di Madrid, così chiamata - dice la presidentessa Nieves Mateo - per le diverse letture che offre il riferimento a María Guerrero (1868-1928), poliedrica donna di teatro, e per il gioco di parole “guerrero-guerreras”, che sot-tolinea la lotta per la creazione di nuovi punti di vista. Il loro primo spettacolo collettivo, intitolato Tras las tocas, era basato sulla rivisitazione di grandi personaggi drammatici femminili: Salomè, Medea e perfino la Madonna. In lavori successivi, il gruppo ha reso omaggio a drammaturghe che non avevano ottenuto un giusto riconoscimento in passato. In un

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sulla figura della “Dona Sapiens”, un essere avanzato capace di dominare il pianeta grazie alla selezione dei propri ovuli. Exorcismo, il lavoro delle Guerreras, sempre interessate alle tematiche sociali, racconta la dura storia di una donna violentata da bambina con il beneplacito della madre che nel-la maturità riuscirà ad affrontare il problema e a esorcizzarlo proprio grazie al teatro, avendo così la possibilità di vivere una relazione amorosa con un’altra donna. «La nostra intenzione, con questo incontro, è cominciare a creare una rete, estesa a tutto il paese, per esigere una maggiore presenza della visione femminile nel panorama scenico», spiega l’attrice Eva Parra. Aina Tur, autrice di Vacas, conferma: «Nella maggioranza dei festival non c’è tempo per conoscerci: esponi il tuo lavoro, lo commenti in due parole e te ne vai. Questa è la prima volta che si tiene un Incontro Creativo Vacas-Guerreras, e ciò suppone una sfida».

Il superamento dei problemi legati all’impossibilità di esprimersi porta a un maggior interesse per le tematiche politico-sociali (i continui scambi e contatti con il teatro latinoamericano hanno avuto un ruolo determinante in tal senso: nel 2008, fra gli altri, si è tenuto il “XII Encuentro de Mujeres de Iberoamérica en las artes escénicas” fra autrici spagnole e latinoameri-cane impegnate nei diritti umani e nel femminismo).

Senz’altro due delle autrici più importanti della scena contemporanea di oggi sono la catalana Lluïsa Cunillé e la madrilena Laila Ripoll, le cui ultime opere sono due ottimi esempi di teatro impegnato e attento alle problematiche attuali.

Lluïsa Cunillé (1961) ha partecipato ai Seminari di Drammaturgia Testuale diretti da Sanchis Sinisterra presso la Sala Beckett di Barcellona, e da allora scrive le sue opere sia in castigliano che in catalano. Il suo talento è stato unanimemente acclamato dalla critica. L’austerità e il laconismo tipici della sua personalità (non rilascia mai interviste né scrive prologhi

o commenti: «È tutto nel testo, non c’è altro da aggiunge-re») si ritrovano anche nel suo modo di fare teatro. La sua poetica “della sottrazione”, secondo un’espressione coniata per lei dalla critica, si applica ai diversi aspetti della teatra-lità con modalità differenti: totale omissione dei referenti o dei contesti, rinuncia ora all’antecedente ora alle motiva-zioni dei personaggi, al grado di realtà di una situazione, ma soprattutto alla natura dei vincoli affettivi e all’intensità sotterranea delle emozioni e dei sentimenti. Lluïsa Cunillé ha frequentato per anni i teatri alternativi, di cui faceva parte la Sala Beckett e, all’inizio, era un’autrice apprezza-ta da un pubblico di nicchia (Rodeo, 1992, trad. I. Pani-chi; Librazione, 1994, trad. C. Palmarini, mise-en-espace a cura di Tiziana Bergamaschi). Negli ultimi anni, però, le sue opere hanno avuto una notevole diffusione. Dal 2007 è “drammaturga residente” presso il Teatre Lliure di Barcel-lona (teatro stabile dedicato alla drammaturgia contempo-ranea), e ha l’incarico di scrivere un testo all’anno, anche in collaborazione con altri drammaturghi. Il primo, com-missionato dal teatro stesso, doveva prendere spunto dal rapporto della FAO sulla mortalità infantile nel mondo: la pièce Après moi, le deluge, diretta da Carlota Subirós (in ca-talano e in spagnolo), è stata accolta entusiasticamente sia dalla critica che dal pubblico di Barcellona e Madrid, dove è stata messa in scena in un teatro del “Centro Dramático Nacional”. Scritta per due attori, che però interpretano tre personaggi, parla di un uomo e una donna europei che si incontrano in una camera d’albergo a Kinshasa, capitale del Congo, e di un uomo africano che vuole vendere suo figlio. L’europeo lavora per una società sudafricana che si occupa di estrazioni minerarie; la donna vive da anni nell’albergo,

sistema teatrale ancora oggi sostenuto da finanzia-menti pubblici provenienti dall’amministrazione centrale, municipale o dai governi autonomi, l’asso-ciazione “Marías Guerreras”, pur collaborando con diverse entità, finanzia i propri spettacoli grazie alle quote associative e agli incassi.

Anni di rivendicazioni e tanto lavoro hanno avviato un lento processo di cambiamento, che ha fatto sì che dal 2006 autrici come Laila Ripoll (Los niños perdidos), Angélica Liddel (Perro muerto en tin-torería: Los fuertes), Lluïsa Cunillé (Barcelona, mapa d’ombres) o Verónica Fernández (Presas, insieme a Ignacio del Moral) siano incluse nella programma-zione del “Centro Dramático Nacional”. Secondo la regista milanese Tiziana Bergamaschi, la maggiore maturità della scena spagnola rispetto a quella ita-liana dipende dalla riflessione favorita proprio da questi spazi, così come dai numerosi premi e scuole frutto di un interessamento generale e di una poli-tica volta a tutelare la cultura teatrale, praticamente inesistente in Italia.

Nei primi mesi del 2008, il teatro Cuarta Pa-red di Madrid ha ospitato il primo incontro delle Associazioni di donne delle arti sceniche presen-tando due spettacoli collettivi, rispettivamente di “Projecte Vaca” (Evolución) e di “Marías Guerreras” (Exorcismo de sirenas). Il primo è uno spettacolo di fantascienza che ironizza sulla ricerca genetica e

Laila Ripoll (foto di Carlo Riccardi)

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di Franco si era deciso di fare tabula rasa. Tuttavia, poiché quando l’opera è stata scritta era passato un tempo sufficiente per riuscire a guardare le cose con maggiore distacco, è stato possibile raccontare la ve-rità dei fatti senza pretendere di instaurare processi. La testimonianza orale è per sua natura effimera, per questo è fondamentale fissare la verità, evitando così che finisca nel dimenticatoio. «Sarebbe la più grande delle ingiustizie. E poi c’è il famoso detto:

i popoli che ignorano la propria storia sono condannati a ripeter-la... Attenzione! In questo paese c’è stata una dittatura feroce, e il fatto che negli ultimi

anni si fosse un po’ ammorbidita non toglie nulla all’orrore che ha seminato. Io non capisco la gente che ancora si rifiuta di parlarne... è davvero incom-prensibile in una società come la nostra, basata og-gigiorno su valori totalmente contrari a quelli che portarono alla dittatura. Per me Los niños perdidos (così come Atra bile e La città assediata, 1996, trad. I. Panichi) è un contributo. A cosa? Non so bene, ma leggerla come un omaggio alle nostre famiglie è già una risposta soddisfacente».

dove fa l’interprete per uomini d’affari e trascorre il tempo in piscina. Non ricorda neppure l’ultima volta che è uscita. In passato i due erano rimasti stregati dall’Africa e ne avevano fatto un rifugio per le loro esistenze. Man mano che parlano, però, la cruda realtà del mondo circostante, segnato dal-le ingiustizie, penetra nella stanza in cui si trovano, e inevitabilmente nelle loro vite. Nonostante gli sforzi compiuti fino a quel momento per non vedere tanto orrore. Secondo la regista, in quest’opera la Cunillé riesce ad affrontare il terribile dramma della miseria africana evitando con sapienza di dare voce a ciò di cui non ha esperienza diretta: il tema, infatti, viene af-frontato dalla prospettiva europea, lasciando trapelare il dolore legato alla coscienza sporca e la paura di fantasmi che non sappiamo ge-stire. Il testo è essenziale, austero e magico. Degli ultimi testi di Lluïsa Cunillé ha detto l’attore Jordi Dauder, esprimendo un sentire comune della critica, che, insieme a quelli del drammaturgo Juan Mayorga, sono destinati a diventare dei classici.

Laila Ripoll (1964) si è laureata in recitazione presso la Real Escuela Superior de Arte Dramático. Nel 1991 ha co-fondato la compagnia “Mi-comicón” , in cui ha lavorato come attrice, autrice, regista, costumista, sce-nografa e tecnico delle luci. Attualmente insegna interpretazione in diversi centri. Si è dedicata a lungo agli adattamenti del teatro classico spagnolo. Nonostante la sua formazione classica, la Ripoll è stata la prima dramma-turga vivente ad andare in scena al “Centro Dramático Nacional” (1996). Per riuscire a dare visibilità ai propri testi è stato fondamentale per lei avere una compagnia propria: «Credo che, data la situazione, convenga! Altrimenti non ci sono tante possibilità di portare in scena testi nuovi, soprattutto se non si è ancora conosciuti. Avere una compa-gnia propria offre una libertà unica. Solo dopo aver messo in scena un buon numero di opere si cominciano a ricevere delle commissioni». Nel 2006 la Ripoll ha partecipato a un incontro a Roma sulla drammaturgia spagnola, organizza-to da Caos Editorial, l’Instituto Cervantes e l’Accademia Silvio D’Amico, in cui sono state messe in scena due sue opere, Atra bile (2000, trad. B. Foresti, 2006, messa in scena dell’Accademia Silvio D’Amico) e Il giorno più felice della nostra vita (2001, trad. collettiva di studenti di Pisa, 2006, messa in scena da “La Musica e l’Anima”). Durante un’in-tervista ha dichiarato che l’opera a cui si sentiva più legata in quel momento era Los niños perdidos (che era l’ultima, dopo la quale ha scritto solo Frida, 2008): il motivo era, principal-mente, il processo creativo, molto particolare e bello, della sua scrittura: la pièce parla della situazione dei bambini che dopo la guerra civile sono rimasti orfani dei loro genitori repubblicani, o sono stati accolti negli ospizi dell’Auxilio Social perché i genitori erano in carcere, e denuncia la fame e gli abusi che nessuno ha mai osato raccontare per paura o per vergogna. Il testo, scritto per i quattro attori uomini della compagnia, ha significato per alcuni di loro un viaggio a ritroso in un’infanzia segnata dalla repressione. Grazie a quest’opera, Manu, uno degli attori, ha affrontato il tema con i suoi genitori per la prima volta. «Al termine di ogni serata, tanta gente si avvicinava a noi per raccontare la pro-pria storia in quegli ospizi, che sono rimasti aperti fino al ’76. Storie da far accapponare la pelle!». Nel 2006, c’è stata una messa in scena interamente dedicata a questi “bambini persi”.

Secondo la Ripoll, l’interesse per la pièce da parte del pubblico è andato al di là del fatto teatrale: dopo la morte

Le drammaturghe avvertono il bisogno di unire le forze per

accrescere la propria incidenza sulle arti sceniche

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Antonietta Sanna

Voci femminili sulla scena francese

Come sta la drammaturgia francese contem-poranea? Forse è questa la domanda da cui

bisogna partire per poi puntare l’attenzione sulle voci femminili che emergono oggi sulla scena d’oltralpe.

Se portiamo per un istante lo sguardo sulle manifestazioni internazio-nali dedicate al teatro non è difficile osservare che la drammaturgia fran-cese occupa uno spazio di rilievo. In particolare nei paesi dell’est europeo, interessato da più di un decennio a un confronto dinamico con la parte ovest del vecchio continente. Se prendiamo in esame, ad esempio, la scena ceca, da sempre aperta alla cultura francese, oltre che a quella inglese e te-desca, e osserviamo i più recenti cartelloni praghesi, notiamo con sorpresa che per quanto interessato più a un teatro spettacolare che a un teatro di parola (non a caso Thomas Bernhard ha avuto un grande successo con le sue rappresentazioni basate su immagini di violenza, di sesso e di morte), il pubblico ha risposto bene alla proposta, accanto ai classici antichi e mo-derni, da Racine e Molière a Jenet, Cocteau e Duras, di autori contempo-ranei come Jean-Noel Fenwick, Eric-Emmanuel Schmitt, Yasmina Reza, Jean-Claude Grumberg, Claude Confortès. Del tutto simile è stata, altro esempio, la risposta del pubblico in Romania, paese in cui la cultura france-se rappresenta ancora oggi un fecondo terreno di contaminazioni e di spe-rimentazioni che ravvivano una tradizione a cui si ricollegano facilmente nomi illustri come quelli di Tzara, Ionesco, Cioran, per citare almeno tre dei grandi del Novecento.

Bisogna dire che da qualche anno la politica culturale francese è mol-to impegnata nella diffusione all’estero del proprio teatro contemporaneo. Ne è un’eccellente prova, in Italia, la manifestazione Face à face - Parole di Francia per scene d’Italia che si inscrive nel programma TERI (Traduction, Edition, Représentation en Italie) giunto quest’anno alla sua terza edizio-ne. Si tratta di un festival promosso dall’Ambasciata di Francia in Italia e organizzato in collaborazione con il Teatro Eliseo di Roma e con il Comu-ne di Milano. L’obiettivo degli ideatori (Olivier Descotes, addetto culturale dell’Ambasciata di Francia in Italia, Antonio Calbi, direttore del settore spettacolo del Comune di Milano, Gioia Costa, traduttrice e studiosa di teatro francese, Christine Ferret, responsabile dell’editoria presso l’Amba-sciata di Francia in Italia e Massimo Monaci, direttore del Teatro Eliseo) è quello di sviluppare un dibattito fra due paesi che hanno una storia e un sistema teatrale assai diversi dal punto di vista organizzativo e culturale, ma che presentano anche qualche elemento di contatto. Nell’ottica di stabilire un vero e proprio dialogo culturale, l’edizione 2009 sarà organizzata sia sul versante italiano che su quello francese. L’Ente Teatrale Italiano e l’Isti-tuto Italiano di Cultura di Parigi, in collaborazione con i teatri francesi, promuovono infatti oltralpe la diffusione del teatro italiano di oggi con letture, traduzioni e rappresentazioni di testi di autori come Roberto Ca-vosi, Ascanio Celestini, Emma Dante, Enzo Moscato, Lina Prosa, Stefano Ricci e Gianni Forte, Letizia Russo, Spiro Scimone, Francesco Silvestri e Vitaliano Trevisan. Un grande ventaglio, insomma, della scrittura scenica

italiana per illustrare almeno in parte la ricerca con-temporanea in campo drammaturgico.

Se si scruta invece il programma francese per le platee italiane si scoprono le opere di Jean-Michel Ribès, Yasmina Reza, Olivier Py, José Pliya, Joël Pommerat, Valère Novarina, Marie N’Diaye, Phi-lippe Minyana, Fabrice Melquiot, Jean-René Le-moine, Jean-Luc Lagarce, Leslie Kaplan, Suzanne Joubert.

Non può non sorprendere la voce delle donne. Uno dei fenomeni più interessanti oggi in questo campo è indubbiamente Marie N’Diaye. Di madre francese e di padre senegalese, nasce in provincia e cresce in un contesto multiculturale. Come nelle favole di un tempo, quando dominava un’editoria li-bera che coniugava l’azione economica con l’azione culturale, Marie N’Diaye, sconosciuta diciassetten-ne, invia un manoscritto a Jerôme Lindon, il patron delle prestigiose Editions de Minuit, che hanno dato vita al nouveau roman. Si racconta ancor oggi che dalla casa editrice presero contatti con la signo-ra N’Diaye e appresero con stupore che l’autrice di quell’interessante manoscritto che aveva fatto vibra-re le narici esperte di Lindon era una giovane liceale. Nacque così il romanzo Quant au riche avenir, che rivelò al pubblico una scrittrice ricca di promesse. I romanzi si susseguono e nel 2001 l’autrice riceve il Prix Femina con Rosie Carpe, ambientato in Gua-dalupa, dipartimento francese d’oltremare, dove la scrittrice vive per un tempo osservando un mondo e un’umanità diversa da quella metropolitana, profon-damente segnata dal suo essere altra. Accanto alla scrittura narrativa prende corpo un’intensa scrittura drammatica. La pièce Providence è messa in scena al Théâtre international de langue française. Ma la vera consacrazione giunge nel 2003 con la rappre-sentazione nel tempio della tradizione teatrale, la Comédie-Française, del suo Papa doit manger. Sarà la prima scrittrice nera, e la seconda donna dopo Marguerite Duras, ad entrare in quel luogo sacro. Il suo teatro sbarca in Italia nel 2007, al festival Face à Face, a Roma, e viene presentato al pubblico proprio con questa pièce, tradotta da Graziano Benelli con il titolo Papà è tornato (Edizioni del Cardo, 2007). Quello che Marie N’Diaye ci porge è uno specchio in cui si riflette una società arrogante, in perpetuo movimento e corrosa da un cieco individualismo. Attenta sul piano stilistico all’uso della lingua e alle sue variazioni, sul piano tematico la drammaturga concentra l’attenzione sulle dinamiche di coppia, di

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atre di Londra e al Théâtre Antoine di Parigi con una messa in scena di Luc Bondy.

Che il tono di Yasmina Reza sia eminentemente teatrale è provato dal fatto che anche nella scrittura narrativa privilegia la forma drammatica. Non a caso il primo romanzo, intitolato Désolation, ha la forma di un mo-nologo e l’ultimo, L’aube le soir ou la nuit, accoglie la forma “drammatica” per raccontare la conquista del potere da parte di un uomo, Nicolas Sar-kozy, personaggio tragi-comico di una società tiranneggiata dalla mancan-za di tempo.

Riportando lo sguardo verso l’exagone, accanto a queste voci, nutrite di risonanze multiculturali, occorre citare la densa produzione dramma-turgica femminile che proviene dal fecondo laboratorio dell’ENSATT di Lione, diretto da Enzo Cormann, e lasciar riecheggiare i nomi di autrici

giovani come Marie Dilasser, Marion Au-bert, Pauline Sales e Claudine Galea. Al centro del loro lavoro è il testo, la qualità della parola, mai impoverita da clichés, sem-pre sorprendente e al servizio di un’azione che celebra il teatro come assemblea, come luogo di emozione poetica e di partecipa-zione sociale e politica. Il monologo, l’atto

unico, l’assenza di scene o sequenze interne caratterizzano spesso la loro scrittura. I luoghi, in genere spogli di oggetti, riuniscono pochi protagonisti che mostrano varie forme di solitudine, di esclusione e umiliazione, e le azioni mettono a nudo il circolo vizioso dei rapporti fra le persone, ridotte a creature irreali sospese fra lo sfibrarsi della vita e l’annientamento nella morte.

gruppo, di società per svelarne i giochi spesso ci-nici e impudenti. È il caso dell’ultima pièce, Hilda, pubblicata con l’editore che la scoprì, e in uscita in Italia, presso Titivullus. È la storia di una ricca e annoiata signora che vuole al suo servizio Hilda, una vivace ed energica madre di famiglia di colore. Al suo “Cercasi” risponde Franck, il marito di Hil-da, alla disperata ricerca di un lavoro fosse anche precario. Ma è Hilda che la donna vuole. L’uomo è costretto per necessità a barattare uno stipendio per il sostentamento familiare contro la moglie. La vita di Franck si svuota, mentre quella della ricca padrona conosce un nuovo vigore. La povera Hilda diventa progressi-vamente proprietà esclusiva della don-na che risarcisce Franck con com-pensi sempre più lauti. Hilda perde così la sua esistenza e i suoi sentimenti per un pugno di soldi. Privata d’ogni traccia di personalità e di umanità, dissec-cata e svigorita alla fine viene abbandonata come un oggetto desueto e senza valore sia dalla padrona che dal marito. Un teatro di parola, quello di Marie N’Diaye, ma agile, quasi leggero, ricco di tensioni e di emozioni, in cui i monologhi e i dialoghi serrati, con pochi personaggi sulla scena, riescono a tessere un discorso dinamico e avvincente.

Un’altra figura di grande interesse è senz’altro Yasmina Reza, attiva in molti campi dal teatro alla letteratura, al cinema. Francese di origine ungherese da parte di madre e russo-iraniana da parte di padre, respira sin dall’infanzia una cultura cosmopolita. Dotata di una naturale predisposizione per le lin-gue, divora la grande letteratura europea orientan-dosi in particolare verso l’arte drammatica. Debutta come attrice e sceneggiatrice e approda presto alla scuola di Jacques Lecoq. Influenzata dalla scrittura di Nathalie Sarraute, consegna al pubblico la pièce Conversations après un enterrement (1987), per la quale riceverà l’ambito Prix Molière. Anche la se-conda pièce, La traversée de l ’hiver (1989), ha un bel riconoscimento con la rappresentazione al Théâtre de la Colline, a Parigi. Ma è soprattutto con Art che arriva il successo. Per questa pièce ottiene per la seconda volta, nel 1995, il Prix Molière. Subito tradotto in molte lingue, il testo viene rappresenta-to nei maggiori teatri europei e statunitensi. Le di-scussioni di due amici sull’arte contemporanea, sul suo significato, il suo linguaggio e il suo mercato, sono lo spunto da cui parte una pungente satira del mondo borghese parigino. L’ultima pièce, Le dieu du Carnage (2008), è stata interpretata da un’artista del calibro di Isabelle Huppert. La statura internazio-nale di Yasmina Reza è attestata da Trois versions de la vie, pièce creata in contemporanea al Burgtheater di Vienna, al Broadway di Atene, al National The-

La qualità della parola, mai impoverita da clichés, sempre

sorprendente e al servizio di un’azione che celebra il teatro come assemblea

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Alicia Tycer

Risonanze femministe nel teatro

Durante gli anni novanta è emersa una nuova generazione di drammaturghe britanniche,

conosciute per la trattazione di argomenti emozio-nanti e per una certa analogia stilistica.

