Atti & Sipari numero 2

47
Edizioni PLUS - Pisa University Press Lungarno Pacinotti, 443 56126 Pisa Tel 050 2212056 - Fax 050 2212945 [email protected] www.edizioniplus.it MEMBER OF ISSN 1973-5472 Direttore Responsabile Maurizio Alfonso Iacono Direttori Concetta D’Angeli, Maurizio Alfonso Iacono, Guido Paduano Caporedattore Simone Soriani Segretaria di Redazione Anita Simon Responsabile organizzativo Mariacristina Bertacca Comitato di Redazione Associazione A&S, Federica Antonelli, Celeste Bellofiore, Mariagrazia Bertino, Giuliana Bigongiali, Francesco Ceglia, Romina Cesare, Eva Costa, Ilaria D’Angelo, Alessandra Donati, Giulia Filacanapa, Annastella Giannelli, Giulia Nasini, Maria Bianca Nicolai, Alessandro Orsi, Diego Passera, Giulia Pastore, Elisa Pezzini, Aldo Porfirio, Giampaolo Ravecca, Samuele Rossi, Maria Francesca Stancapiano, Chiara Tarfano Grafica e impaginazione Mariacristina Bertacca, Romina Cesare, Ilaria D’Angelo, Annastella Giannelli, Alessandro Orsi, Giulia Pastore, Chiara Tarfano Si ringraziano Klaus Lucas, per i bozzetti che ci ha fornito; Danio Manfredini, l’Agidi, Ugo Chiti e “Arca Azzurra”, Agus e A. Botticelli “Fanny&Alexander”, Marco Caselli e Enrico Fedrigoli, Saverio La Ruina e “Scena Verticale”, Tommaso Le Pera e Luigi Cipparrone, Oscar De Summa, Massimo Shuster e Alessandro Ruggieri, Giulio Cavalli e Francesco Lanza, Stefano Perocco di Meduna e Casadei, Stefano Massini, Paolo Lamuraglia e Giuseppe D’Ambrosio, che ci hanno concesso l’uso delle loro foto. Contatti Atti&Sipari: [email protected] A&S: [email protected] www.attiesipari.altervista.org Web master Federica Antonelli Chiuso in Redazione nell’aprile 2008 In copertina Danio Manfredini in Al presente (foto di Guendalina Ravazzoni) Reg. Tribunale di Pisa n. 44/07 del 21/12/2007 La rivista è stata stampata grazie al sostegno dei nostri sponsor: Blue Box Studio (Livorno), Circolo Caracol (Pisa), CLU (Pisa), I Licantropi (Livorno), Libreria Belforte (Livorno), L’Ora di Danza (Livorno), Nuovo Teatro delle Commedie (Livorno), Teatro Agricolo (Livorno), Teatro di Buti, Volterrateatro 2008 Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org Indice LA PAROLA AGLI ARTISTI 2 Concetta D’Angeli (a cura di) Intervista a Danio Manfredini SOTTO LA LENTE. I “COMICI TELEPREDICATORI10 Guido Paduano Comici e politica (o antipolitica) 13 Paolo Puppa Le nuove maschere della Commedia dell’Arte: Beppe Grillo 18 Oliviero Ponte di Pino Il teatro alla moda SCENE DAL TERRITORIO 24 Federica Antonelli Tra parola e fisicità. La scrittura di Ugo Chiti per l’Arca Azzurra Teatro IN ITALIA E NEL MONDO 26 Simone Soriani Della regia in Italia. Ipotesi critiche TEATRO EFILOSOFIA 30 Eva Costa Il doppio fragile di Fanny&Alexander PROFILI 34 Mariacristina Bertacca Si va in “Scena Verticale” CONVERSANDO 38 Oscar De Summa intervistato da Samuele Rossi Oltre la narrazione: il teatro come percorso di conoscenza 40 Giulio Cavalli intervistato da Celeste Bellofiore L’arte della giullarata 42 Stefano Perocco di Meduna intervistato da Giulia Filacanapa Leo de Berardinis e le maschere 46 Stefano Massini intervistato da Maria Francesca Stancapiano “Il buco nella serratura” Abbonamento annuo alla rivista “Atti&Sipari” € 9,00 (uscita semestrale: aprile e ottobre) Pagamento tramite versamento su c/c postale numero: 84665579 intestato a “A&S”, con causale “Abbonamento Atti&Sipari”

description

Atti & Siparti (Aprile 2008) www.attiesipari.it

Transcript of Atti & Sipari numero 2

Page 1: Atti & Sipari numero 2

Edizioni PLUS - Pisa University Press Lungarno Pacinotti, 443 56126 Pisa Tel 050 2212056 - Fax 050 2212945 [email protected] www.edizioniplus.it MEMBER OF ISSN 1973-5472 Direttore Responsabile Maurizio Alfonso Iacono Direttori Concetta D’Angeli, Maurizio Alfonso Iacono, Guido Paduano Caporedattore Simone Soriani Segretaria di Redazione Anita Simon Responsabile organizzativo Mariacristina Bertacca Comitato di Redazione Associazione A&S, Federica Antonelli, Celeste Bellofiore, Mariagrazia Bertino, Giuliana Bigongiali, Francesco Ceglia, Romina Cesare, Eva Costa, Ilaria D’Angelo, Alessandra Donati, Giulia Filacanapa, Annastella Giannelli, Giulia Nasini, Maria Bianca Nicolai, Alessandro Orsi, Diego Passera, Giulia Pastore, Elisa Pezzini, Aldo Porfirio, Giampaolo Ravecca, Samuele Rossi, Maria Francesca Stancapiano, Chiara Tarfano Grafica e impaginazione Mariacristina Bertacca, Romina Cesare, Ilaria D’Angelo, Annastella Giannelli, Alessandro Orsi, Giulia Pastore, Chiara Tarfano Si ringraziano Klaus Lucas, per i bozzetti che ci ha fornito; Danio Manfredini, l’Agidi, Ugo Chiti e “Arca Azzurra”, Agus e A. Botticelli “Fanny&Alexander”, Marco Caselli e Enrico Fedrigoli, Saverio La Ruina e “Scena Verticale”, Tommaso Le Pera e Luigi Cipparrone, Oscar De Summa, Massimo Shuster e Alessandro Ruggieri, Giulio Cavalli e Francesco Lanza, Stefano Perocco di Meduna e Casadei, Stefano Massini, Paolo Lamuraglia e Giuseppe D’Ambrosio, che ci hanno concesso l’uso delle loro foto. Contatti Atti&Sipari: [email protected] A&S: [email protected] www.attiesipari.altervista.org Web master Federica Antonelli Chiuso in Redazione nell’aprile 2008 In copertina Danio Manfredini in Al presente (foto di Guendalina Ravazzoni) Reg. Tribunale di Pisa n. 44/07 del 21/12/2007 La rivista è stata stampata grazie al sostegno dei nostri sponsor: Blue Box Studio (Livorno), Circolo Caracol (Pisa), CLU (Pisa), I Licantropi (Livorno), Libreria Belforte (Livorno), L’Ora di Danza (Livorno), Nuovo Teatro delle Commedie (Livorno), Teatro Agricolo (Livorno), Teatro di Buti, Volterrateatro 2008 Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org

Indice

LA PAROLA AGLI ARTISTI

2 Concetta D’Angeli (a cura di) Intervista a Danio Manfredini SOTTO LA LENTE. I “COMICI TELEPREDICATORI”

10 Guido Paduano Comici e politica (o antipolitica)

13 Paolo Puppa Le nuove maschere della Commedia dell’Arte: Beppe Grillo

18 Oliviero Ponte di Pino Il teatro alla moda SCENE DAL TERRITORIO

24 Federica Antonelli Tra parola e fisicità. La scrittura di Ugo Chiti per l’Arca Azzurra Teatro IN ITALIA E NEL MONDO

26 Simone Soriani Della regia in Italia. Ipotesi critiche TEATRO E… FILOSOFIA

30 Eva Costa Il doppio fragile di Fanny&Alexander PROFILI

34 Mariacristina Bertacca Si va in “Scena Verticale” CONVERSANDO

38 Oscar De Summa intervistato da Samuele Rossi Oltre la narrazione: il teatro come percorso di conoscenza

40 Giulio Cavalli intervistato da Celeste Bellofiore L’arte della giullarata

42 Stefano Perocco di Meduna intervistato da Giulia Filacanapa Leo de Berardinis e le maschere

46 Stefano Massini intervistato da Maria Francesca Stancapiano “Il buco nella serratura”

Abbonamento annuo alla rivista “Atti&Sipari” € 9,00 (uscita semestrale: aprile e ottobre) Pagamento tramite versamento su c/c postale numero: 84665579 intestato a “A&S”, con causale “Abbonamento Atti&Sipari”

Page 2: Atti & Sipari numero 2

CONCETTA D’ANGELI: Voglio su-bito focalizzare un punto importante del lavoro di Danio Manfredini: l’at-tenzione al disagio psichico. E, insie-me, la «commovente bellezza» dei suoi spettacoli (l’espressione è di Valeria Ottolenghi). Non sarei contenta se nel nostro discorso venisse ignora-to l’aspetto formale della sua opera: assistere a uno spettacolo di Danio è un’esperienza di forte impatto emotivo - e un godimento estetico.

Ecco dunque la mia prima doman-da: qual è il tuo pensiero riguardo alla follia e come si rappresenta nel tuo te-atro?

DANIO MANFREDINI: È sempre diffi cile per me parlare di teatro, pen-so che sia meglio farlo e basta. Tutto

quello che posso dire, dopo trent’anni di pratica teatrale, è che non ho capito niente di assoluto: ci sono delle doman-de alle quali, momento per momento, si devono trovare delle risposte, tutto qua. E anche le risposte non sono mai assolute. Spesso si pensa che il teatro è questo o quello... Invece sono tante espressioni, tanti artisti che esprimo-no mondi diversi. Io posso parlare solo della mia esperienza.

Quanto alla follia, non ne penso niente, la follia esiste e basta. Ho lavo-rato per dodici anni in una comunità psichiatrica, e tuttora sono in contat-to con alcuni pazienti, diventati miei amici. A loro insegnavo pittura, non ero un operatore né un educatore; ero un artista che andava lì. Perciò il mio rapporto con loro era sempre sfalsato

rispetto all’équipe, ero sempre un po’ fuori riga. Fra me e loro si istituiva sempre un rapporto più personale, diverso da quello dell’operatore, che vive e lavora stabilmente in quel contesto e perciò ha bisogno di maggiore “protezione”. Io ci lavoravo sei/sette ore al giorno, due volte la settimana; potevo permettermi di lasciar-mi attraversare, non proteggermi. Agli altri la protezione serve perché l’osmosi che si stabi-lisce con i pazienti è delicata - arricchente da un lato, svenante dall’altro. Il paziente ti off re molte suggestioni ma ti mangia molta ener-gia. Comunque hanno avuto un’enorme in-fl uenza sul mio lavoro artistico. Nei Tre studi, il primo pezzo è ispirato a un paziente della comunità. In Miracolo della Rosa c’erano delle fi lature dello stesso paziente, mischiato a uno dei carcerati di Genet. In Al presente mi sono rifatto ancora al mondo della follia prenden-do a prestito forme fi siche e qualità vocali dei pazienti, ma mettendo loro in bocca dei testi poetici. Voleva essere un autoritratto in cui utilizzavo le forme dei pazienti per esprimere il mio sentire. Non era certo un lavoro sul con-testo psichiatrico. Nell’ultimo lavoro, Il sacro segno dei mostri, di nuovo insisto sulle stesse presenze. I miei amici pensano che coi matti sto esagerando... eppure io voglio continuare. Esistono delle persone che vivono condizioni di assoluto isolamento, della cui esistenza nes-suno si occupa, che sono considerate inutili ri-spetto alle esigenze di produzione della socie-tà; si potrebbe pensare che non cambierebbe niente se non esistessero. Invece, se un artista mette uno sguardo su questi esseri umani, loro hanno il potere di muovere in lui un processo artistico, di generare un’azione teatrale. Così avviene una comunicazione tra il pubblico e l’artista. Ma l’ispirazione viene da quell’essere là, senza di lui l’artista non avrebbe tradotto nella luce, sul palco, qualcosa che arriva da una grande ombra. Nel Sacro segno dei mostri ho voluto parlare della relazione che può esser-ci tra l’arte e la follia; entrambe abbattono i nostri abituali confi ni. Un paziente si muove dentro confi ni labili, per quanto riguarda la fi sicità o la psiche o l’immaginazione; l’arti-sta, per parte sua, tenta di sfondare dei confi ni, in modo da aprire altri spazi della coscienza, portare in luce dimensioni che nel quotidiano si vedono poco ma si sentono nella percezione interiore. Nell’ultimo spettacolo un personag-gio pronuncia una frase che io avevo sentita da una paziente: «Vedi, il folle con la sua co-scienza va in stati sublimi, metaforici, infernali e l’artista con la sua coscienza va in stati su-blimi, metaforici, infernali. È questo il punto d’incontro tra l’arte e la follia». La diff erenza è che il folle può essere travolto o invaso e anche devastato dagli spazi altri perché sono fuori

Intervista a Danio Manfredini

a cura di Concetta D’Angeli

la parola agli artisti Al presente (foto di Guendalina Ravazzoni)

2 | Atti&Sipari

Page 3: Atti & Sipari numero 2

dal suo controllo; l’artista tenta di assorbirli, quan-do apre lo spazio della coscienza su zone di follia sa quando richiuderlo, cerca di gestire il passaggio ritua-le che accade nella rappresentazione teatrale. Nello spettacolo ho cercato di focalizzare come il paziente alimenti l’azione dell’artista e come l’artista incontri il paziente; e come questo scambio sia in sostanza un gioco teatrale che porta alla luce contenuti che appar-tengono alla condizione umana, stati d’animo, pen-sieri, rifl essioni. Il diffi cile è inventare la forma dentro cui giocare questi contenuti. L’incontro con la follia è diverso per ognuno di noi, ed è un’esperienza parziale: per uno psichiatra sarà in un modo, per uno psicologo in un altro, per un operatore in un altro ancora... Il mio tentativo è parlarne in quanto artista, mostrare come alcuni dettagli di quel mondo possano alimen-tare l’arte. Solo in questo senso mi sento legittimato a sollevare il tema della follia. Non lo faccio a scopo di denuncia o di sensibilizzazione sociale, ognuno si sensibilizzi come può, di matti in giro ce ne sono ab-bastanza... Il mio tentativo è trovare il senso dell’allar-gamento della coscienza che in maniera incontrollata agisce i pazienti e in maniera più controllata agisce il teatrante; e come questi allargamenti della coscienza riconducano alla memoria delle nature mitiche dalle quali veniamo. Oggi guardavo il mare qua, a Livorno, attaccato al marciapiede della città: un’immagine che restituisce il senso della potenza che c’è fuori di noi e dentro di noi e come certe forze siano incontrollabili, e noi siamo in loro balìa.

Il processo del lavoro è diffi cile. All’inizio sul pal-co non c’è niente. Dal niente, scelgo il tema: io volevo lavorare sugli stati d’animo, sulle percezioni interne, sugli attraversamenti che la vita ci mette davanti. All’inizio lavoravo coi pazienti come se andassi a scuola d’arte drammatica: siccome il teatro è appunto un luogo di attraversamento, pensavo che fosse una buona pratica per un attore vedere come chi è attra-versato da “qualcosa” riesce a esprimere quel “qual-cosa”.

Il sacro segno dei mostri è la storia dell’incontro tra un artista e alcuni maestri e come alla fi ne l’allievo si congeda dai maestri e se ne va. È stato un viag-gio creativo lento, dove all’inizio appaiono le punte dell’iceberg - i testi dei pazienti, che in realtà sono nient’altro che frasi sparse, frammenti; alcune foto; qualche breve video; i racconti che facevo agli attori (stavolta lavoro con altri sei attori). Da questi piccoli testi abbiamo cominciato a improvvisare delle scene, che poi si arricchivano, diventavano più complesse; infi ne le scrivevo. Lo scritto fi nale sono dunque i testi dei pazienti, montati secondo la forma che avevano preso nella scena. A luglio a Cividale del Friuli abbia-mo presentato la prima tappa del lavoro, una fi nestra aperta e subito richiusa su questo mondo. Avevamo fatto più di cento giorni di prove (ben oltre il tempo che qualunque produzione autorizzi) e tuttavia mi sentivo indietro; e anche adesso, durante le repliche, lavoriamo per aggiustare, sistemare, cambiare - in-somma siamo in pieno processo, le partiture vengono

defi nite fi no al momento di andare in scena. Nella fase attuale sto cercan-do di mettere a posto la fi gura dell’artista in rapporto ai pazienti. Non si tratta di aggiunte secondarie: inserendo l’asse dell’artista, tutto entra nel mondo della visione e cambia la concezione drammaturgica.

D’ANGELI: Grazie d’averci portati dentro la tua fucina, in modo così aff ascinante. Tu parli dei pazienti ai quali t’ispiri, di queste esistenze tra-scurate, misconosciute, con rispetto li chiami “maestri”. Sono presenze, poco realistiche; tuttavia negli spettacoli ispirano personaggi intensi e concreti: l’Angelo di Cinema Cielo, per dire, è uno dei più vivi e indimen-ticabili che io abbia mai visto a teatro. Evidentemente il passaggio che ci hai raccontato è anche un modo in cui la tua immaginazione diventa concretezza.

MANFREDINI: Cinema Cielo è partito da Nostra Signora dei Fiori di Genet. Avrei voluto fare una scrittura per un fi lm (sebbene io non abbia mai fatto cinema). Ma non la vedevo chiara la strada di ricavare un fi lm da un romanzo; e poi non sapevo come muovermi, non facevo niente per contattare un produttore...

D’ANGELI: Ti sei fatto un fi lm nella testa.

MANFREDINI: Già, un fi lm nella testa. Avevo dubbi anche sull’oppor-tunità di occuparmi, oggi, di un’opera scritta negli anni Quaranta. Co-munque m’interessava guardare come i personaggi di Genet vivono nel mondo contemporaneo - la mia domanda riguarda sempre l’oggi, la no-stra vita attuale. Mi chiedevo: i personaggi che Genet mette nel roman-zo (il travestito Divine, l’assassino Nostra Signora dei fi ori, il magnaccia Mignon, i trans amici di Divine, la madre di Divine...) oggi dove li posso incontrare, tutti insieme? Li ho incontrati nei cinema a luci rosse. Sono diventato loro interlocutore, erano i miei fornitori di testi, mi racconta-vano le storie con i clienti, la loro vita... Nei trans che incontravo vedevo diversi aspetti di Divine, nei marchettari vedevo Mignon; altre presenze erano meno identifi cabili, avrebbero potuto essere degli assassini - gli in-contri, nelle zone buie di quei cinema, avvengono nel più totale anoni-mato. E poi c’erano le cassiere: facevano la maglia. Normali signore di mezza età, dai quaranta ai settant’anni, fi gure materne e insieme Caronte di quello strano inferno - verso il quale mantenevano un atteggiamento di inalterabile comprensione. Dal romanzo di Genet ricavai due fi loni: un fi lm porno che nello spettacolo è solo audio; lo vedono i personaggi che frequentano il “Cinema Cielo” ma non il pubblico - il quale vede solo ciò che fanno i frequentatori del cinema. In questo modo la poesia di Genet si sovrappone agli avvenimenti in sala. L’altro fi lone ruota intorno a un trans con le ali (l’angelo caduto, appunto) che entra nel cinema a luci ros-se. L’Angelo è davanti al suo destino, come lo è Divine nel fi lm (invisibile) che sta andando sullo schermo. Si tratta insomma di un gioco di specchi tra i personaggi di Genet che si sentono agire nel fi lm, e la realtà della sala cinematografi ca.

D’ANGELI: Nei tuoi spettacoli, dove è costante la tua vicinanza emo-tiva ai personaggi rappresentati, spuntano sempre elementi comici. In genere però il riso viene inteso come segno della superiorità razionale. Sembra una contraddizione. Allora: che cos’è per te il comico?

MANFREDINI: Il luogo dove ho riso di più nella mia vita è stato il contesto psichiatrico. Per me il comico nasce dall’eccesso della tragedia. Quando uno sprofonda nell’assurdità della sua tragedia capitano situa-zioni di grande ilarità. Mi ricordo un paziente che piangeva a dirotto, gli chiesi: «È triste, oggi?»; «No, rispose, anzi sto bene». E ricominciò a pian-gere. Non che il suo dolore non fosse vero; era vero ma lo stato della sua

DANIO MANFREDINI

Atti&Sipari | 3

Page 4: Atti & Sipari numero 2

spettacoli odierni, indispensabili per avere successo: la pornografi a e la comicità. Due elementi che, indi-cati da alcuni come segno del degrado della società dello spettacolo, possono essere ricuperati, come ci hai appena mostrato, in una chiave commovente e bella e spirituale. L’operazione di riconversione, che tu hai operato nell’attribuire qualità estetiche e con-tenuti d’intensità a due modalità spettacolari così deteriorate, mi sembra un grande arricchimento e anche la possibilità di dare valore diverso a carat-teristiche degenerate, senza passare per le forche caudine del moralismo.

MANFREDINI: Una delle paure grandi del nostro tempo è la relazione con tutto quello che defi niamo ombra. Tuttavia l’arte (e dunque anche il teatro) at-tinge dalle zone d’ombra. Non voglio cadere nella retorica, ma per me Cinema Cielo è la storia di una santa, come la Divine di Genet. «Voglio spogliarla di ogni suo bagaglio e farne una santa» dice Genet del suo personaggio. Perciò le toglie tutto, la umi-lia, la vuole rendere povera - e Divine lascia tutte le sue difese. Anche il teatro permette di parlare dello spirito attraverso un mondo che sembra non avere niente a che fare con esso (del resto, il gioco teatrale è sempre basato sugli opposti). Per me sarebbe più diffi cile parlare dello spirito se mettessi direttamen-te in scena San Francesco, per esempio. Non vo-glio certo celebrare la pornografi a, che considero un contesto come un altro, capace di ispirare la visione artistica. Lo stesso è per la follia che però, se la si guarda nella realtà, è una condizione diffi cile, spesso avvilente. In teatro, quella visione degradata diventa veicolo di uno stato che riguarda tutti, sebbene sia diffi cile lasciar vedere la vulnerabilità che appartie-ne ad ogni essere umano.

D’ANGELI: Genet è molto pre-sente nella tua arte e, suppongo, an-che nelle tue personali predilezioni estetiche. Di lui tu non metti mai in scena il teatro, t’ispiri ai suoi ro-manzi. Anch’essi molto teatrali, se-condo me, con la loro proliferazione di visioni, la ricchezza d’immagini, i personaggi inquietanti... Si pre-stano bene all’evocazione. La tua è una simpatia antica, e una duratura fedeltà, visto che a quest’autore ti sei rivolto sin dall’inizio del tuo lavoro. Ed è rimasto sempre centrale, in certi casi interagendo con altri, con Pasolini per esempio. In che modo avviene il tuo colloquio con Genet e, più in genere, con alcuni testi che ti sono particolarmente cari?

MANFREDINI: Domandona!!! Ci sono autori che leggi per affi nità di percezione. Ho avuto sempre attra-

coscienza cambiava rapidamente, e questo spiazza e produce eff etti comici. O un altro paziente che si disperava dopo l’attuazione della legge Basaglia: «...Adesso la legge è cambiata!... Ci mandano via!... non si sa dove... Chissà dove ci mandano... Speriamo in montagna! A me piace tanto!» Se la parte vitale affi ora in maniera sorprendente anche dove ti sembra che sia esaurita ogni speranza, quell’elemento di sorpresa porta all’ilarità.

D’ANGELI: Il comico è anche una sovversione delle costruzioni logiche consuete: ci sorprende e insieme mette in crisi il nostro modo di ragiona-re.

MANFREDINI: Eh sì, loro sorprendono sempre. E se hai un modello di vita rigido in testa e lo confronti con la vita di un paziente, non puoi che condannare o disperarti. Ma se riesci a star dentro, in qualche misura, anche a quella vita, allora il distacco che ne prendi si attenua. Certo, ti ritrovi con un bagaglio di esperienze diverse da chi ha avuto esistenze più rassicuranti, ma il lavorìo di quelle anime è capace di arricchire anche chi non è passato per i loro tormenti. Molti pazienti mi dicono: «La mia anima sta facendo un grande viaggio e le soff erenze che io sto attraversando mi modellano, mi lavorano». Alla fi ne ho imparato tante cose, soprattutto a non giudicare, ad avere comprensione.

D’ANGELI: Allora, quando negli spettacoli tocchi il tasto del comico è la comprensione che fai agire? Riproduci quel riso, fi glio della comprensio-ne, che hai sperimentato nei rapporti con i matti? È la sorpresa, e la com-passione, che ci costringi a sperimentare?

MANFREDINI: È sempre un riso che nasce dalle lacrime. Ed è lo stesso gioco che loro hanno fatto con me: mi hanno tirato dentro alle lacrime e improvvisamente si sono spostati su un altro piano, e mi hanno spiazzato. Lo stesso propongo al pubblico: quando sprofondi nelle lacrime, ne spari una per far ridere. Il personaggio resta nella tragedia, ma tu, da fuori, puoi ridere. Il monologo dell’Angelo di Cinema Cielo è comico anche se l’An-gelo piange.

D’ANGELI: Nel tuo discorso ritornano due frequenti ingredienti degli

la parola agli artisti

Il sacro segno dei mostri (foto dell’ERT)

4 | Atti&Sipari

Page 5: Atti & Sipari numero 2

agiamo in scena siamo in contatto con l’invisibile. Non parlo di esperienze mistiche, ma dei diversi livelli che entrano in azione in uno spettacolo: la visione scenica, quella che il pubblico vede; l’azione dell’attore, il suo carat-tere, il suo comportamento, la sua parola; infi ne il suo sottotesto, cioè tutto l’immaginativo che attraverso il suo gesto e la sua parola evoca l’invisibile. Qualcosa di simile succede anche coi ricordi d’infanzia, che arrivano dalla memoria e dall’inconscio. A mano a mano che penetro in questa dimensio-ne, legata soprattutto al mondo aff ettivo, si sollevano dei mondi, invisibili di solito. Questi mondi non sono lontani dall’attore che è in scena: lui cerca di cogliere (e di esprimere) l’invisibile che appartiene al personaggio a cui ha attribuito la sua memoria. Un attore non è il personaggio che sta facen-do in quel momento; però a quel personaggio egli regala la sua esperienza, i ricordi, i gesti, la voce; e tenta di cogliere le similitudini. Cerca di capire, di quel personaggio, qual è il mondo che ha attraversato e che cosa ne emerge, fi no a renderlo specifi co e concreto attraverso la sua esperienza. Così ciò che è invisibile entra nel perimetro visibile.

D’ANGELI: E Brecht? Oggi Brecht è dimenticato, pochi studenti sanno chi è, sebbene abbia avuto tanta importanza nel teatro italiano del secondo Novecento. Tu sei partito da Brecht, dalla terribile poesia dei bambini or-fani di guerra che cercano di ritrovare e fondare un’utopia, di salvarsi dalla guerra, e non ce la fanno. È ancora presente, Brecht, per te, è ancora un autore di riferimento?

MANFREDINI: Direi di no. Di Brecht non ho più letto niente, a parte quella poesia.

D’ANGELI: Nemmeno il teatro?

MANFREDINI: Ho visto - non letto! - molto del suo teatro. E ho stu-diato le sue opere teoriche. Quando ho cominciato a lavorare intorno alla Crociata dei bambini di Brecht ero molto giovane (ventitre anni) e inco-sciente (non che oggi il mio approccio al teatro sia tanto più cosciente...); adesso posso cercare di capire perché avevo messo la tensione proprio su quella poesia. Credo che sia la questione degli orfani. Non in senso proprio, allora io non ero orfano dei genitori (li ho persi da poco), ma di maestri sì: non avevo frequentato l’Accademia, non avevo punti di riferimento, andavo avanti in modo piuttosto inconsueto. Tuttora mi stupisco che la

zione per la scrittura di Genet perché in lui colgo amore verso i soggetti che guarda. Non li giudica; li ama e li guarda con passione. Da lì ho pre-so un, diciamo, “respiro ispirato”. È uno strano gioco alchemico: non ca-pisci mai dove ti ha portato, ma ti ha dato una visione. Pensa a come inizia Nostra Signora dei Fiori: «Weidmann apparve a tutti in un’edizione del-le cinque di sera, la testa fasciata di bianche bende, suora nonché aviatore ferito, caduto fra la segala un giorno di settembre simile a quello in cui si conobbe il nome di Nostra Signora dei Fiori». L’immagine è complessa, fatta di specchi bizzarri. Sono subito rimasto catturato da questo modo di parlare delle cose. Tieni conto che io a leggere i romanzi mi annoio; mi ha appassionato solo Delitto e castigo, e poi Genet, perché i suoi romanzi non sono racconti realistici ma traduzioni poetiche. È una narratività espressa per immagini che ti co-stringe a guardare la realtà con gli occhiali che lo scrittore ti mette. La grandezza di Genet, per me, è che i suoi occhiali mi costringono a guardare con meraviglia qualcosa che, se la guardassi con sguardo normale, non potrei cogliere.

D’ANGELI: È un universo visionario insomma. Genet, che scriveva in carcere, è da quella chiusura asfi ttica che s’immagina un mondo, e lo crea attra-verso i romanzi. Analoga capacità visionaria appar-tiene anche al teatro - o quanto meno al tuo teatro.

