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VOLUMI XXXIX-XL 1998 e 1999 ATTI del Sodalizio Glottologico v Milanese MILANO 2002

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V O L U M I X X X I X - X L 1998 e 1999

ATTI d e l

Sodalizio Glottologico v Milanese

M I L A N O

2002

ATTI DEL SODALIZIO GLOTTOLOGICO MILANESE presso il Dipartimento di Scienze dell'Antichità

Sez. Glottologia e Orientalistica - Università degli Studi di Milano Via Festa del Perdono. 7 - 20122 Milano

Direttore GIANCARLO BOLOGNESI

Comitato di redazione ROSA BIANCA FINAZZI

ROBERTO GIACOMELLI

PAOLA TORNACIII

INDICE DEI V O L U M I X X X I X c X L

Comunicazioni G. RÉSTELLI, J.G. Hamann e il problema dell'origine del linguaggio pag. "1 M. NEGRI, Le sonanti indeuropee e altre cruces » 2 0 M . MORANI, Riflessioni su osco fangva- 'lingua' » 21 O. CARRUBA, / / deciframento del cario » 33 R. GIACOMELLI, Lingua e inconscio: Saussure, Lacan

e il secondo strutturalismo » 39 C. M I L A N I , Toponimi germanici del Varesotto » 4 0 G . PETRACCO SICARDI, Considerazioni sui proton lcgomena

dell'Odissea » 4 0 S. GILARDONI, // problema della nominalizzazione metalinguistica

nella tradizione medievale: la nozione di suppositio materialis » 41 M . PITTAU, Gli elementi etruschi del vocabolario latino » 49 R. SGARBI, Esiti problematici dell'approccio contrastivo

greco-gotico presso Vulfila » 51 R DEL PUENTE, Ancora sul dialetto napoletano » 58 A . N A S C I M B E N I , L'interlingua tedesca parlata a Garda » 58 R GRANUCCI, Considerazioni sulla ricostruzione del sistema

fonematico dell'indeuropeo » 75 P. COTTICELLI KURRAS, Un autore da scoprire nei testi

antico-lituani » 83 L. MAGINI , Nuove considerazioni sul Disco di Festo » 105 U . RAPALLO, Convergenze linguistiche ed eteroglossie testuali

in Virgilio » 115 A . GRILLI, Considerazioni a proposito deidecreto contro

i Rhctores Latini (90 a. C.) » I 30 R. SOLARI, Le feste del mese d'aprile a Roma: problemi linguistici » 131

G . MICHELINI, Le fonti dei libri liturgici lituani del 1589 F . MOSINO, Dai Siculo-Greci ai Calabro-Greci: per la storia delle

isole linguistiche ellenofone dell'Italia meridionale C. M I L A N I , In memoria di John Chadwick M . MORANI, A proposito della questione bangani. Alcune riflessioni M . PITTAU, Due congruenze morfologiche tra la lingua nuragica

e quella etrusca R. SGARBI, La teoresi linguistica agostiniana nel De doctrina

Christiana O. CARRUBA, Plurali 'singola/ivi' nei pronomi personali

indoeuropei A . F l L l P P l N , Esculenta Ilesychiana E. SCAFA, Influenze culturali e linguistiche nell'eteociprio ...... C. M I L A N I , L'origine del linguaggio e il pensiero di Jacob Grimm.. L . MACINI , L'etrusco, lingua dell'oriente indeuropeo. I

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» 177

» 195 » 206 » 206 » 217 » 229

F. W. J. Schelling, Premesse riguardo al quesito sull'origine del linguaggio, in J. Grimm - F. W. J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, a cura di G. Moretti, Ferrara 1991, pp. 89-100.

W. Scherer, Jacob Grimm, Berlin 1885. W. Schoof, Jacob Grimm. Aus seinem Leben, Bonn 1961. D. Silvestri, Anthròpos: un'etimologia impossibile?, in R. Ambrosini, M.P.

Bologna, F. Motta, Ch. Orlandi (a cura di), Scribt-hair a ainm n-ogain. Scritti in memoria di E. Campanile, I I , Pisa 1997, pp. 929-986.

R. Simone, Seicento e Settecento, in G. C. Lepschy (a cura di), Storia della Linguistica, I I , Bologna 1990, pp. 313-395.

H. Steinthal, Der Ursprung der Sprache, Berlin 1888. B. Schlerath, La concezione humboldtiana del linguaggio e il problema della

genesi del linguaggio, in "Quaderni patavini di linguistica", V (1985-86), pp. 31-47.

S. Timpanaro, Friedrich Schlegel e gli inizi della linguistica indoeuropea in Germania, in "Critica storica", IX (1972), pp. 72-105.

S. Timpanaro, // contrasto tra i fratelli Schlegel e Franz Bopp sulla struttura e la genesi delle lingue indoeuropee, in "Critica storica", X (1973), pp. 553-590.

K. Ulmer, Die Wandlung der Sprachbildes von Herder zu Jacob Grimm. Vom Unterschied einer wissenschaftlichen und philosophischen Betrachtung der Sprache, aufgezeigt an der Abhandlung von J. Grimm iiber den Ursprung der Sprache, in "Lexis", I l (1949-51), pp. 263-286.

Intervengono: Bolognesi, Carruba, Vai, Borghi.

L . M A G I N I , L'etrusco, lingua dell'oriente indoeuropeo. I

( I l t i tolo di questa comunicazione è calcato da un vecchio lavoro di André Piganiol Les Etrusques, peuple d'Orient, nel quale l'autore esamina i motivi culturali, archeologici, storici e le testimonianze antiche che militano a favore dell'origine medio­orientale degli etruschi. Qui, invece, i l titolo vuole segnalare che l'etrusco è una lingua portatrice di una onomastica e di un lessico che presentano singolari affinità con l'indo-iranico. L . M. )

Le ricerche che ognuno di noi porta avanti si basano, di solito, su pochi ma essenziali capisaldi. Quella che vorrei presentarvi adesso cerca di tener presenti due insegnamenti - ma dovrei dire, due concetti - chiari e distinti.

I l primo è espresso da Palmer (1977, p. 7) in questi termini: "Quanto più la connessione fra suono e significato è arbitraria e le similitudini fra i sistemi comparati si rivelano estese, tanto più la casualità delle somiglianze appare improbabile. Nel caso di siste­mi di segni tanto arbitrari e complessi come le lingue, ogni simila­rità molto accentuata deve condurre alla conclusione che : due sistemi sono storicamente connessi, e cioè che o uno ce: due deri­va dall'altro, oppure entrambi discendono da un ceppe comune."

I l secondo è di Bréal (MSL, V I . 163-4) e dice: "È sbagliato respingere, in nome delle leggi fonetiche, delle etimologie che si impongono; perché sono proprio quelle etimologie che ci posso­no mettere sulle tracce di nuove osservazioni, sia per la fonetica, sia per la grammatica."

Proverò allora a scegliere, tra la documentazione sull'etrusco che ho raccolto negli anni, quel po' di materiale che riuscirò a sottoporre alla vostra attenzione oggi: materiale dell'onomastica etrusca, così come ci è conservata nei documenti originali o attra­verso i l mito di Roma. Proverò anche a mostrarvi la similarità tra questo materiale e i l patrimonio lessicale indo-iranico. Dal vostro cortese e saggio giudizio aspetto di sapere se, davvero, si possa pensare di essere sulle tracce di nuove osservazioni e se la simi­larità sia così accentuata da poter concludere che i due sistemi sono storicamente connessi.