I critici hanno preferito concentrare la loro attenzione sulle questioni che riguardano gli uomini, all’interno dei testi, cosa che minaccia di oscu-rare i contributi apportati dalle donne. In State of Play, il drammaturgo David Edgar, per primo, ha individuato il leit-motiv del teatro degli anni novanta nella “crisi della mascolinità”. Mentre in molti hanno considerato questo periodo come appannaggio dei “maschi”, le drammaturghe spesso hanno recuperato dagli anni precedenti alcuni punti di vista femministi.

Questo articolo indagherà il modo in cui alcune scrittrici contempora-nee di teatro, in Inghilterra, mettono in relazione preoccupazioni personali e politiche, esplorano il ruolo della maternità ed esaminano gli effetti della violenza sulle donne.

Gli anni novanta sono stati in genere recepiti come una decade fru-strante per la scena femminista inglese. In contrasto con l’incremento delle rappresentazioni nel corso degli anni ottanta, il numero di testi che le drammaturghe hanno prodotto nel decennio successivo s’è ridotto dra-sticamente. Tra il 1987 e il 1994, per esempio, la percentuale dei lavori di donne presenti sui principali palcoscenici è crollata dal 17% al 12% (Long 103-5). Inoltre c’è stata una netta frattura generazionale: le drammaturghe della vecchia guardia tendevano ad identificarsi nell’etichetta di “femmini-sta” e “scrittrice donna”, mentre le “giovani” avversavano queste definizioni. In un’intervista per Heidi Stephenson e Natasha Langridge, per esempio, Sarah Daniels espone le proprie ragioni in favore di rappresentazioni più eque: «Il Royal National Theatre ha la parola “nazionale”nel titolo - dov’è l’altra metà della popolazione?». Sarah Kane, al contrario, rifiuta in toto la categoria della donna scrittrice: «Non ho responsabilità come donna scrit-trice, poiché non credo che esista una cosa simile... voglio che il mio lavoro sia giudicato per la sua qualità, e non sulla base del mio sesso, della mia età, classe sociale, sessualità o razza.»

La Kane è stata spesso erroneamente definita una sostenitrice dei pri-vilegi “maschili”, il che in parte è dovuto forse al suo distanziarsi dalla definizione di “donna scrittrice”. Ciononostante vorrei dimostrare che il suo lavoro spesso s’è riallacciato alle modalità femministe, nel collegare as-sieme sfera personale e politica. Blasted, il suo sconvolgente testo di esordio, lega esplicitamente la violenza domestica alle violenze e ai fatti traumatici che avvengono nel mondo. Anche 4:48 Psychosis, suo ultimo lavoro, fonde insieme il personale e il politico, nella trattazione della depressione come punto di partenza per una critica della psichiatria. Inoltre la propensione della Kane alla sperimentazione formale può ricollegarla alla tradizione femminista della narrazione non lineare.

Il topos dei “maschi” piantagrane può aver fatto aumentare le vendi-te, ma la rappresentazione della maternità rimane popolare sulle scene contemporanee. The Striker di Caryl Churchill e Essex Girls di Rebec-ca Prichard mostrano la maternità di ragazze adolescenti, cosa che venne

fortemente attaccata dai media durante gli anni no-vanta. In Nightingale and Chase di Zinnie Harris e in Iron di Rona Munro il personaggio della madre è emarginato, in un caso perché criminale, nell’al-tro perché mentalmente instabile. Mother Teresa is Dead di Helen Edmundson rappresenta una madre che medita sui propri doveri nei confronti dei bam-bini del terzo mondo; mentre Sliding with Suzanne di Judy Upton tratta la lotta di una madre adottiva britannica.

Le drammaturghe mostrano un crescente inte-resse verso la violenza domestica e mondiale. The Madness of Esme and Shaz di Daniels indaga gli ef-fetti psicologici di un abuso sessuale. Ashes and Sand di Upton, Yard Gal di Prichard, Duck di Stella Fee-hily e Mules di Winsome Pinnock dipingono le girl gang e la criminalità in genere. Le donne diventano sia le vittime sia le esecutrici di atti violenti, e così viene confutata la loro idealizzazione come creature meno aggressive degli uomini. Far Away, pezzo mi-nimalista della Churchill, rispecchia il conflitto in corso in Medio Oriente, criticando la violenza della guerra e la mentalità del “noi contro loro”.

Sebbene la critica tradizionale tenda a mette-re le drammaturghe britanniche contemporanee all’ombra della loro controparte maschile, il lavoro di queste scrittrici serve molto a comprendere la nostra epoca e ad ispirare chi nel futuro scriverà per il teatro. Nel suo Feminist Views on the English Stage, Elaine Aston sottolinea il forte potere delle drammaturghe contemporanee: «Mentre moltissi-mi testi della cosiddetta “mascolinità in crisi” sono introspettivi, nichilisti e poveri sotto l’aspetto poli-tico, parecchi... [lavori di donne] trattano i problemi del mondo contemporaneo, le sue disuguaglianze e ingiustizie, in un modo che colpisce per essere lun-gimirante, politicamente attento e aperto alla spe-ranza». [traduzione di Diego Passera]

britannico contemporaneo

Aston, Elaine. Feminist Views on the English Stage: Women Playwrights, 1990-2000. Cambridge: Cambridge UP, 2003

Edgar, David. “Provocative Acts: British Playwriting in the Post-War Era and Beyond.” State of Play: Playwrights on Playwriting. Ed. David Edgar. London: Faber, 1999

Long, Jennie. “What Share of the Cake Now? The Employment of Women in the English Theatre (1994).” The Routledge Read-er in Gender and Performance. Eds. Lizbeth Goodman and Jane de Gay. London: Routledge, 1998. 103-8

Stephenson, Heidi, and Natasha Langridge, eds. Rage and Rea-son: Women Playwrights on Playwriting. London: Methuen, 1997

Nota bibliografica

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Marianne Hepp

Drammaturghe tedesche:

La scrittura teatrale di lingua tedesca gode oggi di una si-

tuazione relativamente favorevole, nonostante i tanto discussi tagli ap-portati ai finanziamenti governativi nell’ambito artistico-culturale.

I teatri della Germania, Austria e Svizzera continuano infatti a realizzare programmi ampi e ben curati; il numero delle sale e degli ensembles è considerevole: in Germania spicca Berlino, con una trentina di istituzioni teatrali oltre al Deutsches Theater; in Austria naturalmente Vienna, in primo luogo con il Burgtheater; in Svizzera i principali teatri sono distribuiti nelle città di Basilea e Zu-rigo e nella capitale, Berna. La tradizione teatrale è viva tuttavia anche in molti altri centri metropo-litani e di provincia che documentano programmi e realizzazioni spesso degne di nota, con registi e attori affermati (www.lrz-muenchen.de/~chwolf/Theaterparadies_Deutschland.html). Ne fanno parte messe in scena soprattutto di drammi noti, ma non mancano scelte innovative, a volte trasgressive. Le rappresentazioni vengono seguite da un vasto pubblico con atteggiamento critico, talora stizzito, sempre interessato; la Theaterkritik è condotta non solo sulle riviste specializzate, ma anche attraver-so diversi canali di informazione e divulgazione. In conclusione, rimane vitale, in Germania e nei pae-si di lingua tedesca, quel circolo virtuoso fra pro-duzione, riproduzione e ricezione, indispensabile tanto all’esistenza dei teatri, quanto alla creatività individuale degli autori.

In tale contesto, andando a osservare la parti-colare situazione delle autrici di teatro, si posso-no segnalare fenomeni contrastanti. Da un lato, il favore della critica. Di recente, i riconoscimenti più prestigiosi sembrano andare proprio ad autri-ci: ricordiamo, oltre al premio Nobel assegnato nel 2004 a Elfriede Jelinek (nata nel 1946), lo Schil-ler-Gedächtnispreis del 1974 conferito a Gerlind Reinshagen (1926-vivente), lo Else-Lasker-Schüler-Dramatikerpreis del 1993 a Kerstin Specht (*1953),

lo Autorenpreis der Thalia-Freunde del 2008 riconosciuto alla giovanissima Juliane Kann (anno di nascita 1982). Altri nomi di autrici premiate, lette e rappresentate anche oltre i confini dei paesi di lingua tedesca, comprendo-no ad esempio quelli di Else Lasker-Schüler, Marieluise Fleißer, Friederi-ke Roth, Katharina Tanner, Dea Loher o Gesine Danckwart.

La contraddizione: nonostante l’accoglienza da parte della critica sia molto positiva, gli Spielpläne dei vari teatri continuano a mostrare una netta preferenza per drammi firmati da autori. Per fare un esempio, il Thalia-The-ater amburghese (www.thalia-theater.de) presenta nella stagione autunna-le del 2008 un unico dramma scritto da una donna. Si tratta dell’opera Das letzte Feuer (“L’ultimo fuoco”) di Dea Loher, definito “Dramma dell’anno 2008” e con ciò insignito del Mühlheimer Dramatikerpreis, il premio per la drammaturgia conferito dalla città di Mühlheim. Un altro sondaggio random porta a risultati analoghi: il Berliner Ensemble (Theater am Schiff-bauerdamm; www.berliner-ensemble.de) propone, nel suo vasto repertorio, solo due titoli di autrici: Medea di Christa Wolf e Gott des Gemetzels (Le Dieu du Carnage) della scrittrice francese Yasmina Reza.

La contraddizione segnalata è solo apparente, in quanto, osservando più attentamente i programmi, soprattutto dei grandi teatri, si nota la presenza in cartellone di autori per lo più appartenenti a un repertorio classico, mentre la sperimentazione riguarda più la regia che la selezione. Constatando dunque come i programmi seguano tendenzialmente la tra-dizione, non stupisce la quasi totale assenza femminile. Le drammaturghe sono casi assai sporadici nella tradizione letteraria di lingua tedesca. Le poche autrici teatrali del passato menzionate dalla critica, per quanto tenu-te in alta considerazione da alcune specialiste di letteratura femminile (es. Gleichauf 2003), non hanno mai raggiunto lo status di scrittrici canoniche. Salvo alcune eccezioni, casi come Luise Adelgunde Kulmus (1713-1762) o Charlotte Birch-Pfeiffer (1800-1868), le quali ebbero grande successo nella loro epoca, i loro nomi sono praticamente sconosciuti. Per tale mo-tivo, un teatro che non voglia o non possa rischiare di lasciare semivuote le sale, preferisce altri nomi, di grande richiamo. Naturalmente è del tutto lecito pensare che, continuando il favore della critica, un sempre maggior numero di drammi di autrici trovi accesso alla “larga distribuzione”, anche in considerazione della quantità sempre crescente di opere pubblicate, dal dopoguerra ai giorni nostri. Le drammaturghe di cui si tratterà brevemente qui di seguito appartengono a tre diverse generazioni artistiche: Gerlind Reinshagen (nata nel 1926) ha visto la prima rappresentazione di una sua opera nel 1968, risale invece al 1979 la “prima” di Jelinek (classe 1946) e al 1992 quella di Dea Loher (nata nel 1964).

Gerlind Reinshagen (nata a Königsberg/Kaliningrad) è da conside-rarsi una delle prime autrici di teatro del dopoguerra. Con la rappresen-tazione del primo dramma, Doppelkopf (si tratta di un popolare gioco di carte da farsi in coppia, il cui nome - letteralmente “testa doppia” - allude nel dramma a una persona dalla personalità divisa), pubblicato e messo in scena nello stesso anno (1968) per la regia di Claus Peymann, l’autrice si fa subito notare come promessa della drammaturgia tedesca contemporanea. Tra i numerosi drammi che seguirono, è da menzionare il collage scenico Leben und Tod der Marilyn Monroe (“Vita e morte di Marilyn Monroe”) del

un teatro di denuncia

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dopo, con i romanzi Die Liebhaberinnen (“Le aman-ti”, 1975, uscito in Italia nel 2004) e soprattutto Die Klavierspielerin (“La pianista”, 1983, uscito in Italia nel 2005), opera da cui è tratto l’omonimo film di Michael Haneke, vincitore del Festival di Cannes nel 2001. Considerando l’insieme della sua produ-zione, Jelinek mostra una decisa preferenza per due generi letterari: il romanzo e il dramma; funge da trait d’union fra i suoi due principali ambiti di in-teresse la scrittura di copioni ricavati da romanzi, in particolare Die Ausgesperrten (“Gli esclusi”) del 1982 (riduzione della sua stessa opera del 1980) e Malina di Ingeborg Bachmann, realizzato da Wer-ner Schroeter nel 1991. La stessa Reale Accade-mia svedese cita, nella motivazione del premio, «il flusso melodico di voci e controvoci in romanzi e testi teatrali, che con estremo gusto linguistico ri-velano l’assurdità dei cliché sociali e il loro potere» (http://www.nobelpreis.org/Literatur/jelinek.htm), sottolineando come l’assegnazione sia dovuta vuoi all’opera epica vuoi a quella drammatica.

La produzione teatrale di Jelinek inizia verso la fine degli anni Settanta con il dramma Was geschah, nachdem Nora ihren Mann verlassen hatte oder Stüt-zen der Gesellschaft (“Cosa accadde dopo che Nora ebbe lasciato il marito ovvero Le colonne della so-cietà”), messo in scena a Graz nel 1979, in seguito dimenticato e riproposto solo nel 1992, questa volta con straordinario successo, al Volkstheater di Vien-

1971, critica del mondo del capitalismo sfrenato unitamente alla sua esal-tazione del miracolo economico e alla distruzione dell’individuo, distru-zione enfatizzata mediante la triplicazione del personaggio principale, rap-presentato da tre diverse attrici, dai ruoli interscambiabili. Marylin Monroe sin dall’inizio fu rappresentata a Glasgow, Los Angeles e Stoccolma, di-ventando la pièce di maggiore successo all’estero; al contrario, ad attrarre particolarmente il grande pubblico tedesco è stato il dramma Sonntagskin-der (“Figli della domenica”), messo in scena nel 1976 dal regista Alfred Kirchner e oggetto di una riduzione filmica per la televisione tedesca. I protagonisti sono adolescenti, residenti in una cittadina tedesca durante la seconda guerra mondiale. Con gli occhi di Elsie, 14 anni, viene focalizzata la situazione bellica per chi è rimasto a casa, soprattutto donne e bambini. Il titolo è da intendersi sicuramente in senso paradossale e ironico. I “figli della domenica” sono, nella communis opinio, “persone fortunate poiché nate di domenica”. Ben gramo è invece il destino, nel dramma, di chi subisce l’impatto della guerra non al fronte, bensì nelle sfere private della vita quo-tidiana. Con i Chorische Stücke (“Drammi corali”), pubblicati in due volumi nel 1992 e nel 1999, Reinshagen realizza la propria concezione di coro drammatico già contenuta in nuce in Doppelkopf e Marilyn Monroe: diversa-mente dal coro dell’antichità, onnisciente e conduttore, il suo coro apporta caos, riflettendo l’opinione comune con la sua arbitrarietà, che pure cerca di sottomettere o cancellare l’individuo. Opera “corale” sicuramente più riu-scita è Die grüne Tür (“La porta verde”, andata in scena a Dresda nel 1999), rielaborazione del mito di Medea. Il dramma, suddiviso in ventitré scene, è ambientato soprattutto sulle scale di un palazzo di cinque piani, piani che simboleggiano l’alternanza di ascesa e discesa della protagonista, che ha come particolare momento di speranza l’ingresso attraverso la porta verde al quinto piano, accesso a un breve episodio amoroso che non mantiene le promesse iniziali. Reinshagen tratta il tema dell’affermazione dell’indivi-duo contro le costrizioni della società. Come nella maggior parte delle sue piecès, la protagonista è una donna, Janna, che rifiuta a lungo di conformarsi, opponendo resistenza alle esortazioni del coro, in questa sede formato dai quattro vicini di casa. Accusata di superbia, si vede infine costretta a cedere al compromesso, facendo ritorno a una forma di vita molto simile a quella precedente e co-stretta, nel farlo, a sacrificare i due figli.

In modo assai più radicale tematizza il problema dell’indivi-duo, inquadrato in un’organizzazione sociale cui può a stento sot-trarsi, la scrittrice, sceneggiatrice e drammaturga austriaca Elfrie-de Jelinek (nata nel 1946 a Mürzzuschlag, in Stiria), di gran lunga l’autrice contemporanea più nota, e sicuramente la più scomoda, discussa e fraintesa. Per certi versi è stata la scrittrice stessa a con-tribuire alla ricezione problematica e controversa della sua opera, dato il suo gusto per una provocazione che va oltre la sfera arti-stico-letteraria, esternandosi anche e soprattutto a livello sociale e politico. In particolare, Jelinek accusa le forze sociali che impe-discono ancora oggi un rapporto di parità tra i due sessi e attac-ca la tendenza conservatrice, dominante nel suo paese, “bersaglio costante” della sua produzione letteraria. In occasione del confe-rimento del premio Nobel, Jelinek ha dichiarato pubblicamente di non volere assolutamente che tale evento venisse utilizzato come “fiore all’occhiello” da un paese nel quale è da molti considerata persona non grata e capace di esprimere giudizi sulla sua persona simili a quello del leader di estrema destra Jörg Haider, che l’aveva accusata di «sputare nel piatto in cui mangia».

Elfriede Jelinek esordisce nel 1967 con una raccolta di poesie, Lisas Schatten (“L’ombra di Lisa”), seguita da alcuni radiodram-mi messi in onda nei primi anni Settanta, accolti con favore dalla stampa austriaca. Il grande pubblico viene conquistato alcuni anni

Gerlind Reinshagen (foto di Isolde Ohlbaum)

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rappresentazioni sui più importanti palcoscenici tedeschi e all’estero. Nelle sue spesso premiate pièces, Loher analizza con acutezza la società odierna e affronta problemi scottanti, focalizzando non tanto fenomeni quali di-soccupazione e inquinamento, quanto sogni e utopie dei singoli. Le utopie, chiariva l’autrice in una delle sue rare interviste, sono desideri irrealizzabili e al tempo stesso irrinunciabili per l’individuo. I suoi protagonisti sono in-felici utopisti che non si stancano di cercare risposte ai grandi interrogativi della vita, pur non riuscendo mai a ottenerle.

Il materiale per il suo primo spettacolo, Olgas Raum (“Lo spazio di Olga”, prima ad Amburgo nel 1992), proviene dal Brasile, dove Loher ha vissuto per un certo periodo di tempo. La trama, incentrata sul tema dei rapporti di forza tra un boia e la sua vittima, si basa su un fatto storico, la

vicenda di Olga Benario costretta a fuggire dal suo paese natale, la Germania, poiché aveva aderito al partito comunista, all’epo-ca fuorilegge; fu inseguita, catturata e tra-sportata in un campo di concentramento nazista, sebbene in attesa di un figlio da un

brasiliano, cosa che le avrebbe garantito il diritto di cittadinanza brasiliana e la salvezza. Nel periodo di reclusione nel campo in cui troverà la morte, la protagonista conquista una forma di libertà interiore, grazie alla capacità di entrare nel particolare codice linguistico creato dal suo antagonista Fi-linto Müller. Con lo spettacolo Tätowierung (“Tatuaggio”, prima nel 1992 a Berlino), che affronta con coraggio il tema dell’abuso sessuale all’interno di una famiglia, Loher inaugura un periodo ricco di rappresentazioni; da menzionarne in particolar modo Leviathan (“Leviatano”, Hannover 1993), Fremdes Haus (“Un altro tetto”, Hannover 1995), Klaras Verhältnisse (“Le relazioni di Chiara”, Vienna 2000) e il dramma in sette parti Magazin des Glücks (“Magazzino della felicità”, Amburgo 2001). Al Thalia Theater di Amburgo ha luogo anche la prima di Das Leben auf der Praça Roosevelt (“Vita in piazza Roosevelt”, sotto la direzione del suo regista preferito An-dreas Kriegenburg), dramma in cui Loher abbozza e intreccia, in 19 piccole storie, frammenti tristi e comici tratti dalla vita di un piccolo gruppo di personaggi relegati ai margini della società. Ciò che li unisce è la piazza Roosevelt al centro della megametropoli brasiliana San Paolo, con i suoi uffici, i suoi bordelli, le birrerie e le sale da bingo. Contrariamente al diffuso stereotipo culturale secondo il quale in Brasile tutti ballano, cantano e sono felici, la vita abbozzata dei tanti protagonisti è una catena di fallimenti e di sofferenze, anche molto concrete; alla fine, i protagonisti restano soli e si limitano a osservarsi a vicenda. L’ultimo lavoro di Dea Loher, Das letzte Feuer (“L’ultimo fuoco”), messo in scena per la prima volta ad Amburgo nel gennaio scorso, è al momento in programma in molti teatri dei paesi di lingua tedesca.

na (regia di Emmy Werner). L’opera rappresenta una forma di continuazione del dramma di Ibsen Casa di bambola, contaminato con l’altro dramma ibseniano Le colonne della società. L’azione, trasferita nella Germania degli anni Venti, offre la possibilità di anticipare il futuro e intende dimostrare come l’emancipazione femminile sia di fatto impossibile non solo all’epoca di Ibsen, ma anche ai giorni no-stri. Il riferimento ad altre opere teatrali rimane una costante anche nei drammi successivi; da ricordare in special modo Burgtheater (1985), il cui sottoti-tolo Posse mit Gesang (“Farsa con canto”) ricorda Nestroy e il teatro popolare viennese. Ma sono soprattut-to le pièces degli ul-timi anni Novanta, tra cui Stecken, Stab und Stangl (“Bastone, stecca e stanga”) del 1996 e Ein Sportstück (“Dramma sportivo”, 1998), a far co-noscere Jelinek al grande pubblico anche in veste di autrice teatrale - successo e fama della quale sono dovuti in parte ai meriti artistici, in parte allo scan-dalo suscitato dalle rappresentazioni. A motivare lo scandalo sollevato dall’opera Stecken, Stab und Stan-gl e la violenta campagna di stampa contro l’autrice è il suo attingere a un fatto di cronaca: l’uccisione di quattro rom, avvenuta il 4 febbraio 1995 nel Bur-genland. A una lettura semplificata, l’opera risulta un atto d’accusa contro la politica xenofoba dello stato austriaco. In realtà, ben oltre un qualunque li-mite “realista”, Jelinek intende presentare il modo singolare di elaborare il lutto da parte della collet-tività austriaca attraverso una particolare tecnica di montaggio di citazioni e l’intreccio di personaggi e voci, ottenuto mediante i ruoli interscambiabili degli attori sul palcoscenico. La pièce Ein Sportstück viene accolta altrettanto sfavorevolmente dalla cri-tica poiché, mettendo in scena una specie di coro greco, i cui componenti indossano imitazioni di prodotti Adidas, Nike o Reebok, attacca l’industria austriaca dello sport e smaschera, nel contempo, la connessione tra entusiasmo sportivo, nazionalismo e guerra, individuando nel fanatismo sportivo una sorta di retaggio nazista. A causa del rifiuto di que-ste e altre pièces da parte del grande pubblico e dei mass media, fino a poco tempo fa la Jelinek preferiva far rappresentare i propri lavori fuori dai confini au-striaci. Solo di recente, per solidarietà con i registi Peymann e Emmy Werner, la vincitrice del premio Nobel ha consentito a far circolare le sue opere nel suo Paese, come nel caso dell’ultimo lavoro, Über Tiere (2006, “A proposito di animali”), la cui prima ha avuto luogo nel maggio 2007 al Burgtheater per la regia di Ruedi Häussermann.

