ASPETTI PROBLEMATICI NELL'INTERVENTO CON PAZIENTI BORDERLINE GRAVI TOSSICODIPENDENTI

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1 ASPETTI PROBLEMATICI NELL'INTERVENTO CON PAZIENTI BORDERLINE GRAVI TOSSICODIPENDENTI IN COMUNITÀ TERAPEUTICA Coloro che vivono sempre al margine tra salute e malattia, distruzione e conservazione, esigenza di espressione di disagio e espressione fattuale di esso. Luglio 2004 Fabio Discendenti Psicologo

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Fabio Discendenti

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ASPETTI PROBLEMATICI NELL'INTERVENTO CON PAZIENTI BORDERLINE GRAVI

TOSSICODIPENDENTI IN COMUNITÀ TERAPEUTICA

Coloro che vivono sempre al margine tra salute e malattia, distruzione e conservazione, esigenza di

espressione di disagio e espressione fattuale di esso.

Luglio 2004

Fabio Discendenti Psicologo

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Il problema

Per chi come me abbia avuto la possibilità di quell’osservatorio stranamente privilegiato sul

mondo e sui suoi scarti di produzione che è la comunità per tossicodipendenti, lavorare per molti

anni significa trovarsi di fronte a situazioni, reazioni, piani di comunicazione che spesso, almeno

all’apparenza, sfuggono alle regole rigide della logica del pensiero e del linguaggio comunemente

considerati “normali”; sono tante le persone di cui ricordo comportamenti – e quindi visioni del

mondo – che in termini oggettivi, letterali, neutri, si possono definire anomali e che una lettura più

superficiale o semplicemente più affettuosa può invece chiamare “bizzarri”, strani, diversi: giovani

uomini e donne, in alcuni casi ragazzini e ragazzine, che gridano in modi diversi una rabbia

viscerale, che decidono di intraprendere una piantagione di bonsai ricavati da radici secche su cui

vengono innestati, con colla e fil di ferro, arbusti di altri alberi, che tagliano le vene dei propri

corpi, che iniettano dentro di essi la benzina del trattore, che rubano spinti da un’irrefrenabile

coazione a spezzare la ferrea catena di leggi avvertite sempre come eteronome, che si

prostituiscono, che si lanciano in avventure di notti buie e interminabili, contraendo e diffondendo

malattie, che il più delle volte concludono l’esperienza “terapeutica” della comunità con un

estremo e consapevole atto di rottura, rientrando nelle maglie più sfilacciate e periferiche di

quello che una consuetudine linguistica un po’ stupida ma ormai inveterata negli operatori

abituati al superficiale schema diadico (singolarmente carcerario) del dentro-fuori individua come

il mondo esterno, il “fuori”, appunto.

Coloro che vivono sempre al margine tra salute e malattia, distruzione e conservazione, esigenza

di espressione di disagio e espressione fattuale di esso in termini che una visione puramente

medica e psichiatrica crede spesso di poter definire “smodati”, sono definiti dalla massima

autorità competente in materia, il DSM IV, come “borderline”: il termine suggerisce la

collocazione, all’interno del gruppo degli uomini e dei loro sottogruppi riconosciuti, in un’ampia

area situata tra una forma nevrotica di disagio, da non poter definire in maniera scontata

patologica a meno che non intervengano “agiti” che ne radicalizzano l’anomalia, la precarietà, la

fragilità, e un’altra che invece è prossima ad un disagio immediatamente patologico, alla psicosi. Il

borderline è quell’individuo che oscilla sempre, nel proprio stile di vita, tra condizioni di normalità

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– con accenti che al massimo sono da considerare sintomatici, come a dire un disagio in potenza

non necessariamente destinato al passaggio all’atto – e condizioni quali quelle descritte sopra a

titolo di esempio. Per le domande e le considerazioni che mi interessa qui formulare, è già

importante accennare un aspetto che poi occorrerà riprendere: in primo luogo, bisogna tenere

presente che la categoria del borderline non sembra situarsi senza problemi al margine della

società “normale”, come avviene, per fare un esempio molto rozzo, con lo schizofrenico che

dissocia la propria identità e la estromette da sé, bensì nel suo centro, nel suo cuore: è dentro

l’immagine stessa di ciò che secondo i canoni oggi accettati di normalità si definisce come integrità

dell’uomo che si inseriscono elementi di disagio, in alcuni casi dormienti, che possono risvegliarsi

con rabbia cieca, quasi una forma di malattia autoimmune della società civile; in secondo luogo,