1. / nomi dei mesi etruschi e anticopersiani. A scanso di equi­voci, preciserò subito che non fui io, a suo tempo, a scegliere i due poli della comparazione, l'etrusco e l'indo-iranico, ma che -per così dire - furono loro a scegliere me, proprio all ' inizio dei miei studi, nel senso che la comparazione si impose fin dalla prima osservazione dei nomi dei mesi etruschi e anticopersiani; nomi che sono raccolti nella tabella che segue:

Mesi Mesi etruschi Mesi etruschi Mesi anticopersiani (dalle glosse) (* ricostruiti) romani Mesi

adukanis Velcitanus ~*vel%itana Martius marzo Qùra-vàhara Cabreas *capr- Aprilis aprile 9aig(a)rcis Ampiles *anpile Maius maggio garmapada Aclus Acale ìunius giugno *9ur(a )na-bahsis Traneus Turane Quintilis luglio *garma-bahsis (H)ennius *hermi Sextilis agosto bàgayadis Ce li us Celi September settembre *varkazana Xosfer *cezpre October ottobre

(N.B. - La comparazione è limitata ai nomi dei primi otto mesi che sono i soli documentati per l'etrusco. I nomi dei mesi anticopersiani vengono da Brandenstein-Mayrhofer 1964, p. 9; la finale -bahsis nei nomi di luglio e ago­sto, ricostruiti dalla forma attestata in elamita, varrebbe "mese". I nomi dei mesi etruschi dalle glosse vengono da Mountdorf 1923, p. 108; quelli ricostruiti o attestati daCaffarello 1975, p. 111.)

Si notano subito quattro corrispondenze tra le forme anticoper-siane e etnische: 1) dei nomi dei mesi di luglio, e 2) di agosto; 3) del secondo elemento del nome di aprile persiano col nome del giu­gno etrusco; 4) dei nomi dell'ottobre persiano e del marzo etrusco.

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Corrispondenze che ora esaminerò brevemente: 1) *6ur(a)na andrebbe collegato al l 'a i , sura- e all'avestico

sura-, "forte", che è uno degli appellativi della Afrodite iranica; ma Turan è i l nome etrusco della dea dell'amore e Quintilis lati­no diventa Iulius, dal nome del figlio del figlio di Venere;

2) garma- iranico vuol dire "caldo", e corrisponde al sanscrito gharmà- e al latino formus, dallo stesso valore semantico, prove­nendo tutti dalla radice indoeuropea *gwhermo-. Ora: a) agosto è nel cuore dell'"estate", la "stagione calda", che prende nome da aestus,-us, "caldo bruciante"; b) a garma- in iranico si oppone aota-, "freddo"; c) a aestàs,-àtis in latino segue autumnum (se. tempus), "l'autunno, la stagione fredda"; d) autumnus "è proba­bilmente d'origine etrusca" (Ernout-Meillet, s.v.);

3) vàhara- è la forma iranica del più diffuso nome indoeuro­peo della "primavera", che dà è a p in greco e ver in latino. La glossa di Esichio (TLE 802) à y a À r j x o p a 7iai5a. Tuppevoi , "*acaletur (sono chiamati) i fanciulli dai Tirreni", confrontata col nome etrusco di "giugno", acale, ripete la spiegazione, vera o falsa che sia, del nome di Iunius latino come mese degli iiiniores, " i (più) giovani". Resta da giustificare - forse con un motivo meteorologico? - lo scambio tra aprile iranico e giugno etrusco;

4) varkazana - attestato alla riga 88 della terza colonna della grande iscrizione di Dario a Behistun - è una forma modificata del nome elamita dell'ottavo mese dell'anno, marqasanas (in accadico arahsamna), e la modifica, probabilmente, era intesa a consentire l'interpretazione in iranico del nome come un composto di varka-"lupo" e zana- "uomo, essere umano", col significato finale di "(mese) del l 'uomo-lupo" (Kent 1953, p. 206; Brandenstein-Mayrhofer 1964, p. 151-2). Questo, da una parte, mostra che non vi è, in nessuna altra lingua, un altro nome di mese simile all'irani­co varkazana da confrontare con l'etrusco Velcitanus; dall'altra parte incoraggia a aver fiducia nella documentazione disponibile, se consente di stabilire un confronto puntuale tra un'attestazione originale del V I - V secolo a. C. e una tradizione di riporto che, pro­venendo dal Liber Glossarum, va collocata tra i l V e l ' V i l i secolo d. C. Va ricordato che a Roma ottobre e marzo sono tutti e due mesi "marziali", di inizio e di fine della stagione guerresca, e Marte - non c 'è bisogno di dirlo - è legato al lupo più che a qual­siasi altro animale del creato.

Adesso, se la comparazione vi convincesse, si potrebbe inizia­re a trarne le conseguenze. Prima conseguenza: dal momento che i nomi dei mesi non fanno parte dell 'eredità proveniente dall ' in­doeuropeo comune e, anzi, si presentano oltremodo diversificati

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nelle diverse culture (cfr. Buck, s.v. names of months, pp. 1010-1), la "similarità" - per dirla con Palmer - tra i nomi anticoper­siani e i nomi etruschi deve mettere sull'avviso, avviso che v i è qualcosa da studiare al riguardo. Seconda conseguenza: in base alle regolari leggi fonetiche, dall'indoeuropeo comune discendo­no - ad esempio - tanto la forma iranica garma- quanto la latina formus; mentre la comparazione appena proposta indica che la forma iranica si confronterebbe con la forma etrusca ricostruita *hermi. Questa potrebbe essere la prima traccia di una legge fonetica nel supposto passaggio da iranico a etrusco.

2. Catenina, Acron e Hersilia. Nell'ordine cronologico degli studi, i l passo successivo fu un'osservazione sui nomi del mito e, per l'appunto, di uno dei mit i fondanti della città eterna, i l ratto delle Sabine. Nella cui tradizione sono documentati tre nomi: del luogo da cui provengono le vergini rapite, Caenina, del re di que­sto luogo, Acron, e dell'unica donna sposata tra loro, Hersilia. Ora, si dà i l caso che questi tre nomi propri, che per noi sono o romani o sabini, ma che in ogni caso in latino non trovano un'eti­mologia, si confrontino bene con voci del lessico indo-iranico, secondo i l prospetto che segue:

Sanscrito Iranico Latino Significato del termine latino o sabino o etrusco

kanyà- "ragazza, kainya-, kalnl-, Caenina " ( i l paese) delle vergine" kainln- vergini"

"ragazza non sposata"

a-grufi "non gravida, a-jrav- "nubile, Acron " i l celibe, lo scapolo" nubile, celibe" non sposata"

= '== hàirisì- "femmina, Hersilia "la moglie" moglie"

Che cosa si ricava da quest'esempio? Prima di d i r lo , si osserverà che, dei termini su cui si sta ragionando, l ' u l t imo, hàirisì-, sembra essere una forma del tutto isolata dell 'iranico; i l secondo - a-yrav- i n iranico e àgruh in sanscrito - è una forma negativa del ben rappresentato gravis latino, forma nega­tiva senza corrispondenze in questa e in altre lingue indoeuro­pee; e soltanto i l primo ha qualche corrispondenza in altre l in ­gue indoeuropee, come Kaivóc, in greco, re-cens in latino e cet in antico irlandese, tutte però con significato assai lontano, "nuovo", "fresco, recente", "primo".