A partire dai primi anni Novanta, ha conqui-stato un posto di spicco nella nuova drammatur-gia tedesca la giovane autrice teatrale e regista Dea Loher (nata nel 1964 a Traunstein in Bavaria), con

Di recente, i riconoscimenti più prestigiosi sembrano andare proprio

ad autrici

Erika Fischer-Lichte, Frauen erobern die Bühne. Dramatikerinnen im 20. Jahrhundert, in Gisela

Brinker Gabler, Deutsche Literatur von Frauen, Zweiter Band: 19. und 20. Jahrhundert, Beck, München, pp. 379-393

Ingeborg Gleichauf, Was für ein Schauspiel! Deutschsprachige Dramatikerinnen des 20. Jahrhunderts und der Gegenwart, Berlino, Aviva, 2003

Helga Kraft e Therese Hörnigk, Eine Welt aus Sprache - zum Werk von Gerlind Reinshagen. Eine kritische Anthologie. Theater der Zeit, 2007

Luigi Reitani, “Niente razzismo siamo austriaci”, Diario della settimana, II, 46 (26 novembre 1997), pp. 57-58

Lia Secci e Hermann Dorowin (a cura di), Il teatro tedesco contemporaneo di lingua tedesca in Italia, Napoli, Edizioni Scientifiche, 2002

Nota bibliografica

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Speciale “Frontiere in Metamorfosi” 2008 Città del Teatro – Cascina

1 - Laboratori, incontri e videoinstallazioni Federica Antonelli, Celeste Bellofiore

Dal 4 al 7 giugno 2008 si è svolto presso La città del Teatro di Cascina (PI) il Festival Frontiere in Metamor-fosi (sentieri interdisciplinari sull ’alterità del teatro e sui luoghi del difforme), una sorta di cantiere che accoglie e inda-ga le mutazioni e le diversità del teatro contemporaneo. Il coordinatore e di-rettore artistico, Alessandro Garzella, ha proposto un programma articolato in opere e performance interdisciplinari, laboratori, studi e incontri. Accanto ai consueti appuntamenti serali con gli spettacoli, è stato presentato il proget-to “Raffronti sulle frontiere”: diviso in due parti, questo percorso collaterale ha visto realizzati tre eventi per la se-zione video (L’acquario della memoria/Bombe sulla testa, CMT videomaking, Figure della devianza) e due per quella degli incontri (Infinito Presente coordi-nato da Silvia Bottiroli e Ide/ali d’arte: i nuovi territori della ricerca teatrale, una tavola rotonda condotta da Cristina Valenti).

Nell’arco delle quattro giornate, il

pomeriggio della rassegna si apre alle ore 17 (repliche alle ore 19, 21, 22, 30), con la proiezione del video dedicato ai bombardamenti del 31 agosto 1944 sulla città di Pisa, rivissuti attraverso le immagini e i racconti degli ormai anziani testimoni. I materiali raccolti sono stati selezionati e realizzati in col-laborazione con la Fondazione Sipario Toscana e l’Università di Pisa (Corsi di Laurea CMT/CTPM, Facoltà di Lettere e Filosofia) e fanno parte del documentario Bombe sulla testa attual-mente in lavorazione. L’installazione è stata realizzata all’interno di uno spa-zio pensato su tre livelli distinti: in pri-mo piano un piccolo monitor sul quale scorrevano a ripetizione le interviste ai testimoni; dietro ad esso, al centro della stanza, uno schermo al plasma sul quale venivano proiettate al rallentatore im-magini con effetto invecchiamento, a cui erano sovrapposti i fotogrammi dei bombardamenti. In terzo piano, su un videowall collocato sulla parete di fon-do, i filmati di repertorio e le immagini si intrecciavano in dissolvenza incro-ciata allo scorrere turbolento dell’ac-qua. La limpidezza della memoria e la testimonianza del ricordo manifestano la loro fragilità e persistenza riaffioran-do da liquidi turbinii formati dall’ac-

qua, componendosi e ricomponendosi in un gioco di colori che alterna il nero della morte al rosso del sangue.

Un secondo appuntamento, nato in collaborazione con l’Università di Pisa e allestito appositamente nel sot-totribuna del teatro, è stato CMT vi-deomaking: un momento dedicato alla proiezione di lavori eseguiti, almeno in parte, nell’ambito dei laboratori tecnici della Città del Teatro, e selezionati tra una serie di video di fine corso, pro-ve finali, tesi specialistiche o progetti “professionali”, realizzati da ex allievi dei Corsi di Laurea in CMT/CTPM. La scelta delle proiezioni ha permesso di mettere in luce le differenti tipologie realizzative: dalla semplice narrazione, ai momenti d’arte, alle riflessioni musi-cali in cui anche gli oggetti della cuci-na acquistano sonorità proprie, fino ai documentari, alle interviste e ai ritratti personali.

Figure della devianza ha richiamato l’attenzione di molti spettatori, ripor-tando alla mente un concetto che pare accantonato dalla società contempora-nea: la devianza. Ideato dalla Città del Teatro, stavolta in collaborazione con il Corso di Laurea CMT/CTPM della Facoltà di Lettere e Filosofia e il Corso di Laurea in “Tecniche di riabilitazione

psichiatrica” della Facoltà di Medicina dell’Univer-sità di Pisa, si avvale della partecipazione artistica di Daniele Segre, per la parte video, e di quella di “Babilonia Teatri” per la performance teatrale. L’idea è nata da un labo-ratorio avviato a novem-bre del 2007 e conclusosi a giugno 2008, articolato in quattro moduli didat-tico-realizzativi basati su colloqui e/o incontri con psichiatri e profes-sori, durante i quali gli studenti hanno riflettu-to sul termine devianza: «Ci siamo interrogati su come affrontare il tema devianza e si è deciso di non mettere al centro la Figure della devianza (foto di Annamaria Benedetto)

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malattia mentale che poco conosciamo direttamente. Abbiamo riflettuto su cosa sia per ognuno di noi deviante e siamo arrivati a dire che forse può esse-re considerato tale qualcosa che è fuori posto», ci ha detto Enrico Castellani di “Babilonia Teatri”.

Il lavoro, suddiviso in tre stazioni, è una sorta di performance video itine-rante, realizzata all’interno dell’ampio hangar della Città del Teatro: lo spet-tatore è catapultato in un ambiente sconosciuto e imprevisto, in cui perde facilmente la percezione della norma-lità. Una piccola porzione di pubblico è accolta in uno spazio chiuso e buio dove l’unica illuminazione proviene dallo schermo presente nella stanza: la prima stazione. Gli spettatori sono ammassati ai lati e “costretti” a segui-re le immagini dei volti dei ragazzi “deviati” trasmesse in loop. All’interno della seconda stanza sono disposti un-dici lettini e sopra ognuno di essi c’è un monitor sul quale scorrono le immagini delle facce dei ragazzi che si racconta-no sovrapponendo voci e storie, in una sorta di coro dissonante: le loro paure, ansie, desideri e gioie vengono vomitati addosso agli spettatori, invasi dal fiume di parole e asfissiati dalla claustrofobia del luogo. La percezione è quella di una violenza psicologica, quasi una gabbia senza uscita in cui si è obbligati a misu-rarsi con il labile confine della “norma-lità” comunemente intesa. Nella terza stazione avviene la performance vera e propria: i ragazzi sono schierati di fron-te al pubblico, appoggiati alla parete come fermo-immagini di foto segnale-tiche; da una piccola finestra del muro dietro loro, si intravedono due persone intente a cucinare. È uno spaccato di “famiglia” che vive in un «luogo chiuso, spesso sordo ad un esterno che non si conosce» - come dichiara ancora una volta Castellani - i cui membri appa-iono «indifferenti e impassibili rispet-to a ciò che accade fuori, intenti solo a cucinare. Sordi, ma allo stesso tempo orchestratori del tutto». In un preciso istante, a seguito di una fase-studio iniziale tra spettatori e “pazienti”, com-pare sul davanzale della piccola finestra una bottiglia di Coca-cola che diviene subito un oggetto di gioco rubato vi-cendevolmente dai ragazzi, dando il via ad «un’azione da cui emerge una vio-lenza di fondo attraverso una serie di passaggi che continuano a modificare e cambiare il senso di ciò che è successo immediatamente prima. Una bottiglia

di Coca-cola diventa un microfono, og-getto del contendere, una battaglia, un gioco, una sfida, una risata, una corsa, una fine», conclude Castellani.

Quest’ultimo lavoro sulla devianza è stato replicato il 4 e il 6 giugno in differenti orari per lasciare spazio ad un incontro tenutosi il 5 giugno, Infinito Presente, realizzato da Silvia Bottiroli in collaborazione con Rodolfo Sac-chettini e prodotto dall’Associazione IRIS e dall’ETI. Il progetto indaga la funzione del teatro in rapporto alla so-cietà contemporanea e consta di quat-tro videodialoghi, due dei quali sono stati proiettati proprio in occasione del festival: Gettare una sonda nell ’ignoto con Romeo Castellucci della “Socìetas Raffaello Sanzio” ed Essere eretici, nel nostro metro di terra con Marco Mar-tinelli del “Teatro delle Albe”. Infinito presente è un titolo che aiuta a riflettere sulla situazione del teatro contempo-raneo e sulle possibili declinazioni che può assumere nel futuro, sullo sfondo di una società in continua evoluzio-ne. L’obiettivo di questo lavoro, come spiega Silvia Bottiroli, è quello di in-

dagare il dialogo tra ricerca artistica e società inteso come «relazione tra le politiche culturali e teatro fine a se stesso». La scelta di ascoltare i pare-ri di registi, e non dei direttori o dei critici teatrali, deriva dalla volontà di riportare un pensiero in forma diretta, quasi un faccia a faccia con il pubblico, dove «lo strumento del video - prose-gue la Bottiroli - mette a nudo i regi-sti attraverso gesti, sguardi e voci». Il videodialogo realizzato con Martinelli sposta il discorso su una visione gene-rale del “fare teatro”, con l’intento di non concentrarsi unicamente sui gran-di circuiti, ma di ampliare lo sguardo verso le province e le realtà marginali con la pazienza di un contadino: «C’è un tempo della semina, uno dell’attesa e uno del raccolto», afferma nel video-dialogo. Romeo Castellucci, invece, focalizza l’attenzione sul festival da lui curato, la Biennale Teatro di Venezia del 2005, parlando del rapporto tra produ-zione artistica e contatto con il pubbli-co, attraverso il racconto, rimarcando il concetto di estraneità del luogo de-putato all’esperienza teatrale, dove lo spettacolo «viene preparato con catti-veria. [...] Io - dichiara Castellucci ad Altrevelocità - amo gli spettacoli catti-vi, quelli che mi tendono una trappola, che mi fanno cadere, mi stanano, mi catturano nel loro giro, nel loro gioco, nel loro tempo».

Strettamente connesso al dialogo sulla questione artistica e politico-culturale del “nuovo” teatro si pone la tavola rotonda che ha concluso le quat-tro giornate di riflessione, Ide/ali d’arte: territori teatrali di ricerca partecipata,

«Indifferenti e impassibili rispetto a ciò che accade fuori,

intenti solo a cucinare. Sordi, ma allo stesso tempo orchestratori

del tutto»

Figure della devianza (foto di Annamaria Benedetto)

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coordinata da Cristina Valenti, docen-te di “Storia del Nuovo Teatro” presso l’Università di Bologna. Proprio il di-rettore artistico del festival, Alessandro Garzella, apre la discussione palesando la necessità di sottoscrivere un manife-sto artistico incentrato su tre obiettivi fondamentali: in primis diffondere e divulgare il teatro contemporaneo - oggi ridotto a prodotto “di nicchia” - in modo da garantirgli una maggiore ri-sonanza; in secondo luogo creare una rete tra governo e istituzioni sul dirit-to alla cultura e all’espressione; infine condividere tale progetto costruendo una rete tra i “nuovi” teatri sparsi sul territorio italiano. Il problema affonda le radici nell’ambito sociale, secondo quanto afferma la stessa coordinatrice in un’intervista apparsa su “Cronache e Sguardi”: «A teatro l’individuo pren-de la parola pubblicamente, di fronte ad una comunità e in quanto membro della stessa. Non credo che nella so-cietà vi siano tanti luoghi con queste caratteristiche, [...] dunque occorre interrogarsi sul rapporto tra ricerca scenica e contemporaneità, il che non significa rincorrere il presente, il nuo-vo». Quanto emerso dalla tavola ro-tonda dimostra che l’area del “nuovo” teatro non è un’unica tendenza ma un patrimonio diversificato; proprio tale differenziazione è quindi una risorsa insediata e diffusa all’interno del ter-ritorio italiano. Il dialogo e la politica possono e devono creare le condizioni perché nasca una fitta rete territoriale in cui convivano soggetti appartenenti a realtà diverse.

L’intento del festival è dunque quello di dare rilievo ai “nuovi” per-corsi artistici, proponendo spettacoli come Nelle mani di un pazzo, diretto da Alessandro Garzella, e incentrato sul discorso della malattia mentale; senza dimenticare le sperimentazioni video presenti nello spettacolo dei “Motus”, Rumore rosa (un lavoro ispirato a La-crime Amare di Petra Von Kant, del re-gista Rainer Werner Fassbinder), dove al centro dello spazio scenico viene inserito un grande schermo sul quale scorrono le immagini dei luoghi vissuti da Petra, Karin e Marlene, le tre prota-goniste della storia.

Insomma, Frontiere in Metamorfosi non soltanto diviene portavoce dei mu-tamenti sociali in atto, ma tiene anche conto del rapporto con lo spettatore, nel tentativo di coniugare queste dif-formi realtà.

2 - Verso il teatro di Kantor: appunti di viaggioEva Costa

«Oggi sono qui perché nella mia vita ho fatto teatro con un certo si-gnore che si chiama Tadeusz Kantor». Ludmila Ryba, ex attrice della compa-gnia “Cricot 2”, ha lavorato per dieci anni sotto la guida del maestro polacco. È stata ospite alla Città del Teatro di Cascina dal 2 al 7 giugno, per proporre un laboratorio dal titolo Attore, oggetto, spazio: passaggi teatrali dal reale verso..., all’interno del Festival Frontiere in Me-tamorfosi. Un laboratorio per giovani attori attorno al lavoro di Kantor, re-alizzato in collaborazione con il Teatro di Pisa, il Teatrino dei Fondi di San Domenico, il Comune di San Minia-to, la Cricoteka di Cracovia e l’Istituto polacco di Roma, nell’ambito del pro-getto speciale “Kantor e la Cricoteka di Cracovia”. Per lei, il primo incontro con il ramo est-europeo dell’avanguar-dia teatrale novecentesca è a Firenze nel 1980, quando fu chiamata per una sostituzione nello spettacolo Wielopole Wielopole. Da allora non ha più voluto lasciare la compagnia: «Non esiste per me un teatro prima di Kantor, non ave-vo mai fatto teatro prima di allora».

Ma com’era il teatro di Kantor? Le fotografie di Maurizio Buscarino, che per anni ha lavorato a fianco del “Cri-cot 2”, ci aiutano, restituendoci i rifles-si visivi di quell’esperienza; il resto lo possiamo desumere dai libri, dalle te-stimonianze, dai pochi scritti che Kan-tor ha lasciato. L’incontro con Ludmila, invece, ci mette a disposizione un’espe-rienza vitale e viva. Al momento delle presentazioni ci dice: «Chiariamo su-bito: Kantor non aveva un metodo, né dei discepoli; al contrario di Grotow-ski non ha mai voluto elaborare una tecnica». Non esiste infatti una scuola kantoriana. Dal lavoro del Maestro lei ha dedotto alcune formule o esercizi che propone poi nei suoi laboratori: «Come in cucina... Mia madre non mi ha mai rivelato le sue ricette, ma io mi ricordavo i sapori, mi ricordavo il ri-sultato finale, e così... sperimentando, le ho riprodotte. In teatro ho fatto lo stesso». Ci sono però alcuni capisaldi riguardo quelle pratiche sceniche, da cui non si può prescindere se vogliamo conoscere il suo teatro. Vecchie scarpe, cornici, vestiti, valigie, una borsetta, se-

die, corde, alcune bambole, due grossi catini, una teiera, una radio-mangia nastri, tantissimi cappelli. Una mas-sa di oggetti invadente, che taglia via una gran fetta del parquet di questa sala prove e occuperà gran parte del nostro lavoro. Ogni cosa che scarichiamo dal-la macchina di Ludmila è polverosa, vecchia, sull’orlo di essere buttata nella pattumiera. Mi viene in mente che in un’intervista, a proposito della metafi-sica kantoriana, Buscarino diceva: «Per Kantor la parola metafisica assume il senso dell’iperbole della fisicità dell’og-getto, l’oggetto nella sua massima rei-ficazione, “scoperto” nella sua realtà al rango più basso». Anche Ludmila ri-mane ferma nel sostenere che «quando l’oggetto è sul punto di essere buttato, allora sì che comincia ad essere interes-sante per l’arte!»

L’affezione per il vecchio, l’usa-to, il povero, il degradato è tipico del teatro di Kantor, ma non solo: anche per Grotowski era in parte così. Il fatto che nello stesso momento storico due grandi maestri abbiano parlato della necessità di un “teatro povero”, non impone necessariamente che uno abbia rubato l’idea dell’altro (anche se spesso - ci svela Ludmila con ironia - «Kantor lo diceva»). Piuttosto è qualcosa che ha a che fare con le origini del popolo po-lacco, con l’Est-europeo in generale: lo stesso Tarkovskij fa un grande uso di questo genere di oggetti nei suoi film. Qualcosa di ancestrale dunque, ma che nello stesso tempo porta con sé l’ere-dità drammatica della Seconda Guerra mondiale. Non a caso è proprio nel pe-riodo che segue la liberazione del Paese, che il regista comincia a dare la caccia a quegli oggetti “pronti” (cioè “immedia-tamente a disposizione dell’arte”) come lui li definirà, tra i rifiuti ai margini delle strade di Cracovia. Così fin da subito impariamo a fare i conti con la convivenza tra attore e oggetto. L’atto-re deve farsi da parte, lasciar vivere l’og-

«Il teatro è il luogo che svela, come un segreto

guado nel fiume, le orme del passaggio

dall’altra sponda alla nostra riva»

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getto, che non è mai soltanto un sem-plice accessorio: «Se fosse così sarebbe morto». L’oggetto è quel che è, quindi «rispettiamo la sua natura»; solo grazie ad una manipolazione concreta e solo grazie all’arte del teatro, potrà allora (e forse) diventare altro. «Siate ingenui», «evitate il privato», «visibilità». Affron-tare l’oggetto come se lo vedessimo per la prima volta, lasciandoci sorprendere ma ricordandoci sempre che siamo da-vanti a qualcuno che ci guarda, e «non in camera nostra o nella nostra cucina privata». E poi? E poi si apre davvero un universo intorno all’oggetto: la ten-sione che crea nello spazio, come riesce - semplicemente stando sulla scena - a catturare l’attenzione ed a vibrare. Ci vengono incontro le sue tante possibili-tà, normalmente assopite dall’abitudine del quotidiano. La scarpa possiamo in-filarla in una mano, la sedia può servirci per poggiare la testa. Che cos’è questo cappello se lascia il suo posto abitua-le? Gli oggetti vivono e chiedono di essere consacrati sul palcoscenico. Fin da subito è evidente la grande concen-trazione che si richiede all’interprete in questo tipo di lavoro: spesso gli atto-ri di Kantor andavano in scena senza sapere esattamente che cosa avrebbero fatto; non c’era una grossa differenza tra prove e spettacolo e il fatto che il regista fosse sul palco con loro conferi-va un rigore particolare all’azione. Non lo faceva per eccentricità, ma perché «non poteva andarsene». Lui e i suoi attori insieme, nel rischio quotidiano che quell’azione comporta: «Una bat-taglia contro l’illusione, che sapeva da

sempre di aver perso, ma che non po-teva far a meno di combattere». Quello che accadeva in scena, infatti, non era altro che la vita, semplicemente.

Una volta presa confidenza con gli oggetti, è il momento del costume, per-ché l’attore - sostiene Ludmila - deve essere sempre consapevole di quello che indossa. Dovremo scegliere un capo di vestiario tra quelli a disposi-zione, ogni volta che andremo ad oc-cupare l’altro lato della stanza, quello meglio illuminato: il nostro piccolo palcoscenico provvisorio. E ancora una volta entra in gioco il concetto di “pri-vato”: è una parola, questa, che riesce perfettamente a rendere l’idea per cui un attore, al momento in cui decide di essere qualcun altro, dovrà indossare qualcosa che comunichi chiaramen-te chi è diventato. Bastano pochi ele-menti, un paio di scarpe, una giacca, un cappello. Dopodiché ci troviamo a svolgere un gioco rigoroso: a coppie in pochi minuti dobbiamo decidere chi siamo, solamente questo. Il resto succe-derà. L’attore, l’oggetto e il compagno di scena. Le osservazioni della regista sono sempre attente e dettagliate, ma allo stesso tempo rispettose, segno di una grande sensibilità. Poi un’altra ri-chiesta ancora: lavorare su un’attività concreta. Un verbo: applaudire, schiaf-feggiarsi, misurare la stanza, cammina-re. Un’azione pratica e non psicologica. Dobbiamo convincerci della necessità di quell’attività e, soprattutto, della sua unicità. In questo tipo di esercizi non si può essere sciatti: la meticolosità è fondamentale, meglio se diventa osses-

siva. I passaggi sono importantissimi perché nel momento in cui rinuncio ad una variante e ne assumo un’altra, deve essere chiaro al pubblico il perché della rinuncia. E questo non significa cadere nella psicologia, solo essere concreti in quello che si sta facendo. Come nella vita.