MANFREDINI: La capacità visionaria di Genet secondo me è intuire, attraverso la fantasia, qual-cosa della realtà senza sottrarsi alla realtà, restituire qualcosa che ha a che fare con l’invisibile. Mi viene in mente un altro suo brano, è Miracolo della Rosa stavolta: «Il penitenziario di Fontevrault brilla an-cora (ma d’uno splendore velato, dolcissimo) degli sfavillii che nel suo più buio cuore, le celle di se-gregazione, emise Harcamone, condannato a mor-te». Anch’io se guardo un carcere, non lo guardo come una casa qualsiasi; ai miei occhi è ammantato di un’aura inconsueta. Genet l’attribuisce al cuore buio di Harcamone (io, non so a che cosa) e vuole dirmi che quell’aura è legata alla soff erenza di chi è rinchiuso là dentro. Avere una percezione parti-colare quando si guardano le mura di un carcere è esperienza piutosto diff usa; Genet dà una spiega-zione per quella percezione. In questo senso la sua visionarietà attinge a una metafora (il buio cuore di Harcamone) e nello stesso tempo si ricongiunge con l’esperienza frequente di percepire le mura di un carcere come emananti un fl uido misterioso. È in questo modo che la realtà rivela l’invisibile. An-che il teatro ha a che fare con l’invisibile. Quando

DANIO MANFREDINI

Il sacro segno dei mostri (foto dell’ERT)

Atti&Sipari | 5

Page 6: Atti & Sipari numero 2

gente mi chieda di parlare del mio lavoro, sebbene non siano in molti a conoscermi, sebbene io non vada in televisione e faccia un lavoro sotterra-neo... Ultimamente però ho ottenuto il contributo dell’ERT che fi nanzia alcune (poche) realtà di teatro di ricerca (me e Pippo Delbono in questo momento); mi sento privilegiato rispetto ai tanti artisti che non hanno alcun tipo di sostegno, pur venendo a volte da un curriculum più canonico. Io poi non ho fatto nemmeno troppi spettacoli, dieci in tutta la mia vita, uno ogni quattro/cinque anni. Certo, non sto fermo negli anni d’intervallo. Anche negli artisti che considero miei compagni di viaggio (César Brie, Pippo Delbono, Pepe Robledo, Raff aella Giordano, Michele Abbondanza, Antonella Bertoni, il gruppo della “Valdoca”, tutti conosciuti pochissimo dal grande pubblico), c’è una caratteristica comune: si va continuamente in sala, ci si allena fi sicamente, vocalmente, si fa training... un grosso lavoro di sala al di là dei momenti di produzione. Nei giorni passati io sono stato ore e ore da solo, in sala, a meditare sul nuovo spettacolo: gli attori li vedrò per due giorni, con loro mi limiterò a verifi care alcune modifi che che ho già introdotto ragionandoci fra me e me.

D’ANGELI: Ci hai ben spiegato come il tuo modo di realizzare gli spet-tacoli richieda tempi diversi da quelli oggi consueti. Ed è evidente che la questione del tempo sia legata al tuo percorso: quando prepari un nuovo spettacolo riattraversi categorie di pensiero, di cultura, di percezione... Una lunga metabolizzazione è inevitabile.

MANFREDINI: Soprattutto c’è il fatto che io, come i compagni di viaggio che ho citato prima, sono partito da un bisogno esistenziale e spiritua-le - non dall’idea degli spettacoli. Eravamo degli inquieti, con una necessità anche fi sica di agire, di aprirci: di qui, la danza, il samurai, le arti marzia-li, la sperimentazione vocale... Ho lavorato per tre anni con Iben Nagel Rasmussen dell’Odin Teatret, una grande maestra, con alle spalle il bagaglio gro-towskiano e poi barbiano. Il suo training era fatto anche di esercizi acrobatici; nel tempo, tutti noi che l’abbiamo seguita abbiamo scoperto che, dopo es-serci impadroniti dei mezzi espressivi fi sici, psichici, vocali, potevamo prendere strade poetiche diverse l’una dall’altra. Pippo Delbono ha capito che aveva affi nità con Pina Bausch ed è andato a lavorare con lei per più di un anno; io mi sono sentito affi ne a certi insegnamenti dell’Actors Studio, e così via.

D’ANGELI: La danza è importante anche per te.

MANFREDINI: Be’, l’infl uenza di Raff aella Gior-dano per me è fondamentale; e poi mi sono avvici-nato a Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri, al “Teatro della Valdoca”. Amo la poesia di Mariange-la, Parsifal è stata un’esperienza forte e bella, diversa dai miei processi abituali. È stato un altro viaggio. Mentre tu dici le poesie di Mariangela bisogna che le parole riverberino la tua esperienza, non devi pre-vedere che cosa emanerai in scena. Cesare ci chie-deva di “impazzire”, visto che Parsifal è il folle puro. Non devi esseri tu a manipolare le parole ma devi lasciare che le parole ti aprano. Questa era la du-rissima indicazione di Cesare. Un viaggio diffi cile da sopportare anche psichicamente ma mi ha molto arricchito.

D’ANGELI: Il Parsifal di Mariangela Gualtie-ri contiene momenti di grande bellezza, quando l’identità dell’eroe si rompe e lo precipita nella not-te oscura, nello smarrimento. Le caratteristiche di quest’uomo che non è più eroe, o che lo diventa proprio quando non lo è più, ti sono molto con-geniali.

MANFREDINI: Il progetto di Parsifal è stato bizzarro. Mariangela è un’inquieta del mondo con-temporaneo, per me grande poetessa - siamo amici, abbiamo pestato l’uva insieme, una settimana fa... Ha voluto portare Parsifal nella contemporaneità, ma il suo Parsifal non è un eroe, è un essere umano qualsiasi, uno dei tanti che viaggiano tra l’eroismo e il fallimento. Mariangela mi ha detto: «Io prendo te come riferimento, ti guardo e vediamo che cosa, di Parsifal, vedo in te». Così ha cominciato a fre-quentare me, i luoghi della mia vita, le mie situa-zioni aff ettive di quel momento, i miei pensieri... parlavamo... Una mattina, mettiamo, mi lamentavo della fatica del mio lavoro, quel lasciarsi invadere,

la parola agli artisti Al presente (foto di Guendalina Ravazzoni)

6 | Atti&Sipari

Page 7: Atti & Sipari numero 2

un fatto narcisistico - come spesso l’autobiografi smo tende ad essere - ma di un fatto di comunicazione e di trasmissione, o di attraversamento. Cioè serve a mettere in contatto mondi diversi, dove l’attenzione prevalente non è rivolta al sé ma all’altro.

MANFREDINI: Comunque è sempre un viaggio. Io vedo quando un attore fa riverberare nella sua esperienza umana ciò che dice. Mettiamo che un’attrice canti una canzone di Mina; io lo so quando quelle parole la scavano in una direzione che le appartiene, la portano verso uno dei baratri della sua vita, una storia d’amore tremenda, per esempio. L’attrice diventa allora il veicolo che apre a tutti la sua esperienza dolorosa; mentre lei ripercorre un ricordo personale, qualcosa di analogo succede anche a me spettatore, anch’io sono passato in mezzo a una simile lacerazione amorosa. Ma è l’attore che deve aprire quell’esperienza: se non succede niente dentro all’attore, non succede niente nemmeno nel pubblico.

D’ANGELI: Un’altra parola voglio considerare più da vicino, ti appartie-ne, la pronunci spesso: la vergogna - o il pudore, come forse preferisci dire. La vergogna è un sentimento ambiguo, lo si prova spesso perché gli altri ci costringono a provarlo: i poveri che si vergognano degli abiti malmessi, gli omosessuali e le donne che per secoli hanno dovuto vergognarsi dei loro corpi... Tu però di pudore e di vergogna parli a proposito della tua presenza d’attore - né credo che ti riferisca alla paura del pubblico. Che cos’è allora questo pudore che hai in comune con gli emarginati?

quella necessità di aprirsi… Poi, la mattina dopo, andavo giù alla cartoleria (non avevo il fax) e tro-vavo i suoi fogli: «Non posso non voglio non più posso/non più posso tenere la sopportazione. Non ne posso più del vociato mondo/che saltimbecca nel mio scrigno delle/bellezze senza complimenti./Mi saltimbecca e lo trovo piatto quel suo/percorrere le mie distanze, suo/sgambettare verso il risultato./Io non do risultato». Erano i miei temi, le mie la-mentele, riverberate in poesia. Oppure le parlavo di una mia incasinata storia d’amore, e trovavo questi versi: «Quando s’ama, solo quello tempo,/solo quel-lo tempo si vive che si ama./E tutto niente d’altro tempo niente/niente, altro tempo niente/niente al-tro tempo, perso tempo/tutto perso se non quello che si ama». Era una magia, no? Lei aveva un suo modo di guardare la mia vita, le mie lotte, le mie sconfi tte, e lo diceva con la sua poesia.

D’ANGELI: Mi aggancio al suggestivo racconto della preparazione di Parsifal per aff rontare l’argo-mento dell’autobiografi smo. I tuoi spettacoli con-tengono numerosi elementi autobiografi ci; e inoltre dai largo spazio ad autori che insistono nei riferi-menti alla loro vita. Confesso un mio pregiudizio: nutro diffi denza verso l’autobiografi smo, è un ter-reno troppo scivoloso. Poco mi convincono anche le teorie su questa materia. Invece in un’intervista a Oliviero Ponte di Pino ho letto alcune tue frasi il-luminanti: l’arte vi appare un modo per condividere, attraverso una metamorfosi, esperienze che sennò rimangono individuali.

MANFREDINI: Però non si tratta d’ideologia. A me viene spontaneo immettere negli spettacoli ele-menti autobiografi ci. Non perché considero la mia vita più importante di un’altra, ma perché è quella che conosco di più e posso parlarne più a fondo. Per di più sono convinto che la mia esistenza sia interessante solo perché passa attraverso incontri con altre esistenze. Altrimenti sarebbe poca cosa. In fondo facciamo tutti parte dello stesso corpo anche se ci chiamiamo con nomi diversi. Siamo tutti qua a condividere un viaggio, per ognuno di noi quel viaggio prende una forma; ognuno parla della sua forma. E poi a me interessano moltissimo le vite degli altri, attraverso di esse posso capire quello che a loro è successo, e soprattutto che cosa sono loro. In questo senso c’è sempre un rapporto tra quello che accade nella vita e quello che si traduce nella scena. Per esempio, in Cinema Cielo io come Danio non appaio ma so che nel personaggio dell’Ange-lo, il trans, c’è molto Danio - però c’è anche molto Genet quando dice «È sulle spalle di Divine che io pongo il mio destino». Io ho messo sulle spal-le dell’Angelo una somiglianza che riguarda il mio destino interiore.

D’ANGELI: È appunto questo che mi convince nelle tue parole sull’autobiografi smo: non si tratta di

DANIO MANFREDINI

Il sacro segno dei mostri (foto dell’ERT)

Atti&Sipari | 7

Page 8: Atti & Sipari numero 2

MANFREDINI: In teatro quell’aspetto prende forse un’altra valenza. Se tu, da attore, assumi il destino di un personaggio che ha delle ragioni per vergognarsi, che perciò si ritrae dal mondo, si isola, nella scena puoi contare sulla quarta parete che, permettendoti di ignorare il pubblico, ti consente di manifestare nella sua interezza, e pubblicamente, la condizione vergognosa. La stessa condizione che nella vita ti porta a nasconderti, in teatro la puoi mettere sotto lo sguardo di tutti. Così l’attore fa sì che quel personaggio riveli la sua ombra, la parte che di solito si nasconde. E d’altra parte l’espo-sizione dell’ombra permette al pubblico di guardare nello specchio le tante cose che provocano vergogna perché si pensa che ci tolgano l’amore a cui tutti aspiriamo. Sarebbe bello avere la forza di dire: «Io sono questo, se po-tete amatemi così». Sarebbe bello darci la legittimità di essere come siamo e non come dovremmo essere. Un viaggio diffi cile che spesso costringe alla solitudine. Un grande tema.

D’ANGELI: Che ti sta a cuore...

MANFREDINI: Mi sta a cuore perché l’amore ci è permesso solo se stia-mo dentro certe regole; appena sgarriamo, non siamo più degni d’amore. Oppure bisogna negare parti di sé o non praticare modi che potrebbero off endere la sensibilità di qualcuno... Tutto questo impedisce che un essere umano abbia la possibilità di esperire ciò che vuole. Succede anche nelle coppie: se si è soli si è liberi e si può fare esperienza di tutto ciò che si vuole; ma se si vive una situazione di coppia, molte parti devono essere tagliate fuori o si deve mentire. Ammiro chi riesce ad accettare i compromessi per risolvere i problemi di coppia - penso a mia madre, che questa pazienza l’ha avuta, è rimasta dentro un piccolo perimetro di vita ma ha fatto un grande viaggio, attraverso cose semplici, quotidiane, come diventare l’infermiera di mio padre, malato per tanti anni. Ha messo la sua vita al servizio di un amore, ha servito quella causa con grande dedizione, non aveva grilli per la testa, ha accettato di vivere nel poco. Non tutti ci riescono, dipende dalla propria natura...

D’ANGELI: Hai ammirazione, dunque, per la virtù della pazienza, per continuare a elencare le voci di un piccolo “dizionario secondo Danio”...

MANFREDINI: Sì, grandissima ammirazione. Io la pazienza ce l’ho sul lavoro, con gli attori - nella vita e nella coppia molto meno di quanto ser-virebbe.

D’ANGELI: La mia ultima domanda: da giovane hai frequentato i centri sociali, i circoli milanesi eversivi, ti sei insomma occupato di politica. Oggi si parla con insistenza di crisi della politica, di disgusto verso la casta che amministra la politica in modi poco puliti e trasparenti. Tuttavia la politica è stata anche il momento dell’utopia. Ora, chiunque ami l’arte, in tutte le sue manifestazioni, ama l’utopia perché l’arte è la realizzazione delle visio-ni, dell’immaginazione, la creazione di mondi. A te come riesce di vedere la politica? E come la metti in relazione all’arte?

MANFREDINI: La politica ha sempre avuto a che fare con lo sviluppo del pensiero, dalla fi losofi a all’economia all’istituzione delle leggi... I luoghi ai quali accennavi prima sono in eff etti ritrovi politici: il Centro Sociale Isola, il Leoncavallo, L’unione sindacale italiana, un’associazione anarchica nella cui sede tuttora faccio le prove (per poco ancora, sta per essere sgomberato,

lo spazio l’ha comprato la Bocconi...). Sono posti dove si può lavorare indisturbati, senza orari, senza contratti - luoghi strani, eccezioni che continuano a vivere. Con gli anarchici ho sempre avuto buone relazioni, sono persone davvero aperte.

Che l’arte possa sensibilizzare le coscienze, che possa intervenire nel sociale è un pensiero che con-divido, e anzi penso che in questo senso l’arte po-trebbe avere un ruolo perfi no più signifi cativo della politica perché si muove su un piano psichico ed emotivo e ha sempre svolto una parte rilevante nello sviluppo politico e educativo dell’essere umano. La natura dell’arte è sempre un tentativo di allargare la coscienza, e chi fa politica, anziché infognarsi nel-la ripetizione di slogan e dogmi, potrebbe cercare di vedere nell’arte, nella cultura, delle piccole luci d’orientamento, sulle quali dirigersi, estendendo così alla politica la proprietà artistica di ampliare le coscienze.

D’ANGELI: Certo che, se per politica s’intende qualcosa di più ampio e vitale di quella nozione asfi ttica che da molto tempo, almeno nel nostro Paese, si sta imponendo, il tuo modo d’intendere l’arte è un modo intimamente politico.

MANFREDINI: Lo credo anch’io. E del resto è po-litica anche l’azione quotidiana che ognuno di noi nel suo piccolo può compiere. Io non vado a votare ma mi sforzo di compiere nella mia giornata gesti che considero politici, capaci di modifi care le cose in modo signifi cativo. Non pretendo di cambiare i grandi sistemi; però se nella quotidianità si condivi-de il viaggio umano con minore violenza reciproca, con più comprensione, con gentilezza, sono convin-to che serva molto a cambiare le cose. La gentilezza è una grande qualità.

L’intervista è stata condott a il 28 sett embre 2007 nell’ambito del seminario “La diversità a teatro”, promosso e fi nanziato dal Comune di Livorno, con la collaborazione delle Università di Pisa, Torino e Bologna e il coordinamento scientifi co di Concett a D’Angeli

la parola agli artisti

8 | Atti&Sipari

Page 9: Atti & Sipari numero 2
Page 10: Atti & Sipari numero 2

SOTTO LA LENTE

10 | Atti&Sipari

In realtà questa operazione è senz’al-tro a sua volta politica, in quanto per tale la defi nisce la natura e lo spessore degli argomenti che ne sono oggetto, e che si possono raggruppare anzi attorno all’idea fondante della politica, l’obiet-tivo del bene comune e la sua priorità rispetto all’interesse dei singoli; in par-ticolare essa investe lo statuto specifi co della democrazia rappresentativa, che affi da l’obiettivo al benefi ciario medesi-mo, il popolo, attraverso la mediazione dei suoi rappresentanti. Il degrado si crea dunque dall’ineffi cienza o dalla malafede che (l’una o l’altra, o anche l’una e l’al-tra) vengono presunte nei rappresentanti medesimi, in quella cioè che spesso desi-gniamo come casta, dal titolo di un libro non a caso fortunatissimo, e che chiude il circolo argomentativo battezzando ap-punto come antipolitica l’aggressione che riceve, e che fa passare come negazione indiscriminata del fare politico, anziché del fare suo proprio, dell’attuale classe dirigente: in questa operazione difensi-va questa classe esprime il rifi uto di ogni cambiamento, nelle persone e nei meto-di, quale che possano essere i propositi auto-aff ermati di rinnovamento.

Peraltro ciò che più interessa noi in quanto studiosi dei processi e delle for-me dello spettacolo è che la defi nizione di antipolitica denuncia, al di là della manovra difensiva, una eff ettiva diff eren-ziazione della satira dall’ordinaria comu-nicazione politica: mentre quest’ultima è destinata alla comunicazione compatta e univoca di un messaggio persuasivo e alla sollecitazione di comportamen-

ti omogenei ad esso, nella satira questa fi nalità convive con quella istituzionale dei generi letterari e teatrali fondati sul comico, quella cioè di far ridere, un esito fi sio-psicologico che esprime attraverso la corporeità il livello più forte dell’iden-tifi cazione emotiva, ma la impegna sul terreno della preziosa gratuità che carat-terizza la dimensione artistica.

Si profi la dunque una contradditto-rietà rispetto alla vocazione pragmatica della politica; se però teniamo conto che l’arte ha sempre assunto anche il compi-to di comunicare contenuti rilevanti alla condizione umana, individuale e socia-le, infl uendo di conseguenza sui com-portamenti, l’uso del comico in politica si articola piuttosto nei termini di una formazione di compromesso: da un lato infatti il suo specifi co piacere allarga le possibilità di ricezione del messaggio, dall’altro ne inibisce l’immediatezza e il vigore operativo.

Questo anche per una ulteriore am-biguità che investe il comico in quanto veicolo dell’opposizione fra idee, schiera-menti, persone, e che si rispecchia nella defi nizione che del riso ha dato Freud come marchio di superiorità nei con-fronti di una condizione che viene con-notata come infantile.

Superiorità e dunque svalorizzazione e discredito, ma se la posizione screditata si riallaccia - anche solo nel profondo di un’identifi cazione inconscia - all’univer-so infantile, essa porta con sé il residuo ineliminabile della familiarità e di una sorta di collusione aff ettiva, che favorisce altresì l’immobilizzazione del confl itto in un gioco di ruoli, al quale la posizione avversa diviene, più ancora che funziona-le, indispensabile. È questa collusione a stemperare il confl itto, non l’apparente fatuità del comico, che ne è semmai l’epi-fenomeno superfi ciale.

Può non essere inutile verifi care il funzionamento del compromesso nel solo grande teatro che risponda alle qua-lifi che di “comico” e di “politico”, ed è la commedia attica archaia per noi rap-presentata dalle commedie superstiti di

Aristofane: il parallelo funziona alla luce di condizioni storiche per cui ora come allora si prende a interlocutore una col-lettività nominalmente depositaria del po-tere, e interrogabile come unità organica e compresente - ciò che allora era possi-bile in forza della peculiarità del teatro di Dioniso e del suo ruolo centrale nella vita pubblica ateniese, oggi lo è in forza delle tecnologie di comunicazione: non è un caso che l’esclusione dalla televisione sia il punctum dolens delle requisitorie dei comici, e non lo è neppure che qualcuno di loro (soprattutto Beppe Grillo) faccia di necessità virtù puntando sulle nuove chances di aggregazione permesse da In-ternet, con il possibile vantaggio dell’in-terattività, che se da un lato realizza l’an-tico sogno teatrale dell’abolizione della quarta parete, dall’altro sembra porre in termini più corretti il controverso tema del rapporto tra il capopopolo e le mas-se (in queste stesso numero della rivista l’argomento è trattato in modo più ap-profondito da Paolo Puppa). Ma Grillo si mostra ansioso di prevenire le riserve che proprio l’impegno interattivo, inteso come responsabilità, potrebbe suscitare nel pubblico, in modo che è diffi cile non chiamare paternalistico («non dovete preoccuparvi di niente, non ci sono spese, penso a tutto io…»).

Peraltro nell’opinione dei Greci del V secolo, la commedia ha come compito istituzionale l’azione politica, schieran-dosi tra i soggetti che contribuiscono a formare l’opinione pubblica: «anche la commedia conosce la giustizia», si dice negli Acarnesi 500, e nella stessa comme-dia il poeta rivendica il merito di avere demistifi cato agli occhi degli Ateniesi le adulazioni di cui erano vittime e at-traverso le quali passava ogni inganno e ogni strumentalizzazione. Subito dopo, la più alta aff ermazione del valore socia-le proprio e della propria attività poeti-ca si nasconde con pudica ironia dietro il paradosso per cui sarebbe il nemico antonomastico, il Gran Re di Persia, ad attribuire al poeta un ruolo decisivo, se-condo solo a quello dell’armamento della

Guido Paduano

Antipolitica è il nome di-spregiativo che viene dato all’azione che un gruppo di personalità dello spettacolo svolge rivolgendosi agli spet-tatori-cittadini per denuncia-re quello che a loro giudizio è il degrado profondo, in Italia, della vita politica.

Comici e politica (o antipolitica)

Page 11: Atti & Sipari numero 2

I “COMICI TELEPREDICATORI”

Atti&Sipari | 11

fl otta (!).E ancora nelle Vespe, quando il giova-

ne Bdelicleone si accinge a convincere il padre della inanità del potere giudiziario, condizionato dal potere corrotto dei pe-dagoghi, introduce il suo discorso lamen-tando la diffi coltà del compito di «guarire una malattia antica, radicata nella nostra città» (v. 651), che può sembrare inade-guato alle possibilità del teatro comico; e ancora nelle Rane si insiste con tono so-lenne che la commedia deve promuovere gli interessi di Atene: «è giu-sto che il coro sacro dia alla città ammonimenti e consi-gli» (vv. 686-687).

Peraltro la struttura della commedia archaia contiene una specie di anticorpo re-lativo alle possibili controin-dicazioni della comicità nella lotta politica, distinguendo un piano dell’invenzione te-atrale, che ha per lo più ca-rattere fantastico e onirico, e consiste nella rigenerazione magica del mondo e del suo riscatto dalla miseria attuale, e un piano della comunica-zione politica diretta, dove si infrange l’illusion comique, e il coro interloquisce a nome del poeta con gli spettatori-cittadini, esaminando ex professo la situazione attua-le. Meno che mai in questo contesto il poeta nasconde il proprio schieramento, facen-do addirittura dello scontro con il demagogo Cleone una marca di riconoscibilità, nelle forme di un ritor-nello che torna quasi identico, ad esem-pio, dalle Vespe alla Pace. Lo strumento usato per questo secondo canale della comunicazione scenica è detto paraba-si, ed è lecito pensare che risalga a una fase antichissima, in cui il ruolo del coro era preponderante se non addirittura esclusivo: la sua arcaicità è confermata dalla progressiva tendenza a scomparire, giacché negli Uccelli, nelle Tesmoforiazu-se, nella Lisistrata viene meno la rottura dell’illusione, e le ultime due commedie, le Ecclesiazuse e il Pluto, non hanno pa-rabasi.

Il discorso politico immediato e at-tuale della parabasi non ha mai compor-tato per Aristofane l’esclusione totale del comico e del riso, di quell’aggressione scommatica in cui Aristotele vedeva una

delle due tendenze fondanti della lettera-tura, parallela e simmetrica all’encomio; ma è da rilevare che l’equilibrio della par-tizione tende ad alterarsi soprattutto nel senso che l’io del poeta tende a uscire dai limiti della parabasi per invadere anche la fi nzione. Abbiamo già visto l’esempio delle Vespe dove il giovane riformatore si identifi ca col giovane poeta; ancora più colpisce l’apparente lapsus degli Acarnesi502-503, quando il protagonista, il vec-chio contadino attico Diceopoli rievoca

un processo che l’anno precedente gli avrebbe intentato il demagogo Cleone (cioè, naturalmente, avrebbe intentato ad Aristofane).

Un altro movimento di estensione dell’attualità e del soggetto politico si ha in quella zona marginale che in alcune commedie introduce l’azione, esponendo agli spettatori l’argomento. Così nelle Vespe la narrazione di un sogno da parte del servo che dovrebbe sorvegliare il pro-tagonista fanatico dei processi - e invece dorme - consente di polemizzare con gli odiati avversari; nella Pace il clima escre-mentizio, funzionale alla descrizione dello scarabeo, consente una fi n troppo facile transizione all’aggressione politica.

Nei nostri comici predicatori si è per lo più rinunciato alla distinzione-sinergia fra un’azione comica e una realtà polemi-ca: questo equilibrio che era ancora vali-

do per Dario Fo - soprattutto in quella parte della sua produzione che occupa gli anni ’70 - si presenta ancora come tenta-zione, ma con esiti non felici perché non sostenuti dalla suprema virtù teatrale del ritmo. Si veda ad esempio Questa sera si recita Molière di Paolo Rossi (2005), dove il rifacimento del Medico per forza si in-golfa in un’estensione attualizzante un po’ asmatica.

Le funzioni quindi tendono a di-vidersi con nettezza, e quella che per la

democrazia ateniese era fi siolo-gia istituzionale, la presenza del comico nel panorama politico, deve essere giustifi cata come un paradosso di cui la responsabili-tà ricade ancora una volta sulla politica (o meglio, come si dice-va prima, sulla classe politica), così fallimentare da richiedere all’esterno di sé una funzione surrogatoria.

Lo stesso Paolo Rossi, nello spettacolo Il sig. Rossi e la costitu-zione (2003), che è invece bril-lante e vivacissimo, e a mio pare-re, davvero educativo, si pone la domanda di come gli sia capitato in mano un tema così importante e delicato e anche tecnicamente complesso come la Costituzione Italiana e i suoi progetti di mo-difi ca, e la risposta cui la doman-da è funzionale si risolve in uno sberleff o: il comico si fa costitu-zionalista per riequilibrare una situazione in cui ogni giorno il politico si fa comico.

Lo schema concettuale è proprio quello usato da Aristofane molte volte, soprattutto nelle commedie “femminili”, Lisistrata ed Ecclesiazuse, che porta alle estreme conseguenze il discredito della gestione attuale dello stato suggerendo che valga la pena di sperimentare qual-siasi nuovo soggetto politico, dal mo-mento che quelli già sperimentati han-no dato esiti così disastrosi (è vero che manca ad Aristofane ciò di cui abbonda, come dicevamo, la nostra società, cioè l’esperienza della mistifi cazione abituale del vecchio o vecchissimo come nuovo; ed è vero che in particolare di questo pa-radosso ha potuto giovarsi a suo tempo lo stesso Berlusconi, primo sostenitore dell’antipolitica con la sua opposizione fra la concretezza imprenditoriale e le chiacchiere del Parlamento).

Ma dicendo che i politici fanno ride-

Paolo Rossi (foto di Giovanni Gussoni e Loris T. Zambelli per Photomovie)

Page 12: Atti & Sipari numero 2

SOTTO LA LENTE

12 | Atti&Sipari

re, lo sberleff o è ben più perfi do perché si avvale di tutta l’ambiguità potenziale del riso: mentre sembra profi lare soltan-to uno scambio di professionalità, che farebbe scandalo solo perché i problemi nevralgici della comunità slittano nella dimensione del fatuo (e già questo non è poco), rincara tuttavia suggerendo che il politico sia oggetto e non soggetto del riso - un riso involontario suscitato dalla debolezza del suo comportamento, che si denuncia per sé senza bisogno del comi-co professionista, impegnato nello scam-bio dei ruoli.

Impegnato cioè a creare integrazione politica, ma senza rinunciare, come non rinunciava il poeta ateniese, al piacere onirico e fantastico: questo mi pare il senso dell’ossimoro «delirio organizza-to» che Rossi conia per descrivere il suo obiettivo. L’altro sintagma usato nello stesso contesto «assemblea para-teatra-le», è anche più ambizioso nel mescolare al gioco scenico l’idolo della democrazia diretta.

L’oggetto poi concreto della messa in scena, la recita di alcuni articoli della costituzione, scelti fra quelli minacciati di cambiamento o fra quelli dove è più esposto a un riso amarissimo il gap tra essere e dover-essere, si sviluppa in una serie di scenette dove la tendenza cen-trifuga all’autonomizzazione gioca a fa-vore del ritmo dello spettacolo, anche a costo di stemperare la compattezza del-la polemica. A testimonianza di quanto siano variabili le distanze tra soggetto e oggetto del riso possiamo confrontare la requisitoria contro Andreotti, dove non si rinuncia neppure all’elementare beff a del difetto fi sico (sta nella celebre gob-ba la “scatola nera” che, come nei disastri aerei, dovrebbe permettere di ricostrui-re le cause del disastro italiano), con la scenetta che illustra l’indivisibilità della repubblica inscenando con inguaribile aff etto retro una disputa di campanile fra un pescatore di Trani e uno di Barletta, che paiono irrimediabilmente divisi dalla loro contiguità spaziale.

Tra le diverse anime della comici-tà l’equilibrio è assicurato da quello che chiamerei il protagonismo della parola contro se stessa; la liaison tra lo strumen-to privilegiato del teatro occidentale e lo strumento privilegiato della retorica po-litica, diciamo pure il ruolo illusionistico che entrambi assumono facendo passare la fi nzione per verità, sfocia in una dura resa dei conti, proclamando la necessi-

tà del ritorno della parola alla cosa - un principio generale non meno diffi cile di quello che comporta il bisogno di dare realtà alla “parola” democrazia. Ma un sintagma come «guerra umanitaria» esce dal regime articolato di cui parlavo per aff ermare uno scandalo e una condanna perentori.

In eff etti, questo tema rientra nel campo espressivo di Beppe Grillo - come, si ricorderà, in quello del Nanni Moret-ti di qualche tempo fa - ma assumendo più che la corda del riso, quella dell’in-dignazione, non estranea del resto alle realizzazioni del genere “satira” in campo non teatrale. Non è inusitata neppure la dimensione di secondo grado che l’indi-gnazione assume denunciando non solo i misfatti della politica, ma il fatto che essi rischino di perdere ogni marca scanda-losa, sempre più risultando tacitamente accettabili e accreditandosi come prassi nella mancanza di reazione.