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Dunque, è solo i l confronto diretto tra nomi propri del mito romano e nomi comuni del lessico indo-iranico che consente di far sì che gli stessi nomi propri diventino "parlanti", assumendo i l valore del ruolo giocato nel mito da chi l i porta: Caenina, luogo d'origine delle ragazze rapite, è veramente " ( i l paese) delle vergini"; Acron, i l re del paese delle vergini, non può essere altro che " i l celibe"; Hersilia, l 'unica donna sposata, è "la moglie" per antonomasia.

In altre parole, siamo di fronte a un caso in cui i nomi propri dei luoghi e dei personaggi del mito presenti ma fossilizzati in una data cultura - resta da stabilire se romana, sabina o etrusca -trovano una spiegazione con termini ancora v iv i del lessico di una lingua espressione di una diversa cultura, l'indo-iranica.

Romana o sabina, va bene; ma perché anche "o etrusca"? Perché all'etrusco, che qui compare solo per via indiretta, va addebitata la sostituzione della sonora della forma originale a-yrav-, o à-gruh che sia, con la sorda di Acron; dalla quale "acu­tissima spia" - come la si sarebbe definita una volta - apprendia­mo che i l mito giunge a noi mediato dall'etrusco, o meglio che le fonti romane che ce lo rimandano lo hanno ripreso da una più antica fonte etrusca.

D i conseguenza, come prima ci è parso naturale supporre un passaggio, con relative leggi fonetiche, da iranico a etrusco dei nomi di mesi, così adesso dobbiamo supporre un altro passaggio, in questo caso di nomi del mito, da etrusco a latino, e anche que­sto con le sue leggi fonetiche.

D'altra parte, i l vantaggio che offrono ai f ini ermeneutici i nomi propri del mito è esattamente quello di non essere dei nor­mali nomi propri, poco o molto o del tutto opachi e dunque inuti­lizzabili, privi come sono di una connessione obbligata, biunivo­ca, tra espressione e contenuto, tra significante e significato.

Da questo punto di vista, lo studio dell'onomastica del mito diventa la via attraverso la quale si può arrivare a disporre di nuovo materiale di conoscenza - voglio dire di interpretazione e di collocazione - dell'etrusco. Qualcuno ha parlato di "bilingui figu­rate" a proposito degli elementi onomastici e lessicali forniti dalle iscrizioni che accompagnano le immagini sulle pareti delle tombe, sulle statue e sui vasi, e le anfore e gl i specchi e le suppellettili e gli oggetti più diversi, immagini di cui è possibile riconoscere i l significato perché si conosce la storia che descrivono. A maggior ragione, proprio perché dei mit i si conosce la storia che narrano e, a volte, si è anche in grado di riconoscere i l significato dei nomi dei loro protagonisti, fossilizzati in etrusco e/o in latino ma corri-

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spondenti a termini del lessico vivo in indo-iranico, si deve impa­rare a considerarli come "bilingui raccontate".

3. Vegoia, Tages e Tarchon "maggiore". Veniamo allora diret­tamente agli etruschi, al tempo delle loro origini e ai mit i relativi. Anche qui troviamo tre nomi di tre personaggi uniti non da un unico mito, ma dall'oggetto dei mit i che l i riguardano, che è la disciplina etrusca.

I l primo dei tre è Vegoia - questa è la forma più comune di un nome che appare nella tradizione superstite anche come Vegoe, Begoe, Vegonia, e che figura nelle iscrizioni come Vecu o Vecuvia (Thesaurus, p. 135): una ninfa, secondo l'indicazione di Servio (ad aen. 6,72), autrice di un'ars fulguriatorum apud Tuscos, di cui non resta nulla. Ci resta invece un famoso "frammento", con­servato in codici altomedioevali (Palatinus, idi. 118, e Gudianus, f o l . 151; nei Grom. vet., p. 350L. ; cfr. Piccaluga 1974, p. 133-50), nel quale la divina creatura comunica a un tale Arrunte Veltimno i l volere di Giove padre in rapporto al l ' inamovibil i tà dei termini di confine e alle punizioni previste per i contravven­t o r i ; e i l messaggio si chiude con un peren tor io i n v i t o , "Disciplinarti pone in corde tuo", che potremmo liberamente, ma forse correttamente, tradurre "Tieni a mente (questo) insegna­mento." D i Vegoia, po i , parla anche Ammiano Marce l l ino (17,10,2) che associa, e addirittura scambia, i suoi insegnamenti con quelli di Tages: "...come si legge nei l i b r i di Tages o di Vegoia, che coloro che stanno per essere colpiti presto dal fulmi­ne diventano ottusi, ...ut in Tageticis libris legitur (vel) Vegoicis fulmine mox tangendos hebetari".

Su Tages - i l secondo dei personaggi - abbiamo diverse testi­monianze, ma qui b a s t e r à ricordare quelle d i Cicerone, d i Giovanni Lido e di Servio. Scrive Cicerone (de div. 2,23): "Si dice che un contadino, mentre arava la terra nel territorio di Tarquinia, fece un solco più profondo del solito; da esso balzò su al l ' improvviso un certo Tages e rivolse la parola all'aratore. Questo Tages, a quanto si legge nei l ibri degli etruschi, aveva l 'a­spetto di un bambino, ma i l senno di un vecchio. Essendo rimasto stupito da questa apparizione i l contadino, e avendo levato un alto grido di meraviglia, accorse molta gente, e in poco tempo tutta l'Etruria si radunò colà. Allora Tages parlò a lungo dinanzi alla folla degli ascoltatori, i quali stettero a sentire con attenzione tutte le sue parole e le misero per iscritto. L'intero suo discorso fu quello in cui era contenuta la scienza dell'aruspicina; essa poi si accrebbe con la conoscenza di altre cose che furono ricondotte a

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quegli stessi princìpi. Ciò abbiamo appreso dagli etruschi stessi, quegli scritti essi conservano, quelli considerano come la fonte della loro dottrina". Tages quidam dicitur in agro Tarquiniensi, cum terra araretur et sulcus altius esset impressus, exstitisse repente et eum adfatus esse qui arabat. Is autem Tages, ut in libris est Etruscorum, puerili specie dicitur visus, sed senili fuis-se prudentia. Eius adspectu cum obstipuisset bubulcus clamo-remque maiorem cum admiratione edidisset, concursum esse fac­tum, totamque brevi tempore in eum locum Etruriam convenisse. Tum illum plura locutum multis audientibus, qui omnia verba eius exceperint litterisque mandarint. Omnem autem orationem fuisse eam qua haruspicinae disciplina contineretur; eam postea crevisse rebus novis cognoscendis et ad eadem Illa principia referendis. Haec accepimus ab ipsis, haec scripta conservant, hunc fontem habent disciplinae.