Il giorno seguente viene proposto un esercizio di composizione. L’oggetto è sempre al centro della nostra azione, ma stavolta in modo completamente diverso. Un po’ di musica ed a ciascuno è assegnato il compito di posizionare qualcosa nello spazio vuoto. Si deve lavorare in maniera da creare una ten-sione rispetto a ciò che viene inserito. Inoltre, adesso, esiste anche uno spazio sonoro. Un’azione a catena, un’istalla-zione che non ha uno scopo estetico, piuttosto una logica tridimensionale-spaziale. La prima scoperta che faccia-mo è che lo spazio non si riempie solo attraverso l’occupazione: è reso vivo dalle tensioni che passano tra questi posizionamenti come linee invisibili. Successivamente siamo noi a sistemarci gli uni con gli altri, a doverci “istallare” nello spazio. Durante il lavoro, tuttavia, Ludmila ci ammonisce: «Svolazzate troppo intorno a voi stessi!». Lo sforzo - dice l’attrice di Kantor - è di dover immaginare qualcosa che resti meno in superficie rispetto a quello che stiamo realizzando.

Fin qui il teatro kantoriano ha si-gnificato un vivo attaccamento al reale ed al concreto, ma Kantor non era solo questo: «Non si può rappresentare la vita se non attraverso l’assenza di essa».

Leggiamo qualche frase dai suoi testi ed emerge subito come il tema del-la morte sia molto forte, nel senso di qualcosa di indissolubilmente legato alla vita: oggetti sottratti al loro destino sociale ed eternati nella loro inu-tilizzabilità, corpi che sono ciò che non resta della/dalla guerra, non reclamati, a cui nemme-no è possibile più dare un nome. Gli spettacoli di Kantor sono pieni di que-sti riferimenti e del resto la sua vita lo era. Il teatro così diventa quel luogo di evocazione - popolato da fantasmi - in cui la morte è presente, la si può per- Laboratorio con Ludmila Ryba (foto di Annamaria Benedetto)

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cepire, perché sta esattamente in que-sto percorso, che è vivo, com’è viva la vita. Venire al mondo per annunciare la propria scomparsa: un atto, quello del morire, che non ha - per Kantor - biso-gno di mitizzazioni o metafore.

«Il teatro è il luogo che svela, come un segreto guado nel fiume, le orme del passaggio dall’altra sponda alla nostra riva». In questo viaggio portiamo con noi alcuni testi: Un vecchio foglio di Kafka, le Città invisibili di Calvino, I Persiani di Eschilo. Li mescoliamo ed a ciascuno ne viene affidata una parte. Ecco allora una città sospesa, l’ombrello rosso come il sole sui morti della bat-taglia, lo straniero, i cittadini, arrivare a cavallo di un pony di pezza e... soltanto aspettare di vedere che cosa succederà «fra l’entrata e l’uscita di scena, dal nero da cui arriviamo e nel nero verso cui ritorniamo».

Coraggiosamente stiamo qui, tra presente e memoria.

3 - Una questione di frontiera Melanie Gliozzi

Parlare di festival è senza dubbio ar-gomento importante in tempi duri per il futuro del teatro in Italia. Da sem-pre il (non)luogo e il (non)tempo del festival sono stati occasione di ritrovo

e rinascita per la comunità, momento di dialogo e verifica di idee che du-rante l’anno fermentavano fra le mura delle sale prove e degli uffici di pro-gettazione artistica. Varcare la soglia, confondere insieme teatranti, pubblico e territorio, questo uno dei significati storici del fare festival, dell’essere parte della festa rituale del teatro. È neces-sario progettare e costruire guardan-do allo sconfinamento delle frontiere come a uno dei punti cardinali su cui lavorare, oggi più di ieri. Frontiere in Metamorfosi è stata una piccola espe-rienza in questa direzione: un cantiere in costruzione, dunque a tratti perico-lante, che vuole leggere la creazione contemporanea nella sua radicale forza di continuo movimento e trasforma-zione, all’incrocio fra arti performative e riflessione critica. Gli spettacoli sono stati scelti rispondendo proprio all’esi-genza di accogliere le molteplici forme e articolazioni del nuovo teatro, attra-verso il tempo. Accanto alla visione installativo-performativa di “Motus” e “Lenz” ha convissuto la tecnologica deflagrazione di immagini dei “San-tasangre” e la rigorosa ricerca ritmica di Teodora Castellucci, ma anche la genuina comicità dei “Sacchi di Sab-bia”; la riscoperta di un teatro fatto di maschere e oggetti ad opera di “Zaches Teatro”, o l’inizio di una problematica indagine sociale ad opera di “Teatrino Clandestino”. Percorsi artistici e storie

di compagnie - giovani e più mature - a volte molto distanti fra loro, che avreb-bero potuto dialogare attivamente pro-prio nel luogo del festival. Lo sviluppo dell’aspetto critico è avvenuto grazie a “Occhi gettati” - foglio quotidiano di cronache e sguardi - a cura della reda-zione intermittente di Altrevelocità, ospite del festival, pronta a stimolare gli artisti affinché raccontassero il proprio processo di lavoro (è possibile consul-tare on-line la sezione su Frontiere in Metamorfosi a cura di Altrevelocità sul sito www.altrevelocita.it).

È evidente però che su questo pun-to ancora c’è una strada da costruire, per fare vivere a fondo gli spazi e creare una rete permanente e concreta di pensieri e azioni. Un festival dovrebbe essere prima di tutto un «luogo da cui nasce pensiero», come ha detto recentemen-te Fabio Biondi (direttore artistico di

L’arboreto di Mondaino) e non una vetrina di mercato: in que-sta direzione penso dovrebbero convogliare le energie di tutti. La sezione interna al festival, “Raffronti sulle frontiere”, è probabilmente quella che me-glio ha intrapreso questa strada, creando percorsi di contami-nazione e dialogo fra contesti e linguaggi diversi, conceden-dosi un tempo più ampio di progettazione e sviluppo che non terminasse con il festival. Progetti interdisciplinari come Figure della devianza, incontri progettuali come Ide/ali d’arte e la presentazione dei video-dialoghi Infinito presente a cura di Silvia Bottiroli sono alcuni dei sassolini seminati in questa edizione: è responsabilità co-mune di direttori, operatori e politici se questi segni saranno utili a sfondare una frontiera o ad innalzarla.

Varcare la soglia, confondere insieme teatranti, pubblico e

territorio, questo uno dei significati storici del fare festival,

dell’essere parte della festa rituale del teatro

“Zaches Teatro”, Faustus! Faustus! (foto di Annamaria Benedetto)

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Speciale “Inequilibrio” 2008

Il Festival Inequilibrio, organizzato a Castiglioncello (LI) dall’Associazione Armunia, è giunto alla sua undicesima edizione. Come ogni anno, è il risultato di una residenza estiva di artisti di di-versa formazione, che fanno del festival uno spazio/tempo in cui si confronta-no le eterogenee tendenze del teatro di ricerca e della danza contemporanea. Quest’anno accanto a nomi affermati, come Cosentino e Abbiati, Castiglioni e Morganti, si sono confrontati giovani artisti come “Teatro Sotterraneo”, Ta-rek Halaby, “EmmeA’ Teatro”, “Edgar-luve”. Ad alcuni di questi teatranti ed alle produzioni che hanno presentato a Inequilibrio, abbiamo dedicato i se-guenti approfondimenti critici.

1 - Il silenzio di Dio nelle performance di Silvio CastiglioniAlessandra Donati

«A quali condizioni una vita vale la pena di essere vissuta?». E qual è real-mente la natura umana? Casa d’altri e Domani ti farò bruciare sono due spet-tacoli apparentemente distinti, ma uni-ti dalle stesse profonde tematiche: il si-lenzio di Dio e l’inadeguatezza dell’es-sere umano. Silvio Castiglioni, attore, autore e regista teatrale, li ha proposti ad Inequilibrio come prima e seconda parte di un’unica pièce. Per entrambi i lavori la drammaturgia è a cura di An-drea Nanni e la concertazione scenica di Giovanni Guerrieri.

Il primo spettacolo è tratto dall’omonimo capolavoro di Silvio D’Arzo, scrittore scomparso nel primo dopoguerra all’età di 32 anni. L’attore lo propose, sotto forma di lettura, per la prima volta al pubblico due anni fa e da subito avvertì la tensione che il racconto creò tra gli ascoltatori. Un au-stero prete di campagna ed una misera vecchia, Zelinda, sono protagonisti di un dialogo senza parole, una guerra fatta di mutismi, sguardi e segnali pre-sunti: al di sopra resta una domanda sospesa, che non si ha il coraggio di pronunciare ed alla quale non si può

rispondere. D’Arzo crea una crescente suspense attraverso il silenzio dei luoghi in cui si svolge la vicenda. Castiglioni indossa le maschere vocali di entrambi i personaggi, contrappuntato da suo-ni campionati che evocano i paesaggi purgatoriali dei protagonisti. La figu-ra del sacerdote è caratterizzata dalla consapevolezza del potere esercitato sui fedeli che diventa sinonimo del co-mando della Chiesa sugli esseri umani. Nella rappresentazione di Castiglioni l’autoritarismo ecclesiastico viene reso scenograficamente per mezzo di un altissimo seggiolone di legno, di cui la lunga tonaca nera del prete nasconde interamente le gambe, che innalza e blocca l’attore al di sopra del pubblico, circondato da microfoni che alludono metaforicamente alla comunicazione alle masse. In questo modo si crea una grande figura statica e rigida, alter ego del ferreo inquadramento ecclesiasti-co. In alcuni momenti il duetto tra il sacerdote e l’anziana donna può essere interpretato come un’improbabile sto-ria d’amore e d’attrazione: l’interesse di lui per la vecchia diventa quasi mor-boso, l’iniziale curiosità si trasforma in una elucubrazione continua sui gesti dell’altra. Tutto svanisce nel momento in cui Zelinda, con l’innocenza di una bambina, scioglie il nodo: in «qualche caso speciale» qualcuno può «avere il permesso di finire un po’ prima?». È contemplata da Dio la possibilità di uccidersi quando si vede ormai l’inuti-lità della propria vita? Rimane in scena l’assordante silenzio del prete, il suo «provare vergogna per tutte le parole del mondo».

Domani ti farò bruciare è tratto dai capitoli Il grande inquisitore e Il diavolo. Incubo di Ivan Fedorovic dai Fratelli Ka-ramazov di Fëdor Dostoevskij. Questa volta ci troviamo davanti all’impla-cabile accusa contro Cristo da parte di un demone che tenta d’incarnarsi rimanendo in bilico tra etere e realtà, interpretato da Castiglioni. Sulla scena l’attore sostituisce il pubblico al silen-zioso Cristo che compare nel romanzo dostoevskijano. Un’unica luce calda, che evoca il fuoco ai margini dell’in-ferno, converge sull’attore dal basso ad

illuminare l’elegante diavolo nel buio della sala. Dalla poltrona su cui è se-duto, l’attore alterna movimenti fluidi a momenti di mancato controllo, sia corporeo sia vocale: gesti rigidi e parole esageratamente scandite, segni tangi-bili della sua instabile condizione e, al tempo stesso, della severità dell’ “eser-cito” di cui fa parte. Castiglioni unisce nel suo demone la figura del sacerdote inquisitore al Diavolo che si manifesta nelle allucinazioni di Ivan Karama-zov: del primo mantiene la personalità, mentre del secondo utilizza la fisiono-mia, l’identità e l’ambientazione.

Dalle parole di Dostoevskij, affida-te al Grande inquisitore, si compren-de che l’inadeguata natura umana non può sopportare la libertà che Dio gli ha dato: l’uomo ne è ammaliato, poiché ha bisogno di un fine per il quale vivere ma, in quanto essere imperfetto, non riesce a sostenerne il peso. Le parole divine vengono seguite solo dai più forti, ma non dai deboli, che rimango-no soli e tormentati. Così colui che ha dato la propria vita per gli esseri umani ha agito come se non li amasse affatto, non comprendendone la debolezza.

Per il demone-Grande inquisitore l’uomo non deve più aspettare Dio e sopportare il suo silenzio, nella soffe-renza. Non c’è più bisogno che Cristo si manifesti: ormai i demoni e i loro adepti stanno prendendo il controllo di queste creature incomplete, di questi «bambini ribelli» che hanno bisogno del comando per vivere sereni. «Loro», come il Grande Fratello di Orwell in 1984, comanderanno il genere umano per il suo bene, dandogli ciò che vuole, il pane materiale e non il pane spiri-tuale, nascondendosi dietro il nome di Dio. In questo modo gli uomini barat-

«A quali condizioni una vita vale la pena di essere vissuta?».

E qual è realmente la natura umana?

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teranno la vita eterna per un artefatto benessere terreno.

In entrambi gli spettacoli si met-tono in dubbio i pesanti dogmi della chiesa, la stessa presenza di Dio e, di conseguenza, l’immortalità dell’ani-ma. Vivere aspirando al Bene oppure, poiché la morte terrena sarà totale, cedere agli istinti, anche ai più bassi. Castiglioni non offre alcuna risposta, il «giallo dell’anima» continua.

2 - “EmmeA’ Teatro”: la sostenibile leggerezza dell’essere Celeste Bellofiore

Un teatro vivo, immediato e ne-cessario, che trova la sua linfa vita-le nella realtà quotidiana: questa è la prerogativa di cui si nutrono i lavori della compagnia “EmmeA’ Teatro”. La coppia siculo-toscana è formata da Norma Angelini, scenografa e co-autrice, e Fabio Monti, autore-attore e regista (con questi collabora l’organiz-zatore Francesco Fantauzzi). Il grup-po ha realizzato gli spettacoli Canta e cammina..., Buttitta, Lampedusa è uno spiffero!!! e Retrò, neorivista di teatro e musica; ha vinto i premi Vigata e Pino Veneziano nel 2007. Monti e l’Angelini sono sbarcati al Festival Inequilibrio di Castiglioncello (LI), portando in sce-na Lampedusa è uno spiffero!!! e Retrò. Il primo è un monologo incentrato sull’inquietante problema dell’immi-grazione a Lampedusa, il secondo è un sguardo malinconico sugli anni trenta del secolo passato.

Il progetto su Lampedusa, nato nel 2006, ha l’intento di procedere in for-ma di work in progress, trovando nelle repliche nuovi spunti performativi, anche attraverso le indagini e le analisi svolte sul territorio dalla compagnia. Lo spettacolo si apre con l’ingresso di Monti dalla platea, a luci ancora spente: il performer comincia a disqui-sire con il pubblico, rompendo fin da subito la quarta parete. Quando sale sul palco, ad accoglierlo c’è una scena scarna, composta da una sedia, un po’ di carta, qualche bottiglia e un videowall: elementi con cui l’attore ci restituisce lo spaccato di un lembo di terra, che nel giro di dieci anni ha subito profon-di cambiamenti. Monti svela l’ascesa di un’isola da sempre vittima dell’emar-ginazione e alla continua ricerca di un

angolino nello “stivale”, ed ora ricca di ville di Vip e oberata di turisti, ma so-prattutto di immigrati. Monti entra ed esce da una serie di personaggi del Nord e del Sud Italia, comici e drammatici, che interpreta con meticolosa maestria e che gli permettono di introdurre al pubblico il racconto. L’alternanza dia-lettale scelta dall’attore rende realistica (ma con tratti caricaturali e parodici) la narrazione: si passa da un lombardo ad un siciliano con genuina semplici-tà e in modo repentino, accentuando la concitazione della storia. A fare da contraltare al drammatico tema sono le musiche di Celentano o di Albano, che si intrecciano in modo paradossalmen-te gradevole alla narrazione.

Accompagnano il tutto le proie-zioni video, curate da Norma Angeli-ni, che di tanto in tanto affiorano per frammentare il racconto, lasciando allo spettatore pochi secondi di respiro prima di essere nuovamente trascinato dalla risacca di parole guizzanti e spi-golose che Monti mette in bocca a po-litici, becchini e donne, ritraendo una realtà scomoda con sagace ironia.

L’ ultimo filmato lascia lo spetta-tore ancora avviluppato alla sedia ad osservare le immagini-documenti che continuano a passargli sotto gli oc-chi, restituendogli panorami idillici di un’isola senza tempo.

Su un differente piano narrativo si colloca Retrò, una produzione ispirata alla rivista di avanspettacolo del primo novecento. Si affrontano con leggerez-za temi come la morte e la guerra, ma anche l’amore e la speranza, attraverso le canzoni, le poesie dialettali e le im-magini che hanno accompagnato il Bel

Paese durante i due conflitti mondiali. Una scena esornativa (tavoli, manichi-ni, enormi drappeggi su cui penzolano vecchie scarpe, vestiti, e ancora proie-zioni video su teli posti al fondo della scena) rispetto a quella di Lampedusa è uno spiffero!!!. Tuttavia, anche in questo caso Fabio Monti, seduto su una sedia in proscenio, attende il pubblico indos-sando un grande scialle di lana: veste i panni di donne vissute in epoca lon-tana, giunte ormai alla fine dei propri giorni. Monti comincia in medias res, recuperando dolci ricordi e stridenti memorie dei suoi avi, che in quell’at-mosfera di sognate musicalità, diventa-no anche i nostri. Il tempo di far ac-comodare l’intero pubblico e il registro narrativo prende una piega differente: dalla declamazione di buffi testamenti si passa ad una trasformazione veloce dell’attore, che si esibisce in un audace foxtrot intento ad intonare canzoni ita-liane di un tempo (Maramao perché sei morto, Sulla carrozzella, Vivere). Lampe-dusa è uno spiffero!!! e Retrò danno fia-to a storie e personaggi in bilico tra la serietà e la leggerezza della vita, cardini fondamentali per i lavori della com-pagnia, attualmente impegnata nella realizzazione del nuovo spettacolo in collaborazione con “Egum Teatro”. Nel gennaio 2009 debutterà con un proget-to teatrale dedicato a Don Milani.

Un teatro vivo, immediato e necessario, che trova la sua linfa vitale nella

realtà quotidiana

Fabio Monti in Retrò (foto di Massimo Schuster)

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3 - Una Scimmia per Claudio MorgantiMaria Bianca Nicolai

Quest’anno, tra gli ospiti di Inequi-librio, troviamo anche un grande per-sonaggio del teatro italiano: Claudio Morganti. Nato a Chiavari nel 1957, inizia a lavorare in teatro nel 1977 se-guendo corsi di formazione per atto-ri presso il teatro Stabile di Genova, sotto l’egida di Carlo Cecchi. Uno dei maestri ai quali si ispira è Carmelo Bene che, per Morganti, rappresenta il modello perfetto di attore: in lui vede incarnarsi l’archetipo di una visione sa-cerdotale e quasi sciamanica del ruolo e della funzione del performer, al punto che Bene assurge ad intermediario irri-nunciabile ed originale dei testi dram-maturgici, ed in particolare dei classici, visitati senza soggezione e con estrema libertà “ri-creativa”.

Nel 1979 forma con Alfonso San-tagata la compagnia teatrale “Katzen-macher”, con la quale fino alla stagione 1983-1984 presenterà quattordici al-lestimenti, tra cui ricordiamo: Il Cala-pranzi di Harold Pinter nel 1984, con il quale la compagnia vinse il Premio UBU; Finale di Partita di Samuel Be-ckett nel 1990; vari testi tratti dall’ope-ra di Büchner (Büchner mon amour). Gli spettacoli della coppia attraversano e raccontano le inquietudini dei giorni nostri attraverso la sperimentazione di nuovi linguaggi, una ri-scrittura per-sonale dei classici e della letteratura

drammatica. L’esperienza prosegue con Le Regine, un progetto individuale di Morganti ispirato ai personaggi fem-minili del Riccardo III di Shakespeare (la pièce è stata rappresentata in ante-prima proprio al Festival Inequilibrio).

Nell’ambito della XI edizione del festival organizzato da Armunia, come anticipato, Morganti ha presentato, insieme a Rita Frongia e a Francesco Pennacchia, La Scimmia - Studio per Woyzeck. Lo spettacolo deriva dal Woy-zeck di Georg Büchner, in cui si mette in scena la storia di un barbiere/soldato semplice, subalterno dell’esercito e vit-tima della vita. Egli per mantenere la compagna ed il figlio (non battezzato) si abbassa ai lavori più umili: diventa il factotum del Capitano e si presta come cavia per gli esperimenti del Dotto-re. Quando scopre il tradimento della compagna impazzisce e la uccide. La storia del Woyzeck, rimasta incom-piuta per la morte dell’autore, parla del

potere, del suo esercizio, dell’umiliazio-ne e della follia.

Lo spettacolo di Morganti, della durata di un’ora, mette in scena solo due personaggi: l’imbonitore/doma-tore e la scimmia. Nel testo di Büch-ner - come si legge nella presentazione della pièce - questi sono due personaggi minori (sempre che la scimmia si possa considerare un personaggio): li trovia-mo nella terza scena durante la quale Woyzeck e la compagna si trovano in un baraccone dove un ciarlatano fa da imbonitore mostrando animali da fiera, tra i quali una scimmia/uomo, masche-

rata da soldato, che rappresenta tutta una categoria di uomini. Il baraccone si può considerare come il simbolo di un mondo, di una natura che viene de-gradata e piegata.