riprendendo il grossolano esempio dello schizofrenico, si osserva come il codice comunicativo –

verbale e non verbale – del borderline, sia molto più confuso con le cosiddette parti sane

dell’individuo e del suo riferirsi a codici condivisi di quanto avvenga per lo psicotico puro, che, si

dice, delira, e quindi è come inchiodato dal suo stesso disagio ad una individualità all’apparenza

completamente dissociata, cioè, alla lettera, sconnessa dalla societas. Con questo voglio dire che

se può risultare più semplice immaginare lo psicotico come il pazzo di un villaggio sempre più

globale, se può sembrare scontata l’operazione di emarginazione dell’individuo quando questo

presenta tratti psicotici, essa non sembra così semplice per quanto riguarda il borderline, che

invece si colloca insieme a molti altri suoi simili fin dentro le trame vive degli “uomini”: lo psicotico

può delirare e finire velocemente in psichiatria, la stessa sorte può toccare al borderline grave, con

la differenza che quest’ultimo agisce e produce dinamiche sociali e interpersonali incisive, quali

cercare amici, compagni, alleati, fare un uso sconsiderato del sesso e del proprio corpo, mettere al

mondo bambini, fare uso di sostanze, commettere scippi per procurarsele, spacciare, insomma

inserirsi in modo tutt’altro che accidentale nella catena anche produttiva1;

È questa caratteristica profondamente sociale del borderline a farmi interrogare su di esso. Non mi

piace il linguaggio antinomico da comunità per cui esiste un dentro e un fuori: l’ho già accennato,

mi evoca la galera. Eppure bisogna essere realistici, la suggestione dell’immagine della galera non

1 Cfr. V. Joines, I. Stewart, Personality Adaptations, Lifespace Publishing, Kegworth 2002, pp. 229 seg..

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può essere solo sporadica e soggettiva, e quindi bisogna comunque definire tratti distintivi tra il

mondo “fuori” e l’interno della comunità, dell’istituzione riabilitativa, rieducante: ebbene, a un

certo punto il borderline tossicodipendente viene a far parte del mondo “dentro”, fa il suo

ingresso in comunità, dove io come educatore rappresento l’autorità; fatto assai scomodo per la

mia coscienza, ma inevitabile. Qui, in comunità, si dovrebbero strutturare dei codici di

comunicazione estranei – per storia individuale e/o per inveterata disassuefazione –

all’immaginario drogato del paziente, al fine di ristorarlo e fornirgli strumenti di salvezza, quali la

cura, la presenza di una figura genitoriale costante e attenta, la regolarità degli orari, la regolarità

della regola, insomma. E qui si profilano già tutte le contraddizioni, o, se si vuole essere più blandi,

tutti gli aspetti problematici della cura di questi personaggi traboccanti di una vitalità disperata e

disordinata.

La diagnosi

La massima e purtroppo indiscussa autorità in termini di individuazione e categorizzazione del

disagio psichiatrico, l’americano DSM IV (2000), definisce in questi termini la personalità del

borderline: “A pervasive pattern of instability of interpersonal relationships, self-image and

affects, and marked impulsivity beginning by early adulthood and present in a variety of contexts”;

salta agli occhi la genericità di questo inquadramento: ciò fa già pensare all’elasticità di una

categoria che comprende un numero impressionante di individui, tutti collocati sotto lo stesso

“titolo”, ma per motivi differenti e disparati; il tentativo di stringere in modo anche più funzionale

la cornice di questa classificazione si avvale di una serie di sintomi quali l’instabilità affettiva in

relazioni umane (interpersonali) strutturate secondo un’oscillazione costante tra idealizzazione e

aggressione dell’oggetto della relazione, una difficoltà nell’elaborazione della propria identità

personale e sessuale, atteggiamenti disturbati e profondamente autolesivi in campo sessuale,

sociale, familiare, tendenza a sperperare (il proprio corpo, le proprie risorse, i propri soldi),

tendenze suicide, irritabilità, comportamenti ansiosi, senso cronico di vuoto, rabbia incontrollata,

ideazioni paranoidee.