Scrive Giovanni Lido (de ost. 2,6,B; in Buonamici 1939, p. 312-3): "Dice dunque Tarchon nello scritto, che alcuni suppongo­no sia di Tages, poiché lì come in una specie di conversazione domanda Tarchon, e risponde Tages, come chi sempre attende ai sacrifizi, che un tempo, mentre lavorava la terra, gl i capitò un fatto meraviglioso... (E inutile riferire i l fatto meraviglioso che è quello già raccontato da Cicerone; n.d.a.)... Tarchon dunque i l maggiore - perché v i fu anche i l minore, i l quale guerreggiò ai tempi di Enea - sollevato i l bambino e collocatolo nei luoghi sacri, pensò d'imparare da lui qualcosa intorno alle cose occulte. Ottenuto poi ciò che aveva chiesto, compose un libro delle cose dette, nel quale Tarchon interroga nella lingua comune degli Itali, Tages poi risponde attenendosi alle lettere antiche...". Scrive infine Servio, a proposito della definizione di Enea come 'fato profugus" (ad Aen. 1,2): "Sicuramente non senza motivo chiama Enea profugo per destino, ma secondo la disciplina degli etru­schi. In effetti nel libro intitolato 'Testo del diritto dell'Etruria', scritto con le parole di Tages, (è detto) che chi discende da una famiglia di spergiuri deve essere per destino esule e profugo."

Dunque - come già notato in precedenza - è la disciplina a unire i tre personaggi, Vegoia, Tages, Tarchon (tralascio Arrunte Veltimno, troppo poco caratterizzato, se non come "ascoltatore" o "fedele").

I l senso dei loro nomi può essere compreso partendo da una formula del linguaggio poetico che si ritrova con significativa costanza in tre diverse lingue (vedi Mayrhofer 1976, voi. 3, p. 125): nel sanscrito di RV 6,32,1, vàcàmsi... taks-, nell'avestico vacas-tasti-, "strofa", e nel greco di Pindaro (Pit. 3,113), èrakov...

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TÉKTovè*;. In tutte e tre le espressioni i l termine che in ciascuna lingua significa "voce, parola, discorso" è legato al termine che indica "comporre, disporre, formare, creare". I l che non deve meravigliare dal momento che anche in italiano sono strettamen­te associate "parola" e "testo": l'una è la singola "voce", caratte­rizzata dal suo suono e dal suo significato; l 'altro è i l "testo", o i l "contesto", nel quale la singola parola si compone, e quasi si intreccia, con le altre, per arrivare a raggiungere i l più pieno e profondo dei significati.

Del resto, la tradizione indiana conosce una figura femminile dal nome Vàc, che è puramente e semplicemente la "Parola" divinizzata. Così come in sanscrito, e solo in sanscrito, si incon­tra una specializzazione semantica della radice indoeuropea pre­sente in greco, in tocario A, in anticoslavocristiano, in latino e nello stesso sanscrito con un valore comune di "torcere, girare, far girare"; e questa specializzazione, questo significato traslato è quello della forma verbale tarkàyati "(egli) congettura, medita, riflette" e della relativa forma sostantivale tarkah "ragionamen­to, speculazione", e anche più precisamente "sistema o dottrina fondata sulla speculazione o sul ragionamento, sistema filosofi­co."

Così , forse, si è individuato i l significato dei tre nomi del mito: Vecu è la "Voce" o la "Parola" o i l "Discorso", Tages è i l "Testo" o meglio i l "Contesto", Tarchon è "Colui che medita, riflette, ragiona, specula" sull'una e sull'altro.

Dopotutto, i primi due termini sono già in Servio, sul libro scritto con le "parole" di Tages e che si intitola "Testo". Mentre si ritrovano: 1) lo scambio tra Vegoia e Tages - tra "Voce, Parola" e "Testo, Contesto" - nel Commento Bernese a Lucano (Fars. 1,636), secondo i l quale Tages "dettò la scienza dell'aruspicina e poi non comparve più. Egli , poiché nacque dalla terra, fu chiama­to Tages, ano xf\q yfjc,, e nella lingua etrusca vuol dire 'voce mandata fuori della terra'."; e 2) i l valore di Tarchon, "Colui che medita, riflette, ecc.", in Plutarco (Siila 7) che assicura che tra " i sapienti dell'Etruria" v i sono quelli che "hanno studiato e medi­tato la dottrina" e "quelli che hanno fama di essere molto più addentro degli altri nella loro scienza."

4. Tirseno e Tarchon "minore". Passiamo al Tarchon "minore" che, stando a Giovanni Lido, "guerreggiò ai tempi di Enea". (E qui, dal momento che i l "minore", cioè i l "più giovane" - o addi­rittura i l "discendente"? - guerreggia ai tempi di Enea, e i l "mag­giore", cioè i l "più anziano" - o addirittura l'"antenato"? - spunta

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da un solco nella campagna di Tarquinia, si deve pensare che l'e­sistenza di Tarquinia e di Tages preceda l'arrivo di Enea; d'altra parte Servio conferma che l'insegnamento di Tages precede la vita di Enea.)

Su questo Tarchon "minore", i l testimone è Licofrone, nel suo poema, celebre in particolare per l 'oscurità, Alexandra (vv. 1238 e segg.; da Buonamici 1939, 105-6) in cui Tarchon e i l fratello Tirseno, " f ig l i del sovrano dei Mis i " , vengono definiti "lupi feroci generati dal sangue di Eracle" e associati nelle loro avventure sul suolo italico a Ulisse, che Licofrone chiama Nanos, " i l quale con le sue peregrinazioni esplorò ogni angolo del mare e della terra".

Dagli antichi commenti e dagli scholia a Licofrone (ancora da Buonamici 1939, p. 106-7) si hanno altre informazioni: a) che Tarchon e Tirseno erano figl i di Telefo; b) che da Tirseno prese i l nome la Tirsenia - che successivamente diventerà Tirrenia - e da Tarchon prese i l nome Tarquinia ( i l che contrasta con quanto detto tra parentesi i n precedenza, se non si ammette che Tarquinia abbia, alla lettera, "preso i l nome", senza essere stata fondata, da Tarchon "minore".); c) che Tarchon e Tirseno erano associati a Ulisse/Nanos che fece accordi di pace con i l suo ex­nemico Enea; e d) "che Ulisse presso i Tirseni si chiamò Nanos, i l quale nome ind ica L ' e r r a n t e ' . , - ó ' 0 8 D G O £ ' Ù C ) napà TuparrvoTc, Nàvoc, KaÀeixai, 5r|A.o'()vxoc; xov òvópaxoc , xòv 7iA.avrixriv. (Tzetzes Lyc. Alex. 1244; cfr. T L E 847) Infine, da Virgilio (Aen. 11,727-8) si ha un ultimo tocco: " I l padre (Giove) incita i l tirreno Tarconte a crudele battaglia, e g l i infonde con aspri st imoli l ' i r a" . Tyrrhenum genitor Tarchonem in proelia saeva / suscitai et stimulis haut mollibus inicit iras.

Ora in indoiranico si trova una radice - rappresentata anche in greco Bpacóc; "ardito", in gotico ga-dars "(io) oso", in lituano drlsti "osare" - che esce nelle due lingue sorelle nelle forme rias­sunte nello specchietto:

Sanscrito Iranico

Forma verbale dhvsn- "essere audaci, arditi; dars- "osare, ardire" osare"

Forma dhfsnùh "ardito, coraggioso, aggettivale feroce, violento " darsi- "ardito, forte"

L'aggettivo sanscrito dhrsnu- "ardito, coraggioso, forte, fero­ce, violento, forte" - che è l'appellativo consueto di Indra. di Soma e dei Marut - entra nella composizione di due termini i cui valori sono molto chiari: dhrsnù-shena- "che ha un'arma irresisti-

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bile (detto di Indra o dei Marut)", e dhfsnu-òjas- "dotato di irresi­stibile potenza (ancora di Indra o dei Marut)". Alle forme princi­pali, riportate nello specchietto, ne va aggiunta poi almeno un'al­tra, i l nome proprio iranico Darsam "Ardito, Intrepido".