La messinscena di Morganti è am-bientata in uno spazio scenico scarno: solo i due attori, un tavolo con una sedia, la musica, le voci ed i rumori fuori campo. L’autore-attore, nei panni dell’imbonitore/domatore, con in testa un copricapo islamico, una volta illu-minato dai riflettori, avanza, sorride e si ingrazia il pubblico con battute di spi-rito, sarcasmo e spavalderia. Di seguito presenta e fa entrare la sua creatura: la scimmia. Essa avanza timidamente. Il pubblico la guarda divertito: sembra di stare sotto il tendone di un circo. L’im-bonitore/domatore parla della scimmia e con la scimmia, le dà ordini. All’ini-zio essa sembra non capire i comandi ricevuti, poi sorge il dubbio: ma capisce o non capisce? Certo che capisce! Ed il pubblico applaude e ride e si stupisce per un nonnulla, come quando la scim-mia mangia dalla mano dell’imbonito-re/domatore. Lo spettacolo va avanti e diverte. La scimmia gira su se stessa, emette suoni, non sa ancora parlare, entra in contatto con oggetti di uso quotidiano. Il tempo passa e l’animale è sempre meno curvo e sempre più eret-to, finché riesce a camminare perfetta-mente: ecco allora che diventa soldato, il gradino più basso del genere umano. Niente più battute di spirito, a questo punto: si cambia registro. L’imbonito-re si apparta sul fondo della scena e la Scimmia, o meglio l’uomo/Scimmia, diventato il protagonista, si siede al ta-volo, prende la pistola e si uccide.

Nella veste di imbonitore/doma-tore, Morganti ripercorre le tappe del percorso che risale agli anni successivi alla separazione con Santagata: un per-corso che delinea molto bene la poetica dell’autore/attore. Questo studio, che possiamo facilmente accostare anche alle precedenti ri-letture dei classici di Carmelo Bene, propone, con tante va-rianti, una nuova pagina del Woyzeck: come si legge nelle note di presenta-zione dello show, si parla del genere umano, del suo passato, del suo presen-te e del suo futuro. Si parla di potere, comando e autorità, ma senza tortura. Tutta la storia del Woyzeck si conden-sa nell’evoluzione della scimmia, evo-luzione che però segna le tappe di un viaggio verso la morte in cui il sopruso subito si trasforma in follia.

Claudio Morganti e Francesco Pennacchia ne La Scimmia (foto di Andrea Chesi)

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4 - C’era una volta un re: la Malacorte di “Zoe” Annastella Giannelli

Nati come compagnia solo nel 2004, gli “Zoe” non sembra abbiano mai indossato, neppure agli inizi della carriera, le vesti dei teatranti inesper-ti. Gli ex-allievi di Marco Martinelli, partiti dall’Umbria a tracciare una stra-da del tutto personale nel campo della sperimentazione, tornano a calcare la scena con un lavoro originale, travol-gendo gli spettatori con interessanti spunti di riflessione sulle dinamiche di un teatro che paradossalmente, col suo svago bizzarro, va a supplire le man-canze di una politica seria ma inetta. Dopo aver messo in scena negli anni precendenti Vi e Ve di Marco Martinel-li, Rosencrantz e Guildestern sono morti di Tom Stoppard (poi confluiti in una pièce in due tempi intitolata Quartetto d’ombre) e Metallo, ispirato al mito di Eteocle e Polinice; nello scorso luglio Michele Bandini ed Emiliano Pergo-lari (fondatori del gruppo), insieme a Claudio Bilotta, hanno presentato a Inequilibrio lo studio Malacorte, per la regia dello stesso Bandini.

Al calare delle luci il pubblico è immerso negli spazi indefiniti di un castello atemporale, dove un re, inor-goglito dalla luccicante corona di carta che gli impreziosisce la fronte, siede su un trono posticcio. Dal sedile fatto di blocchi di legno che assomigliano tanto a costruzioni per bambini, da spostare e rimontare a piacere, Sua Maestà impartisce ordini al Ministro e al Cuoco, indaffarati nei rispettivi spazi di corte, individuati sul palco-scenico da mobili strutture in metallo che in modo allusivo riproducono gli scheletri di una cucina infarinata e di un camerino-spogliatoio. “Uno spetta-colo sulla crisi del potere” verrebbe su-bito da pensare: un monarca annoiato si fa intrattenere dalla fantasia dei suoi cortigiani trasformisti. E invece tutto questo si colora improvvisamente di varie ed insolite sfumature tematiche quando negli spettatori sorge il dubbio che i tre uomini siano solo degli ami-ci che stanno “giocando” a mettere in scena una storia, col pretesto di occu-pare le vuote ore dell’esistenza. Cosa conservano di vero questi personaggi-attori di quei ruoli in cui sono apparsi all’inizio dello spettacolo non possiamo

dirlo con certezza: qualcuno, tra loro, è davvero un sovrano, o sono tutti ignoti popolani (alcune frasi, “sfuggite” alla dizione perfetta da re e ricadute negli infimi modi di dire paesani, potrebbero farci intuire questo) intenti a mostrarci la loro immaginifica visione del pote-re che, per quanto nata come assurda, richiama gli alti e bassi di una politica a noi molto familiare? Così il trio, da eminente rappresentante dell’ordine pubblico diventa anche la proiezione di chi quell’ordine lo subisce: di noi tutti insomma, quando, stanchi di chi ci go-verna “facciamo il verso” a chi dall’al-to comanda ogni cosa, inneggiando, a tratti, a enfatiche ma poco credibili

soluzioni-speranze per il futuro. Inizia a questo punto il vortice incalzante di significati: l’amministrazione statale viene indagata, condannata, ridicoliz-zata; la vita, noiosa, viene sostituita da una realtà ad hoc inventata al momento, che però non riesce a concretizzarsi a fondo (ogni mini-improvvisazione non arriva mai ad una conclusione); le parti sul palco si passano come in una staf-fetta; il teatro resta svelato nel suo farsi, vivisezionato senza pudore: i rari cam-bi di scena sono a vista, come le prove su un’espressione poco orecchiabile e i litigi su un pezzo assegnato.

Quando poi tutto il caos raggiunge a fatica la quiete, quando chi osserva diventa per un attimo suddito e chi in-terpreta diventa padrone, ecco che una smorfia sulla recitazione, un dissenso su una battuta pronunciata male o un mo-nologo gridato in un paesanissimo dia-letto folignate arrivano puntuali ad in-terrompere la “finzione nella finzione”,

costringendo ognuno a dimenticare la solennità immaginaria di trucco e abi-ti, per rimettere piede in quella “verità” (che sia essa l’attività di corte o la vuota giornata di tre ragazzi qualunque) tal-mente tediosa che a tutti i costi bisogna ancora cercare di fuggire con un’altra creazione estemporanea. Il teatro di-venta allora, ad ogni modo, alternativa alla quotidianità. L’arte, che riempie di senso e domande, viene vista come la seconda faccia della medaglia-mondo, che dovrebbe presentarsi più brillante e felice, ma che poi mostra anch’essa tracce di ruggine, incapaci di riflettere le aspettative di chi nella recitazione ripone le sue speranze. Basti pensare a

quanta difficoltà gli attori incontrano per mettere in piedi una “Storia altra”, a quanto, per la loro fantasia impove-rita da una piatta epoca robotica, sia sempre più ardua l’impresa di trovare sbocchi veramente innovativi.

Un lavoro che nasce come dito puntato sul Potere, ma che si propone insieme anche come esaltazione e cri-tica del proprio mestiere (mostrato da Bandini, Pergolari e Bilotta come un gioco al massacro). Mestiere che riesce mirabilmente a toccare, con le parole di una comicità tagliente, problematiche sociali del tutto attuali, come la crudele contrapposizione forza-popolo, l’in-sensibilità dei governanti, il desiderio di rivolta che nasce dal basso e, infine, l’ineffabilità del destino, che senza pre-avviso, fa girare la ruota della sorte per ridistribuire le parti: basta un istante a fare di un servo un re, e di un re l’ulti-mo dei servi.

“ZoeTeatro”, Malacorte (foto di Noemi Brunelli)

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Cluchey e la Fortezza:gli ultimi due nastri di Krapp

Maria Francesca Stancapiano

vestaglia grigia appare Krapp/Cluchey. Tutto, fuorché l’abbigliamento, rispet-ta la didascalia del testo beckettiano. Lunghe pause mentre l’attore si muove lentamente, estraendo da un cassetto una banana: la mangia, senza fretta, poi butta la buccia a terra. Di nuovo un’al-tra banana, e di nuovo lo stesso gesto di prima. Poi prende il necessario per l’inizio del racconto: un registratore, un microfono, una scatola rilegata da un nastro nero che contiene un numero elevato di bobine; un registro cartaceo, che appoggia con veemenza sulla scri-vania sollevando la polvere (ad indicare come tutto intorno sia “vecchio”, pro-prio come quel sessantanovenne arri-vato alla fine della vita). Il suo muoversi pigramente e il socchiudere gli occhi alla ricerca di «quella bobina», «la cin-que scatola tre», ricordano l’andamento di una vecchia tartaruga, oramai pri-gioniera dei suoi ultimi giorni, in una terra senz’acqua, arida. «Bobina nume-ro cinque, scatola tre»: inizia il raccon-to. «Trentanove anni...», il pannello si anima di scritte, la mimica naturale di Krapp/Cluchey varia a seconda di ciò che sente da quella voce: la sua, solo di qualche anno fa, di trent’anni fa. Non si alza dalla sedia se non per prendere ciò che l’aveva allettato negli anni pre-cedenti: un sorso di alcool. Ed anche compiendo questo gesto, cammina a tentoni e volgendo le spalle al pubblico entra dietro le quinte: dell’atto del bere, gli spettatori ne vedono solo l’ombra.

Tre sono i momenti in cui il volto cambia espressione in modo radicale, sofferente, quasi indispettito da ciò che sta ascoltando, e quindi di ciò che sta ricordando: una ragazza che, sia dal te-sto sia dalla mise en scène, appare of-fuscata e grigia ed evanescente; l’immi-nente morte della madre e il concetto di “vedovanza”; ed il ricordo di quella palla nera che cede ad un cane nell’im-possibilità di rimpossessarsene, ad indi-care l’impossibilità di ritornare indietro nella propria fanciullezza. In queste se-quenze Cluchey si muove come a voler enfatizzare il proprio stato d’animo: è il lato sinistro della vestaglia che con-

Quest’anno il festival Volterrateatro ha festeggiato i vent’anni della “Com-pagnia della Fortezza”, accogliendo compagnie da tutt’Italia e non solo. La guest star, infatti, è stato l’attore ame-ricano Rick Cluchey, ex ergastolano condannato per rapina a mano armata e sequestro di persona. Cluchey ed Ar-mando Punzo, regista della “Fortezza” e direttore artistico del festival, sono accomunati dalla parallela esperienza del “teatro in carcere”, con la differenza che il primo l’ha sperimentata dappri-ma sulla propria pelle e poi si è servi-to di questo percorso di arte e ricerca come scappatoia dalla sua prigionia, anche interiore. Cluchey ha infatti fondato cinquant’anni fa, nel carcere di San Quintino, il “San Quentin Drama Workshop”, dopo essere stato folgo-rato dalle letture dei testi beckettiani e dopo aver intessuto un intenso rap-porto d’amicizia con il drammaturgo irlandese.

Si è iniziato a parlare della compa-gnia teatrale del carcere di San Quinti-no nei primi anni Settanta: ma è stato soprattutto grazie al supporto registi-co di Samuel Beckett che nel 1970 il gruppo ha avuto la possibilità di la-vorare fuori dall’istituto carcerario. A Volterra Cluchey e Punzo hanno por-tato in scena uno dei classici di Samuel Beckett, L’ultimo nastro di Krapp, dandone due diverse versioni: Cluchey mantiene la regia di Beckett, mentre Punzo si serve della propria; l’uno pre-senta lo spettacolo fuori dalle mura del carcere, al teatro Persio Flacco, l’altro dentro la fortezza, nella cappella, con il detenuto Placido Calogero nei panni del protagonista.

Sono due stili completamente di-versi: iniziamo da L’ultimo nastro di Krapp interpretato da Cluchey. Niente sipario: tutto ha inizio a scena aperta. Un grande pannello scuro per i sopra-titoli fa già presagire lo spettatore che la performance sarà in lingua originale, in inglese. Sotto di questo un tavolino, una sedia, una lampada con luce fioca. Seduto con aria tumefatta, stanca, ca-pelli bianchi ed arruffati, avvolto in una

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tinuamente si tocca e porta con gelosia a sé; il lato del cuore. Per due volte, con fastidio, manda avanti la bobina fino al punto in cui descrive il suo unico sta-to di piacere nell’aver amato una don-na, nell’aver provato sensazioni forti, emozioni. Alla fine, con cura, toglie le bobine dal registratore, e sempre con attenzione ne inserisce alcune nuove, vergini, sulle quali registrare gli accadi-menti dell’oggi, il suo sessantanovesi-mo anno. Deride chi era trent’anni pri-ma, e racconta del suo successo sessuale con una certa Fanny, delle poche copie di libri venduti oltreoceano, il tutto con estrema freddezza. Ma è una freddezza che nasconde solitudine e malinconia: quella malinconia di vivere nell’attesa che anima i capolavori di Beckett. Infi-ne, riprende in mano la bobina numero cinque e, rassegnato, decide di ascolta-re quel momento di serenità con una donna in mezzo ad una canneto «ma - si legge nel testo beckettiano - sotto di noi si muoveva tutto, e ci muoveva, su e giù, da un lato ad un altro».

Di tutt’altro stile L’ultimo nastro di Krapp di Punzo. Questi tiene a sottoli-neare, innanzitutto, che non si tratta di un lavoro finito e compiuto, ma soltan-to di un primo studio ricco d’improv-visazioni dell’attore Placido Calogero. Appena entrati nella cappella della for-tezza, lo spazio deputato alla rappresen-tazione, lo spettatore è invaso subito da un forte odore di banane. Sulla scena un tavolino verde con due cassetti su un piano superiore, una sedia; alla de-stra di queste un grande pennello e una matita appoggiati al muro; alla sinistra un registratore di vecchia data e, sotto, uno stereo moderno.

Lo spettacolo ha inizio con Krapp/Calogero che entra ed esce dalla scena, muovendosi come un pinguino infred-dolito, mentre ripete in modo cadenza-to, scandito, un po’ puerile ad alta voce: «Mi piace alzarmi ogni tanto e poi an-darci a fare un giretto per poi tornare qui da me... Krapp». Poi scompare e riappare per tre volte di seguito, por-tando con sé caschi di banane che pian piano invadono ogni angolo della sce-nografia. L’attore indossa un abito gri-gio molto stretto, calzoni corti e scarpe appuntite bianche, come il volto: una maschera che tende a chiarire il tem-po passato. Durante un lungo silenzio l’attore estrae dal taschino una banana: la spoglia lentamente ed avidamente la mangia; così farà con una seconda. Dopo aver inghiottito il frutto, scen-

de dalla pedana ed accende lo stereo: è una voce più posata, lenta, quella che racconta il suo trentanovesimo com-pleanno, ma molto più vivace rispetto al Krapp/Cluchey. Si sentono le prime battute del testo: «Trentanove anni...». Calogero ripete alcune battute che si sovrappongono a quelle riprodotte dal nastro, con intenti comici come quando si compiace di essere riuscito ad astenersi da una quarta banana, ora tristi come quando ricorda una donna da amare o l’imminente morte della madre. In questi passi la faccia diven-ta dimessa, mesta, triste: sembra assi-stere ad una trasformazione da parte dell’attore che introietta il dolore delle parole, dei ricordi. Tuttavia, per esor-cizzare le sofferenze, torna a ripetere le sue entrate ed uscite iniziali ripetendo sempre la frase di prima, come un leit-motiv spettacolare. A un certo punto, al ritorno in scena, sale sulla pedana sopra la quale è collocata la scrivania ed accende il vecchio registratore: non si sente più la sua voce, ma cronache d’epoca sulla crisi dell’agricoltura, a malapena distinguibili dal fruscio della bobina. Nel finale anche Krapp/Calogero, come Krapp/Cluchey, s’im-possessa del microfono per registrare gli avvenimenti del suo presente con lucidità, con ironia e poi con fermez-za. Non c’è rabbia in tutto ciò che dice o che compie, a differenza di Cluchey, ma soltanto tenerezza, compassione quasi, nel non poter tornare indietro: in questo concorre anche il riferimen-to personale, dal momento che l’attore afferra un plastico che raffigura la For-tezza di Volterra. È la sua prigione, il suo presente: una gabbia che l’attore abbraccia come si abbraccia la propria croce. La pièce finisce così come inizia, con Calogero che va e viene sulla scena con l’andatura da pinguino, sofferman-dosi accanto al pubblico alla battuta finale «Krapp...»

Krapp, quindi, è un personaggio che designa la condizione dell’essere umano: il ricordo di ciò che si è stati e di chi si è oggi, sia per Cluchey sia per Calogero/Punzo. Ma Krapp simboleg-gia anche l’attesa di un miglioramento come quella «nuova luce sopra il tavolo che è un miglioramento notevole»: una luce che fa sentire meno soli.

Rick Cluchey in Krapp’s Last Tape (Pepita Promoters)

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La Salomè di Oscar Wilde:

Il presente intervento nasce dal-la lettura critica del recente studio di Alex R. Falzon, anglista e tradutto-re che da oltre vent’anni si occupa dell’opera di Oscar Wilde, pubblicato lo scorso anno per Pacini ed intitola-to Le nozze alchemiche di Salomè. Oscar Wilde e la tradizione ermetica. L’occasio-ne di una recensione si è trasformata in una riflessione più ampia sulla critica wildiana e su come sia mutato il ruo-lo dello scrittore irlandese all’interno del canone letterario anglo-americano negli ultimi decenni. Nelle pagine se-guenti, tuttavia, non vi è alcuna prete-sa di esaustività e completezza, per le quali si rimanda, oltre che al volume sopra citato, agli scritti riportati nella nota bibliografica.

Fino alla fine degli anni ’80 la po-sizione di Wilde all’interno del canone letterario anglo-americano è stata de-cisamente marginale. La tendenza pre-valente della critica fino ad allora era stata quella di considerare lo scrittore irlandese una figura minore nel panora-ma delle letterature anglofone, più interessante per le sue biz-zarre e singolari vicende per-sonali che non per la sua pro-duzione saggistica, narrativa e drammatica. Come scriveva negli anni ’60 Clemente Fuse-ro: «Oggi ancora, Oscar Wilde sconta la frivolezza dei suoi gesti e dei suoi atteggiamenti, con i quali riuscì ad ingannare così compiutamente i contem-poranei e, di riflesso, i posteri, che ancora si teme di passare per ingenui prendendolo sul serio; e nei riguardi stessi della sua opera è di prammatica una certa svagata e saputa suffi-cienza critica».

In Italia, in particolare, osserva Falzon: «Il clima ide-ologico imperante - di stampo cattolico e/o marxista - vedeva ancora nella letteratura fin del siécle un soggetto, a dir poco, “intrattabile”: il primo rimane-va inorridito dall’omosessualità ostentata di Wilde, il secondo

dal suo estetismo esaltato». Tale atteg-giamento fu fortemente determinato, tra l’altro, dai giudizi espressi da criti-ci quali Emilio Cecchi, Mario Praz e Agostino Lombardo, che considerava-no Wilde un personaggio eccentrico, un fenomeno di costume, creatore di opere di carattere essenzialmente epi-gonale e derivativo. Un’analisi più at-tenta dell’opera e della poetica dell’au-tore, libera da ideologismi e pregiudizi, operata in ambito ermeneutico alla fine degli anni ’80 e, poi, durante tutti gli anni ’90, ha messo in luce profondità ben più consistenti individuando, tra l’altro, in Wilde una vena fortemente sperimentatrice e rivoluzionaria, che lo rende per molti aspetti un antesi-gnano del clima filosofico-culturale che caratterizzerà tutto il Novecento. Scrive Falzon: «Tutto ciò [...] subì una svolta notevole a partire dai tardi anni ’80, che videro in lui un profeta della krisis epistemica in atto e, ironicamen-te, un rappresentante in vista di quel “pensiero debole” - e quindi, pretta-

mente postmoderno - che, partendo da Nietzsche e giungendo sino a Heideg-ger, avrebbe infine, e definitivamente, caratterizzato il Novecento sul piano filosofico». Da qualche anno, dunque, Wilde inizia ad essere considerato un innovatore e anticipatore dell’episteme post-moderna. Il revival critico in atto riconosce, in altre parole, all’autore il ruolo di precursore di quei principi e di quelle idee che diventeranno para-digmi fondanti del Post-strutturalismo e del Post-modernismo. Come osserva Laura Giovannelli, infatti, «i concetti wildiani di non-referenzialità dell’arte e di maschera autoriale; i ribaltamenti del rapporto tra verità e finzione, con-tenuto e forma, natura e arte; l’idea della critica come attività creativa, au-totelica e soggettiva hanno contribuito, in epoca contemporanea, a mettere in moto un vasto processo di rivalutazio-ne dell’autore irlandese».

Se è vero, tuttavia, che la critica recente ha restituito a Wilde l’impor-tanza e la centralità di cui gli era stata

una tragedia postmodernaFrancesco Petrocchi

Illustrazione di Klaus Lucas, ispirato alla Salomè

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per troppo tempo debitrice, tale atteg-giamento non sembra aver intaccato la reputazione di una delle sue opere più interessanti e complesse, la Salomè, scritta in francese nel 1893 e tradotta successivamente in inglese da Lord Al-fred Douglas, compagno e amante di Wilde. Nel suo ultimo studio Falzon si inserisce in questo dibattito e compie un’analisi capillare e rivelatrice della tragedia wildiana, gettando nuova luce su quella che, lungi dall’essere un’opera meramente derivativa e decadente, può essere a ragione considerata il dramma più innovativo e rivoluzionario della sua produzione teatrale.