Negli spettacoli di Grillo, e sempre più, mi sembra, negli ultimi, la battuta è usata soltanto come grimaldello per innestare e catalizzare il contatto col pubblico, e a questo fi ne poco conta che siano battutacce topiche (peraltro autoi-roniche) come l’avarizia dei Genovesi. Denunciando la falsa concorrenza delle compagnie telefoniche Grillo invita sul palco uno spettatore invitandolo a telefo-nare nel posto più lontano in cui conosce qualcuno, ricorrendo alla taumaturgia sociale della rete informatica, che gli farà spendere pochi centesimi - ma a telefo-nate conclusa ed esperimento riuscito, reclama con ostinazione il pagamento di quei centesimi.

Per il resto, il proclama magrittiano «questo non è uno spettacolo» merita ogni attenzione nel suo rivendicare il mondo autentico dei bisogni individuali e collettivi - come se il senso del messag-gio fosse “non c’è niente da ridere”. Assai meno persuasiva la tendenza opposta, che porta a dire «io sono un comico, non voglio addossarmi il peso dell’azione po-litica»: se non il vezzo, anch’esso antico, della recusatio, vi si può rintracciare la dif-fi coltà che ha sempre il capopopolo che rifi uta l’egemonia dei partiti, ma è sem-pre sul punto di fondarne uno, o almeno di fornire agli oppositori la possibilità di aff ermarlo in via denigratoria. Del resto il paradosso in apparenza ingenuo di Paolo Rossi - il comico che diventa costituzionalista - da Grillo viene preso alla lettera almeno in senso confl ittua-

le: diventa cioè il comico che negli altri paesi viene preso sul serio quale esperto di tematiche specializzate (come quelle fi nanziarie, che guidano la sua battaglia “storica” contro la Parmalat), mentre in Italia questo riconoscimento gli viene a mancare, contestualmente al divieto che gli sbarra la comunicazione televisiva.

Lo svolgersi poi della polemica, in campo fi nanziario come nel dibattito biologico e farmacologico, o anche in quello dell’educazione, si fa apprezzare anche al di là dell’adesione ai contenuti, per la tensione sempre viva, e per la ca-pacità di ricostruire dall’arcipelago la vi-sione di un mondo - sarebbe meglio dire di un inferno - unitario.

L’opposizione è ancora una volta quella aristofanesca tra fi nzione e verità: la fi nzione prende l’aspetto peculiare del-la serie di imitazioni, per cui la Guzzanti è unanimente e giustamente apprezzata. Ma ragioni sia teoriche (consistenti nel fatto che l’imitazione comporta la più profonda commistione tra l’io satirico e l’altro preso di mira), sia sociologiche (possiamo disprezzare, non ignorare il successo dei vari Bagaglini), rendono evi-dente il rischio che l’ambiguità istituzio-nale del riso precipiti sul versante della corrività.

Tanto più e non tanto meno questo rischio si confi gura se la fi nzione si tro-va a stretto contatto con una verità che proclama contro il regime berlusconiano la necessità di una nuova resistenza. Il tono patetico e drammatico che innerva questa parte, e in particolare la canzone conclusiva I ribelli della montagna, fa sì che l’iperbole passi da essere arma istitu-zionale del comico ad essere arma di una ribellione che suona spiazzata - in questi giorni ancor più quando tutti, a partire del Capo dello stato, si sbracciano nella richiesta di non “demonizzare” l’avversa-rio.

In Reperto raiot (2003) di Sabina Guzzanti, comico e azione politica sono sì com-presenti, ma proprio la loro compresenza sancisce un di-vorzio non più ricomponibile nemmeno nei termini della cifra formale e artistica.

Page 13: Atti & Sipari numero 2

I “COMICI TELEPREDICATORI”

Atti&Sipari | 13

tratti della televisione, dove Roberto Be-nigni colle sue letture dantesche trionfa sul primo canale di stato; o del blog elet-tronico, che vola su Internet e in cui cre-scono nuove mitologie performative. È il caso anche di Beppe Grillo, che proviene del resto dal successo del piccolo scher-mo, sottrattogli per ragioni di censura politica, e adesso reso icona carismatica grazie ai tanti utenti che lo seguono fe-deli nella rete. I dati del settembre 2007 vantano centinaia di migliaia di contatti giornalieri, facendo del suo sito il luogo elettronico più frequentato in Italia e il nono nel mondo, premiato a livello inter-nazionale. Palcoscenico virtuale dunque, sempre attivo, parlato dalle lingue del futuro, laboratorio comunicativo tramato da sincopati sms, da video e foto perso-nali o ancora da veri montaggi creativi spediti al suo indirizzo di posta elettro-nica. Un fondamentalismo tecnologico prima ancora che ideologico avanza così con prepotenza, riverbera dagli infi ni-ti email, circonda quelle che un tempo si sarebbero chiamate esibizioni teatrali di una luce fascinosa, nell’etimo antico del termine: un’apparizione misteriosa, insieme seducente e pericolosa, con cui occorre fare i conti.

L’ex-ragioniere scoperto da Pippo Baudo, Pigmalione in grado di lanciare i suoi cabaret esoterici (per lo più monolo-ghi satirici di costume usciti dalla fucina comica ligure e lombarda degli anni ’60) in trasmissioni di grande ricezione, da Te lo do io l ’America (1981) a Te lo do io il Brasile (1984), sino ai trionfi del Bep-pe Grillo show (1993), conserva della sua lontana genesi gesti e suoni ma calati in un fl usso dirompente in cui l’amplifi ca-zione mostruosa, sempre nell’accezione classica, rischia di travolgere lo stesso protagonista, una volta bruciati alle sue spalle i ponti collo specifi co professio-nale. Grillo, infatti, si sta costruendo per opera della simbiosi tra piazza e rete una sua personale raffi gurazione, profeta ar-mato della mole impressionante di mes-saggi osannanti «sei un mito, sei grande, non mollare» (opposto, il suo destino, a quello di Daniele Luttazzi), che lo por-

tano, novello Cristo nel tempio dei mer-canti, a dare scandalo contro le multina-zionali e il parlamento corrotto. Grillo fa ormai coincidere persona e personaggio più di certi divi delle fi ction, o meglio sta erigendo sul proprio volto un’icona me-diatica trasversale nei confronti di schie-ramenti ideologici e di generi culturali, unifi cando classi sociali e piani diversi del sapere. E indubbiamente l’entertainer divenuto opinion maker richiama patterns di memoria lunga - l’irrisione antiistitu-zionale futurista, il contatto colla folla tipico di ogni movimentismo populista, il qualunquismo post-’45 a disagio tra fi ne del fascismo e spettro del comuni-smo, la febbre giovanilistica del ’68. Ep-pure, tra i vari sottotesti impliciti, forte è la suggestione a ricorrere ad un modello ancora precedente, all’archetipo del san-to protettore dell’istrione, San Genesio martire, colui che a furia di interpretare, durante l’impero di Diocleziano, il cri-stiano perseguitato dallo Stato romano, fi nisce per incarnarsi nell’ombra sino a seguirne dal vivo l’esito luttuoso (se ne veda la versione drammaturgica di Henri Ghéon, Le comédien et la Grâce, del ’41). C’è qualcosa di martirologico in lui, in-fatti, un’ansia che gli deturpa la risata, in-quieta al di là delle intonazioni beff arde e trionfalistiche in cui cerca riparo e con-forto. Perché Grillo è un attore solo, nel dialogo colla folla e nella corrispondenza coi fedeli, senza rete di protezione come una compagnia nel momento della recita, senza un’appartenenza ad una categoria teatrale più o meno omogenea, diverso dalla nutrita serie dei narratori aff abu-lanti, assillati dalla voglia di portar radici generazionali e impulsi autobiografi ci, o orgogli etnici, nell’incrocio tra storia piccola e Storia grande. Lo si confronti coll’asse costituita pur tra scarti culturali ed espressivi da Marco Paolini, Marco Baliani, Ascanio Celestini, Moni Ovadia. No, Grillo sta solo col suo pubblico e lo assedia, lo invade scagliandogli il proprio living newspaper sul contemporaneo.

Se ogni attore nasce dal rapporto tra i suoi personaggi e il modo con cui un determinato pubblico li recepisce, Grillo

Paolo Puppa

Emergono feno-

meni nuovi nel-

lo spettacolo italiano nel

passaggio tra i due millen-

ni. La commedia regolare,

ovvero il circuito profes-

sionale, colle fi gure cano-

niche al loro posto e ben

separate, attori che inter-

pretano personaggi e spet-

tatori in sala a guardare,

ovvero il teatro per lo più

di regia, tende ad essere

un prodotto di nicchia, per

quanto foraggiato a livello

istituzionale.

Ma anche la scena alternativa e spe-rimentale, quella dei gruppi, che punta al corpo e al dialetto o alla contamina-zione con altri linguaggi, dalla danza alle arti fi gurative, pur confortata da una ri-cezione più dinamica e anagrafi camente giovanile, non riesce ad uscire dal proprio limbo, confi nata ai margini, per lo più circoscritta ai tanti festival estivi privi di continuità durante l’anno. Entrambe le scene risultano declassate rispetto ad un format prepotente, che evita sia la scan-sione classica dei ruoli sia la sperimen-tazione espressiva, per rovesciarsi sulla piazza, spesso attraverso la sinergia con moltiplicatori effi caci nell’utenza - men-tre lo share sale in modo esponenziale. Si

Le nuove maschere della Commedia dell’Arte: Beppe Grillo

Page 14: Atti & Sipari numero 2

SOTTO LA LENTE

14 | Atti&Sipari

fi nisce per coincidere con questi corri-spondenti multipli, più che coll’utenza pur numerosissima che lo accoglie come un divo, in un’audience popolare in senso letterale - non antagonista come quella che accorre alle proposte teatrali dei so-litari intrattenitori con cui lo si confonde erroneamente. Il suo seguito non è formato solo da studenti universitari, dai frequentatori di cartelloni off e di festival cosmopoliti, dai lettori di “Re-pubblica” e del “Manifesto”, insomma i ceti liberali e di si-nistra. C’è altro nella sua sala, purtroppo e per fortuna.

Facciamo un salto indietro di oltre trent’anni. Pensiamo ai dibattiti dal vivo dopo le maratone monologanti che, nei ’70, allungavano le serate di Dario Fo (per certi versi prototipo del nostro perfor-mer nella medesima bulimia verbale e nell’autoinvestitura a militante soteriologico) e quelle dei circuiti alternativi.

Assemblee politicamen-te accese e di solito unidi-rezionali. Anche nel caso di Grillo non mancano le voci nella piazza, dopo lo spetta-colo, inevitabilmente allineate alla strategia del regista entro l’evento comiziante, in una spontaneità pilotata. E nondimeno nella rete lo scambio di commenti non esclude ma anzi ospita voci discordanti. Protetti dal silenzio pacifi co della propria stanza, ognuno si infi la nel blog con un punto di vista personale e anche polemico. Ecco allora obiezioni feroci contro il “capo opinionista”, contro il guru ambientali-sta (specie quando quest’ultimo defi nisce l’anidride carbonica una sostanza inqui-nante), contro il semplifi catore populista paragonato a Berlusconi. Si dà dunque spazio al dissenso, intimidito nell’assem-blea pubblica della performance. Occorre dunque ribadire il carattere attivo di un simile aff ollatissimo email, a ridosso del-lo show eccentrico di Beppe Grillo - ad esempio le news quotidiane rilanciate dal sito, realtà fermentante che palpita e scalda lo spettatore e lo invita a mo-bilitarsi col mouse così come spinge il corrispondente in rete a non perdersi lo spettacolo. L’ipotesi che nasca un nuo-vo partito da un tale laboratorio affi ora a volte nella reazione irritata degli ad-

detti ai lavori della politica nazionale e locale. Perché l’alleanza tra palcoscenico e Internet rifl uisce in gesti di eff ettiva incidenza sociale e comportamentale, la performance essendo strumento d’altri obiettivi. Anche Grillo vuol cambiare il mondo, come si prefi gge ogni attore im-

pegnato e didattico, nel rimando ovvio a Brecht; ma lo fa partendo dalle abitudini comunicative del suo fruitore. Gli inse-gna a entrare in rete, novello Lucignolo, insieme fool-ciarlatano e contro infor-matore; lo vuole destare dal torpore me-diatico e dalla disattenzione nei riguardi del potere.

L’attore genovese trascina in piazza la sua logora fi sicità di sessantenne pin-gue e aff annato, dal respiro subito sfi nito, una criniera bianca che gli incornicia la fronte sudata, lo sguardo alterato da am-micchi e strabuzzamenti complici, in un tour stressante in giro per l’Italia intera e quasi ogni sera, con un investimento energetico disumano. Non si limita ad usare il mouse, Grillo, ma il suo corpo, che logora, strapazza e sfi nisce come un vecchio mattatore scavalcamontagne del-la tradizione ottocentesca. Questo pre-senzialismo frenetico cerca in fondo di compensare l’audience mediatica persa colla censura che l’ha tenuto lontano dal piccolo schermo. Giorgio Gaber, cantore

a suo tempo della connessione tra libertà e partecipazione, negli ultimi anni dichia-rò di preferire una verità intera trasmessa a pochi piuttosto che una mezza verità esposta a tanti. Da qui la sua scelta tea-trale, lontana dal piccolo schermo. Grillo invece sopperisce alla ferita simbolica,

la perdita della visibilità, ela-borando il lutto colla rete. In-fatti, l’immensa quantità dei contatti on-line rappresenta la sostituzione esponenziale di uno share perduto e forse rimpianto ambiguamente: la somma, raggiunta in un anno, del pubblico dei tanti stadi, dei palasport, delle arene, dei parchi, delle feste dell’Unità, dei palazzi del turismo, del-le spianate davanti a castelli storici, in un tour da rockstar senza musica e orchestra (ul-teriore diff erenza rispetto ai narratori monologanti), non avvicina una semplice serata televisiva, come la presenta-zione del Festival di Sanremo che con lui arrivò a un picco d’ascolto mai più raggiunto in seguito, o la guitteria in Fanta-stico serale nel ’79 e poi nell’’86 in Domenica in pomeridiano. Di Gaber, Grillo non possiede il raffi nato e struggente disin-canto, ma ne eredita il grido

che solo la strada può risolvere i nostri problemi. In questo, è un sessantottino tardivo, un emulo del Fo più manicheo, senza condividerne i guizzi acrobatici e la mimica evocatrice.

Restano da descrivere i frammenti di teatralità, per quanto minimale, che si manifestano in un discorso di grande sapienza comunicativa, fl usso verbale che non può essere interrotto che da se stesso. Sono tracce da me rivisitate in re-gistrazioni immesse nell’editoria elettro-nica: il Discorso all ’umanità del 2001, e una serie di spettacoli, www.beppegrillo.it del 2005, Incantesimi del 2006, Reset del 2007. Nel Discorso all ’umanità, l’attore si mostra entro un’inquadratura rovesciata, alludendo ad un mondo alla rovescia, ad un paese, il nostro, ex-patria del diritto, dove i malviventi scrivono le leggi, dove un mafi oso entra nella limousine, scorta-to dalla polizia tra fl ash tripudianti men-tre il giudice se ne va nella tipo, scortato da moglie e vecchia zia. Questa la ragio-ne perché un comico deve improvvisarsi

Il ritratto di Beppe Grillo è di Klaus Lucas

Page 15: Atti & Sipari numero 2

I “COMICI TELEPREDICATORI”

Atti&Sipari | 15

fondatore di un nuovo movimento. E assumere di conseguenza pose che ci-tano sia Charlot de Il dittatore mentre gira attorno al mappamondo, a suggel-lare che Occidente è solo una questio-ne prospettica, sia lo stesso Duce. Due gli obiettivi primari. Da un lato, lo smontaggio della ba-bele pubblicitaria dei grandi quotidiani e dei settimanali, di cui denuncia il contenuto coloniale e razzista, dal bam-bino biondo colla bandierina americana nel “Corriere della sera” al binomio carri armati e tette in “Panorama”, cui segue una serie di controslogans, come «ba-sta colla guerra santa in Afganistan!» o «basta con Dio contro Hallah!». Altrove accenna alla pubblicità positiva fatta da lui (a suo tempo redditizio testimonial di uno yogurt - ma adesso si invita lo spet-tatore a fabbricarselo da sé in casa), alla macchina ad idrogeno, le cui emissioni di vapore acqueo ha respirato quale prova-ordalia in uno spot fi n dal 1995. In questo senso, ogni sua performance pare realiz-zare la guerriglia semiologica proposta anni fa da Umberto Eco contro l’impero mediatico e la passività televisiva. E ogni volta il sermo cotidianus, ovvero i registri seri giornalistici, viene stravolto da tor-sioni fi nali, coll’aprosdoketon che utilizza il sermo plebeius per invettive stralunate e surreali contro le icone del potere. Così i tre “B” deleteri, Bin Laden, Bush che avrebbe ordìto la tragedia delle due torri, e Berlusconi, chiamato Dorian Gray per l’immagine sempre più rin-giovanita, mentre l’orazione si condisce di grafi ci illustra-tivi, di diapositive e di per-sonaggi dal calderone me-diatico. E il congedo, prima dell’augurio di buon anno e dell’inno, si fa effi cace delirio, coll’appel-lo a Dio perché scenda in terra a mettere a posto le cose, senza più intermediari impotenti. Dunque, meta-pubblicità, controinformazione dettagliata e chiose aggressive, una comicità che rimbalza tra una cifra sociologica e una nota di co-stume.

Per gli spettacoli veri e propri, una marca caratterizzante è data dall’ingresso di Grillo nella platea osannante, di soli-to dal fondo. L’attitudine è antifrastica, in quanto mostra fastidio e supponenza («Basta, dovete smetterla!»; «Sono l’ulti-ma vostra chance»; «Siete qua perché avete problemi personali. Vi rimango io ades-

so»), e intanto scuote la testa fi ntamente costernato davanti alla ressa in delirio. Perché la star messianica incede in mezzo al boato, sazia di tanta attesa, disgustata dal successo, incredula davanti alla folla seduta e acclamante. Poi spiega che fati-

ca a non montarsi la testa, dal momento che tutti gli si rivolgono per consigli. E ogni volta ripete a se stesso che lui è solo un comico. Tutto ciò fa parte del cerimo-niale fatico, colle concessioni argomenta-tive allo hic et nunc della sala. Lo si veda il 7 marzo 2006, a Bologna, per lo spet-tacolo dal titolo signifi cativo Incantesimi, dove il traffi co circolatorio bizzarro e i turtelen, gl’imprenditori di sinistra e i di-pendenti di destra, costituiscono la prima portata, nello spirito dell’avanspettacolo, del menu. Per successioni sillogistiche si passano in rassegna le architetture post-moderne-decostruzioniste, appoggian-dosi su diapositive di nuovi avveniristici progetti per ambienti inabitabili, con sta-di megalomani che vengon giù alla prima pioggia come a Montreal, contro il Ponte di Messina, di cui si dimostra la follia e la certezza catastrofi ca a suon di do-cumenti e di consulenze dei più celebri professionisti nel ramo. La discettazione con argomentazioni ingegneristiche vira bruscamente nel consueto sfottò invere-

condo, colla coprolalia che sigla e chiude la rubrica, perché le due terre, Messina e Reggio che si vorrebbe unire, “si stanno sui coglioni”. L’anno prima, il 28 aprile 2005, al Palazzo dello sport di Roma, con www.beppegrillo.it omaggia la città non solo col pezzo di prammatica sul traffi co impazzito, ma anche colla parlata coatta («Daje Grillo, so tutti frosci!»), ed elogia i monumenti, fi ngendo di ignorare che non c’è “Er Partenone”, per poi attaccare Marrazzo e pare rimpiangere lo “Stora-cino”. Idoli polemici anche audaci, nella Roma di Totti, la richiesta di farla fi nita col calcio dopato e onnipervasivo. Da no-tare che l’attacco di prammatica riguarda

il gruppo dirigente, la classe al governo cittadino o nazionale. Accusa uno del pubblico di essere di Viterbo (sempre nel gusto dello strapaese), mentre a Milano, nelle repliche di marzo, non risparmia Prada per i falsi da lei stessa messi in cir-

colazione, e Versace per il suo calabrese incomprensibile, in un improvviso rigurgito leghi-sta non ben depurato. E ogni volta inizia a lavorare sul, con-tro, col pubblico, con proto-

colli conativi che rimandano al motto di spirito maschile per dirla con Freud, pre-cipitato, più che nello stile Petrolini del varietà e delle prime avanguardie futur-dadaiste, nella versione ridotta del caba-ret televisivo (si pensi al suo corregionale Paolo Villaggio nelle vesti di Kranz nei pomeriggi domenicali d’antan). Tanto più che la sala non reagisce, e pare edu-catamente disposta a tutto, consapevole di essere inquadrata dalla telecamera non di canali RAI o Mediaset, ma pur sempre di qualche futuro dvd. L’aggressione è di genere carnevalesco, con mescolanza di lode e ingiuria, per rifarci a Bachtin, in una ricerca viscerale di contatto fi sico. E dunque si susseguono bonari assalti - ad esempio tocca i capelli di un malcapitato cui ricorda che una tinta simile da lui la danno ai cancelli come antiruggine, mentre ad un altro sbraita che è tutto unto in testa. Può fi ngere di picchiarne uno mentre impreca su Castelli ministro della giustizia, o di abbracciarne un al-tro, di cui intuisce la stanchezza, e a lui

promette «fra poco smetto, un po’ di pazienza e me ne vado». Se suda e sputa ricor-da che la sua saliva è “acqua santa”, e rivendica il diritto di puzzare alle ascelle per il grande sforzo profuso. A una

signora chiede scusa per il turpiloquio per poi subito prosaicizzarsi in un «mi vuoi bene, me la daresti un pochino?». Non manca di insultare, spesso, qualche malcapitato perché sta fi ssando il gran-de schermo che lo riproduce («sono qua, sono qua, ti sono vicino guardami negli occhi»), a conferma del carattere falsario e alienante delle immagini dello scher-mo piccolo e grande. Gag abituali, che si rincorrono da una replica all’altra, come certe battute su Andreotti, alla cui mor-te si potranno vedere nella scatola nera celata nella gobba tutti i misfatti da lui compiuti, o su Buttiglione defi nito “ever-sivo di centro”, fantomatico fi losofo, «in

L’aggressione è di genere carnevalesco, con mescolanza di lode e ingiuria, in

una ricerca viscerale di contatto fi sico

Non manca di insultare qualche malcapi-tato perché sta fi ssando il grande

schermo che lo riproduce

Page 16: Atti & Sipari numero 2

SOTTO LA LENTE

16 | Atti&Sipari

confronto Platone cos’era?». La catena di aneddoti e facezie funziona insomma da canovaccio immutabile, trampolino per la memoria del montaggio sera per sera, aggiornato colle ultime notizie. In altre occasioni lo stesso spettatore vittima diviene aiutante in cam-po, attivato a controllare la veridi-cità delle informazioni circa il ri-sparmio coi telefonini americani, da noi vietati, per chiamate on-line, oltre Oceano. Ed ecco dalla sala si leva chi chiama in diretta l’Australia o il Brasile per essere subito dopo interpellato sui costi, a smascherare le truff e dei prefi ssi pretesi internazio-nali. C’è nel suo dare ordini e nel farsi obbedire qualcosa dell’antica maschera del Capitano, del Matamoro della com-media dell’arte, lo smargiasso vanitoso che si diverte a far la parodia del Duce, di cui ricalca ogni tanto fonemi e furie erettive nella voce; così come del vendi-tore ambulante, l’eroicomico mercante in fi era della sagra paesana scesa giù dal medioevo nostrano, il piazzista da opera buff a che non spaccia elisir ma contatti elettronici. Basterà contattare il suo sito per trovare il rimedio immediato. «Fac-cio tutto io», assicura. Colla rete si pos-sono mandare a casa i politici cialtroni: si veda il comportamento della Farnesina durante la tragedia dello Tsunami, coi dati che tardavano, mentre sulla rete, alla voce ospedali asiatici, scorrevano i nomi dei morti. Insomma, bisogna assimilare il nuovo sistema, impratichirsi, viaggia-re dentro il fl usso vertiginoso dei dati e delle libere notizie. Istruzioni ulterio-ri per l’uso, come spendere low cost per spostarsi nel mondo, purché alla Malpensa senza bagagli (coll’abituale scatto ironico). Sarà persino possibile ordinare la spesa a casa, col branzino che ti bussa alla porta e ti si butta direttamente nel forno, o anco-ra contattare le più grandi star dello spettacolo al sito competente, per seguirne i percorsi di ricerca.

Si susseguono altre indicazioni bi-bliografi che, quasi un corso accelerato su Internet, “nostra unica salvezza”, e fonte autorevolissima di mutamento sociale in atto, il tutto piuttosto acritico, con indi-cazioni di luoghi enciclopedici per stu-denti pigri, come Wikipedia. Insomma un Paradiso di comodità, di benessere, di risparmi di costi e di tempi, persino una casa editrice non lucrativa in cui ognuno

può mettere in circuito i propri scritti - un nuovo Rinascimento se tutti lo segui-ranno nella rete, unica democrazia reale, non ideologizzata e non strumentalizza-bile. Ogni nascituro dovrebbe disporre,

all’anagrafe, di un suo address elettroni-co. Da miles gloriosus si permette pointes imprecative, di voluta blasfemia, nell’in-vettiva al nuovo Papa, che accarezza i bambini alla prima uscita, coi giornali che riportano la notizia in prima pagina, mentre dovrebbero farlo solo se qualche bambino lo prende a calci. Eccolo allora eplodere «Non vi siete rotti i coglioni con questa religiosità?», nel trionfo dell’im-punità consentita dalla fusione colla fol-la in un circuito alternativo, e dunque nell’azzeramento dell’autocensura. Nel 2001 arriva a chiamare il premio Nobel Rita Levi Montalcino “vecchia puttana” perché collusa con ditte farmaceutiche (anche Veronesi viene accusato di pizzi coi grandi enti petroliferi nella misura in cui minimizza l’inquinamento cittadino da traffi co). Da qui, processo per diff a-mazione aggravata e patteggiamento di multa, salvo poi ricorso alla Corte di Cassazione per non pagare spese legali e liquidazione della cifra. E nondimeno si rende conto dei rischi cui va incontro: ci-tando i reiterati processi intentatigli dalla Finivest, nel saluto di chiusura supplica

il pubblico di non parlare in giro dello spettacolo, per con comprometterlo. Un simile laicismo non esclude comunque un clima sincretico di superstizione po-polare. Se accenna a Bossi, riemerso dalla malattia per cantare a Lugano stornelli contro la bandiera tricolore, rimprove-ra Dio per non aver completato l’opera. Ma in certe repliche dichiara di preferire la sua ruspante canottiera all’aplomb di D’Alema che scende dalla Th ema blin-data per annunciare di aver scritto a

Berlusconi perché la smetta colle paro-lacce, o al Bertinotti dall’erre moscia in diffi coltà colla sua “rrrrifondazione”. Ed è il sistema sanità il maggior imputato in questo processo ilarotragico, per un

ambiente ecologicamente ormai corrotto, per il divieto della ri-cerca di energie alternative come quella solare, non nucleare!, colle auto che emettono monossido di carbonio preferite a quelle dotate di marmitta catalitica. L’utopia riguarda uno sviluppo

economico sostenibile in termini ecolo-gici. E puntualmente Grillo abbassa la voce e si mette a sussurrare davanti alla smania di inventar malattie per propina-re farmaci e dipendenze chimiche. Può allora utilizzare un grafi co, prelevato da riviste scientifi che americane, (gli USA essendo fonte del male assoluto e dei suoi rimedi controinformativi), coi vari disagi - un tempo chiamati peccati e cu-rati colla confessione - drammatizzati ad arte, ad esempio psicofarmaci propinati a bambini vivaci a scuola, divenuti distur-bi dell’apprendimento. In questo caso, la climax viene assicurata associando la Ba-yer all’industria del gas nazista.