Ci si trova così di fronte all'ennesimo caso in cui la semantica apre la strada alla fonetica, come mostra, in particolare, i l perfet­to parallelo tra i l valore di "feroce" del dhrsnu- sanscrito e l 'attri­buto di "(lupo) feroce" assegnato ai due fratelli etruschi, Tarchon e Tirseno, che lasciano le loro terre d'Oriente per avventurarsi attraverso i l Mediterraneo alla conquista dell ' ignoto, "f inché, oltrepassati m o l t i popo l i , giunsero al paese degl i U m b r i " (Erodoto 1,94), dove fondarono Tarquinia e la Tirrenia.

Si deve, allora, tener presente questo caso, nell'attesa di tro­varne degli altri, paralleli, che consentano di arrivare a definire la legge fonetica che regola i l passaggio dalle forme delle due l in­gue sorelle dell'Oriente indoeuropeo alle forme etrusche, e da queste alle latine; perché, mentre - come è noto - al dh- sanscrito in latino corrisponde l a / - , dall'esempio appena riportato si desu­merebbe che in etrusco corrisponde la che resterebbe immuta­ta nel successivo passaggio dall'etrusco al latino.

A l tempo stesso si deve osservare che in una lingua come l'e­trusco, che ignora le occlusive sonore, si possono produrre forme omofone di provenienza diversa, e precisamente - sempre che i confronti istituiti siano validi - Tarchon "maggiore" da tarkàyati sanscrito, e Tarchon "minore" da darsam iranico.

5. Nanos. - Seguiamo l'indicazione già fornita dalla glossa di Tzetzes nel commento all 'Alexandra (1244; cfr. T L E 847) di Licofrone: "g l i etruschi chiamano Nanos Ulisse, col nome che designa T'errante'." L'accostamento del nome dell'eroe greco a quello dei corpi celesti che, soli in mezzo alle innumerevoli fiam­melle tutte fisse, si muovono e "errano", guadagnandosi i l nome di "pianeti", meriterebbe un lungo discorso che porterebbe a inqua­drare la figura di Ulisse come i l "viaggiatore delle stelle"; ma non è questo i l luogo. Perciò ci si limiterà a osservare che le sole corri­spondenze indoeuropee del nome etrusco di Ulisse, che non è atte­stato in originale ma che possiamo ricostruire come *Nanu, si tro­vano in due forme indeclinabili isolate dell'iranico e del sanscrito: in iranico - per l'esattezza nell'avestico recenziore e gathico -nana vale "in molti luoghi diversi", in sanscrito nana vuol dire "in diverse maniere"; e i l nana sanscrito costituisce i l primo elemento di una serie numerosissima di composti nei quali i l suo significato è invariabilmente quello di "vario, diverso, differente, manifòld".

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6. Cacu e Artile. Passo a un altro caso assolutamente etrusco, senza più mediazioni né mediatori, tratto c o m ' è da una bilingue figurata. Parlo del celebre specchio di Bolsena (CU, 1 s., 376 > Gerhard, ES, v, 1.127), ora al Bri t ish Museum, "composto in modo da mostrare, oltre a un paesaggio di rocce e di alberi nodo­si, un giovane simile a un Apollo, concentrato e solenne, che suona la lira, e un ragazzo, che lo ascolta con la testa china, r ivol­to a un dittico aperto sulle ginocchia. A i due lati stanno guerrieri armati. I l nome del musico è Cacu, quello del ragazzo Artile, i due guerrieri sono i fratelli Calle e Avle Vipinas" (Brendel 1978, pp. 415-6, i l i . n. 315).

Ho scritto un piccolo libro sull'argomento (Magini 1991) e queste sono, per sommi capi, le conclusionicui sono giunto. I l nome proprio etrusco Cacu - che corrisponde al mitico opposito­re di Ercole a Roma, ladro, imbroglione, con problemi alla vista, che erutta fuoco dalla bocca, ecc. - va confrontato col nome comune sanscrito kakah "cornacchia": volatile che ha nella tradi­zione folclorica indoeuropea le stesse caratteristiche del Càcus latino, mentre i l suo nome sanscrito, pur rappresentando una forma onomatopeica (cfr. Mayrhofer, s.v.), non trova paralleli in nessuna altra lingua indoeuropea. I l nome proprio etrusco Artile - la cui unica attestazione è questa dello specchio di Bolsena - va confrontato col nome comune sanscrito vartirah "quaglia", variante di una più normale forma vàrtikà, che ha i l solo corri­spondente nel greco òpTUch

Nella versione indiana del mito della "liberazione della qua­glia" sono gl i Asvin - i Dioscuri locali, modelli divini dei fratelli Vipinas etruschi, i cui nomi al momento tralascio - a liberare la quaglia dalla grotta nella quale l'ha imprigionata i l lupo cattivo, che lì fa la parte svolta a Roma da Caco. E in sanscrito si trova pure registrata una forma dvandva, kàka-vartaka, letteralmente "la cornacchia e la quaglia", che mostra lo stretto rapporto che unisce nella favolistica indiana i due uccelli, non meno stretto di quello che unisce sullo specchio di Bolsena Cacu e Artile, i due protagonisti che l i incarnano nel mito etrusco-romano.

7. Saturnus e Vertumnus. Alziamo i l t iro, lasciamo i nomi degli eroi, per quanto importanti, e passiamo a quelli delle divi­nità; in particolare a due nomi che già nella loro forma latina denunciano - secondo l'opinione prevalente - la provenienza dal­l'etrusco: Saturnus, o Saeturnus, e Vertumnus, o Vortumnus. Del primo si sospetta la presenza nella sua forma originale nel Satres del Fegato di Piacenza (TLE 719), del secondo - che Varrone (de

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/./. 5,46) definisce deus Etruriae princeps - nel Veltune di NRIE 759 da Tarquinia. I due dei - come si sa - sono legati all'agricol­tura. Saturno ne è addirittura l'inventore e i l suo strumento è la falce, "simbolo della messe, insigne messis", come afferma Macrobio (Sat. 1,7,24-5), che spiega: " A questo dio si fa risalire la pratica del trapianto e dell'innesto nella coltivazione degli alberi da frutto e la tecnica di ogni altro procedimento agrario Huic deo insertiones surculorum pomorumque educationes et omnium cuiusce modi fertilium tribuunt disciplinas.

Quanto a Vertumno è Properzio (El. 4,2) a dargli la parola e a fargli dire: "Perché t i meravigli che io assuma tante forme in un corpo solo? Apprendi gl i aviti connotati del dio Vertumno. Sono etrusco, nato da etruschi, e non mi pento di avere abbandonato in guerra i focolari di Volsinio. M i piace questa gente, e non m'al­lieto d'un tempio d'avorio, è sufficiente per me poter vedere i l Foro romano. Un tempo per di qui scorreva i l Tevere e dicono che si udiva i l tonfo dei remi sulle acque percosse; ma dopo che esso cedette tanto ai suoi f igl i , sono chiamato i l dio Vertumno per la deviazione del fiume; oppure poiché v ' è l'uso di recarmi i primi frutti al mutare delle stagioni, credete che da qui derivi i l culto del dio Vertumno". Quid mirare meas tot in uno corpore formas? / accipe Vertumni signa paterna dei. / Tuscus ego Tuscis orior, nec paenitet inter / proelia Volsinios deseruisse focos. / haec mea turba iuvat, nec tempio laetor eburno: / Romanum satis est posse videre Forum. / hac quondam Tiberinus iter facie-bat, et aiunt / remorum auditos per vada pulsa sonos: / at post-quam Me suis tantum concessit alumnis, / Vertumnus verso dicor ab amne deus. / Seu, quia vertentis fructum praecepimus anni, / Vertumni rursus credis id esse sacrum.