Come è noto, per la Salomè il drammaturgo irlandese ha utilizzato moltissime fonti: dalle Sacre Scritture alla letteratura contemporanea (Mal-larmé, Flaubert, Maeterlinck, Heine), dalla storiografia antica ai dipinti che Gustave Moreau ha dedicato alla figu-ra di Salomè. Nel Nuovo Testamento Salomè è la figliastra del Tetrarca di Giudea Erode, la quale mette in scena la celebre danza dei sette veli, apprez-zata a tal punto da questi da concederle in cambio qualsiasi cosa ella desideri. Istigata dalla madre Erodiade, Salomè chiede la testa di Giovanni Battista su un piatto d’argento. Il re soddisfa tale macabra richiesta. Nel dramma wil-diano, invece, Salomè, poco più che bambina, si invaghisce del profeta e ne chiede la decapitazione quando questi rifiuta le sue attenzioni. L’inquietante finale vede la giovane che solleva la testa mozzata del Battista e la bacia, dichiarando il suo amore per il marti-re. Nella scena conclusiva il re ordina l’esecuzione di Salomè.

Nella Bibbia, dunque, Salomè, nel desiderare la morte del profeta, non appare mossa da una motivazione di tipo sessuale, bensì sembra seguire unicamente gli ordini perversi della madre; si fa strumento di Erodiade, la quale desidera vendicarsi nei confron-ti di Giovanni per aver disapprovato il suo matrimonio adultero con Erode, fratello del marito defunto della don-na. Wilde prende il mythos di Salomè e lo trasforma, vi aggiunge qualcosa di nuovo, di provocatorio. Da “profe-ta laico” egli riscrive l’episodio biblico mettendovi al centro una figura che si rivela essere non tanto una femme fa-tale, quanto piuttosto una femme fra-gile, creatura capricciosa non perché amorale, ma perché ancora immatura,

personaggio liminale, non più bambi-na ma non ancora donna. Riscrivendo in modo innovativo - e sconcertante - l’episodio biblico di Salomè, Wilde crea un’opera non tanto anti quanto post-cristiana. Nel fare ciò egli ricorre alla tradizione ermetica, proiettando il processo alchemico sul mythos biblico. Ma allora la Salomè di Wilde non si configura come l’apoteosi dell’imita-zione e dell’uso indiscriminato dell’in-tertestualità, come molta critica ha er-roneamente sostenuto, bensì come una parodia, una riscrittura critico-creativa dell’episodio biblico.

Quella di Falzon è una lettura in chiave ermetica che rivela come l’al-legoria alchemica interagisca con le strutture più profonde del testo. Ciò consente di leggere e rileggere mol-te scene del dramma sotto una nuova luce, scene che la critica aveva consi-derato criptiche, postulando il ricorso all’uso da parte del drammaturgo di un simbolismo oscuro e, a tratti, gratuito. L’interpretazione dello studioso, fon-data su puntuali riferimenti alla dottri-na alchemico-rosacrociana che Wilde conosceva bene, scioglie le oscurità ri-velando precisi significati ermetici.

Non solo, ma quello che emerge è un dramma rivoluzionario anche a li-vello espressivo-formale. La padronan-za di Wilde di tecniche stilistiche quali la sinestesia, la ripetizione ipnotica, la pausa drammatica, l’uso funzionale di forme di linguaggio non-verbale, in-sieme alla strutturazione triadica del-la tragedia, operata a livello tematico, spaziale, cromatico e prosodico, ren-dono la Salomè, per usare un concetto wagneriano, uno straordinario esem-pio di opera d’arte totale in cui ritmo, linguaggio musicale, paradigmi visivi e simbolici si fondono sapientemente. Si tratta insomma di una prospettiva critica indispensabile per capire le pro-fondità e il senso ultimo di quella che possiamo definire, senza rischiare di compiere un azzardo ermeneutico, una tragedia postmoderna.

In conclusione, un breve excursus sulle rare, ancorché memorabili, rap-presentazioni teatrali della Salomè di Wilde in Italia e all’estero. Nel nostro paese, va ricordato, anzitutto, il con-troverso allestimento di Carmelo Bene (1964), che con sarcasmo e con una ge-nialità solo tardivamente riconosciuta-gli seppe rendere la modernità del testo wildiano, senza cadere nell’esaltazione

del languore estetizzante, cifra di quasi tutte le rappresentazioni italiane pre-cedenti della pièce di Wilde (Bene, nel 1972, ne fece anche un’indimenticabile trasposizione filmica). Più di recente ricordiamo l’interessante contributo di Steven Berkoff - che aveva già messo in scena la Salomè di Wilde in Irlanda e nel Regno Unito tra il 1988 e il 1990 - al Festival di Spoleto (1993): una regia consapevolmente eversiva e lucida che pone l’accento sul rapporto tra amore e male. Non va dimenticata infine, in ambito anglofono, la recente Salomè di Al Pacino (2006), rappresentata in America con un discreto successo di pubblico e critica. Il celebre attore e regista americano ha, tra l’altro, da poco prodotto e realizzato Salomaybe? (2008), versione filmica della tragedia wildiana con Pacino stesso nel ruolo di un moderno re Erode, che contiene scene tratte dalle prove dello spettaco-lo teatrale e un’ambientazione inedita e audace, per cui la reggia di Gerusalem-me diventa un palazzo ubicato nella “decadente” Las Vegas dei giorni no-stri. Il risultato è un interessante “do-cumentario drammatico”, operazione già realizzata da Pacino con il Riccardo III di Shakespeare in Riccardo III - Un uomo, un re (1996).

Cecchi E., Il mito di Oscar Wilde (1928), in Scrittori inglesi e americani, vol. 1, Milano, Mondadori, 1968, pp. 180-187

Falzon A.R., Gli aforismi di Wilde e l’Italia, in Oscar Wilde, le Arti e l’Italia, a cura di M. D’Amico - R. Severi, Palermo, Novecento, 2001; ID., Wilde and Euripides: Dionysus at the Theatre, in The Importance of Being Misunderstood. Homage to Oscar Wilde, a cura di G. Franci - G. Silvani, Bologna, Pàtron, 2003; ID., Oscar Wilde and the Postmodern-ist Shift in the Literary Canon, in Ripensare il Canone. La Letteratura inglese e anglo-ame-ricana, a cura di G. Balestra - G. Mochi, Roma, Artemide, 2007; ID., Le nozze alchemiche di Salomè. Oscar Wilde e la tradizione ermetica, Pisa, Pacini, 2007

Fusero C., Introduzione a Oscar Wilde: Poesie, a cura di C. Fusero, Milano, Dall’Oglio, 1962

Giovannelli L., Le vite in gioco, Pisa, ETS, 1996

Lombardo A., La poesia inglese dall’estetismo al simbolismo, Roma, Edizioni di Storia e Let-teratura, 1950

Praz M., Il patto col serpente, Milano, Monda-dori, 1972; ID., La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930), Firenze, Sansoni, 1988

Nota bibliografica

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La scuola di Jacques Lecoq: il “vero” poeticoElisa Pezzini

Il 5 Dicembre 1956 nasce a Parigi l’Ecole Internationale de Théàtre Jacques Lecoq, ad oggi una delle più prestigio-se istituzioni di formazione teatrale. In essa convergono le esperienze di molteplici generazioni di artisti prove-nienti da ogni parte del mondo, i quali hanno permesso una ricerca sempre più specifica e raffinata verso quello che Lecoq stesso definisce «un giovane teatro di creazione». La grande forza della scuola sono infatti gli allievi che portano il loro modo di concepire e produrre teatro. Da oltre cinquant’anni l’Ecole ospita attori, autori, registi, sce-nografi come pure architetti, insegnan-ti e psicologi: tutti scelgono di affidarsi alla pedagogia lecoquiana fondata sul gusto quasi scientifico con cui la vita ed i suoi movimenti vengono osservati. In questo senso la Scuola è anche una «scuola dello sguardo» dal momento che l’analisi del reale è una costante dell’insegnamento. Ma ciò non sarebbe potuto accadere senza la sensibilità di Jacques Lecoq il quale è riuscito ad at-tribuire valore alle differenze prima di tutto culturali dei propri allievi rivelan-do le possibilità di ognuno e la «bellez-za dei singoli talenti». Maestro celebre nel mondo intero, ha saputo cogliere la saggezza del corpo, ricercando nello studio del movimento e delle sue dina-miche interne la fonte più alta di cono-scenza. Dopo nove anni dalla sua mor-te, la Scuola conserva ancora lo stesso sguardo poetico, grazie alla dedizione con cui gli insegnanti mantengono viva la curiosità, anima della ricerca. Sono tutti ex allievi - anche i figli François e Pascale - che hanno per anni colla-borato con Lecoq e sviluppato un lin-guaggio comune. In ogni istante, dietro le loro riflessioni, dietro l’osservazione obiettiva del fenomeno vivente, resiste la volontà di condurre gli allievi in uno spazio fantastico dove la certezza del reale sia sempre aureolata di una zona di instabilità; e dunque in un territorio di crisi e di continua messa in discus-sione, alla ricerca del “perché”.

Il primo giorno gli aspiranti stu-denti si riuniscono numerosi nell’atrio della scuola davanti all’intera commis-sione di professori. Fanno una breve presentazione, vengono divisi in tre

gruppi, ognuno composto di circa 30 persone; poi i primi due della mattina si trasferiscono in aula dando il via al primo trimestre di prova, che io stessa ho avuto modo di frequentare dal set-tembre al dicembre 2007: la presente comunicazione, pertanto, si limiterà a fornire un resoconto della mia espe-rienza personale, non pretendendo di offrire un quadro definitivo e sistema-tico delle attività dell’Ecole.

Il lavoro si articola in tre direzio-ni: improvvisazione, analisi del movi-mento, creazione personale. Le lezioni si concentrano in sole quattro ore al giorno, ma la particolare impostazione dell’attività porta lo studente a riflet-tere sui contenuti anche e soprattutto nelle ore extra-scolastiche. Questo rende la scuola un’esperienza completa e totalizzante.

La tecnica dei movimenti è il pun-to di partenza e fornisce gli argomenti principali che verranno poi sviluppati nelle altre due direttrici dell’insegna-mento. Si parte da esercizi elemen-tari come le oscillazioni delle braccia, le flessioni del tronco, i bilanciamenti delle gambe, attribuendo loro un sen-so: il gesto è sempre giustificato e mai meccanico, ciò che importa è come lo si compie. Gli allievi sono guidati nel-la ricerca delle dinamiche interne del senso attraverso il “mimo d’azione”. Viene chiesto di riprodurre un’azione fisica più realisticamente possibile, fa-cendo attenzione a non cadere nell’in-terpretazione personale. L’importante è spogliare il gesto di ogni automati-smo riscoprendone l’essenza. Il mimo diventa quindi uno strumento di cono-scenza in quanto permette di riattribu-ire autenticità alle azioni; esso non è il fine, ma il mezzo. Un’impostazione del genere denota evidentemente la scelta di privilegiare il mondo esteriore ri-spetto a quello interiore: l’attore viene infatti esortato a non scavare nella pro-pria psicologia, ma piuttosto a cercare le risposte nell’osservazione degli esseri viventi e dei fenomeni naturali. Senti-menti e passioni si riveleranno in rap-porto al mondo esterno poiché l’azione fisica farà nascere uno stato emotivo particolare che giustifica il gesto, non il contrario. Si analizzano quindi i co-

siddetti «movimenti naturali del corpo umano» come l’ondulazione o lo schiu-dersi, cioè l’espandersi del corpo par-tendo da una posizione fetale: questi vengono poi utilizzati per la costruzio-ne di variazioni finalizzate ad esplorare equilibri, disequilibri, ingrandimenti di azioni fisiche.

Segue poi l’analisi dei «movimenti della natura» che, nei primi tre mesi, comprende il solo studio degli elemen-ti e della materia. I quattro elementi (acqua, fuoco, aria, terra) vengono esa-minati attraverso l’identificazione fisi-ca: anche in questo caso il corpo non deve interpretare, ma diventare. Ana-logo risultato si ottiene con la materia: gli insegnanti chiedono di stropicciare, lacerare, frantumare un fil di ferro, un elastico, un pezzo di vetro o di carta e osservare le reazione. Dopodiché invi-tano a mostrarne la dinamica attraver-so l’uso del corpo.

Spesso gli allievi che già possiedo-no una formazione artistica, conserva-no la memoria fisica di gesti formali appartenenti ad altri stili teatrali, come la danza per esempio. La “acrobazia drammatica” contribuisce a svincolarli da questo tipo di forme estetizzanti, prive di significato, restituendo loro la libertà espressiva. L’insegnante non chiede mai di eseguire una ruota o una verticale perfetta: invita piuttosto a giocare col disequilibrio, a sfidare la gravità, a trovare la leggerezza fisica per poterla riproporre poi nell’improvvisa-zione sotto forma di libertà creativa.

La seconda direttrice della pedago-gia di Lecoq è rappresentata dall’im-provvisazione, durante la quale prendo-no vita, nel gioco teatrale, le tematiche affrontate durante le lezioni di movi-mento. La prima fase consiste nella “ri-cerca psicologica silenziosa” durante la quale i professori invitano a far rivivere una situazione nella massima fedeltà al reale, senza preoccuparsi del pubblico. Non impongono di tacere, anzi gli al-lievi vengono esortati ad esplorare uno stato di ingenuità e curiosità in cui la parola ancora non esiste: solo quando il silenzio risulterà troppo carico possono intervenire parola o azione, ma solo se necessarie. Le situazioni proposte negli esercizi sono molto semplici e vengono

Il ritratto di Jacques Lecoq è di Klaus Lucas

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create dai singoli allievi, eventualmente suddivisi in piccoli gruppi: esplorazio-ne della stanza dell’infanzia, l’attesa con tutte le sue varianti come ad esempio l’incontro silenzioso tra due o più per-sone in un bar, in una sala di attesa, alle poste. L’attore non deve scavare negli aspetti più intimi che inevitabilmente l’improvvisazione evoca, ma dare ri-salto agli stimoli del mondo esterno. Con il complicarsi delle performance si passa al vero e proprio gioco e gli in-segnanti invitano a divenire coscienti della dimensione teatrale, a porre quin-di più attenzione al ritmo, allo spazio e all’interazione con i partner di scena; insomma a crearsi attorno uno spazio nel quale siano presenti anche gli spet-tatori, facendo attenzione a non cadere nella dimensione privata o a chiudersi nell’atto espressivo più che creativo.

La seconda fase consiste nel lavoro sullo stato neutro attraverso la cosid-detta “maschera neutra”, alla ricerca di uno stato di equilibrio, calma e cu-riosità che favorisca la scoperta delle dinamiche della natura. Gli insegnanti specificano da subito che non esiste una neutralità assoluta e universale, ma che bisogna tendervi per trovare uno stato di ricettività rispetto a ciò che ci circonda. La scoperta dell’ogget-to è la prima lezione, utile a prendere confidenza con le maschere di cuoio, originali di Amleto Sartori: gli allievi le toccano, imparano ad indossarle ed a prendersene cura. Dopodiché inizia il lavoro: chi calza la maschera deve abbandonare ogni conflitto e passione, deve agire in uno stato di «economia di movimenti» che risulteranno così più grandi e potenti; mentre il volto nascosto dovrà restare rilassato. Si pas-sa quindi attraverso tutto un ciclo di esercizi alla scoperta del mondo, come nel tema del “risveglio” in cui al corpo neutro si rivela per la prima volta tut-ta la straordinarietà dello spazio. Non è un’improvvisazione realistica ma si essenzializza il tema per renderlo ge-nerale: è «il risveglio di tutti i risvegli». Ancora una volta ciò che interessa è la dinamica profonda della situazione: il corpo dell’attore deve appartenere a tutti gli spettatori, tutti devono rico-noscersi in quell’atto. Il tema affronta-to con maggior cura durante il lavoro sulla maschera neutra è il “viaggio”: l’attore mima l’attraversamento di una foresta, di un fiume o di una pianura. Inizialmente la natura è calma ed in equilibrio poi diventerà selvaggia e an-

tagonista e la maschera si troverà a sca-lare una montagna scossa dal terremo-to, o a percorrere un bosco incendiato. Stessa cosa farà con le architetture del paesaggio urbano. Qui affiora infatti uno dei caratteri fondamentali della pedagogia: l’urgenza del sopravvivere. Anche l’allievo, come il corpo neutro, viene portato a raggiungere il limite delle sue possibilità fisiche e conti-nuamente spiazzato dalle provocazioni degli insegnanti. Questi sono sempre molto attenti al grado di apertura ver-so l’apprendimento e se nelle lezioni di improvvisazione accompagnano gli studenti nella loro ricerca, nei lavori di gruppo li lasciano liberi di proseguirla autonomamente.

L’ultima fase del lavoro sullo stato neutro riprende le tematiche affrontate nelle lezioni di movimento e prevede le identificazioni con i quattro elementi della natura e con la materia. Infine la maschera neutra scompare e all’allievo viene chiesto di trasporre teatralmente le qualità dei vari elementi e materie: il fuoco sarà umanizzato in un personag-gio collerico, per esempio.

A complemento dei due itinerari, si aggiungono gli “auto-corsi”: sedute di un’ora e mezzo al giorno, in cui - senza l’aiuto dei maestri - gli allievi, suddivisi in piccoli gruppi, cercano di svolgere un tema proposto loro, che dovranno poi presentare alla fine della settimana da-vanti a tutta la scuola. Gli “auto-corsi” sono legati alla tematica dell’improvvi-sazione affrontata durante le lezioni. È un momento importante perché nello spazio di creazione libera confluiscono i risultati del percorso pedagogico, da una parte, e di quello tecnico, dall’al-tra. Qui gli allievi applicano gli inse-gnamenti, secondo le loro sensibilità artistiche ed elaborano il contenuto attraverso un disegno registico. È il loro teatro, nel quale possono liberare i singoli talenti. Ma l’aspetto signifi-cativo riguarda il lavoro di gruppo che si snoda su due livelli: uno inerente al mestiere dell’attore, perché attraverso le tensioni che si creano tra loro gli al-lievi hanno modo di sperimentare che cosa sia una compagnia e quale sia il ruolo che più si avvicina alla sensibilità ed agli interessi di ciascuno: autore, re-gista o attore. L’altro è legato ai mecca-nismi interni alla vita dei gruppi: le dif-ficoltà che si posso creare sono molte, ma tutte hanno nella “diversità” il loro comune denominatore. La più grande è rappresentata dalla lingua che spesso

è motivo di rallentamento del lavoro, così come la differenza delle formazio-ni artistiche che talvolta comporta una forte resistenza rispetto all’obiettivo dell’insegnamento. Infine si delineano anche le dinamiche di competizione tra chi vuole a tutti i costi il potere de-cisionale. Tutto questo rende la scuola teatro di conflitti e crisi continue e gli “auto-corsi” rappresentano l’occasio-ne giusta per misurasi in maniera del tutto autonoma con gli stimoli ester-ni. Gli allievi possono decidere di non creare tensioni nel gruppo di lavoro, scegliendo i compagni con cui sanno di essere in sintonia, o al contrario far-si provocare da altre personalità. Man mano che la ricerca diventa più libera ed il viaggio sempre più individuale, i professori hanno modo di misurare la capacità del singolo di lasciarsi privare del proprio sapere, non per cancellarlo ma per rendere lo studente una “pagina bianca” disponibile a ricevere informa-zioni dall’esterno.

Lo stage iniziale è un concentrato di esperienze umane e artistiche, nel quale l’allievo è messo davanti alle difficoltà che incontrerà nel corso dei successivi due anni di scuola. L’in-segnamento mira a renderlo sempre meno concentrato su se stesso e più sull’esterno: lo guida fino all’atto di creazione, strappandolo da ogni cer-tezza. Ogni giorno impara ad essere «meno attore e più commediante» per usare un’espressione dei maestri stessi: questi esortano gli studenti a farsi sor-prendere dall’esperienza, a tuffarsi nel gioco teatrale abbandonando quell’at-teggiamento per così dire “istrionico” ed intellettuale, tipico di alcune scuole. Gli allievi maturano così la capacità di affermare la loro individualità, dappri-ma scontrandosi tra loro poi imparan-do ad apprezzare o solo ad accettare l’altrui diversità. Ognuno a modo suo: chi ha preferito non cogliere il lato tragico dell’esperienza, chi al contra-rio si è limitato solo a questo, chi ha saputo vedere oltre ed avvicinarsi al proprio clown, riuscendo a trasformare la fragilità personale in forza teatrale. Ad ogni modo chi ha mantenuto fino alla fine fiducia nella pedagogia è stato testimone di una crescita individuale e di conseguenza di un cambiamento collettivo, nelle dinamiche di gruppo, raggiunto attraverso percorsi e modi differenti ma di pari dignità.

Il ritratto di Jacques Lecoq è di Klaus Lucas

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Quando si porta in scena la “diversità” Attraverso le esperienze toscane di “teatro e disagio”

La presente comunicazione è il ri-sultato di una ricerca sulle realtà teatra-li toscane che lavorano con il “disagio”, siano esse compagnie o singoli registi ed attori. Abbiamo cercato di fare una mappatura che non vuole essere né esaustiva né definitiva, ma un punto di partenza per futuri e più ampi appro-fondimenti. La scelta delle esperienze è del tutto soggettiva: abbiamo inserito quelle che ci sembravano più interes-santi o che abbiamo avuto modo di ap-profondire meglio, per la disponibilità di attori, registi o operatori che hanno condiviso con noi il loro lavoro.

Prima di tutto è necessario chiarire che cosa comunemente si intenda con la parola “disagio” associata al teatro e chi siano i gruppi “disagiati” che fan-no teatro. Sono tutte realtà che hanno un rapporto di vicinanza con la società cosiddetta “normale”. Sono spesso sog-getti considerati al margine: i disabili fisici e psichici, i malati mentali, i car-cerati, i tossicodipendenti, i minori a rischio. Esistono diversi modi di fare teatro con gruppi di questo genere: può trattarsi di una delle attività svolte all’interno di un centro (diurno o resi-denziale) che ospita una delle categorie di “diversi”; oppure può capitare che un gruppo teatrale (o un attore o un regi-sta) si avvicini al disagio, organizzando un percorso laboratoriale con i soggetti marginali. Alcune di queste esperienze portano così alla formazione di compa-gnie di professionisti.