Il Capitano ha anche una sua vita pri-vata, ovviamente. E allora non mancano accenni sobri nel curriculum elettronico (non negli spettacoli) ad alcuni episodi oscuri, a cadaveri in armadio, dalla fami-glia uccisa in un incidente stradale con lui alla guida, al condono usufruito, al possesso in passato di una Ferrari, quasi a rintuzzare in chiave omeopatica eventuali reazioni del nemico. Sulla scena si limita, di sfuggita, a giurare sulla testa dei suoi

fi gli, gli ultimi tre, quelli più piccoli citati come esempio di caos domestico, senza che i ge-nitori ricorrano a sedativi. Op-pure rievoca il padre industriale che gli ha insegnato che quan-do ci si fa quotare in borsa, lo si fa per fregare gli azionisti in

quanto non si dividono gli utili. Hidalgo donchisciottesco contro la tv, si lamenta con toni burleschi per la propria espulsio-ne dal piccolo schermo: lui che va in onda in 50 tv del mondo intero, non dispone di 2 minuti in quella di casa. L’esclusione gli brucia ma costituisce insieme il suo vanto. Grazia salvifi ca più che disgrazia, perché da lì parte l’invenzione del nuovo circuito. Non rimpiange i ritmi concitati e frenetici richiesti dalle trasmissioni a suo tempo frequentate, quando resta solo

Il guru genovese, ammiratore di Gino Strada, di fatto ha messo in piedi un’azienda e la propone al

mercato

Puntuale la citazione indiretta da Brecht sulla criminalità richiesta nel fondare un trust, ben maggiore che

nello svaligiare uno sportello

Page 17: Atti & Sipari numero 2

I “COMICI TELEPREDICATORI”

Atti&Sipari | 17

il tempo per un “vaff a…”, coniato entro l’ultimo spettacolo, Reset del 2007. Del resto, quale programma potrebbe essere compatibile colla sua voracità anticensu-ra, forse «il marito di Costanzo?». Da qui, partono altri strali contro i conduttori televisivi, contro i talk show politici tipo Ballarò (nelle fasi preelettora-li, la sinistra dovrebbe vietarsi qualsiasi partecipazione per non farsi condizionare dall’av-versario), contro i Vespa di turno (invita a mettere bostic nei suoi libri reclamizzati nel-le librerie), contro D’Alema orgoglioso di non sapere usare il computer. Insom-ma, come certi eroi di Dario Fo (Tutti uniti, tutti insieme, ma scusa quello non è il padrone?, Morte accidentale di un anar-chico), Grillo inscena sul palco il sogno dei sudditi, consentendo loro di entrare a Palazzo a scoprire le malefatte della clas-se dirigente, le congiure tramate ai danni del cittadino indifeso. Fantasie di trion-fo, le sue, che smascherano chi detiene il potere e i mezzi di informazione. Forte dei suoi innegabili successi profetici nel caso del crac Parmalat e dell’aff aire Tanzi («bastava controllarne la fedina penale»), si vanta di essere divenuto il più gettona-to e richiesto consulente fi nanziario, ci-tato dal “Time” e dalla CNN, e qui chia-ma a conferma qualcuno nella sala. È il momento dell’assalto ai falsi in bilancio, derubricati penalmente dalla nuova legge imposta dal «portatore nano della demo-crazia» (ancora una eco dal mondo di Fo, dal suo Fanfani rapito), mentre negli Stati Uniti la normativa è severissima. Perché noi ci distinguia-mo per “leggera contro-tendenza” e qui strabuzza gli occhi e abbassa il tono, con sospiri esasperati pro-vocati in lui dalla “conta-bilità creativa”. Dalla cri-tica caustica al marketing elettorale della sinistra, la coppia giovanile che adotta un bimbo cinese nel manifesto, si apre una lunga parentesi sull’economia cinese, sul-le forsennate modalità produttive di quel paese, anche nella natalità (i loro morti da noi vengono smaltiti negli involtini primavera) contrapposta alla nostra ge-rontocrazia. Per battere la concorrenza dovremmo ricorrere ai napoletani, mae-stri del falso, o inviare laggiù i diritti ci-vili, nella consueta miscela di terapie se-riose e demenziali paradossi. Esibisce le

valutazioni che dell’Italia danno all’estero le testate più accreditate, dove siamo col-locati agli ultimi posti in fatto di libertà di stampa, indice di corruzione, disugua-glianza sociale, competitività (il nostro è un mercato fi nto libero). Inveisce insom-ma contro il superindebitato capitalismo

nostrano, che vampirizza i nostri rispar-mi tramite i bond, di fatto cambiali; con-tro le grandi banche che decidono sulle nostre teste, magari con spot risibili, «ti diamo l’anima», cui ribatte coll’abituale abbassamento fi siologico «in cambio ti chiediamo il culo». Puntuale la citazio-ne indiretta da Brecht sulla criminalità richiesta nel fondare un trust, ben mag-giore che nello svaligiare uno sportello. Esibisce gli stipendi megalomani degli amministratori delegati che fanno licen-ziare e tagliano le paghe dei dipendenti, moltiplicandosi le proprie prebende. In-vettive più scontate contro gli USA che esportano democrazia per difendere i propri monopoli energetici e per difen-dersi dall’indebitamento. Se occorre una ripulitura lessicale, che ridia signifi cato alle parole, se ancora è necessario difen-dere la costituzione, ecco quale test pro-bante il confronto tra la vecchia dicitura dell’articolo 70 e la nuova proposta, ad

opera della destra allora al governo, che trasforma in 85 arzigogolate e indecifra-bile le 2 righe semplicissime originari. E alle spalle agisce un’altra maschera anti-ca, uscita della piazza carnevalesca, quel-la negativa di Salomone, dal dizionario astruso poi riciclato dall’Azzeccagarbugli manzoniano, contrapposto alla semplici-tà idiomatica di Bertoldo-Marcolfo. Da qui l’appello conclusivo che dà il senso alla serata, coup de théâtre esemplare: cosa di meglio che scrivere tutti insieme una lettera, mostrando di avere assimilato la

lezione ideologico-elettronica, da spe-dire in diretta al Capo di Stato Ciampi, per chiedere il ritiro delle nostre truppe dall’Irak? Si cita Selva, nel 2005 presi-dente della commissione esteri, che di-chiarò non trattarsi di missione di pace, dato che i nostri elicotteri sono dotati di

mitraglieri. È giunto fi nalmen-te il momento di mandare a casa i costruttori di menzogna, la scelta essendo ormai limitata “a ricevere merda” dai program-mi televisivi o ributtarla indie-tro! A fi rmare con lui la mail, il

90% dei 10 mila presenti, su appello pe-rentorio, e si forniscono numeri esorbi-tanti, «siamo ormai un milione di fi rme», con tecniche sempre prelevate al marke-ting mediatico promosse dal “nano”. E il dito dell’attore che preme “Invia” viene accompagnato dall’urlo all’unisono della sala. Urlo poi ripreso dall’attore nel salu-to di chiusura, grido liberatorio, nell’im-provvisa sarabanda musicale e negli ap-plausi a luci spiegate.

Ma non mancano nella cornice con-traddizioni soggettive, legate cioè al back stage del performer. Si attacca la propo-sta di legge Urbani e la demonizzazione contro la pirateria di fi lm e dischi, che rimpiazza la dicitura “a scopo di lucro” con “a scopo di profi tto”, per cui pure il risparmio personale viene penalizzato in chi scarica on-line un determinato spet-tacolo. Però nella promo del dvd della performance, registrata a Montecatini, si giustifi ca il costo del biglietto e del dvd

stesso per aiutare il team che lavora alle spalle del circuito (la Casaleggio Associati, che infi ttisce l’off erta editoriale con rac-colte di detti memorabili, Tutto il Grillo che conta del 2006, e di cofanetti e rela-tivi CD.) Il guru genovese, ammiratore di Gino Stra-

da, di fatto ha messo in piedi un’azienda e la propone al mercato. Lo show business, più che il mondo di Emergency, incrocia così il marketing meta/antipubblicitario e tout se tient. Eppure, questo mostro co-municativo, se provasse a respirare con calma, se potesse per un po’ sostare, de-fi landosi anche vilmente dalla vorticosa fi ammata che ha acceso, potrebbe ancora dire e dare cose importanti contro il tea-tro di oggi, ossia per un teatro di domani. Il fatto è che non può più farlo, forse.

E il dito dell’attore che preme “Invia” viene accompagnato dall’urlo

all’unisono della sala

Un Paradiso di comodità, di benessere, di risparmi di costi e di tempi [...] un nuovo Ri-nascimento se tutti lo seguiranno nella rete, unica democrazia reale, non ideologizzata e

non strumentalizzabile

Page 18: Atti & Sipari numero 2

sotto la lente

18 | Atti&Sipari

Sono cose da ridere; ma cose che qualche volta mi fan venire la rabbia. Son così, io che sono alle-vata civilmente, non posso soffri-re le male grazie.

(Susanna nel Ventaglio di Carlo Goldoni)

PROLOGO IN TEATRO

Sventolano le bandiere. Folla. Un uomo si agita sul palco. Grida: «E in-somma, tutto questo non è più accettabi-le! Non possiamo più sopportare la vec-chia politica. Dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo tutti rimboccarci le maniche. Voi e io. Così ho deciso di fare questo sacrificio e di scendere in campo!!!»

Applausi dal pubblico.«Con voi e per voi, ecco il mio pro-

gramma...»Applausi ancora più fragorosi.

ATTO PRIMO

Scena prima (uno studio televisivo)

Un comico di una certa fama (altri-menti non l’avrebbero chiamato in quella trasmissione) sta preparando uno sketch. Il tema è di quelli che possono far discu-tere gli italiani: gli infortuni sul lavoro, la gita in Cina di Bettino Craxi e del suo numeroso seguito, il caso Pinelli-Calabresi-Sofri, l’iter giudiziario di Sil-vio Berlusconi, Cesare Previti e Marcello Dell’Utri, il discorso sulla democrazia di Pericle. Le battute sembrano azzeccate: nello studio ridono tutti, anche i fonici. Solo uno, nell’ombra, rimane serio. Anzi, più gli altri ridono, più lui diventa livido.

Scena seconda (un ufficio)

Qualcuno (chi? fate voi: un funzio-nario pavido, un portaborse diligente, o magari un alto prelato o un importante uomo politico) parla al telefono: «Ma ti rendi conto? Quello ci sta sputtanando a

tutti! a spese nostre, per di più.»Infatti di certi argomenti non bisogna

parlare; e se proprio si deve, non in tele-visione (nemmeno a mezzanotte e dieci, in programmi di scarsa audience); e se proprio di certe faccende bisogna parlare in televisione, non è ammissibile che lo faccia un «guitto irresponsabile che cerca solo di farsi pubblicità».

Scena terza (un altro ufficio)

Il comico e un funzionario. Discuto-no animatamente. Cercano un accordo.

Il comico deve lavorare, vuol fare il suo sketch, accetta qualche taglio che pos-sa aggirare il divieto, gli scoccia rinuncia-

re al cachet e soprattutto alla platea tele-visiva. Sa benissimo che se tira troppo la corda finirà nella lista nera.

L’attore è molto popolare, la trasmis-sione va bene, il funzionario non vorreb-be grane e dunque cerca di spiegare con pazienza perché quella cosa non si può dire e quell’altra non fa ridere. Sa benis-simo che se tira troppo la corda scoppierà uno scandalo.

A un certo punto il comico batte il pugno sul tavolo e se ne va. Ora è agitato, telefona: «Ma sai che cazzo mi ha chie-sto, quell’ignorante?»

Oppure a un certo punto il funziona-rio scuote la testa e se ne va. Ora è agi-tato, telefona: «Ma sai che cazzo mi ha chiesto, quell’ignorante?»

ATTO SECONDO

Scena prima (uno studio radiofonico)

La brava giornalista sta facendo la rassegna stampa. I giornali non parlano d’altro: lo sketch censurato è finito in pri-ma pagina. Che sia andato in onda oppu-re che il programma sia stato sospeso, è irrilevante: l’importante è lo scandalo. Ne discutono al bar, sugli autobus, in ufficio davanti alla macchinetta del caffé.

Scena seconda (una tavola rotonda sul-la satira televisiva: in tv, alla radio, in un auditorium, negli uffici della tv, in uno studio d’avvocato, in un sede di partito)

«No, perché quel buffone ha superato ogni limite. Quella non è satira! È troppo volgare! Non fa mica ridere... Tutti quei fluidi corporei, mi veniva da vomitare.»

«Ma il vomito non è un fluido corpo-reo? Che schifo!»

Oppure:

«No, perché quel buffone ha superato ogni limite: quella non è satira, è infor-mazione. Un comico dev’essere diverten-te. Quello non fa neanche ridere, è solo propaganda... Ma se davvero vuoi fare informazione, allora deve permettere il contraddittorio... Non può mica attac-care chiunque così, senza permettergli di replicare. È stato un attacco ignobile!»

«Mi scusi, ma quello che raccontava era vero o no?»

ATTO TERZO

Scena prima (un teatro)

Il comico è sul palco. Sta spiegando che tra poco ripeterà lo sketch che gli è costato il posto in televisione. È insieme abbacchiato ed euforico: «Sarà una serata memorabile!»

Il numeroso pubblico si è divertito: «È stata una serata memorabile!»

Oliviero Ponte di Pino

«E insomma, tutto questo non è più accettabile! Non possiamo più sopportare la vecchia politica. Dob-

biamo fare qualcosa. Dob-biamo tutti rimboccarci

le maniche. Voi e io. Così ho deciso di fare questo

sacrificio e di scendere in campo!!!»

Il teatro alla moda

Page 19: Atti & Sipari numero 2

i comici telepredicatori

Atti&Sipari | 19

Scena seconda (un palazzetto dello sport, una piazza)

Sventolano le bandiere. Folla. Un uomo si agita sul palco. Grida: «E insom-ma, tutto questo non è più accettabile! Non possiamo più sopportare la vecchia politica. Dobbiamo fare qualco-sa. Dobbiamo tutti rimboccar-ci le maniche. Voi e io. Così ho deciso di fare questo sacrificio e di scendere in campo!!!»

Applausi dal pubblico.«Con voi e per voi, ecco il

mio programma...»Applausi ancora più forti.

BIS! A grande richiesta... Dopo un periodo di pur-

gatorio, lontano dal piccolo schermo, il bravo comico ri-torna finalmente in televisio-ne. Sarà un evento.

Spesso l’iter si ripete: un eccesso d’impertinenza, un ec-cesso di censura, e il giochetto ricomincia daccapo.

SIPARIO

Dai tempi del caso Fo-Rame, che nel 1962 abban-donarono Canzonissima per le «divergenze artistiche e ideologiche» innescate da uno sketch sugli infortuni sul lavo-ro, il copione si è ripetuto più o meno identico, con minime varianti. Bastano gli esempi più clamo-rosi.

Il «terrorista del sabato sera» Beppe Grillo nel 1986 a Fantastico 7 racconta una barzelletta sul viaggio di Craxi e del-la sua corte in Cina e viene cacciato dalla Rai; non si pente: nel 1993 torna in Rai con un recital dove attacca i pubblicitari, la SIP, Biagio Agnes, l’inquinamento e la stupidità collettiva; raccoglie sedici mi-lioni di spettatori ma si guadagna un’al-tra scomunica; da allora lo si vede solo sul satellite e sulle pay tv, oltre che dal vivo.

Daniele Luttazzi nel 2001 invita a Satyricon l’impertinente Marco Trava-glio, che osa parlare dei processi a Berlu-sconi: con l’accusa di aver intervistato un giornalista invece di raccontare solo bar-zellette, Luttazzi viene cacciato all’istan-

te dalla Rai, dove non mette più piede; è un recidivo pure lui: nel 2007 è cacciato anche da La7 per qualche battuta un po’ troppo pesante sul teodem Giuliano Fer-rara.

Sabina Guzzanti nel 2003 vede il suo Raiot, in onda in seconda serata, bloccato

dopo la prima puntata malgrado l’ottima audience: Mediaset chiede uno strampa-lato risarcimento da 20 milioni di euro perché le gag della Guzzanti non erano satira ma informazione (una battuta in-volontaria ma geniale, che dà l’idea di quanto sia ridicola la situazione del no-stro paese); la Rai finge di spaventarsi e Raiot non va più in onda.

Paolo Rossi, invitato di Paolo Bonolis nel 2005 a Domenica In, vorrebbe legge-re il discorso di Pericle sulla democrazia: non glielo fanno nemmeno iniziare, e per ripicca la Rai pochi giorni dopo non manda in onda nemmeno la seconda parte del suo Questa sera si recita Molière (guarda caso un altro comico con proble-mi di censura...).

La storia si ripete con varianti mini-me. Un buffone di successo affronta un

tema d’attualità, qualcuno ritiene che la gag sia un po’ troppo impertinente e scatta la reazione: una censura preventiva o l’immediata sospensione della trasmis-sione incriminata, e la successiva epura-zione del reo. Il quale si proclama natu-ralmente vittima della stupidità del po-

tere e rafforza la propria fama di “uomo (o donna) contro”: «Io sono un artista libero!». Va peraltro tenuto presente che, nell’Italia dell’inciucio televi-sivo Rai-invest, farsi cacciare da una trasmissione significa di fatto essere cacciato da tutte le reti televisive, perché l’intero sistema è sotto stretto control-lo politico. Per fortuna ci sono le esibizioni live, dove il nostro bravo comico può sfruttare al meglio la propria trasgressi-va scomodità: il pubblico - un certo pubblico, ma sufficiente a riempire teatri, piazze e pa-lazzetti dello sport - apprezza proprio questo.

Peraltro la censura non può imporre a chiunque di tacere su qualunque argomento e in qualunque luogo. Solo un im-becille può pensare di stabilire per legge che cosa devono dire i comici. Solo due ingenui come gli avvocati Stefano Pre-viti (figlio d’arte) e Pieremilio Sammanco - che per conto di Mediaset hanno querelato per Raiot Sabina Guzzanti, Marco Travaglio, Studio Uno s.r.l. (la società produttrice) e la Rai

- possono pretendere di circoscrivere la funzione della satira e di limitare il suo campo d’azione, riducendola a passatem-po edificante e consolatorio:

È noto, in verità, che la satira

sorge per l’innato bisogno di irride-

re personaggi noti e potenti e non

risponde, a differenza della cronaca

e della critica, a finalità informati-

ve. La giurisprudenza più volte sul

punto ha infatti espresso che “il di-

ritto di satira a differenza del diritto

di cronaca non assume l ’informazione

come proprio obiettivo (primario o

anche solo concorrente)” (Dir. Inform.,

1989, 520).

Non può dunque fondamen-

talmente affermarsi che la satira

contribuisca alla formazione della

Il ritratto di Dan

iele Lu

ttazzi è di Klau

s Lu

cas

Page 20: Atti & Sipari numero 2

sotto la lente

20 | Atti&Sipari

pubblica opinione e questo perché

il mezzo espressivo prescelto è in-

trinsecamente connotato dall’in-

tento dissacratorio. Ragion per cui,

se una funzione si deve assegna-

re alla satira, essa va individuata

nell’esercizio di un controllo sociale

verso il potere; la satira, in defini-

tiva, attraverso l’arma incruenta del

sorriso assolve la funzione di “mo-

derare i potenti”, di smitizzare ed

umanizzare i personaggi famosi,

di umiliare i protervi, favorendo

la diffusione di un clima di tolle-

ranza che attenuerebbe le tensioni

sociali.

È allora evidente quindi la

diversità di funzione rispetto alle

altre manifestazioni del pensiero,

atteso che la satira non può, per sua

natura, perseguire il fine di contri-

buire alla formazione della pubbli-

ca opinione.

Secondo i due avvocati, toccherebbe alle vittime della satira decidere che cosa debba essere la satira. Ovviamente la loro balorda richiesta è stata respinta (anche se a quel punto Raiot ormai non c’era più, colpita e affondata). Per l’estensore della sentenza di archiviazione, Giuliano Tu-rone, procuratore aggiunto presso la Pro-cura di Milano, le battute della Guzzanti sulla legge Gasparri «scritta da qualcuno molto vicino a Confalonieri», su «Rete-quattro abusiva», o sul ministro Gasparri («Tutte le volte che si critica la sua legge risponde l’ufficio stampa di Mediaset an-ziché il suo»), «trovano un riscontro nei contenuti delle due sentenze della Corte Costituzionale e nella memoria dell’An-titrust», oltre che in «fatti, avvenimenti e circostanze» non soltanto «socialmente rilevanti» ma anche «obiettivamente veri nei loro elementi essenziali»: insomma, non solo era diritto del comico affrontare quegli argomenti, ma li ha anche trattati in maniera corretta. Come ha spiegato Beppe Grillo a suo tempo:

Trovo triste abitare in un paese

dov’è un comico a dover spiegare la

politica in tv o sulla piazze.

(“la Repubblica”, 1° luglio

1994)

Peggio ancora (o ancora più buffo), Grillo è stato chiamato come testimone in diverse indagini in materia economi-ca (di recente anche per il crac Parmalat, che aveva anticipato nei suoi esilaranti comizi-spettacolo):

Possibile che le informazioni ai

giudici debba darle un comico?

(“la Repubblica”, 7 febbraio

1995)

Insomma, il problema non sono i comici: il problema sono magistrati che non indagano, sono i giornali e i giorna-listi che queste verità non le dicono (o non le possono dire).

Ovviamente i censori non vogliono solo mettere a tacere il loro bersaglio di-chiarato: a un livello più generale, cerca-no di screditare e intimidire tutte le opi-nioni scomode. Poche sere dopo la can-cellazione di Raiot, Sabina Guzzanti ha riproposto le sue gag in una tournée che ha raccolto decine e decine di migliaia di spettatori, sollevando un vero caso poli-tico. A un’artista che ha già costruito la propria immagine artistica e consolidato fama e pubblico, una censura di questo genere pone certamente gravi problemi, ma non distrugge la sua integrità e digni-tà artistica, se solo ha la forza di resiste-re alle lusinghe del disimpegno; anzi, la premia con l’aureola del martirio. Ma per i suoi colleghi più giovani un messag-gio del genere («Se superi certi limiti, ti chiediamo danni per milioni di euro») ha un effetto intimidatorio, perché spinge a una sistematica autocensura: il problema non è solo la fondatezza della querela, o l’entità del danno, ma anche le spese legali e le ansie che chi “tiene famiglia” dovrà affrontare.

La censura del resto è un meccani-smo complesso, che non è possibile ri-durre agli episodi più clamorosi ed espli-citi. In primo luogo non riguarda solo e tanto la verità che non si può dire: ancora prima, è necessario decidere l’“ordine del discorso”, ovvero gli argomenti di cui è possibile parlare e quelli di cui non si può parlare (i temi che “non sono in agenda”). E poi si tratta di stabilire chi può parlare di un determinato argomento (perché è “autorevole”) e chi invece no: o meglio, si decide che quel tizio, se parla di quell’ar-gomento, spara inevitabili sciocchezze, e dunque è inutile e dannoso risponde-re. Perché in subordine si stabilisce che l’effetto di una certa affermazione varia a seconda di chi l’ha fatta (a seconda del momento in cui l’ha detta, e del ruolo che ricopre in quel momento). Persino il papa - dice l’apposito dogma - è in-fallibile solo quando parla “ex cathedra”, altrimenti è fallibile persino lui. (Curio-samente in Italia esiste un comico “infal-libile”, al quale tutti permettono - ma-gari a denti stretti - di dire e fare tutto ciò che vuole: Roberto Benigni, al quale venne perdonato persino un irriverente «Woytilaccio!» al Festival di Sanremo...).

Spesso il buffone non si limita solo a dire una scomoda verità. A volte è addirittura dotato di una certa capacità profetica. Basti pensare a Dario Fo, che nelle sua farse denunciava le tangenti sulle pompe funebri con qualche decen-nio d’anticipo, o a Paolo Rossi: nel 1983 il “Lenny Bruce dei Navigli” parlava «di tangenti sul pianeta Craxon e dicevano che esageravo», dieci anni dopo Tangen-topoli spingeva il leader socialista alla la-titanza. Peraltro, come abbiamo visto, la denuncia di un comico - anche se vera - in genere non ha alcun effetto pratico:

La satira diretta ai potenti ha

mostrato di non provocare reazioni.

La controparte è immobile.

(Altan, “La Gazzetta del Mez-

zogiorno”, 27 marzo 1992)

La storia si ripete con varianti minime. Un buffone di successo affronta un tema d’attualità, qualcuno ritiene che la gag sia un po’ troppo impertinente e scatta la reazione: una censura preventiva o l’immediata sospensione della trasmissione

incriminata, e la successiva epurazione del reo. Il quale si proclama naturalmente vittima della stupidità del potere e rafforza la propria fama di “uomo (o donna)

contro”: «Io sono un artista libero!»

Page 21: Atti & Sipari numero 2

i comici telepredicatori

Atti&Sipari | 21

Però quando le persone “autorevoli” tacciono, o parlano in modo da non farsi capire, qualcuno (forse meno autorevo-le) pensa bene di prendere la parola. In questi mesi per esempio sono numerosi i buffoni che nei loro monologhi affronta-no i temi (serissimi e riservati agli esper-ti) dell’economia e del lavoro, con par-ticolare attenzione al precariato: Marco Paolini (con I Miserabili - Io e Margaret Thatcher), Paola Cortellesi (con Gli ultimi saranno ultimi), Ascanio Celestini (con Appunti per un f ilm sulla lotta di classe), meritandosi a volte i rimbrotti dei critici perché osano occuparsi di argomenti sui quali sono impreparati: vedi la recensione di Renato Palazzi ai Miserabili di Marco Paolini sul “Sole 24 Ore” (guarda caso il quotidiano della Confindustria).

Certo, la censura è prima di tutto un problema di avvocati, di querele e tribu-nali, dei consigli d’amministrazione dei vari media e dei teatri, delle commissioni parlamentari e delle interrogazioni par-lamentari. Ma il campo viene delimi-tato, per così dire, da molti altri attori: programmatori di teatri e programmi-sti-registi radiotelevisivi che possono ammettere o escludere uno spettacolo o uno sketch, critici, intellettuali, professori ed editorialisti che possono difendere o attaccare il guitto sotto accusa, giornali e case editrici che possono pubblicare e promuovere testi e autori scomodi. Sen-za dimenticare il ruolo del pubblico, che decretando il successo di un comico di-fende anche la propria libertà. E natural-mente ha un peso anche la battaglia per la sopravvivenza (e il successo) dei comi-ci medesimi, che con il loro coraggio e le loro paure, i loro opportunismi e le loro astuzie cercano di salvaguardare (tra l’al-tro) il proprio posto di lavoro.

Del resto, il comico ama da sempre giocare con il potere, tanto che si è se-dimentata una vera e propria mitologia. Inutile ricordare il bambino che punta il dito, «Il re è nudo», diventando il santo patrono della satira politica. Altrettan-to inutile ricordare la figura del buffone di corte, il Fool che trova nel Re Lear di William Shakespeare la sua incarnazio-ne più esemplare e poetica. Rispetto alle epoche barbariche dove regnava Lear, bisogna precisare che in questi nostri tempi moderni, segnati dal trionfo della democrazia e dalla morte di Dio, il ruolo e i limiti della satira sono assai cambiati. Da un lato, la satira ha avuto un ruolo fondamentale nell’abbattere disugua-

glianze, idoli e superstizioni: basti pen-sare a Voltaire e al suo Micromega. Se la satira ai suoi inizi - vedi Aristofane - era tendenzialmente moralistica, e dunque in sostanza conservatrice, con l’illumi-nismo razionalista ha assunto invece una funzione dissacrante e potenzialmente progressista.

Come giullare di corte della

società moderna, l’intellettuale ha

il dovere di dubitare di tutto ciò

che è ovvio, di considerare relati-

va qualsiasi forma di autorità, e di

porre tutte quelle domande che gli

altri non osano fare... La verità del

buffone quindi non è mai troppo

seria poiché le manca l’importante

avallo della responsabilità (e anche,

naturalmente, del potere). Ma que-

sto non diminuisce il suo valore e

dimostra che è tanto più irragio-

nevole affrontarlo con l’artiglieria

pesante del sospetto pubblico e

della denigrazione. Il mondo in

cui una società accetta gli intellet-

tuali giullari di corte, che mettono

criticamente in discussione le sue

istituzioni, ci dà la misura della sua

autorità e della sua solidità.

(Ralf Dahrendorf , “Die Welt”,

1953)

Ma ora che i valori della critica si sono affermati (forse irreversibilmente), qualcuno sostiene che il comico avrebbe perso la sua funzione: dopo il trionfo del nichilismo razionalista, abbattuti gli ul-timi idoli, non ci sarebbe più niente di cui ridere.

Dall’altro lato, in una società gerar-chica in cui ciascuno aveva un ruolo pre-stabilito, al quale corrispondevano precisi diritti e doveri, il fool aveva totale libertà di parola proprio perché non ricopri-va alcun ruolo preciso (correva peraltro qualche rischio: se davvero esagerava, il buffone di corte non perdeva solo il la-voro, ma anche la testa...). Ora che siamo tutti uguali di fronte alla legge, e che i ruoli sociali si sono indeboliti, tutti pos-sono ridere di tutto. Ecco un paradosso: potremmo ridere di tutto, anche se non c’è più niente da ridere. Infatti i comici dilagano, mettendo in ridicolo il mondo intero. E noi continuiamo a ridere con loro di tutto, ma con un riso un po’ for-zato.

Il Novecento che ci siamo lasciati alle spalle è stato un secolo terribile, segnato

da guerre atroci e stragi insensate: non c’era letteralmente niente da ridere, e tut-tavia tra le grandi creazioni dello spirito umano di quel periodo ci sono la fiori-tura dell’umorismo ebraico, che non si è fermato nemmeno davanti alla camere a gas; e la proliferazione delle irresistibili

barzellette sul regime sovietico. Se pro-prio bisogna aver fede nell’essere umano, questa libertà di sghignazzo di fronte all’orrore potrebbe essere una buona mo-tivazione.

Di più: un tempo c’era chi poteva ri-dere e chi no, perché per lui non era di-gnitoso. In compenso, c’erano momenti - come il Carnevale - in cui era “obbligato-rio” ridere, anche perché in quel periodo il mondo funzionava all’incontrario e il buffone diventava sovrano - il Re di Car-nevale (che però anche lui, almeno anti-camente, rischiava una brutta fine). Oggi, in una società dove è d’obbligo “divertirsi da morire” (e dove i politici sono più a loro agio nelle barzellette e nei tribunali che in Parlamento, quando non diventa-no essi stessi barzellettieri), possiamo e dobbiamo ridere sempre. Per questo oggi il Re di Carnevale può autorevolmente candidarsi alle elezioni. L’aveva fatto in Italia del dopoguerra il commediografo Guglielmo Giannini, l’eroe dell’Uomo Qualunque. L’ha fatto un genio dello sberleffo politicamente scorretto come Coluche, che all’inizio degli anni Ottan-ta si candidò alle presidenziali francesi con lo slogan «Per rompere le palle alla destra fino a sinistra»: nei sondaggi ot-tenne un tale successo che venne obbli-gato a ritirarsi. Inutile aggiungere che gli italici “comici-candidati” sono solo pal-lide imitazioni di Coluche: basta citare alcune delle sue memorabili battute:

Mi permetto solo di far notare agli •

uomini politici che mi prendono per

un buffone che non sono stato io a

cominciare.

Tutti gli uomini politici di tanto in •

tanto fanno i comici. Io su di loro

ho un vantaggio: sono un professio-

nista.

La destra ha vinto le elezioni. La-•

Però quando le perso-ne “autorevoli” tacciono qualcuno pensa bene di

prendere la parola

Page 22: Atti & Sipari numero 2

sotto la lente

22 | Atti&Sipari

sinistra ha vinto le elezioni. Ma la

Francia quando vince?

Fare il politico è un mestiere diffici-•

le? Mica vero! Bastano cinque anni

di diritto e tutto il resto di traverso.

Il 50% degli uomini politici sono •

dei buoni a nulla. L’altro 50%? Sono

pronti a tutto.

(Coluche, Pensées et anecdotes, le

cherche midi, Paris, 1995)

Grillo-Masaniello si muove sulla scia di Coluche, adattandola alla realtà italia-na. Può essere stato espulso dal piccolo schermo per leso Craxi e lesa pubblicità, ma intanto può continuare a riempire i palazzetti e i teatri di tutta Italia, e vende decine di migliaia di copie dei suoi libri e dei suoi video. E può organizzare ma-nifestazioni politiche (o anti-politiche) come il “Vaffa Day” che nel settembre 2007 ha riempito le piazze d’Italia.

Ovviamente Grillo può avere più successo come politico che come buffone solo se i politici sono più efficaci come buffoni che come comici. Il Re del Car-nevale diventa autorevole solo se il Re ha perso credibilità. Il buffone può aspirare al trono solo se la politica del sovrano non è riuscita a dare risposte soddisfacenti.