Ecco che, nelle ultime parole del dio, inizia a delinearsi l'esi­tazione del poeta sul valore da dare al nome di Vertumno: lo si deve legare alla "deviazione" del fiume o, piuttosto, al "mutare" delle stagioni e alla contemporanea maturazione di sempre diver­se primizie? Però, poi, i l dio prosegue: "Per me si colora la prima uva di acini violacei, e la chioma della spiga si gonfia di chicchi lattiginosi. Qui vedi le dolci cerase, qui le prugne autunnali, e rosseggiare le more nei giorni d'estate. Qui l'addetto agli innesti scioglie i suoi voti con una corona di frutti, quando i l pero produ­ce mele contro i l volere del suo tronco". Prima mihi variat liven-tibus uva racemis / et coma lactenti spicea fruge tumet; / hic dul-cis cerasos, hic autumnalia pruna / cernis et aestivo mora rubere die; / insitor hic solvit pomosa vota corona, / cum pirus invito sti­pite mala tulit; e la scelta sembra fatta.

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Ma, improvvisamente, i l poeta si pente e ci ripensa, e i l dio con lui : "Tu, menzognera fama mi nuoci; i l significato del mio nome è diverso: credi soltanto al dio che parla di se stesso". Mendax fama, noces: alius mihi nomine index: / de se narranti tu modo crede deol; e spiega: "La mia natura è adatta ad assumere tutte le forme: mutami in qualunque figura vorrai, potrò ugualmente pia­certi". Opportuna mea est cunctis natura figurìs: / in quacumque voles verte, decorus ero. Dopo di che, a avvalorare le nuove affer­mazioni, i l "dio che parla di se stesso" si lancia in tutta una serie di esempi che mostrano come egli possa diventare di volta in volta fanciulla o uomo o falciatore o bevitore o cacciatore o auri­ga o acrobata o pescatore o venditore o pastore, mutando aspetto a seconda delle vesti che indossa e dell'attrezzo che utilizza.

Sennonché, quando arriva i l momento di concludere, Vertumno torna nuovamente sui suoi passi e riafferma con decisione i l valo­re del proprio rapporto con l'agricoltura: "Che dire poi - ciò che mi procura grandissima fama - dei doni dell'orto che divengono preziosi nelle mie mani? L'anguria verdastra e la zucca dal ventre rigonfio diffondono i l mio nome, e i l cavolo legato da un lieve giunco; non si schiude fiore nei prati, che non venga prima depo­sto con grazia quale ornamento sulla mia fronte, dove poi langue". Nam quid ego adiciam, de quo mihi maxima fama est, / honorum in manibus dona probata meis? / Caeruleus cucumis tumidoque cucurbita ventre / me notat et iunco brassica vincta levi; / necflos ullus hiat pratis, quin Me decenter / impositus fronti langueat ante meae; per chiudere finalmente con lo stesso motivo con cui aveva aperta la sua lunga esposizione: " I l nome mi venne dato dalla l in­gua dei miei avi, ispirato dal fatto che rimanendo uno mi mutavo in tutte le forme". At mihi, quod formas unus vertebar in omnis, / nomen ab eventu patria lingua dedit.

A prima vista non sembra possibile spiegare come mai, nella sua ricerca di un'etimologia, o meglio di una paretimologia, del proprio nome, perfino i l diretto interessato sia così incerto e oscilli tra le due polarità, non facilmente riducibili l'una all'altra, dell'agricoltura e della capacità di trasformarsi. Ma tutto sembra chiarirsi quando si accerta la presenza in sanscrito di due radici verbali, distanti per semantica, ma dalla fonetica così vicina che, nel Mahàbhàrata, a volte vengono confuse l'una con l'altra (cfr. Monier-Williams, s.v. vfdh-): la prima, vrdh-, significa "accresce­re, aumentare, fortificare, sviluppare" con particolare riguardo alla botanica, tanto che i l derivato vàrdhamàna diventa anche i l nome del Ricinus Communis, noto per i l rigoglioso sviluppo: la seconda, vrt-, vuol dire, sì, principalmente "girare, ruotare, volta-

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re/-rsi", ma ha un significato secondario che appare davvero inte­ressante, "diventare, comportarsi, ecc".

Le due radici sono presenti in iranico, dove la prima ha un derivato vardSa che dà i l nome a un fiore, forse la "rosa", e un participio passato medio var3Ò3mna che sembra davvero sovrap­porsi al nome di Vertumnus. E sono presenti anche in altre lingue indoeuropee, tra le quali i l latino; dove la prima, vrdh-, va ricer­cata nella forma verbale vìréo,-ére "esser verde (detto di piante)" e successivamente "esser vigoroso", legata alla forma nominale vìridis,-e "verde, verdeggiante, vigoroso, robusto, fiorente"; e la seconda, vrr-, assume la forma verto,-ére "girare, voltare/-rsi", ma anche figuratamente "mutarsi, trasformarsi, cambiare (in)". Così che, tanto in sanscrito quanto in latino, ciascuna delle due radici finisce per avere praticamente i l medesimo valore semanti­co: "vigore botanico" - se si può dire così - l'una e "cambio di comportamento" l'altra; che sono proprio i due poli dell'esitazio­ne di Vertumno.

Due punti finali: primo, se le due forme vrdh- e vrt- erano sog­gette a confusione in sanscrito, dove pure è sentita l'opposizione tra sonore aspirate e sorde, tanto più facilmente dovevano essere confuse in etrusco, che già di suo non conosce le sonore; secon­do, per Vertumnus non sembra più possibile scegliere tra due eti­mologie plausibili, ma fortunatamente non è necessario, perché queste sono, in qualche modo, confluite in una.

Quanto al Saturnus latino, o meglio all 'etrusco Satres, i l discorso è più semplice, perché basta aprire i l Buck alla voce far-mer "agricoltore", per trovare quel che ci interessa. Qui, tra la settantina di modi diversi di chiamare 1'"agricoltore" nelle trenta lingue indoeuropee prese in considerazione, i l solo che si presta al confronto è i l sanscrito ksetra-karsaka-, letteralmente "arato­re", composto c o m ' è di ksétra- "campo (da coltivare)", e da karsaka- "aratura, coltivazione". I l quale ksétra-, con la relativa forma verbale ksi "risiedere, abitare", ha gli unici corrispondenti nell'iranico, rispettivamente in soiOra - "luogo di residenza" e in si- "risiedere".

E adesso, per completare i l quadro, occorre aggiungere tre osservazioni. Prima, in sanscrito, accanto e indipendenti da ksétra-, esistono una forma nominale ksatrà- "potere, autorità, supremazia", e una aggettivale, derivata, ksatriya- "signore, padrone, nobile", forme che hanno i perfetti corrispondenti nel l ' i ­ranico del l 'Avesta , rispettivamente in xsaOra- " imper ium, regnum, Herrschaf t , R e i c h " - r i po r to le d e f i n i z i o n i del Bartholomae - e in xsaOrya- "imperiosus, Gebieter, Machthaber

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(von Goettern)". Legata a queste ult ime v i è poi una forma xsaOri- "femmina, femminile (sessualmente)" - isolata e limitata all ' iranico, com'era isolata e limitata all ' iranico quella forma hàirisì- che si è confrontata sopra con i l latino Hersìtia - che nel-l 'avestico recenziore connota l 'opposizione "femmini le" vs. "maschile", rispettivamente xsaOri- e arsan-.