Alla prima tipologia appartiene l’esempio della cooperativa “C.Re.A” di Viareggio che - con i Centri Diurni di Socializzazione per Disabili fisici e psichici “Giocoraggio”, “Capannone”e “Biglie Gialle” - ha realizzato negli ultimi dieci anni numerosi spettacoli. Qui è l’operatore che si impegna ad al-lestire un laboratorio teatrale e a dare inizio a un lungo percorso di prove e sperimentazioni che approderà infine ad una performance nella quale ogni componente dello spettacolo (dram-maturgia, scenografia, regia, ecc.) è realizzata dal gruppo stesso, al massi-mo con l’aiuto delle famiglie. Uno dei principali obiettivi delle le istituzioni

che si occupano di “diversità” è infat-ti uscire dai centri di socializzazione: nascono perciò progetti in cui l’attività teatrale diventa il catalizzatore di una integrazione, per esempio nella scuo-la. Tale è il caso di due lavori biennali sfociati in due spettacoli, Totem (2003-2005) e Diverso (2000-2001), di Ferdi-nando Falossi, istruttore di arti manuali presso il centro diurno “Giocoraggio”. In altri casi, a guidare e preparare il gruppo viene chiamato un regista o un attore esterno, come è successo con Federico Barsanti, regista del Piccolo Teatro della Versilia, che fin dal 1997 lavora a Seravezza con i disabili fisici e psichici della Cooperativa “Arcoba-leno” di Ponte Stazzesemese. Barsanti ha impostato il lavoro solo con attori portatori di handicap, escludendo dalla scena operatori o educatori: all’inizio si è scontrato con la diffidenza di questi ultimi poiché la preparazione proposta, la qualità degli esercizi e degli spetta-coli scelti presentavano notevoli diffi-coltà. Barsanti ha proceduto per gradi, innanzitutto aumentando la durata delle performance: se il primo spetta-colo Recicanballo (1997) durava solo quindici minuti, Scene da Otello (2006) ha raggiunto i ventotto minuti e non prevede la partecipazione di suggerito-ri né di operatori.

Particolare è l’esperienza della “Compagnia Teatro ANFFAS” di Li-vorno. Il percorso, iniziato da Lamberto Giannini nel 1997 come attività inter-na al centro ANFFAS (Associazio-ne Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale), ha portato nel 2005 alla nascita di una vera e propria compagnia - formata da una cinquantina di portatori di handi-cap e operatori - che ha messo in scena spettacoli nati dalla collaborazione con A.AM.P.S. (Azienda Ambientale Pub-blici Servizi) e la “Fondazione Teatro Goldoni” di Livorno, come ad esempio Crudo Crudele, Ma che colpa c’ha tu mà e il più recente Ma ti ’eti. Si tratta di produzioni che nascono dalle improv-visazioni/liberazioni dei partecipanti ai laboratori ed in cui Giannini inserisce temi di politica ed attualità. Sono per-

formance a volte “cattive”, ma giocate sempre con le chiavi dell’ironia, del grottesco e del contrasto sociale, in cui si assiste ad una liberazione dell’indi-viduo attraverso l’energia corporea in-canalata nel ballo. Fonte di ispirazione sono Heiddegger, Lacan, Pasolini, il fine non è quello di nascondere l’han-dicap, ma semmai di sottolinearlo in modo da permettere al soggetto di im-parare a vivere se stesso come elemento positivo e attivo, capace di essere auto-nomo grazie ad una graduale presa di coscienza del suo essere persona.

Una differente modalità di lavoro e approccio con il disagio psichico è quel-la del Teatro Politeama della Città del Teatro di Cascina, che vede impegnati da ormai più di dieci anni Alessandro Garzella (direttore artistico e regista), Fabrizio Cassanelli (attore e regista), Letizia Pardi e Francesca Pompeo (at-

trici) nella realizzazione di laboratori e spettacoli con i pazienti-attori dei cen-tri di salute mentale del territorio.

Garzella e Cassanelli utilizzano una metodologia di lavoro ideata dal primo, poi approfondita e studiata con l’aiuto del secondo: si tratta del “Gioco del Sintomo”, durante il quale l’attore si appropria del sintomo fisico (tic, ripeti-zione di gesti e di parole) della persona che ha di fronte e lo esaspera facendolo diventare macchietta, così che l’altro lo riconosca e lo espella dalla propria per-sona, lo osservi e lo “oggettivizzi”per poterlo infine accettare e gestire. Nei loro laboratori, invece, Pardi e Pompeo conducono alcuni esercizi in cui a met-tersi in gioco è prima di tutto la fisicità della persona: è un’esplorazione del sé che inizia da un elemento molto con-

Francesco Ceglia, Giulia Nasini

Forse allora la terapia, il “prendersi cura di”,

produce un effetto inverso, come se fosse il

“disagiato” che cura il “normale”

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creto, quale è il corpo. Semplici esercizi di riscaldamento portano l’attenzione dell’attore disabile sul corpo e gradual-mente sulla mente, permettendogli di acquisire la consapevolezza di essere una persona connotata dalla diversità non in quanto malattia, ma in quanto individualità. Assistendo a questi labo-ratori è evidente la sorpresa degli attori nello scoprire di poter compiere atti e gesti che stanno al di fuori del loro quotidiano e si collocano in uno spazio ed una dimensione del tutto inusuali.

Un’altra esperienza significativa è quella di “IsoleComprese”, associa-zione nata da un’idea di Alessandro Fantechi (regista e attore) ed Elena Turchi (attrice, psicologa e pedago-ga teatrale): il gruppo opera con vari settori del disagio nel territorio di Fi-renze. Il loro intento è quello di privi-legiare la formazione e il percorso tea-trale dell’individuo: è infatti mediante questo percorso, fatto di esercizi fisici e improvvisazioni, che l’attore può co-noscersi. Del 2002 è il “Progetto Risve-gli”, promosso dalla Regione Toscana e pensato per pazienti psichiatrici, opera-tori e attori dei centri diurni di Firenze. È un esempio del metodo di lavoro di “IsoleComprese”: attraverso tecniche del “teatro sociale” si ricerca e si tenta di far acquisire ai disabili fisici e psi-chici una consapevolezza della propria fisicità e della propria mente. Prima di tutto, quindi, un lavoro sul corpo e sulla presa di coscienza delle sue possibilità, mediante la sperimentazione dei lin-guaggi che da esso derivano.

Fra le più recenti attività, si segna-la l’Associazione Teatrale “Cas’Arsa Teatro”, nata per rafforzare l’identità teatrale di alcuni laboratori del cen-tro diurno avviati nel 1999 in Ligu-ria dall’associazione “P.LE.I.A.DI.” confluiti in un gruppo di lavoro che col tempo è cresciuto coinvolgendo disabili, studenti, operatori del settore provenienti sia dalla Liguria sia dalla Toscana (in particolare dalla provin-cia di Livorno) in collaborazione con Armunia - Festival Costa degli Etruschi. Guidati da Renato Bandoli e Mauri-zio Lupinelli, entrambi formatisi alla “non-scuola” del “Teatro delle Albe” di Ravenna, il gruppo ligure e quello toscano hanno iniziato separatamente un percorso sul testo del Marat-Sade di Peter Weiss, convogliato poi in uno spettacolo unico che vede in scena ses-santa persone variamente abili.

Altra esperienza importante è quella del regista Armando Punzo con la “Compagnia della Fortezza”, forma-ta dai detenuti del Carcere di Massi-ma Sicurezza di Volterra: si tratta di un’ esperienza che ci limitiamo solo ad indicare, rimandando per un appro-fondimento ai contributi già apparsi su “Atti&Sipari” ed alla comunicazione di Maria Francesca Stancapiano nel presente numero. Nel settore “teatro e carcere” opera anche la “TiconZe-roCompagnia” di Avenza (MS): nata nel 1987, a partire dal ’94 conduce laboratori nella casa di reclusione di Massa con il progetto “Interni Teatri”. L’obiettivo è quello di considerare il

carcere come un luogo di produzione culturale e non di chiusura e sospensione rispetto alla vita attiva. Le produzioni realizzate con i detenuti vengono mostrate in carcere agli studenti del-le scuole superiori di Massa e poi discusse durante in-contri tra detenuti-attori e studenti.

Come anticipato, sono davvero moltissime le compagnie teatrali che, in maniera continuativa e stabile, lavorano ed avvia-no progetti incentrati sul disagio. È impossibile for-nire numeri precisi: sul sito della Fondazione Toscana Spettacolo si legge che nel 2007 sono state ricono-sciute quarantacinque tra

compgnie e associazioni teatrali, la maggior parte delle quali ha all’attivo produzioni e collaborazioni con l’area della marginalità. A queste si devono poi aggiungere centinaia di piccole realtà, come quelle qui presentate. Da questa prima e parziale ricognizione emerge che l’attività teatrale associata al disagio sembra assumere una speci-fica finalità: ad essa viene infatti affi-data la particolare funzione di produrre benessere o, per dirla in altri termini, di svolgere una funzione terapeutica. Questa presunta finalità curativa po-trebbe ingenerare qualche ambiguità: la terapia viene associata alla malattia, quindi il teatro che fa terapia, a rigor di logica, sarebbe un teatro capace di curare. Di fatto non è così, eppure pro-cura “uno star bene” a chi lo fa, a chi agisce. È per questo, secondo noi, che la “teatralità” è stata inserita in maniera così consistente nelle pratiche e nel-le attività di chi si occupa di disagio. Senza dimenticare che tutti coloro che abbiamo contattato per la realizzazione della presente comunicazione ci hanno raccontato quanto sia “stra-ordinario” (cioè fuori dall’ordinario, dalla norma-lità) lavorare con chi ordinario non è; quanto un “normale” si possa arricchire attraverso la frequentazione di persone che spesso non concepiscono media-zioni e hanno differenti strumenti per leggere la realtà a causa della loro con-dizione liminare. Forse allora la terapia, il “prendersi cura di”, produce un effet-to inverso, come se fosse il “disagiato” che cura il “normale”.

“Cas’Arsa Teatro”, Marat-Sade (foto di Giovanni Mocchi)

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asi riferisce, ma è un’ombra, una laten-za rimasta intrappolata nella lamina, come un piccolo fantasma catturato, che viene rievocato dal ripostiglio della memoria ogni volta che si apre il cas-setto dov’è conservato. Le fotografie, soprattutto quelle di volti e di figure, sono i segni tangibili dell’assenza, orme lasciate da chi è stato qui. Purtroppo le sembianze, anche quelle del volto più caro, pian piano si perdono nel ricordo. Sembra che, attraverso le fotografie, le figure esprimano un muto e continuo bisogno di essere presenti, di perma-nere nella nostra memoria. Quando si fotografa la propria madre sappiamo che, un giorno, quello sarà il ricordo che avremo di lei, ma sappiamo anche che nostra madre non è venuta al mon-do per essere fotografata. Nel piccolo atto drammatico del tocco fotografi-co, anche se non lo sappiamo, si cela il tentativo di trattenere il fantasma delle persone, per raccogliere la loro impron-ta prima che l’abbandonino. Anche nel teatro la fotografia non è necessaria. Il teatro non nasce per essere fotografato, per questo vale la pena fotografarlo.

Come è avvenuto il suo incontro con quest’arte?Mi sono avvicinato alla Fotografia grazie ad una fotografia, quella di mio padre, dopo la sua scomparsa. Avevo otto anni, entravo di nascosto nella sua stanza, perché mi era proibito toccare gli oggetti presenti nel suo studio. In un cassetto mi capitò di trovare alcu-ne piccole scatole che contenevano dei cartoncini, che mi parvero avere la con-sistenza e il biancore delle ostie in chie-sa. Una di queste scatole restò aperta ed il giorno dopo vidi che il cartoncino si era misteriosamente scurito: aveva as-sunto una colorazione che andava dal violetto al grigio e vi erano impressi alcuni segni che per me erano la testi-monianza della mia violazione. Solo qualche anno più tardi avrei scoperto il segreto e capito che si trattava di carta fotografica sensibile. Cominciai a scat-tare le prime piccole fotografie con una Bencini Corrol II: al mio gatto, ai miei familiari, a tutti quelli ai quali tenevo, ma ne ero sicuro, sarebbero usciti dal mio sguardo, dalla mia vita.

A quale, tra le tante definizioni che si possono dare del lavoro e dell’attività di un fotografo, si sente più vicino?Mi piace pensare di essere stato un te-stimone. Il testimone è chi porta noti-

zia di un fatto: io vedo accadere que-sto, ora e qui. Il testimone deve essere esterno a ciò che accade. Un fatto non nasce per il testimone, ma in sua pre-senza. Se qualcosa nasce soltanto per quest’ultimo è come se egli venisse at-tratto nel cerchio, corrotto ed usato per testimoniare il falso, come nella pubbli-cità. Ogni autentica testimonianza non può essere anonima e oggettivamente neutra: il suo valore risiede nell’uni-cità dello sguardo che la produce. Per questo proviamo una certa emozione quando il notaio pronuncia il “fatto” in cui siamo coinvolti, oppure quando leggiamo un Vangelo che porta, appun-to, la novella.

Qual è l’aspetto che più le interessa del teatro? E qual è stato il suo primo incontro con il teatro?Il teatro è il luogo dove l’essere umano giuoca a vivere, lì si agiscono e si ve-dono agire i due termini essenziali di sé: il nascere e il morire. Il niente è il senso primo ed ultimo che accomuna sia il teatro sia la vita: qualcuno sbuca dalla quinta nera e amniotica, dal nul-la, attraversa uno spazio ed un tempo seguendo il suo percorso incantevole, patetico e drammatico, per annunciare, a chi guarda, la sua scomparsa di nuovo nel nulla. Da questo punto di vista è te-atro anche la vita quotidiana, se c’è uno sguardo che la colloca nel proprio cam-po. È lo sguardo che genera il teatro. Il mio primo incontro con il teatro è avvenuto nel 1973, quando per caso qualcuno mi portò a vedere, in uno scantinato, La casa del padre dell’Odin Teatret. Lo sguardo, che si fissò nel mio, di una delle grandi attrici dell’Odin, Else Marie Laukvik, rimase indelebi-le nella mia mente. Da lì ho iniziato il mio viaggio dentro il teatro.

Quali sensazioni prova all’inizio di una performance?All’inizio di uno spettacolo provo sem-pre una sorta di fastidio, rimango in uno stato di allerta nel timore di essere coinvolto in una cerimonia che non mi riguarda. Decido di stare in un angolo, non mi tolgo neanche la giacca, volon-tariamente, per non mettermi a mio agio. Solo quando percepisco che ciò che accade non mi invita, non mi alletta ed è indipendentemente da me, allora il mio disagio diminuisce e lascia il posto ad una visione più contemplativa. In questo modo riesco a concentrarmi, a conservare il mio ruolo di “testimone”

Ombre su lamine d’argento

Maurizio Buscarino è nato a Bergamo il 7 Maggio del 1944. Nel 1973 assi-ste per caso al Min Fars Hus dell’Odin Teatret e da quel momento inizia il suo percorso, come fotografo, nel mondo teatrale. La sua opera è un’ importan-te testimonianza sul teatro dell’ultimo Novecento ed anche una rappresenta-zione della sua visione del mondo.

A cosa sta lavorando attualmente?A una riedizione del mio libro sul tea-tro in carcere e a una mostra su Apo-calypsis cum Figuris, in Polonia.

Che rapporto nasce tra il fotografo e l’attore che viene fotografato?C’è un’ombra di timore in chi si accor-ge di essere trattenuto nel campo dello sguardo di un osservatore. Il fotogra-fo non fa parte del gioco del teatro. Le compagnie teatrali sono diffidenti perché non sanno se le tue immagini sono corrispondenti alle loro intenzio-ni, perché non controllano l’uso che ne verrà fatto, oppure fanno buon viso per questioni di utilità. A Peter Schumann, il leader del “Bread and Puppet”, che ebbi occasione di conoscere nel 1974 in una sala milanese, non è mai piaciuta la figura del fotografo: considerava la fotografia come l’atto unilaterale di un predatore. Il fotografo potrebbe persi-no banalizzare quello che vede, distrug-gendolo. Sempre Peter diceva che dopo la violazione è lo stesso photographer a distribuire alla compagnia le fotografie scattate durante le prestazioni, poiché lui stesso non vuole rimanere al di fuori dalla comunione. Il photographer cerca di “toccare” la re-altà che scorre, chiusa nella meraviglia di ciò che transita nel campo del suo sguardo.

Cosa rimane di uno spettacolo (e in generale di ciò che viene fotografato) in queste “sottili lamine d’argento”, come lei stesso ama chiamarle?Tutto si perde. La fotografia non è ciò che fotografiamo, non è “la cosa” a cui

Maurizio Buscarino intervistato da Alessandra Donati

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che, per essere tale, deve vedere da fuori ciò che avviene.

Perché fotografare ed interrompere così lo scorrere del tempo e l’onda vi-tale di uno spettacolo?L’attore entrando in scena inizia un percorso che passo dopo passo lo porta verso la fine, l’uscita di scena, senza la quale tutto il resto non avrebbe senso. Il fotografo s’introduce nel movimento, bloccandolo: è un estraneo che s’inseri-sce per prendere il “vuoto” di ogni pas-so. Mi chiedi - perché? Per tenerselo.

Può raccontarci del suo incontro con la realtà del carcere?La prigione è un luogo di cui si conosce l’esistenza, ma che teniamo al margine della normale visione delle cose, come la discarica. Sappiamo che c’è e sappia-mo della sua necessità, ma non deside-riamo visitarla. Da ragazzino sentivo, al di là delle bocche di lupo, delle presen-ze, e da bravo pinocchio le immaginavo come “figuracce nere” che mi avrebbero certamente assalito se le avessi incon-trate. Anni dopo, in anni in cui non era certamente in auge il teatro in carcere, sarei andato al di là del muro, varcan-do il limite, come testimone. Ricordo il momento in cui incontrai da vicino il primo detenuto: ci “incrociammo” in una sosta tra un cancello ed un altro. Lo scrutavo, cercavo in lui un segno, qualcosa che lo distinguesse, che mi

mostrasse la sua differen-za, ma non vedevo che un uomo qualunque. Dal mio vetro guardavo il killer e l’essere umano insieme e vedevo affiorare la dignità, che ho chiamato “il segno inspiegabile”, il segno che crediamo ci differenzi da qualunque altro essere di questo mondo.

Qual è stata la prima espe-rienza di questo tipo?Nel 1987, a Lodi, quando mi diedero la possibilità di conoscere un carcere da dentro. In fondo temevo ancora l’incontro con le “figuracce nere” della mia infanzia, ma la tentazione era forte ed accettai. Era-no gli anni in cui avveni-va il passaggio definitivo e giuridico, almeno qui nella piccola Europa, dalla no-

zione del carcere come luogo del tran-sito verso il supplizio al carcere come luogo della rieducazione e del recupero. C’è un parallelo piuttosto stretto fra le problematiche ecologiche che oggi conosciamo e quelle più strettamente sociali del controllo del pericolo.

Quali furono i primi lavori che lei ri-corda di aver visto in carcere?Andata e ritorno di Santagata e Mor-ganti era tra le prime esperienze più si-gnificative di teatro in carcere di quegli anni. I due erano attori girovaghi che avevano già affrontato il tema della marginalità ed erano intenzionati a vio-lare quello spazio fino ad allora impe-netrabile. Si sarebbe creato un paesag-gio composto da “figure per bene” (gli attori professionisti) e “figuracce nere”, insieme indistintamente. Il termine che usavano fin dall’inizio era “lavoro” e non spettacolo, considerandolo come sinonimo di sforzo nella vita: discen-dere nel proprio “io” per tornare su, in luce, dopo aver visto il punto di parten-za. Esattamente come accade nel teatro moderno, la meraviglia non è più per qualcuno ma per se stessi, la finzione non è più la via di fuga, ma il luogo del proprio autoriconoscimento. Dal 1990 al 1994 ho avuto la possibilità di entrare a S. Vittore a Milano, all’interno di una serie di esperienze dedicate ai detenuti nelle sezioni sia maschili che femmini-li. In questo contesto si erano creati due

diversi approcci al teatro: uno vedeva il lavoro con i carcerati orientato a trovare nello spettacolo conclusivo il suo stesso significato. Tutto era finalizzato all’in-contro con chi veniva da fuori, all’aper-tura del carcere verso l’esterno. L’altro invece era concepito come un lavoro all’interno della pena, scegliendo di non offrire all’esterno l’esito finale. La rappresentazione rimaneva solo per gli attori, segreta. Questa doppia direzio-ne di percorso, per me molto carica di significato, divenne nello stesso perio-do, il cuore dell’esperienza di Armando Punzo e dei suoi detenuti a Volterra, la più rilevante vicenda artistica e sociale in Italia ed in Europa. Punzo stesso ha definito quel teatro impossibile: un tea-tro che obbliga il pubblico a lottare con se stesso perché si trova di fronte ad una finzione che solo un sottile diaframma, che ho chiamato “la benda della meta-fora”, divide dal sacrificio reale.

Chi era Kantor per lei?Tutti lo chiamavano il Nonno e per me era proprio un nonno, per non usare più gravemente la parola padre. La sua di-mensione paterna era complessa, con-traddittoria, era reattivo e autoritario, ma manteneva, nel fondo, un legame inalienabile con chi entrava in rapporto con lui, così come può succedere soltan-to nel legame familiare. Nel chiamarlo “nonno”, chi gli stava intorno esprimeva la percezione di questo tipo di legame, tra il drammatico e il comico. Non l’ho mai detto, ma sentivo, sotto alcuni aspetti, di assomigliargli, come a qualcuno della mia storia familiare, in una dimensione non facile, anzi molto complessa, mai solo dolce, spesso schi-zofrenica, fatta di corrispondenza ma anche di rabbie, di scatti di ira, angosce, incomprensioni, meccanismi ripetuti e a cui non ci si sottrae.

La presenza della morte negli spetta-coli di Kantor, cos’era per lei?Nella poetica di Kantor la morte non era l’ombra che aleggiava sulla vita, ma era morte la vita stessa. Nei suoi spet-tacoli rappresentava l’intuizione dell’es-sere già morto, nel girotondo, sempre uguale a se stesso, verso la deflagrazio-ne finale, in una crudeltà da circo che lui chiamava “il lato vergognoso del teatro”.In questa crudeltà ho visto, messo in scena, il motivo stesso che mi ha spin-to fin da ragazzino a vedere la realtà in una Fotografia.