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In campo transazionalista, la definizione del borderline nei termini pur vaghi visti sopra viene

comunemente accettata come punto di partenza per un’elaborazione ulteriore, che si concentra

soprattutto sull’indagine circa la funzionalità dell’area genitoriale e della sua introiezione da

parte del borderline: la tendenza generale consista nell’individuazione dei nodi problematici

originari in un cattivo rapporto del bambino con genitori violenti, malati, assenti, non responsabili;

è ovvio che questa varietà di insufficienze parentali e le loro combinazioni con altre eventuali

figure familiari adulte di riferimento fa la differenza nella gravità e, quindi, nell’irreversibilità dei

danni psichici riportati dai “pazienti”: un bambino cresciuto in orfanotrofio perché ripetutamente

mandato all’ospedale da un padre –padrone violento e alcolizzato, magari entro una società

culturalmente ancora rurale, avrà del mondo degli adulti una visione ben diversa da quella che

può ricavare dalle proprie esperienze reali un borderline che ha cominciato a fare uso di sostanze

in età adolescenziale in seguito alla morte di uno dei genitori. Tuttavia, ciò che almeno Stewart e

Joines sembrano sostenere, è che un tratto saliente essenziale del borderline, sia quello che è più

orientato verso un versante meno pericoloso e autodistruttivo, cioè il cosiddetto versante

nevrotico, sia quello grave che spesso si incontra “dentro”, in comunità, è costituito da un

rapporto originario con i genitori che in termini generali può essere definito come “abbandono”2.

Si intende cioè che il bambino che non è stato accudito con affetto, o che è stato trascurato, o che

ha il vissuto interiore di essere stato abbandonato, introietterà un’immagine di genitore, di figura

adulta di riferimento o, in termini schiettamente antropologici, di autorità (e l’autorità, in termini

antropologici e non ideologici, è un tema culturale importante: è il padre, è dio, è la funzione di

dare dei limiti), negativa e distruttiva, perché disgregata da ciò che deve essere accudito da quella

stessa autorità, il bambino, il suo destino, il suo diritto al benessere, che è sacro.

E’ importante sottolineare la vastità dell’area diagnostica entro cui viene collocata la figura del

borderline, perché per l’appunto il borderline meno grave, quello orientato verso la fascia

nevrotica, potrà persino avere una vita normale, con alcuni accessi ed eccessi che saranno ben

2 Assume la stessa prospettiva anche M. Novellino, che, si sofferma molto sugli aspetti “antisociali” di

manipolazione del borderline: trovo che abbia il limite di risultare freddo, di congelare nello schematismo della teoria

aspetti di grave antisocialità, con l’effetto, a mio parere, che essi finiscono per risultare descritti come dei sinistri marchi

d’infamia. E’ chiaro che uno studio del genere non è tenuto a valicare i limiti della scientificità, ma credo che con i

border l’aspetto interessante sia che non ci si può interessare ai loro ricatti senza un qualche slancio umano.

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integrati nell’identità complessiva e lo individueranno in un personaggio tutt’al più bizzarro,

eccentrico, forse un po’ troppo rabbioso, ma anche capace di mantenere relazioni affettive e

situazioni lavorative3, mentre il borderline grave, quello che troviamo “dentro”, in comunità, non

avrà attive le risorse che gli consentono di sopravvivere in modo costantemente dignitoso, e

replicherà in forma coattiva (quindi con una grave menomazione di ciò che rende uomini, la

responsabilità di sé) comportamenti antisociali e autolesivi, collocabili nell’immagine della Vittima

all’interno del Triangolo Vittima-Persecutore-Salvatore. Ma per ora mi interessa accantonare

questo aspetto, su cui tornerò alla fine, per sottolineare invece un aspetto che ritengo

fondamentale, ovvero le potenzialità antisociali implicite almeno nel borderline grave: chi ha

subito danni radicali nell’infanzia (violenze fisiche e psicologiche, abbandono, botte, degrado

ambientale, genitori dediti all’uso di sostanze, gruppo dei pari violento e incline alla delinquenza4),

dovrà sopravvivere in modo stranamente dissociato a due nemici, uno interno, l’altro esterno:

quello esterno è l’ambiente, quello interno la sua introiezione. A titolo di esempio: ho conosciuto

un paziente che raccontava che il padre-padrone, tra i tanti segni lasciati in eredità, aveva anche

impresso il ricordo indelebile dell’impiccagione al fico del giardino del gatto di casa, colpevole di

aver proditoriamente mangiato della selvaggina lasciata su un tavolo; questo paziente, vent’anni

dopo l’episodio, che ha raccontato con le lacrime agli occhi, in un accesso incontrollato e misto di

dolore e rabbia, coadiuvato da un uso massiccio di sostanze pesanti, ha impiccato in casa propria il

proprio gatto. Del resto è un fatto abbastanza scontato: ognuno di noi è anche il risultato delle

proprie esperienze, e un padre buono resta impresso tanto quanto un padre cattivo; se resta

quello cattivo, il nemico è interno e la minaccia costante. Cerchiamo di immaginare il mondo,

popolato da paure ed incubi, mostri e terrore di sé, di una persona che si trovi ad avere una storia

del genere! L’effetto che questo tipo di “pazienti” producono su di me è sempre di enorme

trasporto e di commozione; si potrebbe dire che nel famoso triangolo, istintivamente si attiva il

mio “Salvatore”; ma non è tutto qui: come si fa a toccare la sofferenza di certe persone, se poi