Seconda, esiste una località del Lazio meridionale, dove le donne romane si recavano a implorare favori e a rendere grazie a una delle grandi dee protettrici della femminilità e della fertilità, Mater Matuta, (per l'identificazione di Mater Matuta con i l pia­neta Venere/Lucifero all'alba, cfr. Magini 1996, passim) e questa località si chiama Satricum. Qui i l santuario della dea, nato forse intorno al 550-525 a.C. e nominato l 'ultima volta nel 206 a.C., è stato certamente frequentato da epoca più antica, se la stipe è "per i l V I I sec, la più ricca che si conosca in tutta l 'Italia non greca" (Colonna 1976, pp. 325).

Terza, in etrusco - i n diverse loca l i t à , come Tarquinia, Bolsena, Chiusi, Montepulciano e Perugia - si hanno forme del tipo se Ora, seOras o se Ore, seOres, che sembrano assumere valore di prenome maschile e femminile o di gentilizio.

In definitiva, la situazione che ruota intorno al nome del dio etrusco-romano dell'agricoltura, si presenta così:

Sanscrito Iranico Etrusco Latino Significato del termine latino e/o etrusco

ksatràm "potere, autorità, supremazia''

ksatriyah "signore,

nobile"

xsaOra- "imperium, regnum, Herrschaft, Reich"

xsaOtya- "imperiosus, Gebieter, Machthaber (von Goettern)"

Se Ora, SeOras Se Ore, SeOres

cognomi del tipo "Signori, Signorini, Signorelli" (o cognomi del tipo latino "Agricola" e italiano "Arato, Arata", da padrone, collegare a Satres?)

xsaOri- "femmina, femminile"

Satricum "(i l paese) delle femmine"

ksétram "campo (da coltivare)"

soiùra-"luoso di residenza"

Satres Saeturnus/ "(quello) Saturnus dell'agricoltura"

Non resta che chiedersi se, nel supposto passaggio Satres> Saeturnus> Saturnus, abbia influito l'esistenza in latino della forma satòr "seminatore, coltivatore".

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8. Elicius. Dai nomi propri delle divinità del Pantheon etrusco passiamo ai loro appellativi - romani o etruschi?, per i l momento diciamo etrusco-romani - e nel caso specifico a un appellativo di Giove, Èlìcìus, sul quale i nostri testimoni sono Plutarco, Livio , Varrone e Ovidio.

Plutarco, nella Vita di Numa (15), dopo aver premesso che la storia che sta per riferire "supera ogni assurdità", inizia a raccon­tare l'avventura dei due demonietti, Pico e Fauno, che Numa riu­scì a catturare mescolando del vino e del miele all'acqua della fonte dove di solito andavano a dissetarsi; poi precisa che i due " . . .a l lorché s'accorsero di essere presi e tenuti saldamente, senza possibilità di scappare, predissero a Numa molti avvenimenti del futuro e gli insegnarono come esorcizzare i fulmini, col sistema che si usa ancor oggi, mediante cipolle, capelli e sardelle. Ma dicono alcuni che l'esorcizzazione dei fulmini non gl i fu mostra­ta dai demonietti, bensì questi con l 'aiuto della magia fecero scendere dal cielo Zeus, e Zeus, infuriato, prescrisse a Numa di effettuare l'esorcizzazione con delle teste. ' D i cipolla?' chiese subito Numa. ' D ' u o m i n i . ' , gr idò Zeus. 'A l lo ra vuoi dire con capelli.', riprese Numa, tentando ancora una volta di stornare l'a­troce prescrizione. Ma Zeus replicò: ' D i vivent i . ' 'Sardelle?', aggiunse Numa. A dir così era stato istruito da Egeria. I l dio tornò in cielo iÀ£Óq, cioè 'di buon umore'; quindi i l luogo ove si svolse la conversazione fu soprannominato Il icio, e l'esorcizza­zione dei fulmini da allora si effettua come s'è detto." E qui lo storico greco, prima di concludere, si sente in obbligo di confer­mare l 'opinione espressa in apertura sui "racconti fantastici e ridicoli come questi...".

Come si vede, Plutarco fornisce un'etimologia greca all'appel­lativo del dio ottimo e massimo. L i v i o , al contrario, da buon romano, senza far cenno al dialogo tra i l re e i l dio, fornisce l 'et i­mologia - o meglio la paretimologia - classica latina (ab U. c. 1,20): "Per provocare dalla mente degli dei tali prodigi, dedicò a Giove Elicio un'ara sull'Aventino, e con auspici consultò i l dio per sapere quali bisognava accogliere". Ad ea elicienda ex menti-bus divinis Iovi Elicio aram in Aventino dicavit deumque consu-luit auguriis, quae suspicienda essent. Lo stesso fa Varrone (de l. I. 6,94) per i l quale Sic Elidi Iovis ara in Aventino, ab elidendo, così anche l'altare di Giove Elicio sull 'Aventino, da é-lìcère, 'attirare, far uscire per magia'."

Lo stesso fa Ovidio (F. 3,285-348) i l quale, dopo aver riferito, anche lui , la storia della cattura e dell'ammanettamento di Pico e Fauno a opera di Numa, ricorda la richiesta da parte del re di

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"mostrargli in qual modo si possa placare i l fulmine, quoque modo possit fulmen monstrate piarF. E qui Ovidio, nell'indicare l 'etimo dell'appellativo divino, precisa che dirà "quel che è con­cesso e che può essere svelato dal pio labbro del poeta. T i attira­no giù dal cielo, o Giove; perciò i posteri t i celebrano ancora oggi con i l nome di Elicio". ...Nobis concessa canentur / quae-que pio dici vatis ab ore licet. / Eliciunt caelo te, Iuppiter; unde minores / nunc quoque te celebrant Eliciumque vocant; e poi si dilunga a riferire la conversazione - ma sarebbe più esatto chia­marlo i l contrasto, i l battibecco - tra re e dio, con i l re che chiede al dio: '"Re e padre degli dei del cielo, se ho sempre toccato i tuoi altari con mani pure, se anche la mia richiesta è avanzata con lingua pia, dammi sicuri insegnamenti per scongiurare i fulmini. ' Giove assentì alla preghiera, ma celò i l vero con oscura perifrasi, e atterrì Numa con ambigue parole: 'Taglia una testa.', disse. 'Obbedirò . ' , fu la risposta, 'Dovrò tagliare una cipolla cavata dal mio orto.' Giove precisò: ' D i uomo.' 'La cima dei capelli.', rispo­se i l re. Ma Giove chiede una vita; e Numa dice: ' D i pesce.' Giove sorrise, e soggiunse: 'Con questi mezzi cerca di scongiura­re i miei dardi, o uomo non indegno del colloquio con gli dei!' 'Da certa piamina.../fulminis, altorum rexque paterque deum, / si tua contigimus manibus donaria puris, / hoc quoque, quod petitur, si pia lingua rogat. ' / Adnuit oranti sed verum ambage remota /abdidit et dubio terruit ore virum. / 'Caede caput', dixit; cui rex: 'Parebimus', inquit, / 'caedenda est hortis eruta cepa meis.' / Addidit hic: 'Hominis.'; 'Sumes', ait Me, 'capillo<s. ' / Postulai hic animam; cui Numa: 'Piscis. ', ait. / Risit et: 'his ', inquit, 'facito mea tela procures, / o vir colloquio non abigende deum!'.