Da questo punto di vista, la censura è un problema di rapporti di forze e di conflitti di potere. Così il critico televisi-vo del più autorevole quotidiano italiano può cercare di rimettere in riga i comici

che nel frattempo sono diventa-

ti maestri di pensiero, piccoli guru,

guide spirituali. Non fanno più ri-

dere ma in compenso si atteggiano

a intellettuali, scrivono pensosi edi-

toriali e, in video o al cinema, fanno

prediche. [...] Molti comici si sono

trasformati in professionisti della

comunicazione.

(Aldo Grasso, “Corriere della

Sera”, 15 marzo 2008)

Anche se in questo hanno avuto cer-tamente un “aiutino”:

Ormai i giornali mi chiedono l’opinione

anche sulla proporzionale, si vede che in un

momento di vuoto politico la politica la det-

tano i comici.

(“il manifesto”, 16 dicembre 1992)

Tuttavia la faccenda non è così sem-plice. Perché dietro la maschera del co-mico si nascondono - e tuttavia si avver-tono - altre due risate. La prima è quella del diavolo: nella risata c’è una forza de-stabilizzante, liberatoria e sovversiva. Per i Padri della Chiesa l’ebbrezza del riso è addirittura un’arma diabolica. Sant’Am-brogio ammoniva:

Anche se le battute e gli scherzi

possono essere moralmente belli e

gradevoli, essi tuttavia ripugnano

alla disciplina ecclesiastica, poiché

di ciò che non abbiamo trovato

nelle Scritture, come possiamo far-

ne buon uso? In effetti dobbiamo

evitarli, anche nelle conversazioni,

per timore che sviliscano la dignità

di un progetto di vita più austero.

“Maledetti voi che ridete, perché

piangerete”, dice il Signore; e noi,

noi cerchiamo cose di cui ridere,

in modo che, ridendo qui in basso,

piangeremo là sopra!

(De off iciis, I, 23, 102-103)

Dietro la risata, c’è sempre il rischio che riaffiori il demoniaco - anche se non possiamo più credere né al demonio né all’inferno. Dunque temiamo il riso e ne siamo affascinati. Per Baudelaire, che ar-riva molti secoli dopo i Padri della Chie-sa, quando la comicità e il demonio si sono evoluti, «il riso è satanico, e dunque profondamente umano» (De l ’essence du rire).

La tradizione conosce anche un al-tro riso, a questo paradossalmente ap-parentato: è quello terribile di Dio, che ride delle disgrazie e delle miserie degli esseri umani. Ora che Dio è morto, non possiamo nemmeno più sentirlo ridere di noi. E dunque a noi umani tocca un dif-ficile compito: ridere di noi stessi. Non è un caso che dopo la democratizzazione dell’ironia, dopo il trionfo di uno scetti-cismo che azzera nella risata ogni valore, ora dilaghi l’autoironia.

Il riso non è solo problema politico, una questione di controllo ideologico o sociale. Adesso che ridiamo di tutto proprio perché non c’è più niente da ri-dere, il comico può tornare a essere, per

un breve istante, quasi per sbaglio, una voragine filosofica e metafisica. Come se la nostra risata, a un certo punto, tra-disse la nostalgia della risata del diavolo e di quella di Dio... Come se, in questa società polverizzata in mille individui-consumatori, dove anche la risata diventa spesso bene di consumo piacevole e con-solatorio, potesse resuscitare il fantasma della sovversione totale, e dunque anche quello di una società di cui sovvertire regole e gerarchie. Ma questa nostalgia del trascendente si perde e si brucia tut-ta subito, nell’immanente: nel “qui e ora” della risata, nel suo scoppio fragoroso e gratuito.

Ecco, forse l’ansia e l’angoscia segreta dei censori è questa: fare in modo che la risata non dilaghi, non diventi contagio-sa - come in quelle epidemie di fou rire idiota e insensato che ci colpivano quan-do eravamo adolescenti, e ci chiudeva-no in una piccola bolla fuori dal tempo e dallo spazio, irrecuperabili da diritti e doveri. Come se non potessimo né voles-simo più tornare indietro, dentro questa storia, dentro questa realtà.

Io sono soltanto una cosa, e

nient’altro che quella: un clown.

Questo mi mette a un livello supe-

riore a qualsiasi uomo politico.

(Charlie Chaplin, “The Obser-

ver”, 17 giugno 1960)

Ora che siamo tutti uguali di fronte alla legge, e che i ruoli sociali si sono inde-

boliti, tutti possono ridere di tutto

Page 23: Atti & Sipari numero 2
Page 24: Atti & Sipari numero 2

sc

ene

da

l te

rr

ito

rio

24 | Atti&Sipari

tra parola e fisicitàLa scrittura di Ugo Chiti per l’Arca Azzurra Teatro

Federica Antonelli

Associare il nome di un dramma-turgo-regista della fama di Ugo Chiti alla compagnia “Arca Azzurra Teatro”, è oramai una consuetudine; d’altron-de non potrebbe essere altrimenti, data la venticinquennale collabora-zione tra i due, nata durante un labo-ratorio nel lontano 1983. Da allora è sbocciata una realtà teatrale che vede nell’autore-regista fi orentino un punto di riferimento essenziale per il lavoro di tutta la compagnia; insieme hanno dato vita ad un progetto che aff onda le proprie radici nella drammaturgia in lingua toscana, superandone gli aspet-ti banalmente folklorici e vernacolari, per indagare nello specifi co di questa tradizione culturale, sia da un punto di vista tematico sia linguistico.

Gli esordi dell’autore-regista-atto-re fi orentino (Tavarnelle Val di Pesa) sono legati al “Teatro dell’Amicizia” di Dory Cei, presso il quale Chiti affi na le proprie tecniche attoriali, e al Centro culturale F.L.O.G., dove approda negli anni ’70, prima di riuscire a fondare la compagnia dal nome “Teatro in Piaz-za”. Il passo successivo è proprio il la-boratorio con l’ “Arca Azzurra Teatro”, nel 1983, un’esperienza che gli con-sente di sfruttare il potenziale della gergalità toscana, al fi ne di trarne gli elementi comunicativi, sonori e gestuali in essa impliciti. La prima collaborazione, infatti, riguarda uno studio sull’evoluzione linguistica e popolare, negli ultimi cento anni, della zona del chianti fi orentino, culminata poi nella trilogia com-posta da Allegretto (perbene…ma non troppo) (1987), La provincia di Jimmy (1989) e Paesaggio con fi gure (1993). Si tratta di tre spaccati della provincia toscana del novecento - rispettivamente degli anni ’30, ’50 e ’10 - durante i quali Chiti collabora a stretto contatto con la compagnia. Tutti gli attori dell’ “Arca Azzurra Teatro”, infatti, sono direttamente coinvolti nella stesura del testo, che si va quindi defi nendo attraverso un continuo interscambio tra scrittu-ra e oralità. Il drammaturgo “ruba” dalla carne dell’attore per restituire

un linguaggio che sia straniato, cioè li-bero dalla consueta percezione teatrale, perché nato attraverso un delicato in-terscambio con la fi sicità, come spiega chiaramente lo stesso Chiti a Chiara Alessi, in un articolo apparso su “Pro-ve di drammaturgia”, 2/2005: «L’attore entra all’interno di una scrittura già sottratta, fatta di cadute, vuoti, acce-lerazioni, con una furia che diventa a volte anche minacciosa, ma è comun-que mediata all’interno della scrittura e poi fatta passare attraverso il suo corpo; essa (la scrittura) subisce una specie di verifi ca varcando l’oralità. Io general-mente mi limito ad indicare la battuta, poi la confronto con la sonorità e alla fi ne si stabilisce qual è la restituzione più giusta». Una tale maturazione del testo e, più in generale, di un imprin-ting collettivo, derivano dalle origini attoriali di Chiti: si tratta di un aspetto di grande rilevanza, poiché permette di evidenziare la perenne contraddizione tra scritto e parlato, ridimensionando il ruolo della scrittura, uno stratagem-ma di cui si serve il dialogo per essere convenzionalmente “fi ssato” su carta. L’esperienza chitiana, iniziata e matu-rata sul palco, fa sì che egli consideri

la scrittura drammatica non come un testo letterario, ma come una sorta di work in progress, dove è la pratica della scena a determinarne l’eff ettiva stesura. Già a partire dai primi lavori sul ver-nacolo, proseguendo attraverso il fi lone del racconto, Chiti scrive e pensa i testi sperimentando le possibilità comu-nicative della parola, traendo spunto dall’ambito del “teatro di narrazione”. Basti pensare a Quattro bombe in tasca (2000), uno spettacolo tessuto attor-no ad un racconto volto a sintetizzare alcuni momenti salienti della guerra partigiana, e facente parte di un fi lone ancora una volta legato all’immagina-rio popolare toscano, inaugurato con Il Vangelo dei buffi nel 1996. Chiti - ha scritto Mariella Iannuzzi su “Primafi la” - «utilizza la tecnica della sospensione del racconto in cui toni comici e toni sottilmente drammatici (tra umori-smo e malinconia) si intrecciano con la prova di virtuosismo dell’attore pro-tagonista assoluto che collega tutta la storia». Chiti risulta, quindi, lontano da tecniche meramente letterarie e ben più vicino ad una sorta di attore extra-diegetico e di narratore extradiegetico, collocati appunto al di fuori della sto-

ria narrata - e scenicamente risolti attraverso soluzioni diverse (attore in proscenio, voce fuoricampo…) -, grazie alla presenza di un io-epico post “crisi del dramma moderno”. Sarà proprio questo aspetto ad evidenziare il “nuovo gioco” messo in atto dall’autore fi orentino nel-lo spettacolo Racconti solo racconti (2006), dove ci troviamo di fronte a «quattro storie che avrebbero po-tuto essere normalmente sceneg-giate - ha scritto Antonio Audino su “Il Sole 24 ore” - ma che, invece, ci vengono raccontate in terza per-sona dagli attori, i quali, soltanto a tratti, entrano in quei personaggi, costruendo un immediato rifl esso in cui l’oggettività della narrazio-ne si specchia nella soggettività di un’esperienza individuale». È la prima effi cace risposta chitiana al fenomeno della narrazione, da cui l’autore-regista ha dichiaratamente Ugo Chiti (foto di Agus)

Page 25: Atti & Sipari numero 2

scen

e da

l terr

itor

io

Atti&Sipari | 25

tratto ispirazione pur avverten-do la necessità di andare oltre e non fermarsi al cliché dell’attore narrante. Proprio l’eff etto stra-niante scaturito da una tipologia performativa distante dal mo-dello dell’aff abulazione rivolta direttamente agli spettatori (alla Paolini), porta ad una condi-visione con il pubblico di un piacere intellettuale ed emotivo, che, però, non appaga i sensi in maniera edonistica, dettata cioè dalla immedesimazione in un fenomeno, ma semmai dalla ef-fettiva distanza da esso.

Il merito di Chiti, inoltre, - tornando a Quattro bombe in ta-sca - è di aver usato il racconto orale come punto di partenza per trasformare un episodio di vita partigiana - di storia con la “s” minuscola - in una sorta di memoria collettiva, di fantasma da cui, ancora oggi, non ci siamo liberati. Il fi lone del racconto, quindi, si lega profondamente a quell’ambito della ricerca linguistica connessa alla tradizione della drammaturgia popo-lare toscana, rielaborata da Chiti in modo iperrealistico, senza, cioè, aderir-vi in maniera fi lologica, ma tentando l’artifi ciale costruzione di un idioletto che contribuisca al senso di strania-mento di cui si è detto. Egli sviluppa un’inclinazione all’evocazione storica degli episodi narrati, perché - come ha scritto Rossella Battisti su “l’Unità” - «Chiti preferisce uno sguardo laterale, parlando di Storia attraverso le picco-le storie». Un calzante esempio è Nero Cardinale (2002): uno spettacolo ispi-rato al fratello del granduca Cosimo III dei Medici, in cui il drammaturgo fi orentino riesce a dare risalto ad un personaggio minore di questa dinastia, «evoca[ndo] - ha scritto Franco Quadri su “la Repubblica” - un Palazzo popola-to di macchiette esemplari, dall’abatino zelante, alla servitù arzilla, su fi no alla gretta borghesia del potere […]», con l’intento di beff arsi di un’intera epoca.

Il racconto, l’oralità, la sperimenta-zione linguistica e la narrazione sono, quindi, elementi fondamentali nella scrittura chitiana, perfettamente in-trecciata all’evento performativo, come appare chiaro dall’ultima fatica del gruppo: Decamerone - amore e sghignaz-zi (2007). Il testo boccaccesco è uno dei maggiori riferimenti per l’autore di Tavarnelle Val di Pesa - che, infat-ti, lo aveva già utilizzato nella stagione

1988/89 portando in scena Decameron variazioni - in quanto massima espres-sione della cultura rurale toscana - ma anche di una grande sperimentazione linguistica -, raccontata utilizzando la forma a lui congeniale: la narrazione. L’idea è quella di strutturare lo spetta-colo ispirandosi al perfetto numero di quattro novelle, facilmente conciliabili con la ritmica scansione del tempo del-la rappresentazione - una sorta di 4/4 musicale - dove l’episodio di Masetto funge da collante, da trait d’union per tutte le altre vicende. Proprio il prota-gonista - impersonato da una donna nel consueto chitiano scambio di ruoli - si fa carico dell’extradiegeticità atto-riale e narrativa, in un continuo entrare ed uscire da questo duplice ruolo: nei momenti in cui è narratore, l’attrice viene in proscenio e si rivolge diret-tamente al pubblico, mentre, quando interpreta Masetto, si rivolge alla pla-tea commentando anticipatamente ciò che sta per accadere. Una tale scelta consente all’attore e al narratore di in-staurare un rapporto privilegiato con lo spettatore, ponendolo su un asse cono-scitivo superiore rispetto ai personaggi, e catturandolo attraverso una serie di battute al vetriolo, di intatta matrice boccaccesca.

Le altre novelle si intersecano in maniera ciclica e puntuale all’interno di questa tessitura, assumendo il tono di “narrazioni formative”, fi nalizzate, cioè, ad educare e consolare le suore del convento, prive oramai della casti-tà di cui hanno fatto voto. Le storie di

Alatiel, condannata a sposare il Re del Garbo ma continuamen-te rapita e abusata; di Alibech, la controparte femminile di Masetto e, infi ne, di Lisabetta da Messina, di tono assai più tragico delle precedenti, sono meta-narrazioni, cioè racconti nel racconto, scenicamente as-sunte a livello di sketch, una sorta di brevi scenette che spezzano la novella principale, il fi lo ros-so dello spettacolo, dove i toni comici e tragici assieme si alter-nano in maniera continuativa. Fatta eccezione per la novella di Masetto, infatti, gli altri rac-conti sono citati attraverso brevi episodi, e spesso riassunti per sommi capi, divenendo spunti moralizzanti per i personaggi del racconto principale. I trave-stimenti, le beff e e le doppiezze si riversano nell’ambito lingui-

stico, attraverso un’espressività che attinge a piene mani da una tosca-nità viscerale, sul modello boccaccesco, che Chiti rende, al livello performativo, attraverso una serie di azioni mimate. Ogni volta che Masetto giace con una suora, ad esempio, lo spettatore può soltanto intuire ciò che sta avvenendo in scena, perché coperto dal velo della gonna di altre due monache in pro-scenio, a mo’ di paravento. La scena è scarna, essenziale, come in molti degli spettacoli curati dal regista fi orentino: è costruita su spazi continuamente in-terscambiabili, grazie a paraventi che dividono geometricamente il palco, in un gioco labirintico di nascondigli e anfratti, nel quale i personaggi si rifu-giano in compagnia delle loro bugie e dei loro travestimenti.

Ancora una volta è evidente quanto ci sia di Chiti dietro a questo spettaco-lo, il quale non rinuncia né al racconto, né tanto meno all’oralità, riuscendo ad intersecarli perfettamente con quella sperimentazione linguistica che costi-tuisce il suo bagaglio culturale e il suo segno distintivo, all’interno del pano-rama drammaturgico contemporaneo. Tutta la compagnia sembra adattarsi con estrema malleabilità agli ingra-naggi chitiani, dimostrandosi un corpus complementare alla “mente”, senza il quale il lavoro dell’autore-regista-atto-re fi orentino parrebbe incompleto.

Decamerone (foto di A. Botticelli)

Page 26: Atti & Sipari numero 2

I

N i

tali

a e

nel

mo

nd

o

26 | Atti&Sipari

Della regia in Italia Ipotesi Critiche

Simone Soriani

Negli ultimi anni la rifl essione sulla nascita e sullo svi-luppo della Regia in Europa ed in Italia si è concretata nella pubblicazione di diversi volumi, a fi rma di alcuni dei più autorevoli teatrologi italiani, e di alcune ricognizioni mo-nografi che su varie riviste tra cui “Prove di drammaturgia” e “Hystrio”. L’investigazione storico-critica - che di seguito sintetizzerò a puro scopo divulgativo, senza alcuna pretesa di dar organicamente conto dell’ampio dibattito sulla que-stione - muove dai Padri fondatori di fi ne ’800 (i Meinin-ger, Antoine, Stanislavskij) ai registi italiani di metà ’900 (Strehler e Visconti), dai maestri della Ricerca (Grotowski, Barba, Beck-Malina, Brook) fi no alle tendenze più attuali della Regia (Rodrigo García). Del resto, si tratta tutt’oggi di una delle forme principali dello spettacolo italiano: a fi anco delle generazioni dei Ronconi e dei Castri - che continuano a produrre eventi di notevole impatto pubblico e consenso critico - si stanno ormai imponendo registi più giovani come Massimiliano Civica e, in ambito lirico ma non solo, Danie-le Abbado, il cui riconoscimento da parte dell’establishment si è concretizzato nelle recenti nomine a direttore artisti-co rispettivamente del Teatro della Tosse di Genova e della Fondazione “I teatri” a Reggio Emilia (tuttavia negli ultimi trent’anni, oltre al persistere di forme di capocomicato, si sono imposte varie alternative alle modalità di produzione registica: si pensi alla pratica del “teatro dei gruppi”, ed alla conseguente nascita di una “regia consuntiva” piuttosto che progettuale, ed alla contemporanea tendenza all’aff ermazio-ne di “uomini di teatro totali” nella triplice veste di autori, attori e registi dei propri lavori).

Tra ’800 e ’900, la stagione della Riforma - con l’istitu-zione della fi gura e della funzione del regista - ha destabi-lizzato il sistema di produzione e consumo teatrale che si era aff ermato con l’Età Moderna e che si basava sul pro-fessionismo attorico, secondo la tradizione della Commedia

dell’Arte (la prima testimonianza notarile sul costituirsi di una società di professionisti dello spettacolo risale al 1545, quando a Padova otto attori-giullari decidono di legarsi in una «fraternal compagnia» allo scopo di recitare «commedie di loco in loco»). Il teatro degli attori, che fossero i più cele-brati interpreti di prosa dei teatri cittadini o i guitti dei cir-cuiti provinciali, si basava su di uno scarso rispetto del testo drammaturgico messo in scena, spesso sottoposto a rima-neggiamenti fi nalizzati ad esaltare la performance dell’attore; un’approssimativa ed incoerente dimensione spettacolare (coreografi e dei movimenti nello spazio poco concertate, scenografi e generiche tali da poter essere utilizzate anche per successivi allestimenti, costumi scelti direttamente dagli interpreti senza un progetto unitario); un’inadeguata prepa-razione tecnica e culturale degli attori, che si manifestava in uno stile recitativo convenzionale in quanto imperniato su «gesti appresi, “mezzi di espressione” belli e pronti, modi di recitare escogitati di testa» (Flaszen). La convenzionalità performativa trovava sostegno teorico-pratico nella pubbli-cazione di repertori gestuali, come il Prontuario delle pose sce-niche (1854) di Alamanno Morelli, che alle varie situazioni psicologiche dei personaggi facevano corrispondere deter-minati atteggiamenti corporei.

Rispetto a questa consolidata prassi, il regista si aff erma innanzitutto come il coordinatore e l’armonizzatore del-la messinscena (tuttavia - osserva Alonge - già nel teatro francese del primo Ottocento si era imposta la fi gura del régisseur, cui spettava il compito di garantire la standardiz-zazione dell’evento scenico, così da renderlo replicabile e dunque commerciabile come un prodotto seriale, secondo il meccanismo di produzione capitalistico). Oltre ad una fun-zione coordinatrice, con la Riforma il regista assolve anche e soprattutto una fi nalità interpretativa e illustrativa del testo drammaturgico rappresentato: di questo ambisce a svelare

Il ritratto di Luca Ronconi è di Klaus Lucas

Page 27: Atti & Sipari numero 2

in

italia

e nel m

on

do

Atti&Sipari | 27

sensi e sovrasensi attraverso i codici visivo-spettacolari che coordina e presiede, in modo tale da conferire alla messin-scena - ha scritto Artioli - la sua «inconfondibile impronta», il suo stile, la sua personalità (si pensi al “realismo poetico” di Strehler). Ecco allora che - realizzando un teatro visivo piuttosto che logocentrico - il regista diventa il vero autore dello spettacolo, cui con-ferisce un punto di vista ed una volontà estetica organici e coerenti, miran-do a realizzare un teatro d’Arte che si pone come alternativa al dominante teatro di consumo: il re-gista - dice Molinari - si aff erma «come creatore unico di quell’opera d’arte che è, dovrebbe essere, lo spettacolo teatrale». Per di più, il regista svolge un’attività di sostegno e guida del lavoro attoriale, tutta tesa a liberare l’interprete dai cascami ed i cliché della tradizione ottocente-sca, a favore di una performatività maggiormente funzionale (e subordinata) alle esigenze del progetto registico: si tratti di una recitazione immedesimata di stampo naturalistico (Antoine, Stanislavskij) o biomeccanica (Mèjerchol’d) o sti-lizzata e marionettistica (Craig). Non è un caso che molti registi, da Copeau fi no a Grotowski, abbiano svolto attività pedagogica, talora persino abbandonando la produzione di spettacoli a favore di un lavoro tutt’interno al processo cre-ativo.

Rispetto al contesto europeo il mondo dello spettacolo italiano sembra costituire una sorta di anomalia: da una par-te per la tendenza dei drammaturghi a gestire in prima per-sona la messinscena dei propri testi (D’Annunzio, Pirandel-lo); dall’altra per la centralità che qui, almeno fi no al secondo dopoguerra, conserva il ruolo dell’attore, ora nella veste di capocomico delle “compagnie di giro” ora in quella di autore e regista delle proprie produzioni (soprattutto nell’ambito del “teatro minore”). Una specifi cità tutta italiana che costituisce - scrive Anna Barsotti - «il fi lone più originale nella nostra arte scenica di un XX se-colo che prosegue (non senza scarti) nel XXI» (da Viviani a De Filippo, da Fo a Celestini). Le resi-stenze dell’attore-autore della tradizione italiana all’aff ermazione della fi -gura egemonizzante e demiurgica del regista emerge dalle parole di Ettore Petrolini: «Gordon Craig […] mi domandò seriamente se volevo assumerlo nella mia compagnia come regista… aggiungendo che non voleva neanche essere pa-gato, purché l’avessi lasciato libero di fare degli esperimenti scenici in certe mie commedie: io gli risposi […] che ero dispiacentissimo, ma che, venendo dal varietà, ero abituato a fare da solo».

In Italia, dunque, la Regia si aff erma in ritardo rispetto al resto d’Europa: la Riforma penetra nel Bel Paese soltan-to nel secondo dopoguerra, grazie soprattutto all’attività ed

al lavoro di Luchino Visconti e di Giorgio Strehler. L’uno nell’ambito del teatro privato e l’altro nel circuito pubblico avviano una stagione di intenso rinnovamento dello spetta-colo italiano, introducendo sulle scene patrie autori e produ-zioni internazionali dopo la ventennale autarchia fascista ed al contempo aspirando a rivolgersi alla drammaturgia italia-

na contemporanea. Non è un caso che nel “mani-festo” del Piccolo Teatro, fondato da Strehler con Paolo Grassi nel ’47, si legga programmatica-mente: «Aperti alla nuo-va cultura, portando nelle opere di drammaturgia e di regia i frutti di un nuo-vo costume d’arte, di una sensibilità nuova, di un

linguaggio nuovo, possiamo sperare che gli autori nuovi ci vengano incontro». Di fatto il progetto strehleriano resterà in parte irrealizzato, dal momento che il Maestro si concen-trerà soprattutto sulle messinscena dei grandi classici della tradizione europea (Goldoni, Čechov, Pirandello, Shakespe-are), delegando semmai ai propri collaboratori il compito di allestire pièce contemporanee: sarà ad esempio Lamberto Puggelli a dirigere Barbablù di Dursi nel ’73-’74 e Igne Mi-gne di Campanelli nell’86-’87. A Strehler si deve comunque riconoscere il merito di aver per primo presentato e divulga-to al pubblico italiano la produzione di Brecht, a cominciare da L’opera da tre soldi (1955) per un totale di 19 spettacoli brechtiani allestiti nel corso degli anni (tra cui il discusso Vita di Galileo che scatenò numerosi tentativi di censura e sospensione da parte del clero e della Democrazia Cristiana milanese). Visconti, invece, dopo essersi dapprima dedicato al teatro francese contemporaneo (Anouilh, Sartre, Achard, Cocteau), si accosta ai drammaturghi americani più signifi -cativi dell’epoca, ottenendo grandissimi consensi di pubblico e critica con Un tram che si chiama desiderio di Tennesse Wil-

liams nel 1949 e Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller nel 1951.

Con Strehler e Vi-sconti il teatro italiano si emancipa pian piano dalla soggezione nei confronti del testo drammaturgico scritto preventivamente dall’autore/letterato (e al contempo dai manieri-smi “ad eff etto” degli at-tori, ancora legati ad una

tradizione interpretativa ottocentesca), per aff ermarsi sem-mai come opera d’arte di sintesi tra parola, musica, pittura/scenografi a, coreografi a, pantomima, ballo. Emerge dunque una concezione per lo più visiva del teatro che, tuttavia, si accompagna ad una sorta di rispetto fi lologico del testo inscenato, per cui il regista deve rifuggire da interpretazio-ni troppo soggettive o arbitrarie per cogliere il vero senso della drammaturgia, magari «raschiando lo strato di false interpretazioni precedenti […] spesso del tutto immotiva-te - scrive Bosisio - che lo hanno ricoperto stratifi cando-si nel tempo fi no a deformare le sembianze originali». Si

Con Strehler e Visconti il teatro italiano si emancipa pian piano dalla soggezione nei

confronti del testo drammaturgico scritto preventivamente dall’autore/letterato [...], per affermarsi semmai come opera d’arte

di sintesi tra parola, musica, pittura/sceno-grafi a, coreografi a, pantomima, ballo

Il lavoro registico sembra muoversi nella direzione di un formalismo estetizzante che

subordina i contenuti alla calligrafi a, la comunicazione all’edonismo visivo, al punto

che raramente l’intervento mediatore in-veste il versante di un logos troppo spesso

museifi cato, in base ad una (datata) separa-zione delle competenze

Page 28: Atti & Sipari numero 2

I

N i

tali

a e

nel

mo

nd

o

28 | Atti&Sipari

pensi, solo per fare un esempio, alle letture “cechoviane” di Goldoni da parte di Strehler che, non a caso, ha rivendicato sempre con orgoglio di aver «contribuito qui e là a disegnare un profi lo critico più corretto di opere di teatro e di autori tanti e varii nel mondo». Un teatro, quello dei registi italiani, che - come è stato detto da altri - ambisce ad «informare, persuadere e istruire», assolvendo quindi una funzione po-litica in netta controtendenza rispetto alle dinamiche com-merciali dell’allora contemporaneo sistema dello spettacolo. Un teatro democratico che si rivolge all’intera cittadinanza e non più uno spazio/tempo dove le classi privilegiate (la colta borghesia cittadina) possano consumare le proprie esigenze di svago ed intrattenimento. Non è un caso che al Piccolo «si videro in sala classi sociali che prima non andavano a teatro» (Puggelli) e non è un caso che, nella lettera scritta da Visconti per chiedere al Direttore Generale del Teatro i fi nanziamenti pubblici per la sua “Compagnia Italiana di Prosa”, si dichiari il proposito di riservare alcu-ne produzioni «a un pubblico di ope-rai, a prezzi ridottissimi», affi nché lo spettacolo dal vivo non resti «soltanto alla portata di una cerchia purtroppo ristretta di spettatori quale quella del teatro d’oggi».

Se tuttavia guardiamo agli sviluppi della produzione registica negli ultimi trent’anni, almeno in relazione a quella che Palazzi sembrerebbe identifi care come la linea Visconti-Strehler-Ron-coni-Castri, si potrebbe rilevare come molti degli intenti e delle prospettive dei riformatori degli anni ’40-’50 (ri-spetto fi lologico delle drammaturgie inscenate e democratizzazione del si-stema teatrale) siano rimasti in parte inespressi. Innanzitut-to, a partire dagli anni ’70 si impone una “cultura dei gruppi” che elabora modalità produttive alternative e contrastive rispetto alla progettualità del regista-demiurgo, marginaliz-zato in spazi sempre più ridotti e «conservabili solo a patto di rimanere immutabile e ripetitivo, non esposto al nuovo» (Ferrone). Non a caso Ponte di Pino osserva come, per il Nuovo Teatro, il Piccolo rappresentasse «il massimo tempio di una cultura istituzionale e l’architrave del sistema degli stabili e dei loro sprechi lottizzatori, mentre il magistero strehleriano appariva l’emblema di una concezione superata del teatro e della regia»; se «il Piccolo aveva tradito i suoi ideali originari», i gruppi degli anni ’70 volevano «rilanciare l’intransigenza politica, la spinta al decentramento, l’eguali-tarismo, l’allargamento del repertorio». Da un punto di vi-sta storico, infatti, il teatro di regia non sembra sia riuscito ad intaccare le dinamiche profonde del teatro di consumo, pur contestandone fi n dal dopoguerra le fi nalità evasive e commerciali: ancora oggi la fruizione teatrale resta uno sva-go riservato alle classi egemoni, ovvero un modo raffi nato ed elegante di trascorrere la serata. Paradossalmente, anzi, il teatro di regia ha fi nito per legittimare da un punto di vista culturale, in quanto teatro d’arte, la prassi di distribu-zione e consumazione del “teatro borghese”, giustifi cando implicitamente l’egemonia sociale della borghesia in quanto

ceto depositario dei mezzi intellettuali e culturali per fruire e recepire i prodotti dell’arte. (Un discorso a parte, ma che esulerebbe dai limiti imposti alla presente rifl essione, meri-ta il circuito sostanzialmente autoreferenziale della Ricerca, per lo più destinato ad un pubblico interclassista di critici, studiosi, studenti e teatranti. È soprattutto in questo ambito che si collocano le produzioni di registi post-moderni come Romeo Castellucci e - per utilizzare un’etichetta suggeri-tami da Gerardo Guccini - di registi-levatori come Vacis, Martinelli e Baliani: i primi contaminano lo spettacolo con la performance, l’installazione e la video-arte, approdando ad un teatro senza testo né personaggi; i secondi praticano

una “regia consuntiva” che - sulla scia dell’insegnamento dei maestri del-la Ricerca - consiste nella selezione e montaggio di materiali derivati dalle improvvisazioni attoriali, piuttosto che in un’aprioristica operazione di erme-neutica nei confronti di una dramma-turgia preesistente).