3 V. Stewart-Joines, cit., p. 236.

4 E’ molto importante anche tenere in considerazione la genitorialità diffusa nel gruppo dei pari, le sue parole

chiave, l’autorevolezza e/o l’autoritarietà della sua cultura di riferimento: su questo ha scritto pagine chiarissime P.P.

Pasolini nel progetto di trattatello pedagogico intitolato “Gennariello” e contenuto nelle Lettere luterane.

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sono le stesse che, come la letteratura conferma, saranno le prime a tradire ed attentare alla

figura di accudimento?

Eppure, se si riflette un po’, tutto questo è perfettamente sintomatico, e quindi naturale: un

borderline grave che ha introiettato odio e mancanza di cura non può che far risaltare, nella

relazione, il tema dell’odio; inoltre, ed è questo che mi interessa di più, quello stesso borderline

grave tossicodipendente, che non ha mai fatto l’esperienza di una “base sicura”, cercherà di

arrangiarsi, perché la sopravvivenza è un diritto di tutti; questo bisogno si traduce, nei termini più

materialistici e quindi umani che io abbia mai conosciuto direttamente, in uso strumentale della

relazione, uso strumentale di tutto. Così, il bambino che intenerisce e fa scattare, pronta al

soccorso, la legione della salvezza di noi operatori, diventerà come minimo un bambino ribelle che

distruggerà ogni livello di fiducia e attenterà allo stesso cuore cui si è attentato nella sua infanzia:

la relazione affettiva. Così, e penso ad un altro caso che ho molto amato, la bambina con disturbi

dell’alimentazione, nata in carcere e violentata dal nonno paterno, si trasformerà nell’adulta

capace di fare bene i propri conti e di usare strumentalmente la fiducia dell’operatore, il quale,

poiché le vuole bene, non le controlla l’armadio e non sa quali refurtive e quanti preservativi vi

giacciono, pronti per le marchette che la bambina, o la adulta puttana (puttana come sua madre,

non a caso), farà ad ogni sua “libera uscita” (tanto per restare in termini carcerari di dentro e

fuori). Si potrà obiettare che tutti i bambini sono dei piccoli manipolatori, e che la strumentalità,

nelle relazioni tra uomini, è naturale quanto l’affettività; mi trovo senz’altro d’accordo, ma qui il

problema è che non c’è nessun controllo della strumentalità, nessuna consapevolezza e cultura di

essa, e che il divario tra affettività e strumentalità in soggetti del genere è semplicemente

inumano, cioè insostenibile: è come se si trattasse di due aree così distinte che per conseguenza si

presentano due persone diverse, il bambino e l’adulto che manipola ciò che ama senza alcuna

coscienza di questa schizofrenia. Il borderline grave tossicodipendente manifesta quindi una

contiguità con la figura del sociopatico (l’idea “platonica” del delinquente) che al borderline

nevrotico non viene solitamente attribuita.

Questo è il problema, secondo me, non tanto da un punto di vista terapeutico, quanto da quello

sociale e antropologico. La fascia dei borderline è così tanto ampia da raccogliere al suo interno

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onesti lavoratori un po’ squinternati, i nevrotici, i colletti bianchi del disturbo di personalità, tanto

quanto i border prossimi allo scompenso più assoluto, contigui con i sociopatici e incapaci di

distinguere affetto e uso, eppure, in questo magma di disagiati si accetta come scontato il dato

che alcuni siano più gravi, quelli destinati a soffrire di più! Se c’è, credo, un aspetto affascinante

della categoria ampia del border, questo sta nella sua trasversalità anche di classe, eppure

neanche in questo magma democratico pensiamo mai che la questione è sociale, cioè di tutti. Al

contrario, e sia chiaro che questa è solo una provocazione e non, ovviamente, un indirizzo

terapeutico, io ritengo che queste persone siano più sacre delle altre, e che quindi, quale primo

atto terapeutico debba stare il riconoscimento del loro diritto di tradire, delinquere, distruggere:

con questa gente la posta è sempre molto alta: e la comunità è il luogo dove essi sono un po’ più

frenati del solito nel loro impulso a imbastire giochi di terzo livello. La comunità può quindi

risultare un buon contenitore; il problema, come sempre, sono i contenuti.