Questa conversazione, in cui alla richiesta del dio d i una "testa" i l re risponde "d i cipolla" e, quando i l dio insiste "d i uomo", i l re replica "la cima dei capelli" e poi ancora, alla terza -e perciò infinita e dunque ultima - insistenza del dio che esige "una vita", i l re ribatte "di pesce", ha sempre richiamato l'atten­zione dei lettori e dei commentatori, meravigliati di osservare come i l dio che "cela i l vero con oscura perifrasi" e che "atterri­sce i l re con ambigue parole" venga sconfitto dalla dialettica dell'"uomo non indegno del colloquio con gl i dei". Non indegno - questo è i l punto centrale dell'antico racconto e dell'attuale argomentazione - in quanto maestro nell'uso di quella particolare forma del linguaggio che in India si chiama lakshana "indicazio­ne, espressione ellittica, uso di una parola per un'altra con un significato affine (come 'testa' per 'intelletto'), significato indi-

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retto o figurato d i una parola"; cos ì la definisce i l Monier -Williams (p. 892, s.v.), precisando che si tratta di "una delle tre arti dell 'oratoria, le Arthas, le altre due essendo abhidha, o 'significato proprio', e la vyanjana, o 'significato suggerito'".

Se ora si andassero a studiare con attenzione origine e natura dei due termini, del latino é-lìcére e del sanscrito lakshana, si troverebbe: per i l primo, che "lax, lacio appartengono a un grup­po d i parole espressive, popolar i , d i origine sconosciuta." (Ernout-Meillet); e, per i l secondo, un rinvio alla radice verbale laksh- "marcare, contrassegnare, indicare", "la cui origine non è chiarita in modo soddisfacente" (Mayrhofer). Ragion per cui può essere più utile e confortante osservare che i l sanscrito possiede un altro derivato della radice già vista, sotto la forma a-lakshya, alla lettera "non osservato", ma anche "non contrassegnato, non indicato, senza particolari attr ibuti", che - attenzione - è " i l nome di un Man tra pronunziato per esorcizzare un'arma da lan­cio" (Monier-Williams, p. 94, s.v.). Tenendo conto della difficoltà di immaginare un'arma da lancio più perfetta dei fu lmin i di Giove che Numa vuole apprendere a scongiurare, si è portati a concludere che i l re romano, attraverso l ' ab i l e uso del la lakshana, pronunzia esattamente quel Mantra, queir a-lakshya che solo può esorcizzare i fulmini di Giove Élìcìus.

9. Ananas, Rasenna e Achaemenides. Si dirà: ma è possibile che non ci siano altri indizi, in altri ambiti, di una tale parentela tra mondo etrusco e mondo dell'Oriente indo-europeo? indizi magari, al tempo stesso più chiari e più sottili? Io credo di sì, e vorrei proporvene alcuni, a titolo di esempio:

1) i l gentilizio Ananas - ariano, indoeuropeo o meglio indo­iranico, per eccellenza - registrato nell'Etruria interna, a Panzano presso Fiesole, e in un'epoca alta come i l V secolo;

2) i l "nome con i l quale gl i etruschi chiamavano se stessi, che è lo stesso di quello di un loro capo, Rasenna, orùxoi p é v x o i acpcxc, aùxoùc, eia XGÙV fiyepóvcov xivòc; 'Paaévvoc xòv rxùxòv È K E Ì V C O xpÓTtov ò v o p à t / m a i " (Dionisio 1 ,30) - nome che si ritrova nelle iscrizioni sotto la forma rasnalrasna - e che dovreb­be andare collegato alla radice, indoeuropea anche questa, che dà in sanscrito la forma verbale raj- "dirigere, governare, regnare" e i l derivato rajan "re, sovrano, principe, capo, uomo di una tribù reale o della casta militare";

3 ) la chiarissima indicazione del 'duca' per eccellenza, Virgi l io - colui che la tradizione medioevale vedeva, e non a tor to, non per caso, come un Mago - che nel terzo canto

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dell'Eneide affianca a Enea e ai suoi nel viaggio verso Roma un personaggio dal nome che più iranico non si può, Achaemenides.

Potrei continuare a elencare e a comparare ancora altri nomi -nomi propri, gentilizi, teonimi, toponimi - e a estendere la com­parazione a nomi comuni, a termini del lessico religioso e giuri­dico, a glosse, ecc. Ma a questo punto - pur scusandomi di una gestione a tratti troppo affrettata - preferisco chiedervi una prima valutazione del materiale che v i ho proposto e che ho scelto, per la parte indo-iranica, essenzialmente sulla base dell 'esclusività e/o dell'isolamento delle forme lessicali. Questo vuol dire che, se voi riteneste di riconoscere una "similarità molto accentuata" tra le forme indo-iraniche e le etrusche, e se voleste seguire le indi­cazioni di Palmer, dovreste concludere che " i due sistemi sono storicamente connessi"; più esplicitamente, che i l popolo prove­niente dall'Oriente e giunto in Italia nell'arco di tempo che va dalla caduta di Troia alla nascita di Roma - cioè i l popolo che noi chiamiamo col nome di Etruschi - portò con sé una lingua che presenta singolari affinità, almeno dal punto di vista lessicale, con l'indo-iranico. Questo è quanto mi sentirei di dire, per ora, sul "quadro di riferimento" nel quale inserire, provvisoriamente, la ricerca.

Un'altra conseguenza, non secondaria, di una tale conclusione sarebbe - come si è già accennato - di dover ammettere che una parte dei termini latini, oggi privi di un'etimologia indoeuropea riconosciuta, la possano trovare con un passaggio dall'indo-irani­co al latino avvenuto tramite l'etrusco in tempi immediatamente protostorici. I l che determinerebbe, rispetto alla situazione attua­le, qualche sostanzioso cambiamento. Ad esempio, oggi si tenta di spiegare la forma latina Quirinus come derivata da un compo­sto *co-vìrl-, andando c o s ì i ncon t ro al la r i p rovaz ione dell'Ernout-Meillet, che giudica "insostenibile" tale etimologia; domani i l nome di Romolo divinizzato, di cui lo stesso Giove rivolto a Marte dice: "Uno soltanto solleverai negli azzurri spazi del cielo" unus erit quem tu tolles in caerula caeli (Ovidio E 2,487; che replica Ennio ami. 55 Sk.), andrebbe direttamente confrontato con la forma avestica recenziore hvarmah- "gloria, aureola di gloria, maestà", dandone una spiegazione decisamente più economica. E ancora una volta convenendo, con Bréal, che "è sbagliato respingere, in nome delle leggi fonetiche, delle eti­mologie che si impongono".

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È per questo che, tutto considerato, penso che valga la pena di continuare a scandagliare i l fondo mitico etrusco-romano alla ricerca di "bilingui raccontate". M i auguro di trovarvi d'accordo.

Bibliografia

(Le citazioni sono riprese dalle traduzioni qui indicate) Cicerone, Della divinazione, trad. S. Timpanaro, Garzanti, Milano; Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, trad. di M. Scandola, Bur Rizzoli,

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