Forse proprio in conseguenza del fallimento dell’utopia democratica e pedagogica degli anni ’40-’50, dopo aver contribuito a rimuovere le con-venzioni attoriali allora dominanti ed aver prodotto eventi scenici innovativi come l’Orlando furioso di Ronconi, il lavoro dei registi si è progressivamente incanalato in una sorta di “manierismo” che ha fi nito per sclerotizzarsi in una serie di cliché e stereotipi formali. Si sa-rebbe tentati di dire che, con il tempo, le produzioni dei registi siano andate codifi candosi in stili personali e stan-dardizzati, da riproporre ad ogni suc-cessivo allestimento come formule fi s-se indipendenti dalla sostanza dei testi

messi in scena: dal “realismo poetico” di Strehler alla “poeti-ca della sottrazione” attraverso cui Civica ha riletto tanto le drammaturgie grandguignolesche di fi ne ’800 quanto i testi shakespeariani. Lo stesso Ronconi, dopo aver individuato nella storia del teatro italiano solo «tre, quattro, cinque, sei fi gure che si sono autopromosse o riconosciute registi» (per lo più la funzione di metteur en scene è stata «attribuita vuoi al leader di un gruppo, vuoi a un attore che diventa regista, vuoi a un autore che si fa regista delle proprie opere»), osserva che i registi «molto spesso partono anarchici e fi niscono accade-mici. Questa è la sorte di tutti quanti, mi ci posso mettere in mezzo anch’io».

Non è un caso che Dario Fo, uno dei massimi esponenti di quel teatro dell’attore - o meglio dell’autore-attore - che all’aff ermazione della Regia ha resistito fi no a sopravvivergli (con Celestini ed Enia, ad esempio), abbia dichiarato: «Strehler si preoccupava di dimostrare come si potevano inserire certe situazioni, certe invenzioni, certe soluzioni che lui aveva sperimentato nel teatro epico, per esempio, anche in Goldoni. […] Così facendo si allontanava completamente dal problema di che cosa vai a dire e perché lo vai a dire, di qual è il tuo rapporto con la realtà». Un teatro - prosegue il premio Nobel - in cui «non si segue più il signifi cato del discorso che va facendo l’attore, che cosa ti racconta, ma soltanto quello delle atmosfere, delle emozioni, dei

Il ritratto di Giorgio Strehler è di Klaus Lucas

Page 29: Atti & Sipari numero 2

in

italia

e nel m

on

do

Atti&Sipari | 29

suoni per se stessi. […] È un teatro senza denuncia, senza aggressività, senza parte, che non prende parte di niente, tremendamente estetico-edonistico». Ancora più caustiche le parole dell’attore-regista Carlo Cecchi: «Pare che ci siano ancora dei registi che passano la settimana a dilungarsi sulla loro propria “lettura” della commedia che stanno provando, e cercano di “chiavarla ‘n capo” agli attori; i quali, poveretti, imprigionati dalla “lettura” del regista - che il più delle volte è la più arbitraria e a cazzo-di-cane che ci possa essere - arrivano a una rappresentazione nella quale intonazioni, gesti, movimenti, ecc. sono tali che gli spettatori non capiscono nulla di quello che succede sul palcoscenico».

Negli ultimi anni la riduzione del lavoro registico ad “esercizio di stile” sembrerebbe accompagnarsi ad un progressivo allentamento del rispetto delle drammaturgie inscenate, con interpretazioni - dice Ronfani - sempre meno «preoccupate di fi lologiche e poetiche aderenze al testo» (del resto Ronconi dichiara liberamente di non essere «mai suffi cientemente informato e documentato sui testi che faccio»). È un esempio di questa scarsa aderenza alla drammaturgia la prassi - ormai consolidatasi in un cliché prevedibile - di collocare il plot in ambientazioni scenografi che e spaziali inedite rispetto a quanto prescritto nelle didascalie. L’operazione di ridefi nizione dello spazio riguarda soprattutto i testi naturalistici, sempre più spesso riproposti in chiave transtemporale ed universale (con scene metafi siche e beckettiane) e quindi depurati da qualsiasi riferimento ad un determinato contesto storico e geografi co, talora indispensabile a determinare (ed inverare) le dinamiche tra i personaggi. È lungo questa direttrice, per esempio, che si colloca anche la recente messinscena di Tre sorelle da parte di Castri: tuttavia la polisemia cechoviana fi nisce per essere ridotta ad unum senza un accenno a quella situazione di crisi politico-sociale che la Russia zarista stava attraversando alla fi ne del XIX secolo e che si sarebbe poi sciolta nelle rivoluzioni del 1905 e del 1917. Al contrario, la partitura dialogica tende a conservarsi come un feticcio immodifi cabile, anche quando necessiterebbe di interventi di aggiornamento per ricostruire quelli che Fo defi nisce come i «corrispettivi comici, tragici o satirici» dell’epoca a cui risale il testo rappresentato: ad esempio, in riferimento ad una recente messinscena della Lombardi-Tiezzi, si sarebbero potuti attribuire ai demagoghi di oggi gli strali polemici che negli Uccelli Aristofane rivolgeva a Cleone. Insomma, il lavoro registico sembra muoversi nella direzione di un formalismo estetizzante che subordina i contenuti alla calligrafi a, la comunicazione all’edonismo visivo, al punto che raramente l’intervento mediatore investe il versante di un logos troppo spesso museifi cato, in base ad una (datata) separazione delle competenze, per cui all’«artista della parola, deputato al confezionamento della partitura dialogica», si contrappone «il concertatore scenico, competente in materia di ritmo, di spazio, di luci, di cadenze recitative» (Artioli).

Per di più, in Italia, dopo una prima fase di attenzio-ne (almeno nelle intenzioni) nei confronti di autori e testi contemporanei, il teatro dei registi si è sempre più orientato verso i grandi classici della tradizione occidentale. Così, al-meno con l’eccezione degli eredi dell’asse Eduardo-Viviani (da Ruccello a Moscato, peraltro entrambi infl uenzati dalle sperimentazioni registiche dei maestri degli anni ’60-’70), la Riforma ha in un certo senso contribuito ad inibire una drammaturgia nazionale in grado di raccontare la nostra

epoca: anche se, tra le nuove generazioni, sembrano segna-re un’inversione di tendenza i casi di Celestini e Enia, sul versante della partitura per attore monologante, e di Emma Dante e Stefano Massini, su quello della scrittura dramma-tica per più attori. Sono un’indiretta conferma del sostan-ziale disinteresse registico nei confronti della drammaturgia contemporanea i numerosi allestimenti derivati da scritture non espressamente teatrali (romanzi, inchieste giornalisti-che, poemi), a cominciare da quelle che Ronfani defi nisce come le «disinibite scorribande nella letteratura» di Ron-coni. (In questo, il lavoro dei registi sembra consonare con l’insegnamento spettacolare dei maestri della Ricerca e con la tendenza delle avanguardie a praticare «metalinguaggi - scrive Guccini - per cui l’opera parlava se stessa negando la referenzialità del racconto»; si può rilevare en passant come tuttavia diversi gruppi dell’avanguardia si siano pian piano istituzionalizzati e riconvertiti ad una poetica logocentrica più tradizionale, come nel caso esemplare della Lombardi-Tiezzi, con una conseguente riscoperta della funzione er-meneutica e progettuale del regista). Del resto, già qualche anno addietro, Fo lamentava l’assenza di una drammaturgia proiettata sulla contemporaneità, deplorando lo scarso enga-gement dei teatranti italiani: «Questa, di sollecitare la nascita di un teatro che proponga temi vivi e che dimostri di volersi rinnovare non solo nello stile ma soprattutto nei contenuti, è una battaglia che conduco da trent’anni ormai. […] Io tro-vo che quello che abbiamo intorno sia un teatro morto per gente morta».

Nota bibliografi ca

R. Alonge, Il teatro dei registi. Scopritori di enigmi e signori della sce-na, Roma-Bari, Laterza, 2006U. Artioli (a c. di), Il teatro di regia. Genesi ed evoluzione, Roma, Ca-rocci, 2004A. Barsotti, Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, Roma, Bul-zoni, 2007C. Cannella (a c. di), Dossier Luchino Visconti, in “Hystrio”, 4/2006 (con contributi - tra gli altri - di Ettore Capriolo e Fausto Malcovati); EAD. (a c. di), Dossier Piccolo + Strehler = 60 + 10, in “Hystrio”, 4/2007 (con contributi - tra gli altri - di Paolo Bosisio, Fausto Malcovati, Flavia Foradini ed un’intervista a Lamberto Puggelli)C. Cecchi intervistato da C. D’Angeli, La triste comicità di Molière, in “Atti & Sipari”, 1/2008.M. De Marinis, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Roma, Bulzoni, 2000L. Flaszen-C. Pollastrelli-R. Molinari, Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969, Firenze, La Casa Usher, 2007.D. Fo, Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ra-gione, con L. Allegri, Roma-Bari, Laterza, 1990; ID., Manuale minimo dell’attore, Torino, Einaudi, 1987.G. Guccini, La storia dei fatti, in G. Guccini-M. Marelli (a c. di), Stabat mater. Viaggio alle fonti del ‘teatro narrazione’, Bologna, Le Ariette–Libri, 2004C. Meldolesi-G. Guccini (a c. di), Le radici della regia, in “Prove di drammaturgia”, 2/2007 (con un testo di Nemirovič-Dančenko e con-tributi - tra gli altri - di Franco Perrelli, Gerardo Guccini, Maria Ines Aliverti, Cesare Molinari, Ferdinando Taviani)F. Perrelli, I maestri della ricerca teatrale, Roma-Bari, Laterza, 2007E. Petrolini, Facezie, autobiografi e e memorie, Roma, Newton Comp-ton, 1993O. Ponte di Pino, Semplicemente complicato (Parte III). Un incontro con Luca Ronconi, in “ateatro 96.8”; ID., Il Piccolo Teatro e Giorgio Strehler: due anniversari, tre libri... e una rifl essione, in “ateatro 114.10”F. Quadri (a c. di), Il ruolo della regia negli anni duemila, in “Pata-logo”, 28, 2005 (con contributi - tra gli altri - di Renato Palazzi, Claudio Meldolesi, Georges Banu, Siro Ferrone, Luca Ronconi)W. Shakespeare-A. Lombardo-G. Strehler, La Tempesta tradotta e messa in scena. Un carteggio ritrovato fra Strehler e Lombardo e due traduzioni inedite realizzate da Lombardo per il Piccolo Teatro di Milano, Roma, Donzelli, 2007

Page 30: Atti & Sipari numero 2

t

eatr

o e

... f

ilo

sofi

a

30 | Atti&Sipari

Tenendo presente il vostro percorso artistico, la questione

della dualità mi sembra centrale. C’ è sempre uno scarto, una di-cotomia, un altro di cui si “parla” nei vostri spettacoli. Persino il nome del gruppo è scandito in due tempi. In che senso rispetto al vostro teatro si può parlare di dualità? Che cos’è il doppio per “Fanny&Alexander”?

Questa è una domanda che ci fanno spesso… Fin dalla scelta del nome infatti, come dici tu, la nostra intenzione è stata quella di evidenziare la questione duale, essendo il Due la matrice creativa per eccellenza. Eravamo ostili all’idea di trovare un nome che veicolasse un signifi cato teorico. Volevamo un nome semplice, un nome molto concreto, come quello che si può dare a un bambino alla nascita. Il nostro è un nome doppio e famoso però, perché “rubato” ad un fi lm di Bergman… La prima persona che commentò questa scel-ta fu Marco Belpoliti: «questo nome è cascante, retorico, leggero: sembra il nome di una coppia d’arte, d’avanspettacolo... Eppure ha la forza monolitica del Due, della coppia». In eff etti in ogni nostro

spettacolo l’idea del doppio è centrale. Nel progetto Ada, cronaca familiare il protagonista, Van, è l’alter-ego di uno spettatore interiorizzato dalla rappresen-tazione: siede ai margini della scena, è il “guardante” per eccellenza, solo attraverso di lui si può vedere quel che accade. Il Due in teatro contempla sem-pre - tornando alla questione della testimonianza attiva di cui ci stiamo occupando nel laboratorio di questi giorni - chi guarda e chi è guardato, lo spetta-tore e l’artista. Ma non è solo questo. In una recente intervista ho istintivamente coniato il termine di drammaturgia duale. Anche se sono io che fi rmo le drammaturgie dei nostri spettacoli, non me ne sento mai l’autrice assoluta: c’è sempre una cooperazione molto intensa con gli attori e gli altri collaborato-ri ma, soprattutto, non posso più separare l’idea di creazione da quell’uno indiviso e duale che per me è la sostanza del mio lavoro con Luigi de Angelis. “Drammaturgia” è tutto ciò che in uno spettacolo “racconta”: la tessitura delle azioni, delle parole, delle luci... Considero testo ogni elemento semantico in uno spettacolo, quindi come potrei arrogarmi il di-ritto di questo testo intero? Chi mai potrà defi nirsi, mi chiedo, l’autore unico di un testo così? Sì, forse è proprio corretto parlare di dualità, o magari di dua-lità espansa, nel nostro caso specifi co...

Si può parlare allora di dualità anche rispetto alla scrittura di un testo. Ma come nasce esatta-mente un vostro testo?

Nello specifi co ci sono varie modalità di scrittu-ra di un testo, dipende ovviamente dal tipo di spet-tacolo. Ti posso fare tre esempi. Il progetto Ada è un adattamento da un romanzo colossale, l’ultimo romanzo di Vladimir Nabokov, da cui noi abbia-mo tratto sei spettacoli: in questo percorso il testo romanzesco d’origine è stato masticato, ruminato, metabolizzato, triturato, digerito, risputato… Sicu-ramente potrei parlarti di una grande storia d’amore che si è consumata tra noi e Ada, ma anche di un nostro appassionato sodalizio con altri suoi inna-morati, tra cui Margherita Crepax, la traduttrice del romanzo. Ogni singola parola, ogni singola imma-gine è stata concepita a distanza ravvicinatissima con quel testo e con gli altri testi di Nabokov: una forma di ossessione composita si è consumata fi no a incarnarsi nelle opere. Per Heliogabalus mi sono trovata invece ad inventare un testo scritto in una lingua utopica, non esistente, che prima andava però fondata in maniera rigorosa, anche dal punto di vista grammaticale: tutto questo è avvenuto at-traverso vari esperimenti linguistici eff ettuati sugli attori stessi, che ci hanno off erto il loro corpo e le loro intelligenze, autodisciplinandosi in estenuanti sedute di lavoro, in gara col vuoto di un senso da rifondare ad ogni istante. Insieme abbiamo dato vita ad una lingua “tiptografi ca”, fatta di battiti, e ispirata ad un racconto di Tommaso Landolfi . Per Dorothy. Sconcerto per Oz, infi ne, ho lavorato a partire da una fi gura retorica che defi nisco “coincidenza”. L’idea drammaturgica di quello spettacolo è l’avvento di

IL DOPPIO FRAGILE DIFANNY&ALEXANDER

Chiara Lagani intervistata da Eva Costa

Foto di Marco Caselli

Page 31: Atti & Sipari numero 2

tea

tro

e... filoso

fia

Atti&Sipari | 31

un ciclone, che determina il contratto scenico: c’è una relazione di promiscuità tra spettatori e artisti perché tutti condividono lo status di rifugiati. Quan-do avviene un ciclone, un ciclone vero, tutto salta in aria e infatti anche tutti i materiali di lavoro, testuali e non, sono stati fatti cortocircuitare in un modo a volte anche diffi cile da gestire e prevedere, perché a partire da una ferrea regola di base (la partitura) si creavano continui fenomeni di collisione tra i corpi (testuali, luminosi, musicali e umani). Quando par-lo di quel lavoro dico sempre che mi sentivo in un laboratorio chimico: la diffi coltà non era mai assi-stere al fenomeno alchemico che inevitabilmente si realizzava, spesso in maniera emozionante e stupe-facente, ma saper sempre scegliere con cura e preci-sione certosina gli elementi che avrebbero scatenato quella reazione.

È interessante scoprire, in questi giorni, come la problematica tra vita e forma per l’attore sia la stessa anche per lo spettatore, per quello spettatore con la “s” maiuscola, che è per voi il testimone atti-vo. Egli deve fare i conti con una doppia assenza. L’assenza dalla scena e l’assenza da sé, dal proprio corpo. A questo punto mi viene in mente questo stadio puramente duale, anti-identico, ospitale e pieno ad un tempo, che è il neutro, in cui lasciamo spazio e ci facciamo spazio. Può essere il neutro una forma di ironia? Quanto è importante l’ironia per l’arte?

Beh, sì, è assolutamente importante, lo è anche nella vita oltre che nell’arte! L’ironia, forse, è proprio la chiave di volta dell’idea di doppio di cui stiamo parlando dal principio dell’intervista. È un proce-dimento molto intimo e sottile che segnala il poter stare fuori e dentro le cose nello stesso istante. È il tentativo feroce, disperato (e disperante) di mante-nere intatta un’unità che si scinde continuamente. Il neutro, almeno quello etimologico, è anche questo. Faccio un esempio. Francesca Proia ci ha parlato di corpo sottile ieri, di corpo fantasma, che è un corpo plastico e invisibile su cui si concentra massima-mente lo sguardo dello spettatore. E poi di un corpo materiale, quello esterno, quello che siamo abituati a vedere quando ci guardiamo allo specchio. Con-ciliare due immagini così, da un lato il corpo sot-tile che è reale, ma che si manifesta quasi in forma di intuizione sensibile, e dall’altro il corpo esterno, quello comunemente percepito dai sensi, conciliare due immagini e due stati così nel lavoro di un attore mi pare proprio un procedimento di tipo “ironico”. Il lavoro di Francesca Proia, infatti, ha sempre un’in-tensità sorprendente e spiazzante; i suoi spettacoli sono pieni di questo tipo di ironia.

La vostra indagine, al momento, si sta orien-tando su questo strettissimo rapporto, che in-clude anche il lavoro sul confi ne tra emblema ed emozione, riproduzione espressiva stereotipata e sentimento vitale, che è stato poi anche il tema del laboratorio Oz-Alfavita M. (MIMICRY) al Teatro

Vascello di Roma. È possibile per l’attore scegliere tra “apparire” ed “essere” o rimane anche per voi un paradosso come lo era per Diderot?

Se mai il problema per l’attore è il fatto che “apparenza” ed “es-senza” tendono a coincidere, per cui la diade non si declina tanto in “apparire e essere” ma piuttosto in “apparire è essere”. Nel momento in cui l’apparenza cessa di essere un’essenza il lavoro dell’attore fra-na, è ridicolo, lo abbiamo anche visto in questi giorni. L’attore lavora a partire dalla fragilità, il suo sforzo è sempre andare a cercare un punto di rottura tra essenza e apparenza. Nel momento in cui riesci a collocarti davvero al centro della tua piccola fessurina franata, e magari a starci anche comodo, allora scopri un vero mondo. Il fatto è che poi subito dopo si ricade, si torna a star scomodi, la terra rifra-na, si conoscono il pudore, le bruttezze, sorgono nuovi disagi, nuovi bisogni, si fanno i conti con la forma e l’artifi cio, e poi di nuovo con la mancanza di forma e di artifi cio… Quello dell’attore è un lavoro benedettamene infi nito, o almeno potenzialmente infi nito, come in-fi nite sono le possibilità di una vita.

A questo si aggiunge poi il problema della ripetibilità di un’opera d’arte. Sempre per citare Diderot, l’attore è privo di sen-sibilità e imita senza sentire proprio per garantire la possibilità di ripetizione della performance. Marco Cavalcoli, che lavora con voi da anni ormai, a Roma, con lo spettacolo Him è andato in scena per un mese. Come la mettiamo con la ripetibilità? Aveva ragione Diderot?

Quella di Marco è la prima esperienza, per “Fanny&Alexander”, di un così lungo periodo di repliche per un nostro lavoro. Immagi-no che debba esser divertente e spossante, come un gioco condotto all’estremo (e allo stremo): si tratta sicuramente di una fatica psichi-ca oltre che fi sica, perché il compito dell’attore, quando si trova a ripetere, è generare domande e rigenerarsi continuamente attraverso le nuove domande, e insomma fare in modo che lo spettacolo non cessi di essere un vero grande punto interrogativo. «A pointless que-stion», come recitava la soluzione di un famoso rebus anglosassone. Credo però che ad un certo punto possa anche arrivare il momento in cui un’opera, con tutte le sue domande, si esaurisce. Comunque il problema della tenuta è molto grande nel lavoro dell’attore, anche quando lo sforzo di ripetizione non è così protratto nel tempo. Ho sentito a volte gli attori parlare di alcune “strategie” che usavano per rinnovarsi sulla scena: c’è chi lavora sull’invenzione di incidenti, su diffi coltà inedite e improvvise da predisporsi appositamente ad ogni nuova replica... Questi sono solo strumenti, o espedienti, per ricre-are semplicemente quello che è caratteristico della vita, quello che ci permette di amarla in modo sempre più innamorato: l’imprevisto, l’inaspettato, ciò che avviene ogni giorno senza annunciarsi, e che una forma fi ssa o data sembra in apparenza escludere (ma così non è, lo farebbe se davvero l’attore fosse “privo di sensibilità”). La forma in arte non è mai separabile dalla sostanza viva che racchiude, non è mai una forma morta e conclusa. La questione è sempre la stessa allora: il rapporto tra la forma e la vita.

Alla luce di queste rifl essioni e del lavoro su Oz, sulla dualità che caratterizza l’attore e non solo l’attore, l’artista come diceva il fi losofo francese deve assolvere alla funzione di saggio nei con-fronti della comunità sociale?

Il discorso sulla saggezza è molto complicato, se così posto, per me. Kurt Vonnegut ha inventato una metafora molto più delicata, terribile e anche lieve sull’artista: l’artista è come il canarino che i minatori mandano avanti nelle miniere. Se ci sono delle esalazioni

Page 32: Atti & Sipari numero 2

t

eatr

o e

... f

ilo

sofi

a

32 | Atti&Sipari

tossiche, il canarino morirà per primo e loro si salveranno. L’artista per Vonnegut è chi va in avanscoperta a rischio della sua stessa vita. Il canarino precede i minatori non perché sia più dotato, ma perché è più sensibile alla tossicità, al veleno. L’artista poi, fi n dall’antichi-tà, è colui che produce in sè l’alchimia, che trasforma il veleno in pharmakon. Vive e muore, ma poi ancora muore e vive, e lo fa prima degli altri, o, se vuoi, davanti agli altri. Non so se questo è un proce-dimento psicomagico o una forma di saggezza; se fosse una forma di saggezza, allora risponderei che, sì, l’artista è un essere molto molto saggio.

In tutta questa conversazione sull’attore ci dimentichiamo di qualcuno… ovvero del personaggio. Dove sta il personaggio ri-spetto all’attore? Dentro? Fuori? Sopra ? Sotto? Come le streghe di Dorothy?

Beh, il discorso sul personaggio sarebbe molto lungo e comples-so. Quello che posso dire qui, in breve, perché non l’abbiamo ancora fatto, è che l’attore è anche colui che ospita in sé tante vite, che arricchisce approfondisce e sorpassa la sua identità attraverso tante altre identità. Se dovessi disegnare la carriera di un attore, disegnerei una linea sottile, che a poco a poco si stratifi ca, si ispessisce, diverte da sé, direi, o meglio si concretizza in un sé che è un fascio di linee sovrapposte e intrecciate. Se si potesse sezionare verticalmente l’ani-ma di un attore vecchissimo vedremmo forse un’iride gigantesca, mostruosamente dettagliata.

«Al termine della sua famosa storia Dorothy giunge a Oz e, in procinto di essere esaudita, scopre che il suo mago è un falso mago e un vero artista: un ventriloquo, esperto d’aria e mongolfi ere, di illusioni e altre cose inesistenti. Le alterne sembianze del mago - la grande testa, la bella dama, la bestia feroce - si rivelano fi tti-zie e mendaci. Ma erano davvero un inganno?». Il teatro si nutre dell’inganno, della menzogna. Lo stato di sincerità, come diceva Jouvet, è uno stato improprio all’attore, come del resto all’uomo sociale, sebbene sia un ideale verso cui tutto il mondo tende. An-che Platone nella sua Repubblica parla della mimesis come un’arte ingannatrice e doppia, che si rivolge alla parte irrazionale dell’uo-mo, manipolandola. Solo il fi losofo può fare buon uso della men-

zogna. Il poeta imitatore alla fi ne viene cacciato dalla Città ideale. Qual è il vostro rapporto con la menzogna? Cosa rispondereste a Platone?

Non so proprio cosa rispon-derei a Platone, probabilmente ammutolirei e basta se fosse qui davanti! Credo che il rappor-to con la menzogna per un arti-sta sia segnato dalla tensione del suo rapporto con l’invisibile, che, come dicevo in altre forme prima, non è mai un rapporto con quello che non è lì, ma col suo fantasma, che è sempre una superpresenza. L’attore, l’artista, ha una stretta frequentazione col mondo delle immagini fantasmatiche: queste immagini hanno un peso speci-fi co talora schiacciante. Nell’arte dell’attore il rapporto con l’invisi-bile è forse il nodo fondamentale.

Questo rapporto prevede una immedesimazione o interiorizzazione del contratto fi nzionale e, con-temporaneamente, la consapevolezza feroce e con-tinua che quello è solo un contratto: in questo salto mortale tra due mondi si gioca la presenza scenica. Non è mai un fatto di intelligenza però, credo, o non tanto, ma di incarnazione. Credo che anche allo spettatore, a diversi livelli, questa questione si ponga. Forse, il rapporto con l’invisibile sarebbe un buon oggetto di studio per un altro laboratorio critico per attori e testimoni.

FANNY&ALEXANDER

Ravenna, 1992. Questa la data di nascita di “Fanny&Alexander”, gruppo teatrale fondato da Luigi De Angelis e Chiara Lagani.

Ci siamo incontrati nella loro città, dove recentemente è stato organizzato un laboratorio dal titolo T. Alfavita (testimonianza attiva), laboratorio per testimoni e attori, condotto da Chiara insieme a Lorenzo Donati di “Altrevelo-cità”, compagnia non di attori ma di cri-tici teatrali. Questo laboratorio di tre giorni fa parte di un progetto più ampio, Alfavita, con cui il gruppo si ritaglia al-cuni momenti di studio, per approfondi-re le proprie domande, lasciando ai par-tecipanti la stessa possibilità.

Una novità per “Fanny&Alexander” quella di mettere attore e spettatore in un confronto diretto. Sicuramente un esperimento da ripetere, come ha detto Chiara. Un territorio neutro (e abbiamo avuto modo di intuire quanti significa-ti ha tale parola per i “F&A”) di collisio-ne per la coppia guardante-guardato, il “Due” forse più importante del teatro.

Foto di Enrico Fedrigoli

Page 33: Atti & Sipari numero 2
Page 34: Atti & Sipari numero 2

P

RO

FILI

34 | Atti&Sipari

Sulla scia di una nuova corrente tra meridione e ricerca, si colloca la compagnia “Scena Verticale”, che nasce a Castrovillari (CS) nel 1992, per vo-lere di Saverio La Ruina e Dario De Luca. I due debuttano nel 1996 con La stanza della memoria (drammaturgia e regia degli stessi), in occasio-ne del II° Incontro dei “Teatri Invisibili”. Il testo (segnalato al Premio Nazionale Teatrale “Città di Reggio Calabria 1996”) rivela fi n da subito una ca-ratteristica fondante della produzione successiva: una scrittura drammaturgica densa di particolari, nella descrizione degli ambienti, nei movimenti e gesti degli attori, attenta alla performance e all’azio-ne sulla scena. In un alternarsi di fabulazione ed interpretazione, due soli personaggi (Saverio e Dario) narrano gli eventi passati del paesino nel quale sono nati e cresciuti, con accenni ai grandi fatti della Storia (la Seconda Guerra Mondiale, lo sbarco sulla Luna, gli assassinî di John Kennedy e Aldo Moro...), agendo di volta in volta tali ricordi e vestendo i panni di tutti i protagonisti del loro racconto. Grazie a questo spettacolo, nel 1997 la compagnia riceve il riconoscimento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali; due anni dopo le viene affi data la Direzione Artistica della ras-segna estiva Primavera dei Teatri (Castrovillari), nata all’interno del disegno “Aree disagiate” ed at-tenta ai nuovi linguaggi del teatro contemporaneo. Grande interesse è riversato anche nella sezione del “Teatro Ragazzi” (le cui produzioni prendono avvio nel 1998), curata da Dario De Luca e orien-tata verso letture giovanili (da Saint-Exupéry, An-dersen e Collodi, sono nati rispettivamente Sulle tracce del piccolo Principe, Pollicina, Pinocchio) e la memorabile tradizione del teatro (la Commedia dell’Arte diventa soggetto di Capitan Giangurgolo, e la comicità di grandi autori e attori - da Aristofa-ne a Totò - è esaltata ne L’arte del ridere).