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Il cavallo bianco del macellaio, regia di Peter Schumann, Bread and Puppet, Teatro Uomo, Milano, 1974,

in Maurizio Buscarino, Il Popolo del Teatro, Leonardo Arte, Milano 1999

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Teatro talento tenacia...Mario Mieli

Concetta D’Angeli

«Le théâtre! Luogo ove si può dire il vero, l’unico ove non sia proibito espri-mersi con una certa libertà in pubblico, nella “società dello spettacolo”».

Così Mario Mieli nel romanzo Il risveglio dei Faraoni, pubblicato po-stumo nel 1994, a cura degli scrittori Marc de’ Pasquali e Umberto Pasti che recuperarono le prime bozze da Einau-di, bloccate dalla famiglia: un gesto di coraggio per mantenere vivo, nell’opera letteraria, il coraggio di un intellettuale che in anni non lontani dai nostri, ep-pure così diversi da essere oggi fraintesi rinnegati calunniati, aveva lottato con-tro l’ipocrisia e il perbenismo, contro la violenza omologante del pensiero comune, contro la spietata repressione delle diversità e la cancellazione delle voci dissonanti. Mario Mieli quella battaglia la combattè con coerenza - e la perse tragicamente. Non il silenzio sepolcrale della sconfessione e della vergogna gli andrebbe dunque tribu-tato; né le analisi pseudo-psicoanaliti-che riduttive del suo dramma, che fu sociale, a una singolare, privata deriva di follia; né l’icona generica di martire omosessuale (che non gli sarebbe pia-ciuta). Andrebbe invece onorato del riconoscimento e del rispetto dovuto a chi si cimenta con idee e forme esi-stenziali innovative, sottrae all’ombra dell’inconscio spazi psichici condanna-ti e disagevoli, contende all’interdetto pensieri e comportamenti minoritari, talora elitari, ma non perciò inaccet-tabili. A venticinque anni dalla morte è l’ora di ricordarne il valore e l’im-portanza culturale, e di riscattarne la

memoria e l’identità intellettuale. Qui voglio farlo, almeno per la breve parte della sua molteplice attività di pensa-tore e di scrittore che interseca il tea-tro (tra i pochissimi studi che vanno in questo senso ricordo quelli, informati e colti, di Stefano Casi).

Nacque a Milano, Mario Mieli, il 21 maggio 1952, e a Milano, suicida, morì il 12 marzo 1983. Fra il ’71 e il ’75 visse a Londra, dove fece parte del “Gay Liberation Front”; in Italia nel ’72 fu tra i fondatori del “F.U.O.R.I!” (Fronte Unitario Omosessuale Rivo-luzionario Italiano). Se ne staccò nel ’74 quando il “F.U.O.R.I!” si federò col Partito Radicale; subito dopo contribuì alla costituzione dei COM (Collettivi Omosessuali Milanesi), da quel mo-mento dedicandosi ad attività pacifiste e culturali. Scrisse il saggio Elementi di critica omosessuale che, pubblicato da Einaudi nel 1977, costituisce la prima disamina colta e la prima indagine di costume sull’omosessualità in Italia; stampò su giornali e riviste interventi teorici su questioni d’attualità; poco prima di morire portò a termine il ro-manzo Il risveglio dei Faraoni. Compo-se e interpretò La Traviata Norma ov-vero: vaffanculo... ebbene sì!, spettacolo messo in scena dal Collettivo “Nostra Signora dei Fiori” nel 1976. Il testo a stampa della pièce è depositato presso la Biblioteca Cantonale di Lugano (Fon-do Marc de’ Pasquali) in un volume che, edito da L’Erba voglio, raccoglie anche foto di scena e, a firme diverse, contributi di vario genere (un diario dello spettacolo, riflessioni politiche,

frammenti autocoscienziali...).«L’idea era nata da più menti; un

raro momento di creatività collettiva». La pratica teatrale di Mario Mieli e

del suo gruppo (il cui nome deriva da un romanzo di Jean Genet) va colloca-ta nel contesto di quel rinnovamento che, affermatosi con la stagione delle “cantine” romane negli anni Sessanta, prende nuovo slancio in seguito alle contestazioni studentesche del ’68. Fu una fioritura di temi e di forme: l’at-tenzione alla politica divenne centrale, mentre si rifiutavano il professionismo, la distinzione fra attori e pubblico, la proprietà dei prodotti artistici. Il teatro, che appariva ormai marginale, poco appetibile rispetto ai nuovi mass-media, diventò un laboratorio permanente e sperimentale, aperto alle proposte e ai sussulti della contemporaneità. E poiché nel costume italiano dei Set-tanta i fenomeni che più vistosamente s’imposero furono la liberazione delle donne e il movimento omosessuale, il teatro femminista e quello gay attira-rono pubblico, suscitarono interesse, apparvero, a chi li promosse, formida-bili occasioni di visibilità, propaganda, provocazione, discussione.

La Traviata Norma è dunque un testo politico. È però anche un diver-tissement di volta in volta provocato-rio, elegante, comico, spiazzante, au-toironico, aggressivo, doloroso, colto, scurrile, dissacrante - teatrale più nella volontà di rappresentare, in modi esi-biti ma mediati dalla finzione e dalla recitazione, forme d’identità trasgressi-ve e rivoluzionarie che nella scelta della

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modalità espressiva. Sfruttando l’an-tico meccanismo della metateatralità, gioca sul ribaltamento dei ruoli attori/spettatori fingendo che le sedici chec-che in scena siano il pubblico di uno spettacolo che si rifiuta di cominciare - inversione teatrale che riproduce quella sessuale: la recita che non si vedrà mai sarebbe proposta dal Collettivo “Evvi-va la Norma” e servirebbe a rivendicare i diritti degli etero in una società dove dominano leggi e comportamenti gay. L’argomento focalizzato riguarda dun-que l’identità sessuale e per molti versi anticipa la questione del transgender, in Italia venuta alla ribalta solo di re-cente. In questa specifica torsione te-matica, sebbene la paternità del testo sia dichiarata collettiva, si può con le-gittimità supporre l’influenza primaria di Mario Mieli: il soggiorno in Inghil-terra, dove ci si cominciava a interro-gare apertamente su un corpo che non voglia farsi catalogare in forme fisse e schematiche, suffragava di argomen-tazioni concettuali e di elaborazioni teoriche il suo remoto, istintivo rifiu-to di tutti i ruoli e delle troppo rigide definizioni della sessualità. Accanto alla visione anticonvenzionale e libe-rale convivono nella Traviata Norma più tradizionali impostazioni marxiste, secondo le quali la repressione sessuale e l’assoggettamento della donna sono

diretta conseguenza dello sfruttamen-to capitalistico. Si alternano così diver-tenti gags che fanno interagire linguag-gio corrente (e sboccato) e linguaggio alto («Maria R: Qui non si tiene nel debito conto il diritto canonico. Sul sesso i Padri ci hanno perso la Chiesa... pardon, la testa! La “incontinentia con-tra naturam” consiste nel “coitus libidi-nosus vel cum persona indebita vel in vase indebito”; Giovanni: Vaffanculo!; In coro: Ebbene sì!!!»), citazioni dot-te («Corrado: E Kant non dice nella Critica della Ragion Pratica: “Agisci se-condo una massima tale che implichi contemporaneamente in sé la sua vali-dità universale per ogni essere raziona-le”?»), brani di vero e proprio indottri-namento politico («Francesco: Sono ancora tutti da scoprire i nessi politici che legano a livello storico e sociale la contraddizione primaria, intendo dire il rapporto di sfruttamento in fabbri-ca, e anche nel territorio, che si realizza con l’estrazione del plusvalore; dicevo i nessi che legano la contraddizione pri-maria con quella secondaria...»).

In un pastiche barocco dove l’esibi-zione sfrenata, allegra e amara, attin-ge a differenti e spesso contrastanti modelli teatrali di riferimento, Brecht domina. Introdotto in Italia da Streh-ler nel 1956 con L’opera da tre soldi, diventò in quegli anni fondamentale punto di riferimento per la performa-tività e la drammaturgia nostrane. La lezione brechtiana si ritrova qui nella continuità tra scena e platea; nell’elimi-nazione del sipario e di ogni oggetto “di finzione”; nell’intenzione didattica che anima tutto il testo; nella suggerita intercambiabilità di attori e spettatori; nello straniamento del mondo rap-presentato alla rovescia; nell’uso della musica (songs dell’Opera da tre soldi; canzonette commerciali riutilizzate in modo goliardico cambiandone le pa-role; inni nazionali suonati per essere dissacrati; musica classica, introdotta fin dall’inizio dalle arie della Traviata e della Norma, con derisoria allusione al titolo della pièce).

La stesura collettiva alla quale l’edi-zione a stampa attribuisce le parti in prosa del testo (le canzoni dichiarano invece paternità specifiche) corrispon-de a un’utopia di creatività comunita-ria che si predicava, ma assai meno si praticava, negli anni Settanta (anche Dario Fo vi si riferisce per le sue com-medie di quel periodo). È verosimile in effetti che alcuni attori abbiano scrit-

to le proprie battute; pure è verosimi-le che la tessitura tematica e gli snodi delle situazioni abbiano preso forma, giovandosi dei contributi di tutti gli interpreti, nelle improvvisazioni pre-paratorie allo spettacolo. Esse per-mangono soprattutto nell’ultima parte (provocazioni erotiche agli spettatori, balli che coinvolgono la platea, risposte per le rime alle interferenze del pub-blico - quello vero), prima che l’arrivo del regista vestito da Regina d’Inghil-terra chiuda la performance e («ahinoi» sospira la didascalia) apra il dibattito. Nel rilievo che mantengono si può riconoscere, insieme a una tendenza diffusa nel teatro dell’epoca, la predile-zione di Mario Mieli per la Comme-dia dell’Arte - come anche la volontà politica e filosofica di mostrare il reale sotto la finzione scenica, e le loro re-ciproche interferenze. Le checche in palcoscenico sono al tempo stesso at-tori che recitano en travesti: succulenta prospettiva fantastica ideologica cul-turale, rappresentazione impertinente della ricchezza variegata dell’immagi-nazione e dell’arte che le regole sociali sopprimono imponendo l’uniformità soffocante del dover essere.

Se è difficile individuare con preci-sione l’apporto di Mario Mieli alla ste-sura della Traviata Norma, solo suo è il monologo Ciò detto, passo oltre, anch’es-so depositato nel Fondo de’ Pasquali della Biblioteca Cantonale di Lugano. Recitato dallo stesso autore durante la “Sei giorni del monologo” (Milano, ex-Teatro Corallo, 31 marzo-5 aprile 1981), accoglie i temi che percorrono Il risveglio dei Faraoni (la composizione del romanzo si colloca appunto in que-gli anni). L’indifferenziazione sessuale, evidenziata dai travestimenti maschile/femminile prescritti per l’attore, è anche qui il tema principale: si svolge come un assillo delirante che, accanto alla pre-potenza della famiglia nemica, patisce una più vasta ostilità sociale (l’inquili-na del terzo piano, che riecheggia un noto film di Polanski e raccoglie firme per lo sfratto dell’affittuario anomalo); si addobba di elementi misticheggianti spesso autolesionisti; ripete angosciati propositi di suicidio, in odio a un padre onnipotente e devastatore. Senza per-dere la lucidità della denuncia politica, la leggerezza della Traviata Norma vol-ge al tragico, la comicità si trasforma in grottesco agghiacciante.

Era il 1981. Due anni più tardi la minaccia sarebbe diventata gesto reale.

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Minimo” nasce ad Andria dopo che Michele Sinisi e Michele Santeramo si sono incontrati a Roma nel 2001 durante un la-boratorio organizzato dal primo ed al quale il secondo ha partecipato come attore. I due, come ha scritto il critico An-drea Porcheddu, «hanno coniugato le loro speci-ficità e il risultato è un prezioso amalgama che fa di “Teatro Minimo” un nuovo punto di rife-rimento per una produ-zione teatrale giovane, impegnata e di qualità». Tra i loro spettacoli si ricordano almeno: Vico Angelo Custode; Murgia (cartolina di un paesag-gio lungo un quarto), finalista al premio Ge-nerazione Scenario 2003; Accadueò vincitore di Le voci dell ’anima 2004.

Quali furono le spinte e gli input per la creazio-ne del vostro progetto e la conseguente scelta di ritornare a vivere ed operare in Puglia?Santeramo: Fu una cosa “normale”, come se in qualche maniera sa-pessimo che la volontà di fare questo mestiere, quella di farlo tornando ad Andria, quella di farlo insieme, fosse una cosa che sarebbe accaduta e basta. Il laboratorio mise in mostra un’attitudi-ne molto simile tra me e Michele: simile sia per come dovesse essere la nostra maniera di fare teatro, sia per il linguaggio che avremmo vo-luto utilizzare. Ci interessava apparte-nere a un posto, guardare le cose da un punto di vista esatto e sapevamo che la nostra prospettiva non poteva essere la metropoli: doveva essere il posto in cui eravamo nati, a cui in buona sostan-za appartenevamo e apparteniamo. Credevamo che solo tornando e sot-

tolineando una nostra precisa identità avremmo potuto raccontare qualcosa di interessante.Sinisi: Quello per me era un periodo di grossi cambiamenti e accadimenti sia umani sia professionali e volevo rico-minciare dall’essenziale, sia nei rapporti sia in ambito professionale. Da qui nac-que l’idea del nome: oltre al significato, che concentrava quel mio desiderio di essenzialità e chiarezza, anche il suono

mi affascinava. Il tutto fu poi accompagnato dall’incontro di Sante-ramo che viveva le mie stesse sensazioni e aveva le mie stesse esigenze. Tutto combaciava sia nell’aspetto umano sia professionale. Inoltre la capitale non mi sembra-va fosse l’ambiente più genuino dove continua-re a crescere. I corridoi del potere sono sempre stati i veri protagonisti, almeno dagli anni ’80 in poi, della realtà romana a scapito di reali percorsi di creazione. L’ambien-te romano, con tutte le sue attrazioni, non cor-rispondeva più a quel mito per cui qualche anno prima avevo deciso di partire dalla mia terra. Seppi dei finanziamenti per l’imprenditoria gio-vanile della comunità europea di cui la Puglia usufruiva e decisi di par-teciparvi anche per sfi-da. Chiamai il progetto appunto Teatro Minimo Mobile. Era il 2001, co-minciata quest’ esperien-za di attore con partita IVA al sud, decisi di la-sciare definitivamente Roma. Incontrai prima Santeramo, che gestiva una bellissima struttura estiva, Il casale San Gior-gio, all’interno del quale organizzava rassegne musicali e teatrali, nel-le campagne del nord barese; e poi successiva-mente Antonella Papeo, che sarebbe divenuta la responsabile della nostra organizzazione. Cadde la

parola “mobile” e la compagnia diventò stabile con l’apertura di un ufficio di-retto da Antonella.

Si nota nei vostri lavori una costan-te: la contaminazione fra una ricerca ostinata di “verità” ed al contempo il rifiuto di un realismo che rischia di apparire sterile…Santeramo: Sì, è certamente una chiave che cerchiamo nei nostri lavori.

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Michele Sinisi in Sacco e Vanzetti loro malgrado (foto di Mirella Calderone)

Dialogo “minimo”Michele Sinisi e Michele Santeramo intervistati

da Mariagrazia Bertino(con un intervento di Simona Gonella)

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oIn Amleto abbiamo fatto soltanto una piccola variazione al testo; abbiamo detto a Polonio: «Tu, devi dire la veri-tà!». Non rifuggiamo il realismo, pen-siamo però che in teatro sia ricostruito dalla stessa macchina della messa in scena che, paradossalmente, non lo ren-de mai perfettamente credibile se non attraverso una convenzione. La verità no: quella c’è, oppure niente.SINISI: Gli spettacoli del “Teatro Mini-mo” sono lo specchio del percorso uma-no e professionale mio e di Michele. In quanto attore (la stessa cosa vale per Santeramo in quanto autore) ho cerca-to e mi impongo ancora di alimentare il presupposto di libertà creativa con una maggiore consapevolezza tecnica e un gran rispetto della tradizione del mestiere: il tutto accompagnato da una forte consapevolezza della realtà.

Il vostro è un “teatro del sud”, non solo in riferimento alla dimensione geografica in cui operate e da cui pro-venite, ma anche ad una più intima e atavica, legata ad una terra ricca e impregnata di tradizione. Quanto e in che modo questo legame influisce nelle vostre opere?Santeramo: Mi interessa sentire come “bestemmia” la gente del sud, con che lingua parla, per poi poter scrive-re con verità, senza tuttavia tentare di rappresentare un sentimento assoluto. Il sentimento, anche se ha lo stesso nome dappertutto, per essere declina-to ha bisogno di una terra nella quale prendersi una verità. Ogni sentimen-to. A me interessa vedere quali sono le declinazioni che dalle nostre parti hanno i sentimenti, e di quelli scrivere.

Nei vostri spettacoli l’ironia e la satira si fondono con il tragico. Che cosa è per voi la tragedia?Santeramo: La tragedia è rito collet-tivo, è qualcosa intorno alla quale una comunità intera si riconosce e stabilisce le regole per la propria sopravvivenza. Insomma, la tragedia è, o dovrebbe es-sere, una delle forme che costituiscono una comunità. Dico dovrebbe perché credo che questa nostra comunità abbia poco a che fare con il senso dell’appar-tenenza a regole e a riti collettivi; penso che questa sia una società formata da singolarità, che deve fare i conti con la tragedia ma rimanda, lascia perdere, passa avanti.Sinisi: Il valore che do alla parola tra-gedia è nel suo senso più oggettivo, os-

sia, come ho imparato nel mio percor-so professionale, quel che accade ogni volta che l’uomo s’allontana dal suo mondo preferito, penetrando il proprio inverno.

Nel complesso degli spettacoli del “Teatro Minimo” occorre segnalare quantomeno due produzioni molto importanti. Sono due spettacoli, per poetica, temi e interpretazioni che si presentano in modo molto diverso: l’Amleto di Sinisi e il Cirano di San-teramo. Lucido e delirante il primo, autoironico e drammatico l’altro, con un Amleto in bilico fra la metafisica e la follia e un Cirano intessuto da una partitura musicale che ne scandisce i tempi e la dialettica. Come sono nati questi lavori? Santeramo: Entrambi gli spettacoli nascono da due desideri forti, mio e di Sinisi, di confrontarci con questi testi. L’abbiamo fatto e il risultato è molto vicino a noi due: Amleto è uno spetta-colo per attore, Cirano è uno spettaco-lo in cui soprattutto la scrittura è stata al centro del lavoro, nel confronto con la musica (che non è di sottofondo), nell’invenzione di una lingua nuova. I percorsi che hanno portato alla messa in scena dei due spettacoli si può dire che siano ormai il marchio distintivo delle modalità produttive di “Teatro Mini-mo”: laboratori, incontri con le scolare-sche, approfondimenti con associazioni, lavori in comunità e centri di recupe-ro. Per Amleto anche quindici gior-ni di laboratorio nel carcere minorile. Sinisi: Penso che questi due spettacoli, forse più di tutti, rispecchino la com-plementarietà del duo e di quanto sia necessario che ogni progetto veda una armonia di incontro e collaborazione.

Il 23 agosto del 1927 Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti furono uccisi sulla sedia elettrica nel penitenzia-rio del Massachussetts. Il 23 Agosto 2007 ricorreva l’ottantesimo anni-versario della loro uccisione. È attra-verso uno spettacolo che il comune di Torremaggiore (il paese che ha dato i natali a Sacco) ha deciso di celebrare la memoria del proprio concittadino. Il progetto è stato affidato alla regista Simona Gonnella (della compagnia “Cerchio di gesso”) che ha scelto San-teramo come drammaturgo e Sinisi nel ruolo di Sacco: un incontro fra diverse sensibilità artistiche. L’armo-nizzazione è stata difficile?

Santeramo: Con Simona abbiamo lavorato già in fase di scrittura, con in-contri e confronti continui, durante i quali cercavamo di mettere a fuoco le tematiche che stavano a cuore ad en-trambi. L’incontro è stato piacevole e fortunato.Sinisi: Siamo stati coinvolti entrambi in questo progetto per pura coinciden-za: non l’abbiamo posta come condi-zione. È stato curioso che per la prima volta qualcun altro mediasse fra me e le parole di Michele, permettendomi di vederle da una nuova prospettiva.Gonnella: Uno dei problemi per me era la necessità di trovare attori che avessero una certa aderenza visiva con i personaggi. Automatica è stata l’asso-ciazione mentale fra Sacco e Michele Sinisi, che conoscevo ma col quale non avevo mai collaborato. Solitamente i testi dei miei spettacoli li scrivo in pri-ma persona, ma stavolta ho fatto un’ec-cezione, perché mi interessava vedere se fosse possibile creare una “multiar-tisticità” in cui ognuno avesse un com-pito ben specifico. Tra i drammaturghi pugliesi lo stile compositivo di Michele Santeramo mi sembrava molto adatto alla creazione di un testo “parastorico”. La collaborazione fra artisti professio-nisti di diversa formazione ed espe-rienza crea un valore aggiunto: quello di uscire dai meccanismi endogamici delle compagnie.

Avete definito Sacco e Vanzetti come simboli legati al concetto di diritti, uguaglianza e libertà. Come siete riu-sciti ad esplicare questi concetti nello spettacolo?Santeramo: Tutti temi altissimi e a ri-schio di retorica. Quel che ho cercato di fare è stato innanzitutto evitare l’effetto e scavare un po’ più a fondo; anche per la scrittura di questo testo ho cercato di vivificare le esperienze dei due italiani. Mi chiedevo di che cosa ridessero quei due, se ridevano. Quando sono riuscito a scrivere qualche battuta che poteva farli ridere, allora ho capito che la reto-rica era un rischio superato, e che i due personaggi si erano presi una umanità che li rendeva veri. Sinisi: Per ciò che riguarda il mio Sac-co, ho cercato di avvicinarmi a lui per approssimazione, pian piano con picco-li passi quotidiani. Se avessi dal primo giorno cercato di vivere personalmente le emozioni di un condannato a mor-te, avrei finito con l’essere didascalico e patetico.

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