La terapia

La letteratura sull’argomento a cui mi sono riferito si pone per lo più in termini di relazione diadica

terapeuta-paziente in un setting separato, cittadino. Le indicazioni sono quelle di fare attenzione

alla manipolazione e alle trappole delle tentazioni salvifiche di fronte alla Vittima. Tutto giusto: è il

punto di partenza. Ma il border grave con abuso di sostanze troverà il punto in cui fare breccia,

indurrà un’affettività (almeno nella figura border dell’operatore, che non è né un paziente né un

terapeuta) che potrà essere tradita5; in generale, le indicazioni sono quelle di fare attenzione a

non replicare, anche sul piano non verbale di comunicazione, ingiunzioni riconosciute come

tipiche del border, quali “non crescere”, “senti ciò che sento io”, “non pensare”. Ma che fare in

comunità, dove i borderline si consociano proprio per quel carattere di vitalità di cui si parlava

prima e ne fanno di cotte e di crude? E’ questo il problema di un lavoro terapeutico all’interno di

un setting ampio e chiuso come la comunità. Che fare quando i preservativi della bambina-puttana

saltano fuori? Certo, si sarebbe potuto fare opera di prevenzione, ma in quel caso forse ci si

sarebbe giocato ogni margine di fiducia, da parte del paziente, che pure, di quella fiducia ha

5 Stewart-Joines, pp. 236 segg.

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bisogno perché se la posta è alta e le contraddizioni si inaspriscono, trovo comunque più

importante confortare con ogni mezzo la bambina puttana che neutralizzare le potenzialità del suo

adulto sociopatico.

L’esperienza mi ha insegnato che i border gravi sono nient’altro che bambini traditi all’origine, cui

non è mai stato dato il permesso di essere bambini: spesso i loro tradimenti sono da intendere

come banali tentativi di esperire la propria vitalità, la propria giovinezza, persino il proprio

risentimento nei confronti di chi, da border forse meno grave, ha il diritto di fingere una bella

giovinezza di averla avuta: su quest’ultimo punto sono molto scettico proprio in virtù di quella

trasversalità prima individuata della categoria magmatica del borderline; ed è questo il dato

politico che va oltre quello psicoterapeutico: chi può dire che nel 2004 esistano zone franche in cui

la libertà e la giovinezza degli esseri umani siano tutelate e lasciate libere di svilupparsi? Chi può

dire che il border nevrotico sia meno infelice di quello grave (se si eccettua ciò che fa la reale

differenza, ovvero le condizioni materiali di esistenza quali il diritto alla casa, al lavoro, alla salute)?

Ritengo piuttosto che il border meno grave possa essere più infelice di quello semplicemente

disgregato, dal momento che per comprendere la nozione estremamente razionale di felicità

occorre una cultura che, anch’essa, allo scarto della società non è stata mai indicata; non è

infrequente che la “felicità” venga fraintesa sotto forma di emozioni forti: ecco che si insinuano le

sostanze pesanti. La categoria “border” dice molto della nostra società civile.

Sulla base di queste considerazioni si va fin troppo lontano; se ci si attiene al solo problema di

strategia di intervento riabilitante, credo che sia centrale il ruolo della Vittima, il suo diritto a

trasformarsi sociopaticamente in carnefice e l’aspetto della giovinezza negata. E’ importante un

amore che non detti condizioni senza però essere incondizionato, è importante una genitorialità

davvero amorevole e sufficientemente distaccata, o meglio, responsabile, da lasciar sperare che

tra le risorse, sia pur ridotte, del paziente, ci sia la capacità di introiettare una figura adulta in

grado di tollerare la miseria, il tradimento, il degrado, la devastazione, e di prendersi cura di tutto

ciò. Ma credo anche che sia fondamentale manifestare che tollerare tutto ciò non significa

giudicarlo positivamente: non importa che dalla parte del paziente se ne capiscano i motivi, ma

questa vera autorevolezza, questa ritrosia rispetto a ciò che trabocca allo stesso tempo merda e

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umanità, deve essere manifestata: che un’altra felicità che non sia solo quella dei sensi drogati

debba almeno essere concepibile è un messaggio che ogni operatore ha il dovere di rimandare con

forza, con rabbia, quella stessa rabbia che si vede in tante bambine puttane e in tanti piccoli

seviziatori di animali domestici.