L’ultimo lavoro del gruppo è Luigi Sturzo. Le tre male bestie (2007), inserito nel progetto “Storie Interrotte”, il cui proposito è quello di far cono-scere attraverso mezzi artistici - teatro, radio, let-teratura - alcuni personaggi poco noti, che hanno invece cambiato in qualche modo il nostro Paese. La drammaturgia è di Paolo Patui (da dialoghi di Salvatore Lupo e Anna Lucia Denitto), ma è Da-rio De Luca ad aver curato la regia della messin-scena: la personalità prescelta è Luigi Sturzo, colui che tra i primi ha inserito le masse cattoliche nella vita politica della nostra Nazione, fi no alla nasci-ta del Partito popolare italiano (Ppi). Allo stesso tempo Sturzo si è però impegnato a favore della “questione meridionale” sostenendo l’idea dell’au-togoverno locale. Nonostante non si tratti di un testo di “Scena Verticale”, la vicenda si adatta per-fettamente alla “poetica” della compagnia, attenta alla Storia e all’attualità, e anche molto legata alle

Si va in “Scena Verticale”

Mariacristina BertaccaS

aver

io L

a R

uin

a in

Dis

son

orat

a (f

oto

di T

omm

aso

Le

Per

a)

Page 35: Atti & Sipari numero 2

P

RO

FILI

Atti&Sipari | 35

problematiche del meridione.Incentrato su un tema contempora-

neo è infatti il monologo Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria (2006 – in tournée fi no al maggio 2008), scritto ed interpretato da Saverio La Ruina, che per questa performance ha ricevuto il Premio UBU 2008 come “Miglior Atto-re”. Il drammaturgo è stato suggestio-nato dal libro di Suad, Bruciata viva. Vittima della legge degli uomini (2004), nel quale l’autrice cisgiordana racconta la sua tragedia: il cognato l’ha cosparsa di benzina e poi data alle fi amme, per mondare la vergogna di una gravidanza al di fuori del matrimonio. Saverio ha ritrovato in questa storia la vita delle donne del suo paese: così è nata Dis-sonorata, il monologo di Pasqualina, che subisce la stessa sorte di Suad, e si erge quale profeta di un dramma molto più ampio, exemplum di tutte le donne assoggettate ad un giogo maschile - o comunque di potere - che le mutila e le violenta a livello fi sico e mentale. La vi-cenda è precisa nel tempo e nello spazio: siamo in una Calabria degli anni Ses-santa e Pasqualina è «na guagnunedda» in attesa che le due sorelle maggiori si sposino, perché solo allora anche a lei sarà concesso di salire sull’altare. Sono anni in cui per una donna il matrimo-nio rappresenta l’unico spiraglio verso una nuova vita, l’unico modo per essere libera di uscire di casa senza vergogna, senza essere tacciata da zitella o anco-ra peggio da “puttana” («Un vidu l’ora i m’u spusà, cusì pozzu ji a sula p’a via nova, pozzu trasi nda putìa d’u paisu, [...] e pozzu ji a girà p’i paisi qua at-tùarnu. E nisciunu mi po dici puttana, [...] e alu paisu un mi ponu dici nenti picchì sungu spusata»). La giovane si macchia però di una colpa, quella di innamorarsi di un uomo che la illude, che le promette di sposarla, ma che poi non terrà fede alla parola data. Per pau-ra di perdere l’amato cede alle lusinghe, cede all’amore: ben presto, però, la gra-vidanza si manifesterà alla famiglia che, in nome dell’onore violato, reclamerà la propria vendetta. Ma come Suad anche la giovane donna calabrese riesce a so-pravvivere e con lei il suo bambino, che nascerà in una stalla la notte di Natale,

e si chiamerà Saverio.Il racconto di Pasqualina è molto

caro all’autore-attore, che le ha dato voce e corpo: in lei ritrova e infonde gesti, movimenti e parole delle donne del suo passato, nel continuo dondolare le gambe, appoggiando appena le pun-te dei piedi a terra; sfregarsi le mani e stropicciare la vestaglietta che indossa, parlando sottovoce per non disturbare; inclinare la testa sulla spalla in segno di riserbo e vergogna. Tuttavia l’intento è quello di estendere la denuncia al pre-sente e al mondo: «Verso la fi ne viene fuori una fi gura legata alla vita intima della protagonista, che si chiama Sa-verio come me: lì c’è un desiderio di aderire in prima persona al destino di questa donna, perché in fondo rappre-senta, racchiude le donne della mia vita. Ci sono cose che riguardano la vita del-le mie nonne, delle mie zie, delle loro amiche, e persino certi aspetti della for-mazione di mia madre. Si tratta proprio di un mondo che mi è caro: atteggia-menti, modi di pensare, destini, emo-zioni, pudori, riserbi, che appartengono alla mia memoria aff ettiva. Allo stesso tempo si narra una condizione femmi-nile che, anche se è specifi ca, è molto simile a quella di altre donne, e ad esse si può estendere: siamo in un’epoca, quella passata, si tratta di un evento che si ambienta negli anni Sessanta, un periodo in cui la condizione della donna era questa, soprattutto in certi contesti contadini del Meridione. Ma un retaggio simile c’è ancora nel Sud, soprattutto in paesi dell’entroterra» (questa e le seguenti dichiarazioni sono tratte da un’intervista che La Ruina mi ha gentilmente concesso il 27/10/2007, presso il Teatro Santandrea di Pisa). In realtà eventi drammatici e violenze contro le donne sono tutt’oggi sempre più frequenti, non solo nel Sud e non solo in Italia, bensì in tutto il mondo. E un uomo che si fa portavoce di un per-sonaggio femminile tende a dimostra-re quanto questa tragedia investa tutti, donne e uomini, vittime e carnefi ci. La decisione stessa da parte del performer di non abdicare all’identità di maschio (indossa infatti «una vestaglietta senza colori sgargianti, umile, dimessa, sotto

la quale stanno però un paio di panta-loni che potrebbero essere sia maschi-li sia femminili») rivela il desiderio di rendere ancora più forte la denuncia: «Siccome Pasqualina è vittima di una società maschilista e di una mentalità maschilista, quella del padre e dell’uo-mo di cui si innamora, io voglio essere tramite e dare voce a queste donne che mi appartengono: mi sembrava bello e anche doveroso».

La recitazione en travesti, da parte di attori che interpretano ruoli mu-liebri, è ricorrente nella produzione di “Scena Verticale”. Ripercorrendo a ri-troso i lavori della compagnia, il trave-stimento si ritrova già in Kitsch Hamlet (2004 – segnalato nel 2005 al Premio Ugo Betti) in cui la Madre di Amle-to è interpretata da un attore, Rosario Mastrota. Tale scelta performativa cela dietro di sé non solo una costrizione tecnica della compagnia (la mancanza di attrici ha infatti obbligato gli attori del gruppo ad interpretare personaggi femminili), ma anche altre motivazioni più profonde: «La madre (come molte fi gure parentali, soprattutto nel Sud) è un soggetto che viene comunque spo-gliato di ogni femminilità e di ogni se-duzione. L’unico elemento femminile materno è quello della morbosità, che si rivela attraverso la smania di nutrire e nutrire i fi gli, quasi servilmente. Proprio per questo abbiamo deciso che venisse interpretata da un uomo. Oltre al fatto che alcune donne di un’epoca passata e contadina, hanno volti non troppo dissimili dai tratti maschili: senza cura, senza trucco, e nei comportamenti non c’è grazia perché il loro lavoro è simile a quello dell’uomo». Ma ancora prima il travestimento è stato soggetto primario in de-viados (1998), incentrato sul tema della transessualità. In particolare la messinscena instaura molti legami tra il mondo dei trans e quello del teatro, fi no al punto in cui il “travestito”, truccan-dosi davanti ad uno specchio, diventa attore del suo dramma: «Il trans rivela proprio il passare entro un’altra identità. Per di più si è trattato di uno spettacolo in cui si è lavorato molto tra l’intimo e il momento pubblico, durante il quale il transessuale in qualche modo si vende:

Kitsch Hamlet (foto di Tommaso Le Pera)

Page 36: Atti & Sipari numero 2

P

RO

FILI

36 | Atti&Sipari

questo è un elemento di grande teatrali-tà, perché il marciapiede diventa davve-ro la sua scena». La performance cerca di rifl ettere sulla fi gura tragica del viados nella sua triste emarginazione e nella sua non appartenenza ad una classe.

Nei lavori di “Scena Verticale” c’è infatti grande attenzione nei confronti di problematiche tangibili ed esisten-ti nell’attualità, spesso in riferimento a fi gure deboli e discriminate («è un mondo che mi richiama sempre più, un mondo al quale dare voce»): il teatro di-venta così strumento di utilità sociale, di denuncia, attraverso il quale mostrare una situazione d’emergenza, che venga svelata ad un pubblico quanto più este-so. Anche quando si tratta di riscritture (molto personali ed originali) di grandi pièce del passato, c’è però sempre il de-siderio di aff acciarsi al reale, anzi «certe cose, pensate attraverso il classico, rie-scono a far emergere in modo più forte questa sottocultura meridionale, nella quale siamo invischiati». Una ripresa recente è Elettra. Tre variazioni sul mito (2006), regia e drammaturgia di Dario De Luca, che ha desunto il testo da So-focle, Euripide e Hofmannsthal. Dalla tradizione antica si recupera il coro, ma nello spettacolo la classicità si mischia con la tradizione locale: nei canti in dialetto calabrese, o nella danza della taranta a conclusione dello spettacolo, e i personaggi del mito assumono un’aura senza tempo.

La compagnia annovera anche una “trilogia calabro-scespiriana”, che comprende Hardore di Otello (2000), Amleto ovvero Cara mammina (2002) e il già citato Kitsch Hamlet. Il riferi-mento ai classici è anche stavolta solo un pretesto: la trilogia pare incentrata sul tema dell’assenza, attorno alla qua-le ruota tutta l’azione. Hardore di Otel-lo mostra l’angoscia del protagonista dopo l’omicidio dell’amata Desdemona: per compensare tale mancanza, video di lei vengono proiettati in loop su un maxi-schermo (in un lavoro in cui te-atro e multimedialità si intrecciano); la femminilità perduta viene rievocata da una poltrona gonfi abile a forma di don-na, alle cui mammelle si attacca spesso Otello, come un poppante avido di latte

ai seni della genitrice, preannunciando in qualche modo i rapporti edipici tra madre e fi glio, palesati nei due testi suc-cessivi. Amleto ovvero Cara mammina è basato sull’assenza della fi gura materna, che è stata strappata al piccolo Amle-to: in tutti i modi egli cerca di ricucire la ferita, attraverso il ripetersi continuo della sua vita puerile, come per ferma-re il tempo, cancellarlo, per annullare il pensiero dell’abbandono. «Ogni giorno il personaggio rivive, come in un ritua-le, tutto quello che faceva con la ma-dre [...], per tenere in vita la presenza della mamma anche nell’immaginario». Kitsch Hamlet è infi ne incentrato su un Amleto che non compare mai e viene solo evocato dai dialoghi dei suoi fami-liari (i tre fratelli - Enzo, Giuseppe e Giovanni - e la madre): egli «è chiuso dietro la porta, ma in realtà tutto il cen-tro motore sta in questa sua assenza, che crea invidie e gelosie, perché la madre lo cura, perché la madre parla sempre di lui, e questo fatto, questa assenza fa montare tensione».

Kitsch Hamlet è forse il testo in cui è più evidente la denuncia della socie-tà odierna, soprattutto in relazione al vuoto nel quale vivono i giovani, ed è proprio questo «accumulo di banalità che dà “valore poetico” al lavoro». A partire da una situazione meridiona-le, si passa poi ad una rifl essione più generale. Primario appare il rapporto morboso tra i tre giovani protagoni-sti e la madre, manifestato soprattutto dalla loro gelosia per le attenzioni verso il diffi cile Amleto. Eppure dietro a tali problematiche, proprie di un contesto storico-sociale meridionale, si cela-no temi estendibili ad una condizione più generale, primo fra tutti il degrado della nuova generazione, troppo legata ai falsi miti creati dal mezzo televisivo (attraverso trasmissioni come il Gran-de Fratello o Amici), che eleva ad eroi personaggi assolutamente riprovevoli, pericolosi per la società stessa. Questi autorizzano le azioni più orripilanti e condannabili, cosicché uno stupro di gruppo da parte dei tre fratelli ai dan-ni di Ofelia (divenuta pazza in seguito alla violenza subìta) è avvertito come un gioco, e - in quanto tale - degno di esse-

re ripreso con la telecamera e poi con-diviso con altri amici durante una festa. Quello che manca a questi giovani è il senso critico, il riuscire a capire ciò che sia giusto o sbagliato, ciò che sia bene o male («Giovanni: Le siamo saltati tut-ti addosso, uno a uno./Enzo: Mentre Giovanni riprendeva tutto con la vide-ocamera. Oh, però tu sei fi ssato con la videocamera./Giovanni: Io me la sono fatta per primo./Enzo: Ma che cazzo dici? Io gliel’ho messo per primo, tu ri-prendevi./Giuseppe: Va be’, ce la siamo fatta tutti. [...]/Enzo: Poi l’abbiamo beccata a quella festa di compleanno./Giuseppe: Dove facevano vedere i fi l-mini più belli dell’estate./Giovanni: Al quarto fi lmino c’eravamo noi e Ofelia. [...]/Enzo: Quella volta hai esagerato, però, Giovà. C’era tutta quella gente.../Giovanni: Ma hai visto come è piaciu-to, come guardavano? Li hai sentiti i commenti che facevano? [...]/Giusep-pe: Ofelia ha guardato tutto il fi lmino, interessata./Enzo: Forse aveva nostal-gia di quel giorno perché a ‘nu certo punto s’è messa a piangere./Giuseppe: Si vedeva che le mancava quel perio-do»). Quello che preoccupa di più è che tutto questo «alla fi ne è estremamente divertente, perché il negativo spesso è talmente cialtrone che si presenta in modo anche più spiritoso. Questi perso-naggi incredibili che vediamo nei reality sono assolutamente deprecabili, eppure ne facciamo degli eroi, e così questi ra-gazzi risultano simpatici, il pubblico si aff eziona a loro perché comunque sono divertenti. Il problema invece è che bi-sogna prendere posizione».

La tendenza dello spettatore è quella di prendere le distanze dalla performan-ce e dai personaggi che vengono portati alla ribalta, come per auto-convincersi di avere di fronte situazioni estranee alla propria sfera privata e sociale. Eppure il rispecchiamento con tale realtà è inevi-tabile, per cui il vuoto spirituale dilaga ovunque, nella scena come nella vita, in cui non c’è più posto né per il tragico né per la rifl essione profonda, ma solo per ciò che è usuale e mediocre: «In un uni-verso così banale, una fi gura di grande pensiero [Amleto] sta dietro la porta, al di fuori di quel pezzo di mondo».

Hardore di Otello (foto di Luigi Cipparrone)

Page 37: Atti & Sipari numero 2
Page 38: Atti & Sipari numero 2

CO

NV

ERSA

ND

O

Come hai conosciuto il teatro?In realtà l’ho conosciuto molto tardi: ero uno studente di Chimica a Firenze, una mia amica di Lecce mi ha consigliato di fare un corso di recitazione e solo dopo molti mesi sono andato a teatro. Per mia fortuna c’era Il guardiano di Pinter con Alfonso Santagata e Clau-dio Morganti. Sono rimasto folgorato. Poi ho iniziato a studiare con la Limonaia, per passare in seguito a lavorare con Morganti per il suo Riccardo III. Non è stato tutto immediato: sono stato fermo 3-4 anni per-ché sono entrato in crisi con il sistema teatrale. Il te-atro mi piaceva: i problemi non erano la fatica, lo studio, la scrittura. Il grande problema era trovare gli spazi, le possibilità di andare in scena. Vedevo tenta mafi a, tante raccomandazioni. E ho iniziato ad avere alcuni dubbi.

Non credi sia un discorso legato ai tempi che corrono? Il mestiere dell’attore mi pare diffi cilissimo, estraneo ad una sempre più diff usa superfi cialità…Ci sono due questioni diverse: innanzitutto il succes-so televisivo ha creato un’immagine falsata del lavoro dell’attore. Mio fratello recita in alcune fi ction per la TV e per la mia famiglia lui è un attore. Io che lavoro nel teatro vengo visto diversamente: mi chiedono sem-pre che mestiere faccia! In secondo luogo, c’è molta ig-noranza riguardo l’arte dell’attore: il talento, che ci sia o non ci sia, necessita di un allenamento costante. In Italia sono poche le persone che lo fanno: i tempi di produzione sono ridottissimi e quindi sei costretto ad allenarti da solo, nel tuo laboratorio. Ma allora questo lavoro non assume nessun valore per lo spettacolo! In-somma, non c’è l’interesse a portare avanti un percorso di approfondimento. Io ho lavorato con molti registi e pochi sapevano quello che mi stavano chiedendo.

Per esempio quali registi?Ho lavorato con Massimiliano Civica, ultimamente, e lui è una persona capacissima. Riesce a vedere dove un attore si sta nascondendo. Poi Claudio Morganti e an-che Arcuri, che approfondisce il rapporto con il pub-blico. Per il resto poca roba. Qualche intuizione, ma

Oltre la narrazione: il teatro come percorso di conoscenza

Oscar De Summa intervistato da Samuele Rossi

Come hai conosciuto il teatro?In realtà l’ho conosciuto molto tardi: ero uno studente di Chimica a Firenze, una mia amica di Lecce mi ha con-sigliato di fare un corso di recitazione e solo dopo molti mesi sono andato a teatro. Per mia fortuna c’era Il guar-diano di Pinter con Alfonso Santagata e Claudio Mor-ganti. Sono rimasto folgorato. Poi ho iniziato a studiare con la Limonaia, per passare in seguito a lavorare con Morganti per il suo Riccardo III. Non è stato tutto im-mediato: sono stato fermo 3-4 anni perché sono entrato in crisi con il sistema teatrale. Il teatro mi piaceva: i pro-blemi non erano la fatica, lo studio, la scrittura. Il grande problema era trovare gli spazi, le possibilità di andare in scena. Vedevo tanta mafi a, tante raccomandazioni. E ho iniziato ad avere alcuni dubbi.

Non credi sia un discorso legato ai tempi che corrono? Il mestiere dell’attore mi pare diffi cilissimo, estraneo ad una sempre più diff usa superfi cialità…Ci sono due questioni diverse: innanzitutto il successo te-levisivo ha creato un’immagine falsata del lavoro dell’at-tore. Mio fratello recita in alcune fi ction per la TV e per la mia famiglia lui è un attore. Io che lavoro nel teatro vengo visto diversamente: mi chiedono sempre che mestiere fac-cia! In secondo luogo, c’è molta ignoranza riguardo l’arte dell’attore: il talento, che ci sia o non ci sia, necessita di un allenamento costante. In Italia sono poche le persone che lo fanno: i tempi di produzione sono ridottissimi e quindi sei costretto ad allenarti da solo, nel tuo labora-torio. Ma allora questo lavoro non assume nessun valore per lo spettacolo! Insomma, non c’è l’interesse a portare avanti un percorso di approfondimento. Io ho lavorato con molti registi e pochi sapevano quello che mi stavano chiedendo.

Per esempio quali registi?Ho lavorato con Massimiliano Civica, ultimamente, e lui è una persona capacissima. Riesce a vedere dove un attore si sta nascondendo. Poi Claudio Morganti e anche Ar-curi, che approfondisce il rapporto con il pubblico. Per il resto poca roba. Qualche intuizione, ma veramente poco. Se non hai la pazienza di aspettare che il processo creati-vo si compia, può succedere poco. Quindi non credi ci sia un nuovo fermento nel teatro in questi ultimi anni? Alla fi ne le statistiche ci mostrano una crescita che non avveniva da tempo, molti attori, anche di cinema, ritornano al palcoscenico…Credo che oggi ci siano grandi possibilità per il teatro: siamo saturi di spazzatura e c’è una buona quantità di persone che non si accontenta più di fruire i prodotti

della comunicazione di massa. C’è un desiderio di maggiore qualità: il teatro, per il fatto che si fonda sulla presenza di una persona davanti ad altre persone, comporta un confronto e quindi una certa qualità.

A questo proposito, tu cerchi molto il rapporto con il pub-blico … Sì, indubbiamente. È la forma monologante di per sé ad essere paradossale. All’interno della mia ricerca, mi sono sempre posto la questione della relazione con il pubblico. Perché è deludente vedere tra il pubblico solo colleghi e amici di colleghi. Spesso in certo teatro di ricerca non c’è un pubblico vero. Così ho ela-borato una formula teatrale che voleva essere semplice, proprio per avere un contatto diretto con gli spettatori. Ancora i tempi non erano sospetti: Ascanio Celestini e Marco Paolini non era ancora aff ermati come oggi e il fenomeno di Zelig non era an-cora esploso. La strategia più immediata per avere un contatto con il pubblico è il riso e la forma più immediata per essere comunicativi è la narrazione. È anche vero che con Selfportrait ho cercato di rompere il cliché della narrazione: tanto che non c’è quasi una storia da raccontare, ma solo un fatto di cronaca. Ho lavorato sul momento del delirio: dal momento in cui un uomo uccide la moglie fi no a quello in cui si suicida. Qualcuno alla fi ne dello spettacolo mi ha detto di non aver capito tutti i passi dello show. Ma non è importante capire tutto: non volevo lavorare su di una storia, ma sull’essere umano, sulla frattura e sull’abisso che c’è dentro ognuno di noi.

Ecco quindi l’importanza delle luci nei tuoi spettacoli: sem-brano sempre cercare un’ombra…Per quanto riguarda le luci nei miei spettacoli, cerco sempre di raggiungere una certa effi cacia con il minimo indispensabile. La luce fa entrare in altri spazi: la penombra, il buio che ti lascia solo intuire, che non ti dice. È qualcosa che appartiene al sogno, allo spazio dell’interiorità. Mi piace lavorare sul limite. Sull’orlo ci sono molti signifi cati: è lì che nasce l’ombra.

I tuoi spettacoli sembrano il punto di arrivo di percorsi arti-stici diff erenti e molto complessi… Quando ho tempo libero, mi dedico ad altre attività artistiche. Quando posso dipingo: mi ispiro ad alcuni artisti del passato, per esempio a Fancis Bacon in Selfportrait. Le musiche le curo spesso io. Poi scrivo da sempre: mi interessa soprattutto la for-ma poetica perchè la prosa non sempre riesce a toccare certe vibrazioni.

Soprattutto in Selfportrait si ha la sensazione di un intenso lavoro di scrittura… In questo caso c’è stato uno studio profondissimo sul linguag-gio. Da un lato viviamo in un mondo di specifi cità, settoriale, e dall’altro c’è un desiderio di amore. Un amore che però è malato. Quindi ho voluto mettere insieme l’amore cortese e il linguag-gio della malattia. Ho cercato l’incontro dei due linguaggi. Non si può più vivere senza medicinali, non c’è più sopportazione del dolore. Pasticchine e medicine: c’è sempre il tentativo di aggiustare ciò che si è, quando invece il nostro corpo andrebbe accettato per quello che è. Peter Brook, non a caso, diceva che conteniamo merda e cielo…

Per questo nella tua recitazione il corpo sembra avere la stes-sa importanza della parola?In eff etti cerco il teatro nel corpo: cerco di scrivere il testo nel

Oscar De Summa (foto di Alessandro Ruggieri)

38 | Atti&Sipari

Page 39: Atti & Sipari numero 2

C

ON

VER

SAN

DO

Oscar De Summabrindisino, si forma alla

scuola di teatro della Limonaia a Sesto Fiorentino,

presso il Laboratorio Nove con Barbara Nativi, specializzandosi con

due corsi di “Alta formazione per attori”

a Polverigi e a Milano. Frequenta numerosi stage di

Claudio Morganti e Alfonso Santagata.

Oltre che attore, è anche autore e regista:

sue le opere Diario di Provincia, Hic Sunt Leones, Selfportrait.

Nell’estate 2007 ha presentato un personale adattamento del Riccardo

III di Shakespeare; attualmente lavora al Mercante di Venezia di

Shakespeare per la regia di Massimiliano Civica.

Osc

ar D

e S

um

ma

(fot

o di

Mas

sim

o S

hust

er)

corpo. Studio la fi sicità, mi interessa capire come il corpo si relazioni ad una cosa, cosicché una struttura fi sica possa già contenere il senso del testo. Qualsiasi cosa che passi attraverso il corpo, arriva di più allo spettatore. Basta ripercorrere il testo inciso su di esso.

Come arrivi alla stesura del testo dei tuoi spettacoli?La parte più diffi cile non è tanto scrivere, ma togliere. Ho lavo-rato, per esempio, per due mesi su un’invettiva al mondo in cui si muove il protagonista di Selfportrait. L’ho provata ogni gior-no ed avevo già scritto anche le musiche. Poi l’ho tolta perché mi sono accorto che non c’era più bisogno di dirla. Sono questi però i tempi di creazione del teatro: ci vorrebbe un anno, un anno e mezzo per creare un personaggio, per andare veramente a fondo. Per poter fare un lavoro che abbia una sua rifl essione, occorre un lavoro infi nito. Ecco perché la scelta di lavorare da solo: perché ho i miei tempi, e in questi posso sviluppare i miei percorsi di approfondimento.

Nei tuoi spettacoli c’è una sensazione claustrofobica, ma al contempo anche la voglia di uscire, di rompere gli schemi…Sicuramente. Spesso lavoro sulla “scoppiatura” dall’interno. Le maggior parte delle prigioni sono le nostre, quelle che inte-rorizziamo. L’aspetto più subdolo dei nostri tempi, del nostro sistema di informazione, non è costringerci a determinati com-portamenti, ma quello di insinuarci nel cervello desideri da de-siderare. Così siamo gestibili: è la gabbia più atroce. Seguiamo un percorso suggerito dall’esterno. L’artista deve destrutturare questo meccanismo.

In questo senso possiamo parlare di “teatro civile”?Assolutamente sì. Ho litigato spesso per questo. Che cosa si-gnifi ca civile? Civile è tutto: da comprare il pane ad andare a dormire in una casa che è tua, oppure no. Civile oggi sembra essere solo un’etichetta per vendere di più, quando invece è qualcosa che ci tocca sempre, in ogni aspetto della vita. Se ab-biamo un numero sempre maggiore di persone che prendono gli anti-depressivi signifi ca che c’è qualcosa che non va, signi-fi ca che c’è un sistema che ti accetta solo se sei felice, allegro o di successo. Io mi metto in mezzo a tutto questo, e cerco di far esplodere questo sistema dall’interno.

I riferimenti religiosi nei tuoi lavori sono molto presenti. In particolare in Hic Sunt Leones il rapporto con Dio sembra essere un elemento fondamentale del testo…La relazione con Dio deriva dalla mia personale esperienza: sono stato in seminario a 11 anni, anche se ben presto l’ho la-

sciato. E guardando molte religioni, mi sembra che ci sia un’assoluta distorsione del rapporto con Dio: si tratta di un rapporto unilaterale, di servilismo. In Hic Sunt Leones ad un certo punto si sente la battuta «sei stato scelto, non puoi scegliere». Ecco, in queste parole si vede tutto l’uni-verso sociale del Sud: le persone hanno trovato un lavoro, si sono sposate, hanno fi gli, sono rassegnati, le loro am-bizioni riguardano un’automobile più grande o una casa più bella. Non c’è altro. Non c’è desiderio di conoscersi, di andare a fondo.

Teatro quindi come un tuo personale percorso di cono-scenza?È proprio così. È diffi cilissimo, ma così è possibile trovare consapevolezza. Faccio un cammino, e il mio teatro è par-te di questa conoscenza che sto facendo su di me. Posso anche fare altro, non è quello il punto. Quello che conta è il mio percorso emotivo. Con il teatro indago la realtà, il mondo, indago me stesso.

Atti&Sipari | 39

Page 40: Atti & Sipari numero 2

CO

NV

ERSA

ND

O

40 | Atti&Sipari

Quando e come ti sei avvicinato al teatro?In realtà ho iniziato studiando pianoforte. Mi sono diplo-mato al conservatorio e, siccome la musica mi sembrava una forma di comunicazione un po’ troppo limitata, ho pensato di dirigermi verso una forma d’arte che compren-deva l’architettura, la messinscena e la musica (insieme ad una buona dose di esibizionismo e di egocentrismo). Dunque ho ricercato qualcosa di più grande, che avei po-tuto trovare nel teatro.

Hai qualche maestro al quale ti ispiri?Diciamo che io non ho veri e propri maestri, a parte Da-rio Fo. La mia vera fonte di ispirazione è il giullare che 500 anni fa perse la testa per aver smascherato il re davan-ti al popolo con la risata…

Proprio da Dario Fo derivi l’arte della giullarata e del grammelôt, tanto che lo spettacolo (Re) Carlo (non) torna dalla battaglia di Poitiers lo defi nisci una giulla-rata musicale…Sì, è vero, la musica in fondo rimane il mio punto di par-tenza [Il titolo richiama una ballata scritta a fi ne anni ’60 da Fabrizio De André insieme a Paolo Villaggio]. Accanto alla musica ho poi voluto introdurre l’arte della giullarata, dell’improvvisazione, del canovaccio, perché amo tantis-simo la Commedia dell’Arte e odio il confezionamento di marketing, il “cofanetto performativo” di questi ultimi anni che valorizza solo quello che va di moda e ciò che piace alla gente. Sicuramente Dario Fo ha avuto il privi-legio di aver conosciuto da bambino, con i “fabulatori” del Lago Maggiore, una forma d’arte che si può considerare la “madre” di qualsiasi altro modo di fare teatro. Ma la giullarata sta divenendo una forma di marketing e questo è assurdo. È tipico della giullarata porre al centro della storia i servitori dei nobili e dei ricchi mercanti veneziani; per questo motivo il mio lavoro può essere riconducibi-le ai lazzi di uno Zanni o di un Arlecchino, perché ho sempre pensato che uno Zanni che racconta un fatto di cronaca sia più credibile di tante storie che ci propinano giornalisti o sociologi. Come convive nel tuo teatro la fi ssità aff abulatoria del narratore con la tradizione gestuale e pantomimica

della Commedia dell'Arte?Sono approdato alla recitazione facendo Commedia dell’Arte e an-dando in giro con altri ragazzi nel territorio lodigiano su un carro come perfetti comici dell’Arte. Hai presente quei carri che si aprivano e diventavano palcoscenici sui qua-li poter “lavorare”…? Riesco a mi-schiare narrazione e tradizione pan-tomimica, trovando un giusto punto di raccordo tra le due cose, attraverso l’uso di azioni comiche, improvvisa-zioni e la presenza costante di un linguaggio teatrale che mi consente di aff rontare anche temi tragici.

Tu calchi la scena per la prima vol-ta con Kabum!...come un paio di impossibilità, spettacolo che rac-conta episodi di Resistenza….Io nasco come drammaturgo. Il mio è sempre stato prima di tutto un teatro di parola, perché io non ho talento né le capacità di poter re-citare un altro personaggio, se non me stesso che racconto una storia. Questo lo vivo come un limite, ma ho cercato di lavorarci sopra. Io curo da sempre la regia ed i testi, ma non mi ero mai messo sulla scena. Poi ho scritto questa giullarata sulla Resi-stenza, perché trovavo che “giulla-rare” su una storia così importante era un bel contributo. Kabum!... come un paio di impossibilità è uno spettacolo al quale sono molto aff e-zionato, perché a livello professiona-le è da considerare il mio colpo di fortuna. Lo spettacolo è stato mes-so in scena per la prima volta il 27 gennaio del 2006. Kabum!...come un paio di impossibilità è un testo che ho scritto io, come i precedenti. Avevo intenzione di farlo recitare a Paolo Rossi, alla fi ne è stato proprio lui a spingermi a salire sul palco, e così ho recitato [lui ne ha curato la direzione artistica].

Come ti relazioni al “teatro di nar-razione” cui alcuni ascrivono il tuo lavoro? Io mi sento pienamente dentro il te-atro di narrazione, ma non sopporto di essere etichettato come attore di teatro civile. Mi sento più vicino alla “catalogazione” di teatro di narra-zione, perché questo tipo di teatro ti permette di lasciare una gran parte del lavoro alla scrittura, per cui alla fi ne è quasi come se ci fosse un pri-

L’arte della giullarata Giulio Cavalli intervistato da Celeste Bellofi ore

Page 41: Atti & Sipari numero 2

C

ON

VER

SAN

DO

Atti&Sipari | 41

mitivo lavoro di regia, che fuoriesce dalla pancia, per essere vomitato direttamente in fase di scrittura, e modifi cato nel corso delle prove.

Il tuo teatro tratta spesso di que-stioni politiche e civili. Perché l'esigenza di un “teatro impegna-to” e come coesistono impegno e ludus nel tuo lavoro?Ci tengo a precisare che il mio non è un teatro civile: l’impegno nasce dall’esigenza di ricercare una verità sui temi del presente, come ad esem-pio il disastro aereo che racconto in Linate 8 ottobre 2001, una storia un po’ assurda. So che può sembrare un’aff ermazione forte o sconvenien-te nei confronti delle vittime, ma in realtà è così, perché non c’era bisogno di “rovesciare” nessuna prospettiva e punto di vista. C’era solo bisogno di svestire un ambiente come quello dell’aeronautica e dell’aviazione, che si prende molto sul serio, da questi loro orpelli paramilitari o parasta-tali. E alla fi ne trovavo il titolo già ridicolo di suo. Volevo rovesciare in toni giullareschi la realtà, perché il lavoro del giullare è proprio questo: cercare di far vedere l’altro lembo di quello che succede…

Paolo Rossi ha detto che lavorare sulla memoria è uno dei compiti del teatro, riferendosi proprio allo spettacolo Linate 8 ottobre 2001. Che ruolo ha la memoria per te?Lo spettacolo nasce dal fatto che mi sono sempre impegnato in quel-lo che scrivo, perché è importante documentare la memoria di alcuni episodi storici, per farne esperienza diretta sulla scena.

Il tuo teatro, oltre che della musica in scena, si avvale anche di imma-gini, come Linate 8 ottobre 2001. Che valore dai a questo tipo di ac-corgimenti scenici?Le immagini mi servono a conte-stualizzare meglio la vicenda che rappresento e a ricostruire l’inci-dente, nel caso di Linate; se si sanno usare, le immagini acquistano un senso. Due o tre simboli in scena sono fondamentali. La mia prassi recitativa va dalla punta del naso al mio mento, perciò evito di riem-pirmi di decori che risulterebbero essere solo frutto di una mia sod-disfazione…

Giulio Cavalli (Milano, 1977)

si inserisce nel solco del“teatro di narrazione”,

che il giovane performer milanese contamina con la prassi spettacola-

re della Commedia dell’Arte e

della giullaria, secondo il modello di Dario Fo.

È direttore artistico, a Lodi, della Compagnia Bottega

dei Mestieri Teatrali con la quale porta in scena spetta-

coli “locali”, come Pulvere de Kataba-tù o Filo Spinato.

Raggiunge il successo nel gennaio 2006 con la pièce

Kabum!... come un paio di impossibili-tà (con la direzione

artistica di Paolo Rossi) e, nello stesso anno, mette in scena (Re) Carlo (non) torna dalla batta-

glia di Poitiers (sulla vicenda del G8 a Genova nel 2001 e

sulla morte di Carlo Giuliani) e Lina-te 8 ottobre 2001. Nel 2007 debutta al Teatro dell’Elfo di Milano l’ulti-

mo suo spettacolo, Bambini a dondolo.

Hai qualche progetto sul quale lavori attualmente?Ho da poco debuttato con Bambini a dondolo, spettacolo di sperimentazione e ricerca che la critica ed il pubblico a volte sembra non vogliano accogliere, perché per certi versi indago su un tema scomodissimo e delicato come la pedofi lia… e ne parlo in un paese così morigerato, che già funziona poco, che non apre gli occhi…. Ora invece sto lavorando sullo studio di uno spettacolo che ha a che fare con la mafi a, perché mi sono reso conto di avere per le mani una bella idea. Lo spettacolo, che si dovrebbe chia-mare Do ut des, e che parte dall’esperienza di Peppino Im-pastato, lo sto preparando con il fratello di Peppino, con Antonio Imbroglia e un po’ di esponenti dell’antimafi a palermitana, cercando di giocare sull’onorabilità in modo subdolo e cattivo per colpirli. Noi proviamo a fare questo, poi vediamo cosa esce fuori...

Foto di Francesco Lanza

Page 42: Atti & Sipari numero 2

LEO DE BERARDINISE LE MASCHEREStefano Perocco di Medunaintervistato da Giulia Filacanapa

Quando Leo De Berardinis mette in scena il Ritorno di Scaramouche - il suo primo lavoro in cui si serve delle maschere della Commedia dell’Arte - ha da poco diretto ed interpretato spettacoli scuri, tetri, “seriosi” come Novecento e Mille. È quasi inspiega-bile come sia entrato nel mondo della Commedia e delle maschere. Sei sta-to tu a costruire tutte le sue masche-re, collaborando con lui per molti anni: forse ci puoi svelare perché e come Leo si sia avvicinato al mondo dell’Arte?È realmente una storia che vede più protagonisti e si dipana attraverso gli anni e diverse circostanze. Secondo me tutto ciò nasce dalla curiosità di Leo per la Commedia dell’Arte che gli ave-va inspirato l’attrice francese Bobbette, in primis, e poi Eugenio Allegri: en-trambi attori del “Tag” e entrambi di-retti da Carlo Boso nello spettacolo del Falso Magnifi co. È tanta la curiosità che questi attori hanno inspirato in Leo che egli propone ad Allegri di rimettere in piedi la vecchia compagnia del “Tag” e di portare in scena Il Falso Magnifi co. Un po’ come avrebbe fatto il Re Sole, chiede che gli venga mostrato che cosa è uno spettacolo di Commedia dell’Ar-te. Quindi si contattano tutti i vecchi attori (ci saranno solo due “nuove en-trate”) e si procede alla messinscena.

Per chi non lo conosce, puoi dirci chi è Carlo Boso? È la domanda che si è posto anche Leo. Tutti ne hanno sentito parlare, ma nes-suno ha scritto di lui ed è qui che Leo decide, invece, di farsi raccontare qual-che storia e di vedere uno spettacolo fatto “alla maniera di Carlo”.

Tu e Carlo avete lavorato insieme sin dagli albori del “Tag”, la compagnia della quale è stato regista per più di dieci anni. Possiamo dire che tu abbia costruito tutte le maschere e il mate-riale scenografi co per i suoi spettaco-

li, quindi puoi dirci quale è “la manie-ra di Carlo” e soprattutto da che cosa Leo è rimasto così aff ascinato?Carlo fa spettacoli di Neo-Commedia dell’Arte: quindi, innanzitutto, i suoi attori hanno un modo di recitare tutto particolare, fondato sulla “corporalità” e sull’uso dell’improvvisazione nell’af-frontare i canovacci a loro proposti. Poi utilizza le maschere della Commedia ed i palchetti: si tratta di pedane in le-gno di dimensioni ridotte, sostenute da cavalletti: le ho disegnate ispirandomi proprio alle pedane dei comici dell’Arte che si possono intravedere nelle vecchie incisioni o nei quadri antichi.

Anche Leo ne Il ritorno di Scaramouche utilizza un palchetto di commedia...Leo rimase subito molto aff ascina-to da queste strutture di tre metri per quattro realizzate in sezione aurea. La sera che portai a Bologna la maschera per Francesca Mazza [una delle attrice coinvolte nel progetto di Scaramouche], Leo stava appunto discutendo su quale sarebbe stata la scenografi a per Il ritor-no di Scaramouche. Mi ricordo che mi disse qualcosa come: «Vorrei qualcosa di semplicissimo, come un praticabi-le da mettere sul palco; mi piacerebbe qualcosa di essenziale ma non un cubo nero». Poi aggiunse: «So che gli attori del “Tag” recitavano su alcuni palchetti di commedia, io non ne ho mai visti. Sai tu chi li costruisce?». Gli risposi: «Ah, l’ho fat me!». Quella sera a Bolo-gna successero due cose magiche, questa fu la prima.

Prima di raccontarci la seconda, che cosa è suc-cesso dopo il Falso Ma-gnifi co?Due anni dopo aver assi-stito alla rappresentazio-ne del Falso Magnifi co, Leo decise di mettere in scena Il ritorno di Scara-mouche e chiamò Euge-nio Allegri. In origine Leo aveva deciso di mu-tuare dal modo di lavo-rare del “Tag”, e quindi di Carlo, la gestualità innaturale degli attori ed il ritmo, ma non aveva assolutamente pensato di introdurre maschere in scena. Insomma, Leo chiama Eugenio pro-

ponendogli di fare insieme agli attori della sua compagnia un laboratorio sulla Commedia, sull’improvvisazione e sull’utilizzo della maschera. In parti-colare l’attrice Francesca Mazza rimase talmente aff ascinata dal lavoro con le maschere che decise di volerne portare una in scena nel nuovo lavoro su Sca-ramouche.

Eugenio Allegri diventa quindi il tra-mite tra il sapere di Carlo Boso e il futuro spettacolo di Leo...In questo laboratorio, dove lo stesso Leo è uno degli allievi, si utilizzavano le mie maschere. Questa era una prassi tipica del lavoro di Leo: spesso chiama-va un esperto che impartisse lezioni a tutta la compagnia e lui stesso si mette-va dall’altra parte della cattedra.

Leo prima di allora aveva mai utiliz-zato maschere nei suoi spettacoli?

Sì, Bobbette mi aveva presentato Leo tre o quattro anni prima alla fi ne di un suo spettacolo: in quell’occasione mi aveva detto di aver indossato la ma-schera di Pulcinella, ma anche che non si sentiva un attore in grado di utiliz-zare la maschera. Mi disse che non ne sapeva niente di maschere, ma che gli sarebbe piaciuto saperne di più. Poi, oltre quella di Pulcinella, Leo aveva in-dossato anche una maschera neutra per interpretare Amleto. Probabilmente, come a molti altri attori, la maschera faceva paura: il teatro in maschera ne-

CO

NV

ERSA

ND

O

42 | Atti&Sipari

Foto di Casadei (Archivio personale Stefano Perocco di Meduna)

Page 43: Atti & Sipari numero 2

cessita di una scuola, una disciplina, un lavoro sul corpo che il teatro di parola ha sempre negato. Le maschere sono animali, sono selvagge, sono istinti violenti come lo stupro, l’assassinio, la morte. L’uomo illuminato non usa la maschera.

Oggi possiamo dire che la maschera è stata riscoperta?Sì, ma in un’accezione intellettuale non rituale. La si è recuperata come oggetto del passato: non si è assimilata e non viene utilizzata con la sua accezione primaria, tant’è che non viene utiliz-zata dal popolo, ma dagli intellettuali. Già gli attori di Commedia dell’Arte ne facevano un uso improprio perché l’avevano recuperata dai riti pagani: in questo senso, noi moderni abbiamo fat-to un recupero del recupero. Leo invece opera addirittura un recupero di terzo grado: Carlo Boso, comici dell’Arte, tradizione popolare.

Perchè Leo decide di utilizzare la ma-schera?Perchè si accorge che la maschera fun-ziona. Come la spada serve allo spa-daccino per portare i colpi più lontani, diventando quindi il prolungamento rigido del braccio, così la maschera rende il volto dell’attore più penetrante e riesce a farlo arrivare meglio, diretta-mente al cuore del pubblico.

Torniamo alla “notte magica” di Bo-

logna, durante le prove de Il ritorno di Scaramou-che. Che cosa accadde?Il momento fondamenta-le è quando io arrivo nella sala prove, chiamato dal-la Mazza che voleva una maschera da strega per in-terpretare Donna Elvira. Sempre per caso tornavo da una esposizione delle mie maschere e le portavo tutte con me, dentro uno scatolone. Quando apro lo scatolone per cercare quella della strega, escono anche tutte le altre ma-schere: gli attori incuriosi-ti si avvicinano e iniziano a provarsi le maschere e a giocare. Leo mi chiese se potevo lasciargliele per qualche giorno: era il no-vembre del 1993.

Che cosa vide Leo quella sera? I suoi attori con le maschere si liberarono? Leo si trovò davanti un gruppo di atto-ri che, come bambini, avevano scoper-to la gioia di giocare: per un regista è fondamentale ritrovare la dimensione ludica dei propri attori. Una masche-ra può dire e fare cose che un attore a viso scoperto non può permettersi. La maschera rende l’attore nudo. Sembra un controsenso ma proprio questa nu-dità, la libertà di essere nudo davanti a un pubblico, permette all’interprete di dire al pubblico una serie di cose che altrimenti questo non accetterebbe. Un mezzo di verità per la verità.

Si può parlare di una vera e propria “folgorazione” per Leo...Credo che con Il Falso Magnifi co Leo abbia intravisto una Commedia dell’Arte “possibile” e quindi abbia cer-cato di adattare al suo teatro quel tipo di tecnica (che forse non si discostava poi tanto dal suo stile e dalla sua conce-zione del teatro). Rispetto ai precedenti spettacoli di Leo, la sola diff erenza de Il ritorno di Scaramouche è proprio la pre-senza delle maschere.

Mi chiedo che cosa abbia trovato Leo nelle maschere tanto da farle diventa-re, da Scaramouche in poi, un elemento fondante del suo lavoro teatrale, per-ché da questo spettacolo in poi le ma-schere ci saranno sempre...

Questa domanda andrebbe fatta a lui. La sola cosa che ti posso dire è che la maschera permette di instaurare con il pubblico un linguaggio altro. Un lin-guaggio che può essere defi nito da mille aggettivi: animale, ancestrale, viscerale, carnale. È un discorso di azione-reazio-ne tra attore e pubblico. Come quando si pianta un chiodo con un martello, un gesto di azione-reazione. Credo abbia capito che lavorare con la maschera è molto diffi cile e che proprio questa estrema diffi coltà lo abbia stimolato, perché la maschera obbliga l’attore a controllare veramente il corpo. Ci terrei però a chiarire che nel teatro di Leo ci sono “anche” le maschere, tutta-via il suo non è defi nibile come “teatro di maschera”. Il modo in cui Leo si è avvicinato alle maschere è stato assolu-tamente empirico: le ha prese, provate e analizzato le reazioni che suscitavano nel pubblico. Da non dimenticare che Leo era anche regista, per cui non solo utilizzava le maschere ma le guardava anche indosso ai suoi attori.

Hai parlato di un aspetto ludico che lega le maschere agli attori che le por-tano...Le maschere sono un veicolo di co-municazione creato per gli attori, cioè perché essi possano comunicare non soltanto attraverso il linguaggio ver-bale (questo talvolta risulta limitato in quanto si tratta di una “struttura artifi -ciosa”). Il linguaggio delle maschere è fatto di forme e colori, va a toccare il ricordo atavico dello spettatore. L’uo-mo che agisce - come il guitto dell’Arte - perde un po’ della sua razionalità, di-venta più bimbo e quindi più recettivo. L’attore rende a sua volta il suo pubbli-co più recettivo e si insinua nel varco delle sue coscienze. Leo lavorava per il pubblico: per questo l’ho amato ed ho invece polemizzato a lungo col Terzo Teatro, perché non si lavora per gli at-tori! Il problema del teatro è quando il destinatario ed il fi ne del lavoro scenico diventano l’attore stesso.

In eff etti è vero che, tanto in Scara-mouche quanto nei precedenti spet-tacoli, Leo ha sempre svolto un forte lavoro di critica sociale e politica...Sì, il suo è un teatro politico. Leo ha un discorso da portare avanti e “volgariz-zare”, nel senso di comunicarlo al “vol-go”, al pubblico. Il ritorno di Scaramou-che è un spettacolo che si fa veicolo di una forte critica alla cultura, al potere,

C

ON

VER

SAN

DO

Atti&Sipari | 43

Leo de Berardinis (foto di Casadei - Archivio personale

Stefano Perocco di Meduna)

Page 44: Atti & Sipari numero 2

aff rontando la dialettica servi-padroni e l’immigrazione. Poi c’è anche un di-scorso su Molière, su quali fossero le sue fonti...

Quali maschere hai creato per Leo?Per Il ritorno di Scaramouche la mag-gior parte delle maschere utilizzate erano già esistenti. Gli attori scelsero le maschere che più li attiravano, ad esclusione di quelle di Beatrice la Nu-trice calzata da Elena Bucci, e quella di Vongola indossata da Marco Sgrosso. Leo scelse un Pantalone classico, tra-dizionale. L’unico elemento nuovo fu un bastone a forma di tucano e non so perché lo scelse: forse perché gli dissi che la maschera di Pantalone deriva-va da un uccello. Il lavoro successivo, quello su Re Lear, vide invece la cre-azione di molte maschere. Leo voleva aff rontare a suo modo il testo shake-speariano: mi disse di voler montare, in dieci anni, cinque diverse versioni. Per King Lear n°1 voleva una maschera nel-la quale si fondessero le linee del suo viso con quelle di Beckett. Lavorammo

molto sulla forma e al quarto tentativo arrivammo alla maschera prototipo in cuoio. La prima volta che usò questa maschera è al Teatro Verdi di Siracusa durante un laboratorio al quale, oltre allo stesso Leo, erano presenti anche Santagata e Cappuccio.

Che cosa ha reso Leo unico e indi-menticabile?Il fatto che non abbia mai accettato la logica degli Stabili e che abbia portato avanti il suo lavoro in maniera indi-pendente. Faceva una forma di “teatro totale”, nel senso che la sua vita era il teatro. Eppure non ha reso il teatro una forma massacrante di vita, come fece-ro i fautori del Terzo Teatro: Leo non considerava il teatro un’attività mona-cale ma professionistica. Questo mi piaceva del suo modo di concepire il lavoro in teatro.

Che cosa ti colpì di Leo?Soprattutto il modo in cui dirigeva i suoi attori: con estrema gentilezza ma con autorità. Gli piaceva assolvere

questo ruolo da monarca e, in qualche modo, lo era veramente: amava circon-darsi di una corte di attori! Però tutti i suoi collaboratori lo accettavano perché era molto autorevole.

Raccontaci un ultimo aneddoto in merito alla tua relazione con Leo...Il datore luci di quasi tutti gli spetta-coli di Leo era Maurizio Viani. Du-rante le prove ogni volta che Leo saliva e scendeva dal palco, Maurizio sapeva sempre quale luce accendere per fargli trovare più facilmente le scale al buio: erano piccole lucine blu che gli indi-cavano il cammino. Quando erano gli altri attori a salire o scendere le scale questo non succedeva mai. Io chiesi a Maurizio perché accendesse le luci solo a Leo e quello mi rispose che Leo era il “maestro”. Una volta stavo scendendo dal palco e sotto i miei piedi si accese una piccola luce: guardai Maurizio e questi mi disse che «ci sono più mae-stri». Maurizio Viani riusciva a creare, attraverso le luci, veri e propri trucchi di magia.

Stefano Perocco di Meduna

nasce a Mirano nel 1954. Dopo un’esperienza come diret-tore tecnico con l’unità di pro-duzione cinematografica “NK”, per la realizzazione del film Come Cinema prodotto dalla Biennale di Venezia, incontra le maschere nel 1977, in occa-sione di un seminario tenuto da Donato Sartori. Il lavoro di ricerca così avviato, porterà, l’anno seguente, all’incontro con Carlo Boso e la Commedia dell’Arte. Perocco ha realizza-to maschere per molti attori e compagnie di teatro, ideato e costruito scenografie e macchi-ne teatrali, tenuto corsi in Ac-cademie, Scuole e Università: ha collaborato con il “Teatro di Leo” diretto da Leo de Berardi-nis, la “Compagnia dell’Improv-viso” diretta da Luca Franceschi, il “Théâtre de l’Evil” diretto da Guy Pion, il “Théâtre du Centau-re” diretto da Camille e Mano-lo, la compagnia “Faux Magni-fico” diretta da Toni Cafiero, la scuola “Veneziainscena” diretta da Adriano Jurissevich, la scuo-la “Kiklos” diretta da Giovanni Fusetti, la “Academie Albatros” diretta da Carlo Boso

CO

NV

ERSA

ND

O

44 | Atti&Sipari

Leo de Berardinis (foto di Casadei - Archivio personaleStefano Perocco di Meduna)

Page 45: Atti & Sipari numero 2
Page 46: Atti & Sipari numero 2

“Il buco nella serratura”Stefano Massini intervistato da Maria Francesca Stancapiano Stefano Massini (Firenze, 1975) è autore e regista teatrale. Tra i suoi lavori, si ricordano L’odore assordante del bianco e Processo a Dio, recentemente pubblicati per Ubulibri insieme con Memorie del boia e La fine di Shavouth. Nell’ultimo biennio ha presentato La gabbia I – figlia di notaio e La gabbia II – zone d’ombra, i primi due episodi della Trilogia del parlatoio.

Perché ti sei avvicinato al teatro?Non c’è un vero motivo per cui io mi sia avvicinato al teatro, o meglio, non riesco tutt’ora a trovarlo, se non, come chiunque l’abbia fatto, forse per una necessità di raccontare qualcosa per me importante in forma dialogica, serven-domi di questa “scatola” magica, diff e-rente dal cinema e dalla televisione, per la sua immediatezza.

Oggi come oggi è più facile assistere a spettacoli monologici, dove non c’è più di un attore in scena. Nei tuoi la-vori, invece, si può parlare di un ritor-no alla coralità?Certo. Io credo che nel momento in cui chiunque scrive un qualcosa che ha necessità di raccontare, lo fa portandosi dietro un proprio repertorio. Mi sono avvicinato al teatro dopo aver visto, so-prattutto, spettacoli di Eduardo de Fi-lippo e altri autori in qualche modo da repertorio. Quindi sono sempre stato molto attratto da come potesse sem-brare il raccontare “cose mie” attraverso il fi ltro di una forma apparentemente antica e consolidata, ossia rilegittima-re certe forme tradizionali di teatro dialogato inserendovi signifi cati miei, sentiti da me come persona. E questa mi è sembrata una cosa interessante: sono del parere che in un sistema arti-stico ci sono coloro che fanno da totali iconoclasti di una consuetudine arti-stica, rompono le regole del linguag-gio, di una rappresentazione scenica, e ne creano molte e totalmente nuove, diff erenziandosi da quelli precedenti; dall’altra parte, invece, c’è qualcuno che si colloca sul fi nale e fa da “pompiere” tra forme consolidate e forme nuove. Io faccio un po’ questo, nel senso che sono in bilico tra una rivisitazione iro-nica delle forme antiche di teatro corale ed un’immissione di concetti miei e del terzo millennio.

Qual è il rapporto tra drammaturgo e regista?Molto spesso questo rapporto viene considerato come una cosa fi ssa, ossia c’è un testo e poi c’è il regista. Io, invece, ho sempre considerato la drammatur-gia come un qualcosa di profondamen-te legato alla regia, perché quando uno scrive un testo teatrale è inevitabile che prenda subito forma una visione, ossia appaia subito l’immagine di quello che scrive. Ed è impossibile che non visua-lizzi nella sua mente quello che sta scri-vendo; visualizza una forma necessaria: è la forma che quel testo dovrebbe avere quando poi va in scena. Questo fa capi-re che la visione registica è già presente all’interno dell’autore: l’idea del testo è già la regia del testo. Quindi, secondo me, c’è una profonda continuità tra la drammaturgia della parola e una dram-maturgia che in scena assume anche un carattere di gestualità, di segni estetici, di colori, di movimenti, di contestua-lizzazioni nello spazio, di prossemica,

e via dicendo. Questo secondo passo di drammaturgia viene comunemente denominato regia, ma è una forma, co-munque, di drammaturgia.

Nei tuoi testi dai largo spazio alle di-dascalie, in cui anticipi al lettore il tuo punto di vista soggettivo…Sì, la didascalia può avere due obietti-vi diversi: innanzitutto può essere un modo con cui l’autore imbriglia il regi-sta dicendogli come il testo debba essere messo in scena, come dev’essere il per-sonaggio e, quindi, intesa così, potreb-be sembrare una forma di “arroganza” perché l’autore sembra voler prendere i panni del regista e dettare determi-nate regole e porre alcuni paletti. A me questo non interessa. Infatti io ho scritto Processo a Dio che è stato messo in scena da Sergio Fantoni; ho scritto altri testi allestiti da altri registi e non ho mai avuto niente da ridire in merito alle loro scelte, anche se si distaccavano dalla mia didascalia. Io uso la didasca-lia per un’altra ragione: perché sono del parere che il testo teatrale dovrebbe po-ter esistere anche come testo scritto e letto autonomamente dalla rappresen-tazione (credo molto nella possibilità di vedere pubblicati i testi teatrali come libri, come romanzi, indipendentemen-te dal vederli rappresentati in scena). In questo caso per un lettore la didascalia assume un valore fondamentale perché quando vado a sedermi in teatro come spettatore, appena si apre il sipario, ap-pena compare un personaggio, ancora prima ch’egli parli e che pronunci la battuta scritta, ho comunque un’atmo-sfera, ho un’immagine del personaggio. E questo fa parte dello spettacolo, non è privo d’importanza solo perché non è affi dato alle battute. Penso che un au-tore, quando scrive un testo che viene pubblicato in libreria, abbia la necessità di utilizzare la didascalia perché questa diventa in qualche modo quel tramite che permette al lettore di addentrarsi nell’atmosfera di quel determinato te-sto.

Ne La gabbia I e La gabbia II, non pensi che l’introduzione di una gab-bia in scena, che rappresenta l’interno di un parlatorio di un carcere, anticipi già tutto quello che vuoi raccontare, esplicitando il valore metaforico della gabbia? Infatti quella è una scelta registica, ed è chiaro che ciò che appare allo spetta-tore è già un simbolo applicato all’idea.

CO

NV

ERSA

ND

O

46 | Atti&Sipari

Stefano Massini (foto di Paolo Lamuraglia)

Page 47: Atti & Sipari numero 2

C

ON

VER

SAN

DO

Atti&Sipari | 47

Mentre per un lettore che non ha visto il testo la didascalia diventa fondamen-tale per immetterlo all’interno di un’at-mosfera.

Come per il testo L’odore assordante del bianco, dove tramite una detta-gliata didascalia ci rendi partecipi del contesto in cui ci troviamo: ossia un manicomio…Esattamente.

La scelta di luoghi claustrofobici ha un suo motivo? Mi riferisco alla scelta del manicomio, il carcere, un capan-none nazista, la stanza di un boia…Non è inerente ad una mia passione per questi luoghi, o se anche lo fosse, si trat-ta di un qualcosa che aff erisce alla mia sfera personale che non sono in grado di motivare. Quello che mi interessa è cercare un’autonomia espressiva del linguaggio teatrale: sono convinto che il teatro abbia possibilità gigantesche di espressione in ambiti che diversi da quelli del cinema e della televisione. Soltanto il linguaggio teatrale può rac-contare una vicenda che si svolge all’in-terno di un suo spazio senza mai uscir-ne, nell’arco di un’unica unità di tempo: né il cinema né la televisione possono permettersi di girare fi lm o sceneggia-ti all’interno di uno spazio, in un’unità di tempo. A mia memoria ci sono solo sporadici casi nel cinema: come La fa-miglia di Ettore Scola, che si svolgeva tutto all’interno di un appartamento. A ciò aggiungo che oggi il nostro gusto di spettatori prevalentemente cinema-tografi ci e televisivi fa sì che, in qualche modo, noi siamo abituati ad un tipo di narrazione dove, in una media di circa due minuti, si riconfi gurano le coordi-nate spazio-temporali: in un fi lm, dopo due minuti, si cambia scena, si va in al-tro posto, in un altro momento, ecc.In teatro, invece, quando si presenta un’azione che si svolge tutta per un’ora all’interno di un parlatorio di un carce-re, all’interno di un manicomio, all’in-terno di un capannone nazista o nella stanza da letto di un boia, si opera una violenza di tipo narrativo, obbligando lo spettatore ad una concentrazione che dal cinema o dalla televisione viene richiesta meno. Da questo choc nasce un’attenzione maggiore nel pubblico.

Nei tuoi lavori, spiccano come pro-tagonisti anche alcuni personaggi storici, quali Gaugain, Kafka, Balzac. Perché?

Perché fa parte, in qualche modo, di un valore ironico, graffi ante, a volte un po’ satirico che mi sento addosso sempre di più. Mi spiego meglio: quello che continua a piacermi è il grosso potere demistifi cante del teatro, il fatto che riesce a farti guardare, come dico io, at-traverso il buco della serratura. Quindi, prendere alcuni personaggi noti, con una stima, un valore, un grosso nome, e rappresentarli nella loro umanità, mi diverte e contemporaneamente mi spiazza, perché obbliga lo spettatore a confrontarsi con il fatto che spesso l’immagine stereotipata che era stata affi data a determinati personaggi non era affi dabile. Dunque è un’immagine che va ricostruita.

Ecco che riemerge la fi gura del tragi-comico De Filippo…Esattamente. Quello è un punto di ri-ferimento abbastanza marcato.

La Gabbia (foto diGiuseppe D’Ambrosio)